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di persephone_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***



Capitolo 1
*** 0. ***


Le persone non sono capaci di restare nella mia vita. Le persone, quelle normali almeno, non vi respirano. Soffocano. Sono costrette ad andare via.

Ci sono abituato, a vederle scappare. Sono come un gatto randagio che viene adottato e che, non appena inizia a sentirsi a casa, viene rispedito in strada. E' sempre andata così.

 

Quando avevo tredici anni lo avevo anche io, un gatto, ma l'ho sempre odiato. Però non l'ho mai cacciato, morì al mio fianco senza motivo, probabilmente era troppo stanco di vivere nel mio mondo. E' così che la gente se ne va. Resta con te fino alla fine, morendo giorno dopo giorno. Era un gatto carino, ora che ci penso: aveva il pelo bianco, bianchissimo, ed ogni volta che fissava la finestra, rifletteva la luce. Si chiamava Yuki, che in giapponese significa neve. Non ero un tipo fantasioso, non lo sono neanche adesso.

 

 

Penso di avere ventitré anni. O forse ventiquattro. Ho smesso di contarli da quando ho finito la scuola, tanto è indifferente, dopo i venti scorrono senza fermarsi. Quando entri in società non sei più una persona, diventi parte di un meccanismo che alcuni chiamano vita. Io la definisco "fare da comparsa", perché anche se fosse la mia vita, io non la sto vivendo.

Ho studiato economia perché, anche se avessi fatto parte di quel meccanismo, volevo essere una parte cosciente. In realtà continuo ad essere incosciente, ma almeno sono capace di calcolare gli sconti al supermercato. Neanche mi piaceva, l'economia.

Mia cugina, chissà ora quanti anni ha, studiava letteratura mentre io ero alle medie. Le brillavano gli occhi, era felice, diceva che aveva colto l'universo in un libro e lo voleva vivere. Spero lo stia facendo. Io continuo a rimanere fermo, inerme, al supermercato. Stamattina ho visto le sardine in offerta, dopo andrò a comprarle.

 

 

Vivo solo ormai da tre anni, se ne ho ventitré, o da quattro, se ne ho ventiquattro; non appena raggiunsi i venti, presi le mie cose ed andai via. Salutai la ciotola di Yuki –nessuno si era preoccupato di scostarla dopo la sua morte- e affrontai il mondo esterno: non fu affatto stupefacente, solo più freddo del previsto. Avrei dovuto comprare qualche sciarpa. Sono tre anni, o forse quattro, che continuo a dimenticarmene. Comprerò una sciarpa assieme alle sardine.

Economicamente me la cavai bene per un periodo. Secondo statistiche e schemi che avevo appreso, non volevo non sfruttare ciò che avevo studiato, e ovviamente sacrifici, riuscii a non morire di fame per almeno un anno. La proprietaria di un ristorante cinese, dalle parti del monolocale che avevo affittato, mi aveva preso sotto la sua ala protettiva e mi concedeva larghi sconti, quindi di tanto in tanto potevo permettermi anche una birra. Della marca più economica, sapeva di alcool e acqua, ma presto mi abituai al sapore.

 

Poi entrai nel mondo del lavoro. Non so come, iniziai a scrivere articoli di giornale per adolescenti: migliori ristoranti del quartiere, hit del momento, tutte cose che non mi interessavano. Ma finché guadagnavo, lavoravo. Gli anni di economia sembravano perdersi nel fumo delle sigarette che iniziai a fumare: assieme ai soldi, arrivarono i vizi. Smisi all'istante perché il monolocale era così piccolo che dopo una sola sigaretta puzzava quanto una ceneriera. 

Lavorai così finché non trovai il mio attuale lavoro. Non ho ancora idea di come sia, il mio primo giorno è domani. Un albergo in fallimento cerca un direttore che lo riporti all'antico splendore. Me l'ha proposto la signora del ristorante cinese, mi ha detto che lì lavora suo figlio. "Mio figlio," ricordo le sue esatte parole "-è il cuoco dell'hotel. Sono tutti amici lì dentro e non vogliono salutare quel posto. Serve un direttore per poter riaprire, e tu sembri un tipo in gamba."

 

Quasi non risi. Sembrava la missione di un videogioco. Il meccanismo, o la vita, mi stava lanciando una sfida. Pensai a quanto odiavo la birra economica, quindi accettai.

 

 

 

 

Domani inizio. Quasi mi pento, ho dovuto anche comprare un abito elegante. Non volevo presentarmi il primo giorno di lavoro con uno dei vestiti che si erano impregnati di fumo. E dire che, secondo me, fumavo poco. 

 

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Capitolo 2
*** 1. ***


L'albergo sembra bloccato nel tempo. Una patina di antichità e domande lo circonda, come se nessuno ne fosse mai uscito vivo. E' uno degli alberghi che accolgono assassini, fantasmi, silenzi.

Il palazzo, relativamente grande, è circondato da alberi e piante dimenticate, un freddo recinto nero. Non sono più tanto certo di voler avanzare verso l'ingresso, ma ormai sono qui. Passo dopo passo, busso: la porta è chiusa, per quanto siano le dieci del mattino e dovrebbero esserci clienti pronti ad uscire, quindi aspetto. Nonostante il posto si mostri come estremamente polveroso, sembra anche rispettabile, quindi controllo per l'ultima volta che il mio completo sia ben stirato. Senza nessuna piega, nessun difetto, come se non fosse reale- dopotutto nulla sembra reale.

 



 


 

Il ragazzo che mi apre senza alcuna cerimonia, è, al contrario, la persona più reale al mondo. Ha i capelli rossi, tinti, un'enorme felpa blu ed una scopa nella mano destra. Mi accenna un sorriso, io chino la testa.

"Tu devi essere Yoongi," esclama.

"Già." Tento di allungare una mano per stringergliela, ma il ragazzo-capelli-rossi fugge in un lampo verso quello che sembra il bancone della reception. E' colmo di carte, scartoffie, chiavi, scontrini. Così diverso dal mio mondo, lì fuori, così freddo ed organizzato.

Sulla poltrona di finta-pelle nera, dietro al bancone, un ragazzo dorme beato. Mi domando come faccia a riposare con quel caos davanti, ma non sono ancora affari miei, ci penserò dopo ad istruirli sull'arte dell'ordine. Ed il non dormire sul lavoro.



"E' arrivato Yoongi, svegliati!" Il ragazzo-capelli-rossi poggia la scopa di fianco al bancone che, essendo ricurvo, la fa miseramente rotolare sul pavimento. Il rumore è tale da far sobbalzare il povero dormiente sulla poltrona: apre gli occhi, mi scruta, poi sorride. Una fossetta gli esplode sulla guancia, un piccolo buco nero.

"Yoongi. Benvenuto." Mormora, assonnato.


Evito le domande sul perché tutti siano già così informali con me, evito le domande sul perché non ci siano clienti, mi limito ad un cenno verso il presunto-receptionist appena sveglio.

"Sono Min Yoongi, nuovo direttore di quest'albergo," mi fermo per guardarmi attorno, "-si suppone."

Il ragazzo-capelli-rossi riprende la scopa dal pavimento, mi lancia un sorriso che non colgo al volo. Mormora una frase che forse capirò più avanti.

"Questo non è solo un albergo." E avanza verso il corridoio, fieramente, come se dovesse affrontare chissà cosa.

 



 

 

"Lascialo stare, è sempre così fiducioso quando pulisce il bagno," ragazzo-receptionist sorride nuovamente, mi fermo nel vedere come la fossetta gli solca perfettamente il centro della guancia. "-si sente come se dovesse affrontare un drago. Hoseok è fatto così."

Annuisco. Quindi c'è qualcuno che pulisce; dovrebbe occuparsi anche di quel bancone, oltre che del bagno. Il suo nome è Hoseok, gli si addice.


 

"Io sono Namjoon, receptionist. So parlare tre lingue, un tempo quattro, ma ho dimenticato il francese tempo fa. Ci sono poche regole in questo hotel, non scritte, ma tutti le seguono quindi devi farlo anche tu se vuoi restare." Le sue frasi sembrano minacciose, ma mi porge gentilmente una mano, quindi non mi lascio intimorire. Nessuno è capace di intimorirmi. "La prima è che nessuno deve toccare il mio bancone. La seconda è che non devi far piangere Jimin."

Inclino la testa. Non ho idea di chi sia Jimin, non ancora, ma suppongo sia un bambino, magari il nipote di qualcuno. Inizio a sperare di no. I bambini piangono, corrono e ti fanno ricordare che un tempo anche tu eri così. Ed io non voglio. Forse sono ancora in tempo per ritirarmi, ristringere la mano di Namjoon e scappare. Una voce mi blocca.

"Namjoon, non sono un bambino." Una voce morbida, come la nota di un pianoforte, aleggia alle mie spalle. Mi volto appena. Il ragazzo dietro di me è alto poco più dello sgabello che trascina svogliato, ha i capelli biondi che gli ricadono sugli occhi e, sì, ha lo sguardo da bambino. Spero non pianga davvero, per ora sorride. "Ciao," mormora. "Salve," rispondo.

 


"Sei un cliente? Namjoon ti ha già spiegato i prezzi? Una camera costa 22,000 won a notte, compresa la colazione. Gli altri pasti hanno un conto a parte." Il ragazzo-dallo-sguardo-bambino, suppongo sia Jimin, parla veloce come un nastro registrato. Ha un sorriso speranzoso, il sorriso di chi non vede clienti da mesi, il sorriso da bambino che spera in una sorpresa. Peccato siamo già tutti adulti qui, sono costretto a distruggere i suoi sogni.

"Mi spiace, ma sono Yoongi." Mormoro con calma, come se fossi già il suo datore di lavoro. Questa volta il suo sorriso diventa più di cortesia che da bambino, diventa uno di quei sorrisi che sei obbligato a sfoggiare davanti ad amici di vecchia data di cui neanche ricordi il nome. "Ed io sono Jimin," la nota della sua voce è altalenante, ma mantiene il suo tono da nastro registrato "-spiacente, Yoongi, non abbiamo sconti per il tuo nome."

"Jimin, frena." Namjoon, che non si è smosso da dietro il bancone neanche una volta, allunga una mano verso Jimin. Inizio a pensare sia come uno di quei personaggi nei videogiochi dei quali vedi solo un mezzo busto, quelli col passato assurdo e missioni impossibili da compiere. In effetti questo hotel sembra il perfetto sfondo per un videogioco, o per uno di quei film adolescenziali dove tutti sono segretamente disperati dentro. Forse lo siamo davvero. Anche se Hoseok sembra relativamente felice, Jimin ha lo sguardo da bambino e Namjoon vive nel suo bancone. Forse lo sono solo io, magari sono il boss finale del videogioco. Mi perdo talmente in questo discorso dal non cogliere neanche una parola detta da Namjoon, che spiega rigorosamente la situazione al ragazzo-bambino. Quest'ultimo mormora un lieve "ah," che mi porta alla realtà.



Il sorriso speranzoso, poi diventato sorriso di cortesia, ora è un sorriso arreso, disilluso. "Riporta la vita in questo albergo, Yoongi." È l'unica cosa che dice, prima di salutarmi con la mano e trascinare lo sgabello con sé, da qualche parte.


 

"Amate davvero tanto questo hotel," sussurro, più a me stesso che a Namjoon; lui si limita ad annuire e a biascicare un paio di parole al vento, "Siamo una famiglia".

 





La dolce quiete formatasi, quel tipico silenzio nel quale si creano i ricordi, dura ben poco. Un ragazzo compare alle mie spalle, incrocia le braccia al petto, mi scruta, poi guarda Namjoon.

"Quanto sei romantico," ridacchia sottovoce, palesemente esagerando le espressioni facciali "-questo posto non si può neanche definire un hotel. E' una specie di topaia senza aria condizionata."

Mi trattengo dal rispondergli che dovrebbe vedere il mio monolocale; quella sì che è una topaia, e puzza anche di fumo. Noto la divisa che ha indosso: una camicia nera, con un simbolo sulla destra, un pantalone altrettanto nero ed un tovagliolo rosso fra le mani; sembra un tragico poeta francese, col fazzoletto sempre pronto ad asciugare le lacrime. Ridacchia una seconda volta, quasi automaticamente, mi porge una mano. "Sono Kim Taehyung. Direttore di sala. Compito abbastanza inutile, dato che non abbiamo bisogno di una sala. Però ci sono lo stesso, e sono anche l'unico ad indossare ancora la divisa-" scrolla le spalle ed agita un po' il suo fazzoletto rosso sul bancone di Namjoon, che lo fulmina con lo sguardo, "è che odio i cambiamenti."

Lo posso capire. Non lo dico, ma lo capisco. I cambiamenti ci obbligano ad una reazione, ed io mi sono stancato tempo fa di reagire ai meccanismi della vita, quindi la monotonia mi ha accolto. Almeno così il modo in cui vedo le giornate ed il modo in cui le giornate vedono me, è uguale: vuoto. Eppure, dal modo in cui il signor Kim Taehyung si muove non colgo affatto una persona vuota, è solo qualcuno che ha creato un personaggio e non vuole abbandonare la propria parte, che in questo caso è: "il direttore di sala con la sua divisa". Un personaggio.



 

"Io sono Yoongi, nuovo direttore dell'albergo.", ripeto per l'ennesima volta. Grazie al cielo non fa altre domande, è troppo impegnato al lamentarsi sul quanto sia fastidioso il non avere l'aria condizionata, sul quanto non riesca a dormire la notte perché fa troppo freddo, o troppo caldo, o c'è troppa umidità. Namjoon lo lascia parlare, annuisce e dice qualcosa sulla contabilità, inventa dei dati sulle entrate, parla di risparmiare, le tipiche frasi come "dobbiamo fare sacrifici." Il solito. Una cosa però mi sfugge.

 

"Quindi dormite qui?" mi lascio sfuggire, ormai dimenticando le formalità o l'invadenza.

"Sì, al terzo piano. Ci sono due camere da letto per il personale e quello che dovrebbe essere il tuo studio, ma ci sono solo scartoffie. Colpa mia." Taehyung si accarezza i capelli con la mano destra, il polso sporco di vernice, il viso assonnato come uno degli attori che intervistavo per quelle ridicole riviste. Sarebbe perfetto. Potrei dargli il numero della rivista per la quale lavoravo, ma sembra un pezzo rilevante in questa sottospecie di albergo. Meglio non mettere le mani sul personale.

Namjoon ha un volto che sembra dire: sì, siamo dei poveracci; no, non abbiamo un'altra casa. Annuisco al suo silenzio. Vivere in quattro con sole due stanze dev'essere dura.

"Anche se l'essere in sei a volte non aiuta la convivenza," Taehyung sembra rispondere direttamente ai miei pensieri, "soprattutto perché abbiamo un solo bagno per noi."

"Sei?" Qualcosa non mi torna.

"Ancora non hai conosciuto Jungkook e Seokjin, giusto? Uno si occupa del cibo, l'altro delle bevande. Penso li troverai a dormire." Namjoon si volta verso l'orologio, le 10:30 del mattino, e sorride in modo quasi paterno. "Andiamo a svegliarli, te li presento."

Tento di ribattere, ma i due già sono diretti verso le scale. Li seguo, valutando la gravità della situazione: come si può dormire a quest'ora? Le cose cambieranno da domani, quindi meglio si godano quest'ultima dormita prolungata. Il mondo del lavoro non accetta una fase rem completa.



Gradino dopo gradino, quando raggiungiamo il secondo piano si sente rumore di parquet calpestato, ed allora Hoseok -appena uscito fiero dal bagno con la sua fedele scopa- dice che quelli sono "i suoni della danza."


 

"Jimin balla." Spiega, con una traccia di amarezza. "Questi sono i suoni della danza. Li riconosco." Stringe a sé il manico in legno e si dirige verso il piano inferiore, meno sorridente e meno reale di prima. Non posso fare altro che vedere la sua figura scendere lentamente le scale, come se aspettasse di essere fermato. O forse sta solo controllando la polvere. Non posso saperlo, quindi per questa volta torno a guardare in avanti. Le lunghe gambe di Namjoon, che preferivo quando erano coperte dietro al bancone, si muovono veloci nel corridoio polveroso del terzo piano: c'è odore di bucato fresco, ma anche di ricordi antichi. Chissà quante storie ci sono in queste pareti. In questo posto che "non è solo un hotel".

 

 

Quando entriamo nella stanza, stanza 4, troviamo questi due esseri contorti avvolti in una coperta troppo piccola, in un letto troppo piccolo, in una stanza troppo piccola. Uno dei due compare piano da sotto quei centimetri di lenzuolo, ci guarda, poi torna a dormire.

"Jungkook," lo interpella Namjoon con fermezza "devi alzarti." Da sotto le coperte scorgo una testa muoversi in cenno di no. "Jungkook," ripete. E la coperta si scuote di nuovo. Sembra una scena da sitcom americana.

"Jungkook, ti tolgo la coperta." Taehyung, più drastico, afferra un lembo di puro poliestere e conta fino a tre, tirandolo brutalmente al termine. Il ragazzo apre un occhio, lo richiude, poi lo apre di scatto e si posa su di me: lì, sobbalza in piedi. Quando gli vedo il viso, mi accorgo di quanto possa essere giovane, e sento la voce di Namjoon dirmi nella testa: sì, è un poveraccio anche lui; sospiro. "Sono Yoongi, nuovo direttore dell'albergo, piacere." Ripeto, ripeto ancora. Il ragazzo annuisce, per quanto scommetto non abbia sentito neanche una parola. Si poggia una mano sulla guancia rosea, calda, e finalmente parla. "Io sono Jungkook. Sono il più piccolo qua, ma sono l'unico a non avere problemi."

Taehyung gli lancia uno sguardo enigmatico. Jungkook continua, spiega che Namjoon ha la fobia di aggiornare il suo Windows 98, che Jimin balla solo quando è solo e lo sente complimentarsi allo specchio, che Seokjin ha una fidanzata immaginaria, che Taehyung parla secondo frasi fatte e che Hoseok affronta i cessi come fossero draghi. Quasi gli manca avere un problema personale, sussurra alla fine. Namjoon non può far altro che ridere. Mormora appena un "Windows 98 è perfettamente funzionale", poi si concentra sull'altro dormiente, colui che dovrebbe essere Seokjin. Volgo lo sguardo al ragazzo-senza-problemi, Jungkook.

"Io sono Yoongi, nuovo direttore di questo albergo." Una pausa. "E penso di non avere problemi."

"Vedremo," sorride lui, scrutandomi da dietro il lembo del lenzuolo troppo sottile; è uno di quei "vedremo" intesi come "lo hai. Ed io lo scoprirò". Sfida accettata. Quasi ricambio il sorriso. Chissà che problema troverà, ne ho tanti nel cassetto. Forse capirà del mio gatto morto senza motivo, o della mia solitudine, della mia dipendenza da ramen istantaneo.

 



"Jungkook, non spaventare già il direttore." Una voce premurosa, e finalmente rispettosa, emerge dall'altra metà del lenzuolo, i capelli scompigliati ma il volto perfetto. Mi guarda. "Sono Seokjin, il cuoco." Mi lancia un bacio. La confusione del mio volto dev'essere molta, dato che dopo un istante ride, e chiede scusa, e ride. "Scherzavo", dice. Scherzava. Che hotel assurdo.

 

 


 

"Dunque." Batto le mani una volta, per richiamare l'attenzione; qualcuno deve iniziare a mettere un po' di ordine qui dentro. E quella persona dovrei essere io. "Vediamo cosa c'è da sistemare."



Tutti mi guardano sbigottiti, come dei gatti verso un laser. Ultimamente penso troppo ai gatti. Chissà Yuki dov'è adesso. In un posto migliore di questo albergo, probabilmente. Sospiro. "Riunione del personale, forza, chiamate tutti." Batto le mani una seconda volta, con addosso la più spessa patina di autorità che riesco ad avere. Lo stupore regna nell'aria. Seokjin è il primo ad alzarsi, scuote appena i pantaloni troppo larghi, mi da una pacca sulla spalla; "ti aspettiamo al bancone di Namjoon", dice, io annuisco. Namjoon lo segue all'istante, forse per paura che qualcuno tocchi il suo bancone, la sua dimora. Jungkook e Taehyung continuano a fissarmi, increduli, i loro tratti improvvisamente più infantili. Li incito ad andare con un cenno del capo, loro si incamminano meccanicamente non cambiando espressione, persi nella loro sincera confusione. Le cose cambieranno davvero. 

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Capitolo 3
*** 2. ***




“Perché le entrate sono così basse? Cos’avete che non va?” Sfoglio quelli che dovrebbero essere gli appunti sugli incassi, tutti pari a zero, tutti negativi. Potrebbe sembrare irrecuperabile, ma non voglio tornare a scrivere articoli su attori ridicoli, quindi tenterò di sistemare questo posto. E’ la prima volta che mi impegno in qualcosa, in questi ventitré anni; o forse ventiquattro. Non faccio da comparsa in questo albergo, sono fra i protagonisti: nei titoli di coda, vedrai subito me. E’ la prima volta che vivo, non sono abituato: forse mi insegneranno loro. 


“Non sappiamo organizzarci, anche se ci ho provato. Forse non ho abbastanza autorità.” Namjoon, formato per la maggior parte da gambe e frasi apprensive, scrolla le spalle dietro il suo bancone, come se dicesse: sì, non so arrabbiarmi con loro, pensaci tu. Colgo la sfida. Hoseok non ha ancora lasciato la scopa, che tiene ferma sotto il mento, dondola annoiato da un piede all’altro, “ci sono tanti altri alberghi validi,” lo sento appena; Jimin china lo sguardo tristemente. “Ma noi siamo una famiglia.” Esordisce Seokjin, un barlume di speranza alla fine, lo ripete: “noi siamo una famiglia.


Giusto. Hoseok l’aveva detto, quello non è solo un hotel, è la loro casa. E’ un punto a loro favore, l’essere così ospitali, e strani, ed ognuno con un loro particolare difetto. Come Jungkook che, al posto di ascoltarmi, canta chissà quale nuova hit e -quando si accorge che lo fisso-, sorride. “L’angolo bar non ha problemi, lì non c’è niente da organizzare. Un abile barman lo avete già,” si indica spudoratamente “-mancano solo i clienti. Per quello neanche io posso fare molto.”

“Una volta ti ho ordinato un Orgasmo e stavi per piangere, Jungkook.” Hoseok incrocia le braccia al petto, la scopa salda nella mano destra come se fosse parte di lui, i capelli rossi si abbinano perfettamente al suo sorriso malizioso. Jungkook sobbalza, “non è vero”, mormora. Tutti concordano a suo discapito. 

Cos’è un Orgasmo?” tento di domandare, con l’espressione più seria possibile, ma ovviamente Taehyung ne approfitta per ribattere, un “pensavo lo sapessi ormai” ridacchiato. Hoseok lo segue, convinto io non riesca a vederlo dietro la sua scopa.
Jungkook sospira, lo sento pensare "devo comportarmi da più grande"; eppure sembra così piccolo. "E' un cocktail. E' così buono da chiamarsi così, perché è come-" una piccola pausa "-... un orgasmo." 

Mi astengo dal domandare che sapore abbia, mi limito ad annuire e tentare -di nuovo- di prendere in mano la situazione. Dunque, l'angolo bar non ha problemi, vediamo la cucina.
"Seokjin", lo chiamo, forse troppo direttamente, ma lui sorride quindi non penso gli dia fastidio, "-tu sei il cuoco, giusto?"
Annuisce. Si incammina verso una porta al lato opposto dell'ingresso, probabilmente la cucina, e Taehyung mi poggia una mano sulla spalla.



"Credi in Dio?", mi domanda. Rimango sbigottito. Una domanda del genere è difficile da rispondere, soprattutto se l'interlocutore non ti conosce, non conosce le tue ideologie; è così difficile spiegare l'esistenza di un'entità superiore, così all'improvviso. Non ho mai creduto, la mia famiglia venerava il culto del silenzio e basta, quindi non avrei problemi a dirgli un secco "no", ma il perché mi abbia fatto una domanda del genere mi incuriosisce. Dunque glielo chiedo, secco, perché. 
"Dopo aver mangiato qualcosa cucinato da Jin, crederai in Dio.", e ride. Ah, quindi intendeva questo. Niente conversazione filosofica alle undici del mattino, davanti al bancone disordinato di Namjoon, sorseggiando un Orgasmo.

Magari la prossima volta. 




Mi incammino verso la cucina, con tutto il seguito impaziente di assistere al mio primo assaggio; quando apro la porta, vengo automaticamente invaso da un profumo dalle varie spezie, così diverse ma perfettamente armonizzate, un po' come loro. Seokjin mi porge un piatto, anzi, una specie di ciotola con una sostanza indefinita al suo interno: ha un buon profumo, ma non riesco a definirlo. Sembra dolce. 
"Cos'è?", rigiro la ciotola fra le mani, osservandola.
"Crema alla vaniglia con ingredienti segreti." 

Ingredienti segreti. L'ha detto come se dentro ci fossero piume di pegaso e squame di sirena e, visto in che razza di hotel mi trovo, non mi stupirei se fosse vero. Forse è tutto nascosto dietro al bancone di Namjoon, nella stanza dove Jimin balla, nel letto dove dormono in cinque. Quasi sorrido, poi scuoto la testa di colpo. Yoongi, non puoi sentirti a casa in un posto che conosci da appena due ore. Non hai mai avuto una casa, tu, non hai mai trovato altro posto se non il monolocale che puzza di fumo. Non puoi già affezionarti a questo hotel ed ai suoi profumi. Non sei fatto per le case, non sei fatto per le persone: è solo un lavoro. E' solo vaniglia, non lacrime di unicorno. Torna in te, Yoongi, torna in te.

Annuisco a me stesso, tornando con i piedi per terra. Assaggio questa fatidica pietanza.

Oh. "Dio," mormoro. Lo segue anche un "Gesù." Taehyung sorride, te l'avevo detto, dice. Me l'aveva detto. Hoseok incrocia le braccia, fiero, i suoi occhi brillano come al solito: "abbiamo un asso nella manica", sembrano dire. Mi trattengo dal non sorridergli. Abbiamo un asso nella manica - cioè, hanno un asso nella manica. 


"Il cuoco c'è, il barista c'è. Ma allora qual è il vostro problema?" so di aver già posto questa domanda, ma ora è con intonazione diversa: sì, ci sono altri alberghi, ma perché non riuscite a superarli, se le basi le avete?
Jimin si poggia una mano sulla guancia destra, le dita -pari a quelle di un bambino- affonando come in un cuscino, il suo sguardo malinconico lo fa apparire come uno di quei cherubini dipinti nel rinascimento, da proteggere. Chissà chi l'ha fatto piangere in passato, chissà chi ha reso il suo sguardo così, chissà cosa pensa. Dovrei tentare di non preoccuparmene, ora si parla dell'hotel.
"Forse," lo mormora a labbra appena schiuse, come se avesse paura di sbagliare, e chissà sbagliare cosa, "-non ci pubblicizziamo abbastanza? O forse per l'aspetto dell'albergo? E' abbastanza malandato, dopotutto." 
"Come noi." Hoseok sorride in un'amara ironia e mi guarda, mi guarda come per dire che non potranno mai cambiare, che quel posto non potrà mai cambiare, perché è malconcio dentro. Tento di non ascoltare quelle parole, quei pensieri come treni in corsa. Devo fare il mio lavoro. 
"Possiamo sistemare tutto." le parole che pronuncio stupiscono me stesso, stupiscono il mondo, avrebbero stupito mia madre se mi avesse visto. Anche quella cugina che studia letteratura, sorriderebbe, e direbbe che sono una persona fiduciosa. Io, fiducioso. Non l'avrei mai immaginato. Alle elementari non mi presentavo alle recite, al liceo rifiutavo le ragazze perché sapevo che prima o poi mi avrebbero lasciato loro, ho accettato di scrivere articoli di giornale perché non avevo altro da fare, altra ambizione. Aspettavo di andarmene da questo mondo, piano, come il mio gatto. Come tutte le persone che ho conosciuto. Eppure questo albergo ha l'odore di qualcosa che non se ne andrà, ha quel profumo sconosciuto di casa che non avevo mai provato.
"Possiamo sistemare tutto." ripeto, ripeto ad Hoseok, ripeto a me stesso. Sistemeremo questo posto. Vedo un sorriso, poi due, poi tre. Li sto spronando io. Non mi riconosco. 




--






Il primo passo è, ovviamente, la pulizia. Il mio monolocale puzza di fumo, non ha spazio per un tavolo, ma è così pulito da poter mangiare -dato che appunto non ho un tavolo- sul pavimento. Su questo sono irrimovibile. E penso lo sia anche Hoseok, dato che vive con quella scopa fra le dita. 

"Hoseok," lo chiamo; sorride, "chiamami Hobi", mi risponde.
"Hobi." lo pronuncio una volta, come per provare, "-sei tu ad occuparti delle pulizie, giusto?" e scosto un po' lo sguardo dal suo sorriso, come si fa col sole, come si fa con qualcosa che brilla troppo.
"Sì! Siamo io, Jimin e le nostre scope. Siamo bravi."
Non ne dubito, il pavimento brilla, neanche un acaro sopravvissuto. Tento di spiegargli in modo elementare che le pulizie non si fermano lì, ma anche ai vetri, le camere, i lampadari.
"Oh," guarda il soffitto, come se non ci avesse mai pensato a pulire anche quello, "è ovvio che puliamo tutto. E' solo il lampadario, ci ho appena pensato. Come si pulisce un lampadario?"
E ride. Si passa una mano fra i capelli rosso fuoco, mormora cose che non sento, distratto da quel colore brillante, probabilmente mi saluta, si incammina in una stanza, continuo a non sentirlo. Svegliati, Yoongi. 

"Uh," lascio un sospiro al lampadario, unica cosa rimasta con me, dopo aver realizzato la situazione appena successa. Probabilmente dovrà cambiare tinta, o non ascolterò neanche una parola. O forse cambiare sorriso. E' la cosa più reale io abbia mai visto, non so come reagire. Questo albergo ospita troppi colori, troppa luce, forse stavo meglio con il ramen istantaneo, il fumo, nel mio appartamento. Non so rispondere ad un sorriso, non l'ho studiato, non è il mio lavoro. Il mio lavoro è fare il direttore, non sorridere. Devo tornare nelle vesti di direttore.


Indosso di nuovo l'espressione di lavoro, quella freddamente cordiale, lascio la luce andare via con Hoseok e mi incammino al piano di sotto, nella sala, dal personaggio Kim Taehyung. 




"Taehyung," entro nella sala, cercandolo.
E' una sala relativamente grande, ci sono una decina di tavoli ed in fondo un lungo bancone bianco, probabilmente per il buffet della colazione. La carta da parati sul beige chiaro è un po' antica, ma è adatta al resto dell'albergo; potrebbe davvero essere un bel posto. Taehyung è posto in un angolo, dinanzi all'enorme finestra che ricopre tutta la parete opposta, la luce si posa su di lui con precisione, come se fosse su un set fotografico. Come se fosse tutto regolato, una posa, come se Taehyung potesse controllare il mondo a suo piacimento. Direttore di sala, ma anche del mondo. Sarebbe perfetto su una rivista.
Alza lo sguardo verso di me: un perfetto sguardo da modello. Continuo a fissarlo, non intimidito; lui può anche essere il modello che controlla il mondo, ma io sono colui che controlla il modello. 

"Taehyung, dobbiamo sistemare questa sala." 
"Se solo avessimo dei fondi, volentieri." Mi parla sfacciatamente, pulendo un tavolino col suo bel fazzoletto rosso, la luce lo accompagna in ogni movimento. "Siamo riusciti a comprare solo un cactus, una volta, ma Namjoon l'ha rotto. Si chiamava Lucy."

Beh, povera Lucy. Incrocio le braccia al petto, mi accomodo piano sul tavolino che lucida ininterrottamente, per portare il suo sguardo a me. "Hai idea di come trovare questi fondi?" 
Taehyung mi presenta di nuovo il suo sorriso, quel sorriso, quel sorriso così diverso da quello di Hoseok, così provocatorio: da persona che è consapevole di avere il mondo in mano. Il mondo in quel sorriso.

"Secondo te se lo sapessi, quest'hotel sarebbe così?" e ride. Ride. "Yoongi, qui c'era un'unica chance. E quella era Jungkook- ma non ne vuole sapere."
Jungkook?

Non riesco a domandargli cosa intende, va via col suo fazzoletto rosso, i suoi movimenti da modello. La sala perde la luce. Io rimango immobile a fissarlo, come la Luna, confusa spettatrice del cielo, silenziosa. E d'improvviso è notte. Chissà dov'è Jungkook, in che fascia oraria. 










Quando arrivo da lui, nel minuscolo angolo bar, c'è l'aria della sera. Penso siano le undici del mattino ormai, ma in quell'angolo regna la lieve tensione della sera, in quell'angolo che sembra ritagliato da una rivista per adolescenti ed incollato a malomodo in un albergo troppo vecchio. 
Jungkook sorride. A differenza di Taehyung, Jungkook ha quel sorriso da compagno di classe, ha quel sorriso da buone notizie, ha il sorriso da barista che offre bevande calde alle ragazze che sono state appena lasciate. Quel tipo di barista che si nasconde dietro i bicchieri per leggere nelle persone e nei loro drink. 
Sono fiducioso mentre mi incammino verso di lui, poi esclama una frase.

"Yoongi, hai proprio la faccia di un Red Headed Slut."

Mi fermo a pochi passi dal bancone, sbigottito. Forse non ho capito bene. "Come, scusa?" 
Jungkook si affretta a scuotere una mano verso di me, visibilmente imbarazzato, dice che è un drink. "E' il nome di un cocktail che penso ti possa piacere", continua a ripetere. Ah, un drink. Mi ero illuso di essere stato chiamato "puttana rossa" da Jungkook, ma forse sarebbe stato un po' frettoloso al primo giorno di lavoro.

Già, il primo giorno di lavoro. 
Solo il primo giorno di lavoro.


E Jungkook già mi ha associato un cocktail. Un cocktail che si chiama Red Headed Slut. Gli chiedo se posso assaggiarlo; ma è ancora presto, risponde lui. In effetti ha ragione. 
Nel mio monolocale non riuscivo a distinguere il giorno dalla notte, quella sottospecie di birra mi faceva compagnia ad ogni ora, mentre scrivevo di cose che non mi importavano, mentre in questo albergo c'era vita. Anche senza clienti. Qui c'era vita. Mentre io guadagnavo soldi mai spesi, loro dormivano in cinque in una stanza. 
Io ho una casa, se così si può chiamare, dove tornare; loro hanno solo questo albergo. Hanno loro stessi, un lampadario polveroso, crema alla vaniglia ed Hoseok che sorride. Questo è il loro mondo. Non lo vogliono abbandonare. Iniziamo a pulire, pulire davvero, maniche alzate e sapone ovunque: è solo il primo passo. 



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