Happily Ever After

di Servallo Curioso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inizio ***
Capitolo 2: *** Svolgimento ***
Capitolo 3: *** Conclusione ***



Capitolo 1
*** Inizio ***


[H]appily ever [a]fter

Act.1 - Inizio
 
Pioveva in un modo strano quel giorno.
Cadeva una pioggia fitta e leggermente guidata dal vento. Non era forte, anche se la rete di gocce creava una specie di muro davanti a me: leggere e danzanti arrivavano al suolo, rendendomi la traversata veramente piacevole.
Con il mio banale completo di jeans e giubbotto, ed imbracciando lo sgargiante ombrello azzurro, mi decisi a tornare a casa. Mi morsi il labbro perché quella pioggia era iniziata all'improvviso, ma mi resi subito conto che non mi disturbata affatto. Amavo la pioggia, non al pari del vento ovviamente.
Tra tutti i fenomeni della natura, si può dire che il vento fosse il mio preferito. Quando da piccolo nel cortile dei miei zii materni vedevo volteggiare le foglie cadute in brevi mulinelli, mi mettevo sempre a sognare. Immaginavo di essere una foglia e di volare al vento. Crescendo, questo fenomeno naturale, rimase nella mia mente perché era il simbolo del cambiamento. Le giornate ventose, infatti, mi istigavano a fare qualcosa che rimandavo da tempo, o cambiare qualcosa. Qualsiasi.
La pioggia invece mi faceva riflettere. Erano come mille e mille frammenti del mio passato che cadevano sul mondo; occorreva solo afferrare quelli giusti ed evitare spiacevoli memorie.
Mentre con lo sguardo perso nel vuoto pensavo a questo, attento comunque ad evitare le pozze e tenendo l'ombrello nel verso giusto, sentii dei colpi di tosse. Forti. Incredibilmente forti. Per un attimo ebbi paura che l'uomo malato, ero sicuro fosse un uomo, tossisse così forte da gettar fuori i suoi polmoni.
“Ha bisogno di qualcosa?”
Per qualche strano motivo quel giorno non andavo di fretta e avvicinandomi al signore posi spontaneamente questa domanda.
L'uomo mi guardò alzando lo sguardo e spostandosi quel candido fazzoletto dalla bocca. Era sui sessanta anni, mi sentii di azzardare. Forse cinquantacinque, mi corressi subito. Aveva uno sguardo scuro e desolato, allo stesso tempo momentaneamente sorpreso per la mia domanda.
Avvolto in un soprabito che non riuscirei a definire, con un bombetta appoggiata sul capo, l'uomo mi rispose.
“Non si preoccupi” scosse la mano. Per qualche attimo rimasi immobile sul fare di andarmene. Ma vedendolo ancora tossire, mi preoccupai di averlo sulla coscienza.
Accanto a lui aveva delle borse, contenevano dei libri a quanto sembrava. Mi avvicinai ad essi e porsi l'ombrello a quel tipo che ne era sprovvisto. Ripensandoci adesso, forse non avrei agito con tanta impulsività.
“Lo prenda, l'accompagno a casa” Ci fu una pausa tra il tempo che finii la frase e quello con cui l'uomo prese quell'oggetto per ripararsi dalla pioggia. Alzandomi il cappuccio continuai. “Le porto la borsa”.
Fin da piccolo, avevo appreso che le persone in difficoltà non andavano ignorate. Mia madre si era sempre preoccupata molto di questi piccoli insegnamenti, che alle volte facevano la differenza. Afferrando quelle borse lo accompagnai a casa. Mi indicò la strada da seguire e mi ringraziò più volte. Solo alla fine iniziammo a presentarci.
“Sei stato veramente gentile” iniziò così il discorso fermandosi “Il mio nome è Eduardo -il suo cognome non lo ricordo-, piacere di aver incontrato un giovane tanto disponibile” porse la sua mano con vera classe. L'ombrello teso verticalmente sopra la sua testa lo proteggeva dalla pioggia, ma a me, l'aveva fatto sembrare fino a quel momento un'entità a sé. Con un filo di esitazione, dettato dalla timidezza, ricambiai il gesto creando una debole stretta.
“Mi chiamo Isaac” dissi. Come ogni volta, durante la presentazione, mi passarono davanti agli occhi: data di nascita, indirizzo, nome ed altri dati che non avrei condiviso.
“Mi dispiace averti fatto disturbare tanto...”
“Non si preoccupi” risposi io. Quelle borse erano abbastanza pesanti.
Solitamente un gesto del genere l'avrei fatto poco volentieri. Casa sua a quanto pareva era dalla parte opposta della mia, e portare quel peso non era piacevolissimo. Ma il suo tono, il suo portamento e le sue continue scuse mi costringevano, incantandomi, a compiere ogni azione necessaria.
Abitava in un quartiere molto grazioso. Le case disposte in fila e indipendenti tra loro, rendevano l'aria più libera di quanto non fosse. I giardini perfetti, le siepi tagliate, i muri appena dipinti.
Inizialmente ammaliato da tutto ciò, tornai me stesso quando il primo pensiero critico mi passò nella testa. Odiavo tutta quella ricerca dell'esteriorità.
Mi resi conto della mia incostanza quando, giunto alla sua abitazione, mi fermai a fissare i fiori ordinati che, leggeri, dondolavano colpiti dalle gocce.
“Entra per favore. Mi farebbe piacere sdebitarmi offrendoti qualcosa” la sua voce mi fece riprendere.
“Grazie ma non ce n'è bisogno” anche se desideravo, le parole non vollero uscire. Mi persuase ad accettare e varcare l'ingresso di casa sua.
Non era molto luminosa, ma piacevolmente calda. Mi invitò ad appendere la giacca bagnata all'ingresso e così feci, trovandomi poi in un silenzioso salotto. Quell'alone di semi oscurità, sembrava abbracciare e preservare ogni cosa. Mi trovai alla fin fine in un luogo non troppo estraneo. Era quasi come entrare in una casa già conosciuta. Sedendomi sul divano porpora, davanti a quel piccolo ed ornato tavolino di legno mi accorsi della tristezza di quella casa. Ogni oggetto sembrava esserne impregnato.
L'uomo tornò subito con un vassoio dove erano posate due tazze da tè ed una brocca fumante. Non mancava neppure la zuccheriera ed i biscotti. Presi la mia tazza e evitai di dire che a me il tè non piaceva. Avevo paura di ferirlo e rendere la casa ancora più triste. Credo che comunque si rese conto che certe pratiche io non le avevo mai fatte, e mi guardò sorridente mentre tutto d'un fiato mandavo giù quella bevanda.
Non avevo la più pallida idea di cosa parlare. Davanti a un estraneo così, che avevo incrociato per strada, il numero degli argomenti che pensavo di proporre erano pari a zero. Attendendo qualche minuto, ero convinto di potermi alzare ed andarmene salutando cortesemente. Ma anche se il tempo passava, scandito dal grande orologio appeso vicino alla cupa libreria, non trovavo la forza di muovermi.
Fu in quel momento che lo vidi.
Affacciandosi da un corridoio buio, quel ragazzo si fece avanti con un passo deciso. Arrivò accanto al padrone di casa a rimase in silenzio, guardandomi. Mi costrinsi a ricambiare lo sguardo, come se fosse una sfida. In quei secondi, dentro di me si era fatta una strana idea della sua persona.
Chiuso nel suo corpo perfetto, tra le spalle larghe ed il torace possente, e mascherato dietro quel volto, liscio ed ornato da due castani occhi, scorsi un baratro. Tremai nascondendolo alla vista dei due.
Capitava a volte, come a tutti, che al primo sguardo si intuisse una particolarità di chi si aveva davanti. Un'emozione, uno stato d'animo. A me accadeva abbastanza frequentemente con gli sconosciuti. L'immagine che quel ragazzo mi trasmise: era quella di una bambola di porcellana. Una di quelle appoggiate alle mensole, tenute a lucido, con cui i bambini non possono giocare perché fragili. Forse lo giudicai frettolosamente, ma al primo impatto fu l'unica cosa che notai.
Tremai nuovamente. Mi metteva a disagio.
Non potevo negare comunque, che quell'individuo aveva il suo fascino. Quasi involontariamente, mi spostai verso di lui, strisciando sul morbido divano.
“Ha bisogno di qualcosa?” Chiese solennemente all'uomo che si era accomodato sulla poltrona a sorseggiare il tè. Lui rispose di no con la testa, ma poi lo invitò a presentarsi. Quasi con uno sguardo penitente, quella creatura si avvicinò a me. Dovetti alzarmi.
“Il mio nome è Hito, piacere di conoscerti” avevo appena allungato la mia mano quando la prese e la strinse. Fu Freddo e delicato come la carezza di un pupazzo. Da un uomo del genere mi sarei aspettato una presa forte. Artefatto. Aveva un modo di parlare e agire artefatto.
“Isaac, piacere mio” provai ad essere più formale possibile, ma quella sensazione non riuscivo a togliermela di dosso. Finito quel momento, me ne tornai a casa.

L'autunno procedeva abbastanza bene. La scuola dava i suoi problemi, eppure nulla di più rispetto al solito. Quando sentii il campanello suonare stavo finendo una ricerca. Rimasi qualche attimo ad aspettare, ma sentendo la casa vuota mi mossi per aprire.
Era triste, eppure quella casa era ancora vuota. Emanava nel suo insieme qualcosa di poco differente dalla casa di quel signore che qualche tempo prima avevo riaccompagnato a casa. Quell'appartamento era malinconico.
Mi incupii leggermente, mentre afferravo la maniglia. Né chiesi nulla, né guardai dallo spioncino. Aprii e basta. Fu quella la seconda volta.
Sul fare del pomeriggio, quel ragazzo tanto apparentemente forte quanto internamente fragile si era presentato alla mia soglia.
“Che succede?” ero sul punto di dire. Non posso affermare che avesse un'espressione sconvolta o trasmettesse qualcosa di particolare. Il suo volto era impassibile, privo di informazioni da darmi. Mi comunicò un immenso vuoto; un vuoto che finì per divorarmi.
Ogni volta che torno a pensarci finisco con il domandarmi di che colore sia il vuoto. Non so rispondermi. Ma in quel momento sono sicuro di averlo notato. Un colore che non trasmette alcun sentimento. Esiste veramente?

Apatia.

Con un volto finto mi porse una lettera. Io dovevo ancora riprendermi da quel vuoto. Non ero mai entrato in contatto con una persona così. Senza neppure conoscerlo, già sapevo che non era normale. Non era un pregiudizio o un pensiero di quelli che si fanno a volte. Lo sentivo dentro di me, sentivo che quel vuoto era anormale. Mi fece paura per un attimo continuare a pensare.
Presi la busta e scoprii che conteneva una lettera scritta a mano.
“Vieni dentro” facendolo accomodare in sala, sui miei vecchi divani, chiesi se aveva bisogno di qualcosa. Il suo 'no' di risposta mi parve stranamente forzato.
Era una lettera di Eduardo. Quel signore mi stupì. Le cose che lessi però, mi colpirono in maniera maggiore. Stavo forse sognando? Uno di quei sogni che si fanno durante il sonno profondo? Non me ne resi conto.
Piegandola risi forzatamente. “E' uno scherzo?” chiesi. Frasi come “te lo cedo” o “forse riuscirà ad amarti” mi facevano pensare ad uno scherzo di pessimo gusto o alla lettera di un pazzo.
Seduto sul divano che gli avevo indicato, Hito, mi rispose un 'No' secco.
“Non capisco”
“Il signor Eduardo, mi ha riferito che d'ora in poi dovrò rendere conto a lei. Ha detto che è riuscito solo in metà del suo esperimento e che ha notato dentro di lei i colori che servirebbero”
Pensai fossero entrambi pazzi. Mi balenò l'idea di fuggire, ma contro una persona così sarei andato poco lontano. Mi resi conto solo in fondo che mi aveva dato del 'lei'.
“Colori? Rendere conto?” chiesi ancora tentando di ragionare.
“Il signor Edward mi aveva avvertito che forse lei sarebbe stato confuso. Così mi ha ordinato di spiegarle tutto”
Tutto questo era solo l'inizio di una lungo storia.
“Il signor Edward è un alchimista” mentre iniziava a parlare, con un tono completamente insensibile, io mi convinsi che erano folli. L'alchimia non esisteva. “Un giorno, decise di creare un essere umano perfetto. Prese un corpo e un'anima per compiere un rituale. Ci mise molto tempo e ci vollero svariati esperimenti.”
Sicuramente ora dirà che è nato così, mi dissi tra me e me.
“Io sono nato così”
Tremai, ormai lo facevo spesso.
“Mi ha detto che dopo di me si fermò, non aveva più le forze di andare oltre. Ma io sono imperfetto. Io non sono capace di provare sentimenti”
Incredulo alle sue parole, non riuscii a distogliere lo sguardo. Ignorando il suo bell'aspetto, mi concentrai su una voce sommessa. Singhiozzi.
Qualcuno stava piangendo. Se davvero non provava sentimenti di chi era quella voce? Dalla bambola immobile che era, la mia mente lo inquadrò ora solo come un bambino che aveva bisogno di aiuto. Mi fido troppo facilmente, anche se tutto è sorretto da una inverosimile storia. Quando quella sensazione svanì, mi resi conto che era calato il silenzio. Non solo. Mancava qualcosa.
“Cioè. Non ti aspetterai che ti creda?”
“Il signor Edward ha detto che lei avrebbe potuto aiutarmi”
“Non darmi del lei” mi infastidiva quando lo diceva.
“Come volete”
“Neppure del Voi. Tu. Semplicemente del tu.” Lo trovai veramente folle. Un turbine di emozioni contrastanti avvolse il mio cuore.
“Tu puoi aiutarmi. Per favore” sembrava una macchina; non mi lasciò neppure il tempo di comprendere le sue parole “Il mio creatore mi ha consigliato di dire 'per favore' o 'ti prego'. Perché era più probabile che tu accettassi”
Rimasi in silenzio. Era davvero impedito in certe cose, o fingeva maledettamente bene. “Non devi dirmelo però” lo rimproverai. “Per far si che funzioni, devi dire semplicemente 'per favore' o cose così, senza aggiungere che qualcuno te l'ha consigliato. Perde il suo effetto”
Ci pensò un pochino. Corrugò la fronte solamente un poco. “Scusa” passarono alcuni secondi. Nel silenzio ne contai cinque.
“Ti prego” Sospirò poi. Come se si volesse correggere.
“Ma no. Non va bene. Ormai che hai rivelato chi te l'ha consigliato, non fa più lo stesso effetto”
“C'è un modo allora per convincere qualcuno?” tradussi in curiosità il bagliore che per pochi attimi pervase il suo sguardo.
“Potresti inchinarti e dire 'sommo padrone la prego di aiutarmi' forse potresti farcela” Non lo prendevo sul serio. Stavo scherzando anche se improvvisai un tono serio.
Persi ogni sicurezza, quando si alzò e fece quello che gli avevo appena detto. Si inchinò e pronunciò quella frase senza esitare. Sollevandomi dal morbido schienale del divano mi spaventai. Per un secondo ci credetti. Un secondo abbastanza lungo da far crollare tutto il castello di certezza che mi ero creato attorno. Dov'erano le mie ragioni ora?
“Alzati. Stavo scherzando!” lo rimproverai ancora. Si scusò. Non era vero che non provava emozioni. Nei suoi 'scusa' c'era tristezza e nei suoi 'ti prego' c'era una specie di vera sottomissione. Quelle sfumature apparentemente impercettibili io riuscivo a notarle. Erano piccole, troppo leggere. Come un sasso gettato nell'oceano. Ma erano una base.
Ancora ora mi chiedo se al posto mio ci fosse stato un altro. Cosa avrebbe fatto? Se uno al posto mio non avesse scorto quell'anima disperata che cadeva nel vuoto senza toccare mai il fondo, come si sarebbe comportato? Posso dire, adesso, che fu una fortuna che io fossi io e non un altro.
“Dov'è il signor Edward?” Chiesi.
“Ha detto se ne sarebbe andato” rispose subito.
“Ho la casa momentaneamente libera... puoi dormire da me” La casa era veramente libera e senza rendermene conto stavo facendo una cosa che tutti avrebbero considerato una pazzia.
A quel tempo avevo una vita piuttosto indipendente. Potevo fare, approssimativamente, quel che volevo. Mio padre lavorava fuori, mia Madre era scappata quando ero piccolo e mia sorella era morta. La casa piangeva al posto mio ogni giorno. Con lui, pensai, mi sarebbe sembrato di vivere di nuovo con qualcuno. Un modo egoistico per sentirmi vicino a una famiglia.
Lo accompagnai nella camera di mio padre rimasta tale e quale a come l'aveva lasciata.
“Puoi dormire qui. Ma non toccare o muovere nulla” sarebbe tornato nel weekend, e per giorno avrei inventato una scusa. Se Poi si lamentava del letto sfatto potevo sempre dire che ci ero stato io. Tornando indietro, lungo il corridoio, scorsi camera di Sarah. La rividi lì, seduta a gambe incrociate sul letto a sfogliare un libro. Con il suo fare diretto ma contenuto mi avrebbe detto di chiudere la porta. Sentii il bisogno di farlo anche rendendomi conto che stavo sognando. Non riuscivo ad abituarmici. Era sicuramente per quel motivo, che volevo di nuovo qualcuno dentro la casa.
Quando mi voltai verso di lui, avendo ancora nel campo visivo quella porta, sentii il mio petto comprimersi e le lacrime salire agli occhi senza però uscire. Quando accadono cose di una certa gravità, ciò che si prova all'inizio è come la punta di un iceberg. La sofferenza reale arriva solo dopo, nelle piccole cose quotidiane. Il senso di abbandono e mancanza; la consapevolezza di non poter tornare indietro sono bestie che si rivelano in un secondo momento. A me avvenne quel giorno a più di un anno di distanza.
In un drammatico istante presi realmente coscienza della morte di mia sorella.
Non so come mi guardò lui. Ero debole e indifeso dopo aver preso finalmente le redini della situazione. Mi sentivo come dopo aver scoperchiato un tombino che puzza. Dopo averlo aperto la vampata è veramente terribile, ma piano piano l'odore svanisce mischiandosi all'aria esterna.

Prendersi cura di una persona è molto difficile. Hito era quasi auto sufficiente, ma in relazioni con la società aveva un 'non classificato'. Mi chiedevo spesso, in quei giorni, come potessi sperare di aiutarlo. Io che non riuscivo neppure a tenere viva una pianta.
I fine settimana dovevo dormire con lui. Mio padre tornava la sera tardi e io la usavo come scusa per nascondere Hito nel mio letto. Mio padre non sarebbe mai entrato in camera mia nel cuore della notte a vedere, e poi era molto stanco. Per questo motivo dovetti abituarmi al pensiero di condividere il mio piccolo letto con un uomo. La Mattina poi, visto che lui si alzava tardi, inventavo una scusa del tipo “Sai, questo amico è venuto stamani a chiamarmi”e ci credeva.
La Notte, però, mi svegliavo parecchie volte. Ogni volta mi prendeva paura. Appurata la sua inoffensività, e la sua completa obbedienza, non riuscivo comunque a fare sogni tranquilli. Non avevo mai dormito con un estraneo nello stesso letto.
Ah. Poi c'era la storia che non aveva bisogno di dormire. Non dormiva mai, sembrava che stesse nel letto solo per farmi un piacere e rimaneva tutta la notte a guardarmi o guardare il soffitto. Mi metteva in soggezione. Nell'intimità dei miei sogni temevo potesse rubarmi qualcosa. Non qualcosa di materiale, ma qualcosa di mio. Uno dei miei tanti 'colori'. E' stupido a pensarci bene. Ma non potevo fare a meno di sospettarlo. Così, ogni volta che mi svegliavo di notte, mi giravo verso di lui in modo serio.
“Hai bisogno di qualcosa?” oppure “E' successo qualcosa?” lo chiedeva sempre.
Violando il mio mondo così era riuscito a toccarmi in profondità. Dopo un iniziale disagio tornavo a dormire vedendolo come un cane da guardia. Era un essere umano al pari degli altri. Me ne convinsi nel dormi-veglia di una sera. Appoggiato al cuscino, dandogli le spalle, sentii il ritmo dei suoi battiti.
Faceva anche attività fisica, o meglio, era portato a farla. Per questo motivo quando non sapevo cosa fargli fare lo mandavo a compiere qualche lavoro manuale per la casa o semplicemente a correre per il cortile. Lui non faceva assolutamente nulla altrimenti. Attendeva solo una mia richiesta o un mio ordine. Mi sentivo sempre un po' in colpa a fargli fare queste cose.

Io non ero uno psicologo o qualcuno che era esperto nel settore. Per aiutarlo feci quel che potevo. Stargli dietro, mostrare a lui come funzionavano alcune cose. Il Perché di alcuni comportamenti. Mi rubata tempo. Tenermi occupato evitava di farmi pensare alla solitudine della casa.
Una mattina uscii come al solito per dirigermi a scuola. Era un freddo novembre. Tra le persone che aspettavano il pullman incrociai una mia vecchia compagna di scuola.
“Ciao Isaac!” esclamò. Io Ricambiai.
Tra un discorso e l'altro notavo che aveva una faccia pensosa, come se si tratteneva nel dire qualcosa. Sputò fuori tutto in un momento di silenzio tra noi.
“Senti... ho saputo di Sarah. Mi dispiace molto”
Non era il massimo. Qualcuno aveva detto anche di meglio ma apprezzai il gesto. Anche se era passato un anno, usciva sempre qualcuno che ne era appena venuto a conoscenza. Mi chiese anche come stavo. Le risposi che era passata.
Giunto il periodo natalizio, mi sentii soddisfatto di vedere Hito abbastanza migliorato. La sua curiosità era crescente, e anche se non provava nessuna soddisfazione nello scoprire le cose, continuava a chiedere. Mi stancava ma allo stesso tempo mi rendeva fiero di me.
Le strade in quel periodo sono sempre addobbate al massimo. Luci, suoni, persone che passano. Tutto fa sembrare anche la mia piccola città un luogo caotico. Faceva buio presto e decisi che stare in casa era noioso. Iniziò a muoversi dentro di me una strana idea e verso l'ora di cena mi avvicinai alla sua figura di spalle.
“Hito. Che ne dici di uscire?”
Lui mi guardò e rispose “Come desideri”
Mettendomi una giacca e vestendolo con qualcosa che durante quella convivenza eravamo riusciti a comprare, scendemmo lungo il viale. L'atmosfera era sognante e suggestiva, ma lui rimase lo stesso. Ci mettemmo uno di fianco all'altro e camminammo a lungo. Era abbastanza noioso. Lui non parlava molto e i suoi discorsi erano oggettivi. Non rideva, non si offendeva, non aveva malizia. Era come portare a spasso una statua. Mangiammo due pezzettini di pizza e io bevvi qualcosa. Giacché lui aveva un aspetto adulto, poteva anche comprare qualche alcolico. A me non piacevano, ma feci un'eccezione. Sperai che bevendo un poco l'uscita sarebbe diventata più sopportabile. Lui invece rimase sobrio.
Bevvi una cosa molto leggera, quella meno costosa, e mi ripugnò a tal punto che non cambiò nulla.
Decisi a questo punto, di ravvivare la serata in un altro modo. Volevo farmi una risata alle spalle delle agente che c'era là attorno, che mi passava vicino. Io sono sempre stato il tipo da queste cose. Avvicinandomi a Hito, mi strinsi al suo grande e solido braccio. Posai il volto su di lui e continuammo a passeggiare. Era un conforto, mi rilassava. Ma fin da subito lo sguardo di tutti cadde su noi due. Lui impassibile non si rese conto del perché e continuò a camminare. Io come una ragazzina, mi strusciavo al suo corpo. Trattenni le risate a stento. Tutti quelli sguardi che mi cadevano addosso, anzi, ci cadevano addosso. Avevo una gran voglia di ridere in mezzo a tutti. Mi divertiva davvero vedere come bastava poco ad attirare la loro attenzione. Lo feci solo perché eravamo arrivati in un quartiere dove non conoscevo nessuno, e pregai di non incrociare degli amici o parenti.
Passeggiando, lo portai in una strada deserta. Il lampioni illuminavano discretamente i bordi del marciapiede sul quale ci sedemmo. Io ero stanco, lui no. Avevo voglia di dire qualcosa come “è stato divertente no? Far finta di stare assieme. La gente si scandalizza per poco. Chissà poi che discorsi faranno” ma non lo feci. Lui non si era divertito, lui non provava quel genere di emozioni.
“Perché ci guardavano tutti?” domandò ad un certo punto, interrompendo il canto delle cicale.
Io mi voltai verso di lui. “Perché eravamo due uomini”
“Non capisco. C'erano tanti uomini assieme lungo la strada”
“Noi però eravamo abbracciati”
Sembrò collegare le cose, ma non era così. “E' una cosa brutta?”
“C'è chi la vede in questo modo”
“E tu?”
Mi Grattai la guancia con un dito. “Non la trovo una cosa brutta, è una cosa diversa dalla norma” Non continuai. Sapevo perfettamente che fare dei moralismi con lui non aveva senso. Volevo dirgli che l'intolleranza era una cosa brutta, che occorreva avere rispetto, ma mi frenai. Non aveva una personalità con cui confrontarsi.
Riprese la parola. “Perché due uomini dovrebbero abbracciarsi?”
“Perché si vogliono bene o si amano. Sia che venga inteso come un amore fraterno tra amici o parenti, o un amore più classico come in una coppia”
“E noi ci amiamo?” Lo chiese senza un tono particolare, ma mi stupì lo stesso. Non so in quale senso lo intendesse però.
“L'amore è un'emozione” lo interruppi. Così, dopo averci pensato ripropose la domanda sotto un'altra forma.
“E tu mi ami?”
Arrossi leggermente, per l'imbarazzo di una domanda del genere. “No. L'amore è un'emozione molto importante”
Forse, un individuo normale si sarebbe offeso ad una risposta così. Lui, invece, sembrò non preoccuparsene e continuò.
“Allora perché andavamo abbracciati?”
“Era per vedere le reazioni degli altri. Stavamo fingendo” Ripensandoci quella frase in quel contesto era nettamente sbagliata. Fingere presuppone l'avere un 'sé stesso' da nascondere dietro una maschera momentanea. Hito non aveva un 'sé stesso' quindi era impossibilitato a fingere.
Parlammo ancora un po'. Poi decisi che era giunto il momento di tornare a casa. Stando con lui, quella sera la mia mente iniziò a muoversi. Mi tornò alla memoria un momento lontano, relativamente lontano.

Mia sorella aveva una figura molto fragile e contenuta, uno sguardo trasparente e dei lunghi capelli neri. Era veramente bella. Il mio nero, dei capelli, non è paragonabile al suo corvino. I suoi occhi azzurri valevano almeno il doppio dei miei tendenti al grigio.
La cosa veramente toccante di lei, era quella grazia, quell'eleganza che accompagnava ogni sua azione. Anche se, come ho già detto, aveva un carattere schietto.
Con i ragazzi non ha mai avuto problemi. Per la nostra casa passavano centinaia di fidanzati. Erano tutti passeggeri, duravano pochissimo. Il più incostante dei due ero comunque io. Nessuno poteva battermi, e per questo per me era ancora più difficile fidanzarmi, giacché cambiavo troppo rapidamente gusti.
Era sempre molto gentile con me, si preoccupava sempre di ciò che mi accadeva. Ripensandoci, mi viene da piangere. La sua figura che come un'ombra calava nella mia stanza di notte ed entrava nel mio letto abbracciandomi forte, è qualcosa di indimenticabile. Aveva un sesto senso per i miei sentimenti. Ogni volta ero un po' giù, anche se non lo davo a vedere, la notte veniva a farmi visita. Poi con calma mi stringeva a sé e tornavo felice qualsiasi cosa era accaduta.
Un giorno di aprile tornò a casa con delle buste. Naturalmente la casa era vuota, ed io con una t-shirt le chiesi cosa aveva comprato.
“Un regalo” rispose con aria severa. “E' per te!” Posando sul tavolo quelle borse di plastica, estrasse vari oggetti. Lì guardai stupito.
“Allora: un libro perché so che ti piace leggere”
“A me non piace leggere!” la rimproverai.
“Fa bene, quindi ti piacerà!” Rispose come se fosse un mio obbligo “E Una Piantina grassa”
Guardai quella piantina minuscola e verde. Fu una splendida idea.
“Ti sfido, se riesci a tenerla viva per almeno un anno, poi ti aiuto a convincere babbo per un cane!” Era da tanto che ne volevo uno. A lei non piacevano molto, ma sarebbe disposta a tenerlo per accontentarmi. In quei momenti la vedevo più come una madre che come una sorella. Una Madre che non avevo mai avuto veramente.
Una sfida eh? Pensai subito che l'avrei vinta. Una Piantina non poteva creare così tanti problemi. Così mi misi a curarla in tutti i particolari. Aveva anche un nome. Cresceva benissimo, si gonfiava e ad un certo punto mi preoccupai che non entrasse più nel vaso.
Fu il suo ultimo regalo.

Con poca attenzione, osservai i giorni passare e arrivò il natale. Quell'anno andai un paio di giorni a casa di parenti fuori città per festeggiare. Facemmo un cenone e cose simili. Hito era a casa, da solo.
Nel tempo che era passato aveva anche lavorato un po'. Data la sua natura non poteva certamente lavorare in modo normale, si sarebbe fatto scoprire. Per questo fece un servizio di assistenza per le persone cieche. Erano soprattutto anziani. Lui non doveva far altro che attendere una chiamata, dove gli veniva data una lista di cose e andarle a comprare. Faceva, quindi, la spesa per conto loro. Era un lavoro un po' così. Non doveva però relazionarsi con nessuno che non fosse la commessa. Fu la prima idea che ebbi e racimolò qualcosa. Nei momenti in cui non era a casa, e correndo andava verso il supermercato, mi sentivo di nuovo oppresso dal silenzio.
Con quel poco che guadagnava poteva comprarsi qualcosa, sotto mio consiglio ovviamente.
Al nostro ritorno a casa, mio padre, scappò subito. Disse di avere un'importante impegno lavorativo o una cosa così. Io dentro di me sapevo, però, che anche lui si sentiva schiacciato dalla malinconia della casa.
Stavo rimuginando sotto le mie calde coperte da solo, mentre Hito era nell'altra camera. Ragionavo su cosa fare a capodanno o cose frivole così. La mia mente era leggera. Mi girai un po' di volta, e quando andai a lanciare un'occhiata alla porta socchiusa notai qualcosa di strano. Da quando ero tornato, il pomeriggio, lui sembrava strano. Non volli chiedere nulla, sapendo che non avrebbe saputo formulare una risposta. In cuor mio speravo sentisse una qualche emozione.
Era lì, sul limite della camera a guardarmi con aria sconfortata.
“Che succede?” Chiesi alzandomi a sedere sul bordo del letto. Ero mezzo addormentato e probabilmente tenevo anche un pessimo aspetto.
“Posso dormire con te?” per una qualche strana ragione a quella domanda ripresi perfettamente coscienza.
“Cosa?” avevo paura di aver inteso male.
Lui abbassò lo sguardo. Io sentii di nuovo quel pianto sommesso. “Non è importante”
“Per favore ripetilo”
Esitò ancora, così con lo sguardo glielo imposi come se fosse un ordine.
“Chiedevo se... potevo dormire con te” No. Non avevo sentito male.
Ero leggermente perplesso, e vedendomi probabilmente si sentì di dover spiegare questa mossa azzardata. “Perché?”
“Da solo non riesco a stare tranquillo”
Cos'era quella frase? Forse un principio con cui lui avrebbe iniziato a sentire il mondo dei colori. Forse un'illusione. Mi convinsi che la casa lo aveva spaventato con i suoi lamenti. E feci spazio nel piccolo letto. Nel silenzio che si andava a creare lui mi fece una domanda che ricordo chiaramente.
“Non sono stato bene”
“Perché?” Domandai quasi preoccupato.
“Quando mi hanno chiamato per la spesa, era come se qualcuno mi ordinasse di non uscire. Come se mi tirassero le gambe” Ascoltai in silenzio, stringendomi involontariamente a lui per il freddo. “Ho avuto una malattia che non conosco. Ogni volta che sentivo una voce dalla strada, o un rumore, mi affacciavo nella tua stanza sperando che eri tu”
Ora comprendo meglio la sua paura. Per una persona che non ha mai provato una cosa come la solitudine, la tristezza o la paura, anche un semplice accenno scatena un'enorme preoccupazione.
“Più volte sentivo la tua voce che mi ordinava di venirti a trovare. Ma sapevo che non era vero, anche se una volta arrivai fino in fondo alle scale. Era un ordine molto forte, ma non veniva da te”
Una volta mia sorella mi disse, che si sarebbe sentita realizzata quando fosse diventata indispensabile per qualcuno. Lo disse anche a me. 'Quando per qualcuno diventi importante, è la cosa più bella'. In quell'istante, nel letto d'inverno capii le sue parole. Con la mente le rivolsi una frase commossa, sperando che potesse sentirmi. Sono diventato abbastanza importante per qualcuno al punto tale da risvegliarlo da un sonno privo di emozioni. Mi voltai verso quel forte ragazzo che stava nel mio letto.
“Che malattia era, Isaac?” Chiese con uno sguardo cupo.
“Nessuna malattia. Hai provato la Solitudine” risposi, carezzandoli la testa. Passando la mano tra i suoi morbidissimi e corti capelli castani o biondi.
Non vorrei avere un ricordo sbagliato, ma sono quasi certo che quella notte dormimmo abbracciati. O, in ogni modo, molto vicini.

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Capitolo 2
*** Svolgimento ***


Act.2

Il tempo passava ignaro dei miei sentimenti. In uno degli ultimi giorni dell'anno entrai in una grande libreria dall'aria molto seria. Era grande e possedeva ben due piani, ma non ci entravo da moltissimo tempo. Ultimamente facevamo alcune passeggiate e stimolavo Hito per estrarre dal suo corpo qualche emozione meno vaga e confusionaria.
Lui si sentiva molto spaventato. Lo percepivo indubbiamente anche dal suo nuovo sguardo. Quel calore o quel gelo che improvvisamente percuotevano il suo corpo lo lasciavano senza parole. Ricordai la prima volta che provai un sentimento, mi inebriava a tal punto da farmi dimenticare del mondo. Con un calcolo, pensai allora a come doveva sentirsi lui a testare per la prima volta tutti quanti gli stati.
Lo tenevo vicino a me, anche in mezzo a tutti quei libri. Con disinvoltura ne aprivo alcuni, leggevo qualche breve trama e poi passavo oltre. Era cambiato molto dall'ultima volta. Quel negozio si trovava vicino casa mia, eppure, avevo dimenticato molti suoi particolari.
Entrando tra due piccoli scaffali, dove erano contenuti svariati vocabolari, la mia mente cadde in trance. Uno stato che durò un secondo ma mi fece piangere. Mi ricordai che dopo la sua morte avevo evitato tutti i luoghi la ricordassero.
Lei amava molto i libri.
I proprietari mi salutarono distaccatamente, si ricordavano bene il mio volto. Io e Sarah avemmo una specie di incidente dentro del luogo.

A quel tempo, uscivo sempre con lei nei momenti di vuoto. Quando sentiva che ero giù, o mi annoiavo: lei disdiceva sempre tutto ciò che aveva da fare e mi portava a giro. Fin da piccoli passavamo molto tempo assieme.
D'inverno fa sempre molto freddo. Eravamo tutti bardati, ma entrando nella libreria iniziammo a sudare. Era davvero molto caldo là dentro. Mi slegai la sciarpa e tolsi il giubbotto. Nello stesso istante, in maniera istintiva, tirai su le maniche della felpa, lasciando scoperti i polsi.
Era dietro di me. Con un fare preoccupato posò il libro che stava sfogliando e venne verso di me afferrandomi.
“Cosa hai fatto qui?” Chiese indicando un mio taglio. Non era molto grande e stava proprio vicino al polso sinistro. Sembrava uno quello che gli aspiranti suicidi si fanno con le lamette. Nel mio caso era nato diversamente.
“Mi sono tagliato”
“Con cosa?”
“Con un coltello”
“Perché?”
“Perché mi andava”
Aveva sempre posseduto un pessimo senso dell'umorismo. Io, dal canto mio, scherzavo sempre nei momenti meno adatti. Facendo saettare il suo fragile braccio, mi colpì violentemente. Uno schiaffo ben piazzato. Quel rumore ruppe il silenzio del negozio.
“Sei un cretino!” esclamò subito dopo quel gesto.
“Te sei cretina! Stavo scherzando!” Mi giustificai. Quel taglio me lo procurai tagliando una qualche verdura. Io non so come si usano i coltelli da cucina o come si tagliano gli oggetti. In quel momento poi, stavo anche guardando una scenetta alla TV. Senza accorgermene tagliai dalla parte sbagliata.
Era comunque una ferita di poco conto. Ma Lei ci aveva creduto e si era arrabbiata. Uscì dalla libreria in un lampo, senza riprendere neppure la giacca, come se mi volesse far sentire in colpa. La seguii e le chiesi scusa. Lo fece anche lei.
Il Modo violento con cui si era preoccupata per me fu molto importante. Lo era sempre stato. Lei esternava la sua preoccupazione così, con un pizzico di rabbia. Mi faceva sentire protetto. Sentivo che il suo piccolo corpo potesse affrontare per me i più terribili problemi. È quella la cosa che mi manca di più.
Non è il fatto sia morta senza dirmi nulla, senza chiedermi il permesso. E' la mancanza dei suoi gesti schietti ma eleganti, che crea in me un vuoto.
Un vuoto che io avevo vigliaccamente riempito con un essere umano dalla fantasiosa storia.

Sfogliando un vocabolario, venni a sapere che il nome di Hito non era altro che un termine giapponese. Significava “essere umano”. Decisi così che dovevamo trovargli un nome adatto.
“Ti andrebbe di cambiare nome?” Chiesi avviandomi verso l'uscita. Seguendomi a ruota guardò un po' in giro pensieroso.
“Le Persone non cambiano nome” rispose lui. Con calma, però, terminò la frase con la solita formula. “Se così desideri a me va bene”.
I suoi modi di fare non erano cambiati affatto. Benché ora provasse un minimo di emozioni, per quanto caotiche e difficilmente riconoscibili, continuava a sottomettersi in pieno alla mia volontà.
“Voglio sapere se tu sei d'accordo” lo ripresi io. Sottolineai quel 'tu' con la voce. Doveva iniziare a decidere.
Lui ci pensò lasciando trasparire solo una punta di dubbio. Doveva essere scosso. “Quale nome prenderei?” domandò.
Mi portai una mano al mento lasciando che in quella tiepida mattina di dicembre il mio fiato diventasse fumo. “Ne cerchiamo uno che ti potrebbe piacere”
Non ci fu storia. Per quanto cercassimo lui non riusciva ad esprimere una preferenza e così rimandammo la decisione. Sfogliava in continuazione riviste, pensava a lungo e alla fine chiedeva sempre a me un'opinione.
Quella stessa sera, gli dissi che a capodanno sarei stato con degli amici. Era una cosa un po' egoistica, ma scelsi così. Spiegando le mie ragioni, poi, lo convinsi a rimanere a casa senza seguirmi. Accettò leggermente cupo. Più volte mi passò per la testa l'idea di rimandare tutto e rimanere assieme a lui, ma non riuscivo a metterla in atto.

Così capodanno arrivò e io mi ritrovai a festeggiare per la strada di un paesino lontano. Ridevo e scherzavo, stava accadendo di tutto e si attendeva la mezzanotte con ansia. Io e una mia amica andammo in una casetta, che era di proprietà della sua famiglia, a prendere lo spumante da stappare. Ci sarebbero stati anche i fuochi. Ero emozionatissimo. Mentre uscivo sentii un odore familiare. Non sono un cane, assolutamente, ma ho una grande percezione degli odori. Mio padre una volta mi raccontò che la mia presunta madre riusciva a percepire moltissime cose. Perfino a differenziare le persone in base al loro odore individuale. Anche se non sviluppato come il suo, avevo un buon olfatto.
Quell'odore inebriò l'aria per un poco, con una traccia sottile. Era comunque un odore che mi giungeva in profondità nel corpo, inebriandomi e portandomi a seguirlo come facevano i bambini alla musica del flauto magico. Uscendo dalla casa, con in mano una sola bottiglia, vidi poi la sua sagoma cercare tra la gente lì attorno. Non era stata una coincidenza.
“Scusa, Anna,. Vai avanti, vi raggiungerò più tardi” Dissi con naturalezza. Non lo avevo certo deciso io di dirlo, le parole uscirono e basta. Quel profumo ormai muoveva il mio corpo.
“Perché? Dove vai?”
“Devo fare una cosa importante. Non preoccuparti...” sparii tra la folla con quella bottiglia.
Quando mi vide arrivargli davanti, probabilmente ebbe paura. Il suo volto si tramutò in qualcosa di pallido e per la prima volta vidi una goccia di sudore accarezzare la sua fronte. Accennò uno scusa. Lessi tra le righe il suo dispiacere. Una persona normale non si sarebbe spaventata così. Lui, probabilmente, non riusciva ancora a controllare quei sentimenti tanto fantastici quando sconosciuti che lo coinvolgevano fino al midollo. Era tutto elevato al massimo.
Ragionandoci un poco si potrebbe non capire di cosa avesse realmente paura. Io in quell'istante pensai distintamente che avesse paura di essere lasciato di nuovo solo. Abbandonato.
“Cosa ci fai qui?”
“Mi dispiace. Non so come ma avevo freddo, e poi la casa mi diceva di seguirti. Non dovrei obbedire alla casa ma c'era qualcuno dentro di me che lo diceva... e...e...” tentava di giustificare quello che aveva dettato inconsciamente il suo cuore. Parlava e gesticolava imbarazzato come un bambino quando deve inventare la scusa migliore per un vaso rotto. Tra le cose che disse, intuii che stavolta i sentimenti erano più nitidi e forti. Tremai. Era un po' che un brivido del genere non attraversava la mia schiena, partendo dalla fine fino a farmi rimbombare la testa. Avevo paura che tutte quelle emozioni così forti e improvvise l'avrebbero distrutto.
Prendendolo sotto braccio, senza dire una parola, lo portai via dalla folla. Andammo a nasconderci dalla gente. Le luci del paesino erano tante, un luogo fuori città dove però avevamo deciso di andare. Era una specie di borgo tipico medioevale, con strade strette e su una collina. Muovendoci tra quelle vie piccole e tenebrose arrivammo vicino al verde. Credo fosse un parco abbastanza recente, lontano dal centro antico.
Era deserto.
Non c'era anima viva, nessun rumore. Sembrava una scena da film horror. Le altalene si muovevano un poco al vento. Andammo proprio lì a sederci.
Accomodato su quel nuovo gioco, con la bottiglia in mano, lo guardai sorridente.
“Sei venuto a piedi?” ne era perfettamente capace. Un corpo perfetto come il suo non sentiva stanchezza nemmeno dopo essere giunto fin qui a corsa. Mi resi conto del freddo vedendolo in maniche corte.
“Si” era silenzioso. Non so perché ma pensai così. Di solito non diceva molto, però mi sembrò che quel silenzio, quel giorno, fosse diverso dalla norma.
“Ho disobbedito ai tuoi ordini” aggiunse.
“Non importa. Hai obbedito al tuo cuore” mi sembrò tanto una frase da ragazzina. Una cosa da storia rosa dove i sentimenti sconfiggevano il male e le malvagie interferenze. Però, fu la cosa più seria che riuscii a pensare in quel momento.
“La decisione del mio cuore vale più degli ordini?”
“Vedi, Hito” iniziai a gesticolare di sicuro “A volte il cuore ti dice di fare delle cose che vanno contro le regole. Contro gli ordini o altre cosette varie. Devi decidere a quel punto cosa fare”
“E' difficile scegliere”
“Beh, funziona così. Accade moltissime volte durante la vita. Non solo riguardante questo argomento. Essere umani comporta fare scelte. Anche se può sembrare difficile, o perfino impossibile, devi decidere una delle possibili soluzioni”
“In Base a cosa?”
“In base a ciò che ti fa più piacere, contando anche il piacere degli altri. Io ad esempio preferirei restare a casa una sera, ma preferisco andare a cena con mio padre perché fa piacer a lui. Bisogna saper scegliere.” Ero confuso anch'io “...insomma non lo so. E' difficile”
Non esitò. Mentre io pensavo e ripensavo, lui partì con un'altra domanda.
“A te ha fatto piacere?”
“Ha fatto piacere a te” risposi. Non era una vera risposta. Stavo tentando di ragionare con me stesso.
“Ha fatto piacere a te?” lo domandò ancora, serio e deciso. Mi stupì.
“Insomma... si” non ne ero convinto. Mi guardava con i suoi profondi occhi e non potevo stare in silenzio.
“Non è vero”
Rimasi immobile. Paralizzato dalle sue parole. Fu la prima volta che mi contrariò. Stava diventando capace di ragionare indipendentemente. Inoltre il suo tono non lasciava vie di fuga.
Prendendo i miei tempi, elaborai qualcosa.
“Si. Mi Ha fatto piacere. Certo, hai interrotto i miei festeggiamenti, ma hai trovato la forza di agire per conto tuo. Questa volta mi hai piacevolmente sorpreso” Mi alzai ed andai vicino alla sua altalena. Con sincerità cercai i suoi occhi e fu facile creare un contatto.
“Che ne dici di andare a sederci e aspettare la mezzanotte?” domandai tirandolo per una mano.
Con fare disinvolto, andammo su una panchina tra gli alberi. Illuminati da uno smilzo lampioncino. Pensai molte cose al suo fianco. Seduto su quella panchina verniciata di verde, mi prese lo sconforto.
Pensai che nel fondo del mio cuore avevo sperato, fin dalla mia partenza, che lui fosse venuto lì con me. Mi mancava la sua presenza impassibile. Che sentimento era?
Prendendo un po' dei miei colori, mi aveva dato un po' del suo vuoto e ora non potevamo sentirci completi se non eravamo vicini. Chi era lo schiavo e chi il padrone adesso? Lui che cercava me come un alcolizzato cerca la bottiglia; perché ero la persona che riusciva a farlo sentire vivo, oppure io che vedevo in lui un rimpiazzo di mia sorella.
Era una cosa come l'amore.
La testa fu invasa da questa idea. Non un'amore normale. Era qualcosa che andava al di là dei nostri generi, al di là dei nostri corpi e delle nostre anime. Non riuscivo ad accomunare quell'amore a nessuno di quelli conosciuti. Né amanti né fratelli. Amore e basta.
Senza malizia di sorta, ero sicuro di poter urlare al mondo che lo amavo nel senso più pieno del termine. Mi sentii un po' confuso, forse stavo esagerando.
Posando la mia testa sulle sue gambe e stendendomi sulla panchina attesi la mezzanotte discutendo di varie cose. Come un ragno tessevo la mia tela attorno a lui. Mi resi da subito conto che però era una farfalla troppo grande: con le sue ali sarebbe comunque riuscita a distruggere il mio lavoro e fuggire.
Al di là dei miei stupidi ragionamenti, riuscii a cogliere il senso più profondo della cosa. Mia sorella era morta. E per quanto questa cosa mi strappasse lembi di cuore non potevo farci nulla. Anche se avessi vissuto altri cento anni non sarei più riuscito ad incontrarla. Mi resi conto allora che non potevo fare altro che proseguire lungo la mia impervia stradina chiamata futuro voltandomi solo di tanto in tanto, al necessario. Ignorare il proprio cuore è brutto, era anche incoerente con ciò che avevo detto prima, eppure in questa situazione era l'unica scelta.
E' triste doverlo dire ma continuando a piangersi addosso le cose non facevano che peggiorare.
Accomodando la posizione della mia testa, chiusi lentamente gli occhi. Lui, con la grande mano mi carezzò la testa. Sarah avrebbe fatto lo stesso. Ma Lei non era lì e non ci sarebbe più stata. Senza piangere, senza pensare alle più immonde tragedie la rividi traversare la strada salutandomi, come fece la volta prima di essere investita a morte da qualche folle.
Sentii il suo corpo sciogliersi ed unirsi ai miei pensieri. Lei non sarebbe stata contenta di vedermi in quello stato. Così, come regalo di addio, ripensai un'ultima volta alla sua voce. Sicuramente l'avrei dimenticata con il passare del tempo.
Forse piansi solo un poco, ma non ero da solo. Non più.

Gennaio e febbraio passarono leggeri senza darmi problemi. La Presenza di Hito nella casa la rendeva più luminosa. Quelle mura non era più costrette ad assorbire la mia malinconia, ora lui era sempre euforico nel provare nuove cose. Ormai stava diventando normale. Che parola brutta.
Era iniziato marzo da poco. L'inverno volgeva al termine, e io, volevo passare una giornata stancante. Ogni tanto mi prendeva un'idea così. Correvo, andavo qua e là, pur di tornare a casa stanchissimo e sudato. Per poi poter dire “Ah, è stato proprio faticoso”.
“Hito, che ne dici di andare al mare?”
Lui mi raggiunse in camera. “Al mare? Ma non è lontano?”
“Saranno una quindicina di chilometri. In un'oretta di bici ce la faremo!” Ero entusiasta.
Ultimamente poteva permettersi di interpretare ciò che sentiva. Quindi a volte diceva “mi annoio” oppure “è molto bello”. Aveva la stessa semplicità di un bambino. Quel giorno mi sorrise con la sua grande bocca. “E' una buona idea”.
Non posso vantarmi di vivere in una città super attrezzata, ma c'era una pista ciclabile che conduceva al mare passando tra i prati e la campagna. Imbracciata una bici per uno, presa una giacca e portandoci qualcosa da sgranocchiare e qualcosa per bere, partimmo. Uh! Il vento che mi passava addosso, i prati verdastri e gli alberi ai lati della strada. Ogni tanto incrociavamo una strada, facendo attenzione andavamo oltre. E' una sensazione fantastica.
Raggiunta la fine di un nuovo tratto, vedemmo una strada da attraversare per giungere al nuovo pezzo. C'era un ponte subito dopo. Proprio lì, tra il ponte e la strada, in quell'incrocio, erano posati dei fiori.
“Perché ci sono dei fiori?” domandò lui incuriosito.
“Beh, vuol dire c'è stato un incidente”
“E' una cosa brutta, accadde anche a tua sorella vero?” lo chiese con troppa naturalezza, anche se notavo la sua espressione piuttosto cupa. Non ricordai quando glielo avevo accennato, ma lo era venuto a sapere. Forse da qualche amico mio che ogni tanto incontrava.
“Si” Rividi la mia strada della vita. Senza volgere lo sguardo indietro riuscii a mantenere la mia promessa. Ero sicuro che anche voltandomi l'avrei solo vista sbraitare dicendo “Ehi! Io mi sono fermata qua, ma te prosegui!” la volevo vedere così.
Lui si avvicinò un poco, tirando la bici. “Scusa se ti ho fatto ricordare una cosa triste”
Risposi posando solamente la mia mano sulla sua alta spalla e facendo un cenno con il capo. Non era importante in quel momento.
Avevamo avuto più volte l'occasione di passare, ma eravamo impegnati a capirci che la strada non la notavamo neppure più.
In un'ora giungemmo sulla spiaggia.
Mi chiese se poteva fare il bagno. Quando risposi di no, iniziò a lamentarsi.
“Perché non posso?” domandò. Io mi ero steso sulla sabbia, con sotto un telo vecchio. Il vento fresco trapassava le mie vesti giungendo alle ossa. Guardai il mare che brontolava.
“Perché non hai il costume”
“E che importa!”
“Importa, importa”
“Se da così tanti problemi lo faccio nudo” si sistemò vicino a me, sulla sabbia tiepida. Mi ricordai che ancora non aveva ben chiaro il concetto di pudore. Anzi lo sapeva ma non provava vergogna. Anche in casa spesso sembrava dimenticarsi di queste leggi così umane.
“E su! Rimani qui con me!” feci finta di essere rammaricato e non disse più nulla. Facendo spazio lo feci entrare sul telo. Le onde brontolavano un po' e la spiaggia era deserta. Che pace, che serenità.
Con un rapido gesto mi sfilai le scarpe e le calze, ripiegai i pantaloni fino al ginocchio e corsi verso l'acqua. “Vieni! Mettiamo i piedi a mollo!” Ripeté i miei gesti e arrivò al mio fianco guardando l'orizzonte affascinato.
“Perché fai così?” mi chiese senza guardarmi. Il suo corpo in controluce, di profilo, era davvero bello.
“Per sentire com'è l'acqua a marzo!”
“D'estate questa spiaggia è molto affollata?” Stavo con lui solo da ottobre, me ne ricordai in quel momento.
“Si. Succedono sempre molte cose” Guardando il mare, con la luce contro, sentii la sua tristezza. Il Mare è triste. Le sue onde malinconiche rilasciano ricordi di qualche estate che non potrà mai tornare. Eppure, per quante cose abbia visto, per quanta nostalgia possa provare, il mare è sempre mare e continuerà a fare quello che ha sempre fatto.
Hito sembrò capire i miei pensieri guardando la mia faccia corrugata. Voltandomi lo vidi intento a fissarmi e sentii la sua mano entrare nella mia testa per capire i miei pensieri. Mi sentii caldamente violato.
“Trasmette qualcosa di infinito, ma non è classificabile né come felicità né come tristezza” Aprì la bocca e parlò. “Comunque è bello”
Avanzai un po', tirandomi su i pantaloni che stavano cadendo verso l'acqua limpida. L'acqua mi gelò i polpacci, ma era una questione di principio.
Anch'io di profilo e in controluce acquisivo qualcosa di speciale.
Sulla via del ritorno mangiammo dei biscotti portati da casa. Ci eravamo fermati su dei tavolini posti a metà pista ciclabile. In solitudine, con il sole ancora abbastanza alto. Gustammo tutti i biscotti, dal primo all'ultimo.
Stavo passando uno splendido anno.

La mia felicità spensierata terminò quando iniziarono quelle chiamate.
Una voce femminile che non riconoscevo mi chiedeva sempre a orari regolari “C'è il signor F.?”
Io rispondevo: “No, sono il figlio. Vuole che le dica che ha chiamato?” Oppure “Mi dice il suo nome?” o altre cose simili. Riattaccava sempre.
Arrivai a pensare fosse la sua amante segreta. Una sciocchezza però. Mio padre non aveva mai cercato una donna da quando la mamma era scappata. Non sembrava volerne una. Si era tuffato nel lavoro, tralasciando ogni altra cosa. Non ricordavo con precisione il suo viso. Avevo solo dieci anni quando se n'era andata. A differenza di quella di mia sorella, la voce della donna che mi ha partorito era indimenticabile. Cantava e scandiva ogni parola come una fata dei boschi. Tentai di ricordarla ancora una volta, anche se da tanto non lo facevo.
Assorto in quei pensieri il telefono suonò.
Uno, due, tre squilli. Mi alzai per rispondere.
“Vuoi che risponda io?” mi chiese Hito, ma con la testa feci di no.
Alzai la cornetta con delicatezza. “Pronto?”
“C'è il signor F.?”
Come un bambino che scopre per la prima volta il sapore delle caramelle, io rimasi abbagliato da ciò che emanava. Era proprio come la voce che mi suonava adesso in testa. Identica ai ricordi. Il suo tono così particolare era inconfondibile. Lo so, era azzardata come ipotesi. Ma da quel momento in poi diedi per scontato la sua identità.
L'atmosfera sognante che la memoria esercitò su di me, rese tutto molto drammatico. Era come se il mio cuore avesse paralizzato ogni suo ricordo per poterla riconoscere meglio.
“E' una settimana che chiama. Lo vuole capire che c'è solo nei fine settimana? Perché non chiama la domenica?” Fui piuttosto diretto, strinsi con forza il ricevitore e urlai. Lo stress di quelle chiamate fu amplificato dalla sua assenza in quegli anni. Al di là, nessuna risposta, solo un respiro. “Se continua così la denuncio” fu l'ultima cosa che dissi. Ero intenzionato a riattaccare, ma attendevo con ansia una qualche risposta. Come quando stai per buttarti da un pendio, ci fu un secondo di eternità. Un attimo interminabile in cui pensi a moltissime cose ma non riesci a concludere nulla.
“Vediamoci davanti alla stazione alle cinque” Riattaccò. Che voleva?
Attesi quell'ora con impazienza e arrivai alla stazione in anticipo. Per quanto avesse insistito, vedendomi preoccupato, lasciai a casa Hito. Pensavo molto.
Veloce mi sedetti su una panchina e attesi. Aspettai dieci, venti minuti ma non vidi nessuno. “che cretino” mi dissi. Non sapevo neppure come era fatta. Poteva essere perfino diventata un uomo e non avrei potuto saperlo. Eppure aveva un'aria nostalgica in quella sua monotona domanda.
D'un tratto una donna si sedette accanto a me. Frettolosa e con due grandi occhiali da sole. Mentre io avevo solo jeans e maglietta leggera, lei aveva un giubbotto, scarpe con tacco e gonna. Era molto elegante.
“Sei Isaac vero?” Chiese con un'aria pacata. Feci di si con la testa. “Ci avrei scommesso”
Si tolse gli occhiali. Aveva un aspetto sciupato nonostante non fosse poi così avanti con gli anni. Lunghi capelli biondi e occhi chiarissimi e sottili. Mi ricordò mia sorella in un modo molto strano. Come un'ombra sinistra la sua anima si affacciò su di me.
“Ti chiami Isabella giusto?” domandai volendo sembrare il più freddo possibile. Dovevo farla sentire in colpa. Il suo nome le lo ricordavo abbastanza chiaramente.
“Si, ma non importa. Ero venuta per tuo padre ma ormai mi accontento di te”
“Domenica non hai chiamato”
“Non sai fingere così bene...” Esclamò. Aveva una voce melodiosa.
Mi fermai a guardarla. Trasmetteva un'emozione strana che a descriverla perderebbe tutto. Mi riportava alla mente vecchi ricordi e le mie promesse sul passato venivano tutte smembrate solo da quel gelido sguardo.
“Domenica non hai chiamato” ripetei.
“Non vuoi chiedermi nulla? Dove sono stata tutti questi anni. Mi sarei immaginata un incontro come quelli dei film”
“Domenica prossima puoi riprovare”
“Non sarò più in città.” mi interruppe lei accigliata. Fu veloce nel dare quella risposta, sfumandola con un po' di amarezza.
“Hai pensato mai di tornare a vivere con il babbo?”
Lei cercò la mia mano per un attimo. Fui diffidente. “No” aspettò una mia risposta, anche solo uno sguardo o forse solo un pensiero per capire come reagii e continuò:
“Anzi, qualche volta si. Però sapevo che non avrebbe funzionato. Non c'erano le basi sentimentali. Ho deciso di restare nascosta e rifarmi una vita da zero. La sofferenza iniziale della solitudine era nulla rispetto a quello che avrei provato alla fine tornando con lui”
Non esitai ad additarla come una pessima madre con un commento serpentino. “Anche per Isaac e Sarah non c'erano le basi sentimentali?”
Rimasi in silenzio cercando di capire i suoi enigmi. Non ci riuscii nemmeno un poco. La sua presenza così evanescente sembrava dover essere portata via da una folata di vento primaverile. Non mi sarei stupito se fosse successo davvero. Fu addolorata della mia frase, me ne pentii subito. Non ero una persona così meschina.
“Tua sorella non ha mai voluto incontrarmi. Riuscii a sentirla comunque qualche volta al telefono o via lettere. Con scarsi risultati ovviamente” Non era una risposta.
In quel momento della mia vita, ormai, era alla stregua di una sconosciuta. La cosa più brutta che potessi fare era dirglielo ma evitai. Me ne accorsi perché sentivo i suoi sentimenti come in Hito avevo visto il vuoto. Era una tristezza enorme, ma che il tempo aveva logorato.
“Lei era molto arrabbiata con me. Mi impedì anche di contattare te. Era molto feroce con me, come se volesse farmi morire solo con delle parole”
Mia sorella era morta tenendomelo nascosto. No. Forse me l'avrebbe detto quella sera, o il giorno successivo. Dopotutto non ha deciso lei di morire così. Con il sottofondo scosso dalla gente che si muoveva avvicinai il mio spirito al suo gracile corpo.
“Hai una famiglia?”
“Ora si. Ho anche un figlio. Forse un giorno ti contatterò di nuovo e lo incontrerai” Giusto. Lei sapeva di me ma io non sapevo di lei. Lo trovai limitante al pari di una cicatrice ben visibile.
“Salutameli tutti”
“Loro non sanno che ti ho cercato. Non ho parlato loro molto della mia vita precedente” Mi ferì profondamente ma era meglio così. “Ops. Ora devo andare. Il treno partirà tra pochissimo” Si alzò il più velocemente possibile. Pensai che sarebbe caduta a terra per colpa dei tacchi ma mantenne un perfetto equilibrio.
“Non rimani di più?” Feci una domanda per volta, legandole però in un'unica frase. Lei di risposta mi guardò rimettendosi gli occhiali.
Iniziò ad allontanarsi. “Addio, anche se spero che in un qualche momento la vita ci faccia incontrare di nuovo. Se Fosse per caso risulterebbe magico” Chiunque fosse, mi aveva rubato qualcosa. Anche lei, come Hito, avevano preso da me qualcosa che avrebbe riempito il loro vuoto. Non la potevo però rimproverare di questo. Quella sua ultima frase lasciò un buon profumo nell'aria.
La pensavo così anch'io. Sorridenti o in lacrime, ad una festa o un funerale, sperai di rivederla con quel sorriso significativo. Era ormai alle mie spalle. Io stavo ancora seduto immobile. Seguendo il rumore dei suoi passi rimuginai un poco.
Anche se non la vidi, sono sicuro che sorrise. “Bye Bye darling” Trasalii e mi voltai. Non c'era più nessuno. Solo la traccia del suo sorriso che svaniva nell'aria di quella stazione affollata.
Andai al cimitero dove non tornavo da tanto. Era stata anche lì. Con una traccia profonda di emozioni e dei bei fiori bianchi, era riuscita a contrassegnare anche la tomba. Non mi rattristai. Il suo profumo mi lasciò la bocca amara e secca. Allontanandomi da quel luogo, fui colto da una sensazione spregevole.
Forse non sarei mai più risuscito a vederla. La sua tristezza repressa sarebbe riuscito ad esaurirla presto.

Quando ti rendi conto che avevi ragione. Quando sai che non poteva andare diversamente, ma infantilmente ci avevi sperato. Tutto diventa stranamente più pesante.
Una Piuma cadde al di là della mia finestra. Io ero svegliò sotto le mie calde coperte. Da solo.
Non l'avrei davvero più vista.

Mentre, con calma e senza rendermene conto, io cadevo sempre di più nel mio tragico vuoto interiore, il tempo insensibile andava avanti. Ogni giorno, Hito, mi proponeva qualche cosa.
La sua gioia nel vivere ogni giorno in modo frenetico, le sue emozioni così improvvise e travolgenti, erano una spiaggia sicura in cui rifugiarmi. Forte della sua presenza, alleviai la malinconia.
“Tuo padre un giorno verrà a scoprire che dormiamo assieme”
Era vero. Durante le ferie o in un fine settimana dove si svegliava presto sarebbe venuto a conoscenza di questo segreto. “Vabbè, passeremo per una coppia omosessuale”
“Non ti infastidisce?”
“E' un uomo che sa tenere un segreto se glielo chiedo. Passandola per una relazione che non vogliamo diventi pubblica lui annuirà e non farà domande”
Fece spallucce, forse era imbarazzo o un'operazione troppo difficile. Anche se sentiva qualcosa dentro, non era definibile al pari degli altri. La profondità e la sfumatura con cui io sentivo certi sentimenti non era paragonabile alla sua, così rozza e improvvisa.
Una miriade di facce così semplici che mi facevano impazzire ugualmente.
Alcuni pomeriggi mi accorgevo di come stavo trascurando gli amici di sempre. Uscirci era diventato più difficile. Ogni volta che andavamo a giro, se stavo troppo fuori, mi ritrovavo Hito a corrermi dietro. Trattenersi era un traguardo difficile. Pensai comunque che durante l'estate avrei preso più tempo per loro e glielo dissi. Mi risposero che ognuno ha i suoi tempi e che avrebbero atteso. Mi sentii orgoglioso di avere attorno gente così.
Una sera, con lui, andai a fare una passeggiata. Una cosa tranquilla, tra gli alberi del parco giochi. Con un gelato e sopra le teste il limpido cielo di un dolce aprile, alzammo le nostre anime. La distanza tra quel cielo scuro ornato di gioielli e la terra sulla quale sedevamo, non esisteva più.
Ripensando a noi due. Mi si strinse il cuore.
Forse, scoprendosi capace di pensare per conto suo un giorno sarebbe uscito per sempre dalla mai vita. Dicendo una cosa semplice, o un grazie forzato, sarebbe svanito. Possibile?
Possibile quindi che mi avrebbe tradito solamente raggiunta l'indipendenza.
Si avvicinò a me, i dubbi svanirono tranciati dal sottile vento notturno.
“Un giorno mi renderai libero?” mi ero scordato che fosse ancora il mio servitore.
“Certo. Appena sarai indipendente” Qualsiasi cosa fosse accaduta, io ero intenzionato a mantenere quella promessa.
“Tanto rimarrò vicino a te”
“Non vuoi andare, ad esempio, a cercare il tuo creatore?”
“No. Non sento nulla nei suoi confronti”
“E' una cosa brutta” Dissi abbassando lo sguardo. Lui si girò verso di me. Convinto di quello che diceva.
“Lo so” Il solo fatto che se ne rendesse conto era significativo. Mi strinsi a lui usando le sue braccia come coperta. Ero uscito leggero e avevo freddo. Un freddo pungente. “Potrei comprare una casa tutta mia”
“Affittarla è meglio. Sarà comunque difficile”
“Troverò anche un lavoro.”
“Hai delle certificazioni di studio?”
“Certamente. Il mio creatore mi ha imposto di fare regolarmente esami privati”
“Così quando sarò triste, annoiato o mi sentirò solo verrò da te” Sentii un piacevole calore.
Lui mi guardò stupito, allontanandosi un poco. Ai piedi di quello scivolo le nostre figure si staccarono un attimo. “Non verrai a stare con me?” la sua domanda mi colse improvvisamente inerme.
“Non funziona proprio così. Non posso ancora farlo. Devo essere un po' più grande” Glielo misi su questo piano. Lui annui e si riaccostò al mio piccolo corpo.
“Allora non cercherò un nuovo posto fino a che non sarai pronto. Non voglio stare da solo”
Che sia per il vento freddo, o per la semplicità con cui pronunciò quella frase, il mio corpo si gelò. Mi colpì dentro, nella parte più intima ed inviolata del mio animo.
Credo che quel giorno il mio stato di colori si ricreò, traspirando il vuoto che avevo accumulato. Hito, ormai lo aveva già gettato via tutto. Non gettai via tutto il vuoto incolore che permeava la mia pelle. Alle persone un po' di nulla, di ignoto dentro di sé, serve.
Sorrisi addormentandomi così, fu lui a portarmi a casa. A volte si cambia senza rendercene conto.
Qualche volta un 'sé stesso' muore e ne nasce un altro. Ma noi non lo capiamo. Non so, credo sia così. Non voglio intenderlo come un male, semplicemente come un cambiamento. Ma cambiare fa paura, soprattutto se avviene velocemente.

Sentimenti.
Per quanti ne proverò ancora nella mia vita, travolgenti o superficiali, rimarranno tutti nel mio cuore. Ogni piccola sensazione sarà registrata. Non voglio perdere nulla della mia vita.


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Vorrei sapere i vostri pareri su questa fic ^^

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Capitolo 3
*** Conclusione ***


Act.3

Aveva sicuramente ragione mia sorella, quando stringendomi per la maglia mi diceva che per crescere non basta il tempo e neppure semplici esperienze. Sono le emozioni, l'amore e la solitudine, la malinconia e la gioia, a far maturare gli esseri umani.
Un giorno timido di Giugno, Hito mi portò in un luogo.
Prendemmo un bus, poi passeggiammo per una mezz'ora buona. Sembra si fosse informato con cura. Non parlò molto, ma vidi stavamo andando verso il mare. Partiti nel primo pomeriggio, giungemmo nel luogo deciso verso le quattro.
Davanti ai miei occhi si aprì una bellissima spiaggia. Bianca e silenziosa. Ma soprattutto deserta. In qualche giornata in cui io ero a trovare amici, o a uscire con loro, lui aveva fatto un salto al mare. Chissà quanto tempo aveva perso a cercare la spiaggia più bella.
“Che posto è questo?” Chiesi incredulo.
“Una spiaggia. L'ho notata un giorno” Mi rispose “Non sembrava molto triste questo mare” Mi colpì molto il modo con cui lo disse. Ci Credeva davvero. Benché il mare fosse uno solo, da quell'angolazione dava una tiepida gioia. Mi aveva fatto portate un costume e qualcosa da mangiare apposta.
Facemmo un bagno.
Nel tardo pomeriggio mi colse un senso di magra stanchezza. Lui si stese accanto a me lasciandomi riflettere. Aveva capito che avevo dei momenti in cui la terra scivolava via e la mia mente rimuginava con se stessa. In quei minuti di imperiale silenzio, dove solo il mare e gli insetti creavano musica, io mi avvicinavo ad uno strato più profondo dell'animo.
Mi resi finalmente conto che i colori che mi aveva rubato non erano stati una sconfitta. Tutti i miei colori, la mia carica, sopprimevano gli altri. Con il tempo, mi sarei isolato in un vuoto allegro che mi avrebbe inglobato come una bolla. Da quando era morta mia sorella, però, quei colori che sgorgavano dentro di me erano l'unica cosa che mi dava la voglia di rimanere vivo. Regalandomi un po' del suo vuoto, ingenuamente, Hito mi aveva reso migliore. Quel vuoto dove ogni tanto ti perdi e non pensi a nulla, dove non rifletti sui problemi. Quel nulla di ignoranza che mi rendeva curioso e attento.
In questa storia avrei voluto chiamarmi Luce e nominarlo Ombra. Tanto per poeticamente dire che dentro di me nascondevo un po' di oscurità e lui una pallida fiaccola di speranza.
Avrei voluto chiamarmi ragno e nominarlo farfalla. Per poter ammettere di non essere riuscito a chiuderlo nella mia tela ma essermi comunque legato a lui e volato alto grazie alle sue ali.
Ma io mi chiamo Isaac e lui Hito. Non c'è nessuna cosa così fantastica nei nostri due nomi. Pensandoci, potevo chiamarmi B e lui Y ma non cambiava la sostanza.
Lui ha una piccola fiaccola ed io una piccola ombra, lui mi ha fatto volare e mi sono aggrappato forte. Indifferentemente dal nome.
E' la cosa più importante.
Mi ricordo di mia Nonna che quando avevo sei anni mi disse, poco prima della sua morte, di aver rinchiuso la sua anima in un libro. Lo conservo ancora, anche se l'illusione è sparita continuo a dire qualcosa a quel vecchio tomo. E' la magia del cuore che mi permette di farlo. Se mai dovessi morire, concederò la mia anima a lui ovunque sia.
Mia sorella era morta, mia madre scappata, mio padre si nascondeva nel lavoro e lui era con me. D'un tratto la mia vita sembrò ordinata.
Per quante vite potessi provare, quella era quella che mi stava meglio. Per quanto avessi potuto campare ancora, non avrei mai incontrato qualcuno come lui. Pensai che un giorno avremmo dovuto confrontarci con il nostro amore. Decidere in che categoria fosse tra quelli esistenti, se fratelli o amanti, togliendolo da quell'espressione così pura che aveva mantenuto.

Il sole iniziava a diventare rosso e a perdersi nel mare, così pensai di avvicinarmi a lui e al suo calore. Di sera tendo ad avere le paranoie.
Ah! Eccone una che lenta si affacciò alla mia mente. Ma con questi pensieri sperai di addormentarmi.
Un giorno mi avrebbe abbandonato. Sentii di esserne sicuro. Anche per questo dunque, continuai ad approfittare dei suoi caldi abbracci evitando di pensare a quel fatidico momento. Ed evitando di pensare quanto avrei sofferto nel vederlo andare via.
Mi strinsi a lui un'altra volta. Il mio fragile corpo si mischiò alla sua figura imponente.
Sul finire della giornata, davanti ad un sole rosso che tramontava, sentii le nostre anime unirsi. Avevamo trovato un equilibrio di perfetta armonia. Per un attimo sperai che il tempo si fermasse lì. Senza più storie, morti, abbandoni. Nulla di nulla. Desiderai ardentemente di congelarmi così, in una stasi senza fine.
Ancora una volta, senza che me ne accorgessi, frugò nei miei pensieri e lì gettò via. Le mie paure erano svanite e sorridevo tranquillo. Mi sentivo libero e innamorato. Innamorato di un qualcosa che non riuscivo a definire.
Voglio portare quell'emozione nel cuore. Per sempre.

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La storia è finita.
Spero vi sia piaciuta.
Ringrazzio tutti coloro che hanno inserito questa storia tra i preferiti o tra le storie seguite, non sapete quanto mi faccia piacere ^O^
Nanako non so cosa rispondere xD La storia è molto breve e la trama è semplice anche se non riesco sempre a spiegarla in maniera chiara. Hito è privo di emozioni, Isaac ne ha troppe. Troppe perché, dopo la morte della sorella, le emozioni e i ricordi sono l'unica cosa che lo facciano "sopravvivere".  La storia narra del loro incontro, un 'amore' nato tra di loro che rappresenta il legame che svuota l'uno e riempie l'altro. Tutto qui ^-^ E' come una ricerca dell'equilibrio.


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