Luce e ombra: Essere o non essere

di Emmastory
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Appena un anno dopo ***
Capitolo 2: *** Calore umano ***
Capitolo 3: *** Visi amici nella nebbia ***
Capitolo 4: *** Viaggio fra l'umana gente ***
Capitolo 5: *** Situazione di pericolo ***
Capitolo 6: *** Metà non certo uguali ***
Capitolo 7: *** Tentativi di ripresa ***
Capitolo 8: *** La pagina scomparsa ***
Capitolo 9: *** Ritorno fra gli umani ***
Capitolo 10: *** Gioia nell'orrore ***
Capitolo 11: *** L'ultima neve ***
Capitolo 12: *** Fra le nuove foglie ***
Capitolo 13: *** Limiti di fata ***
Capitolo 14: *** La pace dentro di noi ***
Capitolo 15: *** La stagione degli amori ***
Capitolo 16: *** Le stelle sulla foresta ***
Capitolo 17: *** Magia bianca e magia nera ***
Capitolo 18: *** Imparare insegnando ***
Capitolo 19: *** Ancora acerba ***
Capitolo 20: *** Quiete d'animo e di notte ***
Capitolo 21: *** Una propria doppia vita ***
Capitolo 22: *** Oscure rimembranze ***
Capitolo 23: *** Aiuto di mani esperte ***
Capitolo 24: *** Da fata a strega ***
Capitolo 25: *** Fallimento ***
Capitolo 26: *** Fiducia materna ***
Capitolo 27: *** Pillole di gelosia ***
Capitolo 28: *** Sacrifici di chi ama ***
Capitolo 29: *** Ricerca d'un amor perduto ***
Capitolo 30: *** Ira e altre tempeste ***
Capitolo 31: *** La crociata dell'uomo in nero ***
Capitolo 32: *** Famigerati e scaltri ***
Capitolo 33: *** Paura anche di muoversi ***
Capitolo 34: *** Le mosse del proprio destino ***
Capitolo 35: *** La promessa a me più grande ***



Capitolo 1
*** Appena un anno dopo ***


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Luce e ombra: Essere o non essere

Capitolo I

Appena un anno dopo

Non arrestando mai la loro corsa, le lancette del tempo avevano continuato a muoversi, e alzando appena gli occhi per guardare fuori dalla finestra, mi resi conto della velocità con cui non aveva fatto altro che scorrere. Seduta sul letto nella mia stanza, osservavo la neve cadere, e abbandonandomi ad un cupo sospiro, chiusi gli occhi per trarre un respiro profondo. Circa trecento giorni erano scomparsi dalla mia vita, e per qualche strana ragione, quello che agli occhi di altri sarebbe certamente stato un magnifico spettacolo, non lo era ai miei. Calmo e paziente com’era sempre stato, Christopher si fece più vicino, e non appena lo fu abbastanza da toccarmi, mi prese la mano. “Va tutto bene?” chiese, preoccupato. “Sì, non… non è niente.” Risposi appena, con voce bassa e quasi inudibile nonché rovinato da un leggero dolore alla gola. “Kaleia, è soltanto neve, guarda.” Rispose, alzandosi in piedi e invitandomi a fare lo stesso, per poi camminare fino a sfiorare il vetro della finestra e indicare con il dito e lo sguardo un punto lontano. Stanca e incredula, mi strofinai gli occhi, poi li vidi. Midnight e Bucky giocavano insieme, proprio come nell’ormai andata bella stagione. Abituati a quella sorta di gioco infantile, si rincorrevano in quella fredda coltre, e nonostante lo spuntare di un lieve sorriso sulle mie labbra, mi accorsi di un particolare. “Dov’è Red?” chiesi, stranita dalla sua assenza nel bosco in cui tanto amava aggirarsi nei momenti in cui decideva di stare da solo. “Si nasconde, ed è simile a te.” Non tardò a rispondermi lui, molto più tranquillo rispetto a me. “Cosa? Che vuol dire?” azzardai poco dopo, incerta e dubbiosa. “Detesta la neve, è così da quando l’ho conosciuto.” Spiegò, azzardando come me un debole sorriso e scoprendomi curiosa. “Ora ha quasi due anni, ma allora era soltanto un cucciolo. Passavo per caso da quelle parti del bosco e l’ho trovato.” Continuò poi, sorridendo ancora a quel solo ricordo, e stavolta più apertamente. “Era da solo?” indagai, con la stessa curiosità unita ora ad una sincera pena per lui. “Sì. Sua madre era scomparsa, e nonostante quella volta abbia seguito le impronte, alla tana non ho trovato nulla. Né lei né i suoi fratelli e sorelle.” Mi disse a quel punto, con un’improvvisa ombra a scurire le perfette iridi smeraldine di cui ero innamorata. “È triste.” Non potei evitare di commentare, sentendo poi una strana stretta all’altezza del cuore. “Lo so, amore, lo so. Ma ora è con me, puoi stare tranquilla. “Lo spero.” Risposi soltanto, tornando a sedermi e sdraiandomi, improvvisamente priva di energie. “Che c’è? Non ti fidi?” azzardò Christopher, sempre preoccupato per me come al solito. “No, è solo che... ecco… la natura non è sempre così meravigliosa.” Soffiai, avendo appena la forza di parlare e tenere gli occhi aperti. “Che intendi?” fu la sua ovvia domanda, che arrivando lesta soltanto un attimo dopo, in qualche modo riuscì a colpirmi, provocandomi un gran dolore alle tempie. “Insomma hai guardato là fuori? Sì, Bucky è lì che gioca, ma non vedo nulla oltre il bianco. Perfino il cielo è di nuovo coperto, e Sky è sempre più taciturna. La conosco, so che per lei è normale, ma di questo passo, con i nostri poteri, noi due e tutto il resto, cosa pensi che accadrà?” replicai, disgustata da quella vista e dalla sofferenza dei fiori e delle piante simbolo della mia vera magia. “Kaleia, tesoro, noi non possiamo saperlo, ma possiamo sperare. Dammi la mano.” Fu svelto a rispondere Christopher, sfoderando l’ennesimo sorriso capace di sciogliermi e tendendo la mano perché gliela stringessi. Annuendo lentamente, feci quanto mi era stato chiesto, e nel farlo, quasi lo costrinsi a sdraiarsi con me, e nello spazio di un momento, le nostre labbra si toccarono. Nel mio animo c’erano freddo e paura, e malgrado non avessi fatto altro che assistere allo scorrere del tempo e delle stagioni, ora scoprivo una nuova verità. Soffrivo con e per la natura, che abituata all’oggi crudele tempo atmosferico, mi appariva statica e triste, ma ancorata alla vita. In breve, arrivò la notte, e preda del sonno, non vidi nulla, eccetto il nero sfondo di ciò che dimorava nel mio tanto amato bosco appena un anno dopo.

 
 
Buon pomeriggio, lettori miei, e finalmente, bentornati nel mondo della nostra fata Kaleia. Stando alla mia tabella di marcia, avrei dovuto iniziare a pubblicare questa seconda parte cinque giorni fa, e non avendo potuto per cause di forza maggiore e motivi da me indipendenti, ora sono certa di riuscire a scrivere e aggiornare con più regolarità, approfittando di un'estate che per me è appena iniziata. Devo ancora scegliere una cadenza, ma intanto continuate a seguirmi, grazie come sempre, e al prossimo capitolo,
 
Emmastory :)

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Capitolo 2
*** Calore umano ***


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Capitolo II

Calore umano

Erano trascorse tre ore, e alla fine mi ero addormentata. La sorta di lite che avevo avuto con Christopher mi aveva a dir poco debilitata, e nonostante non avessimo davvero litigato, ora, da sveglia, non facevo che guardarlo. Restando in silenzio, non proferivo parola, e con gli occhi fissi su di lui, notavo la preoccupazione presente nei suoi. Ero riuscita a dormire perché calmata dalle sue carezze, e avvicinandosi, voleva sincerarsi del mio attuale stato d’animo. “Va meglio, amore?” chiese, sedendosi sul letto e scostandomi una ciocca ribelle dal viso. “Sì, e scusami per prima. Non volevo.” Risposi, sperando nel suo perdono dopo quel mio inaspettato scoppio emotivo. “Su, non scusarti. È del tutto normale, e in ogni caso, appartiene al passato.” Replicò, sorridendo debolmente e prendendomi la mano con delicatezza. “Normale?” non potevi evitare di chiedere, facendogli eco e attendendo che si spiegasse meglio. “Sì, vedi? È scritto anche nel libro.” Chiarì, sporgendosi quanto bastava per arrivare al mio cuscino e tirarlo fuori. A quella vista, raggelai, e diventando una vera e propria statua di granito, non riuscii più a muovermi. L’avevo già consultato una volta, e dopo quanto avevo scoperto, avevo cercato di nasconderlo alla mia stessa vista, così che la curiosità non avesse la meglio su di me. A quanto sembrava, c’ero anche riuscita, fino a quel fatidico momento. “No, mettilo via.” Biascicai, con la voce ridotta ad un sibilo dettato dalla paura. “Cosa? Perché? Tesoro, è soltanto un libro.” Cercò di rassicurarmi, calmo e paziente com’era solito essere. “L’hai mai letto prima?” gli chiesi, spaventata e tremante come un povero coniglio provato dal freddo appena fuori dalle mura di casa. “Certo.” Rispose soltanto, evitando di scomporsi e tornando a sedersi comodamente. “Bene, anch’io.” Dissi a quel punto, colta nuovamente da una forse ingiusta rabbia, che intanto aveva ripreso a crescermi dentro. Scivolando nel silenzio, Christopher non disse nulla, e solo dopo attimi trascorsi nel mutismo, decise di parlarmi. “Quindi l’hai scoperto, vero?” indagò, improvvisamente sconsolato. Confusa, scossi la testa, e avvicinandomi, attesi ancora. “Che… che cosa?” sussurrai appena, sentendo la collera trasformarsi lentamente in fredde e amare lacrime. “Noi due. Non potremmo stare insieme. È per questo che sono scappato, ricordi?” mi rispose lui di rimando, stringendomi ancora la mano e accarezzandola lentamente. Lasciandolo fare, gliela strinsi, e non riuscendo a trattenermi, unii le nostre labbra in un bacio dolce, caldo e tenero, in netto contrasto con l’atmosfera appena oltre il vetro della mia finestra. Fu quindi questione di un attimo, e prendendo parte a quel lieve contatto, ne assunse il controllo, guidandomi in quello che lentamente divenne qualcosa di diverso da un semplice sfiorar di labbra. Pur volendo, non approfondii quel bacio, e quando ci staccammo, faticai a respirare. “Lo ricordo, e hai ragione, ma non mi importa. Ci siamo incontrati per caso, ma ti amo, e non potrei lasciarti.” Dissi poi, ritrovando la calma ormai persa e il coraggio di esternare per l’ennesima volta i miei sentimenti. Conoscendomi, sapevo di non mentire, e non appena quelle parole trovarono la libertà grazie alla mia voce, mi sentii incredibilmente più leggera. Ci eravamo baciati più di una volta, e quella non era certo la nostra prima dichiarazione d’amore, ma per qualche strana ragione, la sola vista di quel libro aveva risvegliato in me il ricordo del dolore provato nel giorno della sua sparizione dalla mia vita. Si era trattato soltanto di pochi giorni, ma al suo ritorno avevo promesso a me stessa che non l’avrei perso ancora, e ora intendevo mantenere questa promessa, una promessa che avevo fatto sia a me stessa che a lui. Tentando di ricacciare indietro le lacrime, mi fermai a guardarlo, e baciandomi ancora, si godette assieme a me la purezza di quel momento, con la cui fine, continuò a stringermi le mani, follemente innamorato di me come di nessun’altra. “Neanch’io, tesoro, neanch’io.” Mi disse infatti, dando conferma alla speranza che covavo nel cuore e nascondevo dal giorno in cui ci eravamo incontrati per la prima volta. A quelle parole, mi sciolsi come fredda neve a contatto con il caldo sole, e con ancora le lacrime agli occhi, sentii un nodo serrarmi la gola. Non riuscivo a parlare né a respirare, ma ero felice. Solo maledettamente felice. “Davvero?” chiesi, in un moto d’insicurezza nato da quella così accorata confessione. “Davvero, fatina mia, davvero.” Rispose lui, facendosi più vicino per stringermi in un abbraccio e raccogliere le mie lacrime con il pollice fino a cancellarle dai miei occhi. In quel momento, avrei voluto restare con lui, ma improvvisamente, un suono attirò l’attenzione di entrambi. Voltandomi, fissai lo sguardo sulla finestra chiusa, e fu allora che lo vidi. Midnight, il merlo di mia sorella, fermo sul davanzale della finestra, ed emettere quel suo caratteristico verso, un canto alle mie orecchie tutt’altro che melodioso, che credevo di aver imparato ad ignorare. Per mia sfortuna, non era stato così, e scoprendolo, non potei trattenere una chiara espressione di fastidio. “Cos’ha da urlare quell’uccellaccio?” chiesi, pensando ad alta voce e parlando più con me stessa che con Christopher. “Non lo scopriremo finchè non andiamo. Vieni?” disse lui in risposta, stranamente divertito dalla mia stizza. “Va bene.” Concessi, decidendomi a scendere dal letto e appoggiandomi al braccio che intanto mi aveva romanticamente offerto. Lentamente, varcammo insieme la porta della mia stanza e poi quella di casa, uscendone senza un fiato. Una volta fuori, venni colta da un freddo che non anticipai, e sforzandomi di mantenere la calma, esitai. “Stai bene?” non tardò a chiedermi Christopher, con una vena di preoccupazione nello sguardo e nella voce. “Sì, sì, non è niente. Fa solo freddo. Per fortuna non nevica.” Fui veloce a rispondere, tentando di dissimulare un malcelato malessere reso più sopportabile dalla sua sola presenza. Mantenendo il silenzio, Christopher si limitò a sorridere, e stringendomi a lui, trovai conforto fra le sue braccia. Di lì a poco, il canto di quello sconsiderato merlo cessò, sostituito dall’allegro squittire del mio amico roditore. “Bucky!” chiamai, staccandomi dal mio lui e chinandomi per salutarlo. “Vieni!” lo incoraggiai, mostrandogli la mano e invitandolo a prendere come sempre posto sulla mia spalla. Obbedendo, il piccolo parve annuire, e in un attimo, mi fu accanto. “Sempre inseparabili, vedo.” Commentò allora lo stesso Christopher, fingendosi geloso di quell’adorabile palla di pelo. “Totalmente.” Risposi subito io, sorridendo divertita dal suo essere così spontaneo. “Come noi.” Non mancai di aggiungere, dandogli un altro bacio e rassicurandolo con amore e dolcezza. “Lo so, piccola, non preoccuparti.” Mi rispose in un sussurro innamorato, poco prima  di ricambiare quel contatto e farmi ardere le guance come il focolare acceso in casa. Lasciandolo fare, non mi sottrassi a quella manifestazione d’affetto, e  quando questa ebbe fine, notai qualcosa. Come sempre, Bucky mi era rimasto accanto, ma solo ora scoprivo che una sorta di piccola sciarpa gli pendeva dal collo. Stando ai miei ricordi, non gliene avevo certo regalata una, e tacendo la mia scoperta, non dissi nulla. Fingendo indifferenza in realtà non provata, mossi qualche incerto passo fra la neve, scorgendo in lontananza un viso amico. Sky. Taciturna e quieta come l’acqua del lago ormai gelata, restava in piedi a fissare quella distesa di ghiaccio, e pur notandomi, non si voltò. Non volendo disturbarla, la salutai con un solo cenno della mano, avendo poi il piacere e la fortuna di vederla sorridere. Alla sua vista, Bucky squittì contento, e lasciando la mano di Christopher, mi avvicinai. “Sei stata tu?” chiesi, indicando per un attimo con lo sguardo la nuova sciarpina del mio scoiattolo. “Che posso dire? Mi piace il sorcetto.” Rispose lei, tanto tranquilla quanto sincera, per poi ridursi al silenzio e fissare stavolta gli occhi sull’orizzonte. Poco dopo, un fischio ben modulato abbandonò le sue labbra, e rispondendo a quella sorta di richiamo, Midnight volò nella sua direzione, fino a posarsi sulla sua spalla e imitarla nel guardare dritto davanti a sé. “Sky?” chiamai, volendo soltanto attirare la sua attenzione. “Sì?” chiese lei, spostando lo sguardo dall’orizzonte al mio viso. “Grazie.” Sussurrai al suo indirizzo, grata di quel gesto pieno di considerazione. Inizialmente, il suo rapporto con Bucky non era certo stato dei migliori, ma ora lo vedevo mutare lentamente. Restavo in silenzio, non proferivo parola, ma con la quiete padrona del mio animo, potevo dirmi orgogliosa di avere una sorella come lei. Eravamo diverse, ma sempre tali, e mentre il tempo continuava a scorrere, e l’affatto caldo mattino sfumava in un assolato pomeriggio, io le restai accanto, e non sentendo altro che il sibilo del vento, l’abbracciai. Ad essere sincera, non sapevo se la profezia della signora Vaughn si sarebbe mai avverata permettendole di trovare l’amore e non dirsi più sola, ma nonostante tutto lo feci comunque, sicura che come ogni persona o essere vivente al mondo, anche lei avesse bisogno di calore umano.   

 

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Capitolo 3
*** Visi amici nella nebbia ***


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Capitolo III

Visi amici nella nebbia

Alla fine, anche il pomeriggio era scomparso, e con la sua dipartita, il tramonto. Rimanendo ferma e inerme, ne osservavo i colori dalla finestra del salotto di casa, godendo in silenzio della compagnia di Christopher. Calmo e attento, non proferiva parola, ma poco dopo, lasciando che mi sfiorasse la mano, spostai lo sguardo dal sole morente al suo viso, e imitandomi, mi si avvicinò. “Come ti senti?” mi chiese, ancora preoccupato per quegli strani lividi che ancora portavo e che non volevano saperne di sparire. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire, e imitandolo, ricambiai la sua stretta. Forse era sciocco da dire, e immaginavo che per alcuni lo fosse, ma lui mi faceva sentire al sicuro, e così, con il suo braccio avvolto attorno alle spalle, tenevo gli occhi chiusi, respirando regolarmente. “Mai stata meglio.” Risposi dolcemente, rafforzando la stretta delle nostre mani e beandomi di quel momento di tanto attesa calma. Dati i miei trascorsi, sapevo bene che la vita mi aveva riservato un periodo poco felice, ma almeno per ora, tutto sembrava andar bene. Ero calma, serena e in sua compagnia. Quieta e quasi invisibile, la candida neve continuava a scendere dal cielo, fino a posarsi sul terreno e adagiarvisi lentamente, gelandolo. Uno spettacolo tanto bello quanto triste, che se ai miei occhi appariva tale, non aveva lo stesso effetto su Lucy. Non la vedevo da tanto, eppure ora mi sembrava di sentire la sua voce. Spinta dalla curiosità, mi alzai dal divano, e con passi lenti ma decisi, uscii. Una volta fuori, dovetti schermirmi il viso per evitare che il vento mi sputasse in faccia offuscandomi la vista, e non appena fui abbastanza vicina e stretta nella giacca che portavo, scoprii di non essermi sbagliata. Non stavo esagerando, non si trattava della mia immaginazione, e Lucy era davvero lì, a giocare e divertirsi in quella bianca coltre, correndo e rischiando sempre di inciampare nei sassi che sapevo il gelo fosse in grado di nascondere. Troppo distante perché potesse vedermi, mi godevo la scena con un sorriso stampato in volto, e poco dopo, un altro particolare. Non era da sola, e a quanto sembrava, c’era qualcun altro con lei. Inizialmente, pensai che si trattasse di Red, ma quando aguzzando la vista non vidi altro che una sorta di minuscolo puntino a me dinanzi, non seppi cosa pensare. Più confusa di prima, mossi qualche altro passo nel tentativo di avvicinarmi, e in quel momento, ecco la verità. La mia piccola amica giocava felice, e azzardando goffi tentativi di volare nel vento e nel freddo, teneva in braccio qualcosa, o meglio, qualcuno. Incalzata da Christopher, continuai a muovermi, e non appena lo fui abbastanza, il vento parve calmarsi. Fra noi due, Sky era l’unica a sopportare la presenza della neve in questo periodo dell’anno, ma in quanto fata del vento, preferisce le brezze leggere alle raffiche, per i suoi gusti decisamente troppo forti. Voltandomi nella sua direzione, la ringraziai mutamente, e appena un attimo dopo, una dolce voce di bambina ruppe il silenzio. “Ciao!” mi salutò la piccola, svolazzandomi allegramente intorno e continuando a tenere fra le braccia un’altra bimba come lei, che ero sicura di non aver mai visto prima. Ricambiando quel saluto, provai ad abbracciarla, ma Lucy si scostò da me. “E lei chi è? Una tua amica?” azzardò Christopher, avvicinandosi e regalando un sorriso alla nuova conoscenza, così che potesse sentirsi a suo agio. Per sua sfortuna, tale espediente parve non funzionare, e prendendo la parola, Lucy fu pronta a chiarire i nostri dubbi. “No, è la mia sorellina, Lune. Non può ancora volare, perciò l’aiuto io. E le piace, non è vero?” Spiegò infatti, non spegnendo mai quell’adorabile sorriso. Per tutta risposta, l’altra piccola pixie sorrise, e anche se per poco, giurai di averla vista arrossire. A quanto sembrava, era timida e poco a suo agio con le nuove conoscenze, ma a noi non importava. Conoscendomi, sapevo di essere paziente, perciò rompere il guscio di una bimba come quella non avrebbe dovuto essere difficile. Senza dire una parola, sorrisi a mia volta, e non appena i suoi piedini toccarono terra, provai a presentarmi. “Mi chiamo Kaleia, e il piacere è mio, tesoro.” Dissi, tendendole una mano con fare amichevole. Rimanendo ferma, attesi che me la stringesse, ma d’improvviso la bambina corse via, andando a nascondersi dietro a un albero. Confusa, mossi qualche passo nella sua direzione, e solo allora, notai che la piccola portava con sé un pupazzo. Lo stringeva forte, non lasciava che cadesse a terra, e a giudicare dallo sguardo impaurito che aveva, sembrava davvero preoccuparsi per la sua salute con questo tempo. “Lune, tranquilla, sta bene.” Provai a dirle, cercando di rassicurarla e tendendole ancora la mano. Schiva e insicura, la fatina non mosse un passo, e facendo saettare lo sguardo in tutte le direzioni, era alla costante ricerca della sorella maggiore. Spostando di nuovo l’attenzione sul suo giocattolo, sperai di guadagnarmi la sua fiducia parlandone con lei, ma con scarsi risultati. “Posso vederlo? È carino, sai?” dissi infatti, accarezzando con due dita un orecchio del pupazzo, che poi venne prontamente allontanato dalla giovanissima proprietaria. “Non le piace che si tocchino i suoi pupazzi, meglio non farlo.” Mi avvisò a quel punto Lucy, anche lei con i piedi per terra dopo essersi divertita a volare come una farfalla. Alle sue parole, annuii lentamente, e cauta, mi allontanai. “Lune, avanti! Kaleia è mia amica, non è qui per farci del male.” Disse poi alla sorellina, abbassandosi al suo livello e tentando in ogni modo di convincerla. Con un cenno di dissenso del capo, la fatina si allontanò ancora, e da una specie di zainetto che portava in spalla, estrasse un foglio e una matita. Appoggiandosi al tronco dell’albero dove si nascondeva, scrisse qualcosa, poi si avvicinò. “Mi dispiace, non lo sapevo, scusa.” Questo il messaggio scritto su quel pezzo di carta, che lessi e recepii velocemente, mantenendo nel farlo una calma perfetta. Poco dopo, però, un dubbio si insinuò nella mia mente, e andando alla ricerca di risposte, mi voltai verso Lucy. “Che cos’ha?” le chiesi in silenzio, interrogandola con il solo uso dello sguardo. “Non parla, e nessuno sa il perché, neanche la signora Vaughn.” Rispose subito lei, abbassando appositamente la voce così da non essere sentita da altri oltre che da me. In fin dei conti, la sua sorellina era a poca distanza da noi, e conoscendola, probabilmente non voleva ferirla. A quelle parole, una strana tristezza s’impadronì di me, e provando istintivamente pena per quella povera bambina, provai il forte desiderio di abbracciarla. Guardandola negli occhi, feci un gesto con la mano per invitarla ad avvicinarsi, e vedendola nascondersi per l’ennesima volta, abbassai lo sguardo, sconfitta. “Scuse accettate, piccina.” Dissi poco dopo, sforzandomi di nascondere la mesta espressione che avevo in viso, tradito anche dal bruciore agli occhi causato da alcune piccole lacrime che avrei solo voluto lasciar uscire. Notandomi, Christopher mi strinse a sé, attirandomi ben presto in un delicato abbraccio. Rinfrancata da quel gesto, lo lasciai fare, e poco dopo, sentii tirare un lembo della giacca. Era la piccola Lune, che finalmente più vicina, sembrava aver scritto ancora, e aveva in mano un altro biglietto. A differenza dell’altro foglietto ripiegato, non conteneva un messaggio, ma bensì un disegno. Nulla di diverso da una faccina sorridente, ovvero il suo modo di dirmi che dovevo essere felice. Compiendo un gesto forse azzardato, le accarezzai la testolina, e senza muovere foglia, la piccola sorrise ancora, sostituendo alla triste espressione dipinta sul suo dolce visetto una decisamente più rilassata. Allontanandosi dopo quella carezza, la fatina tornò dalla sorella maggiore, e insieme, le due si incamminarono verso un punto imprecisato del bosco. Il vento che aveva ricominciato a soffiare mi disturbò la vista impedendomi di vederlo chiaramente, ma ipotizzai che dopo tutto quel tempo passato a giocare dovessero tornare dai loro genitori. Spiccando il volo, Lucy seguì assieme alla sorella una sorta di luce intermittente in lontananza, e quella sera, con la luna nascosta da una massa informe di nuvole, pregai, addormentandomi a mani giunte nel pensare a cosa sarebbe potuto accadere nel mio e nel loro avvenire, grata di aver rivisto due visi amici prima che sparissero nella nebbia.

 

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Capitolo 4
*** Viaggio fra l'umana gente ***


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Capitolo IV

Viaggio fra l’umana gente

Con il calare del buio, mi ero addormentata. A mani giunte e con il sorriso sulle labbra. Ero felice di aver rivisto le mie due piccole amiche, e ora, sveglia a guardare la luna, riflettevo. Un solo pensiero mi aveva tenuta sveglia, e riguardava la più piccola delle due. Lune. La sorellina minore di Lucy, a detta sua ancora troppo piccola per volare, e per qualche strana ragione, muta. Sì, muta, o in altre parole, incapace di parlare ed esprimersi correttamente. Aiutata dalla sua famiglia, aveva trovato il modo di comunicare con gli altri attraverso la scrittura. In genere non le servivano altro che un foglio e una matita, e benchè non sapessi come ci riuscisse alla tenera età di tre anni, ero felice per lei, ma allo stesso tempo anche triste. Aveva soltanto tre anni, mille emozioni e nessun modo di esprimerle se non dei fogli di carta. Da brava sorella maggiore, Lucy si prendeva cura di lei, tenendosela stretta al petto mentre volavano e giocavano insieme. Guardandole divertirsi, avevo notato che in quanto pixie anche Lune aveva le ali, ma che data la sua età non erano ancora grandi abbastanza da permetterlo di librarsi in cielo da sola. Lentamente, il tempo passava, e tacendo dubbi e sentimenti riguardo quella faccenda, posai di nuovo la testa sul cuscino, fallendo comunque nel tentativo di dormire. Tanto stanca quanto nervosa, non feci altro che rigirarmi fra le coperte, e pur mantenendo il silenzio, attirai senza volerlo l’attenzione di Christopher. Anche se da poco, convivevamo con il permesso di mia madre, o per meglio dire della donna che consideravo tale. Addormentato accanto a me, finì per svegliarsi, e voltandosi, mi guardò con aria confusa e interrogativa. “Kaleia, cos’hai?” mi chiese, posandomi una mano sulla spalla e rimanendo in attesa di una mia risposta. “Niente, stavo solo ripensando a ieri.” Dissi soltanto, trovando il coraggio di ammettere il mio reale stato d’animo. “Ti preoccupa quella bambina?” continuò, addolcendo lo sguardo e lasciando scivolare la mano dalla mia spalla fin sotto la coperta. Sdraiandomi, andai alla ricerca di una posizione comoda, e dopo una pausa di silenzio, parlai ancora. “Sì.” Mi limitai a dire, ancora triste e scossa da quella scoperta. Di lì a poco, il silenzio ci avvolse entrambi, e senza una parola, Christopher mi strinse in un abbraccio. Rimanendo immobile, lo lasciai fare, e il freddo della notte divenne per me un lontano ricordo. “Starà bene, tranquilla. Ha una famiglia che la ama, proprio come te.” Disse poi, spezzandolo come il vetro della finestra su cui ora picchiettava il ramo di un albero decisamente troppo vicino alla casa. Silenziosa, non feci che annuire, e avvicinandomi, ricambiai la sua stretta. Fu quindi questione di attimi, e quando ci staccammo, mi fermai a guardarlo negli occhi. Splendide iridi verdi simili a gemme, simbolo di una speranza che non avrei mai perso. Lo amavo, lo amavo tantissimo, e adoravo il senso di sicurezza che mi procurava. Forse esageravo, ma vedevo i suoi abbracci come porti sicuri, e quell’ormai conosciuto luccichio, sempre presente nei suoi occhi quando eravamo insieme, come una muta promessa secondo la quale tutto sarebbe andato bene. Credevo in lui, e mi fidavo, e fu così che di nuovo calma, mi addormentai, cullata dal sibilo del vento e dal  battito del suo cuore. Mi svegliai soltanto la mattina dopo, con una strana ma piacevole sensazione addosso. Confusa, aprii gli occhi a fatica, e fu allora che lo vidi. Sveglio da poco, Christopher mi era rimasto accanto, ad osservarmi e accarezzarmi la guancia. “Dormito bene, fatina?” azzardò, sfoggiando poi quel sorriso capace di farmi sciogliere e arrossire come un’adolescente alla prima cotta. “Soltanto grazie a te, custode.” Risposi, sorridendo a mia volta e avvicinandomi per il primo bacio di quella giornata. Durò meno di un secondo, quasi ci sfiorammo e basta, ma non ci badai. Calma e tranquilla, scesi dal letto, e appena un attimo dopo, lo squittio di un Bucky ancora assonnato mi ridestò dai miei pensieri. Allungando una mano gli feci qualche carezza, e raggiungendo la cucina, mi preparai per la colazione. Non mangiai molto, bevendo solo una tazza di latte accompagnata a dei biscotti, e lo stesso valse per il mio scoiattolo, che intinse una delle sue famose ghiande nel piattino di latte che gli avevo offerto. Stranamente, Red non era ancora con noi, e con il sole in cielo e la neve che finalmente sembrava averci dato tregua smettendo di cadere, uscimmo. Con un semplice gesto, invitai Bucky a seguirmi, non dimenticando di provare a includere Sky. Annuendo, ci seguì a sua volta, e appena fuori di casa, fui colta da un brivido di freddo. Ignorando quella sensazione, seguii Christopher camminando al suo fianco, e fermandoci, mi guardai intorno. Il verde soffriva a causa del freddo, e reagendo senza che me ne rendessi conto, in qualche modo il mio corpo emulava quella sensazione. Avevo freddo, tremavo e faticavo a muovermi, e tutto all’improvviso. Mantenendo l’equilibrio, sperai di non svenire com’era già successo, e schiarendomi la gola, notai che Midnight non riusciva a stare calmo. Sempre sulla spalla di Sky, si agitava stringendo gli occhi e puntando gli artigli, e guardandolo, lei tentava invano di calmarlo. “Che gli prende?” chiese a quel punto Christopher, confuso. Stringendosi nelle spalle, lei non seppe cosa dire, e continuando a camminare, cercai la sua mano. Avrei potuto continuare a muovermi da sola, ma non volevo. Il mio cuore parlava chiaro ogni volta, e stargli lontano era sempre doloroso. Ricordavo ancora i giorni passati lontano da lui dopo che era stato costretto alla fuga, e malgrado fosse ormai passato un anno da allora, non riuscivo a dimenticarlo. Non proferendo parola,  attesi di scoprire dove ci avrebbe portate, e proprio allora, la rivelazione. “Vi porto in un posto, se per voi va bene.” Disse soltanto, per poi voltarsi a regalarmi un sorriso che mi servì da iniezione di fiducia. “Posto? Quale posto?” indagai, curiosa. “Il villaggio degli umani.” Mi rispose semplicemente, facendo uso di una calma a dir poco disarmante. “Cosa? Ma… dici che possiamo?” azzardò allora Sky, confusa come e forse più di me. “Certo! In fondo quella umana è una parte di voi, giusto?” Fu veloce a dire Christopher, dissipando i dubbi di entrambe in un battito di ciglia. “Sì, ma…” biasciai a quel punto, ferma e incerta sul da farsi. “Niente ma, fatina mia. Non ti accadrà niente, lo sai.” Replicò lui, rafforzando la stretta che unì le nostre mani e scambiandosi con me un’occhiata d’intesa. Pendendo dalle sue labbra,  prolungai la mia attesa riprendendo il cammino, e dopo minuti interi, eccoci. Fuori dalla foresta, e in quello che fino ad allora avevo solo potuto immaginare. Un agglomerato di case e strade, abbellite qui e là da qualche giardino o qualche sporadica aiuola. A quella vista, sorrisi. A quanto sembrava, gli umani non erano poi creature così orribili, tanto che alcune donne uscirono di casa per salutarmi. Non capivo come, ma era come se in un modo o nell’altro sapessero del mio arrivo. Sempre vicina a Christopher, gli lasciai la mano, e lentamente, attraversammo un grande arco in fiore. Sorridendo ancora, mi voltai verso di lui, e stringendolo con dolcezza, scelsi di baciarlo. Accogliendo con gioia le mie labbra sulle sue, Christopher prese parte a quel così dolce contatto, e quasi ignorando Sky, non ebbi occhi che per lui. “Sei felice, piccola mia?” mi sussurrò all’orecchio, innamorato come mai prima. “Sì, sì che lo sono, amore mio.” Risposi di rimando, abbandonandomi a quell’abbraccio e quel bacio finchè non ebbi più fiato in corpo. Presente nonché profondamente in imbarazzo, Sky liberò un colpo di tosse, e tornando alla realtà, alzai lo sguardo fissandolo su una strana lanterna di colore giallo. Sapevo bene che gli umani che credevano in noi avevano l’abitudine di dedicarci lanterne di diverso colore a seconda del significato, ma non avevo viste che di bianche, ragion per cui la vista di una luce color giallo acceso mi stranì come poche. Era strano, ma mi ricordava l’aura che circondava la mia piccola amica Lucy nei suoi momenti di felicità, e in quel momento, un attimo di smarrimento. Guardando il mio Christopher negli occhi, chiesi spiegazioni, e queste non tardarono ad arrivare. “L’arrivo di una fata come te fra noi è motivo di gioia, tesoro.” Quella fu la sua risposta, che ascoltai in silenzio e quasi con le lacrime agli occhi. Non riuscivo a crederci, eppure era vero. A quanto sembrava, gli umani a noi fedeli erano felici di averci con loro, e non provando che felicità alla sola idea, guardai Sky. “Siamo al sicuro.” Le dissi, parlandole con il solo uso dello sguardo. Cogliendo al volo la letizia nel mio sguardo, lei lo ricambiò con affetto, e appena un attimo dopo, la vidi alzare una mano per salutarmi. Mi era rimasta accanto mentre ero fra le braccia di Christopher, e all’improvviso, lo sguardo di un ragazzo in lontananza sembrava averla catturata. Aveva gli occhi e i capelli scuri come le foglie autunnali, e da quel che vedevo, ovvero la felicità sul volto di mia sorella, non poteva che essere un buon partito. Si erano appena conosciuti, ma se era felice, io lo ero per lei. Concedendomi del tempo per pensare, ricordai la profezia della signora Vaughn. Aveva in qualche modo predetto che non sarebbe più stata sola, e a giudicare dalle sue risate accompagnate da sorrisi pieni di luce, doveva aver avuto ragione. Alcuni umani sospettosi erano soliti pensare che il destino di una persona fosse sempre scritto nel giorno della sua nascita, ma non io, o per meglio dire, non noi. Certo, l’anziana strega che avevo conosciuto conosceva il mondo della magia, e nonostante la sua premonizione si fosse appena avverata, preferivo considerarlo un colpo di fortuna, un lampo di luce nell’oscurità dei nostri trascorsi e un vero e proprio raggio di sole nella sua vita. Per quanto ne sapevo, Sky aveva sofferto per più di un motivo, ma ora poteva contare sulla compagnia di qualcuno di diverso dalla sua intera famiglia, ed ero sicura che almeno ora sarebbe stata felice, e tutto grazie ad un inatteso viaggio fra l’umana gente.



Buonasera, miei lettori. Pubblico questo capitolo con un giorno di ritardo, ma spero che non vi importi. So che in genere la pubblicazione segue un ritmo di cinque giorni per capitolo, ma credo sapete quanto sia difficile scrivere se non si è ispirati o motivati. Il caldo non depone a mio favore, ma stavolta ce l'ho fatta, e spero che quanto avete letto vi sia piaciuto. Grazie a tutti del vostro supporto, e al prossimo capitolo, in via eccezionale domani,


Emmastory :)
 

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Capitolo 5
*** Situazione di pericolo ***


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Capitolo V

Situazione di pericolo

Il pomeriggio era ancora con noi, e nonostante la sera si stesse avvicinando, Christopher ed io non eravamo tornati a casa. Anche Sky era rimasta con noi, e mentre la luce solare sembrava sparire, non la vedevo. Ad essere sincera, non ero preoccupata, e di attimo in attimo, mi guardavo intorno, curiosa. Non avevo mai visitato la comunità umana prima d’ora, ma più la osservavo, più mi accorgevo che non era così dissimile da quella di noi fate. Gli uomini lasciavano le loro case per le ragioni più disparate, come i lavori che erano costretti a compiere per vivere, o anche solo per una passeggiata, proprio come me. Mano nella mano, Christopher ed io camminavamo insieme, e quando alcuni lampioni si accesero ai lati della strada che percorrevamo, il suono di una risata conosciuta si unì a quello di un battito d’ali. Non riuscivo a crederci, eppure sapevo che la vista non mi ingannava. Poco lontana da noi, c’era Sky, che finalmente volava ad ali spiegate, ridendo nel beffarsi del ragazzo che l’accompagnava. Sentendo il cuore riempirsi d’orgoglio, mi fermai a guardarla, e così anche Christopher, a dir poco meravigliato. “Alla fine ce l’ha fatta, visto?” mi disse, sorridendo debolmente e avvicinandosi per posarmi un bacio sulla guancia. Arrossendo in volto, fui colta di sorpresa, ma tutt’altro che triste, sorrisi a mia volta. Arrivati vicino a una casa a me sconosciuta, lui si fermò, e con un gesto naturale come il respiro, ne aprì la porta. “Benvenuta, Kaleia.” Disse soltanto, facendo un ampio gesto con la mano come a indicare l’ampiezza dell’intero ambiente. “Aspetta, è… è casa tua?” azzardai, incerta e dubbiosa. “Esatto, io vivo qui.” Rispose lui, gonfiando il petto con orgoglio. “Ma Christopher, non è presto per…” soffiai a quel punto, improvvisamente in imbarazzo all’idea di quello che sarebbe potuto accadere. Con lui stavo avendo la mia prima storia d’amore, ma dopo un rapporto di un anno, immaginavo che volesse farmi incontrare i suoi genitori. In fin dei conti, lui aveva già conosciuto la donna che consideravo mia madre, perciò ricambiare quella sorta di favore era più che comprensibile. “Per cosa? Sta calma, volevo solo mostrarti la mia casa. Sono già stato nella tua, non ricordi?” scherzò, ridacchiando alla vista delle mie guance di nuovo rosse e a suo dire adorabili. “Non vivi da solo, vero?” azzardai, morendo di vergogna per il mio attuale stato emotivo. Che mi stava succedendo? Perché mi comportavo in quel modo? Sapevo bene di avergli donato il mio cuore dopo l’inizio della nostra relazione, ma ora, nonostante tutto, non riuscivo a spiegarmi la mia timidezza. Conoscendomi, ero certa di essere sempre stata onesta con me stessa e con gli altri, ma ecco che senza volerlo, anch’io ero diventata un enigma. Era strano, e senza risposte a rischiarare le tenebre della mia mente, mi sentii raggelare. Accostandosi ad un muro, Christopher accese una luce, e fu allora che il salotto si illuminò a giorno. Un divano e una libreria furono le prime cose che vidi, e appena un attimo dopo, la spaziosa sala da pranzo. Una casa grande e davvero ben tenuta, della quale non potei certamente lamentarmi. In quel momento, tutto sembrava andar bene, ma un improvviso dolore al polso mi distrasse, e abbassando lo sguardo, lo fissai su uno di quei maledetti lividi. Per qualche arcana ragione, doleva come mai prima, e assieme al dolore, uno strano calore unito ad un’altrettanto inspiegabile luminescenza. Stringendo la mano a pugno, sperai di far cessare quel dolore, ma non ottenendo risultati, fui costretta a stringere i denti per non lamentarmi. Notando lo stato in cui versavo, Christopher non mancò di allarmarsi, e afferrandomi il polso offeso, lo esaminò accuratamente. La ferita era la stessa che accusavo da tempo, e che albergava sulla mia pelle da ormai troppo. “Kaleia, tesoro, stai bene?” mi chiese, con il volto contratto in una smorfia di preoccupazione. “N-No, io non… non lo so…” risposi a malapena, strascicando le parole e ritrovandomi a vivere un tremendo deja vu. Nello spazio di un momento, quasi crollai a terra, ma sorretta dal mio Christopher, riuscii ad uscire dalla sua casa, ritrovandomi fuori a respirare aria fresca, o almeno provarci. Sentendo il suono della porta aprirsi, qualcuno ci vide venirne fuori, e poco prima di chiudere gli occhi, potei giurare di aver visto Sky. Sempre accompagnata dal ragazzo con cui l’avevo già vista, ora non era più calma ma arrabbiata, e quasi inveendo contro il mio fidanzato, si ritrovò sul punto di piangere. Guardandolo, notò che mi teneva la mano, poi si accorse della mia ferita. “Che cosa le hai fatto?” gridò fra le lacrime, continuando a piangere ed esigendo una risposta. Scuotendo la testa, il mio amato tentò di difendersi da quelle accuse, ma invano. Ormai priva di forze, svenni fra le sue braccia, non vedendo altro che il buio attorno a me. Nel mio apparente sonno pregai per me stessa, arrivando a temere ancora una volta per la mia vita. Non sapevo cosa stesse accadendo, né ero sicura di nulla, e ore dopo, mi svegliai piena di domande senza risposte.  Per pura fortuna non avevo perso la memoria, e seppur con tutti i miei ricordi al loro posto, faticavo a restare cosciente, entrando e uscendo da un costante e continuo stato di dormiveglia. Avevo avuto un’altra sorta di ricaduta al livello fisico, che stando alle regole scritte in quel dannato libro dall’oscura copertina, non era che una delle conseguenze dei miei sentimenti per Christopher, una sorta di punizione per entrambi, dato il nostro grande amore e una vera e propria situazione di pericolo.

 
 
 
Di nuovo buonasera a tutti, miei lettori. Armandomi di ispirazione e pazienza, sono riuscita a scrivere e pubblicare questo capitolo proprio come vi dicevo ieri. Si vive di nuovo una situazione di calma prima di una metaforica tempesta, e nonostante ogni cosa al villaggio umano stesse andando perfettamente, Kaleia si sente di nuovo male, e svenendo, quasi crolla a terra. Una vecchia ferita la tormenta, ma la colpa non è di Christopher. Che pensate sia successo? Sentitevi liberi di pensarci ed esporre le vostre teorie, sapendo che conoscerete delle vere risposte soltanto nel prossimo aggiornamento. Intanto, grazie come sempre di tutto il vostro supporto, e a presto, con il prossimo capitolo,
 
Emmastory :)

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Capitolo 6
*** Metà non certo uguali ***


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Capitolo VI

Metà non certo uguali

Dopo l’ennesima perdita di conoscenza, mi ero svegliata con un gran dolore alle tempie e una stranissima sensazione d’intorpidimento in tutto il corpo. Non riuscivo a muovermi, e non sapevo perché. Ricordavo solo di essere svenuta, e dopo il buio, nient’altro. Infastidita, provai a rimettermi in piedi, e fu allora che capii. Non ero più nel villaggio di umani, e nemmeno alla foresta, ma in una casa che quasi non riconoscendo. Il buio mi regnava attorno, e ci volle del tempo prima che i miei occhi si abituassero all’oscurità, e quasi a volermi sorprendere, una luce si accese, illuminando a giorno la stanza. Alzando lo sguardo, mi accorsi di una lampadina che penzolava dal soffitto, tremendamente vicina a colpirmi se solo avessi osato alzarmi. Ignorandola, mi schermii il viso dal suo splendore, e una volta calma, mi sedetti. Il letto in cui avevo dormito non era mio, e mentre il tempo scorreva e la confusione era ancora padrona del mio animo, tentavo di rimettere a posto i pezzi del puzzle. Dov’ero? Che ci facevo lì? Chi mi aveva portata in quel luogo? Queste le domande che presero posto nella mia mente, e che trovarono ognuna una risposta nel momento in cui la porta della stanza che occupavo si aprì, facendomi sobbalzare, così come la voce di quello che scoprii essere Christopher. “Ben svegliata, tesoro.” Disse soltanto, avvicinandosi al letto con un sorriso e sedendosi per accarezzarmi la mano. “Svegliata? Che è successo?” non mi trattenni dal chiedere, con le tempie che facevano ancora un gran male. “Sei svenuta al villaggio, così ti ho portata qui. Non temere, la signora Vaughn saprà aiutarti.” Mi rispose lui, guardandomi negli occhi e sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Tranquilla, non è niente, si tratta solo dei tuoi poteri.” Spiegò poi, non staccando mai lo sguardo dal mio e avvicinandosi per un abbraccio. “Le ho spiegato tutto, amore, starai bene, fidati.” Sussurrò, riportandomi alla calma. Decisamente più tranquilla, non risposi, e limitandomi a sorridere, attesi. Seduta sul letto, restavo ferma e immobile, ma di tanto in tanto, quel dolore tornava. Molto più sopportabile, certo, ma per qualche motivo sempre presente. Intanto, il tempo scorreva, Christopher era con me e la porta era chiusa. Il silenzio ci fece compagnia solo per poco, e attimi più tardi, questo si ruppe come vetro. Spostando lo sguardo dal suo viso alla porta, sentii un suono di passi, unito ad una sorta di ticchettio costante. Spaventata, sentii il cuore accelerare i propri battiti, e il corpo iniziare a tremare. Notando la mia agitazione, Christopher tornò a guardarmi, poi mi accarezzò la schiena. “Sta arrivando, ma andrà tutto bene.” Disse a bassa voce, come a non volere che la donna ormai vicina lo sentisse. “Rilassati, e non accadrà nulla.” Mi avvisò poco dopo, parlando come se mi stesse confidando il più grande dei segreti. Mantenendo il silenzio, annuii lentezza, e solo allora, la porta della stanza si aprì cigolando. Alzando lo sguardo, incontrai quello della signora, che muovendosi quasi con circospezione, prese posto al tavolo dove teneva la sua sfera di cristallo, e guardandomi, indicò con lo sguardo il posto libero di fronte a lei. “Siedi, cara, non ci vorrà molto.” Disse, sfiorando con le dita la palla di cristallo e scacciando la nebbia che con l’unico occhio buono vi aveva visto all’interno. Esitando, non seppi se muovermi o meno, ma sotto muto consiglio di colui che era il mio protettore prima e il mio fidanzato poi, decisi di muovermi. Data la debolezza, mi alzai in piedi a fatica, e sedendomi con la donna, mi preparai ad una nuova divinazione. Stando alle parole di Christopher, lui le aveva già spiegato ogni cosa riguardo al mio svenimento, perciò ora non mi restava che aspettare e sperare che avesse una soluzione. Le parole scritte fra le pagine di quel maledettissimo libro non giocavano certo a  mio favore, ma l’amore per il mio ragazzo non sarebbe mai sparito, e sapevo che nessun incantesimo, magia, profezia o divinazione avrebbe mai potuto cambiare le cose. Nervosa, presi a fregarmi le mani in modo quasi ossessivo, e nel tentativo di calmarmi, mi morsi un labbro, ma nulla funzionò. Non proferendo parola, la donna aspettò che fossi pronta, e una strana sensazione ai miei piedi mi fece rabbrividire. Incuriosita, abbassai lo sguardo, e fu allora che la vidi. Seduta sul pavimento, una palla di pelo nero dagli occhi di un colore che non avevo mai visto. Uno era azzurro, l’altro marrone. Ricordavo di aver espresso una certa curiosità al riguardo quando ero una dolce e piccola pixie, e sia mia madre che le fate più sagge mi avevano spiegato ogni cosa. Era una condizione chiamata eterocromia, che non aveva effetti visibili oltre la differenza di colore negli occhi di alcuni animali, che proprio per questo non aveva nulla di nocivo o dannoso per la loro salute. Sorridendo a quel solo ricordo, mi sporsi con cautela dalla sedia mostrando una mano, e sorprendentemente, il felino color pece prese a strusciarsi contro le mie dita. Per nulla timido, mi rivolse un miagolio debole ma chiaro, accompagnato anche da un accenno di fusa. “Via, Willow.” Ordinò a quel punto la signora Vaughn, scacciando la gatta con un cenno della mano. Obbedendo, questa si rifugiò in un angolo del tappeto poco distante, iniziando a giocare con alcuni dei fili appartenuti al tappeto stesso, sempre bellissimo ma ormai vecchio e sfilacciato. Guardandola distrarsi, non nascosi un altro sorriso, e poco dopo, tornando a fissare la padrona, mi ricomposi. “Non era un fastidio.” Provai a dire, cercando di giustificare quel povero animale ed evitarle colpe che non aveva. “Lo era per me. Sa che non deve disturbarmi quando ho ospiti.” Rispose subito la donna, rivolgendo un’occhiataccia alla gatta, ora impegnata a lisciarsi il pelo e non più a divertirsi. A quanto sembrava, doveva aver sentito le parole della donna, e ora tentava di non badarci, anche se dentro di me ero sicura che soffrisse. In quel momento, la strega posò una mano sul tavolo, e raggelando, mi bloccai. “Allora? Che le succede?” chiese Christopher, prendendo la parola e rompendo il silenzio creatosi fra di noi. Per tutta risposta, la donna mi sfiorò la mano, e notando solo allora il livido presente sul mio polso, vi incise con l’unghia smaltata di nero una croce. Con mani tremanti, la lasciai fare, e quando un rivolo di sangue lasciò la ferita che mi provocò pur non volendo, fui costretta a chiudere gli occhi. Per qualche strana ragione, la donna aveva le mani fredde, e quel contatto mi colse di sorpresa. “Paura, Kaleia?” mi chiese, continuando a tracciar croci sul mio livido dolente. “Dolore, signora.” Risposi, onesta e leggermente scossa da quella sorta di rituale. “Perdonami, ma abbiamo finito.” Replicò allora l’anziana, alzando gli occhi per incontrare i miei e ponendo fine a quel costante e continuo andirivieni delle dita sulla mia pelle. “Q-Quindi? Cosa mi è successo?” indagai, avendo improvvisamente timore di parlare. “Quello che succede a tutte le fate come te, giovani e incoscienti.” Spiegò la donna, fornendo una risposta affatto chiara e restando forse volontariamente sul vago. “Che intende dire? Non… non capiamo, noi…” azzardò allora Christopher, parlando e avvicinandosi al solo scopo di prendere le mie difese. “Lo sapevate, ragazzi. Sapevate che l’amore fra fata e protettore non poteva esistere, eppure eccovi, innamorati l’uno dell’altra e pronti a vivere i vostri sogni, non è così? Bene, guardate dove siete arrivati. Mi spiace dirlo, Christopher, ma da quel che ho sentito la colpa è tua.” Continuò la strega, portando avanti un discorso che faticai a seguire a causa della moltitudine di emozioni intente a turbinare nel mio giovane animo. “Mia? Come sarebbe? Signora Vaughn, io… non le ho mai torto un capello!” gridò allora Christopher, tentando di difendersi da quelle ingiuste accuse. Seduta su quella sedia da ormai minuti interi, restavo ad ascoltare senza dire nulla, ma sapevo. Sapevo che era vero, e che in tutto quel tempo lui non aveva fatto altro che amarmi e proteggermi, adempiendo ad ogni suo dovere, dettato dalla legge magica o meno. “È qui che sbagli, mio caro, guardala. Guardala e dimmi se ti sembra la fata di sempre. Non vedi com’è debole? Quanta fatica fa a stare in piedi? Quanto dolore le provochi starti accanto o usare i suoi poteri? Dovevi insegnarle come fare, invece l’hai condannata. Vergognati, Christopher, vergognati.” Gli disse poi, alzandosi in piedi e puntandogli un dito al petto. A quella scena, non ci vidi più. Sapevo bene di essere una persona calma, ma questa qualità spariva sempre quando si trattava dei miei amici, della mia famiglia o di chi amavo. Scattando in piedi come una molla, mi frapposi fra Christopher e la strega, preparandomi a parlare e dar voce a ciò che da tempo covavo dentro. Lenti, i secondi passavano, e una giusta rabbia mi cresceva dentro come una robusta quercia. “No.” Dissi, allontanandola da lui e tenendo alto lo sguardo. “Cosa?” chiese la donna, confusa. “Mi ha sentito bene, ho detto no. Non è vero, niente di tutto questo lo è, fine della discussione. Non riesco a crederle. Sarà anche un’anziana e una strega più esperta di una fata come me, ma il mio Christopher non mi farebbe mai del male, mai.” Risposi, sfogando la mia collera e sputando veleno. “Kaleia, aspetta, non stai ragionando. Sarò anche una strega come dici, ma sto cercando di aiutarti!” replicò la signora Vaughn, sostenendo il mio sguardo e mostrandosi preoccupata per me. Scivolando nel silenzio, mi fermai a pensare. Mi aveva aiutata in passato quando si era trattato di Sky e delle nostre origini, ma dopo quello che aveva appena detto, non avevo più intenzione di ascoltarla. Posandomi una mano sul cuore, lo sentii per l’ennesima volta battere come impazzito, e fissando per un attimo lo sguardo sulle mie mani, vidi la più grossa delle vene pulsare pericolosamente. Ricordavo che qualcosa di simile era accaduto quando mi ero punta con quella stupida spina nella foresta, e ora una cosa era certa. Dovevo andarmene e sparire prima di perdere il controllo. “Ne ho abbastanza. Andiamo, Christopher.” Sibilai nel tornare a guardarla, con voce ferma e occhio invelenito.  A  quelle parole, il mio amato si fece avanti, e afferrandomi un polso, mi impedì qualunque movimento. “Tesoro, forse ha ragione, non credi…” biascicò, non sapendo che le sue parole sarebbero presto state la scintilla madre di un metaforico incendio, che ormai da tempo già divampava nelle mie viscere. “Ho detto andiamo, per… per favore.” Fui svelta a replicare, facendo fatica a respirare e a riprendere le redini delle mie emozioni. Annuendo, lui mi prese per mano, e lentamente, uscimmo da quella stanza, guadagnando poi la porta della casa. “Grazie dell’aiuto, strega.” Sussurrai, non provando in quel momento nulla di dissimile dall’ odio. Quasi ignorandomi, la donna non rispose, e camminando accanto al ragazzo che amavo, riuscii a calmarmi. Silenziosa, gli tenevo la mano lasciando che mi accarezzasse la schiena con ogni passo, sicura che mi avrebbe condotta alla nostra meta comune, ovvero la foresta. Ero una fata della natura, il verde era il mio elemento, e nonostante molti non lo capissero o si limitassero ad alzare gli occhi o scrollare le spalle, stare troppo lontana da quel luogo era per me a dir poco doloroso, così come la lontananza dal mio amato Christopher. Tornata a casa, mi addormentai sul divano senza neanche raggiungere la mia stanza, e scivolando nel sonno, mi svegliai solo per poco, non sentendo che un dolce peso. Da sdraiata, strinsi il cuscino su cui avevo posato la testa, poi mi resi conto di non sentire più freddo, in quanto protetta e aiutata da una coperta. Non nevicava ormai da qualche giorno, e ne ero felice, ma nonostante questo, il vento era sempre gelato. In genere di notte faticavo a dormire, e sembrava che Christopher se ne fosse accorto. Fidanzati, condividevamo la stessa casa da abbastanza tempo, ed ero certa di non esagerare quando dicevo di adorare la sua presenza. Se stavamo insieme, mi sentivo protetta e al sicuro, come se nulla nella mia vita potesse andare storto. Ovvio era che questa fosse solo una sensazione e non una certezza, ma per ora mi bastava, e ormai stanca, non feci che dormire, comunque consapevole di non poter continuare a vivere in quel modo, con un cuore che mi governava dando alternativamente libertà a due metà non certo uguali, che sembravano confliggere e rimescolarsi nel mio animo come le acque di un mare in tempesta.

 

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Capitolo 7
*** Tentativi di ripresa ***


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Capitolo VII

Tentativi di ripresa

Incredibilmente, avevo dormito bene. Al caldo e senza incubi o voci, proprio come speravo di fare da ormai lungo tempo. Ero sveglia, e alzandomi dal divano, fissai lo sguardo sul cuscino su cui avevo posato la testa. Coprendomi la bocca con la mano, soppressi uno sbadiglio, e una volta in piedi, camminai fino alla mia stanza, entrando lentamente e ammirando la mia immagine riflessa nello specchio. Ancora vigile dopo il mio seppur corto riposo, avevo i capelli arruffati e fuori posto, ma la cosa non mi toccava. Con soli pochi passi, raggiunsi il cassetto del mio comodino alla ricerca di una spazzola per domarli, poi lo notai. Di nuovo davanti ai miei occhi, un vaso di fiori, o per essere specifica, le viole ricevute da Lucy. Il gambo vi galleggiava dentro, e i petali sembravano ormai prossimi a staccarsi. Sentendo una strana stretta all’altezza del cuore, mossi piano le dita, e una sottilissima polvere bianca e scintillante cadde nell’acqua. Avevo usato i miei poteri di fata per ravvivare quel povero fiore, e nello spazio di un momento, lo vidi riprendersi. Ci volle solo un attimo, e ognuno dei petali riprese il proprio posto. Sorridendo debolmente, li sfiorai con la mano in una dolce carezza, poi mi allontanai. Fra un passo e l’altro, non mi guardai indietro, e ben presto la mia mano si fermò sulla maniglia della porta. Ero pronta ad uscirne senza il minimo rumore come al solito, ma poi una voce mi distrasse. Bassa e ridotta ad un sussurro stanco, mi chiamava. “Kaleia? Sei… sei tu?” chiese, cogliendomi di sorpresa e inducendomi a voltarmi. In perfetto silenzio, mi guardai velocemente intorno, e il mio sguardo si posò su quello che era il mio letto. Sempre in ordine come ogni giorno, ma proprio sopra la coperta, con ancora i vestiti addosso,  Christopher. Il mio Christopher. In quel momento, i ricordi del giorno prima si palesarono nella mia memoria, e l’intera scena prese vita nella mia mente come un film, fotogramma dopo fotogramma, minuto dopo minuto. Ero stata io a scattare in piedi e difendere il nostro amore da quella strega della signora Vaughn, ma guardandolo, così stanco, spossato e privo di forze, non riuscii a nascondere un secondo sorriso, né ci provai. Al contrario di me era rimasto fermo come una statua, certo, ma in altre occasioni non aveva fatto altro che proteggermi, e più il tempo passava, più sentivo di amarlo, e come se questa non fosse una prova tangibile dei miei sentimenti per lui, ricordavo tutto. La magia del nostro primo bacio fra le lucciole, la sua fuga e il suo ritorno, e tutto il tempo che aveva passato accanto a me e alla piccola Lucy. Ormai era passato un anno, ma a volte, fermandomi a pensare, rimembravo i giorni in cui li avevo visti giocare insieme, e poi, quasi con prepotenza, altri ricordi. Quelli del mio allenamento. Stando alle parole di mia madre Eliza e delle fate più sagge, mi serviva per imparare a conoscermi e a controllare i miei poteri, gli stessi poteri che più volte mi avevano ferita, e che dopo l’ultimo svenimento che mi aveva lasciata vuota e quasi priva di energie, avevano rischiato di uccidermi. Sedendomi sul letto accanto a lui, lo guardai per un attimo, poi mi sdraiai. Dormiva come un bambino, e nonostante sapessi che non fosse vero, potei giurare di aver visto le sue labbra stirarsi in un sorriso. Lentamente, gli accarezzai una guancia, e solo allora, lui parve svegliarsi. Con un solo gesto, fece scivolare la mano fuori dalla coperta, e le nostre dita si intrecciarono. Felice, lo strinsi in un delicato abbraccio, e volendo osare, catturò le mie labbra per un bacio. “Dormito bene?” azzardai, non avendo certamente dimenticato quel tenero spettacolo. “Sì, e tu?” rispose semplicemente, per poi rigirarmi la domanda. “Benissimo, amore, ma… stavo pensando.” Confessai, sicura di non poter tenere nascosti i miei pensieri. “Bene, allora dimmi, ti ascolto.” Replicò lui, drizzandosi a sedere e non lasciandomi la mano. “Credi che potresti allenarmi ancora dopo quello che è successo?” non potei evitare di chiedere, con una strana sensazione a divorarmi le membra. Scivolando nel mutismo, Christopher si fermò a pensare, e a giudicare dall’espressione di tranquillità che aveva dipinta in volto, sperai che avesse ancora la fiducia necessaria ad aiutarmi, e restando in attesa, sperai che parlasse. “Certo.” Disse soltanto, spezzando il silenzio e la tensione creatasi nella stanza. “In fondo hai fatto un ottimo lavoro con quei fiori, cosa potrebbe andare storto?” osservò, scherzoso e profondamente orgoglioso di me. “Come sai che sono stata io?” chiesi poi, trattenendo una piccola risata e assestandogli un affatto offensivo pugno sul braccio. “Stavano appassendo fino a poco fa, tesoro, e poi… come potrebbero riprendersi tanto in fretta?” continuò lui, dando voce a quella verità, di fronte alla quale non potei certo obiettare. “Riesci sempre a scoprirmi, vero, custode?” dissi, abbassando la voce e facendo scivolare la mano sul suo viso in una carezza. “Vero, fatina.” Fu la sua risposta, che quasi mi fece arrossire. “Vogliamo andare, allora?” azzardò poco dopo, alzandosi in piedi e tenendomi stretta. “Anche subito.” Risposi, stringendo la sua mano con forza ancora maggiore e uscendo finalmente dalla stanza. Arrivati in salotto, guadagnammo insieme la porta di casa, e per la prima volta dopo tanto tempo, anche mia madre volle unirsi a noi. “Sei sicura, mamma?” fui svelta a chiederle, volendo sincerarmi delle sue intenzioni. “Sì, Kaleia, certo. Tutto questo è importante per me come per te.” Rispose lei, mantenendo la semplicità che la caratterizzava. “Va bene.” Dissi soltanto, stringendomi nelle spalle e invitandola a seguirci con un cenno della mano. Imitandomi, lei ci camminò accanto, e ben presto ci ritrovammo fuori casa, nel bosco che conoscevo e amavo, fortunatamente non più coperto da una coltre di bianca neve. Proprio come mi aspettavo, si era sciolta con il sole, e malgrado il freddo perdurasse, almeno ora le piante erano libere di respirare. Appena spuntato fuori dal suo nascondiglio fra le nuvole, erranti viaggiatrici del cielo, il sole faticava a mostrare il suo pallido volto, ma non badandoci, cercai di essere positiva. In piedi fra l’erba, vidi Christopher allontanarsi, e senza una parola, attesi un suo segnale. Durante lo scorso anno ci eravamo allenati così, e stando a quanto ricordavo, a ognuno doveva sempre corrispondere una mia reazione, diversa a seconda dei casi. Come sempre, iniziammo dalle basi. Ormai pronta, chiusi gli occhi, eliminando ogni distrazione e concentrandomi solo sul suono della sua voce. C’erano tecniche e incantesimi che ero in grado di gestire da sola tramite pensiero e concentrazione, ma altri in cui avevo bisogno d’aiuto. Ormai da lungo tempo, Christopher ed io lavoravamo ad un’unica tecnica. L’incanalazione. Nulla di diverso dal concentrare ogni grammo della mia energia nelle mie mani, per poi rilasciarla se mai ne avessi avuto bisogno. A dispetto del tempo che era passato, ricordavo ancora quanto ce ne avessi messo ad impararla, e dopo quanto era accaduto con la signora Vaughn, sentivo davvero di dover rispolverare la mia magia, così come ognuna delle mie capacità. Sempre concentrata, attendevo che Christopher mi parlasse, e finalmente, la mia pazienza venne premiata. “Concentrati, amore, concentrati.” Mi disse, abbassando la voce fino a renderla un sussurro. Annuendo, non mossi foglia, e chiudendo il pugno, respirai a fondo. Improvvisamente, il cuore prese a battermi forte nel petto, e ancora una volta, sentii di essere vicina a perdere i lumi della ragione. Era già successo a casa di quella maledetta strega, e la soluzione era una sola. Ascoltare le parole di colui che mi allenava. “Va bene, per adesso basta, fammi vedere.” Pregò, con la voce sempre bassa e quasi inudibile, ma alle mie orecchie a dir poco perfetta. Obbedendo a quella sorta di ordine, riaprii il pugno con uno scatto felino, e riaprendo gli occhi, lo vidi. Un lampo di luce verdastra, simbolo dei miei poteri e della mia forza, che per tutto quel tempo avevo tenuto chiusa a chiave dentro di me, come segregata. Non volendo causare danni, mirai verso un punto lontano, verso il lago, guardando quella sorta di dardo elettrico venire sparato verso il lago, sfiorando il pelo dell’acqua e dissolversi nell’aria attimi dopo. Avvicinandosi, Christopher mi posò una mano sulla spalla, vantando in viso un’espressione a metà fra tranquillità e orgoglio. Felice quanto e forse più di lui, lasciai che mi accarezzasse la schiena con delicatezza, e voltandomi a guardarlo, mi ersi sulle punte per un bacio. Per nulla colpito, lui mi lasciò fare, e non appena ci staccammo, un sorriso si dipinse sulle labbra di entrambi. Emozionata, mi morsi leggermente un labbro, e senza dire una parola, Christopher mi spostò una ciocca ribelle dietro l’orecchio. Senza volerlo, avvampai, e perdendomi nei suoi occhi, trassi un sospiro di sollievo. “Stanca?” azzardò lui, scambiando la mia felicità per spossatezza. “No, no, sto bene. Vuoi continuare?” risposi, tranquilla e contenta di aver raggiunto il primo dei miei obiettivi. Per una volta non avevo sbagliato, e con la letizia ad impadronirsi del mio animo, notai che aveva lo sguardo fisso sul lago. Confusa, lo guardai a mia volta, poi parlai. “A cosa pensi?” provai a chiedere, incoraggiandolo e stringendomi a lui. “A noi, Kaleia.” Confessò in quel momento, stuzzicando la mia curiosità. “Davvero?” fu la mia risposta, che diedi non riuscendo a tenere a freno la lingua. “Davvero.” Mi fece eco lui, ricambiando quella stretta con amore e pazienza. A quelle parole, sentii le guance bruciare, e impaziente, mi sporsi per un altro bacio. Lasciandomi fare, Christopher si godette quel contatto, e ad occhi chiusi, mi ritrovai a fare lo stesso. In quel momento, il freddo dell’inverno non mi toccava più, e l’unica cosa che sentivo era il calore del nostro abbraccio e delle sue labbra sulle mie. Il tutto non durò più di un minuto, e fu quando ci staccammo che la vidi. Un’ombra nel buio di alberi e cespugli, e d’improvviso, di nuovo quella sensazione di freddo sulla pelle, non certo dovuta al tempo atmosferico. Muovendo qualche passo in avanti, provai ad aguzzare la vista, e per tutta risposta, Christopher si frappose fra me e quell’ombra. “Sta ferma e aspetta.” Dichiarò, solenne. Spaventata, presi a tremare come una foglia, e nel tentativo di difendermi, Christopher raccolse un ramo da terra, brandendolo minaccioso come se fosse stato una spada. “Giù le armi, cavaliere!” fu la risposta della misteriosa figura, che emergendo dall’ombra, si rivelò essere quella maledetta strega. Cauto, Christopher avanzò verso di lei alzando le mani al cielo, facendole capire che non era pericoloso. Non proferendo parola, io lo seguii restando alle sue spalle, e notandola, le lanciai un’occhiataccia. Per tutta risposta, la donna m’ignorò, tenendosi stretta al petto la gatta nera. Sostenendo il suo sguardo non mi lasciai intimidire, ma la voce di Christopher bastò a dissuadermi. “No, Kaleia. Non merita la tua rabbia” Disse, in un sibilo nervoso e carico della collera che io non potevo ma volevo mostrare. Chiudendo gli occhi, inspirai a fondo per ritrovare la calma ormai persa, ed evidentemente stanca dell’atteggiamento della padrona, la gatta soffiò e sputò, scalciando fino a sfuggire dalle sue braccia. Muta e con l’occhio invelenito, la strega tentò di fermarla, non ricevendo altro che un vistoso graffio, che andò a lacerare la stoffa del suo vestito, ferendole la pelle fino a farla sanguinare. Una volta fatto, andò a sedersi vicino all’acqua, guardando l’orizzonte e muovendo le zampe nel giocare con alcuni fili d’erba mossi dal vento che intanto aveva iniziato a soffiare. Mantenendo il silenzio, mi concentrai sulla gatta, notando che nonostante il suo tentativo di distrarsi e giocare, tremava impercettibilmente. In quel momento, avrei voluto avvicinarmi, ma ero sicura che avrebbe graffiato anche me, e astenendomi, la lasciai da sola. Affatto colpita dal precedente comportamento di Christopher, la signora Vaughn si avvicinò a lui, poi diede inizio ad un applauso tanto lento quanto sarcastico. “Bella prova, protettore. Ottima, davvero. Avete il mio appoggio, ma vi conviene fare attenzione.” Lo avvisò, arrivando quasi a sputargli in faccia odio e veleno. Disgustata, soppressi il desiderio di urlare ancora in faccia quello che pensavo, e afferrando Christopher per un polso, lo trascinai via. “Appoggio o meno, cara signora, ci lasci in pace.” Sussurrai prima di andarmene sfidandola con la voce. “Lasciarvi in pace? Cara, se lo facessi tu non potresti avere questa. Credi che ti convenga, nella tua situazione?” replicò lei, per nulla impressionata da quello che riteneva un patetico tentativo di tenerle testa. “Avere cosa, strega da strapazzo?” chiese a quel punto Christopher, prendendo di nuovo la parola e sguainando ancora quella spada di fortuna. “Ma questa, mio caro! Guarda tu stesso, avanti.” Fu la risposta della donna, che senza muovere un passo estrasse un foglio di carta dalla tasca del vestito. Sgualcito ma piegato ad arte, attirò subito la sua attenzione, e tentando di prenderlo, ricevette un secco diniego oltre che un rifiuto. Ad essere sincera, non sapevo cosa quel foglio nascondesse, ma decisa a scoprirlo, mi feci avanti. Mossa da una forza quasi mistica, protesi il pugno stretto verso di lei, e quando lo riaprii, non vidi più nulla, solo un lampo di luce unito ad uno spostamento d’aria. Fu quindi questione di attimi, e quando tornai ad essere me stessa, mi resi conto di quello che avevo appena fatto. In preda alla rabbia, avevo finito per usare la magia contro quella donna, che ora giaceva fra l’erba, esanime. Tremando, mi avvicinai al suo corpo, e inginocchiandomi, la sentii rantolare. Un sollievo enorme data la situazione, in quanto per pura fortuna non l’avevo uccisa. Rimettendomi in piedi, mi voltai verso Christopher, che a sua volta mi diede le spalle, allontanandosi. Ferita, gli corsi incontro, ma colta da un’improvvisa debolezza, quasi caddi. “Christopher, ti prego, aspetta.” Biascicai, sentendo gli occhi bruciare a causa di mille lacrime che tentai invano di trattenere. “Non avresti dovuto, Kaleia.” Mi rispose soltanto, sfuggendo dai miei sguardi e continuando a camminare. Distrutta, feci saettare lo sguardo in ogni direzione, scorgendo nel verde quell’ormai famoso pezzo di carta. Abbassandomi, lo raccolsi da terra, e leggendolo più velocemente che potei, lo strinsi in mano, sperando con occhi dolenti nel perdono del mio amato. “No, aspetta, aspetta!” gridai, parlando con il vento che spirava e sentendo le lacrime rigarmi il volto. Sconsolata e sicura che nessuno potesse sentirmi, tornai subito in casa, dando un ultimo sguardo  all’orizzonte prima di richiudere la porta. Debole e sola, mi trascinai nella mia stanza, e in quel cupo pomeriggio, nulla parve risollevarmi. Non la visita di mia madre, non il costante e snervante canto di Midnight, né il dolce squittio di Bucky, unito alla simpatica abitudine che aveva di asciugarmi le lacrime con le zampine, facendo attenzione a non graffiarmi il viso. Incapace di pensare ad altro, non mi distrassi né addormentai, maledicendomi mentalmente per ore intere. Cos’avevo fatto? Come avevo potuto? Avevo ignorato i consigli del mio saggio protettore, lasciandomi guidare dall’istinto e sfruttando i poteri di cui disponevo lasciando che si mischiassero alle mie emozioni, vanificando così non pochi tentativi di ripresa.

 

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Capitolo 8
*** La pagina scomparsa ***


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Capitolo VIII

La pagina scomparsa

Sola. Ero rimasta sola. Attimi prima, tutto sembrava andare per il meglio, e attimi dopo, un maledetto errore da parte mia aveva rovinato ogni cosa. Troppo scossa per pensare lucidamente o fare altro, ero tornata a casa e mi ero chiusa a chiave nella mia stanza, lontana da tutto e tutti, con la speranza che la solitudine potesse cancellare il mio sbaglio e quella di Bucky come unica compagnia. Sdraiata sul letto, piangevo in silenzio, inzuppando di lacrime il mio bianco cuscino. Fra una lacrima e l’altra, conservavo la speranza di sentire la porta di casa aprirsi e Christopher attraversarla per poi tirare dritto verso la mia stanza, ma per mia sfortuna, nulla di questo accadde. Mentre il tempo si muoveva, lento e inesorabile, il silenzio era così cupo da rendermi sorda, rotto soltanto dallo sporadico squittire del mio scoiattolo, che aveva fatto di rendermi felice una vera e propria missione personale. Tenero e giocoso come sempre, le tentava tutte. Mi girava attorno, mi solleticava il viso con i baffi e le zampette, correva dappertutto facendo rotolare la sua amata ghianda in giro, o volendo strafare, si arrampicava sulle tende dondolandosi come una scimmietta. Modi come altri di farmi dimenticare il mio dolore, e che lo volessi o meno, di far spuntare un sorriso sul mio volto. Ad essere sincera, era questo che mi piaceva di mio del mio amico peloso. Era dolce, piccolo e più tenero d’un pupo, così carino da farmi alle volte desiderare di coccolarlo per sempre. Per altri un qualunque animale domestico sarebbe sempre rimasto tale, una semplice palla di pelo abituata a combinare guai di ogni sorta, ma non per me. Bucky non era soltanto uno scoiattolo, non un sorcio né un sacco di pulci, ma un amico. Non avrebbe mai imparato a parlare né posseduto poteri magici simili o pari ai miei, ma era speciale. Nel tempo, ero stata avvicinata da volpi, conigli e da altri scoiattoli come lui, ma nessuno gli somigliava, neanche lontanamente. Ne avevo visti tanti nella mia vita, ma mai nessuno con quella curiosa striscia bianca a percorrergli la schiena, o con quella particolare tonalità di rosa a tingergli i cuscinetti delle zampe, né con il suo carattere, sempre curioso e incline al divertimento, nonché a mille e mille disastri a dir poco infantile. Come sempre, il tempo scorreva, e non volendo darsi per vinto, le tentava tutte al solo scopo di farmi felice. Di tanto in tanto sorridevo, ovvio, ma per lui un solo sorriso sembrava non essere abbastanza. Voleva vedermi in piedi, senza lacrime sul volto e fuori dalle quattro mura di quella stanza, e nonostante non fossi assolutamente in vena di uscire e addentrarmi nella foresta com’ero solita fare, con il mio piccolo amico seduto sulla mia spalla e con le zampe ben piantate sulla stoffa del mio vestito, in quel momento capii che l’arrendevolezza non era parte del suo vocabolario. Sicuro di fare del bene, mi aveva anche regalato un’altra ghianda, per poi accucciarsi sotto le coperte e restare a guardarmi fisso negli occhi, come in attesa di qualcosa. Divertita, sorrisi con gli occhi ancora bagnati da lacrime prossime ad asciugarsi, e portandomela alla bocca finsi di mangiarla, avendo la gioia e la fortuna di vederlo saltellarmi intorno come impazzito, squittendo di pura felicità. Grata di quel suo buffo e goffo modo di intrattenermi, gli regalai qualche carezza, e sporgendomi verso il comodino lì accanto, toccai con mano delicata le viole della mia giovanissima amica ancora una volta, per poi lasciare che il mio sguardo si posasse su un libro, ma non su uno qualunque. Su quel libro. Quel maledettissimo libro dalla copertina color pece, che mai avrei voluto leggere ma che ora mi attirava a sé come la luce faceva con una falena. Era strano a dirsi, ma nonostante il mio odio per uno dei lati della realtà che vivevo e per ciò che era scritto in quelle pagine, ora non riuscivo a smettere di leggere. Di volta in volta, centinaia o forse migliaia di caratteri neri su uno sfondo bianco, cuciti insieme per formare frasi da me a stento decifrabili, e fra tutte, non una che riuscisse a rincuorarmi. Forse esageravo, forse saltavo a conclusioni affrettate, o forse avevo semplicemente sbagliato libro, ma la sola idea che nessuno si fosse mai disturbato a sedersi in uno studio o ad una piccola scrivania illuminata anche solo da una candela e scrivere qualcosa che per noi fate potesse avere un senso, o che perlomeno contenesse un pizzico di speranza, un concetto racchiuso nella nostra sottile polvere magica e nei cuori di ognuna di noi mi dava la nausea. Volendo essere ottimista, tendevo a pensare che anche gli umani conservassero tale sentimento nel loro cuore, e ogni volta, il mio pensiero andava a Christopher. Ricordavo ancora ciò che mi aveva detto durante il mio primo svenimento, una singola frase che anche dopo un anno non era svanita dalla mia mente. In quel momento così delicato, voleva rincuorarmi, e stando al suo modo di pensare, non avrei dovuto far altro che rilassarmi, chiudere gli occhi e non pensare a tutto il disordine che mi circondava, impresa tutt’altro che facile in una situazione di questo calibro. Sospirando, chiusi di scatto quel tanto oscuro tomo, e proprio quando tentai di rimetterlo al suo posto sul comodino, qualcosa mi scivolò fuori dalla tasca del vestito. Confusa e stranita, mi alzai per raccoglierlo, e solo allora, tutte le tessere di quel vitreo mosaico presero posto, fino a completarlo. Un guizzo di memoria mi saltò in mente, e dispiegando quello che ricordai essere un foglio già visto, tremai. Colpito e preoccupato per me, Bucky si drizzò a sedere fra le coperte, aguzzando la vista come per tentare di leggere. Guardandolo per un solo attimo, lo accarezzai ancora, pensando che gli sarebbe servito soltanto un paio d’occhiali, e poi sarebbe stato un lettore perfetto. Ad ogni modo, la situazione non restò ilare per molto, poiché non appena quell’ormai famoso foglio riprese fra le mie mani la sua forma originaria, sbiancai, diventando pallida come un cencio o una morta. Quello che stringevo e sui cui avevo posato gli occhi non era un semplice foglio, né lo era mai stato, ma era bensì una pagina. Scorrendola lentamente con gli occhi, tentai di recepirne il contenuto, e un brivido freddo mi scosse il corpo, cogliendomi di sorpresa. Da quel momento in poi, non pensai, limitandomi ad agire. Trafelata, ripresi in mano quel libro, e sfogliandolo con velocità inaudita, scoprii il suo ennesimo arcano. Fra le tante che lo componevano, una pagina mancava, come se fosse sfuggita all’autore, o in questo caso, strappata. Attenta, provai a rimetterla a posto, sussultando nel notare che combaciava con l’ovvio spazio lasciato da quella mancante. Comportandomi come un abile investigatore, avevo trovato un nuovo indizio per il caso a cui lavoravo, così come una nuova pista da seguire. Leggendo ancora, volli solo sincerarmi di non aver frainteso nulla, e solo a lettura finita, il vero colpo finale, lesto e inaspettato quanto un pugno nello stomaco. Stando alle mie indagini, quella pagina era la prima di un intero capitolo, il cui titolo mi privò delle parole. “Ibridi.” Questo l’unico lemma di cui era composto, chiaro e oscuro al tempo stesso, capace di illuminarmi e gettarvi allo stesso modo altra oscurità. Nessuno prima di allora l’aveva mai pronunciato nel riferirsi a noi esseri magici, ma stando a quel paragrafo e a quelli che seguivano, tali esseri potevano esistere anche in mezzo a noi, e dato quanto emerso durante quella specie di prima divinazione ricevuta dalla signora Vaughn, io e Sky eravamo due di loro. Con il cuore e la mente in tumulto, continuai a leggere, sperando che non vi fossero pene o punizioni troppo gravi per esseri magici di quello stampo, ma non riuscendo ad andare oltre a causa del mio stesso terrore, mi bloccai, sentendo le mani tremare così come il resto del corpo. Guardandomi, Bucky piegò la testa da un lato, come a dirmi che non capiva, e in quell’istante, mi decisi. Se ero riuscita a scoprire qualcosa di nuovo su me stessa era stato solo grazie a quella strega e quel libro che tanto avevo odiato, e in quanto mio protettore, anche Christopher doveva sapere. Ad essere sincera, non ero sicura di ciò che davvero fosse, se qualcosa di proibito, un cavillo dimenticato, o una sorta di tacito accordo fra due parti, ma in qualche modo ora sapevo di più su chi ero, e uscendo finalmente di casa, con il mio fido scoiattolo in spalla, ero determinata a divulgare quanto fino ad allora nascosto in una pagina da tempo scomparsa.





Buonasera a tutti, miei lettori. Ormai è giunta la sera, è praticamente notte fonda, e anche se leggermente in extremis, sono riuscita a fare in modo che questo giorno di festa portasse novità in questa storia e nella vita della nostra giovane Kaleia. Grazie del vostro supporto anche in vacanza, e al prossimo capitolo,


Emmastory :)
 

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Capitolo 9
*** Ritorno fra gli umani ***


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Capitolo IX

Ritorno fra gli umani

Non più chiusa in casa, avevo trovato la forza di uscire, e per la prima volta, il freddo e la neve non sembravano disturbarmi. I miei poteri sarebbero stati più deboli, certo, ma al momento, quello era l’ultimo dei miei pensieri. Lentamente, il mio cammino si trasformò in una corsa, e fra un veloce passo e l’altro, potevo sentire i mucchietti di neve frantumarsi e scricchiolare sotto le suole dei miei stivali. Li avevo ritrovati in una vecchia scatola di scarpe solo grazie a mia madre, scoprendo che nonostante il tempo non fosse stato generoso con la loro seppur finta pelle, mi calzavano ancora bene. Concentrata, tenevo basso lo sguardo al solo scopo di evitare buche, radici e rocce nascoste nella neve, non accorgendomi di stare andando così veloce da far quasi perdere l’equilibrio a Bucky, che ora lottava per restare aggrappato alla stoffa della giacca che portavo, e in cui mi stringevo per trovare riparo dal freddo vento che mi spira attorno, sputandomi in faccia la neve che intanto ha ripreso a cadere. L’inverno quest’anno pare duro, e guardandomi saltuariamente intorno, sgrano gli occhi nello scoprire che Bucky ed io siamo le uniche due anime fuori con questo tempo. Vedendoci, le genti ci considererebbero folli, ma non avendo occhi che per il mio obiettivo, non ci baderei neanche per un attimo, provvedendo a scrollarmi di dosso le loro parole come il mio amico fa con i fiocchi nel suo pelo. Intanto, il tempo scorre, e il mio viaggio continua. Ho freddo, ma resisto, sapendo di non poter mollare. “Continua a camminare.” Mi ripeto, stringendo i denti e aguzzando la vista per cercare di capire dove sono. Non ci vedo, la colpa è tutta del vento e del gelo che ho intorno, e come se tutto questo non fosse abbastanza, un improvviso dolore al fianco mi debilita. Perdendo l’equilibrio, per poco non cado, e finendo in ginocchio, provo a rimettermi in piedi. Pur non volendo, fallisco, per poi chiudere gli occhi in preda al dolore. Troppo presa dalla corsa, non ho fatto attenzione ad una stupida roccia, e non appena noto del liquido rosso mischiarsi al soffice bianco che ho intorno, sussulto. È soltanto una ferita, ma c’è del sangue intorno, e quasi non riesco a guardare. Scattando sull’attenti come al solito, Bucky raggiunge e sonda il terreno per controllare, e nonostante voglia, sa di non poter fare molto. La tristezza si specchia nei suoi occhietti scuri, e in quel preciso istante, un pensiero si fa largo nella mia mente. “Dove sei, Red?” una domanda che mi pongo ormai dall’inizio dell’inverno, e che fino ad ora non ha mai trovato risposta. Con uno sforzo, mi rimetto in piedi, ignorando il dolore e il bruciore della ferita ancora aperta e trovandomi costretta a rallentare. Per pura fortuna non zoppico, ma per qualche strana ragione mi sembra che questa tormenta peggiori con il passare del tempo. Proprio come me, Bucky sta gelando, e un suo inaspettato squittio mi riporta alla realtà. Il folto pelo che si ritrova lo tiene caldo, ma date la situazione, non credo che resisterà per molto. Stoica, mi impongo di andare avanti, ma il freddo mi congela i muscoli, e ancora una volta, cado. Stanca, non vedo né sento più niente, e nei miei ultimi momenti di lucidità, una luce. È flebile, ma sembra avvicinarsi, e a poco a poco si rafforza. “Aiuto.” Ho la sola forza di biascicare, protendendo una mano in avanti e sperando che la figura che ho davanti riesca ad aiutarmi. Incredibilmente, la fortuna mi sorride di nuovo, e sollevata da terra, mi sento al sicuro. Il corpo che mi sostiene è quasi freddo quanto il mio, ma ora come ora, ogni mano amica è ben accetta. Ormai senza forze, mi addormento in quella stretta, e meri attimi più tardi, la tempesta si calma. La neve ora non cade, il vento non soffia, e non sono da sola. “Va tutto bene, sorellina, va tutto bene.” Dice una voce, che dato il mio stato di dormiveglia sento appena. A quella singola parola, alzo lo sguardo, ed è allora che la vedo. Sky. Quella sorella da me tanto diversa che amo, e della quale mi fido ciecamente. “Come mi hai trovata?” chiedo, confusa e sconvolta dai capogiri. “Chiunque riconoscerebbe un corpo fra la neve, Kaleia.” Mi risponde lei, veloce e quasi priva d’emozioni. “Che ti era saltato in mente? Dove cercavi di andare?” azzarda poi, indurendo lo sguardo e la voce, come a volermi redarguire per il mio gesto. “Da Christopher. Devo vederlo dopo quello che ho scoperto.” Replico, affatto intimorita dalle sue parole. “Come? Da lui? Dopo quello che ti ha fatto? Non hai sentito la strega? Sei in pericolo!” urla, perdendo la calma e non badando al tono che usa nel parlarmi. Ascoltandola, capisco le sue ragioni, ma allo stesso tempo non posso evitare di sentirmi oltraggiata. In quanto mia sorella, conosce il mio protettore almeno tanto quanto me, e ingoiando quel rospo, resto in silenzio. Ad essere sincera, non me la sento di portare avanti quel discorso, importante ma a tratti futile. Un’altra lite aveva rischiato di dividerci in passato, e non l’avrei permesso di nuovo. Un singolo attimo scompare dalle nostre vite, e ferme, restiamo dove siamo. Sky è seduta su un tronco d’albero nel bel mezzo della foresta, e notando le condizioni in cui verso, mi permette di tenere la testa sulle sue ginocchia. Pensandoci, capisco che è grazie a lei se ora il tempo è calmo, e mentre i secondi passano, mi sento sempre meglio. Ad un tratto, mi rialzo facendo attenzione alla ferita alla gamba, e lasciandomi fare, lei si ritrae per farmi spazio. “Ascolta…” inizia a dire, con lo sguardo basso come quello di un povero cane bastonato. “Mi dispiace per prima. So quanto Christopher sia importante per te, quindi se ti va posso accompagnarti.” Propone poco dopo, finendo la frase e facendo germogliare nel mio cuore un seme di pura gioia. “Lo faresti davvero?” non riesco a non chiedere, del tutto incredula. “Certo, e ora andiamo. Ti starà aspettando, avanti.” Continua, accennando un sorriso e stringendomi la mano perché la segua. Annuendo, mi unisco a lei nel camminare, felice di averla di nuovo accanto. L’inverno non è certo la mia stagione, ed è inutile negarlo, ma è bello vedere come a dispetto delle mie difficoltà e della mia sofferenza attuale lei riesca ad essere così positiva e contenta. Sin da bambina, era sempre stata molto schiva, e lo sapevo bene, ma ora, tutto era cambiato. Non sorrideva spesso, ma questo era uno di quei momenti, e voltandomi a guardarla solo per sorriderle ancora, non badai ad altri che a lei e all’aura di letizia che sembrava circondarle il corpo. Passo dopo passo, viaggiavamo insieme, e non ero più sola. Bucky era sempre con me, e così anche Midnight, costantemente appollaiato sulla sua spalla e con gli occhi fissi verso un punto immaginario e lontano. Io e quello sconsiderato volatile non eravamo mai stati grandi amici, anzi, l’esatto contrario, ma in un momento di distrazione mi parve di vedere un sorriso spuntargli sul becco. Felice, tacqui quella mia scoperta, e a sera inoltrato, Sky ed io varcammo le porte di una piccola città che avevamo già visto, e lasciandomi la mano, lei mi guardò con l’orgoglio di una madre. “Siamo arrivate.” Si limita a dire, restando ferma e inerme mentre mi avvicino ad una casa conosciuta, che ospita il mio amato e la sua famiglia. Cauta, non oso far rumore, e all’improvviso, mi blocco. La paura ha di nuovo il sopravvento su di me, e divertita, Sky è costretta a farsi avanti. “Timida come sempre, vero?” osserva, lasciandosi scappare una risata e spintonandomi giocosamente. Affatto colpito, Bucky protesta squittendo, e il suo adorabile muso imbronciato mi fa sorridere ancora una volta. Finalmente calma, rompo il silenzio bussando, e con il cuore che mi batte forte nel petto gonfio d’amore e speranza, attendo sicura di aver superato le mie paure e aver fatto ritorno nel mondo degli umani.

 

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Capitolo 10
*** Gioia nell'orrore ***


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Capitolo X

Gioia nell’orrore

Eravamo arrivate. Alla fine eravamo arrivate, e con i pugni chiusi, restavo ferma e inerme davanti a quella porta. Non sapevo perché, ma non riuscivo a star calma. Avevo bussato, e ora mi toccava aspettare, che la porta venisse aperta, ma tremavo come una foglia. Il freddo vento che spirava non era certo d’aiuto, ma la colpa non era dell’aria invernale. Silenziosa, Sky mi stava accanto, e contrariamente a me, era una statua di granito. Calma, composta e paziente, apparentemente senza alcun pensiero a turbarle la mente. Distraendomi per un attimo, posai lo sguardo su una singola nuvola grigia sospesa in un cielo così chiaro da sembrare tinto di bianco, con il sole che faticava a splendere, come peraltro era già successo più di una volta. Il mio amore per la natura era paragonabile solo a quello che sentivo per Christopher, e malgrado l’inverno non fosse la mia stagione, dovevo essere sopravvissuta fino ad ora per un motivo. Lentamente, lasciai che il mio sguardo scivolasse oltre quella nuvola, e fu allora che le vidi. Appese ad un filo appena sopra l’arco cittadino, una serie di lanterne dal colore giallo, intenso come l’oro o gli occhi di un felino, stando alle parole del mio amato custode motivo di gioia. Ricordavo ancora ciò che mi aveva detto riguardo al loro significato, e sorridendo, sentii le sue parole risuonarmi nella testa come una dolcissima musica. “L’arrivo di una fata come te fra noi è motivo di gioia, tesoro.” Aveva detto, facendomi sorridere come la bambina che più non ero e cedere alla tentazione di avvicinare le labbra alle sue. Con quel ricordo ad allietarmi la mente, sorrisi, e proprio allora, la porta si aprì con uno scatto. Ad aprirla fu proprio Christopher, felice ma al contempo sorpreso di vedermi. “Kaleia, come sei arrivata?” chiese, stranito e confuso dalla mia presenza. “Volevo vederti, è per caso un crimine?” scherzai, ridacchiando divertita. “No, ma non entrare, non ora.” Mi pregò, improvvisamente colto da ansia e agitazione. “Cosa? Come mai?” mi affrettai a chiedere, guardando oltre la soglia di casa per non vedere che il vuoto nel suo salotto. “Amore, non è il momento, davvero.” Insistette, serio e stranamente infastidito. Confusa, scossi la testa, e riprendendo a tremare come un coniglio, posi la fatidica domanda. “Christopher, va tutto bene?” azzardai, preoccupandomi e arrivando a provare pena per lui. “Sì, sto bene, non preoccuparti e va a casa, d’accordo?” rispose, diventando freddo ed evasivo nella speranza di vedermi svanire come nebbia portata via dal vento. “Ma sono appena arrivata!” protestai, avvicinandomi per stringerlo in un abbraccio che non ricambiò. Colto alla sprovvista, tentò di allontanarmi, ma io non mi mossi, e indietreggiando, finalmente Christopher si arrese. Presa com’ero da quello slancio affettivo, non mi accorsi di nulla, ma tornando alla realtà, mi sentii mancare. Silenziosa come sempre, seduta sul divano di casa sua c’era l’unica persona che non avrei mai voluto rivedere. Zaria Vaughn. Una maledettissima strega che si era però rivelata d’aiuto nella scoperta dei miei poteri, e in altre parole, l’ultima maga sulla mia lista di visi amici. Sorprendentemente, accanto a lei una giovane ragazza, che ad occhio e croce poteva avere la mia stessa età, se non soltanto qualche anno di più. Colpita dalla sua vista, non mossi foglia, e in silenzio, mi limitai a guardarla. Per tutta risposta, anche lei non disse una parola, e ben presto tornai a concentrarmi su Christopher. “Che cosa ci fa qui la strega? E chi è lei?” non potei evitare di chiedere, ormai non più felice ma a dir poco furiosa. Sapevo bene di non averla uccisa dopo l’incidente durante i miei allenamenti con la magia, e c’era da dire che fossi ben contenta di non essermi sporcata le mani con il sangue di una donna innocente, ma era la vista dell’altra a turbarmi davvero. “Tesoro, adesso calmati, siediti e ti spiegherò tutto.” Rispose il mio lui, stranamente calmo di fronte ad una situazione che ai suoi occhi appariva normale. “Allora parla, avanti.” Concessi, prendendo posto su una poltrona accanto alle due ospiti, che dati i miei sentimenti per una delle due non tardai a definire intruse. La mia non era gelosia, solo rabbia, o forse, considerando la presenza della ragazza, un misto di entrambe. Ancora una volta, non sapevo cosa mi stesse succedendo, ma mentre il tempo restava occupato a scorrere, sentivo la mia magia scorrermi nelle vene come il mio caldo sangue, per poi arrivare ai miei palmi e farli bruciare. “Calmati.” Mi ripetevo. “Niente scenate.” Aggiungevo, parlando con me stessa e sforzandomi di mantenere la lucidità mentale ed evitare le conseguenze dell’ultima volta che avevo perso il controllo. È ormai passato del tempo, ma ancora adesso non saprei davvero spiegare come sono andate le cose. So solo di aver provato collera, e che la forte emozione doveva avermi portata a compiere quel gesto. Deplorevole, certo, e del quale ancora mi pentivo. Avevo quasi ucciso una persona, forse l’unica che mettendo da parte l’astio che a sua volta provava per me avrebbe potuto continuare ad aiutarmi. Chiudendo gli occhi per un attimo, mi imposi per l’ennesima volta di stare calma, e proprio quando pensavo che la voce del mio amato mi avrebbe aiutata a distendere i nervi, ecco che le mie speranze finirono per infrangersi come vetro. “Non scomodarti, lo farò io.” Dichiarò la signora Vaughn, prendendo la parola e intromettendosi fra noi due. “Signora, aspetti, io la rispetto, ma credo che in quanto suo protettore dovrei essere io a parlarle.” Replicò il mio Christopher, difendendo sé stesso e la sua posizione. “Perché? Così indorerai la pillola alla tua cara fidanzata?” chiese una voce che non riconobbi subito, ma che voltandomi capii appartenere a Sky. Avendo seguito il mio cammino fino alla casa e assistito al comportamento di Christopher, doveva aver intuito il celato pericolo prima di me, e seppur scioccata dalla sua reazione, la lasciai parlare. “Sky, no. Non è come pensi, ti prego.” Le rispose infatti lui, tanto serio quanto spaventato dal modo che aveva avuto di parlare. “Non è come penso, dici? Chi l’ha abbandonata dopo quello che ha fatto? Chi ha ignorato le sue grida d’aiuto? Chi? Io? No di certo, protettore dei miei stivali!” urlò, scuotendo con quelle parole gli animi e perfino il vetro della sua finestra. “Sky!” replicai, accecata dalla rabbia e incurante del tono che utilizzai. “Come puoi dire questo? Noi... Noi ci amiamo!” confessai in quel momento, lasciando campo libro alle mie emozioni e sentendo un peso scomparirmi dal petto. “Lo so, Kaleia, ma…” balbettò lei, ritrovandosi improvvisamente senza parole. “Niente ma. So che mi vuoi bene, te ne voglio anch’io, e c’è solo una ragione se sono venuta qui.” Spiegai, appellandomi al suo senso di giustizia e scioccando le altre due presenti, ridotte al silenzio come schiavi di fronte ad un odioso padrone. A quelle parole, Christopher mi si avvicinò con fare preoccupato, e ormai pronta, estrassi quel foglio dalla tasca del vestito. “Tesoro… cos’è quello?” mi chiese, quasi sussurrando. “Viene dal libro, e forse… forse parla delle mie origini. È possibile che sia un ibrido, Christopher. Uno schifoso, orribile ibrido.” Ammisi, abbassando lo sguardo e trovando conforto in un suo abbraccio. “Un cosa? Kaleia, io… io ti amo per la splendida ragazza che sei, era così anche prima che scoprissi che eri una fata.” Rispose il mio lui a voce bassa, stringendomi a sé e lasciando che ascoltassi il battito del suo cuore, che fino ad allora aveva sempre funto da panacea contro i miei mali. “Da brava, amore, sfogati, così.” Mi sussurrò all’orecchio, ormai dimentico di tutto e tutti e concentrato solo su di me. Di lì a poco, un bacio unì le nostre labbra, e ormai a terra già da tempo, Bucky andò a nascondersi dietro il divano, evidentemente imbarazzato da quella vista. Calma come mai ero stata, mi godetti quel contatto beandomi di ogni secondo insieme al mio amato, e quando ci staccammo, la realtà tornò a colpire, fredda e incapace di perdono. “È l’altro nome dato ad esseri come lei, non c’è altra spiegazione, mi dispiace.” Disse una voce alle nostre spalle, che spaventandomi, mi fece accapponare la pelle. Memore del discorso della signora Vaughn, mi aspettai che fosse lei a parlare, ma le mie previsioni si rivelarono scorrette, e senza parole e con ancora alcune piccole lacrime a rigarmi il volto, scivolai nel mutismo più completo. A parlare era stata la ragazza seduta lì accanto, e malgrado non conoscessi ancora il suo nome né le sue vere intenzioni, ebbi paura, temendo il peggio per me stessa, per Christopher e per la nostra incolumità. Aveva mostrato sorpresa nel vedere quel foglio, segno che neanche lui sapesse nulla di tutto questo, e che anche per gli umani come lui, conosciuti come protettori, c’era ancora molto da imparare. “Marisa…” chiamò la signora Vaughn, irritata. “No, mamma, devono saperlo.” Insistette lei, rispondendo alla strega con un titolo che non credevo le si addicesse. “Mamma.” L’aveva chiamata mamma, e pur realizzando l’ora evidente legame di parentela e la preoccupazione della donna per quella che era sua figlia, non riuscii a sorridere. Avrei tanto voluto, ma la cupezza delle mie emozioni non me lo permise. Guardandomi, la ragazza mosse qualche passo verso di me, e indietreggiando, Christopher la lasciò fare, dandole spazio. “Perdona mia madre, davvero. So che cosa le hai fatto, ma non volevi, è stato un errore dei tuoi poteri di fata. Non ti fidi, e lo capisco, ma se vuoi, posso esserti amica e confidente. Da adesso in poi.” Disse, scusandomi per il comportamento della donna nei miei confronti,e incredibilmente, mostrando compassione per me che avevo quasi messo fine alla sua vita. Ascoltandola, quasi non risposi, ma poi la vidi tendere una mano amica e abbozzare un sorriso, e forse guidata dalla parte più umana di me, sentii di potermi fidare. “Allora? Fata e strega?” propose, sperando con quelle parole di dar vita ad un accordo fra noi due. “Fata e strega.” Ripetei, offrendole la mano perché me la stringesse, fidandomi e dando allora inizio alla nostra alleanza. In piedi poco lontano da me, Christopher sorrise a sua volta, e con lui anche Sky. Entrambi mi volevano bene, e io ne volevo a loro, e guardando fuori dalla finestra, mi accorsi che il buio aveva preso il posto del mattino sfumato in pomeriggio, e che per me era ora di tornare a casa. Con un cenno del capo, gli indicai la porta, e precedendomi, Sky s’incamminò per prima. Intuendo il mio volere, Marisa non mi trattenne oltre, e poco prima che potessi raggiungere mia sorella, un miagolio mi distrasse. “Willow! Come sei uscita dalla mia stanza?” la riprese la stessa Marisa, fingendosi arrabbiata. Divertita, non riuscii a non ridere, e guardando la gatta correre verso la porta di casa ancora chiusa, la sentii miagolare ancora, per poi vederla strusciarsi contro le mie gambe. Sinuosa come ogni gatta che si rispetti, anche lei si muoveva agilmente, ma la sua agilità era compromessa da un’insolita lentezza, e lo stesso valeva per i suoi miagolii, alle volte a dir poco strozzati. Volendo giocare, Bucky si avvicinò a lei, ma Willow rifiutò, soffiando e sputando nella sua direzione. Terrorizzato, il mio scoiattolo tornò da me, ma non muovendo un passo, attesi ancora. “È tua?” azzardai nel parlare con Marisa, riferendomi alla gatta e pregando che la sua risposta non fosse negativa. “Sì, è mia. Non sembra, ma lo è. Mia madre non la tratta certo con i guanti, quindi ho paura per lei.” Rispose, dando conferma alle mie speranze e facendomi al contempo provare enorme pena per quella povera micia. “La prendo io.” Dichiarai ad alta voce, in un vero e proprio slancio di generosità. “Lo faresti davvero? Per me?” chiese allora la mia amica, con gli occhi che sembravano brillare per la contentezza. Poco prima di rispondere, mi scambiai con Christopher una singola occhiata. Avevamo già uno scoiattolo e una volpe come animali domestici, per cui non sapevamo se data la presenza dell’odore di Red in casa la gatta avrebbe potuto spaventarsi e fuggire, o spaventarsi tanto da diventare ostile. Speravo ardentemente di no, e vedendo il mio amato annuire, mi decisi. “Certo.” Dissi soltanto, sorridendole e aspettando che la gatta si calmasse e smettesse di girarmi attorno. “Hai sentito, Willow? Sei libera. Non vivrai più con quella strega adesso.” Le disse la padrona, prendendola in braccio e stringendosela al petto prima di lasciarla a me. Per tutta risposta, la gatta miagolò debolmente, e sollevando una zampa, la posò sulla guancia di colei che tanto l’amava, ritirando gli artigli come se volesse accarezzarla. “Lo so, micia, lo so, ma starai bene, te lo prometto.” Disse Marisa, coccolandola e rassicurandola con amore. Miagolando ancora, la gatta non parve convinta, ma quasi facendo buon viso a cattivo gioco, si lasciò prendere in braccio, e con un solo saluto e nessun’altra parola, Christopher ed io tornammo a casa. Sarebbe potuto rimanere dov’era, ma convivevamo già da tempo, e dopo quanto era accaduto, non voleva lasciarmi da sola. Lo capivo, e innamorata, non riuscivo a smettere di pensare a quanto ci amassimo reciprocamente, e a quante energie avesse speso per me fino a quel momento. Silenziosa com’era solita essere, Sky ci seguì camminando appena dietro di noi, e nella notte, sotto un cielo ormai nero e una luna d’argento, uno stridio che non ricordavo di aver mai sentito. Sorpresa, alzai lo sguardo, e come me anche Sky. Nel silenzio, per qualche attimo nessuna vide nè sentì nulla, poi rieccolo. Di nuovo quel verso, di nuovo la sorpresa negli occhi miei e di mia sorella. Con lo sguardo verso il cielo, scrutava l’oscurità, e poco dopo, lo vidi anch’io. Un falco volava da solo, trionfante e fiero, stridendo quasi con ogni battito d’ali. Ignaro della nostra presenza, solcava il cielo sopra di noi, e quando finalmente giungemmo a destinazione, lottai per prendere sonno accanto al mio amato, disturbata dal canto di Midnight, in evidente unisono ai versi del falco. Stremata, mi addormentai fra le braccia del mio custode, sicura che al suo fianco avrei trovato sempre una scintilla di luminosa gioia nei momenti di puro orrore.      
 

 

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Capitolo 11
*** L'ultima neve ***


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Capitolo XI

L’ultima neve

Stanca come forse mai ero stata, avevo finito per addormentarmi come una bambina nelle braccia del mio amato, riuscendo ad ignorare l’ormai costante stridio di un falco appena fuori dalla finestra di casa. Ad essere sincera, non avevo idea di che sugo un uccello di quel calibro trovasse nel solcare i cieli di notte anziché di giorno, ma decisamente priva di energie, avevo scelto di non badarci, e ora riposavo con lui, stretta al suo petto come una bambina alla costante ricerca di protezione. Lente, le ore passavano, e di tanto in tanto mi agitavo, svegliandomi solo per rigirarmi nel letto alla ricerca di una posizione comoda. Quasi non volendo che mi spostassi, Christopher non mancava di farmelo notare, stringendomi nel sonno la mano per invitarmi a restargli accanto. Inutile dire che lo lasciassi fare, e che ogni volta, sorridendo, tornassi al punto di partenza. Di attimo in attimo, il giorno si avvicinava, e non appena il sole fece capolino fra le nuvole disturbandomi la vista, mi svegliai aprendo gli occhi senza fatica, sorridendomi  nel momento in cui i miei occhi incontrarono i suoi. “È un nuovo giorno, fatina, alzati.” Mi sussurrò, sorridendo a sua volta e togliendo la mano da sotto la coperta per accarezzarmi. Era sciocco, forse anche infantile, ma adoravo essere coccolata in quel modo. Lo trovavo rassicurante, come le candide coperte in cui ero avvolta o il caldo abbraccio della donna che mi aveva accolta come sua figlia. Sapevo bene che Eliza non era e non sarebbe mai stata la mia vera madre, ma nonostante questo avrei sempre onorato il coraggio che aveva mostrato nel tendere a me e Sky una mano amica, specialmente considerando lo stato in cui versava e versavamo allora. Quando ci ha trovate non era che una semplice umana, e sarebbe rimasta tale fino al suo ultimo giorno di vita, ma come se questo non fosse abbastanza, era diventata una madre sola, alla quale era impossibile contare sull’aiuto di nessuno. Scuotendo la testa, mi liberai in fretta da quel pensiero, e liberandomi dalla coperta, mi misi a sedere sul letto. Veloce e agile come sempre, Bucky mi saltò subito in grembo, squittendo per la felicità provata nel rivedermi. Accarezzandolo, gli sorrisi dolcemente, poi lo guardai scendermi dal grembo, diretto verso un piattino che avevo riempito di noccioline. Non erano ghiande, ma stando al modo in cui sembrava divorarle e nasconderle nelle guance paffute per poi correre per l’intera casa facendole rimbalzare come palline di gomma, gli piacevano lo stesso, anzi, potevo anche azzardare a dire che le adorasse. Guardandolo mangiare, sorrisi ancora a quel solo pensiero, e dopo una fumante tazza di latte e qualche biscotto, decisi di uscire di casa assieme a Christopher. Prima che potessi farlo, il suono di un miagolio attirò la mia attenzione. Era Willow, la gatta della mia amica Marisa. Avevo promesso di prendermene cura al suo posto al solo scopo di salvarla dalle grinfie di sua madre Zaria, sempre pronta a maltrattarla e farle del male. Per pura fortuna non le aveva mai lasciato segni evidenti, ma ricordavo bene come l’avesse spinta via da sé quando non aveva cercato che qualche carezza. In quel momento, non avevo provato che pena per lei, e ora potevo tirare un sospiro di sollievo. Viveva con me, e nessuno le avrebbe mai più torto neanche un singolo ciuffo di pelo. Miagolando, cercava le mie carezze, e spostando lo sguardo, indicava la sua ciotola vuota. Stringendomi nelle spalle, decisi di darle da mangiare prima di lasciarla con Bucky, conscia che i due non si sarebbero certo fatti nulla. Lentamente, le versai dei croccantini, e aprendo il frigo, anche del latte. “Resterò io con lei, non preoccuparti.” Mi disse mia madre, rassicurandomi e abbassandosi ad accarezzarla. Mantenendo il silenzio, le lanciai un’occhiata interrogativa. “Sei sicura?” azzardai, non del tutto convinta. “Certamente! Staremo bene insieme, vero, Willow?” rispose mia madre, guardandomi brevemente negli occhi e rivolgendosi alla gatta, che rispose con un miagolio dolce e tranquillo, quasi come se riuscisse a capirla. “Visto? Va pure fuori, non succederà niente.” Continuò poi, indicando con lo sguardo la porta di casa ancora chiusa. Annuendo, mi ridussi al silenzio, e nello spazio di un momento, mi ritrovai di nuovo nella foresta. La stagione fredda era ormai giunta al termine, e con il sole che aveva preso a brillare mostrando tutta la potenza dei suoi raggi, la neve ci aveva finalmente concesso una tregua smettendo di cadere. Chiudendo gli occhi, inspirai a pieni polmoni, e soltanto un attimo più tardi, mi sentii diversa. In pace con me stessa, tranquilla, rinata, pronta a dar mostra dei miei pieni poteri non più indeboliti dal freddo. Vantandone di diversi, Sky non sarebbe stata la ragazza più felice al mondo, ma abbassando lo sguardo, compresi che poteva ancora esserlo, in quanto parte di quella bianca coltre giaceva ancora al suolo. Camminando, ebbi cura di non calpestarla, e al lontano orizzonte, scorsi un visetto tondo e un paio d’ali leggere. Riconoscendo quella piccola figura quasi istantaneamente, iniziai a correre prendendo Christopher per mano, e confuso, non ebbe scelta dissimile dal seguirmi. “Dove stai andando? Ferma!” mi pregò, arrancandomi accanto ma con un’espressione di puro divertimento dipinta in volto. “Lo capirai presto, ora vieni!” risposi, quasi urlando per la contentezza che faticavo a trattenere e che sprizzavo da ogni poro. Rassegnato, Christopher si limitò a tenere il mio passo, e quando finalmente mi fermai, notai che aveva il fiato corto. Per nulla stanca e sempre sorridente, guardavo dritto di fronte a me quasi beffandomi di lui, e proprio quando credetti di essermi sbagliata, eccola. La mia piccola amica Lucy, la bambina a cui avevo fatto da madre quando si era persa e allontanata dai genitori e dalle compagne, sempre seguita dalla sorellina Lune e stavolta da due adulti. Salutando con la mano, annuii lentamente, e vedendoli ricambiare, capii che non erano pericolosi. “Ciao Kaleia! Sai che giorno è oggi, vero?” mi salutò la piccola, radiosa nel suo bel vestitino  viola, che ancora le stava d’incanto e che nel tempo avevo imparato ad apprezzare. “Cos’è, volerai di nuovo via, piccola?” disse una voce alle nostre spalle, giungendo inaspettata. “Sky, no! Non devo più farlo ora che ho delle amiche, e oggi è il mio compleanno!” replicò la bimba, ridendo dello sciocco errore di mia sorella, che intanto si era avvicinata nel sentire la sua voce. “Compleanno?” le feci eco io, completamente spiazzata. “Sì, esatto. Diglielo anche tu, Lune, dai!” fu la sua risposta, accompagnata da una dolcissima risata e da un ennesimo sorriso, annuendo, la sorellina si staccò da lei, e avvicinandosi, mi porse un foglietto di carta. L’avevo vista usarli altre volte, e a giudicare dallo straripante zainetto che aveva sulle spalle, doveva sempre averne con sé, in modo da poter usare il disegno o la scrittura come mezzi di comunicazione. Accettando quel foglio in assoluta tranquillità, lo dispiegai lentamente, e fermandomi ad osservarlo, le accarezzai la testolina. Il disegno che aveva fatto non era altro che un semplice schizzo alquanto infantile, ma raffigurava una torta con sopra una candelina, perciò Lucy non aveva mentito. “Buon compleanno, piccina.” Dissi, augurandole mentalmente ogni bene e stringendola in un delicato abbraccio. “Grazie.” Soffiò lei in risposta, visibilmente grata e felice. Notando la nostra complicità, la donna che era con lei mi sorrise, e immaginando che fosse sua madre, le tesi una mano perché me la stringesse. “Kaleia.” Dissi soltanto, presentandomi educatamente. “Isla.” Rispose questa, ricambiando il gesto e la mia stretta di mano. Poco dopo, anche l’uomo fece la stessa e identica cosa, e guardandoli alternativamente negli occhi, non potei che immaginare il grande affetto che provassero per le figlie. Era una bella vista, una di quelle che faceva bene al cuore. “Oberon, cara, piacere mio.” Disse, calmo e cordiale come un uomo d’altri tempi. “Il piacere è tutto suo, papà, e questo invece è Christopher. Salutalo.” Disse a quel punto Lucy, intromettendosi e afferrando il polso del mio ragazzo perché potesse farsi avanti. Imbarazzato, Christopher forzò un quieto sorriso di circostanza, sembrandomi così goffo da risultare divertente. Trattenendomi, evitai di scoppiare a ridere, e in quello che ormai era diventato un mattino di gioia, mi sedetti in terra fra l’erba viva ma gelata, ignorando il freddo e concentrandomi su quanto mi stava accadendo. A quanto sembrava, Lucy era nata nell’ultimo giorno d’inverno, e data l’ancora tenera  età, conservava nella sua mente spazi rigorosamente riservati ai giochi e ai sogni. Imitandomi, si sedette con me, e in poco tempo coinvolse anche Sky, trascinandola con sé in un abbraccio di gruppo. Insieme, passammo la mattinata a distrarci con i divertimenti più disparati, lasciando alla piccola festeggiata le redini per tutto il tempo. Divertendosi, non faceva che ridere e giocare, donando ai genitori gioia e orgoglio. Più piccola ma non certo incapace, Lune faceva quanto possibile per tenere il passo, azzardando di tanto in tanto piccoli saltelli che avrebbe solo desiderato trasformare in veri voli di fata, simili ai miei o a quelli del resto della sua famiglia. Sfortuna volle che fosse ancora troppo piccola per riuscirci, ma che nonostante questo continuasse a provare. Nel primo pomeriggio, i genitori la guidarono nel fitto della foresta, e seguendoli, notai che su un tronco d’albero giaceva la sua torta. Era al cioccolato e panna, la candelina era una sola, e aveva la forma del numero sette. “Esprimi un  desiderio.” Le disse la madre, poco prima che la spegnesse con un soffio. Ascoltandola, la bimba annuì, e quando di quella non rimasero che la cera e lo stoppino, fui costretta ad asciugarmi una solitaria lacrima sfuggita al mio controllo, e per questo libera di scivolarmi sul viso. Premuroso, Christopher mi si avvicinò, e raccogliendole con il pollice, mi depose un bacio sulla guancia. “Va tutto bene?” chiese, parlando a bassa voce. “Sì, mi ha emozionata, scusa.” Risposi, provando vergogna e abbassando lo sguardo verso il terreno. “Sta tranquilla, è normale, ora goditi la festa.” Mi sussurrò, stringendomi fra le sue braccia e baciandomi ancora, facendomi così dimenticare tutto e tutti. In perfetto silenzio, mi beai di quel contatto, e una volta lontana da lui, annuii. In quel momento, potevo davvero dirmi innamorata e felice, e quando anche il pomeriggio scomparve, tramutandosi in sera, fu per Lucy ora di aprire i suoi regali. Curiosa almeno tanto quanto lei, tornai a concentrarmi sui festeggiamenti, godendomi la dolcezza dell’espressione dipinta sul volto di quella bambina, orgogliosa di sé stessa e del regalo che aveva ricevuto. Stando ai miei ricordi, un oggetto di uso comune per fatine come loro, ovvero un piccolo scettro azzurro con un rubino incastonato all’interno, pietra che da quel giorno in poi sarebbe stato il simbolo del suo potere, e che ne avrebbe contenuto ogni stilla. “Buon compleanno, nostra piccola pixie.” Le disse il padre, orgoglioso di lei come ogni padre della propria bambina, che anche nell’età adulta sarebbe rimasta tale ai suoi occhi. “Volete… Volete dire che è mio?” chiese la bambina, con delle vere e proprie stelle negli occhi. “Tutto tuo, tesoro.” Replicò la madre, abbracciandola. Lasciandola fare, la piccola si crogiolò in quell’abbraccio e nel suo calore, e quella sera, con il cielo pieno di stelle e speranza, un vero e proprio miracolo. Rimasta in disparte, Lune si fece più vicina, e consegnando alla sorella lo stesso disegno che aveva mostrato a me, prese a balbettare confusamente, facendo sforzi con la mente e la bocca. “L-Lucy.” Riuscì a dire, scioccando tutti i presenti. A quella semplice parola, sua madre spalancò gli occhi, incredula. “Lune, amore della mamma! Hai parlato! Oberon, ha parlato!” quasi urlò, con gli occhi che sembravano brillare di luce propria, come le compagne della luna appena sopra le nostre ignare teste. Con il petto e il cuore gonfi d’orgoglio, il padre la prese subito in braccio, e non riuscendo a credere alle sue orecchie, prese a giocare con lei girando su sé stesso e facendola volteggiare come una farfalla. Dal mio canto, neanch’io riuscivo a crederci, ma dopo un intero anno trascorso nel mutismo, quella dolce fatina aveva parlato. Nessuno avrebbe esagerato nel dire che quella era stata la sua prima parola, e nonostante avesse in qualche modo appena iniziato, ero certa che con il tempo avrebbe continuato ad imparare. Ancora una volta, mi trattenni dal piangere, e in silenzio, alzai lo sguardo verso il cielo. Non dissi nulla, e in quell’esatto momento, una stella cadente. Poco prima di dormire, la piccola azzardò nel voler fare una passeggiata nel bosco aiutata dal benefico bagliore del suo nuovo scettro, e volendo soltanto tenerla d’occhio, Christopher ed io ci ritrovammo  a seguirla. Lasciandola trotterellare come una docile puledra, non proferivamo parola, e fra un passo e l’altro, notai che la piccola canticchiava una sorta di nenia infantile. “Passo, passo, dove vai? Ci scommetto, non lo sai. Il cinghiale qui si è mosso, ogni zampa scava un fosso. Ed il riccio che punzecchia, ha le dita di una vecchia. Un coniglio nella neve, la sua impronta ha il passo lieve. Due stecchini in mezzo al bianco, un corvo sta passeggiando. Sembran cani, fianco a fianco, sono lupi, ce n’è un branco.” Parole semplici e ripetute in sequenza, con lo stesso ritmo di una canzone destinata a orecchie come le sue. Non ricordavo di averla mai sentita, ma mi piaceva, tanto che seguendola mi ritrovai a canticchiare con lei. La neve di cui parlava stava ormai svanendo, e camminando più velocemente, le fui accanto. “È  una bella canzone, sai?” dissi, sorridendole. Ti sbagli. È una filastrocca. La mamma la cantava sempre quando ero più piccola.” Rispose, riportando a galla il ricordo di un’infanzia ancora più tenera di quella che viveva. “Davvero?” chiesi allora, volendo lasciarla parlare e renderla ancora più partecipe di una giornata quasi finita. In risposta, la bambina si limitò ad annuire, e poco dopo, qualcosa di piccolo e peloso entrò nel mio campo visivo. Difatti, nascosto fra i cespugli, c’era un animaletto. “Lucy, avevi ragione! Guarda!” la incoraggiai, indicando con lo sguardo il fogliame che per la bestiola fungeva da nascondiglio. Cauta e lenta, lei si avvicinò al cespuglio, e di lì a poco ne spuntò un tenero batuffolo di pelo, o in altre parole, un coniglietto color sabbia. “Mamma! Papà! Lune! Guardate!” urlò, felice ed eccitata da quella scoperta.  Affrettandosi a raggiungerla, i genitori e la sorellina furono  con lei in un istante, e lei tornò da loro tronfia e sorridente, stringendo fra le braccia quel tremante fagotto. “Possiamo tenerlo? Possiamo tenerlo?” pregò, dando inizio ad una vera e propria cantilena che non credevo avrebbe mai conosciuto una fine. “Un coniglio? Lucy, piccola, casa nostra non è fatta per un animaletto.” Cercò di spiegarle la madre, calma e comprensiva. “Per favore!” insistette la bambina, con la voce più alta e gli occhioni scuri ormai pieni di lacrime. “Pixie, la mamma ha ragione. Non abbiamo spazio. Ai coniglietti piace correre, e noi…” fu lesto ad aggiungere il padre, mostrando il suo punto di vista e dando manforte alla moglie. “Ti prego, papà!” cantilenò la festeggiata, non dando segni di cedimento. Di fronte ai quei tiepidi moti di protesta, mi sciolsi come la neve ormai scomparsa attorno a noi, e regalando un sorriso ai suoi genitori, sperai di convincerli a mia volta. Quella bambina era mia amica, e aveva appena compiuto sette anni, ragion per cui credevo che fosse abbastanza responsabile per tenere un animale, e se non altro, avrebbe potuto dimostrarlo. “D’accordo, piccolina, ma solo grazie alla tua amica.” Concesse a quel punto il padre, convenendo  con me e voltandosi per imboccare la strada di casa. Sorridendo forse per l’ennesima volta, scompigliai la nera zazzera della piccola, e riaccompagnandola al suo nido di legno e mattoni quasi ai margini della foresta, la salutai caldamente, rinnovandole i miei auguri di buon compleanno. “Kaleia?” mi chiamò, tirando leggermente un lembo della mia veste. “Sì, piccola?” risposi, voltandomi verso di lei e abbassandomi al suo livello. “Il mio desiderio si è avverato, tu e Christopher eravate qui, ed è solo grazie a te se adesso ho Sunny.” Disse, con voce dolce e quasi angelica. Mossa a compassione, rischiai di piangere per la terza volta in un solo giorno, e stringendola a me in un abbraccio colmo dell’affetto che provavo per lei, la salutai per l’ultima volta prima di tornare a casa. Una volta arrivata, al sicuro fra un groviglio di coperte e le forti braccia di colui che amavo, fui serena e orgogliosa di aver assistito ad un miracolo nel giorno di un’ultima neve.                             

 

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Capitolo 12
*** Fra le nuove foglie ***


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Capitolo XII

Fra le nuove foglie

Giocando nel cielo, il sole faticava a rialzarsi come un bambino dopo una caduta, che nonostante il dolore e il pianto derivanti da un ginocchio sbucciato, si rialza, rimettendosi in piedi e riprendendo la sua corsa nel prato davanti a casa. Molti bambini potevano vantare di averne uno appena oltre le loro mura domestiche, piccolo o grande che fosse, ma non io. A differenza di altri, io avevo un’intera foresta a disposizione, per divertirmi e trascorrere il tempo come ogni altra bambina, o quasi. Ricordavo poco o nulla dei miei genitori, e lo stesso valeva per Sky, ma per pura fortuna Eliza ci aveva trovate, regalandoci la possibilità di avere un tetto sotto le nostre teste, la mia bruna come le foglie vicine al ciclo della loro vita, la sua bianca come la luce saltuariamente emessa da uno spirito o un fantasma senza pace rinchiuso in un castello fino al giorno del suo esilio dal mondo dei vivi. Alcune voci dicevano che anche il nostro mondo era pieno di spiriti, e non essendo affatto superstiziosa, non ci credevo affatto. Non ero una di quelle persone incapaci di credere a qualunque cosa non vedessero con i propri occhi, ma in totale sincerità, e malgrado non fossi certo suggestionabile, la sola idea aveva in parte il potere di spaventarmi. Al contrario di me, Sky aveva in questo frangente reazioni e opinioni completamente diverse. Probabilmente il ricordo del tempo che avevo speso in ricerche sul conto di entrambe era ancora vivo nella sua mente, intento a torturarle le membra come lei stessa faceva con le sue dita in sporadici momenti d’indecisione, e l’intera esperienza doveva aver formato quella parte del suo carattere, ma lei era curiosa e determinata, decisa a scoprire la verità senza lasciare nulla al caso, o come alcuni direbbero, nessuna pietra al suo posto. Ad essere sincera, a volte sentivo il bisogno di prendermi una pausa dallo stress che le mie recenti scoperte mi avevano procurato, e solo riflettendo, riuscivo a mettere insieme i vari avvenimenti. I segni lasciati da Midnight lungo il mio braccio, la sparizione di entrambi, il ritorno, il mio salvataggio nella tormenta e il momento in cui mi aveva difesa in casa di Christopher. Allora non capivo, ma solo adesso ogni cosa ha un senso, e tutto combacia. Proprio come lui, anche lei sta tentando di proteggermi dando retta al suo istinto di sorella maggiore, e malgrado la prima lite che avevamo avuto e la seconda che era quasi scoppiata fra di noi, non potevo che essergliene grata. Mi voleva bene, e nel mentre faceva il suo dovere di sorella, rendendomi partecipe di un rapporto su cui non tutti potevano contare. Calma e tranquilla, ero seduta in casa ad ammirare il panorama visibile appena fuori dalla finestra, e in silenzio, mi godevo la quiete che avevo attorno, disturbata solo dal quieto suono delle fusa di Willow. Dopo aver mangiato, mi si era addormentata addosso, e ora, ad occhi chiusi in uno stato di dormiveglia, sembrava sorridere e gioire della mia compagnia. Intanto, e senza curarsi di me o di nessun altro, il tempo si muoveva lento, e finalmente potevo sorridere nello scoprire ciò che mi circondava, non provando altro che pace nel sapere che ogni cosa in casa era in perfetto ordine, così come nella mia anima e oltre l’uscio di casa. Con la fine dell’inverno, la primavera aveva fatto ritorno al bosco, e con il sole che splendeva apparendo ai miei occhi fiero di essersi levato in cielo nella sua regale magnificenza, ero tranquilla. In casa non c’era nessun segno di Christopher, e probabilmente dormiva in quella che era diventata la nostra stanza, e sole con i propri pensieri, Sky e nostra madre Eliza avevano ognuna delle proprie mansioni. Abbassando lo sguardo, notai come Willow sembrava scalciare. Lenta e assonnata, si stiracchiava sguainando e ritirando gli artigli, così da sgranchire le quattro zampe leggermente indolenzite dalla posizione in cui era rimasta bloccata durante il sonno. Sorridendo, le accarezzai piano la testa, e vedendola muovere qualche passo verso uno dei cuscini del divano, la vidi nascondercisi dietro, per poi urtare con la coda il suo nuovo nascondiglio e vederlo crollare come un castello di carte. Affatto spaventata, iniziò ad usarlo come un giocattolo, tendendogli numerosi agguati pur sapendo che non avrebbe reagito. Rimettendomi in piedi, la lasciai giocare, e lanciando uno sguardo alle due ciotole tenute nel salotto di casa, capii che disponeva ancora di tutto il necessario, e che sarebbe stata anche da sola. Camminando lentamente, mi inoltrai nel corridoio che portava alla mia stanza, trovando il mio piccolo Bucky accucciato e addormentato sul mio letto, intento a sognare con la stessa ingenuità di un bimbo, mentre Christopher, anche lui perso nel sonno, sembrava volergli fare da padre. Una vista che mi sciolse il cuore, e che riaccese in me un desiderio che credevo sopito. La maternità. La prima volta l’avevo avvertito guardandolo giocare con l’ormai non così piccola Lucy, e da allora avevo cercato di non pensarci concentrandomi sui miei poteri e sugli allenamenti per il controllo della magia, ma ora, dopo quel delizioso e metaforico quadro che sembrava dipinto davanti ai miei stessi occhi, era tornato, perfino più forte di prima. Ero più giovane di Sky, e sapevo bene quanto fossimo diverse, ma forse era questa la ragione per cui tendevo ad essere così ingenua e sognatrice. Il mio cuore, poi, ancora giovane, tenero e pieno di speranze, non deponeva certo a mio favore In altre parole, ero romantica e inguaribile. Ero nata così, e ancora oggi, anche dopo ben vent’anni di vita, non potevo farci nulla. Ovvio era che la cosa non mi dispiacesse, e che data la purezza e la forza del nostro rapporto, non disturbasse neanche colui che amavo. Lenta e felina, mi avvicinai cautamente per non svegliarlo, ma un passo falso tradì la mia presenza, e il mio scoiattolo fu il primo a svegliarsi. Veloce, saltellò nella mia direzione solo per venirmi incontro, squittendo debolmente ma mostrandosi contento di vedermi. Rimanendo ferma,  gli offrii la mano così che potesse arrampicarsi fino a raggiungere il suo posto sulla mia spalla, e appena un attimo dopo, mi sdraiai, scoprendomi insolitamente tranquilla. A quanto sembrava, il ritorno dei fiori e della primavera doveva davvero avermi giovato, e disturbato dal mio dolce peso, Christopher si voltò pigramente, finchè i nostri sguardi non si incontrarono. “Alzati e sorridi, mio custode, sai benissimo che giorno è oggi.” Dissi, felice e sorridente come una bambina nel giorno di Natale. Imitando il mio sorriso, Christopher parve restare sorpreso, e quando finalmente fu sveglio, mi lasciai abbracciare e baciare da lui, non storcendo il naso di fronte a quel così dolce modo che aveva di viziarmi. “Certo che lo so, fatina. Credi che non abbia organizzato nulla nel primo giorno di primavera?” improvvisamente rossa in viso, lo guardai senza capire, poi gli accarezzai il viso, innamorata. “Va bene allora, fammi vedere.” Concessi, allontanandomi per dargli spazio e permettergli di alzarsi, anche se non prima di aver ricevuto e ricambiato un altro bacio sulle labbra. Era strano e quasi impossibile da spiegare, ma adoravo i momenti che nonostante tutto riuscivano a passare insieme, consci l’uno dei punti di forza e delle debolezze dell’altra, di quanto il nostro rapporto fosse come una rosa appena sbocciata. Bellissima, eppure pericolosa. Poche erano state le volte in cui avevo sentito dire che ogni rosa aveva la sua spina, e in ogni occasione non avevo mai dato peso ad una frase come quella, probabilmente trita e ritrita come tante altre, ma fu vivendo a fondo la mia realtà di fata che ne compresi davvero il significato. Pur non avendo sue notizie da tempo, immaginavo che la signora Vaughn avesse qualcosa di simile da dire a riguardo. Stando al suo punto di vista e alla croce che mi aveva letteralmente inciso sul polso in prossimità del mio segno, io avrei potuto essere la rosa, mentre a Christopher sarebbe toccato lo spiacevole  e malvisto ruolo di spina. Quando entrambi uscimmo di casa, lasciando Willow alle cure di mia madre, Sky decise di seguirci, e quel pensiero mi fece compagnia per tutto il viaggio, con ogni passo e ogni respiro. Ad ogni modo, ancora emozionata dalle parole sentite poco prima, tentai di scacciarlo concentrandomi sulla sorpresa che avrei presto ricevuto, e dopo un tempo che non riuscii a definire, mi ritrovai alla mia destinazione, ancora una volta, il villaggio degli umani. Fingendo calma e indifferenza realmente non provate, cercai di non lasciarmi prendere la mano dalle emozioni, e raggiunta la casa di Christopher, mi bloccai. Seppur per un singolo attimo, mi parve di vedere una mia simile muoversi camminando ad ali basse, e poco più lontano, una pixie. In quel momento, non ero sicura di nulla, ma comunque certa che la vista non mi ingannasse, e strofinandomi gli occhi per l’incredulità, diedi un secondo sguardo all’orizzonte. Notando la mia indecisione, Christopher mi si avvicinò, stringendomi delicatamente la mano, pallida a causa del sangue che appena scorreva e sembrava essersi fermato. "Visto qualcosa, Kaleia?" chiese, incuriosito dal mio sguardo perennemente fisso in avanti. “Sì, quella non è la vostra amica?” azzardò Sky, palesemente confusa e sospettosa. In silenzio e con espressione perplessa, seguii il suo sguardo, e fu allora che la vidi. Impegnata in un’innocua passeggiata per le vie del villaggio, l’intera famiglia di Lucy. Lei camminava da sola stringendo in mano il suo scettro e quasi usandolo a mò di bastone, mentre la piccola Lune cercava conforto e sicurezza nella grande mano del padre. “Isla!” chiamai, tenendo alta una mano perché mi vedesse. Non muovendo più un muscolo, le diedi qualche secondo di tempo, e quando finalmente parve notarmi, le sorrisi. “Kaleia! Ciao!” mi salutò, accelerando il passo per starmi accanto e fermarsi a salutare. “Come mai qui al villaggio?” chiese, dando inizio ad una semplice e piacevole conversazione. “Qualcuno qui ha una sorpresa per me.” Risposi, sempre sfoggiando un sorriso smagliante e voltandomi verso Christopher solo per fargli scivolare un dito sul petto. “Davvero? indagò la donna, sinceramente curiosa e interessata. Non proferendo parola, Christopher si limitò ad annuire, e prendendomi la mano che aveva appena avvertito su di sé, ne baciò il dorso con delicatezza. “Sì, e sono certo che le piacerà.” Aggiunse poi, orgoglioso di me come di quello che aveva architettato. “Non vedo l’ora.” Commentai, non potendo evitare di farlo e tenendo acceso il sorriso che ancora mi illuminava il volto. “Avrete una famiglia?” chiese a sorpresa la cara e dolce Lucy, non centrando il punto del discorso e facendo arrossire me e quasi adirare la madre. “Lucy!” la richiamò infatti, per nulla contenta di una domanda così delicata. Comprendendo la sua rabbia, inizialmente non dissi nulla, ma poi sollevai una mano come per chiederle di smetterla, minimizzando la situazione e abbassandomi fisicamente al livello della bambina. “Un giorno, se il cielo lo vorrà.” Le dissi, lasciandole avere quella speranza e riuscendo a ridimensionare la situazione. Annuendo, la bambina non disse altro, e avvalendosi del suo scettro, lanciò una sorta di dardo elettrico verso il cielo, che scontrandosi con la gentile aria che spirava, esplose in un piccolo spettacolo pirotecnico, quasi come se quel piccolo spruzzo di magia fosse stato parte di alcuni colorati fuochi d’artificio. “Hai visto? Sono brava, vero?” chiese poi, andando alla ricerca di un giudizio per quella piccola dimostrazione. “Sei bravissima, tesoro, davvero.” Le disse la madre, precedendomi e leggendomi nel pensiero. “Se volete scusarci, noi andremo. Certe sorprese non possono attendere a lungo.” Rispose Christopher, prendendo la parola e sperando di non intromettersi né sembrare inopportuno. “Certo, caro, sta tranquillo, sarà per la prossima volta.” Replicò la donna, per niente contraria all’idea di vedere le nostre strade dividersi. Preparandomi a riprendere il cammino, cercai la sua mano, ma prima che potessi muovermi, sentii un lembo del mio vestito tirare, e abbassando lo sguardo, notai che la piccola Lune voleva salutarmi prima che sparissi dalla sua vista, mostrando un debole sorriso e uno dei pupazzi che teneva nel suo zainetto assieme alle sue matite e ai suoi fogli. Ricordavo bene il giorno del nostro primo incontro, ed ero quasi certa che quel giorno avesse avuto in mano un coniglietto di pezza, ma stavolta era diverso, e con sé aveva uno scoiattolo della stessa fattura. Mostrandomelo, indicò con il dito il mio caro amico peloso ancora accomodato sulla mia spalla, poi aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono. “Si chiama Bucky, amore, Bucky.” Le spiegai, sperando che potesse associare un nome alla sua identità e un giorno pronunciarlo come aveva fatto con il nome della sorella. In risposta, la piccola lo indicò ancora, e nulla potè prepararmi al suo improvviso ma tenero abbraccio. Lasciandola fare, la strinsi a me con dolcezza, e quando la sua famiglia fu costretta ad allontanarsi per tornare a casa, la salutai con la mano, avendo il piacere e la fortuna di vederla imitare quel gesto. Non mi aveva parlato, certo, ma una parte di me sapeva che non l’avrebbe fatto. Non parlava da un anno, ed era ancora presto perché riuscisse a imparare e pronunciare il mio nome. Sempre svelta nei miei passi, seguii Christopher fino alla sua casa, ed entrando, scoprii che il salotto non era vuoto, ma allo stesso tempo privo di una delle persone che avevo finito per disprezzare. Almeno stavolta la signora Vaughn non mi avrebbe rovinato la giornata, e almeno per oggi sarei stata libera dal suo giudizio e dalle sue grinfie. Un pensiero a dir poco confortante, che mi fece tirare un sospiro di sollievo. Tornando alla realtà, mi liberai da quel pensiero, e fissando lo sguardo sul divano della dimora che mi aveva già vista ospite tempo addietro, li vidi per la prima volta. I genitori di Christopher. Giovani ed evidentemente orgogliosi del figlio, sembravano insolitamente calmi, ma a giudicare dalle espressioni dipinte sui loro volti, lieti di fare la mia conoscenza. Muovendo qualche incerto passo verso di loro, rimasi in piedi rinunciando a sedermi, e suo padre fu il primo ad alzarsi. “Edgar, piacere di conoscerti.” Disse, dando inizio alle presentazione, che io speravo di portare avanti con la stessa scioltezza. “K-Kaleia, piacere.” Balbettai, strozzandomi con il mio stesso nome e sprofondando nella vergogna. Poco dopo, fu il turno di sua madre. “Andrea, piacere e benvenuta in famiglia.” Disse la donna, stringendo la mano che avevo teso con una cordialità pari ai tempi ormai andati, in cui la cavalleria non sembrava ancora essere morta e che ad oggi solo persone come Christopher tenevano in vita. “Non… Non vi da fastidio che io sia…” continuai, riprendendo il fiato necessario a parlare e sentendo un nodo alla gola minacciare di togliermi di nuovo il respiro. “Una fata? No! Ogni conoscenza di Christopher è anche nostra, e nel tuo caso, anche qualcosa di più, vero, cara?” replicò suo padre, fingendosi scandalizzato alle mie parole e azzardando un’allusione poco gradita. “Papà!” lo riprese il mio ragazzo, con la voce fredda e l’occhio invelenito. “Cosa? Siamo i tuoi genitori, dovremmo essere i primi a saperlo.” Insistette l’uomo, saldamente fermo nelle sue convinzioni. “Edgar! Non esagerare!” lo sgridò la moglie, prendendo le difese mie e dello stesso Christopher, con il volto ancora contratto in una smorfia di disappunto. Ormai con l’intera faccenda alle spalle, lo pregai di calmarsi accarezzandogli la schiena, e avvicinandomi, lo convinsi con un semplice bacio. Un contatto di breve durata, certo, ma pur sempre un bacio che entrambi assaporammo con calore. Con la sua fine, ci staccammo, e lasciandomi la mano, Christopher si rivolse ai genitori. “Dov’è Leara?” chiese, stranito dalla sua assenza nel salotto di casa. “Nella sua stanza, caro, vuoi che vada a chiamarla?” gli rispose la madre, tornando ad immergersi nella lettura di un libro pur senza estraniarsi da ciò che le accadeva intorno. “No, leggi pure, posso farlo da solo. Ti spiace venire con me, tesoro?” replicò, restando calmo e tranquillo e invitandomi a seguirlo con un gesto della mano. Annuendo, iniziai a camminare al suo fianco, e dopo pochi minuti passati a cercarla, la trovammo sdraiata sul suo letto, intenta a fissare il soffitto nel silenzio più completo. Sedendosi con lei, Christopher la chiamò per nome, ma lei non parve sentirci. “Leara, abbiamo ospiti.” Ripetè, quasi seccato dal comportamento della sorella. “Scusa, non ti ho sentito entrare.” Rispose la ragazza, riuscendo a parlarci solo togliendosi degli strani tappi dalle orecchie. Erano diversi da qualunque cosa avessi mai visto, e un filo pendeva dalle estremità di entrambi. “Tu e la tua musica. Non puoi farne a meno per oggi?” si lamentò lui, per niente contento del modo di fare della ragazza, che con un singolo sguardo capii essere sua sorella. Lui era biondo, e lei aveva i capelli corti e scuri come la notte, ma la somiglianza nei lineamenti e la stessa sfumatura color speranza dei loro occhi non li avrebbero nascosti da nessuno. Erano fratelli, e ad essere sincera, ero ben felice di fare la conoscenza di qualcuno di diverso da Marisa che avesse ad occhio e croce la mia stessa età. Volgendo di nuovo lo sguardo su di lei, tesi una mano perché me la stringesse, e sorridendo, me la prese con delicatezza. “Kaleia, lei è…” provò a dire Christopher, sentendo quella frase morirgli in gola appena un attimo dopo. “Tua sorella, ho capito. E credo che riesca a dirmi il suo nome da sola, ma ti ringrazio.” Dissi, sicura di aver colpito nel segno e averlo spiazzato, guadagnando un leggero sorriso da parte della mia nuova amica, positivamente colpita dal mio modo di essere e di fare. “Però! Astuta, la ragazza! Gran bella scelta, Chris.” Commentò, guardando negli occhi il fratello e liberando un fischio d’approvazione. “Ti avrò detto mille volte di non chiamarmi così, Lea.” Replicò lui, affatto divertito dall’evidente scherzo della sorella, un diminutivo che sembrava non sopportare. “Scusa, ma certe abitudini sono dure a morire, Chris.” Rispose lei, rincarando la dose e sghignazzando divertita e perfettamente conscia di irritarlo. “È stato un piacere.” Tagliai corto io, decisa a risolvere la situazione prima che degenerasse diventando insostenibile. “Anche per me.” Si limitò a dire lei, tornando a sdraiarsi sul letto e ad indossare quegli strani aggeggi forse atti a coprire i rumori intorno a lei. Christopher aveva parlato di musica, e la cosa mi intrigava, ma per il momento preferivo concentrami su di lui piuttosto che badare alla strana tecnologia della sua parte di questo mondo. Forse un giorno gli avrei chiesto di introdurmi alle abitudini umane diverse da tradizioni pari a quelle delle lanterne, ma solo il tempo avrebbe potuto dirlo. Tornando in salotto, trovai Sky seduta assieme ai genitori del mio Christopher, intenta a parlare con loro e scambiare qualche risata, con un calmo e serafico Midnight sempre appollaiato sulla sua spalla. “Bell’esemplare, cara, davvero. E ottime piume, complimenti.” Si complimentò il padre, muovendo una mano verso l’uccello per accarezzarlo e non ricevendo che uno stridio d’avvertimento in risposta. “Turdus merula, signore, la ringrazio.” Rispose lei, passando appena due dita sulla testa piumata dell’amico volatile. Sotto le sue carezze, Midnight si calmò quasi istantaneamente, e notando il buio appena fuori da una finestra lì vicino, pensai a nostra madre. “Sky, dobbiamo andare. È tardi, sai che Eliza si preoccupa.” Le dissi, sperando che mi ascoltasse e rimandasse quella conversazione ad un altro momento. “Sciocchezze. Christopher, apriresti la finestra?” replicò, chiedendo poi quell’unico favore. Annuendo, il mio ragazzo fece ciò che gli era stato chiesto, e Sky scrisse qualcosa su un rotolo di pergamena che aveva sempre con sé, e affidando al merlo, protese una mano in avanti. Poco dopo, un fischio ben modulato trovò la libertà fuggendo dalle sue labbra, e quando il pennuto volò fuori dalla finestra portando un messaggio, la guardai senza capire. “Fra poco saprà tutto, ma non chiuderla.” Spiegò, erudendomi e riferendosi alla finestra rimasta aperta. “Va bene.” Dissi soltanto, comprendendo al volo la situazione. Di lì a poco, i due coniugi ci invitarono a cena, ed io consumai il mio pasto in silenzio, riservando al mio fidanzato il classico sguardo di chi ama. Finita la cena, una frase di sua madre minacciò di farmi crollare il mondo addosso. “Non sarà un problema ospitarvi per stanotte. Christopher, mostra a Kaleia la tua stanza, avanti.” Parole semplici e apparentemente innocenti, ma che data la precedente e sgradita allusione di suoi marito, mi portarono a diventare inequivocabilmente rossa in volto. “Vieni, amore, lasciali parlare e sta tranquilla.” Mi disse allora Christopher, riportandomi alla calma e conducendomi alla sua stanza, grande e accogliente, nonché perfettamente pulita. “Benvenuta nel mio regno.” Disse, lasciando poi sfuggire una piccola risata. Divertita dal suo modo di scherzare, mi unii alla sua ilarità, poi mi accorsi di star tremando. Stando ai miei ricordi, il tremore era uno dei primi segni di uno svenimento, ancora prima del dolore alle tempie e dei capogiri, perciò, andando all’istintiva ricerca di conforto, mi strinsi a lui. “Kaleia, stai bene?” non potè evitare di chiedere, con la voce rotta dall’emozione e lo sguardo fisso su di me, in allarme. “Non credo… ho bisogno di riposo, per… per favore.” Biascicai, facendo improvvisamente fatica a parlare e vedendo che il mondo attorno a me iniziare a girare e coprirsi di nebbia. “Certo, sdraiati, forza. Andrà tutto bene, vedrai. Te lo prometto.” Fu la sua veloce risposta, dettata da reazioni fulminee e da una genuina preoccupazione nei miei confronti. Annuendo lentamente, sentii le gambe deboli, e barcollando, quasi caddi, trovando nelle sue morbide coperte un nido e uno scudo contro il freddo che sentivo e avrei sentito nella notte. Amavo Christopher con tutta me stessa, e mi fidavo di lui, tanto da riporre la mia vita nelle sue mani, anche se a quanto sembrava, la croce incisa sul mio polso avesse effetti limitati, e che per l’ennesima volta fossi costretta a scivolare nell’incoscienza per le ore a venire, pregando che il sangue all’interno del mio corpo non smettesse di scorrere e mi permettesse di risvegliarmi e vivere ancora, così da essere felice di aver fatto altre nuove conoscenze fra una nuova primavera appena rinata e le sue nuove foglie.



Buonasera, miei cari lettori, ad ognuno di voi. Pubblico questo capitolo con quasi cinque ore di ritardo rispetto a quando avrei voluto, ma alla fine ci sono riuscita, anche se mi scuso per l'attesa. L'avrei fatto prima, ma più scrivevo e più il capitolo sembrava allungarsi, quindi ho colto la palla al balzo, approfittandone per impegnarmi e fornire anche più dettagli sulla villaggio degli umani e sulla vita di Christopher, il protettore della nostra cara fata Kaleia. Avendo già letto il capitolo precedente, ricorderete la dolce filastrocca cantata da Lucy durante la sua passeggiata, e prima di dimenticarmi, ne approfitto per dirvi ciò che non ho detto la volta scorsa. Non l'ho scritta e inventata io, ma l'ho sentita in un film del 2007, "La volpe e la bambina" di origine francese e arrivato in Italia solo l'anno dopo. Precisazioni a parte, grazie come sempre del vostro supporto, e al prossimo capitolo,


Emmastory :)




  
 

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Capitolo 13
*** Limiti di fata ***


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Capitolo XIII

Limiti di fata

Ero lì. Ancora lì. Sdraiata sul letto, stanca, semicosciente e confusa. Avevo perso i sensi da poco, e da poco ero riuscita a riprendermi, ma proprio come le altre volte, aprire gli occhi era una gran fatica, e ogni voce giungeva al mio udito come distorta o ovattata. La paura si era annidata nel mio animo, sentivo appena il mio cuore e il suo debole battito, e quella notte, la fortuna o forse qualche buona stella vollero che non fossi sola. Non riuscivo ancora a muovermi, e ricordavo solo di essermi accasciata sul letto nella stanza di Christopher. Mi sentivo debole e volevo solo dormire, ma la situazione aveva finito per precipitare, e a quanto sembrava, ora la mia vita era appesa ad un filo. Così, impegnata in una lotta tristemente impari, speravo di restare attaccata al prezioso dono che mi era stato fatto con tutte le forze, e improvvisamente, riuscii a vederlo. Il mio Christopher era sdraiato accanto a me, e il suo corpo mi proteggeva. Mi teneva la mano, e tenendo un ritmo sostenuto e regolare, disegnava più e più volte una croce sul mio polso, nello stesso punto in cui quel doloroso livido era finalmente scomparso. Non sapevo perché lo stesse facendo, né se mi avrebbe aiutata e se avesse funzionato di nuovo, ma allo stesso tempo non avevo la forza di ribellarmi, così lo lasciai fare, abbandonandomi come ogni notte nel suo salvifico abbraccio. La sua voce giungeva lontana alle mie orecchie, ma lo sentivo parlare, e con ogni parola mi rassicurava, pregando perché riuscissi a salvarmi. “Svegliati, tesoro, svegliati. Mi dispiace, non dovevo, svegliati.”  Ripeteva, preoccupato come mai prima e incredibilmente protettivo nei miei confronti. “Chris…” biascicai, non riuscendo quasi a parlare e facendo fatica ad esprimermi. A sentire il suo stesso nome, Christopher sorrise, poi mi strinse a sé ancora una volta. “Kaleia! Amore mio, grazie al cielo! Dimmi, stai… stai bene? Non ricordi niente?” disse, azzardando poi quella domanda e sperando che fossi in grado di rispondere. “Sì, o almeno credo… e no… mi… mi dispiace. Che è successo?” mormorai, sentendo ogni pensiero nella mia testa confondersi con mille altri e i suoni farsi lentamente più chiari, mentre la stanza smetteva di girare. “Ti ho portata qui per lasciarti riposare, ma hai di nuovo perso i sensi. Non è la prima volta, e lo sappiamo, ma credo di aver esagerato nel farlo così presto.” Fu la sua veloce risposta, data con un tono a metà fra serio e mesto. “Cosa? Che significa? Io… e… e noi…” balbettai, tremando e facendomi pena da sola. “No, non parlare e risparmia le forze. Devi dormire se vuoi rimetterti.” Replicò lui, con la voce corrotta dalla stessa vena di preoccupazione che avevo notato poco prima. “Va bene, ma prima promettimelo. Promettimi che starò bene. Che staremo bene, Christopher.” Concessi, non potendo però evitare di esprimere quell’unico desiderio, indice della stanchezza che provavo da tempo, derivante a sua volta dal dolore che entrambi avevamo sperimentato. “Non posso, Kaleia, ma mio padre saprà cosa fare. Possiamo parlargli domani, se vuoi.” Continuò, sorridendo e riuscendo ad infondermi quella sicurezza che da tanto mi mancava. “Va bene.” Dissi soltanto, tornando a sdraiarmi sul suo letto e lasciando che le coperte mi avvolgessero, alla costante e forse disperata ricerca di conforto. Imitandomi, Christopher mi strinse ancora a sé, e guardandomi negli occhi, mi accarezzò lentamente la schiena e i capelli. “Non so dirti se andrà tutto bene, ma so che il tuo è un problema. Un problema che risolveremo insieme. Ti fidi di me?” continuò, regalandomi l’ennesimo sorriso di cui sentivo di aver bisogno. In quel momento, non sapevo cosa dire né fare, ma ormai sicura dei miei sentimenti, decisi di fidarmi. Com’era possibile? Come riusciva a rassicurarmi in quel modo, arrivando a leggermi fin dentro l’anima? Queste le domande che mi vorticavano in testa, che per tutto quel tempo non avevano trovato una risposta e alle quali non riuscivo a smettere di pensare. Silenziosa, una singola lacrima fuggì dai miei occhi rigandomi il viso, e lui fu svelto a raccoglierla, scacciandola e cancellandola con il pollice. “Mi fido, mio custode.” Dissi soltanto, cercando la sua mano fra le coperte e stringendola con amore, per poi sporgermi e non chiedere che un bacio. Sorridendomi, Christopher realizzò il mio desiderio, e di lì a poco, uno squittio ormai conosciuto si levò nell’aria. Voltandomi, vidi il mio piccolo Bucky faticare ad arrampicarsi sul letto, così lo aiutai, facendo attenzione a non fargli del male. Il mio svenimento doveva averlo spaventato a morte, tanto che ora la sua folta coda era costellata di piccole ferite, tutte frutto del nervosismo. Ora stava bene e aveva smesso di agitarsi, ma quando finalmente arrivò alla tanto sospirata vetta, fu titubante nell’avvicinarsi a noi. Conoscendomi, sapeva dei miei sentimenti per Christopher, e aveva capito di sbagliare mostrando gelosia, così ora restava lì ai piedi del letto, più incerto e confuso di quanto non fosse mai stato. “Può restare?” sussurrai, premurosa come una madre di fronte al figlio vittima di un terribile incubo. Senza proferire parola, Christopher si limitò ad annuire, e aprendo le braccia, invitai il mio amico roditore a sdraiarsi con noi. Proprio in mezzo al letto, con i pochi ciuffi di pelo rimastigli sulla coda a fargli da cuscino. “Buonanotte, scoiattolino.” Dissi in un altro sussurro, augurandogli sonni tranquilli quanto quelli che ero certa di dormire al fianco del mio fidanzato. Così, con il cuore sgombro da tutte le mie paure, mi addormentai lasciando che mi tenesse stretta, con la quiete e il buio come nostri unici compagni, ai quali si unì la luce della gentile luna sui nostri corpi. Contrariamente a me, Sky scelse di dormire sul divano nonostante le mille proteste dei padroni di casa, insistendo ogni volta nel dire che non voleva disturbare, mentre Midnight si addormentò sul davanzale della finestra ormai chiusa. Christopher ed io ci svegliammo soltanto la mattina dopo, e ad occhi aperti, ricordammo la discussione avuta appena poche ore prima, e una volta seduti al tavolo della colazione, ci preparammo a vuotare il sacco raccontando ogni cosa. Come mi aspettavo, fu sua madre ad accoglierci. “Buongiorno, Christopher. Dì, tu e Kaleia avete passato una buona notte?” chiese, senza voltarsi e restando concentrata sul caffè che presto sarebbe stato pronto. “Non direi, signora Powell.” Risposi, sincera e ancora scossa dagli eventi della notte prima. “Chiamami pure Andrea, cara, e… che intendi dire?” rispose la donna, ancora impegnata a trafficare con la colazione ma gentile come sempre. Ascoltandola, notai la sua esitazione nel parlare, poi la sua domanda, che mi colpì come un pugno nello stomaco. Mordendomi la lingua per impormi di stare zitta, mi scambiai con Christopher un’occhiata d’intesa, e capendo al volo, mi risparmiò la vergogna di aprire di nuovo bocca. “Ha avuto una notte agitata, a dire il vero.” Le disse, sapendo di mentirle e sperando che non indagasse. “Cara, mi dispiace. Ora va meglio, vero?” mi chiese, sinceramente preoccupata per la mia salute. “Sì, ti ringrazio.” Risposi, utilizzando un registro più formale e meno altolocato. “Mamma, hai visto papà?” le chiese lui, dando un taglio a quella conversazione tanto frivola e volendo soltanto passare a faccende più serie. Non conoscevo sua madre tanto bene quanto lui, ma mi era sembrata una brava donna, e dati i miei trascorsi in fatto di amicizie adulte, il solo esserlo si rivelava un punto a suo favore. “Bene, è un piacere sentirlo. Tuo padre sarà in piedi a momenti, caro, non preoccuparti. Potremmo parlare di quello che vuoi anche ora, ma la colazione non si prepara da sola, e Leara non si è ancora alzata, perciò nessuno può darmi una mano. Lo capisci, vero?” rispose lei, tranquilla e assorta tanto nelle faccende domestiche quanto in inutili chiacchiere da casalinga. Non ne ero sicura, ma qualcosa mi portava a credere che il suo essere così ingenua fosse soltanto un modo di evitare l’unico vero discorso a cui entrambi avevamo intenzione di dar vita. Forse sia lei che suo marito avevano sentito ogni cosa durante la notte, o forse no, ma il solo pensiero mi dilaniava le membra. Lentamente, il tempo continuò a passare, e quando finalmente anche il padre di Christopher fece il suo ingresso sulla scena, fui decisamente sollevata. Finalmente potevamo arrivare al nocciolo di una questione tutta nostra, di un ostacolo che avremmo superato insieme, pronti a correre mano nella mano verso il prossimo. Seguito dalla figlia, il signor Edgar si sedette a tavola con noi, attendendo la moglie e mantenendo nel frattempo un silenzio a dir poco tombale. “Hai qualcosa da dirci, figliolo?” azzardò, mangiando la foglia e cogliendoci entrambi di sorpresa. A quanto sembrava, avevo avuto ragione, e nonostante non fosse intervenuto in alcun modo, doveva aver capito ogni cosa riguardo alla mia ennesima perdita di conoscenza. “Sì, papà, dobbiamo parlare. Kaleia è svenuta.” Rispose, andando dritto al punto senza inutili perdite di tempo. “Come? Svenuta? Quando?” chiese l’uomo, sorpreso e sconvolto. Lui e la moglie mi conoscevano da poco, sapevano che ero una fata, ma il dettaglio sul mio vero essere di ibrido doveva essergli passato di mente. In altre parole, conoscevano solo una parte di me. “L’altra notte, non abbiamo potuto evitarlo.” Spiegò velocemente il figlio, di nuovo preoccupato a quel solo ricordo. Provando istintivamente pena per lui, mi voltai a guardarlo, e poco dopo, una voce femminile mi distrasse. “È successo altre volte?” chiese, curiosa e sinceramente interessata. “Sì, anche se non me lo spiego.” Risposi, non dicendo altro che la verità e conservando la segreta speranza di essere aiutata da almeno uno dei due adulti. “Papà, credi che…” azzardò a quel punto Christopher, riducendosi al silenzio per paura di continuare a parlare e dar voce a qualsiasi eventualità. In silenzio, suo padre non fece che annuire, mostrandosi calmo e del tutto irremovibile. “Temo che tu debba lasciarla andare, almeno per adesso. Ha bisogno del suo elemento, e sai che non è fatta per il nostro mondo.” Quella l’unica frase pronunciata dall’uomo, che ascoltai senza interrompere e che ebbe come unico potere quello di farmi gelare il sangue. “Dovremo… dovremo lasciarci?” riuscii a dire a malapena, strascicando le parole e ritrovandomi sul punto di piangere. Gli occhi mi bruciavano, sentivo di avere un nodo in gola, e in altri termini, sarei presto esplosa. “No, no, vi prego. Deve esserci un altro modo.” Protestò Christopher, tutt’altro che felice all’idea di abbandonarmi. Era già successo, sapevo che non avrebbe voluto, e solo ora capivo che non si sarebbe perdonato il contrario. “Mi dispiace, Chris, ma è ciò che è meglio per lei. Va fatto, non capisci?” replicò la sorella, tentando di calmarlo e riportarlo alla ragione. Nel farlo, gli posò una mano sulla spalla, ma lui se la scrollò di dosso, come se questa gli bruciasse la pelle. “No, sei tu che non capisci. Nessuno di voi capisce. Io la amo, e Sky ha ragione, non posso abbandonarla ancora.” Rispose subito lui, sordo a qualunque campana e deciso a restare al mio fianco. Mantenendo il silenzio, non dissi una parola, ma guardandolo negli occhi, ebbi cura di rassicurarlo come solo io ero in grado di fare. “Andrà tutto bene.” Gli feci capire, sorridendo e cercando per l’ennesima volta la sua mano da sotto la tavola. Sorridendo a sua volta, Christopher lottò per respirare in modo regolare, e quando finalmente parve calmarsi, lo abbracciai, sfiorandogli la guancia con le labbra. Da quel momento in poi, il silenzio cadde nella stanza, e dal salotto appena accanto, Sky emerse lentamente, come una  creatura da una pozza di fango. “Gli credo. Pensateci, sono sicura che potrete trovare una soluzione.” Disse, prendendo le mie difese e rivolgendosi ai genitori del mio amato, ormai fermi nella loro decisione. Non appena il suo intervento ebbe fine, il silenzio tornò a renderci sordi, e dopo un tempo che nessuno fu in grado di definire, qualcuno più in alto di me dimostrò di volermi bene, concedendo a me e al ragazzo che amavo una seconda possibilità. “Edgar, l’altra fata ha ragione, non possiamo permetterlo.” Gli disse la moglie, sicura come mia sorella di poter fare la cosa giusta. “Cosa? Andrea, è pericoloso!” insistette lui, avvalorando la sua precedente tesi e annullando il pensiero della donna. “Se si tratta di mio figlio, è un rischio che voglio correre.” Dichiarò lei, decisa. A quelle parole, Christopher si alzò in piedi, e avvicinandosi alla madre, la strinse in un abbraccio. “Grazie, grazie, non sai quello che significa, grazie.” Le disse, ringraziandola più volte e sentendo gli occhi bruciare e riempirsi di lacrime. “Lo so, figlio mio, lo so, e so che hai il diritto di vivere una vita serena. Ora aspetta, ti prego.” Rispose lei, godendosi ogni secondo di quel contatto con quel figlio testardo, coraggioso e sempre pronto a lottare per difendere i deboli. Con quelle parole, la donna si allontanò sparendo dalla nostra vista per alcuni attimi, e al suo ritornò, portò con sé una sorta di piccolo scrigno il cui contenuto era protetto da una serratura, ed estraendo dalla tasca del vestito una piccola chiave, lo aprì. Solo allora, davanti ai miei occhi si palesò un vero miracolo. Di una bellezza rara e mai vista prima, uno smeraldo a forma di foglia, la stessa forma del mio segno. “Christopher, hai visto? È bellissimo!” commentai, emozionata e quasi senza parole. “Ed è tuo, piccola. Vuoi provarlo?” rispose subito lui, con un sorriso orgoglioso stampato in volto e la voglia di vivere a illuminargli gli occhi come stelle. “Sì.” Mi limitai a dire, non riuscendo a smettere di sorridere come una bambina. Annuendo, Christopher mi girò attorno, e in attimo, quel gioiello fu intorno al mio collo. Felice, non seppi cosa dire, e ringraziando mutamente la madre del mio amato, cercai uno specchio in cui ammirarmi. Guidata da Leara, mi ritrovai nel mezzo del salotto, e concentrandomi sulla mia immagine riflessa, vidi quella pietra brillare del mio colore, o per meglio dire, del mio elemento. “In questo modo, la tua parte fatata sarà con te ovunque andrai. Non sei ancora guarita, ma ci lavoreremo insieme, te lo prometto. Ora ne sono sicuro, ed è come hai detto. Andrà tutto bene, fatina mia.” Mi disse, poco prima di afferrarmi entrambi i polsi e abbandonarsi al bacio più dolce che mi avesse mai dato. Innamorata, lo lasciai fare assaporandone ogni istante, e non appena ci staccammo per respirare, mi strinsi a lui, accarezzandogli il viso. “Portami a casa.” Pregai, ormai pronta a tornare alle mie radici e mostrare quanto in un solo giorno fossi cambiato. “Certo.” Rispose subito lui, guadagnando la porta di casa e uscendone al mio fianco. Non facendosi attendere, Sky si unì a noi, e con lei anche Midnight e Bucky. Insieme, tornammo alla mia casa nella foresta solo poco tempo dopo, con un pomeriggio appena iniziato e l’ormai conosciuto stridio di un falco a seguire il nostro viaggio. Alzando lo sguardo, Sky vide per la prima volta quell’uccello dalle ali brune, e in silenzio, sorrise. Imitandola, lo vidi anch’io, e ricordandomi dei suoi poteri e del suo legame con il vento che collegai ogni indizio, e rivolgendo una preghiera al re del vasto cielo, continuai a sperare che la luce della fortuna baciasse anche il suo viso. Forse quel falco e il suo continuo volare nella sua direzione era una sorta di avviso, ed io volevo crederci, proprio come lei dimostrava di fare con ogni sorriso. Ore dopo, poco prima di sera, mi sedetti e immersi nella lettura di un libro, felice di aver capito come continuare a vivere dominando tramite un gioiello i miei limiti di fata.

 

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Capitolo 14
*** La pace dentro di noi ***


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Capitolo XIV

La pace dentro di noi

Sempre attenta alla mia lettura, continuavo a far scorrere gli occhi su ogni parola, e riga dopo riga, mi immergevo in un’entusiasmante avventura. Per la prima volta, i miei occhi non erano fissi sulle pagine di quel libro che ormai consideravo maledetto, e più il tempo passava, più mi concentravo. Era una storia coinvolgente, e girando le pagine ad intervalli regolari, speravo di carpire tutti i segreti e i dettagli di quella storia. Un amore profondo e tormentato quanto il mio, e nulla che lasciasse presagire un lieto fine. Concentrata, finii per estraniarmi dal resto del mondo, non avendo quindi modo di rendermi conto di nulla, e sussultando quando Willow, la mia gatta, mi saltò in braccio andando in cerca di coccole. “Willow! Fa piano!”la sgridai, scoppiando a ridere e fingendo rabbia realmente non provata. Per tutta risposta, la gatta miagolò appena, e sdraiandomisi in grembo, iniziò a fare le fusa. Tranquilla, posai il libro per accarezzarla, e poco dopo, Bucky spuntò da dietro il divano, arrampicandosi fino allo schienale. Fermo su due zampe, si voltò verso il corridoio che portava alla mia stanza, e squittendo, tentò di convincermi. Annuendo lentamente, gettai un occhio all’orologio appeso al muro, e solo allora mi resi conto del tempo che era trascorso. Ormai stanca di leggere, riposi quel libro nello scaffale poco distante, e dando retta al mio amico scoiattolo, andai a letto. Fra un passo e l’altro, incrociai Sky. “Ti sei decisa, vedo. Il tuo ragazzo ti sta aspettando, va da lui.” Mi disse, sorridendo e prendendomi bonariamente in giro. Stranamente divertita dal suo modo di scherzare, sorrisi a mia volta, e continuando a camminare, finalmente raggiunsi la mia stanza. Non appena entrai, il mio sguardo si posò su Christopher, sdraiato sul letto e completamente concentrato su di me. “Allora, mi aspettavi?” gli chiesi, lasciandomi sfuggire una piccola risata. “E se anche fosse? A un protettore non può mancare la propria fata?” rispose lui, stando al gioco e azzardando un sorriso, seguito da un tentativo di afferrarmi il braccio per attirarmi a sé. Lasciandolo fare, non mi opposi, e appena un attimo dopo fui con lui. Ci ritrovammo insieme sul letto che ormai condividevamo, e decisamente troppo felice, scoppiai a ridere. Silenzioso, Christopher si limitò a mettersi comodo e accarezzarmi i capelli, orgoglioso come mai l’avevo visto. Il silenzio aleggiava fra di noi, e non osando romperlo, mi accucciai fra le coperte accoccolandomi al suo fianco, godendomi ogni istante delle sue carezze e del contatto dei nostri corpi. Lo amavo, ed ero sicura di amarlo, e guardandolo negli occhi verdi come la gemma che portavo al collo, non resistetti alla tentazione di baciarlo. Colto di sorpreso, lui rimase fermo per qualche sporadico attimo, e solo rilassandosi, mi permise di portare avanti quel così romantico azzardo. Nulla di diverso da un ennesimo contatto delle mie labbra sulle sue, dolci, calde e morbide come le ricordavo. “Sei affettuosa, e mi piace, sai?” mi fece notare, non appena quel bacio ebbe fine e ci staccammo per riprendere fiato. “Quando serve e con chi lo merita, mio caro custode.” Spiegai, fallendo nel misero tentativo di restare seria e facendo scivolare una mano sul suo viso liscio e privo di alcun accenno di ispida barba. “Dì, sei felice di come sia finita con i miei?” mi chiese poi, curioso e ancora comprensibilmente preoccupato per quello che mi era successo. “Amore, i tuoi genitori sono persone squisite, e Leara è mia amica. Cos’è, non ti fidi di loro?” risposi, posandogli una mano sulla spalla e stringendola per rassicurarlo, sicura che in quel momento il suo morale fosse intrappolato metri e metri sotto terra. “No, Kaleia, è che… vedi, il mio è un lavoro difficile. Prima di me era mio padre a tenere le redini, e in quanto unico figlio maschio ora sono passate a me, e sapere che cercare di proteggerti ti fa così male… ne fa anche a me, ecco.” Rivelò in quel momento, parlandomi con il cuore in mano e sfruttando la quiete della notte per fare in modo che nessuno ci sentisse. “Christopher, tesoro mio…” sussurrai, guardandolo sempre fisso negli occhi con interesse e tristezza insieme. “Io sto bene. Adesso sto bene, vedi? Ed è tutto merito tuo. Fai un ottimo lavoro con me, davvero. Dove sarei se non ti avessi incontrato?” replicai poco dopo, abbozzando un sorriso colmo di tenerezza di fronte al quale lui si sciolse come candida neve a contatto con il sole. “Probabilmente non riusciresti a sollevare neanche una foglia, carina.” Mi fece notare, finalmente sorridente e scherzoso com’era solito essere. “Esagerato!” quasi urlai, scoppiando in un’altra risata e restando a guardarlo, tutt’altro che offesa. “Sei tu ad avermelo chiesto, ora basta giocare d’accordo?” disse soltanto, vestendo i panni di un arbitro e mettendo fine a quella lite tanto sciocca quanto falsa. Scivolando nel silenzio, mi limitai ad annuire, poi mi sdraiai di nuovo, dandogli le spalle per stare più comoda e volgendo lo sguardo altrove, al panorama notturno oltre la finestra appena aperta, avendo il piacere di sentire un leggero alito di vento solleticarmi la pelle. “Hai freddo?” mi chiese Christopher, premuroso come al solito. “No.” Risposi a malapena, con la voce bassa e gli occhi ormai fissi sul cielo notturno punteggiato di piccole stelle. Alla loro vista, un debole sorriso prese forma sul mio volto, ricordandomi le mie due piccole amiche pixie e in un certo senso, le mie origini. Sin da bambina, non avevo fatto altro che affidarmi ad Eliza, tanto da arrivare a considerarla mia madre, ma ad essere sincera non passava giorno in cui non interrogassi l’orizzonte pensando alla vera donna che mi aveva donato la vita, di cui non ricordavo assolutamente nulla, eccezione fatta per il suo volto durante quella breve visione durante il mio primo incontro con la signora Vaughn. Magro, pallido e incredibilmente simile al mio, che avrei potuto riconoscere ovunque come confondere fra mille altri, data una caratteristica di noi fate che avrebbe anche potuto essere la nostra condanna. Ci differenziamo per i nostri caratteri, i segni sulla pelle e i poteri, ma i lineamenti e i fisici di ognuna di noi non variavano mai molto, finendo per farci assomigliare tutte e renderci gocce di pura acqua. Certo, Sky ed io eravamo un caso raro, o come altri dicevano vere e proprie mosche bianche, e questo a volte mi intristiva, portandomi a pensare al mio essere un ibrido. Non sapevo perché io e lei non eravamo come le altre, ma quando ci pensavo, il mio umore tendeva ad oscillare come un pendolo, trascinandomi fra tristezza e qualcosa di simile all’apatia, grazie alla quale riuscivo ad ignorare tale pensiero ed essere felice di avere un’identità mia e mia soltanto, insostituibile e incapace di replicare. Uno per volta, questi pensieri si facevano sempre largo nella mia mente, e dopo qualche tempo passato a rimuginarvi sopra, finivo per addormentarmi, sfinita da mille e mille schemi dalla logica pressochè inesistente. Mi concentravo troppo arrivando a soffrire di mal di testa, raggiungendo una sorta di punto di non ritorno dal quale potevo fuggire solo grazie al sonno e ai sogni, unico posto in cui potevo ritirarmi ed essere calma e felice senza la compagnia di nessuno. Non ero solitaria, e lo sapevo bene, ma di tanto in tanto me ne concedevo il piacere, e quando accadeva ero sempre distesa e felice, forse perfino di più di quanto lo fossi stando con Willow, Bucky o Christopher. Lui era il mio ragazzo, ed ero certa che nessuno dei miei due animali avrebbe mai potuto sostituirlo, ma nonostante questo li reputavo speciali, e lo stesso valeva per Midnight, il merlo di mia sorella, che da tempo avevo perdonato per avermi ferita quasi senza alcun motivo apparente. Ad essere sincera, credevo che l’astio fra di noi fosse cessato, e infatti era così, poiché questo si era trasformato in pacifica convivenza. Ormai era diventata un’abitudine, e benchè il più delle volte ci ignorassimo, ad entrambi andava bene così. A volte si lasciava accarezzare, ed era un bene, ma preferendo di gran lunga il mio amichetto peloso e così piccolo da risultare tascabile, tendevo a tenere quel volatile fuori dalla mia portata, e se mi era impossibile, tolleravo la sua presenza. Ad ogni modo, quella sera non feci alcuna fatica ad addormentarmi, allietata dal battito del cuore di colui che mi proteggeva e che non aveva fatto altro fino ad oggi, nonostante ogni freccia di veleno e di odio che gli venisse scagliata contro. Si difendeva come poteva, e stasera me l’aveva confessato, e prima di cadere preda del sonno, fui felice di vedere una lanterna liberata in cielo dagli umani. Era piccola e verde, del colore di una speranza che non avrei certamente perso né visto scemare, e con il viso nel cuscino, non nascosi un sorriso nel sentire le risate di mia sorella unite al battito delle ali del suo merlo. Seppur pressochè vuota, anche questa giornata mi aveva sfinito, e ancora svegliava, potevo vedere come Midnight volava solcando il cielo e la notte infinite volte, in un costante e continuo andirivieni, portando in ogni viaggio d’andata un messaggio legato a una zampa. Al suo ritorno, non aveva mai nulla, ma lo stesso non valeva per un altro uccello, un maestoso falco che avevo già visto e sentito tempo addietro, diretto verso la finestra nella sua stanza e deciso a farsi aprire per consegnare quei messaggi, che la facevano ridere e sorridere, e ne ero certa, le scaldavano il cuore. Ad essere onesta, ero orgogliosa di lei, e finalmente sicura che quell’ormai famosa e conosciuta profezia di una strega che non sopportavo, ma che fino a questo momento, aveva sempre trovato il modo di aiutarci. In fin dei conti, era stato grazie a lei che avevo trovato la forza di reagire e continuare a credere in Christopher nonostante tutti gli ostacoli della nostra relazione, e ora finalmente capivo perché non aveva reagito quando pur non volendo l’avevo attaccata. Si era presentata durante i miei allenamenti con in mano la pagina strappata e mancante di quel libro, e qualcosa mi diceva che si aspettava o che forse aveva addirittura previsto la mia reazione. Fra di noi non scorreva buon sangue, ed era vero, ma con il tempo ho imparato che nella vita esistono solo tre cose che nessuno è mai in grado di nascondere. Il sole, la luna e la verità. Anche se lentamente, stavo evolvendo, e con me i miei poteri, e finalmente, lo stesso discorso sembrava applicabile alla vita di mia sorella, che ora aveva una ragione per sorridere e sentire il suo cuore battere nel freddo di una notte piena di stelle. In altre parole, e ognuna con i suoi ritmi e tempi, stavamo cambiando, e seppur in modi diversi, trovando la pace dentro di noi.  

 

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Capitolo 15
*** La stagione degli amori ***


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Capitolo XV

La stagione degli amori

Avevo trascorso una notte serena, e di nuovo in piedi, mi scoprivo felice e piena di energie. Le risate e la felicità di Sky mi avevano permesso di trascorrere una notte serena, e ben presto, i versi del suo merlo mischiati a quelli di quell’ormai famoso e al tempo stesso misterioso falco erano diventati vera e propria musica per le mie orecchie, e ricordavo bene di essermi addormentata con il sorriso sulle labbra. Io ero sveglia e pronta per fare colazione, ma lo stesso non valeva per Bucky, accucciato accanto al suo solito piattino di noci stranamente ancora pieno. Confusa e stranita da quella vista, mi fermai a guardarlo, e un singolo movimento finì per tradirlo. Stanco e ancora assonnato, si strofinava gli occhi e il muso con una zampa, e sbadigliando, faceva lo stesso con il proprio pancino, gonfio e sicuramente pieno. Pensandoci, ricordai che era solito nascondere quello che mangiava, e che nonostante avesse dormito con me, doveva essere sgattaiolato via infinite volte per il classico spuntino di mezzanotte, e tutto sotto il mio naso. Ovvio era che dormendo non mi fossi accorta di nulla, ma che volendogli troppo bene per arrabbiarmi, non diedi troppo peso alla cosa. Ad ogni modo, affamato o meno che fosse, era sveglio come me, e muovendosi lentamente e quasi a fatica, teneva lo sguardo fisso sulla porta di casa. Come un fedele cane, mi chiedeva di uscire, e l’avrei fatto presto, ma non prima di controllare Willow, che al contrario di ognuno di noi in casa, o quasi dormiva. Guardandola riposare beatamente, non dicevo una parola, ma in quel momento mi tornarono in mente gli avvertimenti di Marisa. Stando a quanto mi aveva raccontato, Willow era appartenuta a sua madre prima di conoscere l’accoglienza della mia casa, e prima di allora veniva spesso maltrattata e il cibo  le veniva negato, fatte salve tutte le occasioni in cui proprio Marisa, per pura pietà nei confronti di quella povera gatta, le desse qualcosa da mangiare di nascosto alla stessa madre, evidentemente affatto entusiasta all’idea di tenere un animale. Non ne ero certa e non potevo esserlo, ma immaginavo che l’avesse adottata appellandosi alla comune credenza secondo la quale i gatti neri avessero qualche sorta di connessione con il mondo della magia, per poi abbandonarla e smettere di prendersi cura di lei come se niente fosse. Ad essere sincera, il solo pensiero mi indignava, ma con il passare del tempo, cercavo sempre di non pensarci. Ora come ora, lei viveva con me, e nonostante avesse una ciotola regolarmente piena, acqua e latte freschi da bere quando voleva, e perfino un collare a renderla parte della famiglia, a volte notavo in lei comportamenti  alquanto strani, e a dir poco inusuali per una gatta giovane come lei. Dormiva moltissimo, tanto che doveva svegliarla per convincerla a mangiare e bere, e ogni volta che si addormentava, avevo davvero paura per lei, arrivando sempre a temere che non si svegliasse. Nonostante tutto, era sempre una gatta giocosa, e più di una volta l’avevo vista correre per casa al solo scopo di terrorizzare il mio povero Bucky. Non gli aveva mai fatto del male, e lo sapevo, ma data la sua natura non potevo certo escluderlo, ragion per cui tenevo sempre d’occhio entrambi, o chiedevo a mia madre di farlo quando non ero in casa. Seppur preoccupata, mi prendevo cura di lei al meglio, e almeno ora la situazione sembrava migliorare. Tranquilla e senza più certi pensieri a distrarmi, mi alzai dalla sedia e uscii dalla cucina, seguita da Christopher e dal mio caro roditore, che all’improvviso sembrava aver perso ogni interesse a stare all’aria aperta. Non sapevo perché, ma ora aveva spostato gli occhietti scuri dalla porta al corridoio che portava alla mia stanza, e immobile, non si muoveva. Senza proferire parola, seguii il suo sguardo, e solo allora mi resi conto dell’assenza di Sky. Lei e il mio cucciolo non  erano certo mai stati amici per la pelle, ma nel tempo lui si era affezionato anche a lei, e dovevo ammettere di ricordare la dolcezza del gesto che aveva compiuto durante l’inverno. Gli aveva regalato una sciarpa per affrontare l’inverno, e aveva ammesso di volergli bene. Parole per altri insignificanti, ma per me di grande valore. Sorridendo a quel solo pensiero, mi allontanai dalla porta di casa, e attraversando il corridoio, esaudii il desiderio di quel piccolo roditore. Voleva vederla prima di andare, e forse coinvolgerla nella nostra uscita, e conoscendomi, sapevo che non gli avrei mai negato quella possibilità. Arrivata alla sua porta, bussai un paio di volte, ma da parte sua nessuna risposta. Non volendo disturbare, attesi per qualche istante, poi bussai ancora. “Sky? Sei qui dentro?” azzardai, spingendo leggermente la porta della sua stanza e scoprendola aperta. Entrando, fui avvolta dal buio, e con passo felpato, raggiunsi il suo letto. La fioca luce della sua lampada illuminava uno scrittoio e alcuni fogli, e fra le sue mani giaceva ancora la matita che aveva usato per scrivere i messaggi che aveva affidato al suo merlo. Stanco quanto e forse più di lei, dormiva nel suo nido appena sopra l’armadio, e alla mia vista, aprì e chiuse gli occhi, annoiato. Tornando a guardare mia sorella, sorrisi debolmente, e ad una seconda occhiata mi accorsi che stringeva il cuscino, abbracciandolo come una bambina farebbe con i suoi animaletti di pezza. Cauta, mi avvicinai alla finestra, e lenta, l’aprii. Non avrei voluto interrompere il suo riposo, ma il sole era sorto da un pezzo, e in genere dormire fino a tardi non era certo da lei. In quel momento, la luce del sole illuminò a giorno la stanza, e biascicando lamenti e parole senza senso, Sky si schermì la faccia con il cuscino, desiderando solo tornare sotto le coperte. “Sky, svegliati, è mattina.” Le feci notare, tranquilla e affatto sorpresa dalla sua pigrizia. “Mattina? Di già? Ma fino a poco fa stavo…” rispose lei, incredula e intontita dal sonno. “Scrivendo lettere d’amore al tuo ragazzo?” azzardai, completando quella frase per lei e spintonandola giocosamente. “Cosa? No! Voglio dire sì, insomma, vedi…” replicò lei, scattando sull’attenti e drizzandosi a sedere sul letto, sconvolta. Scivolando nel silenzio, scosse la testa un paio di volte, poi se la prese fra le mani, massaggiandosi le tempie dolenti. Preoccupata e incuriosita al tempo stesso, non feci che guardarla attendendo spiegazioni, e quando la matita le cadde di mano assieme ad un foglio posato malamente sulla sua piccola scrivania, la mia pazienza venne premiata. “Ti spiegherò tutto dopo, uscendo.” Disse soltanto, decidendosi ad alzarsi e a prepararsi per la giornata. Come al solito, non le ci volle molto, e una tazza di latte fumante seguita da qualche biscotto fu abbastanza per saziarla. Poi, e quasi come se fosse in ansia per qualcosa, si vestì in fretta, non avendo desiderio dissimile dall’uscire di casa. Seguendola, faticai a starle dietro, e una volta fuori, lei non fece altro che guardarsi intorno, forse alla muta ricerca del suo ammiratore a me segreto. Scuotendo di nuovo il capo, si ricompose, e camminandole accanto, le sfiorai un braccio. Non avevamo una meta precisa, stavamo solo camminando, e in silenzio, attendendo le sue risposte. “Allora? Cosa dovevi dirmi?” la incalzai, sperando di non risultare invadente. “Si chiama Noah. L’ho conosciuto quando ti ho accompagnata al villaggio, e da allora non facciamo che parlare. I messaggi sono una cosa più recente, e in qualcosa siamo simili.” Disse, apparendo ai miei occhi stranamente tranquilla e molto più rilassata. “Sì? Ti ascolto, va avanti.” Risposi, annuendo e continuando a camminare, mentre il mio sguardo si spostava alternativamente dal suo viso al sentiero che percorrevamo. Silenzioso, Christopher mi raggiunse prendendomi la mano, e regalandogli un sorriso, rimasi concentrata su mia sorella. “Forse lo hai già capito, ma se io ho Midnight, che è un merlo, lui ha un falco. È per questo che lo sentivi stridere, di notte. “Capisco, e ha un nome?” chiesi, mandando avanti la conversazione e avendo il piacere e la fortuna di vedere un accenno di felicità illuminarle il volto. “Te l’ho detto, Noah.” Ripetè, distratta e ignara di aver fallito nel comprendere la mia domanda. “Sky, intendevo il falco, non lui.” Spiegai, ridendo di gusto e pregando di non averla offesa. “Scusa, non avevo capito. Vedi, lui…” provò a rispondere, sentendo la frase morirle in gola appena un attimo dopo, quando il suono della sua voce fu annullato da uno stridio ormai conosciuto. Sorpresa, alzai di scatto lo sguardo, e fu allora che lo vidi. Il famoso falco dalle ali brune di cui mi aveva già parlato, che come sempre volava solcando il cielo, tenendo lo sguardo fisso sul terreno alla ricerca di una qualche preda. Per nulla intimorita, Sky si godette quello spettacolo, poi udimmo una voce alle nostre spalle. “Ranger, qui!” chiamava, facendosi via via sempre più forte e vicina. Voltandomi, sperai di identificare la fonte di quel suono, non avendo successo e sentendo due fischi riempire l’aria. Rispondendo a quel richiamo, il falco tornò immediatamente indietro, andando a posarsi sulla spalla di un ragazzo nascosto nella boscaglia. Alla sua vista, Sky gli corse incontro, e lui la accolse a braccia aperte. “Noah!” lo chiamò a gran voce, felicissima. “Buongiorno, quanto entusiasmo!” rispose il ragazzo, stringendola fra le braccia e tenendola stretta. “Scusami, ma lo sai, sono solo felice di vederti.” Rispose lei scostandosi, leggermente imbarazzata. “Anch’io, ma loro chi sono?” azzardò a quel punto lui, confuso e stranito dalla nostra presenza. “Noah, ti presento mia sorella, il suo Christopher e il piccolo Bucky. Saluta, sorcetto.” Disse semplicemente Sky, facendosi da parte e dando inizio alle dovute presentazioni. Sorridendo, allungai una mano per stringere la sua in amicizia, e non appena Christopher fece lo stesso, anche Bucky, sempre al sicuro sulla mia spalla, si sporse per imitarci, approfittandone anche per annusare il nuovo arrivato. “Salve, piccolino. Sei ben educato, vedo.” Osservò Noah, sinceramente divertito. Annuendo, il mio amico peloso squittì lievemente, e balzando in terra, prese a correre in cerchio come per giocare. Abbassando lo sguardo, lo fissai su di lui, e a stento trattenni una risata, ma nulla potè prepararmi al gesto che seguì. Indagando fra l’erba, raccolse da terra una ghianda solitaria, e rimanendo in piedi su due zampe, la offrì al nuovo amico. Un modo come un altro di fare amicizia, che fra una risata e l’altra condividevo appieno. Abbozzando un sorriso, Noah prese la ghianda fra le dita, poi finse di mangiarla. Tranquilla, mi voltai verso Christopher, e una sola occhiata d’intesa bastò a farmi ridacchiare di nuovo. Poco dopo, il sole illuminò lo smeraldo che portavo al collo, e anche se per un solo attimo, il segno che avevo sul polso parve illuminarsi, splendendo e diventando caldo al suo tocco. “È un buon segno, sta funzionando.” Mi sussurrò, orgoglioso. “Dimmi, non senti niente? Nulla di nuovo?” chiese poi, interessato come sempre alla costante crescita dei miei poteri. “No, non credo.” Risposi, scuotendo testa in una negazione. Annuendo lentamente, Christopher mi lasciò la mano, ed io tornai a concentrarmi su Noah. A prima vista non mi sembrava molto diverso dal mio lui, sempre gentile con la sua ragazza e felice di stare al suo fianco. Durante quella mia breve distrazione, lui e Sky si erano allontanati per avere un momento da soli in riva al lago, e correndo come bambini, si divertivano. Ormai erano lontani, ma avevo osservato il suo volto mentre mi parlava, e capivo bene perché Sky ne fosse stata subito così attratta. Gli occhi marroni che vantava avevano la stessa tonalità delle foglie in autunno, e i capelli leggermente più chiari non passavano certo inosservati. Ad occhi estranei, il loro modo di divertirsi sarebbe certamente risultato infantile, ma non ai miei. In fin dei conti, anche io e Christopher avevamo avuto momenti simili, e orgogliosa di mia sorella, le lasciai lo spazio e la libertà che meritava. Ridendo come una bambina, correva nel vento, sentendolo accarezzarle il viso e i capelli, come era successo già mille e mille volte. Persa in un mondo tutto mio, mi concentrai sulla natura che avevo attorno, e non avendo occhi che per il verde a me dinanzi, riprovai a usare i miei poteri. Ad occhi chiusi, inspirai a fondo tenendo la mano di Christopher, e avvertendo dentro di me pace e serenità, espirai. “Adesso? Ancora niente?” azzardò lui, curioso. “Pace. È normale, vero?” risposi, non potendo evitare quella domanda, forse troppo ovvia per un protettore del suo calibro. “Sì, se stai ancora imparando, ma adesso vieni. Credo di aver capito perché Red non si vede da tanto.” Replicò, vantando una calma a dir poco mostruosa e afferrandomi il polso, per poi iniziare a camminare verso un punto preciso della foresta, ovvero il tronco cavo che aveva funto da tavolo per la torta nel giorno del compleanno di Lucy. Allora non avevo avuto modo di accorgermene, ma osservandolo assieme a lui scoprii che nel tempo era diventata una tana, e che una buca poco distante lo era sempre stata. Chinandomi fra l’erba, la toccai con mano, e solo allora, rividi il mio amico dal pelo rossastro. “Red!”chiamai, avvicinandomi per toccarlo. Lasciandomi fare, la volpe non si ritrasse, e accettando le mie carezze, mi leccò la mano. Al mio fianco, Christopher era rimasto in piedi, e alla vista del padrone, l’animale si fece avanti, saltando per fargli le feste, e poco dopo, un’altra figura emerse dalla tana. Un altro esemplare di volpe, ma a giudicare dalla forma dell’addome leggermente pronunciato e dalle mammelle gonfie di latte, una femmina. Stando ai miei ricordi, Red era scomparso durante l’inverno, e solo ora ne scoprivo il motivo. Da animale selvatico qual era, aveva seguito i suoi istinti fino a trovare una compagna, e con questa, una famiglia. Data la scarsa ampiezza del cunicolo dove i due dimoravano, non fui sicura del numero dei piccoli, ma per ora, poco importava. Il cerchio della vita si era aperto di nuovo, e ben presto avrei visto dei cuccioli di volpe correre e cacciare nella foresta. Red era diventato padre, e quando voltandomi vidi che anche il mio Bucky aveva preso a rincorrere una sua simile strofinando il naso e il muso contro di lei, fui certa di una cosa. Con la fine dell’inverno, avevo assistito al ritorno della bella primavera, resa magica non dai miei poteri ma da quella che gli umani chiamavano stagione degli amori.   

 

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Capitolo 16
*** Le stelle sulla foresta ***


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Capitolo XVI

Le stelle sulla foresta

Come sempre, la giornata continuava, e al fianco di Christopher, gli tenevo la mano. Il bacio che ci aveva uniti per lunghi secondi aveva avuto fine, ma eravamo ancora insieme. Il sole sarebbe stato alto ancora per poco, e ferma a guardare le nuvole in cielo, sospese a fluttuare nell’aria e sempre mosse dal vento che ancora spirava, sorridevo. Il ricordo della mia piccola amica Lucy era sempre nella mia mente, e con esso anche il pensiero della sorellina e delle nuove responsabilità di entrambe, ora padroncine di un coniglietto, Sunny. Così l’avevano chiamata, per via del suo soffice pelo color del sole e della sabbia spesso visibile sul selciato. Quasi istintivamente, mi strinsi al mio ragazzo, e lui mi baciò di nuovo, sinceramente innamorato. L’aveva fatto più volte, così tante che ormai avevo perso il conto, ma la cosa non mi toccava. L’amore che esisteva fra di noi era tanto forte quanto vero, e più il tempo passava, più le mie parole e i miei pensieri trovavano conferma. Il solo pensiero mi dava gioia nei miei momenti bui, e quando ci staccammo, senza più fiato in corpo, ci perdemmo l’uno negli occhi dell’altra, come accadeva sempre. “Kaleia, a volte vorrei…” provò a dire, fermandosi di colpo e lasciando che la frase gli morisse in gola. “Cosa, mio custode?” gli chiesi, incalzandolo e stuzzicandolo leggermente, con un sorriso impertinente a fare da contorno alle mie parole. “Niente, scusa, sto… sto vaneggiando.” Rispose subito lui, con una fretta mai mostrata prima e una presa a dir poco ferrea sulle mie mani. “No, dimmi. Ti ascolto.” Provai ad incoraggiarlo, sfiorandogli il braccio e facendomi più vicina, ormai curiosa  e decisa a conoscere la verità. “Sul serio, non è niente, lascia correre, va bene?” mi pregò, con il viso che da naturalmente calmo e pallido diventava via via sempre più teso, prendendo improvvisamente colore e sfumando lentamente nel rosso del più grande imbarazzo. “Va bene, uomo del mistero. Me lo dirai un’altra volta.” Concessi, divertita e stranamente attratta dal velo che aveva steso sulla conversazione. Abbandonandomi ad un ennesimo abbraccio, non dissi più nulla, e quando il sole scese, salutandoci e dando il posto alla sera e ben presto anche alla luna, ci sedemmo in riva al lago. Ad essere sincera, ero certa che mi avrebbe riportata a casa, ma forse, data la quiete attorno a noi e la dimestichezza che ormai mostravo per ciò che riguardava i miei poteri, aveva cambiato idea. Con gli occhi fissi sul quieto laghetto accanto a noi, non potevo che essergliene grata, e poco dopo, anche Sky e Noah si unirono a noi. Spostando lo sguardo dall’acqua ai loro volti, vidi l’amore negli occhi di entrambi, e con il passare di alcune nuvole appena sopra la nostra testa, Noah posò la mano su quella della sua lei. “Guarda.” Le sussurrò, alzando la testa quel tanto che bastava per mostrarle ciò che già aveva visto. Confusa, mia sorella fece ciò che le era stato chiesto, e chiudendo gli occhi, si concentrò a fondo. Per un attimo, non vidi in lei nulla di strano, ma quando il vento si sollevò scuotendo le chiome degli alberi e l’acqua poco distante, ebbi un brivido. Nonostante l’età, non aveva ancora il pieno controllo dei suoi poteri, e malgrado quella fosse una delle poche dimostrazioni che riusciva a dare, Noah fu orgoglioso, e potei giurarlo, anche emozionato. Per quanto ne sapevo era un semplice umano diverso da noi fate, e vedere la sua fidanzata scacciare quella nuvola come se fosse stata una fastidiosa mosca doveva essere stato a dir poco sorprendente. Essendo sua sorella, la conoscevo molto meglio di lui, ma non ero comunque sicura di cosa fosse o non fosse capace, non ancora almeno. Scuotendo la testa senza essere vista da nessuno, misi a tacere il brivido di freddo che mi attraversò la schiena, e preoccupato, Christopher si fermò a guardarmi. In qualità di mio protettore, tendeva a preoccuparsi per me, a volte anche più del normale, ma il nuovo bagliore della pietra che avevo al collo fu forte abbastanza da rassicurarlo. Silenziosa, gli rivolsi un debole sorriso, e meri attimi dopo, un’inaspettata pioggia. Rimanendo ferma e inerme, mi preparai a ripararmi dalle intemperie, e chiudendo istintivamente gli occhi, attesi. Di lì a poco non vidi altro che il buio, ma un leggero strattone da parte di Christopher mi riportò alla realtà. Meravigliata, sussultai per la sorpresa, arrivando quasi a strofinarmi gli occhi per l’incredulità. Forse Sky voleva solo sorprenderci tutti, o forse mostrare al meglio le sue attuali capacità al suo fidanzato, ma ad ogni modo il risultato fu strabiliante. Per una volta, la pioggia che vidi non fu fredda acqua, ma stelle. Sì, stelle. Le piccole e lucenti compagne di una luna che si mostrò poco a poco, uscendo dal suo covo di nuvole ormai scomparse dalla nostra vista. “Hai un desiderio, tesoro?” azzardò allora Christopher, parlando a voce bassa al solo scopo di non essere sentito che da me. Sorridendo felice, mi limitai ad annuire, e nello spazio di un momento, le mie labbra toccarono le sue. Quasi gelosa, Sky finì per imitarmi attirando a sé il suo ragazzo, e anche i nostri amici animali rimasero a guardare. Bucky, dritto su due zampe in mezzo all’erba, Midnight,in un nido di paglia e rami secchi su una quercia, Ranger, su un altro albero poco distate, e Red, appena fuori dalla sua tana, sempre attento alla compagna e ai suoi cuccioli, che in  quella calma notte scelsero di mettere il muso fuori dalla tana per la prima volta. Senza proferire parola, mi godetti quello spettacolo con muta ammirazione per mia sorella, finalmente abbastanza sicura di sé stessa da mostrare una seppur minima parte della sua magia elementale. Una notte serena e di puro romanticismo, che prima di tornare alla mia dimora, chiudere gli occhi e dormire, mi godetti ancora, avendo cura di non addormentarmi prima di aver immaginato il mio e il nostro avvenire, e visto per l’ultima volta la vera magia delle stelle sulla nostra foresta.

 

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Capitolo 17
*** Magia bianca e magia nera ***


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Capitolo XVII

Magia bianca e magia nera

Come ormai ero abituata ad aspettarmi, la moltitudine dei miei pensieri mi aveva fatto compagnia per tutta la notte, prendendomi metaforicamente la mano e tacendo solo quando ero finalmente riuscita a scivolare nel sonno. Nient’altro che ricordi della serata trascorsa e del mio vivere di fata, fino ad ora costellato di difficoltà che insieme a Christopher ero riuscita a superare. Anche se da poco, avevo ricevuto in dono un ciondolo proprio da lui, notando che sembrava brillare in base al mio stato d’animo e alla stabilità dei miei poteri, mostrando il suo vero color smeraldo e saltando agli occhi di chiunque si fermasse ad ammirarlo. Seppur sveglia, restavo con il viso schiacciato nel cuscino, sentendo il regolare battito del mio cuore e la pacatezza del mio respiro. Uno sporadico raggio di sole filtrava oltre il vetro della finestra chiusa, e mattiniera come sempre, non potevo negare di essere felice. Lieto di salutare il nuovo giorno, anche Bucky si era svegliato, scattando in piedi come una molla e squittendo nello scendere dal letto, con un velocità tale da rischiare di schiantarsi al suolo. Per sua fortuna, un tappeto attutì la sua caduta, e quando finalmente arrivò a terra, diede inizio ad una seconda scalata fino alla finestra. Emozionato come mai l’avevo visto, guardavo fuori con gli occhietti scuri pieni di speranza, grattando saltuariamente il vetro con gli artigli di una zampa. “Che c’è? Vuoi uscire, piccolo?” chiesi, sorridendo nel vederlo così attivo rispetto a ieri, quando sembrava aver mangiato così tanto da non riuscire a muoversi. Guardandolo, vidi un sorriso stamparsi sul suo dolce musetto, e appena un attimo dopo, un leggero movimento della testolina. Non sapevo se gli scoiattoli come lui potessero davvero annuire, ma lasciandomi vincere dalla tenerezza dell’espressione che vantava in quel momento, decisi di aprire la finestra, rivelandogli un modo come un altro per raggiungere la sua tanto amata foresta, che ormai ero arrivata a considerare l’elemento di entrambi. “In piedi di buon’ora, vero, fatina mia?” disse una voce alle mie spalle, che pur non voltandomi riconobbi quasi subito. Era Christopher, e bofonchiando contro la morbidezza del cuscino su cui ogni notte posava la testa, non sembrava avere alcuna voglia di alzarsi. “Scusa, Bucky mi ha svegliata.” Risposi a malapena, incantata dalla bellezza del paesaggio visibile appena oltre quell’immacolato vetro. “Da quando prendi ordini da un topo?” scherzò, regalandomi un debole sorriso e liberandosi dalla morbida trappola delle coperte al solo scopo di sedersi sul letto. “Chris, anche tu? Non è un topo, quante volte ancora tu e Sky continuerete a ripeterlo?” chiesi di rimando, non cogliendo affatto la sua solita vena goliardica, che alle volte diventava leggermente irritante. “Finchè saprò che ti fa scaldare tanto. Sei bellissima quando ti arrabbi.” Continuò lui, portando avanti quel gioco che mi sforzavo di odiare e in cui fallivo ogni volta. “Christopher!” chiamai, esasperata e divertita al tempo stesso, andando a sedermi con lui e posandogli un bacio sulla guancia. “Scusa, Kaleia.” Replicò allora lui, alzando le mani in segno di difesa. Sospirando, annuii lentamente, e con la stessa lentezza, uscii dalla stanza. “Non sei davvero arrabbiata, giusto?” chiese poco dopo, confuso dalla mia decisione e forse in colpa per ciò che aveva fatto. Voltandomi, lasciai andare la maniglia della porta, e sorridendo, attesi che mi venisse incontro. Non appena fu abbastanza vicino, mossi un solo passo nella sua direzione, e nello spazio di un momento, lo accolsi fra le mie braccia. “Come potrei avercela con il mio dolce custode?” dissi in un sussurro, abbozzando l’ennesimo sorriso preludio di un casto e caldo bacio sulle labbra. Colto alla sprovvista, Christopher esitò per un attimo, ma a disastro scongiurato si unì a me nel bacio, lasciando che ne controllassi ogni istante con amore. Volendo osare, non esitai nel chiedere di approfondirlo, grata di un permesso che ero comunque sicura di non veder negato. Innamorati come sempre,ci baciammo fin quasi a non aver più fiato in corpo, e non appena arrivò il momento di staccarci, mi mordicchiai il labbro, alla furtiva ricerca del suo sapore. “Kaleia, tesoro…” mi chiamò, dolce come solo lui sapeva essere. “Sì, amore mio?” risposi, prendendogli le mani per infondergli il coraggio che gli mancava. Grato e forse anche sorpreso dal mio gesto, lui rimase fermo e inerme a fissarmi, lasciando che il verde dei suoi occhi si fondesse con l’azzurro dei miei. Di nuovo senza fiato, non riuscii a parlare, e tradendo ogni mia speranza, la magia di quel momento si spezzò. Eravamo ancora vicini, così tanto da riuscire a toccarci, ma le mie mani non sfioravano più le sue, ed era come se la connessione fra noi, magica o naturale che fosse, avesse smesso di esistere. Confusa, non proferii parola, e attimi dopo, altre due parole abbandonarono le sue labbra. “Ti amo.” Disse soltanto, romantico come ogni volta che eravamo insieme. In quel momento, un ennesimo sorrise mi si dipinse in volto increspandomi le labbra, e annuendo, lo rassicurai ancora. “Ti amo anch’io, protettore.” Risposi, utilizzando forse per la prima volta quel titolo di cui solo pochi al nostro mondo potevano fregiarsi. “Preferisco l’altra parola, cara, sai?” mi fece notare, serio e al contempo stranamente interessato all’alquanto personale modo che avevo di rivolgermi a lui. “Quale, custode?” azzardai, stringendogli di nuovo le mani e lasciandomi sfuggire una risata. “Precisamente.” Replicò lui, sorridendo con dolcezza e cogliendomi di sorpresa con quello che ben presto divenne un altro magnifico contatto delle nostre labbra. Respirando a fondo, abbandonai le mie mani nelle sue, lasciandogli stavolta condurre quella danza e ritrovandomi letteralmente con le spalle al muro, bloccata in una trappola dalla quale non avrei mai voluto fuggire. Ero fra le sue braccia, fra le braccia di un uomo che riusciva a farmi sentire amata, unica e speciale soltanto sfiorandomi, e ogni volta che accadeva, non potevo mai fare nulla per fermare la miriade di brividi intenti a percorrermi la schiena. Stavamo insieme da relativamente poco, ma a noi non importava, in quanto l’unica cosa a contare davvero era la nostra felicità. Totalmente presa dal bacio, chiusi gli occhi, e solo quando li riaprii mi resi conto del tempo che era effettivamente trascorso. Il sole era ancora alto nel cielo come ogni mattina, ma dando uno sguardo alla piccola sveglia posta sul mio comodino, capii che avevamo dedicato alle effusioni una manciata di minuti. Non che la cosa ci disturbasse, anzi, ma dato il suo mestiere e i miei poteri di fata, io e lui tendevamo ad avere sempre gatte più grosse da pelare. A tal proposito, arrivando in salotto fummo accolti entrambi da Willow, evidentemente contenta di vederci e decisa a mostrarcelo miagolando senza apparente sosta, finchè proprio Christopher non si abbassò per accarezzarla. Fuori fra l’erba, Bucky non era con me, e almeno per una volta, la gatta di casa non si sarebbe divertita a tormentarlo. Arrendendomi alla sua tenerezza, l’accarezzai a mia volta, e notando che aveva la ciotola vuota e lo stomaco pieno, rimasi immobile per non indurla a scappare, poi la vidi sedersi su due zampe e giocherellare con una sorta di canna appesa al muro, da cui pendeva una piuma colorata. Un giocattolo che mia madre le aveva comprato durante una giornata fuori porta, e del quale la mia amica a quattro zampe sembrava essere entusiasta. Improvvisamente, non sembrava avere occhi che per quello, e ridendo di gusto, andai ad accomodarmi sul divano. “Non ti va di uscire oggi?” mi chiese Christopher, curioso. “No, restiamo qui. Ogni tanto è bello rilassarsi.” Risposi, mettendomi comoda e chiudendo gli occhi per un attimo, per poi aderire allo schienale del divano e respirare profondamente. Quasi senza volerlo, liberai un debole sbadiglio, e per tutta risposta, Christopher mi cinse un braccio attorno alle spalle. Un gesto che mi piaceva, e per cui in ogni situazione sembrava trovare sempre il tempo, specialmente durante occasioni e presentazioni, come era successo con i suoi genitori o sua sorella Leara. Non la vedevo da tempo, e nonostante le nostre differenze, prima fra tutte il suo essere parte di una famiglia di protettori come suo padre e suo fratello, a volte mi scoprivo intenta a pensare a lei e a come potesse sentirsi. Sapevo bene di poter semplicemente chiedere a Christopher, ma ad essere sincera, dovevo ammettere che vagare con la mente e immaginare scenari differenti dal normale fosse più stimolante e mi aiutasse a mantenere la calma, elemento chiave nella gestione dei miei poteri. Seduta sul divano, scivolai nel silenzio, e sporgendomi leggermente, pur senza alzarmi, ricordai di aver lasciato sul tavolino poco distante quel famoso libro dalla copertina nera, per molto tempo scartato e solo ora ripreso in mano. Conoscendomi, sapevo di non avere una chiara idee delle mie vere radici di creatura magica prima e ibrido poi, e nonostante Christopher fosse letteralmente a pochi centimetri da me, leggere quelle pagine mi sembrava la cosa giusta da fare. Certo, l’eventualità che contenesse altre brutte notizie sul conto di noi fate esisteva ancora, ma con il passare del tempo avevo pensato, arrivando a convincermi che se il peggio non aveva mai una fine, anche i mali stessi a volte non arrivavano per nuocere. In altre parole, conservavo un ottimismo a dir poco invidiabile, del quale il mio caro custode appariva orgoglioso. Ad ogni modo, e dopo solo pochi minuti passati a leggere ogni pagina girandole una ad una ad intervalli regolari, il caso volle che arrivassi di nuovo a quella che avevo ricevuto dalla signora Vaughn e che poi vi avevo conservato, ossia la pagina che testimoniava a chiare lettere quella che lei considerava una realtà, ovvero la possibilità che io e Sky fossimo ibridi, o che forse, per qualche assurdo scherzo del destino, tale sorte fosse capitata solo e soltanto a me. Non avendo mai conosciuto i nostri veri genitori, né io né lei potevamo esserne completamente sicure, e ignorando stoicamente delle probabili mezze verità appese a degli immaginari fili, vivevo la mia vita con lentezza e calma piatta, sfruttando ogni giorno per quello che era e ringraziando il sole, le stelle e la luna per avermi concesso di spenderlo accanto a chi amavo. Riflettendo, pensavo spesso alla fortuna che avevo nel poter contare su Christopher e sulla sua famiglia, ma anche su Sky e sul resto della mia, che ovviamente comprendeva anche compagni a due o quattro zampe. Calmo e tranquillo, Christopher mi guardava leggere, e pur non scoprendo alcuna novità, continuavo, documentandomi sulle origini di ognuna di noi e su come potevamo mescolarci agli umani senza alcun problema. In genere non dovevamo far altro che nascondere le ali ed evitare di spargere in giro la nostra sottile polvere di fata, e il nostro aspetto, in tutto simile a quello di un normale essere umano, avrebbe fatto il resto. Tutto questo mi portava a pensare al rapporto di Sky con Noah, e quando finalmente posai il libro, con le mani vuote e prive di qualunque altra notizia che già non conoscessi, Christopher parve avere un’illuminazione, e alzandosi in piedi, mi lasciò da sola in salotto per pochi minuti, per poi tornare indietro con in mano un altro tomo, che al contrario del primo, aveva la copertina chiara. “Ami leggere, perciò ho pensato che potesse servirti. Appartiene alla mia famiglia da generazioni, e non l’abbiamo mai mostrato ad anima viva. È prezioso, perciò fa attenzione, e non aprirlo a meno che il tuo cuore non ti dica di farlo, intesi?” mi avvisò, posandolo sul piccolo tavolo davanti a me e tenendoci sopra la mano perché non si aprisse. Annuendo, lo vidi spostarla, e solo allora, vidi che a chiuderlo c’era un lucchetto. Piccolo, sobrio ed elegante, quasi si nascondeva fra le pagine, dando al loro contenuto quell’alone di mistero che sembrava caratterizzare ogni essere del mondo magico. Ormai ero una fata adulta, ma sentivo di aver ancora molto da imparare, potendo comunque affermare con certezza una lezione che avevo già appreso in tenera età dalle fate più anziani, ovvero la divisione degli incantesimi e dei sortilegi del nostro mondo in due distinte categorie. Magia bianca e magia nera.

 

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Capitolo 18
*** Imparare insegnando ***


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Capitolo XVIII
 
Imparare insegnando
 
La primavera era ritornata al bosco da poco, e sfinita dal sonno, avevo aperto gli occhi perché disturbata dallo splendere del sole, salvo poi richiuderli e schermirmi pigramente il viso con un braccio. “Buongiorno, tesoro.” Dice una voce al mio fianco, che nello spazio di un momento riconosco essere quella di Christopher. “Buongiorno, amore mio.” Rispondo appena, voltandomi quel tanto che basta per incontrare i suoi meravigliosi occhi verdi e sorridere come la piccola e innocente pixie che ormai più non sono. “Pronta per oggi?” chiede, imitando il mio sorriso e allungando una mano per stringermi di più a sé, nonostante il groviglio di coperte in cui siamo intrappolati ci impedisca entrambi. “Perché? Che succede?” azzardo, ancora assonnata e incapace di collegare la giornata odierna a nulla di particolarmente speciale. “Niente, ma qualcuno lì fuori ti sta aspettando, guarda.” Risponde lui invitandomi in un delicato e veloce abbraccio che ha fine pochi attimi dopo, per poi decidere di alzarsi dal letto e aprire la finestra. Conoscendo il mio piccolo amico Bucky forse meglio di me stessa, ero pronta a scommettere che si trattasse di lui, ma con mia grande sorpresa, rividi le mie due pixie preferite. Lucy e Lune mi aspettavano appena fuori casa, e giocavano fra l’erba e i fiori per ingannare il tempo con tutta l’ingenuità che le caratterizzava. A quella vista, un nuovo sorriso mi spuntò sul volto, e solo dopo essermi preparata a dovere, uscii. Come ogni volta, tenni la mano del mio Christopher con ogni passo, camminandogli accanto senza esitazione. Insieme, ci avvicinammo alle ancora ignare bambine, e lasciandomi la mano, annunciò la nostra, o meglio, la mia, comparsa sulla scena. “Bambine! Guardate chi è arrivata?” disse, distraendole entrambe da un’infantile partita di nascondino. Voltandosi, Lucy fu la prima a notarmi, e in quell’esatto momento, l’aura che era solita ricoprirle il corpo come simbolo delle sue emozioni divenne dorata, rivelando quanto fosse felice di vedermi. Stranamente, Lune non si vedeva da nessuna parte, e data la sua tenerissima età, ipotizzai che stesse ancora giocando e attendendo di venire trovata dalla sorella maggiore. Avvicinandomi, allargai le braccia per invitare la più grande a venirmi incontro, e quando accadde, in mezzo al fruscio di alcune foglie e rametti calpestati, mi parve di notare qualcosa alle sue spalle. Sorridendole, la salutai amichevolmente, e non appena fu abbastanza vicina da toccarmi, Lucy mi abbracciò così forte da arrivare a togliermi il respiro. “Sei venuta, e sei anche in tempo.” Mi disse, felice ed eccitata da un’evidente novità che ancora non coglievo. “In tempo?” le feci eco io, incerta e dubbiosa. “Sì, per vedere Sunny. La mamma ci ha permesso di portarla con noi per un pò mentre stiamo insieme, ti va?” Spiegò la bambina, indicando un albero poco distante e facendo il nome della bestiola che aveva adottato nel giorno del suo compleanno. “Certamente.” Risposi, abbassandomi al suo livello e preparandomi a seguirla verso il nascondiglio della coniglietta. In silenzio, provai a muovere un passo, ma prima che potessi farlo, Christopher mi fermò, afferrandomi il polso e stringendo lievemente. “Ferma. Agli animali selvatici non piace essere colti di sorpresa.” Disse, con il tono e la serietà di un vero esperto. Annuendo, alzai le mani in segno di difesa,  e scivolando nel mutismo più totale, attesi. Scottata da quella sorta di accusa, Lucy si voltò verso di lui, pestando i piedi in terra e facendo scricchiolare altre foglie morte e secche. “Sunny non è selvatica!” protestò, sentendo una giusta rabbia crescerle dentro mentre il colore della sua debole luce passava dall’oro al rosso, come a voler simboleggiare quel sentimento. “Scusalo, tesoro, non lo sapeva.” Le dissi, restando accanto a lei e posandole una mano sulla spalla. Capendo di aver sbagliato, la bambina riflettè per un attimo, poi smise di mettere il broncio. “Va bene, ma soltanto perché ti ama.” Rispose, in un malcelato borbottio tipico dei bambini della sua età. Senza dire nulla, le tesi la mano perché la stringesse, e suggellando quel patto, la lite ebbe fine. “Dov’è il tuo coniglietto?” chiesi poco dopo, volendo solo far cadere il precedente argomento e riportare la questione a termini civili. “ Kaleia! È una femmina! Ora sbagli anche tu come lui?” esplose di nuovo la piccola, dandomi le spalle e non mostrando segni di collaborazione. Sospirando, mi diedi dell’idiota, e di fronte alla sua testardaggine, mi inginocchiai ancora, accarezzandole il viso e sperando nel suo perdono. “Mi dispiace, ma non volevi mostrarmela?” indagai, regalandole un luminoso sorriso e tacendo nell’attesa di una risposta. “È con Lune, sta giocando a nascondersi.” Disse soltanto, tenendo lo sguardo basso come la voce, corrotta da un fiume di emozioni che sembrava non riuscire a controllare. “Sai dov’è andata?” azzardai, guardandola camminare lentamente a pochi passi da me. “No, e ora papà si arrabbierà. Io sono grande, dovrei prendermi cura di lei.” Replicò, con fare sconsolato e sguardo mesto, sempre rivolto sull’erba che calpestava camminando. A quelle parole, sentii il cuore stretto in una morsa, e facendo saettare lo sguardo in più direzioni, mi guardai intorno. Soffrendo in silenzio, non proferivo parola, e avvicinandosi, fu Christopher a romperlo come fragile vetro, spezzando l’affatto piacevole quiete attorno a noi. Alzando lo sguardo, la piccola mi guardò con la speranza negli occhi, che solcati dalle lacrime, splendevano mostrando tutta la sua tristezza. “Sì, per favore. Se non la trovo non sono una brava sorella.” Disse, con la voce corrotta dal pianto e rovinata come l’ala di un uccellino ferito. Volendo solo rassicurarla, sorrisi debolmente, felice nel vederla imitarmi, anche se solo per pochi secondi. Facendosi avanti, Christopher la prese per mano, e seguendolo, lei si ridusse al silenzio, sondando il terreno alla ricerca di qualunque indizio che avrebbe potuto riportarla alla sorella. Fra un passo e l’altro, mi fermavo a guardarla, e ogni volta che i suoi splendidi occhi scuri incontravano i miei, sentivo quella strana stretta all’altezza del cuore, potendo solo immaginare come quel piccolo angelo potesse sentirsi. Aveva solo sette anni, era felice di avere un animaletto nonostante fosse una grande responsabilità, e lo stesso discorso era applicabile all’essere la sorella maggiore della piccola Lune. A quanto sembrava, non avevano fatto altro che giocare nella foresta fino al mio arrivo, e prendendo quel gioco forse troppo seriamente, ora Lune si era nascosta, e per ragioni che ancora non conoscevo, sembrava non voler farsi vedere mai più. “È sempre stata timida, e ora è sparita.” Diceva Lucy, prestando attenzione ad ogni passo e ad ogni rumore attorno a lei, sinceramente preoccupata per la sorellina. Non osando interromperla, l’ascoltavo parlare proseguendo nelle ricerche, e con il passare del tempo, ebbi modo di notare un particolare. Non tutti  l’avrebbero fatto, ma lei poneva una sorta di accento sull’ultima parola. Sparita. Sette lettere per un solo significato, ovvero scomparsa e non ancora ritrovata. Lentamente, il mattino stava sfumando in pomeriggio, e con alcune nuvole a oscurare la luce del sole, decisi di rivolgere un ennesimo sorriso a Lucy, e scambiandomi con Christopher uno sguardo d’intesa, alzarmi in volo. Sin dal nostro primo incontro nel villaggio degli umani, avevo sempre scelto di nascondere le ali e usarle solo in caso di estrema necessità anche a causa della scarsa stabilità dei miei poteri, e data l’attuale situazione, non c’era tempo come il presente per farlo. Cauta, le mossi piano, senza alcun rumore, e appena un istante dopo, mi scoprii libera e leggera come una piuma. Non toccavo altezze inimmaginabili, certo, ma osservavo comunque il mondo da un’altra prospettiva, nella mai vana speranza di ritrovare quella povera bambina. Sua madre mi conosceva e si fidava di me, e ad essere sincera non sapevo come le avrei spiegato quella sparizione, né osavo pensarci. Volando, tenevo gli occhi sul panorama, e dopo quelle che mi parvero ore, eccolo. Piccolo e quasi invisibile, un puntino nero e dallo splendore ancora sfocato, che scendendo in picchiata come un falco, sperai essere il mio giovanissimo obiettivo. “Lucy, vieni!” gridai, indicandole la strada con un cenno del capo e lasciandomi dietro una sottile scia di polvere magica, che a contatto con il terreno si sarebbe sciolta come neve dando nuove speranze alla vita nella mia selva. Annuendo, la piccola si staccò da Christopher, incitandolo a correre e riuscendo finalmente a sorridere. “L’ha trovata! L’ha trovata!” urlava, ridacchiando nel vento e ignorando il mio ragazzo, che ormai senza forze, arrancava alle sue spalle. Guardandoli, mi lasciai sfuggire una risata, e una volta a terra, mi avvicinai cautamente ad un mucchietto di foglie decisamente troppo ordinato, da cui spuntavano due piccole ali simili alle mie. “Lune? Sei tu?” chiesi, protendendo una mano in avanti e pregando con tutto il cuore di non spaventarla. Emergendo dalle foglie, la bambina mi guardò rifiutandosi di toccarmi, e togliendosi lo zainetto aperto dalle spalle, ne lasciò uscire la coniglietta, che zampettando e tremando spaventata da quel movimento improvviso, raggiunse subito l’altra padroncina, che accovacciandosi fra l’erba le fece qualche carezza. “Vuoi?” mi chiese, indicando l’animale con lo sguardo e prendendomi la mano come per invitarmi a toccarla. Stringendomi nelle spalle, sorrisi, e ben presto, la mia mano affondò nel pelo color sabbia dell’animale, stranamente allietato dal mio tocco. “Brava, Sunny, brava.” Sussurrai, nel tentativo di rassicurarla. Per tutta risposta, la coniglia strusciò piano la testa contro il mio palmo aperto, annusando l’aria attorno a sé e cercando con lo sguardo la più giovane delle padroncine, in piedi fra le foglie ma ancora restia ad avvicinarsi. “Perché non sei tornata? Il gioco era finito.” Le disse la sorella, preoccupata ma senza alcuna traccia di astio nella voce. Limitandosi a guardarla, la piccola non disse nulla, ed estraendo una matita e un foglio di carta dallo zaino, scrisse qualcosa che inizialmente non capii. Fu quindi questione di attimi, e piegandolo come un biglietto, me lo porse. Curiosa, provai a leggerlo, scoprendo che una sola parola scritta in nero campeggiava sul bianco della carta. “Stupida?” Una domanda più che legittima e forse legata al suo comportamento, che compresi solo guardandola puntarsi un dito al petto. “No, Lune, tranquilla. Non lo sei, mi credi?” risposi, sorridendole per incoraggiarla e allargando le braccia per attirarla a me. Muovendo qualche incerto passo in avanti, la piccola fu vicina a sfiorarmi, ma poi ci ripensò, e tremando, mi mostrò una mano. Era rossa, sembrava dolerle, e sulla pelle albergavano gli evidenti segni di alcuni morsi. Presa dal panico, pensai che fosse stata attaccata da un animale, ma prendendo quella manina nella mia, capii. A soli tre anni, Lune era ancora piccola, e stando a quanto ricordavo era riuscita a parlare per la prima volta nel giorno del compleanno della sorella. Un vero miracolo agli occhi dei genitori e vera musica per le loro orecchie, che a giudicare dal comportamento della bambina, forse non avrebbero più sentito. Non volevo essere negativa, e non mi intendevo di psicologia infantile, ma qualcosa mi diceva che sapendo di non riuscire a parlare, la piccola avesse iniziato in qualche modo a punirsi, mordendosi la mano per ogni tentativo fallito. Una diagnosi azzardata, e se giusta, anche triste e avvilente. Chiudendo gli occhi per un attimo, lottai per ricacciare indietro alcune lacrime a quel solo pensiero, e sempre tenendola per mano, annullai la distanza che esisteva fra di noi con un solo movimento del polso. Sentendo la gioia trasformarsi di nuovo in mestizia, anche Lucy si unì a me, e nel silenzio di quel momento, con Christopher sempre al mio fianco, le abbracciai entrambe, stringendole come ero certa che la loro madre aveva già fatto migliaia o forse milioni di volte. “Lune, piccola, mi dispiace. Mi dispiace d’accordo? Adesso… Adesso torneremo dalla tua mamma, e un giorno riuscirai a parlare, te lo prometto. Tu ti fidi di me?” Dissi, con la voce incrinata dal pianto e lo sguardo velato dalle lacrime fisso su quella povera bambina, che annuendo, dimostrò di riuscire a sentirmi. Di lì a poco, mi rialzai da terra, e ricomponendomi, sentii un nuovo fruscio. Qualcuno era alle mie spalle, e voltandomi, li vidi. Isla e Oberon, i loro genitori. Fidandosi delle loro bambine, avevano dato loro il permesso di giocare nella foresta, e non vedendole tornare si erano messi sulle loro tracce, ritrovandole fortunatamente sane e salve. “Kaleia!” mi chiamò la loro madre, stupita. “Grazie al cielo eri con loro. Dimmi, stanno bene?” chiesi poi, grata di averle viste con me e non con un’estranea. “Sì, Isla. Stanno… Stanno bene, ma Lune…” biascicai, facendo improvvisamente fatica a parlare ed esprimermi. “Non parla ancora, vero?” indagò suo padre, ormai a conoscenza del mutismo della figlia. Rimanendo ferma e inerme, mi limitai a guardarlo, e facendo le mie veci, Christopher scosse il capo in una negazione, simpatizzando come poteva con un padre a dir poco disperato. “Ma mamma, io… io posso insegnarglielo, vero?” azzardò a quel punto la povera Lucy, avvicinandosi alla madre e tirando leggermente un lembo della sua veste. “Tu imparerai insegnando, piccola mia.” Le rispose questa, abbassando lo sguardo e incrociando il suo con disarmante serietà. Confusa, la bimba la guardò senza capire, poi annuì come colpita da una rivelazione, e nella quiete di un pomeriggio da poco iniziato, vidi le mie piccole amiche tornare a casa assieme ai genitori, e al ritorno alla mia, mi sedetti sul divano per coccolare Bucky e Willow, tentando con tutte le mie forze di non pensare a quella triste mattinata sfumata in pomeriggio e finita con le lacrime, addormentandomi con l’arrivo della sera fra le braccia del mio fidanzato, che in qualità di mio protettore sentiva di rispecchiarsi nelle parole della cara Isla, convinto dal suo ruolo nella mia vita e dalla portata del nostro rapporto che anche lui, restandomi accanto come aveva sempre fatto, avrebbe continuato ad imparare insegnando.
 
 
Una buonasera a tutti i miei lettori. Anche oggi aggiorno praticamente per il rotto della cuffia, e ho davvero rischiato di non farcela, ma come avete visto, mi sono impegnata a scrivere questo capitolo dall'inizio alla fine, e nonostante gli intralci che ho dovuto affrontare, e il ritardo rispetto ai miei soliti ritmi, sono felice di essere riuscita a terminarlo e pubblicarlo. Spero che vi sia piaciuto, e al prossimo, anche se non so ancora predire quando,
 
Emmastory :)       
 

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Capitolo 19
*** Ancora acerba ***


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Capitolo XIX

Ancora acerba

Come sempre, la luce del dorato mattino non si era fatta attendere, e per l’ennesima volta, il buio aveva deposto le armi, lasciando vincere al sole una nuova battaglia. Ormai in piedi da ore, siedo in cucina con in mano una tazza di caffè, e bevo distrattamente qualche sorso di tanto in tanto, felice almeno per una volta di essere completamente sola. So bene di non disdegnare la compagnia d’altri, ma alle volte sento che la solitudine è proprio ciò che cerco. Quando accade, mi sembra di ritornare indietro nel tempo, chiudendomi di nuovo nel bozzolo che un tempo mi ha protetta e generata assieme ad un fascio di luce e all’amore di coloro che non ho mai conosciuto, e poi, una volta pronta, uscirne di nuovo fuori con la lentezza riservata ad una fatina appena venuta al mondo. Io e i miei veri genitori non siamo mai davvero venuti in contatto, e se lo stesso vale per Sky, l’affetto verso Eliza è ancora presente, e ci permette di andare avanti nella nostra vita, anche se ora siamo adulte. Ad essere sincera, non ricordo molto di loro, solo di aver visto quella caratteristica luce bianca permeare i loro corpi e farli sparire come eterei fantasmi privi di una vera identità. Ora come ora, il tempo sta passando, e mentre i miei pensieri si muovono vorticandomi in testa come uno sciame di affamate locuste, un dettaglio della giornata di ieri si palesa metaforicamente davanti ai miei occhi. È solo un ricordo, ma per qualche strana ragione mi spaventa, tanto da spingermi a posare la tazza e smettere di bere al solo scopo di respirare e calmarmi. Mattiniera come e forse più di me, mia madre è già in piedi, e al contrario di Bucky, sempre attento e ora impegnato a far colazione, è la prima a notarmi. “Kaleia, va tutto bene?” mi chiede, con una sottile vena di preoccupazione nella voce. In cuor suo non vorrebbe mai darlo a vedere, e nonostante le migliaia di volte in cui ormai gliel’avrò detto, non si rassegna all’essere una vera frana a nascondere le sue emozioni. “Sì, scusa, stavo solo pensando. Ammetto, non avendo cuore di nascondere la verità. “Sul serio? Che succede?” chiede, spinta da una genuina curiosità. Alle sue parole, vengo colta in flagrante, e solo allora, mi rendo conto che è il momento di buttare giù la maschera. Colpevole come una ladra, scossi la testa nel tentativo di depistarla, che per pura sfortuna si rivelò vano. “Si tratta di Lune, vero? Quella povera bambina… credi che guarirà mai?” azzardò, mangiando la foglia e spiazzandomi con quella domanda. Al solo pensiero, il cuore parve balzarmi nel petto, minacciando di schizzar fuori alla prima occasione. Esattamente come quando stavo con Christopher, ma in maniera diversa, e se mi era concesso dirlo, peggiore. Se accadeva in sua presenza, sorridevo e non riuscivo a respirare,  e ora accadeva la stessa e identica cosa, ma purtroppo senza un sorriso a illuminarmi il volto. Rabbuiandomi di colpo, abbassai lo sguardo provando un misto di dolore e vergogna. Soffrendo in silenzio, lei mi posò una mano sulla spalla, poi mi incoraggiò ad alzare lo sguardo. “Capisco come ti senti, cara. Provai le stesse cose quando si trattò di voi due. Eravate piccole, ho fatto del mio meglio, e fidati, anche la sua famiglia saprà aiutarla. Io non conosco la signora Isla come te, ma abbi fiducia, in lei e in te stessa.” Disse, sorprendendomi ancora e facendo luce su uno dei misteri che costituivano la nostra famiglia. Ad essere sincera, ero curiosa, ma allo stesso tempo decisamente troppo triste per Lune, e decisamente non pronta a scoprire le carte che mia madre aveva messo in tavola. Improvvisamente stanca, sentii e vidi il mio ciondolo pulsare, e scusandomi con lei, mi allontanai, rintanandomi nella mia stanza alla ricerca d’amore e conforto, accoccolandomi sotto le coperte con ancora i vestiti addosso. Il dolore che sentivo non mi avrebbe certo giovato, e per sicurezza, mi praticai sulla pelle quella sorta di incisione. La solita croce, per essere precisi, che con un pizzico di fortuna mi avrebbe protetto da uno svenimento o un episodio di epistassi. In quel momento, non ero sicura di nulla, e nonostante Christopher dormisse e non potessi chiedere consiglio, compresi che valeva la pena tentare. Così, il mattino sfumò in quieto e cupo pomeriggio, grigio come le nuvole di puro piombo che sembravano avvicinarsi all’orizzonte. Spaventata, Willow mi seguì miagolando debolmente, e saltando sul letto, descrisse un perfetto cerchio fra le lenzuola, iniziando poi a fare le fusa strusciandosi contro le lenzuola, e tutto prima di accucciarsi. Non riuscii a dormire, ma ne approfittai per pensare osservando il passaggio di quella coltre tanto uggiosa, notando con la faccia sul cuscino ma lo sguardo rivolto alla finestra, il ritorno del mio Bucky con un fiore fra le zampe, e più tardi, il luccichio delle ali e dell’aura dell’unica dolce fatina a cui non avevo fatto altro che pensare. Lune. A quanto sembrava, aveva finalmente imparato a volare dalla sorella, e ora mi sorrideva oltre il vetro della finestra. Anche se più lievi, i segni sulla sua mano stavano guarendo, e finalmente, proprio come me alla sua vista, sorrideva. Malferma sulle alucce delicate, faceva fatica, ma cercando il suo equilibrio, posò la mano sul vetro della mia finestra. Volendo incoraggiarla, le regalai un sorriso, e poco dopo, accadde ciò che non mi sarei mai aspettata. Imitandomi, si avvicinò abbastanza da alitare sul vetro. L’aveva sporcato, certo, ma avevo altro a cui pensare, e nulla avrebbe potuto prepararmi alla sua prossima mossa. Aveva ancora con sé il suo zaino, che molto più leggero, le conferiva la stabilità di cui aveva bisogno. Guardandomi, puntò un ditino verso il basso, e muovendolo ad arte, scrisse una sola parola. “Kia.” Una vera e propria rivisitazione del mio nome, ma un ulteriore passo verso la fine del suo mutismo. Mossa a compassione, la guardai dando inizio ad un piccolo e muto applauso, guardandola volare verso il sole non più così forte e tenue abbastanza da non disturbarla. Tornò a casa senza esitazioni, e salutandola ancora, compresi che stava crescendo lentamente, nonostante per alcuni aspetti fosse ancora una dolce pixie non matura e ancora acerba.

 

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Capitolo 20
*** Quiete d'animo e di notte ***


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Capitolo XX

Quiete d’animo e di notte

Non ancora pronta a mettere la parola fine alle mie odierne avventure, ero uscita di casa nella speranza di abbracciare una piccola Lune ancora intenta a svolazzare come un passerotto verso casa, ma ero arrivata tardi, e lei era già andata via. Spinto dalla curiosità, Christopher mi aveva seguita, e ora eravamo insieme, di fronte all’uscio di casa mia, e tenevamo alto lo sguardo per osservare il cielo tinto di rosso e arancione appena sopra di noi con i suoi toni dolci e oltremodo rassicuranti. Sorridendo, cerco la sua mano in perfetto silenzio, crogiolandomi nel calore della sua stretta. Calmo com’è solito essere, anche ora non proferisce parola, ma spostando lo sguardo dal cielo al suo viso, mi accorgo che è felice, e che notandomi, mi stringe la mano con forza ancora maggiore. “Sapevo che ce l’avrebbe fatta.” Dice in un sussurro, accarezzandomi le nocche con il pollice. “Come?” non posso evitare di chiedere, incerta su dove voglia andare a parare. Alla mia domanda seguirono attimi di silenzio, allo scadere dei quali la sua voce lo riempì completamente, spezzando la quiete creatasi fra di noi. Poco prima di parlare, mi spinse a muovere qualche passo in avanti, e fra l’erba più verde e i fiori più aulenti, si decise. “È nell’istinto di ogni più piccola fata. Ognuna di voi nasce con uno scopo, che in genere è trovare i propri poteri, l’elemento che le appartiene o una famiglia, e come vedi, lei ha trovato la sua strada. Sappiamo che non parla, ma ho visto cos’ha combinato sul vetro, sai?” questa fu la sua spiegazione, che ascoltai senza interrompere, e con la cui fine, mi abbandonai ad una risata. Non sapevo perché, ma il ricordo di quanto era successo poco prima mi scaldava il cuore, proprio come i sorrisi o le risate di chi amavo. Perdendomi nei ricordi, mi distrassi estraniandomi dal mondo, e dopo un tempo che  non fui in grado di definire, un suono fin troppo conosciuto mi riportò alla realtà. Stanco di non essere più protagonista delle mie giornate, Bucky si era rifatto vivo, e proprio come mi aspettavo, stringeva ancora quel fiore fra le zampe. Raro e delicato, aveva i petali rosa, e a quanto sembrava, il mio piccolo amico si era dato da fare per reciderne il gambo ad arte. Non voleva rovinarlo, ne ero sicura, e accovacciandomi, tentai di indurlo ad avvicinarsi, ma lui non parve ascoltarmi. D’improvviso, come perso in un mondo tutto suo, lo scoiattolo fece saettare lo sguardo in più direzioni, annusando alternativamente l’aria e il terreno. Guardandolo, Christopher ed io non osavamo muoverci, lungi dal voler interrompere quel momento per lui tanto importante. Era ormai passato qualche tempo da allora, ma ricordavo di averlo visto giocare con una sua simile nel primo fortunato giorno di primavera, e ora, dopo quelle che al mio animaletto dovevano essere sembrate ore, eccola. Una femmina della sua specie, con il pelo grigio e una linea nera che le attraversava tutta la schiena. Alla sua vista, una piccola e solitaria lacrima mi scivolò sul viso, e colta dall’emozione, l’asciugai con il dorso della mano. Era strano a dirsi, forse addirittura folle, ma mi ero emozionata, e se l’avevo fatto esisteva una ragione precisa. Molti avrebbero detto il contrario, ma per me Bucky non era soltanto uno scoiattolo, un animale qualsiasi, o una qualunque palla di pelo affamata di noci, nocciole e quant’altro, ma un mio grande amico oltre che un dolcissimo alleato nella ricerca delle mie vere origini. Con il tempo, il nostro legame era diventato sempre più forte, e vederlo crescere fino a diventare adulto e trovare una compagna mi riempiva d’orgoglio. Ad essere sincera, non sapevo se avrebbe continuato a far parte della mia vita, ma ci speravo, e scambiandomi con Christopher una veloce occhiata d’intesa, abbandonai le mani nelle sue, e voltandomi quel tanto che bastava per guardarlo davvero negli occhi, azzardai nel baciarlo, sentendo il cuore battere come impazzito. Innamorato, lui mi lasciò fare, e assaporando ogni istante di quel contatto, lo sentii stringermi a sé. Al sicuro fra le sue braccia, non mossi un muscolo, e quando ci staccammo, senza più fiato in corpo, ci ritrovammo svuotati anche della nostra energia, ma non del nostro amore. Lentamente, il tempo aveva continuato a scorrere, e ormai il sole era scomparso, ma non avevamo ancora voglia di andare a casa. Afferrandogli il polso, lo convinsi a seguirmi verso il lago poco distante, e fatti pochi passi, ci sedemmo insieme, l’uno accanto all’altra. Di lì a poco, il silenzio ci avvolse di nuovo, e quando pensai di essere sola con lui, mi accorsi di un luccicante particolare nell’oscura lontananza. Rapidi e quasi accecanti, lampi di luce che avrebbero potuto unicamente appartenere ad un’altra fata, e che dopo un’attenta occhiata scoprii essere opera di Sky. In ginocchio sull’altra sponda, era in compagnia del suo Noah, e guardandolo, rideva. La guardavo ridere, ma non volendo disturbarla, non mi avvicinavo. Divertita, lei lo sfidava a colpi di magia, e felice come una bambina, si beffava di lui e della goffaggine che mostrava nell’evitare i suoi affatto pericolosi colpi. Sapevo bene che i poteri di ognuna di noi potevano anche esserlo, ma allo stesso tempo ero certa che non avrei mai potuto far del male a Christopher o a chiunque altro. La violenza non era mai stata nelle mie corde, e nonostante una sola volta avessi ferito la signora Vaughn, umana innocente, avevo giurato a me stessa che non l’avrei più fatto. Tornando metaforicamente indietro nel tempo, mia sorella e il suo ragazzo giocavano come bambini, e di tanto in tanto, Noah si arrendeva, lasciandola vincere e trovando nel consegnarsi a lei l’espediente perfetto per averla fra le braccia. Conoscendola, sapevo che era molto più impulsiva e intraprendente di me, ragion per cui non mi stupii affatto nel vederla osare e chiedere un bacio che ben presto divenne qualcosa di più. Abbracciati, si stringevano teneramente, fissandosi come ipnotizzati l’uno dall’altra. Decisa, lei lo sovrastava, rotolando con lui fra l’erba e facendo attenzione a non fargli mai del male, per poi accompagnare ogni movimento a risate e tenerezze di ogni genere. Felice per entrambi, fu distogliendo lo sguardo che diedi loro la calma e la segretezza di cui sentivo avessero bisogno. Quella sera, in altri termini, l’amore permeò l’aria, prendendo il posto di una nebbia di giorno in giorno più fitta e difficile da attraversare. Tranquilla, mi voltai verso l’acqua, e come incantata, mi fermai a fissarla. Uno specchio di pura calma, appena oltre l’immaginaria linea che univa il blu del cielo, ora nero, al blu dell’acqua. Per qualche strana ragione, quel solo pensiero mi infondeva una magnifica sensazione di calma, e allietata dalla presenza del mio Christopher al mio fianco, cercai di nuovo la sua mano, e sollevando quella libera, gli accarezzai il viso. “Credi che staranno bene, ora?” chiesi, preoccupata per i miei due piccoli amici. “Tranquilla. Lune ha la sua famiglia, e presto Bucky ne avrà una tutta sua. Sei stata fantastica con loro, Kaleia.” Disse in un sussurro innamorato, lasciandomi fare e stringendomi a sé. “Ti amo, mio custode.” Sussurrai di rimando, accoccolandomi al meglio fra le sue braccia e respirando lentamente, non tardando a sentire il cuore decelerare con ogni battito. “Anch’io ti amo. Ti amo e ti amerò per sempre, piccola mia.” Rispose soltanto, facendosi ancora più vicino e approfittando dell’abbraccio in cui eravamo stretti per deporre un casto e caldo bacio sulla mia fronte. Non muovendo un muscolo, allontanai ogni altro pensiero, e in breve, quel momento fu per me l’unica cosa a contare. Fermandomi a pensare, compresi per l’ennesima volta di potermi fidare di lui, l’unico ragazzo che avessi mai amato e a cui avessi mai donato il mio cuore, pronto a calmare le mie tempeste emotive offrendomi quella che chiamavo quiete d’animo e di notte.

 

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Capitolo 21
*** Una propria doppia vita ***


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Capitolo XXI

Una propria doppia vita

Dopo quel tramonto pieno di colori e dolcezza, era scesa la notte. Fredda e oscura, mi costringeva spesso a rifugiarmi sotto le coperte e attendere il sonno, ma completamente addormentata, ora non ci facevo caso. Le candide coperte del mio letto mi scaldavano la pelle, e mentre Christopher mi riposava accanto, restavo sdraiata a pochi centimetri da lui, tenendo le mani giunte come in preghiera. Tutt’altro che sveglia, ero ancora impegnata a sognare, e improvvisamente, la porta della stanza che ormai condividevamo cigolò sinistramente. Tradita dal mio sonno leggero, mi svegliai di soprassalto, aprendo di colpo gli occhi e scoprendo solo allora la verità. Una gatta. Soltanto una semplice gatta, o per meglio dire, la mia. Tornata a casa dal bosco, l’avevo tenuta in braccio e accarezzata fin quasi ad assopirmi, e al contrario di me, placidamente sdraiata su un morbido materasso, aveva dormito sul divano del salotto, e ora era venuta a svegliarmi. Per sua fortuna, il suo espediente aveva funzionato alla perfezione, ma come ogni metaforica e aurea medaglia che si rispetti, anche questa aveva un rovescio. Conoscendomi, sapevo di essere mattiniera, e il suo costante miagolio era stato un incentivo a rimettermi in piedi. Quieta e silenziosa, si arrampicò sul nostro letto con un balzo, poi mi sfiorò la guancia con una zampa. Per pura fortuna non usò gli artigli, e nel momento in cui i suoi scuri cuscinetti si scontrarono con il mio viso, sollevai una mano al solo scopo di scacciarla. “Buongiorno, Willow.” Sussurrai con dolcezza, drizzandomi a sedere e stiracchiandomi come l’avevo vista fare migliaia o forse milioni di volte. Sentendomi, anche Christopher finì per svegliarsi, e voltandosi verso la parte del letto che occupavo, si stupì di trovarla vuota. “Come stanno le mie due ragazze preferite?” commentò, con l’occhio stanco e la voce rovinata dalla sonnolenza. “Stiamo benissimo, amore mio. Ben svegliato, e scusaci.” Risposi, abbozzando uno dei miei soliti sorrisi e avvicinandomi per salutarlo a dovere. Nel farlo, mi sdraiai di nuovo, e quasi gelosa, la gatta iniziò a miagolare, evidentemente colpita dal mio comportamento nei confronti di Christopher. Stando ai miei ancora nitidi ricordi, era già successo con Bucky, e in quel preciso istante, l’intera scena mi si palesò di nuovo davanti agli occhi. Scuotendo la testa, mi concentrai sulla realtà che ora vivevo, e man mano che il tempo scorreva, notavo che Willow non sembrava avere alcuna intenzione di arrendersi. Testarda come e più d’un mulo continuava a miagolare cercando attenzione, ma pur guardandola, la ignorai, limitandomi a farle qualche frettolosa carezza sulla testa. Felice, la gatta diede inizio ad una vera e propria sinfonia di fusa, e quando finalmente lasciammo la stanza, lei ci seguì camminandoci accanto, così vicina da impedirci quasi di farlo. Fra un passo e l’altro, infatti, dovetti tenere basso lo sguardo per evitare di pestarle le zampe o la coda. Così, i pochi passi che in genere facevo per raggiungere la cucina diventarono una corsa ad ostacoli, ma in compagnia di coloro che amavo, la colazione fu più buona e dolce del solito. Non molto affamata, bevvi solo la mia solita tazza di latte caldo accompagnata da alcuni biscotti, mentre Willow mendicava per avere anche solo le mie briciole. Ignorandola, Christopher ed io ci concentrammo l’uno sull’altra, e solo allora, notai uno strano biglietto sul bancone. “Sono con Noah.” Diceva soltanto, interrompendosi dopo appena tre parole. Leggendolo attentamente, riconobbi la calligrafia di Sky, e voltandomi verso la porta di casa ancora chiusa, mossi un singolo passo in avanti. Intuendo il mio volere, Christopher mi prese la mano con la precisa intenzione di seguirmi, ma prima che potessimo muoverci, un ennesimo miagolio ci fermò mandando in fumo i nostri piani. Era Willow. Aveva fame, e a quanto sembrava, avrebbe continuato ad insistere fino a ricevere la sua colazione. Intenerita da quella scena, mi avvicinai alla sua ciotola, capendo all’istante il motivo del suo continuo crucciarsi. Ricordavo bene di avergliela riempita poco prima di dormire, ma ora era vuota. “Buon segno.” Pensai, sicura che i suoi problemi di salute e denutrizione stessero lentamente scomparendo. Senza una parola, mi abbassai per afferrare il sacco dei suoi croccantini, e nel sollevarlo, sentii e vidi la mano di Christopher sfiorare la mia. “Vuoi che ti aiuti?” chiese, premuroso come sempre. “Christopher, è soltanto una gatta, posso farcela.” Risposi, non voltandomi a guardarlo e riempiendo finalmente quell’ormai famosa ciotola. “Come vuoi tu, mia fata della natura.” Replicò lui con voce bassa e dolce al tempo stesso. “Tua, dici? Certo.” Commentai, sinceramente innamorata. Annuendo, lui mi accarezzò teneramente il viso, e in quel momento, una folata di vento ci distrasse entrambi. “Pare che qualcuno cerchi di dirci qualcosa.” Osservò Christopher, sicuro che Sky stesse di nuovo mettendo fra di noi. Non lo faceva con cattiveria, ovvio, e non dando alcun peso alla cosa, ci allontanammo solo per realizzare quel suo desiderio. Voleva vederci per un motivo che ancora non conoscevamo, e appena varcata la soglia di casa, ci ritrovammo nella foresta. Il nostro piccolo e verde angolo di paradiso, che aveva dato vita al nostro amore e a quello dei nostri due pelosi compagni. Confusa, mi guardai intorno, e non vedendo nulla oltre all’azzurro del cielo e al bianco delle nuvole che vi giocavano dentro beffandosi del sole, chiusi gli occhi. Anche se molti non l’avrebbero capito, faceva parte del mio addestramento al fianco di Christopher, e fu restando in silenzio che mi concentrai su una sola immagine nella mia mente. Ad essere sincera, non credevo di esserne capace, ma vidi il volto di mia sorella, poi una scia di polvere di fata. “Kaleia, che ti succede? Va tutto bene?” azzardò lui, notando l’evidente sforzo che profondevo nel cercare mia sorella. “Sì, scusa, mi stavo concentrando.” Risposi, tranquilla e sempre gentile nei suoi confronti. “Cos’è, hai avuto un’altra specie di visione? Come con… lo sai…” fu la sua domanda, veloce e piena di dubbi e preoccupazione. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire, e poco dopo, una sola frase abbandonò le mie labbra. “Era intenzionale, sono stata io. È così che mi oriento, più o meno da quando ho il tuo smeraldo.” Spiegai, sperando di soddisfare la sua curiosità e dissipare i suoi dubbi. Alle mie parole, Christopher liberò un sospiro di sollievo, e voltandomi, finalmente la vidi. Sky era di nuovo seduta sulla riva del lago, e come recitava il biglietto che mi aveva lasciato, poteva vantare la compagnia del suo Noah. Insieme, non facevano altro che tenersi per mano scrutando l’orizzonte, affidando di tanto in tanto qualche sasso all’acqua cristallina. Un’abitudine che Christopher ed io avevamo ormai perso, ma che mi ricordava una parte del nostro rapporto. Lo facevamo per pensare e combattere la solitudine quando la sua fuga ci aveva separati, e se per noi aveva uno scopo quasi meditativo, per loro si riduceva ad un divertimento. Lasciando loro lo spazio che meritavano, decisi di non interrompere il loro momento, ma per qualche strana ragione, con un sorriso malevolo in volto e una strana luce negli occhi, Christopher pareva di tutt’altro avviso. “La ripaghiamo con la stessa moneta?” mi sussurrò all’orecchio, stuzzicandomi mentre mi stringeva a sé. Lasciandolo fare, mi rilassai fra le sue braccia, e cambiando immediatamente idea, annuii con fare misterioso. Certo era che Sky avesse mosso l’aria in un semplice avvertimento ad abbandonare quelle che considerava inutili smancerie così che potessimo unirci a lei, ma nonostante questo, l’idea di Christopher sfiorava la mia fantasia. “D’accordo.” Sussurrai di rimando, prendendogli la mano e accarezzandola dolcemente. “Va avanti tu, allora.” Mi pregò, volendo sincerarsi che una mia prima mossa non mandasse in fumo i suoi piani. Senza dire una parola, mi scambiai con lui un’occhiata d’intesa, poi passai all’azione. Camminando lentamente, mi avvicinai al lago, e alzando lo sguardo, notai Midnight appollaiato in uno dei tanti nidi che si era costruito in giro per il bosco, e sollevando una mano, chiusi il pugno, concentrandomi sul prossimo passo da compiere. Piegandosi al mio volere, un ramo si spezzò finendo in terra, e sorpreso, il merlo fece appena in tempo a volar via. Non volevo fargli del male, solo dar vita ad uno scherzo innocente, che data la reazione di Sky e Noah, immediatamente distratti, parve funzionare perfettamente. “Kaleia! Ma cosa ti salta in mente? Midnight poteva farsi male!” protestò Sky a quella vista, indignata. “La stessa cosa che hai fatto tu, sorellona cara.” Le feci notare, mostrando di non gradire affatto la sua precedente interruzione del mio momento romantico. “A volte ti comporti come una bambina.” Replicò lei, ancora scottata e affatto divertita. “Non scaldarti, stavo scherzando, il tuo amico sta bene, vedi?” risposi di rimando, calma e unicamente in vena di divertimento come lei e il suo amato meri attimi prima. “Meno male, sai quanto ci tengo.” Continuò lei, evidentemente in pena per il suo amico piumato. Voltandomi a guardarlo, scoprii che non aveva un graffio, e che alla vista del suo nido ormai in pericolo, aveva cambiato obiettivo, scegliendo di inseguire giocosamente Ranger, il falco d Noah, in una sorta di innocua battaglia aerea. Superato lo shock iniziale, Sky riuscì finalmente a calmarsi, e battendo la mano su una chiazza d’erba accanto a sé, ci invitò a sederci. Stringendoci nelle spalle, accettammo, e ben presto, le fummo accanto. Chiamati in causa a loro volta, i due volatili alzarono bandiera bianca, e scendendo in picchiata, si posarono sulle spalle dei rispettivi padroni. Nel silenzio, sfiorai la mano del mio Christopher, poi lo sentii stringermela, e in quel momento, qualcosa, o meglio, qualcuno, entrò nel mio campo visivo. Incredibilmente, Bucky era tornato a farmi visita, e lui e la sua nuova compagna zampettavano insieme, tenendo le code incrociate. Ad essere sincera, li trovavo adorabili, e volgendo per un attimo lo sguardo verso Sky, potei giurare che mi stesse imitando. Difatti, ora anche lei cercava la mano del suo amato nel buio della sera appena scesa, e senza parole, guardava la sorta di esibizione a cui avevano dato inizio per noi. Un gioco degno di due cuccioli, e allo stesso tempo un misto di danza e lotta, che umani diversi da noi fate avrebbero potuto facilmente scambiare per una lite fra due animali rabbiosi. Nulla del genere, ma bensì il comportamento che in genere assumevano durante il loro periodo d’amore e accoppiamento, e un esempio a cui noi ora assistevamo. La loro corsa fra l’erba non ebbe mai fine, e continuò per il resto della notte anche quando ci allontanammo fino a rincasare, e di nuovo al sicuro nel mio letto, con un sorriso sulle labbra e dolcissimi baci nascosti nel buio e nella proverbiale morbidezza delle coperte, scivolai nel sonno sicura di una cosa. Christopher aveva ragione, presto Bucky avrebbe avuto una famiglia tutta sua. Ad essere sincera, negli ultimi tempi non facevo altro che pensare al mio futuro, ma ogni volta che il solo pensiero si annidava nella mia mente accadeva sempre qualcosa per cui i miei piani venissero sventati. Dal destino o dalla vita, non lo sapevo, ma con la sicurezza nella mente e nel cuore, ero anche certa di dover mettere da parte i desideri e imparare ad aspettare un momento più propizio, in quanto data la presenza di umani alquanto infidi, e da poco nuove voci nella mia testa, ogni essere magico, fate comprese, finiva sempre e al solo scopo di salvarsi a vivere una propria doppia vita.





Salve a voi, lettori carissimi. Pubblico di nuovo di sera, calma e piena d'ispirazione, dando con questo capitolo una prima avvisaglia di ciò che accadrà nel prossimo. In linea di massima è molto positivo e felice, ma ciò non vale per le ultime righe, ancora una volta preludio di una tempesta. Prima di andare, voglio ringraziare ognuno di voi per tutto il vostro supporto, ma specialmente "crazy lion" che ha saputo consigliarmi su come trattare il problema della piccola Lune, che finalmente sembra iniziare a migliorare, nonostante non riesca ancora ad esprimersi con la necessaria fiducia in sè stessa. Al prossimo capitolo, e grazie ancora a tutti,




Emmastory :)
 

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Capitolo 22
*** Oscure rimembranze ***


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Capitolo XXII

Oscure rimembranze

Calma e quieta come una bambina, dormivo ormai da ore, e come ogni notte, il buio mi avvolgeva. Secondo alcuni, l’oscurità poteva agire da scudo, da protezione contro i mali del mondo e della vita, ma non per me. Generalmente, riposavo senza alcun problema, ed era così anche oggi, fin quando un suono e una stranissima sensazione non mi hanno risvegliata dal torpore in cui mi ero lasciata cadere. Ad occhi ormai aperti, mi guardavo intorno senza una parola, ma con il respiro pesante e i pensieri sciolti come baldi destrieri liberi di correre nel vento. In netto contrasto con la fresca aria che spirava fuori dalla finestra, la mia pelle era bollente, avevo caldo, e sudavo. “Va tutto bene, Kaleia. Starai bene. Hai solo fatto un brutto sogno. Succede anche alle fate, giusto?” mi dissi, parlando con me stessa e tenendo una mano ferma sul cuore, per ascoltarne il battito ora impazzito. Tentando di calmarmi, bevvi dell’acqua dal bicchiere che tenevo sul comodino, e deglutendo quasi a vuoto, mi sdraiai di nuovo. Per pura fortuna, Christopher non mi aveva sentita, e contrariamente a me, nervosa e agitata come mai nella mia intera vita, era ancora preda del sonno più profondo. Intenerita da quella vista, gli accarezzai il viso con delicatezza, e ritirando la mano, la nascosi per un attimo sotto al suo cuscino. Svelta, mi concentrai per il tempo che bastava ad usare un incantesimo, e nello spazio di un momento, uno sprizzo di magia e polvere di fata si propagò fra le lenzuola, e a magia ultimata, fui felice di vederlo addormentato e con il sorriso  sulle labbra. “Riposa, amore mio.” Sussurrai, poco prima di alzarmi e lasciare la stanza, per poi ammirare la mia immagine riflessa nello specchio del salotto. Nel farlo, mi scostai una ciocca di capelli dal viso. Nel farlo, mi sembrò di scorgere un’altra figura, e scostandomi, fu allora che la vidi. Mia madre Eliza appisolata sul divano, con in braccio la gatta di casa. Insieme, dormivano tranquille, e prima di andare, ripetei quell’incantesimo. Sapevo di stare esagerando, che quello che stavo per fare poteva sembrare una pazzia, ma pur nel bel mezzo della notte, sentivo il quasi fisiologico bisogno di trovare un posto calmo e tranquillo dove provare a leggere il libro regalatomi da Christopher. Era stato quello il pensiero a tenermi sveglia, e nonostante desiderassi posare gli occhi su quelle pagine con tutta me stessa, era come se ogni fibra morale del mio corpo si rifiutasse. “Non aprirlo a meno che il tuo cuore non ti dica di farlo.” Mi aveva detto, volendo unicamente tentare di proteggermi e prepararmi al vero contenuto di quelle bianche e immacolate pagine. Così, restavo ferma e in piedi di fronte alla libreria, a pesare e ponderare la mia decisione. Era davvero il momento? Volevo davvero conoscere la realtà scritta e impressa nero su bianco? In quel momento, una parte di me sembrava non desiderare altro, ma un’altra, in completo disaccordo con la prima, mi portava ad esitare. Non sapevo cosa mi stesse accadendo, e impaurita, non sapevo cosa pensare. Ancora una volta, tremavo, e stavolta la colpa non era certo imputabile al vento fuori dalla finestra. Lento, il tempo passava, e allontanandomi, presi l’unica decisione che reputavo logica. Scuotendo la testa, diedi le spalle a quel ligneo ripiano, e piena di vergogna, uscii di casa. Una volta fuori, non seppi davvero cosa pensare, e sedendomi ai piedi di una grossa quercia, piansi. Calde lacrime mi solcarono il volto, e decisamente troppo triste per farlo, non potei evitare che fuggissero dai miei occhi, mentre la tristezza più profondo sembrava impossessarsi lentamente di me. Con uno sforzo immane, lottai per restare me stessa ed evitare di perdere il controllo, ma per mia sfortuna, senza risultati. Fallendo nel mio intento, mi strinsi le ginocchia al petto come una bambina, e fra una lacrima e l’altra, lasciai che il vento sferzasse il mio povero corpo. Quelli che ricevevo sembravano veri colpi di frusta, e pur provata dal freddo, non volli muovermi. Il dolore era entrata a far parte della mia anima, e non riuscendo a scacciarla, soffrivo. Muta e immobile sotto quel grande albero, con la mente funestata da mille pensieri. “Perché? Perché a me? Perché non a qualunque altra fata?” Queste le domande che quella notte mi ponevo senza sosta. Sin da piccola, mi era stato insegnato che seguire il cuore era la scelta più giusta che una qualunque persona potesse mai compiere, eppure ora mi lasciavo prendere dallo sconforto. Amavo Christopher, ed era vero, ma odiavo il modo in cui pensare alla profondità del nostro rapporto mi facesse sentire. Felice e in cima al mondo, certo, ma allo stesso tempo tristissima e con il morale metri e metri sotto terra, nelle vere viscere della superficie. Andando alla ricerca di conforto, guardai in alto, non vedendo altro che le stelle e la luna, padrone del cielo in quella notte senza nuvole. Sconsolata, tornai a guardare in basso, e provando ad usare le dita per muovere qualche piccolo filo d’erba come me provato dal gelo, scoprii di non riuscirci. Quasi istintivamente, mi sfiorai il petto, e solo allora, un ricordo si fece spazio nella mia mente. Poco prima di dormire, avevo lasciato il mio ciondolo in uno dei cassetti del comò accanto al mio letto, e ora me ne pentivo. Oltre che avere l’aspetto di un gioiello, vantava anche la capacità di stabilizzare i miei poteri, offrendomi la possibilità di farne un uso ragionato e privo di sforzi. La spiegazione era semplice. Non lo avevo al collo, e facevo fatica con incantesimi e magia. Avevo usato quella che mi restava su due delle persone che più amavo, ma ora, sola e infreddolita, sentivo di star per perdere le forze. Disorientata e confusa, pregai di non svenire sull’erba pregna di rugiada, e con la mano libera, disegnai molteplici croci sul mio polso. Reagendo al mio stesso tocco, la pelle intorno al mio segno si scaldò brillando, e nello spazio di un momento, sentii ciò che non avrei mai più voluto udire neanche nel peggiore degli incubi. Le voci. Di nuovo quelle stesse e orribili voci che ero sicura di aver scacciato avevano continuato a seguirmi, e ora erano tornate a tormentarmi. Inizialmente non sentii altro che bisbigli confusi, poi, poco dopo, piccole frasi e distinte parole. “Kaleia… scappa. Se vuoi vivere, scappa. Non appartieni a lui, torna indietro.” Un monito diverso dai precedenti, che giungendo alle mie orecchie come una cupa novità, mi gelò il sangue nelle vene. “No.” Ripetevo a bassa voce, frustrata. “Non voglio ascoltare.” Mi dicevo stringendo i pugni e trovando improvvisamente faticoso respirare. Stoica, provavo a tenere duro e a resistere, ma nonostante tutto, ogni mio tentativo si rivelava vano. “Arrenditi.” Sussurrava quella voce, tentandomi come un venefico serpente in una storia che avevo sentito provenisse dal villaggio degli umani. Riducendomi al silenzio, lo sentii rompersi sotto l’insistente suono dei miei singhiozzi, che uno dopo l’altro mi scuotevano il petto, lacerandomi il cuore e l’anima. Avevo i nervi a fior di pelle, e lo sapevo, ma a quanto sembrava, provare a resistere era inutile oltre che impossibile. Di minuto in minuto, ero sempre più nervosa, e come se non bastasse, un estraneo corvo restava a guardarmi stando appollaiato su un ramo, facendo brillare sinistramente al buio gli occhi rossi come sangue. “No! Lasciatemi sola, subito!” gridai, incapace di trattenermi e decisamente stanca di subire quell’incessante tortura. Spossata, continuai a piangere stringendomi nella leggera veste che indossavo, e quasi rispondendo al mio comando, le voci cessarono. Chiudendo gli occhi, cercai di calmarmi, e quando finalmente ci riuscii e tornai in casa, non riuscii a dormire al fianco di Christopher. Pur non volendo, mi costrinsi a dargli le spalle, scoppiando di nuovo in un silenzioso pianto di dolore e lacrime dettate da oscure rimembranze.  

 

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Capitolo 23
*** Aiuto di mani esperte ***


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Capitolo XXIII

Aiuto di mani esperte

E così, avevo passato la notte a piangere. Nascosta come un piccolo bruco nella sua buia crisalide prima della sua trasformazione in una magnifica farfalla, con la ferma intenzione di restare nascosta da chiunque, perfino da Christopher. Il mio fidanzato, il ragazzo, che amavo, il mio protettore, l’unico di cui riuscissi a fidarmi. Ancora a letto, non avevo alcuna voglia di alzarmi, e quando voltandomi scoprii vuota la parte in cui dormiva, sussultai. Un improvviso nodo alla gola mi impedì di respirare, e nascondendo la mano sotto al cuscino, la giunsi all’altra, pregando con tutto il cuore che nulla di tutto ciò che vivevo fosse vero. Non sapeva che ero scappata, e grazie alla mia magia aveva dormito serenamente per tutto il tempo, ma ora che si era svegliato, non potevo più nascondermi. Provarci non avrebbe avuto alcun senso, poiché preoccupandosi mi avrebbe certamente ritrovata, e non sarei tornata nei boschi solo per fuggire da una realtà che presto o tardi avrei dovuto affrontare. Avrei potuto farlo, ma sarei passata per vigliacca, e la vigliaccheria, proprio come la violenza, non era mai entrata a far parte del mio animo. Ad ogni modo, il tempo scorreva, e con il morale ancora a terra, restavo ferma a fissare il soffitto. Bianco e spoglio, come la mia mente in quel momento. Ero di nuovo sola e piena di dubbi, con il dolore e i ricordi della notte appena trascorsa a lacerarmi la mente e le membra. Mille domande confondevano i miei pensieri, ed io non sapevo cosa fare. Abbandonandomi ad un secondo sospiro, mi rigirai nel letto fino a fermarmi ad osservare il panorama visibile appena fuori dalla mia finestra, e in quel momento, anche il sole sembrava prendersi gioco di me. Fuori c’era bel tempo, splendeva come ogni mattina, e avrei dovuto esserne felice, ma ero letteralmente troppo triste per gioire della potenza del re del cielo e della prosperità del suo regno. Scuotendo la testa, mi decisi, e finalmente fuori dalla stanza, attraversai il corridoio con passo lento e felpato, sentendomi una vera estranea in casa mia. Fra un passo e l’altro, speravo di non fare troppo rumore, ma il miagolio di Willow tradì le mie speranze. Notandomi, mi venne incontro, e strusciandosi contro le mie gambe, quasi mi impedì di muovermi. Senza dire nulla, la ignorai, e raggiunta la cucina, trasalii. Christopher era già lì, e seduto in silenzio, non faceva che guardarmi. Seppur debole, un suo sorriso mi permise di ritornare alla calma, ma nonostante tutto, sfuggii dal suo sguardo, ben sapendo che non avrebbe potuto inseguirmi. “Qualcosa non va?” chiese, visibilmente preoccupato. Mantenendo il silenzio, non risposi, ma rialzando lo sguardo per incontrare il suo, sperai di ritrovare il coraggio che ora mi mancava. Sapevo bene di potergli parlare di qualunque cosa, ma avevo paura, e spaventata come una povera bestiola conscia del suo destino di preda, mi morsi un labbro, pensosa. “Kaleia…” mi chiamò poi, incalzandomi teneramente e attendendo che parlassi. “Christopher… io… noi…” balbettai, impaurita e sicura di risultare penosa ai suoi occhi. In attesa, lui non disse nulla, e con il corpo scosso da tremiti sempre più evidenti, strinsi i pugni. Quello che mi era successo nella notte era stato orribile, e in qualità di mio protettore, doveva saperlo. “Noi dobbiamo parlare.” Finii poco dopo, improvvisamente più decisa. “Ti ascolto.” Rispose lui, continuando a guardarmi dal lato opposto del tavolo dove sedeva. A quelle parole, tutto tacque. Ogni certezza scomparve dalla mia mente, e con questa, anche ogni speranza che ancora conservavo di aprirmi con lui. Cadendo preda delle mie emozioni, sentii una singola lacrima rigarmi il volto, e con la voce spezzata dal pianto, tentai. “Vedi, l’altra sera sono… sono scappata. Avevo troppi dubbi e troppi pensieri, credevo che stare da sola mi avrebbe aiutata, ma poi sono arrivate le voci, e… e allora…” spiegai, faticando a respirare e ad esprimermi correttamente nel ricordare il tremendo malessere fisico che ero in qualche modo stata costretta a subire. Alzandosi in piedi, Christopher mosse un passo verso di me, e imitandolo, gli fui subito accanto. “Amore, mi dispiace tantissimo. Non volevo, e non avevo idea che le avrei sentite di nuovo.” Piagnucolai, lasciandomi accogliere fra le sue braccia e tirando su col naso, mentre il respiro mi si spezzava in gola. “Kaleia, tesoro, calmati. Calmati e raccontami tutto dall’inizio, va bene? Non sono arrabbiato, avanti.” Rispose lui, stringendomi a sé e accarezzandomi la schiena e i capelli con tutto l’amore di cui era capace. “Va bene.” Gli feci eco io, crogiolandomi nel calore di quel contatto e staccandomi solo per indicargli il divano. Annuendo, decise di sedersi al mio fianco, e finalmente più calma, con la mano nella sua, capii di essere davvero al sicuro. “Ascolta, so di non avertelo mai detto, ma ricordi lo screzio che ho avuto con Midnight? È stata quella la sera in cui mi hanno raggiunta.” Esordii, guardandolo negli occhi e stringendogli la mano con rinnovata fiducia. Ascoltando ogni mia parola senza interrompere, Christopher si limitò ad annuire, e anche se per uno sporadico attimo, sorrisi nel sentirlo accarezzarmi la mano. “Non so da cosa dipendano, né da dove arrivino, so solo che… che vogliono qualcosa da me. Sono insistenti, e vorrei solo che tacessero.” Continuai, decisamente stanca di essere vittima di quella vera e propria trappola mentale. “Aspetta, cosa ti dicono esattamente?” chiese a quel punto Christopher, nutrendo sincero interesse per ciò che finalmente avevo trovato la forza di rivelare. Colta alla sprovvista dalla sua domanda, mi presi del tempo per rispondere, e scuotendo ancora il capo per scacciare i brutti pensieri, mi preparai al peggio. “Di scappare, allontanarmi, e non dal bosco, ma…” confessai, balbettando ancora e ritrovandomi in una posizione di puro stallo. “Da me?” azzardò lui, incerto e dubbioso. In cuor suo Christopher non era sicuro di niente, ma in quel preciso istante, le sue parole ebbero il potere di scioccarmi. Come aveva fatto a leggermi nel pensiero? Il nostro rapporto era davvero così solido da permettergli di farlo? Non lo sapevo, e senza altri pensieri in testa, diedi voce ad un’ovvia domanda. “Chi te l’ha detto?” chiesi, perdendo improvvisamente la calma e ringhiandogli contro. “Gli anni che ho passato a prepararmi per tutto questo, fatina mia. Su, adesso rilassati. Sei con me, e andrà tutto bene.” Mi rispose lui, vantando una calma che potei unicamente definire mostruosa. Sentendomi improvvisamente in colpa,  ripresi a tremare guardandolo negli occhi, e volendo solo continuare a confortarmi, Christopher annullò la distanza che esisteva fra di noi con un solo movimento del polso. Fu quindi questione di attimi, e ritrovandomi di nuovo fra le sue braccia, rilassai ogni muscolo del corpo, sentendo il battito cardiaco decelerare lentamente. Ad occhi chiusi, respirai profondamente, e abbandonando le mie mani nelle sue, concentrai in quell’unico bacio tutta la passione e l’amore che sentivo di aver represso fino a quel momento. Felice e orgoglioso di me, Christopher mi lasciò fare, stringendomi a sé e baciandomi fino a non avere più fiato in corpo. Soddisfatti, ci staccammo per avere tempo e modo di respirare, ma insieme, in un momento nostro e un quieto mattino di luce dorata, guardammo la metaforica strada dei nostri reciproci progressi scivolare via alle nostre spalle, e tranquilla, imparai una nuova lezione che presto identificai come verità. Fidarmi di chi mi amava era la cosa più importante, e lo stesso valeva se si trattava di contare sull’aiuto di mani esperte.

 

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Capitolo 24
*** Da fata a strega ***


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Capitolo XXIV

Da fata a strega

Il giorno continuava, il mattino splendeva ancora, e io e Christopher non ci eravamo mossi di un millimetro. Ancora l’uno fra le braccia dell’altra, ci lasciavamo allietare dalla nostra reciproca presenza e dal battito dei nostri cuori e uniti nell’unisono del nostro silenzio. Avevo gli occhi chiusi, ma non dormivo, respirando appena nel sentire le dita del mio amato fra i miei capelli. Un’abitudine che aveva preso nel coccolarmi, e che sin da quel fortunato giorno, non aveva mai abbandonato. I minuti scorrevano lenti, e per una volta, nient’altro importava. Eravamo insieme, ero felice, e sentivo che nulla avrebbe mai potuto rovinare quel momento. Esageravo nel dirlo, e lo sapevo bene, ma essendomi consultata anni prima con le fate più anziane ed esperte, avevo sentito dire che il un rapporto di complicità fra una fata e un protettore era quanto di più puro e magico potesse esistere. Il nero libro che avevo letto più volte affermava il contrario, e la legge magica non mentiva, ma dopo tutto quello che Christopher ed io avevamo passato e stavamo ancora passando, rimanevo lì seduta a respirare e non pensare a niente, dimenticando come mi era stato detto il disordine della mia vita di creatura magica. Perfino il vento che soffiava fuori aveva ora taciuto, calmandosi e riducendosi ad una dolce brezza primaverile, che come una devota madre accarezza le tenere guance dei suoi figli prima di condurli nel sonno. Il solo suono del mio respiro spezzava la quiete, e di tanto in tanto, anche l’affatto estraneo rumore provocato dalle fusa della gatta. Sdraiata sul tappeto del salotto, teneva le zampe sotto al corpo, e come me, gli occhi chiusi. L’avevo vista addormentarsi poco prima di estraniarmi come stavo facendo, e quella sorta di rombo basso e soffocato poteva significare soltanto una cosa. Aveva mangiato da poco, e ora, serafica e satolla, riposava. Per quanto ne sapevo, era nata e cresciuta fra gli umani e abituata a vivere fra le mura di una casa, ragion per cui potevo solo immaginare quanto desiderasse uscirne anche solo per sgranchirsi le zampe o dare la caccia a topi e roditori. La presenza in casa di un numero imprecisato di giocattoli l’aiutava, e lentamente, la sua condizione fisica migliorava. Finalmente ora non era più scheletrica, e accarezzarla non era più un azzardo compiuto nella speranza di non farle male. “Chris…” sussurrai, aprendo gli occhi e voltandomi per sfiorargli le labbra. “Sì, piccola?” rispose lui, emulando il mio tono di voce e stiracchiandosi come un grasso e pigro felino appena sveglio. “Devo proprio? Dobbiamo proprio uscire ad allenarci?” chiesi, in una quieta cantilena unicamente adatta ad una bambina. “Non se non vuoi, e oggi avremo ospiti, contenta?” mi disse, sedendosi più comodamente sul divano e coprendosi la bocca per reprimere uno sbadiglio. “Ospiti? Di che parli? Non aspettiamo nessuno.” Replicai stancamente, ancora intontita dal sonno in cui mi ero sentita tremendamente vicina a cadere. “Kaleia, devi riposare. Non è saggio continuare ad usare i tuoi poteri in questo stato. Sei troppo debole dopo quello che le voci ti hanno fatto, quindi ho chiesto aiuto. Marisa dovrebbe essere qui a momenti.” Continuò allora Christopher, facendosi improvvisamente serio e con il viso privo di qualunque segno di stanchezza. “ A quelle parole, sgranai gli occhi, e non potendo evitare di strofinarli per l’incredulità, mi fermai a guardarlo, stupita. “Christopher, amore mio… hai davvero fatto questo per me?” azzardai, ancora incapace di credergli e sospesa a metà fra il sogno e il reale. “Certo, tutto per la mia amatissima fata.” Rispose soltanto, per poi sorridere e avvicinarsi per abbracciarmi. Senza parole, lo lasciai fare, e fu abbandonandomi fra le sue braccia che fui sicura di una cosa. Con quel gesto, aveva voluto sincerarsi del mio benessere per l’ennesima volta, e immensamente grata, non resistetti alla tentazione di baciarlo. Lo amavo, sentivo di amarlo con tutto il cuore, e al suo fianco, perfino le leggi che regolavano l’intero mondo magico perdevano di senso. Era il mio protettore, come tale mirava a farmi sentire al sicuro, e stando alle silenziose reazioni del mio corpo e del mio cuore, sembrava davvero esserci riuscito. Ad essere sincera, anche dopo un intero anno non sapevo con certezza di cosa mi avesse attratta a lui. Conoscendomi, sapevo bene di non essere solita fermarmi al semplice aspetto fisico di qualunque persona, ma quando si trattava del mio Christopher, i casi erano molteplici. Forse erano stati quei biondissimi capelli color del grano, forse quelle splendenti iridi color speranza, o forse la costante aura da paladino indomito che il suo intero corpo sembrava emanare, ma più il tempo passava, e più ne ero convinta. Il mio amore per lui era reale e potente quanto la mia magia e quella di ognuna di noi, e nessun altro essere al di sopra di me o noi avrebbe mai potuto spegnere quel fuoco primordiale e tanto ardente. Così, una nuova luce negli occhi e una neonata speranza nel cuore, ora attendevo. Conoscevo Marisa, e a volte mi fermavo a pensare proprio a lei, concludendo che nonostante il suo legame di sangue e parentela con una strega che avevo finito prima per odiare e ora per sopportare quasi a stento, lei avesse un cuore puro e diverso da quello della madre, nero come la copertina dell’oscuro tomo che da tempo non toccavo. Alzandomi dal divano, raggiunsi la mia stanza al solo scopo di vedere ancora una volta le benefiche viole della mia amichetta Lucy, una pixie di soli sette anni che tramite quel regalo mi aveva dato modo di comprendere il vero valore della bontà e dell’amicizia. In piedi accanto alla porta, mi fermai a osservare i fiori in quel vitreo vaso, e nello spazio di un momento, mille ricordi mi affollarono la mente. Li aveva colti con l’intenzione di farmi un regalo, e ad essere sincera, ricordavo ancora la dolcissima espressione di pura felicità dipinta sul suo visetto. “Perché me li hai presi?” le avevo chiesto, sorpresa e incuriosita. “Perché i fiori sono un simbolo di amicizia, e tu sei mia amica.” Mi aveva risposto, parlando con tutta la sincerità di cui era capace e avvicinando il suo corpicino al mio per un abbraccio che non le negai. “Ti voglio bene, sai?” aveva aggiunto, non dimenticandosi di esternare quella verità così semplice eppure pregna di significato. Lenta, una lacrima fuggì dai miei occhi per scivolarmi sul viso, ed io non la fermai, ma lasciandola libera, accarezzai i petali di quelle viole, sussurrando nel parlare con me stessa. “Staremo bene, Lucy. Io, tu e Lune staremo bene un giorno, te lo prometto, piccola pixie.” Dissi, tenendo bassa la voce e rivolgendomi prima al fiore e poi alla finestra, nella speranza che le mie giovani amiche potessero sentirmi. Non ne ero sicura, e forse sarebbe accaduto o forse no, ma nel frattempo, speravo. Tornando in salotto, sentii bussare alla porta, e precedendomi, Christopher andò ad aprirla. Come aveva detto, Marisa era venuta a trovarci, e a giudicare dal luminoso sorriso che aveva dipinto in volto, doveva essere felice di vederci, ma guardandola meglio potei giurare che fosse letteralmente entusiasta di vedermi ancora viva e in piedi. Ne avevo passate tante, ed era vero, ma ciò non significava che avrei dovuto arrendermi. Non subito, non dopo tutta la strada che avevo percorso. Alla sua sola vista, mi avvicinai per salutarla, e ben presto, ci ritrovammo unite in un delicato abbraccio. Amichevole, e grondante dei valori a dir poco sacri e simbolici. Felici, ci stringemmo l’una all’altra con calore, e prendendo posto con lei sul divano di casa, ebbi la gioia e la fortuna di vedere Willow andarle incontro miagolando, evidentemente contenta di rivedere la sua padrona. Accarezzandola per qualche attimo, Marisa la tenne in braccio, e posandola poi a terra, tornò a concentrarsi su di me. “Forse lo sai, ma è stato Christopher a chiamarmi, proprio perché ti aiutassi, te la senti?” mi chiese, guardandomi negli occhi e tacendo nell’attesa di una mia risposta. Inizialmente, questa parve non arrivare, ma poco dopo mi decisi ad annuire, e agendo d’istinto, lei mi prese le mani, chiudendo gli occhi come aveva imparato da sua madre. Imitandola per un solo attimo, respirai a fondo nel tentativo di calmarmi, e al calar della notte, mi preparai a fare ciò che avevo già fatto, ovvero raccontare la verità passandola quella volta da fata a strega.

 

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Capitolo 25
*** Fallimento ***


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Capitolo XXV

Fallimento

La notte era ormai scesa, ma per fortuna non ero da sola. Dopo quello che mi era successo nei boschi, Christopher era rimasto al mio fianco per aiutarmi, offrendomi tutto il supporto possibile. Scappando avevo agito da codarda, lo sapevo bene, e di nuovo a casa, non avevo più ragione di pensarci. Inizialmente credevo che Christopher si sarebbe arrabbiato, e che ancora una volta ci saremmo allontanati, ma a quanto sembrava una stella aveva deciso di sorridere, e ancora insieme, cercavamo una soluzione al mio problema. Stanchissima, avevo quasi finito per addormentarmi fra le sue braccia, e con l’arrivo in casa di Marisa, era sicuro che non avessi più nulla da temere. In quanto figlia della vecchia strega, aveva appreso da lei tutto ciò che c’era da apprendere, rubandole quindi il mestiere con gli occhi. Ora eravamo entrambe sedute sul divano, e ad occhi chiusi attendevo. Erano trascorsi appena pochi minuti, eppure iniziavo già ad avvertire le prime differenze. Aveva le mani calde e non fredde come quelle di sua madre, restava in perfetto e religioso silenzio, e soprattutto non aveva la minima intenzione di rovinarmi la pelle incidendola com’era già successo con la donna che le aveva donato la vita. Era stato un espediente efficace, aveva funzionato ed era vero, ma nonostante fosse benefico, il dolore tendeva a diventare insopportabile, proprio come in quella notte, quando sola e fuori casa, piangevo e soffrivo cercando di scacciare quelle voci. Non muovendo un muscolo, non osavo interrompere quello che per Marisa era un rituale, e appena fuori dalla finestra, il vento sibilava. Occupata a riposare, Sky non aveva nulla a che fare con il freddo che sentivamo, e più il tempo scorreva, più avevo paura. Avevo già visto la signora Vaughn prendermi le mani e dare inizio ad un sortilegio simile, ma nonostante tutto, ora non sapevo cosa aspettarmi. Ad ogni modo, non mi scomposi, arrivando però quasi a sobbalzare quando la voce della mia amica raggiunse le mie orecchie. “Va bene, Kaleia, adesso devi solo concentrarti. Sono con te, andrà tutto bene.” Mi disse, invitandomi a mantenere una calma che non spezzavo e che un qualsiasi estraneo avrebbe potuto definire mostruosa. “Lui è ancora qui, vero?” chiesi, riferendomi a Christopher. Scivolando nel mutismo, attesi la sua risposta, e senza volerlo, raggelai iniziando a tremare. Non sapevo con certezza cosa mi stesse succedendo, ma ero mortalmente sicura che il vento che spirava fuori dalla finestra non fosse la causa dei miei tremori. Uno dopo l’altro, lunghi minuti si susseguirono, e come persa in un mondo tutto suo, che scoprii essere un mondo di magie e poteri a me sconosciuti, Marisa stringeva saltuariamente gli occhi e le labbra, andando alla ricerca di risposte che solo la magia e gli incantesimi appresi avrebbero potuto darle. Di lì a poco, nell’intera stanza cadde il silenzio, e la sola voce di Christopher lo ruppe come vetro. “Sono qui, tesoro, non preoccuparti.” Disse soltanto, osando nell’avvicinarsi sfiorandomi la spalla. “No, non ora. Così mi deconcentri, e non funzionerà.” Gli rispose Marisa, ancora completamente concentrata su quello che stava facendo. Indietreggiando, Christopher non disse una parola, e appena un attimo dopo, la mia amica mi lasciò le mani, ma a giudicare dalla mesta espressione dipinta sul suo volto, reso ancora più pallido dalla debole luce della luna, i risultati di quella sorta di test non potevano certo essere buoni. “Cos’hai scoperto?” azzardai, incerta e ansiosa. Sulle prime, lei non rispose, e abbassando lo sguardo, evitò accuratamente di guardarmi. In altre parole, sfuggiva dai miei sguardi, ben sapendo che non potevano inseguirla. “Non molto, purtroppo. Tutto quello che vedevo era troppo sfocato, ma non ho potuto fare di meglio, perdonatemi.” Questa fu la sua risposta, che in quel momento di solenne e vitale importanza, arrivò senza farsi attendere, colpendo con durezza, come un pugno nello stomaco. Non sapendo cosa dire, mi ridussi ancora al silenzio, e stringendomi al mio amato, non potei evitare di piangere fra le sue braccia. Non proferivo parola, ma in realtà soffrivo, sia per lui che per me stessa. Si era preoccupato, mi aveva supportato dandomi come sempre tutto l’amore possibile, organizzando perfino l’intervento di Marisa, ma sfortunatamente questo non aveva prodotto risultati. Ero attonita, ferita e delusa, certo, ma non me la sentivo di incolpare la mia amica. In fin dei conti aveva fatto del suo meglio, e fu abbracciandola e ringraziandola sentitamente che la lasciai andare, restando a guardare mentre la sua nera ombra si allontanava nella notte. “Mi dispiace.” Sembrò voler dire, poco prima di andarsene e non sentire dietro di sé altro che lo scatto di una porta prossima al chiudersi. Distrutta dalla tristezza, mi trascinai nella mia stanza, e scivolando in fretta nella dolce incoscienza, dormii. Mi svegliai soltanto la mattina dopo, ancora triste e sconsolata. “Amore…” sussurrò Christopher al mio indirizzo, mesto quanto e forse più di me. “Sì?” dissi appena, senza alcuna voglia di parlare o abbandonarmi al suo ormai solito romanticismo. Non che mi infastidisse, anzi il contrario, ma dopo quanto era accaduto, non ero affatto in vena di dolcezza. Avrei voluto solo riposare addormentandomi ancora, ma il sole del mattino non faceva che impedirmelo. “Cosa c’è? Stai poco bene?” chiese allora lui, togliendo una mano da sotto le coperte e  posandomela con dolcezza sulla fronte. “No, tesoro, non è questo, è che…” biascicai, con il cuore stretto in una morsa e l’animo sospeso a metà fra la tristezza e la vergogna. “Che?” continuò lui, mostrando una lieve insistenza nell’incalzarmi. “Non lo so. Credevo che l’aiuto di Marisa sarebbe bastato. In fondo è una strega, e tu ne eri così convinto, quindi…” balbettai lentamente, non avendo desiderio dissimile dal piangere. “Su, ora calmati. Mi sono sbagliato, ma non è una tragedia.” Rispose lui, sorridendo debolmente e accarezzandomi il viso. Allietata da quelle carezze, lo lasciai fare tenendogli la mano, e respirando a fondo, cercai di calmarmi. La mestizia aveva ormai il pieno controllo su di me e nonostante fossi convinta che nulla al mondo avesse il potere di acquietarmi, non volevo demordere né perdere la speranza. “Ne sei proprio sicuro?” chiesi a quel punto, completamente sfiduciata. “Kaleia, per favore, sorridimi. Non ti accadrà nulla, e lo sai. Sei la mia ragazza, la fata che amo, e sarà così finchè i nostri cuori batteranno. Hai fiducia, vero?” fu la sua unica risposta, sincera e piena dell’amore che sapevo provasse nei miei confronti. Silenziosa, provai a guardarmi dal reagire troppo freddamente, ma le mie confuse emozioni ebbero la meglio su di me, e nulla potè prepararlo al pietoso spettacolo che seguì quei momenti. “Christopher, anch’io ti amo, e voglio crederti, ma questa situazione è assurda. Non capisco cosa sta succedendo, e non riesco più a vivere così! Il nostro è amore, ma per quale ragione non può esistere? Non ha alcun senso!” gridai fra le lacrime, non riuscendo più a trattenermi e dando voce all’unica risposta che avevo sempre taciuto e covavo nel cuore da tempo. Colpito dalla mia reazione, Christopher rimase a guardarmi, e non appena provò ad avvicinarsi ancora e stringermi, io mi divincolai dalla sua presa, che per qualche strana ragione mi provocava dolore e non più conforto, e stanca di subire, lasciai la stanza, rintanandomi in salotto e chiudendo ogni porta e finestra, nella forse vana speranza di trovare in una buia e nera coltre un vero e proprio riparo da me stessa, dai capricci del mio cuore parzialmente umano e da quella relazione che solo ora capivo essere stata un fallimento.

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Capitolo 26
*** Fiducia materna ***


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Capitolo XXVI

Fiducia materna

Scorrendo lente, lunghe ore se n’erano andate, sparendo dalla mia vita e lasciandomi assistere alla quieta marcia del tempo stesso. Sdraiata sul divano, mi sentivo stanca, ma fermandomi a pensare, mi voltai, volgendo il mio sguardo ormai privo di luce alla finestra, non più aperta com’era appena minuti prima. Mi costava ammetterlo, ma ero stata io a chiuderla. Dopo quello che era successo con Marisa, avevo capito di aver dato forse troppa importanza alle mie stesse speranze, finendo per perderle tutte in un colpo solo, come un avido e imprudente giocatore d’azzardo con tutti i suoi averi. Lontana da Christopher, ero rimasta sola, e ora che il buio mi avvolgeva, iniziavo a sentirmi sempre più triste, debole e sfiancata. Il buio mi avvolgeva, e sbattendo le ali, mi accorsi che perfino la polvere magica di cui disponevo stava lentamente abbandonando il mio corpo. Con uno sforzo che mi parve immane, riuscii ad alzarmi, e muovendo qualche incerto passo in avanti, protesi una mano in avanti nel tentativo di richiamare a me le esigue forze che mi restavano, e mettendo un piede in fallo, quasi caddi. Per pura fortuna, il davanzale riuscì a sostenermi, e rimettendomi in piedi a fatica, mi lasciai investire dallo splendere dei pallidi raggi lunari. Ad occhi chiusi, respirai a fondo, e riaprendoli, la vidi. Una stella. Mostrando tanto coraggio quanta luce, sembrava averne di propria, e con il suo candore, mi rimise in forze. “Che stai facendo?” pensai, redarguendomi da sola per il mio gesto. Era strano a dirsi, ma pur sapendo di sbagliare, sentivo comunque di star facendo la cosa giusta. Troppo triste e sconsolata per pensare lucidamente, non riuscivo a fare altro, e così, restando ferma di fronte al vetro della finestra, respirai ancora. Poco dopo, una voce mi distrasse. “Kaleia?” mi chiamò, flebile come il sussurro di un bianco fantasma. “S-Sì?” ebbi a malapena la forza di biascicare, provata dal freddo e dalla paura. “Sono io, non mi riconosci?” chiese quella voce, scivolando poi nel silenzio e facendomi piombare nel terrore. “Chi… Chi sei?” azzardai, spaventata. Senza degnarmi di una risposta, la figura avanzò nel buio, e in breve, mi ritrovai stretta in un abbraccio. In quel momento, un temporale illuminò a giorno la stanza, e fu allora che la vidi. Eliza. La mia cara madre adottiva, la donna che mi aveva preso con sé e cresciuto, ora mi aveva raggiunta al solo scopo di confortarmi. Doveva aver ascoltato il mio pianto e il mio litigio con Christopher, agendo solo secondo il suo istinto. Lasciandomi stringere, tremai come una povera bestiola impaurita, e nello spazio di un momento, sentii gli occhi bruciare a causa di alcune lacrime che volevano solo uscirne. “Puoi stare tranquilla. Adesso ci sono io, andrà tutto bene.” Sussurrò dolcemente, con il buio che intanto era tornato ad inghiottirci entrambe. “Non è vero.” Piagnucolai in risposta, sfogandomi fra le sue braccia e tirando su col naso. “Non è vero. In tutto questo non c’è niente di vero, e neanche di giusto.” Dissi poi, ferita e arrabbiata. Mantenendo il silenzio, mia madre rimase ad ascoltarmi, e fra una carezza sulla schiena e l’altra, continuava a sussurrare e stringermi a sé, tutto al solo scopo di calmarmi. “Mia piccola pixie…” biascicò ad un tratto, sorprendendomi. Erano ormai passati anni da quel fortunatissimo giorno, ma nonostante tutto, mi considerava ancora la sua bambina, la sua dolce e piccola pixie. In quanto adulta, ero una fata a tutti gli effetti, e ascoltando quelle parole, versai altre lacrime, mischiando dolore e felicità. “Sì? Dimmi, mamma. Non restare a guardarmi, dì qualcosa.” La pregai, guardandola a mia volta negli occhi e stringendo in mano la leggera stoffa della sua veste. “Ascolta, sai che non so molto del tuo mondo e che non sono la tua vera madre, ma ti voglio bene, e mi fa male al cuore vedere in questo stato la bambina che ho cresciuto. Cosa ti succede? Sfogati.” Fu la sua risposta, che giunse alle mie orecchie come pura verità. Incerta sul da farsi, mantenni il silenzio per altri lunghi secondi, e traendo un profondo respiro, diedi voce ai miei pensieri più nascosti. Ad essere sincera, non credevo di essere davvero pronta a farlo, ma la sola presenza di mia madre fu per me una vera e propria iniezione di coraggio. “Si tratta di me e Christopher. Marisa ha cercato di aiutarci, ma non ce l’ha fatta. Ha fallito, noi due abbiamo litigato, e adesso… adesso…” esordii, ritrovandomi quasi costretta a lasciare quella frase incompleta solo a causa dell’ennesimo picco di malumore. “Non vuole vederti?” azzardò lei, accarezzandomi dolcemente il viso e tenendomi stretta una mano. A quelle parole, sussultai. Sapevo bene che non era vero, ma allo stesso tempo non potevo evitare di dar credito a quell’affermazione. Era vero? Aveva ragione? Christopher avrebbe mai potuto odiarmi?” queste le domande che nei momenti di silenzio mi invasero la mente, e che scuotendo la testa cercai di scacciare come fastidiosi insetti. “No, o almeno non credo. In fondo la colpa tutta mia.” Continuai, vergognandomi come una ladra e abbassando lentamente lo sguardo. “Cosa? Che intendi?” chiese a quel punto mia madre, preoccupata come non mai. “Mamma…” titubai, impacciata. “Non possiamo più stare insieme. Ho esagerato, e fra noi è finita.” Conclusi poi, sempre più triste e amareggiata. Senza dire altro, scivolai ancora nel silenzio, e sospirando cupamente, andai alla forse disperata ricerca di conforto. Annuendo, mia madre si fece più vicina, e stringendomi ancora in un delicato abbraccio, si voltò, e allontanandosi dalla finestra, mi condusse verso il divano. “Vieni.” Disse piano, sedendosi per prima. Così, nella fredda quiete notturna, ci accomodammo insieme, e di lì a poco, finii per chiudere gli occhi. Non dormivo, ma ascoltando a mente fredda il dolce suono del silenzio, sentii ogni muscolo del mio corpo rilassarsi. Poteva sembrare stupido, o forse perfino folle, ma nonostante l’età adulta, non mi sentivo ancora pronta a vivere facendo fronte alle mie stesse responsabilità. Per quanto ne sapevo, la mia vita e le mie origini erano come avvolte da una fitta coltre di nebbia, e ormai divisa dal mio protettore, seppur volontariamente, avevo semplicemente bisogno d’aiuto e di affetto, di qualcuno o qualcosa che mi dicesse che la situazione sarebbe cambiata, e che ogni cosa sarebbe tornata al suo posto. Timida e insicura, continuavo a navigare nelle agitate acque dei miei stessi dubbi, ma quella notte, finalmente provai qualcosa di diverso. Ancora una volta, avevo ottenuto l’aiuto che mutamente cercavo, e addormentandomi solo attimi più tardi in compagnia di colei che era ormai diventata mia madre, riposai tranquillamente per il resto della notte, disturbata solo dalla luce di un nuovo giorno e dalla sensazione di una coperta sul corpo, unita ad un’orgogliosa dichiarazione. “Il tuo Christopher ti ama, ricordalo sempre, figlia mia.” Parole che ascoltai tenendo gli occhi chiusi e con un sorriso sulle labbra, con il cuore reso più libero e leggero da una sola certezza. I miei pensieri potevano oscillare fra luminosità e cupezza, e anche quando la seconda prendeva le redini come ora, io non ero e non sarei mai stata sola, nonostante il dolore che provavo e le voci che sentivo mi facessero credere di essere stata letteralmente soffocata, catturata e rinchiusa. Al mio risveglio, non riuscii a crederci, ma con la fine della notte e l’inizio del nuovo giorno, realizzai di non aver avuto bisogno che di un solo pizzico di fiducia materna.

 

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Capitolo 27
*** Pillole di gelosia ***


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Capitolo XXVII

Pillole di gelosia

Il mattino era arrivato, ma il sole faceva fatica a mostrarsi agli abitanti della foresta, apparendo ai miei occhi troppo pigro per ricomporsi dopo il suo letargo dietro ai monti. Sveglia da poco, oziavo fra le coperte, e restando ferma a guardare il soffitto della mia stanza, meditavo. Ad essere sincera, non avevo alcuna voglia di alzarmi, e inibendo uno sbadiglio, nascosi il viso nel cuscino. La luce solare non era poi così forte, ma ancora scossa dai miei trascorsi, credevo che restare da sola sarebbe stata la cura per il mio malessere. L’aiuto di mia madre era stato a dir poco insperato, e pensandoci, lasciavo scorrere il tempo. Il silenzio era la mia unica compagnia, o almeno lo fu fino a quando un singolo suono lo ruppe come vetro. Acuto e lamentoso, al mio udito vagamente simile ad un pianto, e poco dopo, un ticchettio già sentito. Seccata, incolpai l’orologio appeso al muro della cucina, trovandomi poi costretta a ricredermi. Quello che sentivo era un miagolio, e Willow era l’unica colpevole. Viveva in casa con me da ormai qualche tempo, e ora che sembrava essersi ristabilita completamente dall’eccessiva magrezza di cui aveva sofferto, non aveva desiderio dissimile dallo starmi accanto, colmando la quiete delle mie giornate con le sue dolci fusa. Basse e quasi intermittenti, mi scaldavano il grembo e le mani quando la tenevo in braccio accarezzandola, e pur essendo ancora sdraiata a letto, potevo giurare di riuscire a sentirle chiaramente. Continuava ad insistere e miagolare, e stanca, io la ignoravo. Le volevo bene, ed era vero, ma nonostante tutto non aveva voglia di far nulla. I ricordi della notte scorsa non facevano che tornarmi in mente, torturandomi le membra senza che potessi fare nulla per fermarli. Non le parole e l’incoraggiamento di mia madre, ma bensì la lite con Christopher. Erano passati soltanto due giorni, e pur investendo ogni grammo delle mie energie nel farlo, non riuscivo a smettere di pensarci. Dopo il nostro più recente screzio, ci eravamo separati, e rimasta sola, mi sentivo malissimo. La signora Vaughn era stata chiara nel dire che era la sua vicinanza a ferirmi, ma se era davvero così, perché ora soffrivo tanto? Questa era la domanda che aleggiava nel mio animo senza alcuna posa, e per la quale sapevo bene di aver già trovato una risposta. Il mio dolore derivava dallo sconfinato amore che provavo per lui, e dopo essermi abbandonata all’ennesimo e cupo sospiro, finalmente mi decisi ad alzarmi. Stropicciandomi quindi gli occhi assonnati e cisposi, liberai uno sbadiglio, e appena un attimo dopo, non vidi che la mia immagine riflessa nello specchio. Osservandomi, non vidi nulla di diverso. La stessa altezza, gli stessi occhi azzurri, gli stessi capelli castani come le foglie in autunno. In altri termini, sempre io. Sempre Kaleia. Nel tentativo di conservare il buonumore, sorrisi. “È un nuovo giorno.” Pensai, fiduciosa. In quel momento, un brivido mi percorse la schiena, e il sangue mi si gelò nelle vene. Era primavera, ma faceva più freddo di quanto pensassi. Non dandovi peso, uscii dalla mia stanza, sentendo ancora una volta i miagolii di Willow. Felici di vedermi, mi era corsa incontro, e abbassandomi, l’avevo presa in braccio, stringendomela al petto. “Buongiorno anche a te, micia.” Dissi, accarezzandole piano la testa e lasciando che mi leccasse la mano. Un comportamento decisamente più indicato per un cane, ma che sorridendo debolmente, le concessi senza una parola. “Sì, ti voglio bene anch’io.” Le sussurrai, stringendola ancora con dolcezza e amore. Per tutta risposta, la gatta mi posò una zampa sulla guancia, avendo cura di non usare gli artigli. Lasciandola fare, mi lasciai sfuggire una risata, e raggiungendo il salotto, incrociai lo sguardo di mia madre. “E così Willow ha svegliato anche te, vedo. Lascia che esca, non chiede altro.” Mi disse, sollevando la propria tazza da caffè e bevendone un sorso. Confusa, la guardai senza capire, e rimettendo la gatta a terra, scoprii che mia madre aveva ragione. Difatti, e quasi  a voler avvalorare la sua stessa tesi, si avvicinò subito alla porta di casa, sfiorandola con le zampe anteriori e dando per la terza volta voce ad un miagolio straziante. Incredula, mi scambiai con mia madre una singola occhiata d’intesa, e senza dire nulla, lei si limitò ad annuire con sicurezza. La conoscevo, e sapevo bene che quel gesto poteva significare una sola cosa. Potevo lasciarla andare, senza problemi o condizioni. Annuendo, aprii quella porta, e restando ferma sulla soglia, guardai la mia cara amica a quattro zampe muoversi lentamente fino all’erba, per poi fermarsi e sdraiarsi a riposare, rotolandosi occasionalmente fino a giacere nel verde a zampe all’aria. A quella sola vista, sorrisi ancora, meravigliata dal luccichio che il sole conferiva ai suoi occhi. Diversi l’uno dall’altro, erano uno azzurro e l’altro marrone, e per qualche strana ragione, mi spingevano sempre a pensare. Proprio come me, diversa da qualunque altra fata, anche lei lo era da qualsiasi altro gatto, e nonostante dirlo potesse sembrare sciocco o addirittura folle, la invidiavo. Nonostante le sue differenze, era sempre stata libera di vivere la sua vita sin dal giorno della sua nascita, e muovendo un solo passo in avanti, calpestai l’erba senza timore, e unendomi a lei, respirai a pieni polmoni. Di lì a poco, una meravigliosa sensazione di calma mi investì in pieno come un’onda di marea, e riaprendo gli occhi tenuti chiusi per godere meglio il momento, sentii il calore del sole sulla pelle, unito a flebili ma chiare voci in lontananza. A quanto sembrava, non ero da sola, e aguzzando la vista, li notai. Sky e Noah erano come sempre seduti sulla riva del lago, intenti a godersi lo spettacolo offerto dal brillare di quelle acque, unito come sempre a quelle del loro amore. Ero felice per loro, non potevo negarlo, ma in quel momento, vederli così felici mi disturbava. Non riuscivo a spiegarmi il perché, ma venendo improvvisamente colta da un sentimento di disgusto misto a rabbia, spostai subito lo sguardo altrove. Ricordavo bene che Sky mi avesse ripreso a causa delle mie effusioni con Christopher, che forse l’avevano davvero stufata, e ora eccola lì, abbracciata al ragazzo che amava, e che intanto, non contento della seppur minima distanza fra i loro corpi, l’aveva annullata prendendola in braccio come una bambina e permettendole di stare sulle sue ginocchia. Una scena adorabile, la cui vista mi portò però vicina alle lacrime. Intanto, il tempo scorreva, e in quesito ancora irrisolto continuava a riverberare nella mia mente producendo un’eco infinita. Scuotendo la testa, provai a liberarmene, ma questo non demorse, diventando perfino più insistente di prima. “Perché? Perché a me?” mi ripetevo, affranta. Come ogni volta, la risposta tardava ad arrivare, e sedendomi all’ombra di una quercia, posai la mano sul tronco, poi chiusi gli occhi. I miei poteri di fata si limitavano al controllo sulla natura che avevo intorno, lo avevo ormai imparato perfettamente, ma distratta dai miei pensieri e dal mio dolore, non riuscii nell’incanto che avevo in mente, e proprio come la prima volta, una spina mi si conficcò nel palmo, ferendomi e facendolo sanguinare. Stringendo i denti, sopportai il dolore, e riacquistando la capacità di vedere, notai ai miei piedi un piccolo rovo. Era inutile. Avevo provato ad usare la magia per distrarmi, ma i miei cupi sentimenti aveva di nuovo interferito, anche se portavo al collo il gioiello che avevo ricevuto in regalo. Quasi istintivamente, nascosi le mani nella tasca della veste, ma abbassando lo sguardo, presi delicatamente quel monile fra le dita, esaminandolo con cura e notando che la sua luce non proveniva più dal sole, ma da una sorta di nucleo interno. Ad essere sincera, non avevo davvero mai fatto caso a quel dettaglio, e notandomi, Sky si scostò da Noah, e alzandosi da terra, si ripulì al meglio il vestito da terra e fili d’erba, per poi guardarmi e avvicinarsi a me. Nel farlo, fece segno all’amato di aspettarla, poi si mosse. “Kaleia, come stai?” azzardò, incerta e dubbiosa. “Male.” Fui svelta a rispondere, evitando il suo sguardo e fissandolo sul cespuglio di rovi che senza volerlo avevo creato. “Sono qui se vuoi parlarne.” Mi rispose lei, sorridendo appena e posandomi una mano sulla spalla. “Grazie, ma non adesso. È troppo doloroso.” Replicai, fredda e distaccata come solo lei sapeva essere. Colpita, Sky alzò le mani in segno di resa, poi mi strinse a sé in un delicato abbraccio. “Sarò sempre qui per te, sorellina mia.” Disse soltanto, con la voce ridotta ad un sussurro. Muta come un pesce, mi crogiolai in quell’abbraccio e nel suo calore, potendo giurare che per un attimo, il piccolo lampo di luce presente nel mio ciondolo diventò un’altrettanto piccola scarica elettrica. C’era ancora molto che non sapevo su quel gioiello, e avrei scoperto ogni dettaglio solo con il tempo, ma ora, e soltanto grazie all’aiuto di mia sorella, ero riuscita a riacquistare la calma che avevo perso, e pronta a parlarle, trassi un profondo respiro. Mi ero rialzata per lasciarmi abbracciare, e sentivo che tacere non aveva più senso. “Sky, ascolta. Non è colpa tua, e anzi, non è di nessuno, ma… non so come dirlo, ma la situazione è incomprensibile per me. Abbiamo litigato e Christopher mi ha lasciata da sola. So che sono passati appena due giorni, ma fa malissimo.” Ammisi, non provando che vergogna nell’incontrare i suoi occhi di un azzurro meno intenso di quello dei miei e sospeso fra il ghiaccio e un’altra sfumatura che non ero in grado di definire. Mantenendo il silenzio, lei attese che finissi di parlare, e solo allora, uno scoiattolo e la sua compagna si palesarono all’orizzonte. Data la distanza, non ero certa che si trattasse di Bucky, né potevo esserlo, ma fu in quell’istante che continuai. “E poi guarda.” Dissi infatti, indicando quella dolce coppietta di roditori. “Non avrei mai creduto che uno scoiattolo si sarebbe accasato prima di me.” Aggiunsi poco dopo, con la voce già rotta da un pianto che a malapena soffocavo. Triste come e forse più di me, Sky ascoltava senza proferire parola, e come se tutto facesse parte di una sorta di maledizione, un’altra coppia di animali mi si parò davanti. Stavolta erano due volpi, e strofinando i musi l’uno contro l’altro, sembravano baciarsi. Inspiegabilmente, mi sentii punta sul vivo, e pur mordendomi la lingua, non riuscii a darmi un freno. “Non ci credo, anche loro.” Borbottai infatti, scocciata. “Kaleia…” mi chiamò allora mia sorella, riportandomi subito alla realtà. “Cosa?” replicai, con il morale più nero della fredda notte. “Scusa.” Disse appena lei, tenendo bassa la voce e guardandomi negli occhi. “Come?” non potei evitare di chiedere, sconvolta. “Mi hai sentito, scusa. Conosco te e Christopher, so cosa c’è fra di voi, e ora che sei sola, mi comporto come se Noah fosse l’unico a contare. Mi dispiace se la cosa ti fa star male. Cosa posso fare per aiutarti?” continuò, ripetendosi e offrendomi con quelle parole la mano amica che da tanto aspettavo. “Aiutami. Aiutami a ritrovarlo.” Risposi, volgendo lo sguardo all’orizzonte e serrando i pugni, decisa. “D’accordo, fu la sua sola risposta, seguita da un rapido cenno del capo e da una stretta di mano. Annuendo, suggellai con lei quel così importante patto, e ritornando a casa nel pomeriggio, richiamai a me la cara gatta Willow, impegnandomi nei preparativi di un viaggio che avrebbe potuto essere pericoloso, ma allo stesso tempo salvifico, in quanto solo ritrovare il mio amato Christopher avrebbe potuto guarire e curare il mio giovane cuore e il mio sangue, ora entrambi compunti e avvelenati  da migliaia di minuscoli aghi e pillole di gelosia.  
 

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Capitolo 28
*** Sacrifici di chi ama ***


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Capitolo XXVIII

Sacrifici di chi ama

Tornata a casa da poco, restavo seduta sul divano a gambe incrociate, con la cenere nel caminetto spento a rappresentare alla perfezione il mio attuale stato d’animo. Sconsolata, mesta e senza lena né energia vitale, incapace di concentrare il pensiero su nulla che non sia Christopher. Da quando abbiamo litigato è scomparso dalla mia vista come nebbia portata via dal vento, e non sapere nulla di lui, dove sia, come stia o cosa stia facendo mi uccide. Alle orecchie di un estraneo, un’affermazione del genere suonerebbe assurda, ma non alle mie. Amo quel ragazzo, e so bene di non esagerare ogni volta che lo dico, ogni volta che sfioro per puro caso il libro che mi ha regalato e che ancora tenevo nella libreria. Sul ripiano più alto, così che non potendo raggiungerlo non mi sarei lasciata vincere dalla curiosità. Probabilmente avrei dovuto farlo, prenderlo in mano e  leggerne ogni pagina e riga, ma non volevo, non senza di lui. Lentamente, i due giorni già passati si erano trasformati in cinque, e ancora oggi, nessuna notizia. Sono stanca, e il tempo sembra scorrere così lentamente da non poter essere calcolato, e mentre mille attimi si susseguono, sospiro cupamente. Sdraiata sul tappeto, Willow mi fa compagnia, e voltandosi, rivolge per un attimo lo sguardo su di me. Distrattamente, sfioro il posto vuoto accanto a me come per invitarla a raggiungermi, ma socchiudendo gli occhi mi ignora, e dandole a mia volta le spalle, mi alzo senza una parola. La porta della cucina aperta è quasi un invito, ed entrandovi, incrocio mia madre, in piedi accanto alla finestra. Seppur concentrata sul panorama, nota il mio arrivo, e andando alla disperata ricerca di conforto, mi avvicino. È questione di attimi, e non appena sono abbastanza vicina da toccarla, non chiedo che un abbraccio. “Ancora niente, vero?” azzarda, preoccupata e allo stesso tempo certa di stare andando a toccare un nervo scoperto. “Niente.” Ho la sola forza di biascicare, cambiando subito idea su quel contatto e appoggiando entrambe le mani sul cornicione della finestra. “Capisco benissimo come ti senti.” Continuò lei, per poi concedersi un’altra pausa di silenzio, che in breve riempì la stanza di quiete e la mia mente di dubbi. “Successe anche a te da ragazza?” non potei evitare di chiedere, fallendo nel tentativo di tenere a freno la lingua e sperando ardentemente che parlarne non le fosse scomodo. Come mi aspettavo, inizialmente non rispose, e quando finalmente sentii la sua voce, ciò che disse mi colpì profondamente. “Soltanto una volta, poi mai più.” Sei parole dai toni plumbei e pesanti come il cielo appena sopra di noi, alle quali annuii lentamente, per poi guardarla e lasciarmi stringere nell’abbraccio che mi ero poco prima costretta a rifiutare. “Non lo sapevo, mi dispiace tanto.” Dissi sottovoce, provando la vergogna di una ladra e il risentimento di un’ormai pentita peccatrice. “Non quanto spiace a me. Ormai sono passati anni, ma a volte rimugino ancora su cosa potrebbe essere stato. Ci lasciammo di comune accordo, ma fra noi due fui l’unica a soffrire, e nonostante questo, ora spero che lui sia felice.” Replicò lei, perdendosi nei ricordi del suo stesso passato e abbassando lo sguardo nel rafforzare il nostro abbraccio, mentre un debolissimo sorriso spuntava come un fiore sul suo volto. “Adesso?” provai a dire, sentendo improvvisamente la gola secca e stretta in un nodo di pianto. Non riuscivo a crederci. Ora che Christopher era scomparso, credevo di essere la sola a provare dolore, e solo ora scoprivo che non era vero. Ad essere sincera, potevo ormai dire di conoscere quella donna forse meglio di me stessa, e nonostante avessi già visto quella debolissima luce nei suoi occhi già una volta, nella sera in cui avevo rischiato di lasciarmi andare abbandonando tutto e tutti, in quell’attimo mi apparvero vacui come mai prima d’ora. “Adesso tutto appartiene al passato, Kaleia, e non posso permettere che accada anche a te. Va, stagli vicina, non arrenderti e cercalo subito. Sono certa che Christopher stia cercando di fare lo stesso con te.” Quella fu la sua unica risposta, a seguito della quale, mille emozioni mi travolsero e bagnarono come un fiume in piena. In quel momento provavo dolore, certo, ma anche astio e rabbia verso me stessa, maledicendomi per quello che era stato e continuava ad essere il mio ora innegabile vittimismo. Mia madre aveva ragione, e c’era solo una cosa da fare. Annuendo con decisione, mi preparai ad affrontare la realtà a me dinanzi, a cui una parte di me faceva fatica ad abituarsi. Avrei dovuto agire, svegliarmi dal mio metaforico letargo e iniziare a contare i passi che mi separavano dalla felicità che da tanto cercavo, e fu così che dopo averla ringraziata con il calore di un nuovo contatto, mi voltai fino a darle le spalle, e indossando la mia ormai solita giacca, accarezzai Willow un ultima volta, per poi chiamare il nome di mia sorella e uscire subito di casa. Il cielo era coperto, ma dietro le nuvole si nascondeva il sole, che avrei rivisto soltanto nel momento in cui avessi avuto il coraggio di applicare la lezione appena imparata, ovvero che nella vita si compiono spesso dei sacrifici, e che quelli di maggior valore sono e saranno sempre quelli di chi ama.   

 

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Capitolo 29
*** Ricerca d'un amor perduto ***


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Capitolo XXIX

Ricerca d’un amor perduto

Un incoraggiamento, una parola gentile, una spinta nella giusta direzione. Non mi era bastato altro, e aprendo la porta di casa, mi ero precipitata fuori. La fortuna voleva che non fossi sola, ma allo stesso tempo ero troppo concentrata e sicura di me stessa per guardarmi indietro. Il mio amato Christopher era nei miei pensieri, e oltre lui, nient’altro. Sky mi arrancava accanto, ma i miei occhi erano fissi su un solo obiettivo. Lui. Non sapevo dove cercare, e non potevo negarlo, ma più il tempo scorreva, più ero decisa. Ne era ormai trascorso fin troppo, ma ancora memore dei nostri allenamenti, sapevo bene che le nozioni apprese un giorno mi sarebbero servite. In breve, il mio cammino si trasformò in corsa, e le suole delle mie scarpe lasciavano impronte ben visibili fra l’erba. Aveva piovuto da poco, la terra si era trasformata in fango, ma io ero stoica, e non me ne curavo. Il sole era tornato a splendere risvegliandosi dal suo letargo fra nuvole e monti, picchiando abbastanza da disturbarmi la vista e in alcuni casi l’equilibrio. Ero cauta, e fra un passo e l’altro, un conosciutissimo dolore al fianco tornò a ripresentarsi. Una fitta al fianco mi tolse il respiro, e fermandomi, dovetti posarci una mano per tentare di lenirlo.  “Tutto bene?” chiese a quel punto Sky, vicina e con il fiato più corto del mio. “S-Sì, andiamo.” Risposi a malapena, annaspando in cerca d’aria e facendo fatica a respirare. “Sei sicura? Ci conviene riposare.” Replicò lei, guardandomi negli occhi e posandomi una mano sulla spalla. “No, sto bene.” Continuai, testarda. “Kaleia, dico davvero. So che ci tieni, ma ne va della tua salute.” Insistette lei, con una vena di preoccupazione nella voce. “Lo so, ma…” biascicai, sentendo quella frase morirmi inaspettatamente in gola. “Niente ma, sai quanto sia importante.” Questa fu la sua risposta, di fronte alla quale non ebbi reazione dissimile dal sospirare abbassando gli occhi. “Hai ragione.” Sussurrai poco dopo, sconfitta. “Su, vieni.” Disse allora lei, prendendomi la mano e accompagnandomi all’ombra dell’albero più vicino. Annuendo, mi limitai a seguirla, e premendo la schiena contro il tronco che trovammo, scivolai fino a terra, incurante di scivolare sull’erba bagnata. Lentamente, si asciugava al sole, ed evitandone i raggi, fissai lo sguardo sul mio ciondolo. Nonostante la fretta, non l’avevo dimenticato, e prendendolo delicatamente fra le dita, respirai piano, quasi impercettibilmente. Quasi istintivamente, strinsi quel gioiello con forza, e facendomi quasi male, per poco non piansi. Il mio non era dolore, ma nostalgia, e soltanto guardarlo mi riportava alla mente i ricordi del nostro amore. Le ricerche erano iniziate da poco, ma nonostante questo mi sembrava di camminare metaforicamente in cerchio, brancolando nel buio come mai era successo prima. Sempre ad occhi chiusi, provai a calmarmi, e nello spazio di un momento, la voce di Sky mi ridestò dai miei pensieri. “Ce l’hai da molto?” azzardò, riferendosi al mio smeraldo e mostrando una genuina curiosità. “Sì, ed era un suo regalo.” Mi limitai a rispondere, tardando poiché troppo concentrata su un futuro triste e avverso. “Parli al passato.” Mi fece notare lei, non perdendo la concentrazione e ignorando la leggera brezza fra i suoi capelli. A quelle parole, non risposi, e scuotendo la testa, mi voltai, ma solo per non mostrare che piangevo. In silenzio, certo, ma piangevo, e con gli occhi velati dalle lacrime, mi scossi nei singhiozzi, del tutto decisa a lasciar perdere l’argomento. Il silenzio che si creò fra di noi fu tale da rischiare di renderci sorde, e arrabbiata, mi alzai subito in piedi. “È ovvio.” Ringhiai poco dopo, inviperita. “Kaleia, scusami, cercavo solo di…” balbettò lei in risposta, più che mai confusa dalla mia reazione. “No, zitta. Sta zitta. Tu non sei come me, non lo sarai mai. Christopher è sparito, non lo vedo da giorni, e tu vuoi aiutarmi, ma non riesci a capire. Il nostro amore va oltre le leggi, ed è per questo che ora… ora potrebbe essere morto per colpa mia!” finii per gridare scoppiando all’improvviso, travolta da mille emozioni che non fui neanche in grado di identificare. Rabbia, dolore, rancore, gelosia, o probabilmente un misto di tutte quante. Ora come ora, era Sky ad avere il rapporto idilliaco che avevo vissuto e che ora sognavo, e per qualche strana ragione, le sue ultime parole mi avevano ferita e adirata. Non sapevo cosa mi avesse spinto a farlo, quale meccanismo fosse scattato dentro di me, ma una cosa era certa. Con il favore della luce, potevo e dovevo rimettermi in marcia. Nei due anni quasi trascorsi, Christopher era sempre stato la mia roccia, e ora sentivo di dover ricambiare il favore. Ad essere sincera, ero certa che avesse tutto sotto controllo, ma con questa singola consapevolezza ormai troppo misera per soddisfarmi, ero arrivata a temere il peggio, togliendo le briglie ai miei pensieri e lasciando che migliaia di scenari si formassero nella mia mente, e puntualmente, erano tutti uno peggiore dell’altro. Pronta, ricominciai a camminare, e allontanandomi a passo svelto, sparii fra gli alberi e il resto della vegetazione. Le lacrime che avevo versato mi offuscavano la vista, e pur sforzandomi, mi muovevo a fatica. Il dolore al fianco persisteva, ma restando concentrata, non osavo demordere. “Posso farcela.” Mi ripetevo, recitando quelle due sole parole come un antico e vedico mantra. Non curandomi d’altro, camminai per quelle che mi parvero ore, sentendo in lontananza solo la voce di Sky, che correndo a sua volta, cercava di richiamarmi a sé. Troppo lontana perché potesse raggiungermi, la sentivo gridare il mio nome e avvertirmi del pericolo, ma io non l’ascoltavo, e non soltanto a causa della distanza fra di noi. Una volta sola, mi fermai a riflettere, sollevando lo sguardo fino ad incontrare il cielo e piangere ancora, versando lacrime che non avrei visto cadere. Vicine o lontane, anche ora che ero scappata eravamo in due. Lei aveva scelto di affiancarmi, ed io avevo un unico obiettivo, ovvero impegnarmi nella ricerca di un amore che credevo perduto.

 

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Capitolo 30
*** Ira e altre tempeste ***


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Capitolo XXX

Ira e altre tempeste

Correvo. Il mio cammino si era trasformato in corsa, e intorno non avevo che erba, alberi e fiori. La luce del sole regnava ancora nel cielo, e ancora piangendo, non volevo ascoltare niente e nessuno. Il sibilo del vento si mischiava ai miei singhiozzi, e la rugiada del mattino non abbandonava il verde della foresta nel pomeriggio iniziato da poco. Restavo in silenzio, ma questo si rompeva come fragile vetro con ogni secondo, anche a causa della forza con cui le suole delle mie scarpe colpivano il terreno. Piangere mi aveva oscurato la vista  e resa maldestra, ma non volevo cadere, e pur certa di apparire goffa, facevo del mio meglio. Lento e inesorabile, il tempo continuava a scorrere, e per l’ennesima volta, una fitta di dolore al fianco mi impedì di respirare. Incapace di governare quel dolore, mi fermai, e fu allora che fra le fronde la sentii di nuovo. “Kaleia! Ti prego, fermati! Mi dispiace!” era la voce di mia sorella, e continuava ad implorarmi di smettere di correre e fermarmi prima che fosse troppo tardi. Non avrei voluto ascoltare, andare avanti e continuare per la mia strada, ma quella volta il dolore fu più grande di qualsiasi cosa, e arrestando il mio cammino, rimasi immobile finchè non mi raggiunse. “Eccoti! Grazie al cielo ti ho trovata. Hai una vaga idea di dove stessi andando?” mi chiese, ansimando e tenendo lo sguardo fisso su di me. Colta in fallo, negai con la testa, e sfiorandomi la mano, lei sorrise debolmente. “Non importa. Ora ti aiuterò davvero, d’accordo?” disse poi, tendendomi una mano perché la stringessi, così da suggellare quel patto che minuti prima, per rabbia o chissà quale altra ragione, ero arrivata a spezzare come le corde di un’arpa. Decisa, le strinsi la mano, e annuendo, accusai ancora dolore. Quasi istintivamente, posai una mano sul fianco già indolenzito, e quasi con orrore, scoprii che non era più la principale causa del mio malessere. Lentamente, provai a spostare la mano, e fu allora che capii. Il mio segno era al suo posto, e lo stesso valeva per la croce incisami nella pelle dalla signora Vaughn. Nera come il suo smalto in quel giorno, e somigliante all’ecchimosi che per lungo tempo avevo dovuto sopportare, ora appariva perfino più scura, e come se non bastasse, brillava. “Che succede?” azzardò Sky, preoccupata e spaventata al tempo stesso. “Non ne sono sicura, ma credo non sia nulla di buono.” Risposi soltanto, per poi chiudere gli occhi e restare dov’ero, in un religioso silenzio indice di concentrazione. Quello che stavo per usare era un potere che avevo sperimentato poco, ma in una situazione di quel calibro, provare non costava nulla, e come ben sapevo, avrebbe letteralmente potuto salvare la vita mia e di Christopher. Respirando a fondo, mi concentrai arrivando al limite delle mie possibilità, e come mi aspettavo, ebbi una visione. Era successo soltanto un’altra volta mentre andavo alla ricerca di Sky e Noah, ma da allora avevo imparato a controllarlo, e quello che vidi mi scioccò. Il volto della strega, uno strano simbolo e alti alberi dalle foglie color carbone. Inquieta come non mai, strinsi la mano di mia sorella, e portando una mano al petto, realizzai con quale velocità stesse battendo. Senza volerlo, inciampai in una stupida roccia, e rischiando di cadere, lottai per tenermi in piedi. Con riflessi fulminei, Sky mi tenne stretta,e  una volta riacquistato l’equilibrio, espirai. “Tutto bene?” fu la sua ovvia domanda, dettata dall’ansia che in quel momento le tirava il volto. “No, ma dobbiamo andarcene, e subito.” Replicai, seria. “Cosa? E dove?” chiese ancora Sky, tremante e incerta sul da farsi. “Non lo so, ma ovunque è meglio che qui, ora vieni.” Dichiarai, svelta. Senza dire altro, mia sorella si decise a seguirmi, e malgrado una leggera esitazione, sfidai il mio stesso coraggio, addentrandomi con calma mostruosa nella parte più buia e inesplorata della foresta. Stando a quanto ricordavo, la signora Vaughn viveva oltre quel punto, e nonostante al momento non fossi sicura di nulla, un tentativo era la mia unica speranza. Muta come un pesce, Sky sembrava aver smesso di respirare, e camminando, fui costretta a tenere gli occhi bassi e borbottare fra me e me, finendo per pronunciare parole che per lei non avevano senso. La colpa di tutto questo era unicamente imputabile alle voci, che di nuovo nella mia mente, parevano avermi fatto visita solo per tormentarmi. “Te l’avevamo detto, Kaleia.” Disse una, sussurrando sinistramente e non facendo altro che beffarsi di me. “Lui non può proteggerti.” Aggiunse un’altra, denigrando a quel modo l’amore che in due anni avevamo costruito. Nervosa, strinsi i denti e accelerai il passo, ma prima che potessi concentrare il pensiero altrove, la terza non mancò di presentarsi. “È un umano che a malapena ci comprende.  Ti fidi davvero di lui? Al tuo posto non lo farei. Non hai visto? È fuggito da te in più di un’occasione. Tu credi che ti ami, ma lui ti teme. Ti teme, giovane fata. Non ce la farai mai, non maturerai abbastanza, eppure non vuoi ammetterlo a te stessa. Sei patetica. Siete patetici.” Un discorso lento, criptico e dal ritmo cadenzato, colmo di una malizia che mi disgustava e completato da un sarcastico e acido risolino. Non riuscendo più a controllarmi, aprii di colpo gli occhi, sentendo la mia energia magica scorrermi nel corpo e nelle vene, e così com’erano arrivate, le voci sparirono. Non le sentii più per quella che mi parve un’ora, e al loro posto, un fischio assordante, seguito dal rombo di un tuono. Sobbalzando per lo spavento, mi voltai verso Sky, ma lei mi mostrò le mani, conscia di non aver fatto nulla. Confusa, non seppi cosa pensare, e in un attimo, la  fredda pioggia iniziò a cadere, bagnandoci il corpo e le ali. Alla ricerca di salvezza, mi riparai lì dove la vegetazione era più fitta, e sollevando lo sguardo, a sera ormai scesa, capii di aver raggiunto la mia meta, ma di aver allo stesso tempo scatenato nel mio viaggio ira e altre tempeste.     

 

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Capitolo 31
*** La crociata dell'uomo in nero ***


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Capitolo XXXI

La crociata dell’uomo in nero

Riparate e all’asciutto, attendevamo che la pioggia smettesse di scrosciare, ma invano. I minuti sembravano ore, e con il freddo che diventava tiranno, io non riuscivo quasi a muovermi. Guardandola, sperai che Sky potesse fermarlo grazie ai suoi poteri, e con esso anche la pioggia, ma per pura sfortuna, niente. Il nulla più totale. Attorno a noi la pioggia cadeva regnando sovrana sui cieli, e dopo un tempo a dir poco indefinibile, mossi il primo passo. “Ne ho abbastanza, io entro.” Dichiarai con decisione, uscendo dal nascondiglio che avevamo trovato sotto agli alberi e guardando dritta davanti a me. Incerta sul da farsi, Sky mi afferrò un braccio nel tentativo di fermarmi, ma io mi divincolai. La notte era scesa e la temperatura bassa, ma lo stesso discorso non era certo applicabile al mio morale. In tutta onestà non sapevo davvero cosa provassi in quel momento, ma la mia certezza restava una sola. Dovevo trovare Christopher. La casa della signora Vaughn era a pochi passi da me, e la risposta alle mie domande avrebbe potuto essere dietro quella porta. “Sei sicura che sia una buona idea? Quella strega ti odia.” Mi chiese Sky, con la voce spezzata e una maschera d’indecisione dipinta in volto. Mantenendo il silenzio, la guardai ancora negli occhi, e nel farlo, espirai, per poi prenderle la mano. Aveva ragione, e sapevo bene che presentarmi alla sua porta a quel modo era un grosso rischio, ma si parlava del mio Christopher, e stando a ciò che la mia mente e il mio cuore gridavano già da tempo nel disperato tentativo di far svanire le voci, valeva la pena tentare. “Non mi fido di lei, ma di me stessa. Andiamo.” Risposi soltanto, scivolando nel silenzio e chiudendo il pugno per bussare alla porta. Tre colpi rapidi e secchi, indice della mia profonda e sempre crescente impazienza. “Signora Vaughn! Sono Kaleia, apra!” quasi urlai, cercando di farmi sentire anche oltre il duro legno che ci separava. Poco dopo, nessuna risposta, e nel mio sguardo basso, pura frustrazione. “Signora Vaughn!” riprovai, nervosa. A denti stretti, attesi, ma per la seconda volta, ancora niente. Il silenzio che ricevevo in risposta era tale da indispettirmi, e proprio quando mi voltai, una voce. “Kaleia? Sei… Sei tu?” chiese, giungendo forte e chiara ma cogliendomi comunque di sorpresa. Quasi istintivamente, mi voltai nella direzione opposta, e in un solo istante, eccola. Marisa, l’unica amica che potevo dire di avere oltre a Sky, Leara e la mia stessa madre, nonché l’unica strega di cui riuscissi a fidarmi. “Marisa!” chiamai, fuori di me da una gioia che intanto continuava a mischiarsi con la tensione legata alla sparizione di colui che amavo. Felice di vederla, corsi ad abbracciarla, e lasciandomi fare, lei mi accarezzò la schiena, provando le mie stesse e identiche emozioni. “Che cosa ci fai qui? Non stai bene?” chiese poi, con un’evidente pena negli occhi e nella voce. “No, ma non è questo il punto. Christopher è scomparso, e credevo che tu e tua madre sapeste qualcosa. Dimmi, almeno tu l’hai visto?” le dissi soltanto, sentendo il cuore battere all’impazzata e faticando a formulare le parole per l’ansia e la tensione che avevo nell’anima. Alle mie parole seguì un’ennesima pausa di silenzio, e stringendo i pugni, imprecai a bassa voce, maledicendomi per la lite che avevo scatenato tempo prima. Se non l’avessi fatto Christopher non se ne sarebbe andato, e al contrario sarebbe qui per consigliarmi. Dominare le mie emozioni è sempre una sfida, e mentre il tempo scorre, i minuti sembrano ore. “Allora?” la incalzai, con nuove lacrime agli occhi e la voce ancor più incrinata. “Kaleia, non so cosa dire, né come farlo, ma tu e tua sorella avete una sola possibilità.” Replicò poco dopo, sostituendo ad ogni modo i miei dubbi con degli altri. “Cosa? Quale, dimmelo.” Pregai, distrutta dall’attesa. “Il villaggio degli umani è la vostra unica speranza, sempre che esista ancora, dopo il peggio.” Disse appena, tenendo bassi lo sguardo e la voce, come se non volesse farsi udire che da noi. “Peggio? Che significa?” Stavolta fu Sky a parlare, con le guance e il viso privi del colore che li caratterizzavano, ora in tutto simili a quelli di un cadavere. “Non posso dirvi altro. Mia madre sarà sveglia a momenti, e non può sapere che vi ho aiutato. Buona fortuna, e che la Dea vi accompagni per sempre.” Concluse, guardandosi nervosamente intorno e terminando quella frase nella maniera a mio dire più criptica possibile. Di lì a poco, la porta della sua casa si chiuse, e rimaste sole, Sky ed io continuammo a camminare. Il silenzio permeò l’aria nel nostro cammino, gli attimi della nostra vita scorsero veloci, e una nuova, flebile speranza mi riempì il cuore. Stando alle parole di Marisa, Christopher era ancora vivo, e il suo stesso villaggio era il posto giusto in cui cercare. Nonostante questo, non capivo una cosa. Che intendeva dire con peggio? E chi era la dea di cui parlava? Ad essere sincera, avevo sempre e solo sentito parlare di fate anziane, ma se davvero esisteva una divinità, io volevo crederle. Fra un passo e l’altro, riflettei sul futuro a me dinanzi, e non appena i miei occhi si posarono su chilometri di selciato, alzai lo sguardo non vedendo che lanterne, e solo allora capii di star seguendo la pista giusta. Il villaggio degli umani era ancora in piedi, e anche la pioggia era cessata. Finalmente calma, volsi un sorriso al cielo, e inspirando, continuai a camminare. In quel momento, tutto sembrava andar bene, ma dentro di me sentivo che presto qualcosa sarebbe cambiato. Ore dopo, la sera tornò ad essere mattina, e camminando per il villaggio del mio amato, vidi qualcosa in mezzo ad un cespuglio accanto a una casa. Cauta, mi mossi per indagare, e spaventato, un animaletto spuntò fuori, mostrando gli occhietti scuri e il pelo nero. Inizialmente, credetti fosse un gatto, ma poi, ad una seconda occhiata, la verità. Quello che avevo davanti non era un gatto, ma bensì un procione. A quanto sembrava, era ancora un cucciolo, e spaventato, tremava, indietreggiando lentamente e cercando rifugio nel cespuglio in cui era nascosto. Seppur timidamente, gli mostrai una mano, ma questo si ritrasse, posando lo sguardo su Sky. Sorridendogli, lei si fece avanti, e inginocchiandosi, gli regalò una carezza. “Che c’è, ti sei perso, piccolino?” gli chiese, sussurrando. Per tutta risposta, anche quel cucciolo parve sorridere, leccandole la mano ed emettendo il suo caratteristico verso, una sorta di squittio simile a quello degli scoiattoli. Nel farlo, si fece più vicino, e come a voler chiedere un abbraccio, posò la zampa sul suo ginocchio, sfiorandole poi il viso con i baffetti. Una scena tenera e adorabile, di fronte alla quale sorrisi anch’io. Era strano, ma era come se la sua vista avesse momentaneamente cancellato ogni mia preoccupazione. Pensavo ancora a Christopher, era ovvio, ma quel piccolo procione era riuscito a distrarmi. Facendo un altro tentativo, mi accovacciai ancora per accarezzarlo, e notando qualcosa che io non riuscii a vedere, l’animale scappò, andando a rifugiarsi altrove. Confusa, lo seguii con lo sguardo, e solo allora vidi una figura maschile in lontananza. Con il cuore già in tumulto, credetti che fosse Christopher, ma appena un attimo dopo, le mie speranze furono infrante. Non era lui, ma qualcuno che in realtà non avevo mai visto. Calmo e taciturno, avanzò verso di noi con un’espressione di vittoria dipinta in volto, e non appena fu abbastanza vicina da toccarla, sfiorò la mano di Sky con la propria, fino a prenderla delicatamente nella sua per un elegante baciamano. Per fortuna Noah non era presente, perché se lo fosse stato, avrebbe sicuramente allontanato lo straniero dalla fidanzata. “Hai già fatto amicizia con Bandit, vedo. In genere non è molto aperto con gli estranei, complimenti.” Le disse, accarezzandole la mano che ancora stringeva e portandola a sorridere, anche se non genuinamente. Ero lì con lei, lo vedevo bene, e in quel sorriso c’erano nervi, sorpresa e indecisione. “Sì, è... è un bravo procione.” Ebbe appena il tempo di dire, prima che la voce le si spezzasse e fermasse in gola. “Ne sono felice, e ti cercavo da molto, fata del vento.” Quella fu l’unica risposta del ragazzo, che Sky ascoltò senza parlare, mascherando l’imbarazzo con un colpo di tosse. Sfortuna volle che non potesse far nulla per il rossore emotivo che le si palesò in faccia, e che riuscisse a calmarsi solo chiudendo gli occhi per un attimo. “Sembrate perse, ragazze, come alla ricerca di qualcosa. Se volete, posso aiutarvi.” Disse poi, rivolgendosi ad entrambe e riuscendo sorprendentemente a leggermi nel pensiero. Incerta e dubbiosa, mi scambiai con mia sorella uno sguardo d’intesa, e di lì a poco, una stretta di mano diede vita ad un patto. Così, in un pomeriggio di sole dopo grigie nuvole di pioggia, le nostre ricerche sembravano ormai finite, così come la crociata di quel misterioso uomo in nero.

 

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Capitolo 32
*** Famigerati e scaltri ***


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Capitolo XXXII

Famigerati e scaltri

Ininterrotte ore di cammino mi avevano condotta al villaggio del mio amato, e con Sky al mio fianco, ora restavo in piedi sul selciato di fronte ad un perfetto sconosciuto. Vestito di nero da capo a piedi, aveva detto di poterci essere d’aiuto, e ci eravamo fidate. Ferme e inermi, non muovevamo un muscolo, e in completo disaccordo con le mie razionali decisioni, il mio cuore non voleva saperne di smetterla. Batteva forte, come impazzito, e pur conscia di star esagerando, potevo letteralmente giurare di sentirlo in gola. Il tempo scorreva senza sosta, muovendosi continuamente e ignorando le proprie creature con la stessa e identica pesantezza di un macigno. Lontana miglia e miglia dalla tranquillità, stringevo i pugni con fare inquieto, spostando lo sguardo in ogni possibile direzione. Mi era incredibile, eppure non riuscivo ancora a trovarlo. Le parole di Marisa erano state fonte d’aiuto e di confusione insieme, e per qualche arcana ragione, sentivo che la soluzione a quest’intricato enigma mi stesse guardando dritto in faccia, ridendo e beffandosi di me, come le voci avevano fatto poche ore prima. Sì, le voci. Quegli stessi tetri sussurri che da tempo sentivo echeggiare nella mia mente, e che ora, finalmente mute, continuavano a serpeggiare nei miei ricordi. Sospirando, rilassai i muscoli del corpo, riaprendo i pugni che a stento mi ero accorta di aver serrato. “Hai detto che puoi aiutarci, qual è il prossimo passo?” chiesi, rompendo come vetro il silenzio creatosi fra di noi. “Impaziente, creatura naturale. Non è un bene per le fate come te, sai?” rispose il ragazzo, rivolgendomi per una frazione di secondo uno sguardo che avrei potuto unicamente definire malevolo. Sbuffando scocciata, mi imposi di star zitta, e chiudendo ancora i pugni, finii per conficcarmi le unghie nel palmo della mano, ferendomi da sola. “Ha ragione, Kaleia. Sai anche tu che ci vuole tempo per certe cose.” Disse poco dopo Sky, facendo le veci dell’uomo e prendendo quasi inconsciamente le sue difese. Respirando lentamente, provai a ragionare, ma in quel momento, prolungare qualsiasi tipo di attesa mi sembrava sciocco oltre che ridondante. Mantenendo il silenzio, trassi un profondo respiro, ma per mia sfortuna, anche quel tentativo di tener stretti i lumi della ragione non mi servì a nulla. Rigida come un’asse di legno, mi sforzavo di non perdere le staffe, ma negarlo era inutile. Tesa e rigida come un’asse di legno, non riuscivo a pensare ad altro, e l’unica cosa che desideravo era riavere Christopher al mio fianco. Poteva sembrare strano, stupido, o addirittura folle, ma bramavo i suoi occhi nei miei, le sue mani lente sulla mia schiena e nei miei capelli, i suoi baci, la loro infinita dolcezza e il loro delizioso sapore. Agli occhi di altri tutto era falso, malsano e sbagliato, ma i miei sentimenti per lui erano tanto forti quanto reali, e nonostante i minuti che ci scorrevano intorno come l’acqua di un fiume placido e tranquillo, non mutavano mai. Fu questa l’unica ragione che mi spinse a parlare, a dar di nuovo voce alle mie emozioni fino a perderne quasi il controllo. “Tempo? Tu vieni a parlare a me di tempo? Quanto ne sarà passato ormai? Siamo vicine, e lo sento, ma perché continuiamo a star ferme? È ignobile nei suoi confronti!” urlai improvvisamente, con il viso bagnato da lacrime figlie di un dolore che non sapevo di star trattenendo. Colpita, Sky si limitò a guardarmi sgranando gli occhi per la paura, e al ritmo con il mio cuore pulsante, anche il gioiello che portavo al collo parve iniziare a reagire. Spaventata, abbassai lo sguardo, e solo allora, lo notai a mia volta, indietreggiando con lentezza. Appena un attimo dopo, il mio respiro si fece affannoso, e priva di un equilibrio, crollai a terra. Con uno scatto fulmineo, Sky fu lì per aiutarmi, ma il ragazzo la richiamò a sé, immobile al suo fianco come una statua di granito. “Ferma, Sky, lasciala a quest’esperienza.” Le disse, calmo e sicuro di sé stesso, continuando a fissare con sguardo deciso il mio apparentemente esanime corpo. “Lasciarla? Ma non vedi cosa le sta succedendo? Potrebbe essere…” protestò lei, affatto convinta e con la voce corrotta da una distinta vena di preoccupazione. “È qui che sbagli, non è affatto in pericolo.” Si limitò a risponderle il ragazzo, incrociando le braccia e lasciando che un sorriso gli si dipingesse il volto. Sconfitta, mia sorella si ridusse al silenzio,e sorda al loro battibeccare, non forzai gli eventi. Fu questione di soli attimi, e incontrando il terreno, non mi feci alcun male. Incerta sul da farsi, mi ritrovai in ginocchio, e per un attimo, un bianco bagliore mi avvolse. Non vidi né sentii nulla, ma con il cuore nuovamente calmo, sperimentai quella che chiunque avrebbe potuto definire pace dei sensi. Lentamente, posai a terra una mano aperta, e respirando, rimasi ferma, in ascolto e attesa. Da allora in poi, un silenzio più gentile di altri divenne il mio unico compagno, e in quella sorta di trance, una sola e distinta figura. Lo stesso simbolo che avevo visto nella notte durante il mio viaggio verso la casa della signora Vaughn, irradiato da due tenui luci. Una era verde come il mio elemento, l’altra rossa come mai avevo visto, e così come mi aveva colta, quella visione svanì, lasciandomi con la mente chiara e il corpo scosso da una nuova speranza. Libera da quella gabbia di luce, riuscii a tornare in me, e rimettendomi in piedi, corsi verso i miei due compagni di viaggio.“Ragazzi, forse ho capito. Finalmente so dove si trova.” Dichiarai in tono solenne, mirando per un istante il cielo e notando solo allora lo splendere del dorato sole, che per tutto quel tempo aveva illuminato il mio cammino mostrandomi  la vera retta via. Fiduciosa, strinsi il mio smeraldo, e resa forte da quella nuova iniziativa, iniziai una folle corsa verso il mio obiettivo, percorrendo quella che avevo identificato come strada della verità. Mettendomi in testa alla marcia, superai un imprecisato numero di case, e giunta al primo spiazzo d’incontaminata natura, scoppiai a ridere, felice come una bambina. Probabilmente Sky non mi avrebbe creduta,  e il nostro nuovo aiutante mi avrebbe sicuramente considerata pazza, ma ora che tutto mi era chiaro, c’era una sola anima a cui davvero potessi rivolgermi. “Red! Red, dove sei?” chiamai, affidando la mia voce al vento, che da bravo messaggero l’avrebbe sparsa per il resto del villaggio. “Red!” riprovai, sentendo dopo meri attimi un’eco in lontananza. Ci volle del tempo prima che tutto si acquietasse, e quando accadde, l’unico verso che avrei mai voluto sentire fece la sua comparsa nel verde circostante. Un latrato simile a quello di un cane, che il mio attento orecchio riconobbe essere quello di una volpe. Inginocchiandomi ancora, attesi, e poco dopo lo vidi. Red. Il mio amico dal pelo rossastro, le cui nere zampe si muovevano leste, colpendo ritmicamente il terreno. Alla mia vista, mi corse incontro abbaiando, e non appena fu abbastanza vicino da sfiorarmi, spiccò un balzo, atterrandomi giocosamente e finendo per farmi le feste. Lieta di rivederlo dopo così tanto tempo, lo accarezzai dolcemente, e avvicinando la mano al suo orecchio, lo grattai com’ero solita fare. Abbaiando festoso, l’animale mi piantò le zampe sul petto, e quasi cadendo all’indietro fra l’erba per una seconda volta, lo allontanai spintonandolo, con gesti semplici e sgombri da cattiveria alcuna. Dandosi un contegno, la volpe voltò lo sguardo, fissandolo sul selciato che avevo da poco percorso, e mugolando mestamente, come a volermi invitare a seguirlo. Rialzandomi da terra, camminai al suo fianco senza proteste, e ben presto anche Sky fu con me. Seppur riluttante, il ragazzo non si fece pregare, e unendosi a sua volta a noi, parve unicamente concentrato su altro, come contare il tempo che era certo di aver sprecato aiutandoci. Ad essere sincera, non nutrivo alcuna simpatia nei suoi confronti, ma volendo mostrare clemenza, decisi di porgere l’altra guancia. In fin dei conti, l’avevo appena conosciuto, e non sapendo neanche come si chiamasse o perché avesse volontariamente deciso di venire in nostro soccorso, sentii che meritava un’occasione. Incuriosito, Red gli si avvicinò, e annusandolo, si allontanò quasi subito, con la stessa aria di pura confusione che era solita caratterizzarlo in momenti di quel genere.“Come ti chiami, straniero?” azzardò Sky, sperando di rompere il ghiaccio e dare inizio ad una normale conversazione. Ignorandola, il diretto interessato non rispose, e soltanto un colpo di tosse da parte mia, benchè involuto, lo convinse a parlare. “Major, figlia dell’aria, e tu?” rispose infatti, mostrando unicamente l’accenno di un sorriso sulle labbra chiare e leggermente strette. “Sky.” Replicò mia sorella, tardando a rispondere e perdendo per un attimo il passo e la cognizione dello spazio in cui ci trovavamo. “Felice di scoprirlo, cara.” Continuò il ragazzo, sorridendole. “Per me è lo stesso.” Si limitò a rispondergli, per poi ritrovarsi senza volere a imitarlo mentre camminava. Guardandoli, ebbi uno strano presentimento, ma sopprimendo il brivido che avvertii dietro la schiena, mi strinsi nelle spalle, certa di stare immaginando ogni cosa. Di lì a poco, il nostro cammino riprese, e nel pieno di quella giornata piena di sole, un cambiamento. L’inconfondibile odore de fumo mi investì le narici, e l’ululato di un lupo mi bucò il timpano. Il villaggio degli umani era vicino alla foresta, ed era vero, ma cosa ci faceva un lupo nei nostri boschi? Non lo sapevo, e se quella domanda rimase senza una risposta, la seconda trovò la propria all’istante. Stava succedendo qualcosa, e arrestando il mio cammino, fui nuovamente colta da quella strana sensazione di freddo. Alzando poi lo sguardo che avevo tenuto a terra, mi accorsi di aver raggiunto la casa di Christopher, e quasi istintivamente, tirai un sospiro di sollievo. Farlo mi era costato energie e sacrifici, ma alla fine ce l’avevo fatta. Così, con gli occhi che brillavano per la felicità, mi avvicinai alla porta, e provando ad aprirla, spinsi. Come unica risposta, ricevetti una strana resistenza, e dopo un secondo e un terzo tentativo, desistetti. Avanzando, Major mi pregò di farmi da parte, ma fallì nel suo intento. Uggiolando tristemente, Red disturbò la nostra quiete, e guardandolo, lo vidi coprirsi il muso con una zampa. “Mi dispiace. Era qui un attimo fa.” Sembrava dire, visibilmente in colpa per quell’errore. “Va tutto bene, bello, tranquillo.” Gli sussurrai in risposta, accovacciandomi per accarezzarlo. Grato, l’animale mi lasciò fare, ma appena un attimo dopo, la tensione prese possesso del suo corpo, e rizzando le orecchie, corse via da me. Interdetta, guardai alternativamente Sky e Major, studiando l’espressione sul volto di quest’ultimo, che con il solo uso dello sguardo, mi incoraggiò a continuare quel viaggio. Annuendo, seguii quel povero animale, e con il sole vicino a tramontare, gli occhi lucidi e le gambe ormai stanche per tanto camminare, ricordai uno dei primi moniti del mio Christopher, secondo cui uomini infidi abitavano la foresta proprio come noi fate, e che qualunque gesto da parte loro doveva essere visto come una sorta di presagio o avvertimento, in quanto, con il favore di tetre apparenze avevano lentamente conquistato il titolo di famigerati e scaltri.

 

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Capitolo 33
*** Paura anche di muoversi ***


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Capitolo XXXIII

Paura anche di muoversi

Ancora una volta, la luce del sole mi faceva da guida nel mio cammino verso colui che amavo, vincendo la lotta contro la foschia, la nebbia, il freddo e il grigiore della pioggia che era caduta bagnando il bosco solo poco tempo prima. Sempre in marcia verso un futuro per me migliore, anche ora correvo in mezzo al verde, superando ogni curva, sporgenza e buca. Alternavo ogni passo fra cammino e corsa, veloce e senza esitazioni di sorta. Di nuovo speranzosa, tenevo lo sguardo dritto in avanti, cercando con gli occhi la bianca punta della coda di chi mi guidava. Red, la volpe che nel tempo Christopher aveva addomesticato, arrivando a renderla il perfetto esempio di animale da compagnia. Non era un cane, certo, e lo stesso discorso valeva per Bucky, il caro scoiattolino che non vedevo da tanto, ma che immaginavo stesse vivendo la sua vita accanto alla compagna, esemplare dal pelo grigio e dissimile dal suo. Li avevo visti entrambi correre per la foresta corteggiandosi come innamorati, e se Red era già diventato padre di ben quattro cuccioli, per il mio piccolo amico non era ancora arrivato il momento, nonostante una parte di me lo sperasse ardentemente. Il sole splendeva illuminando i miei passi, ma avevo paura. La vista del fumo nel bosco non era certo stata piacevole, e ora temevo per la mia incolumità e quella di chi mi seguiva. Stanca, Sky faticava a starmi dietro, e Major sembrava essere l’unico in grado di tenere il passo. Gli attimi si susseguivano con lentezza esasperante, e nonostante sapessi di essere sempre più vicina alla mia meta, sentivo le gambe tremare, e no, la colpa non era da imputarsi alla brezza che mi scostava i capelli dal volto. Continuando a correre, scuotevo spesso la testa e mi sforzavo per respirare correttamente, entrambe azioni che compivo al solo scopo di allontanare dalla mia mente gli infausti pensieri che ancora la abitavano. “Stai perdendo tempo. Torna indietro. Torna indietro e scappa, se vuoi davvero vivere.” Dicevano le voci, torturandomi e facendomi mordere la lingua nel tentativo di non gridare. “No, non è vero. Voi non siete reali, e nulla di quello che dite può esserlo.” Mi ripetevo ogni volta, stoica e forte durante tutto il mio viaggio. Da quello che vedevo, era ormai vicino a concludersi, e rallentando, Red me ne diede la prova. Arrestando la mia corsa, ne approfittai per riprendere fiato, e guardandomi intorno, scoprii di essere arrivata nel fitto della foresta, a pochi passi da una tana che non poteva non appartenergli. Preoccupato, annusava il terreno e raspava con le zampe, impegnandosi nello scavare una buca e uggiolando tristemente. Com’era ovvio, il fuoco doveva averlo spaventato, e abbassandomi al suo livello, provai ad aiutarlo, ricevendo soltanto un sordido ringhio in risposta. “Va tutto bene, i tuoi piccoli stanno bene.” Provai a dirgli, tenendo la voce bassa e mostrando la mano aperta, lungi dal voler far loro alcun male. Confuso, l’animale mi guardò senza capire, e dopo un breve fruscio da me poco lontano, eccoli. Tutti insieme, tutti e quattro l’uno accanto all’altro, i suoi cuccioli. Lieta di vederli, tirai un sospiro di sollievo, ma poco dopo, la scoperta. I volpacchiotti erano sani e salvi, ma della madre non c’era traccia. Disperato, Red piantò le zampe per terra, dando poi inizio ad un lamento simile ad un profondo, rauco e basso ululato. Un modulato fischio rispose con imponenza, e fra la vegetazione fitta ma parzialmente bruciata, un’ombra. Spaventata quanto e forse più di lui, indietreggiai, e all’improvviso, lo spezzarsi di un ramo tradì la mia presenza. Senza volerlo, mi scossi in un sussulto, e stringendo lo smeraldo che portavo al collo, mi imposi di star calma. Il silenzio che seguì quell’istante mi congelò il sangue, ma resistente come sempre, attesi. In segno di resa, alzai entrambe le mani, e muovendo qualche incerto passo in avanti, per poco non inciampai in uno spinoso rovo. “Chi c’è là? F… Fatti vedere!” biascicai, tenendo alte la voce e la guardia nel tentativo di sembrare minacciosa. Conoscendomi, sapevo di esserlo almeno quanto un tenero gattino, e sentendo le gambe molli, maledissi mentalmente la testardaggine che mi aveva condotta fino a quel punto. In tutta onestà, una parte di me avrebbe voluto voltarsi e fuggire alla ricerca di un riparo, ma non potevo, non ora che Sky e Major erano lì per offrirmi il loro supporto. Conoscevo la prima meglio del secondo, ed era ovvio, ma il mio rocambolesco viaggio alla ricerca del mio protettore aveva in qualche modo rafforzato la nostra unione, e ora mi fidavo di entrambi. A riprova di ciò, proprio Major si avvicinò fino ad arrivare al mio fianco, annuendo con la stessa decisione che avevo già visto incupirgli lo sguardo. Muta come un pesce, mi scambiai con lui una sola occhiata, e poco dopo, rassicurata a sufficienza, tentai un passo in avanti, e finalmente, tutto fu più chiaro. La figura uscì dall’ombra, e per poco non cessai di respirare. “Christopher?” chiamai, attonita. “Sì, tesoro, sono io. Cosa c’è? Non sembri così felice di vedermi.” Rispose, e alle sue parole, il mio cuore perse più di un battito. Non sapendo cosa dire, boccheggiai alla ricerca di qualunque frase o parola, ma poi, dandomi per vinta, gli corsi incontro, fino ad abbandonarmi fra le sue braccia. Felicissima, lo strinsi a me baciandolo più volte, incurante della presenza dei miei compagni alle mie spalle. Lasciandomi fare, Christopher mi imitò in ogni bacio, e quando ci staccammo per respirare, mi ritrovai a guardarlo con le lacrime agli occhi. “Buon Dio, amore… mi sei mancato così tanto!” confessai, con il respiro spezzato dal pianto che trattenevo  sentendomi al sicuro fra le sue braccia. “Anche tu, fatina mia, anche tu.” Replicò lui, abbracciandomi ancora e lasciando che le nostre labbra si toccassero ancora, leggere come il battito d’ali di una farfalla. Un contatto che non durò molto, ma del quale, con il cuore traboccante di gioia e amore per lui, mi accontentai più che volentieri, trovando nell’abbraccio in cui mi stringeva il porto sicuro che per tanto avevo cercato. Pene e paure mi avevano accompagnata in ogni attimo, ma ora potevo dirmi felice, anche se ogni abitante della foresta, proprio come me, provava dopo quanto era accaduto, fra il fumo e le fiamme, la folle paura anche di muoversi.

 

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Capitolo 34
*** Le mosse del proprio destino ***


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Capitolo XXXIV

Le mosse del proprio destino

Insieme. Finalmente, di nuovo insieme. Così eravamo io e Christopher, stretti e persi l’uno fra le braccia dell’altra, a guardarci negli occhi come ragazzini alla prima cotta. A poco più di vent’anni, eravamo ormai adulti, ma allo stesso tempo era come se non fossero mai cresciuti, restando giovani e ingenui per sempre. Una parte di me lo considerava stupido, sciocco e addirittura infantile, ma in quel momento, nient’altro importava. Non il dolore che ancora mi torturava i muscoli delle gambe, non il fatto che non riuscissi a respirare e facessi una fatica immane, non gli sguardi di Sky e Major fissi su di noi, e neanche la dolorosa quiete della foresta parzialmente bruciata attorno a noi, niente. Una lite e una sua improvvisa sparizione ci avevano allontanati, ma ora che la nostra era tornata ad essere una coppia stabile, ero sicura che non sarebbe più successo. Nel tempo avremmo avuto i nostri screzi, ma con tenacia e pazienza ne saremmo sempre usciti fuori, proprio com’era appena accaduto. Completamente distesa e felice, mi godevo la permanenza fra le sue braccia, respirando piano, com’ero stata abituata a fare nei miei tempi di pixie e ancora prima, quando la luce mi faceva da crisalide e una lanterna del colore del mio elemento agiva da nido contro ogni male del mondo esterno e a me ancora sconosciuto. Il solo pensiero a volte mi straniva, eppure erano quelle le emozioni che provavo al suo fianco. Le probabilità che il mio cuore parlasse a sé stesso oltre che a me erano alte, ma scuotendo la testa, mi guardavo ogni mattina allo specchio sapendo che ogni parola corrispondeva alla pura verità. Christopher non era bellissimo solo ai miei occhi, ma anche a quelli di chi gli stava intorno, ed era in grado di farmi sentire amata, unica e speciale, come pochi al mondo potevano. Riaprendo lentamente gli occhi, mi persi nelle sue iridi smeraldine, sentendo il cuore perdere immediatamente più d’un battito. “Chris…” chiamai, a voce bassa. “Kaleia, tesoro, dimmi. Dimmi quello che vuoi, sono qui.” Rispose lui, con lo stesso tono e gli occhi che brillavano per la gioia di rivedermi. “Io ti amo. Ti amo, mio custode, e non voglio perderti. Non ci separeremo ancora, vero?” dissi, azzardando poi quella domanda con la stessa ingenuità di un bimbo ancora in fasce, unicamente capace di guardare negli occhi i propri genitori e addormentarsi nella sua piccola culla, allietato dal suo moto come io lo ero dal battito del cuore del mio amato. Nel silenzio del tempo che scorreva, riusciva a sentirlo chiaramente, e quando ci separammo, lui sorrise, poi mi offrì la mano. “No, non più. In nessun caso, amore mio. Andiamo a casa, ti va?” chiese poi, tranquillo. “Certamente, custode, andiamo.” Risposi, imitandolo in quel sorriso e afferrando con sicurezza la mano che mi tendeva. Limitandosi ad annuire, Christopher mi strinse a sé, e durante il viaggio verso casa, Major e Sky camminarono fianco a fianco, ma le loro dita non si sfiorarono. Più di una volta l’avevo vista sorridere e arrossire di fronte alle sue parole, ma a quanto pareva, ora era riuscita a rendersi conto di star ferendo Noah. Proprio come e Christopher, non si vedevano da giorni, e dopo ore, finalmente a casa, io e il mio amato protettore ci addormentammo sul divano, non prima di accendere un fuoco che ci tenne caldi, come la fiamma del nostro mai morente amore. Calma ma lieta di rivederci, Willow si unì a noi prendendo posto su uno dei cuscini del divano e cadendo preda del sonno nel bel mezzo delle sue stesse fusa, che sembravano farle vibrare il pelo. Attimi prima di dormire, sorrisi al suo indirizzo, e l’ultima cosa che vidi fu uno dei libri sul ligneo scaffale del salotto, sospirando infine calma ed estasiata. Era buio, certo, ma il bianco della sua copertina vinceva contro il nero del primo tomo che avessi letto sulle mie origini, e uno dei lucchetti era illuminato dalla debole luce della luna, che brillava poco sopra le nostre teste e oltre il vetro della finestra. A fine giornata, spossata ma calmata dalla presenza di Christopher al mio fianco, mi ripromisi di leggere quelle fortunate pagine di liete novelle. Sognando, immaginai il mio avvenire come una scacchiera, divisa fra bianco e nero ma certa che nessuno potesse mai sottrarsi agli eventi, così come alterare nessuna delle mosse del proprio destino.

 

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Capitolo 35
*** La promessa a me più grande ***


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Capitolo XXXV

La promessa a me più grande

Addormentata fra le braccia di colui che tanto amavo, avevo dormito bene, senza più alcun tremore a turbare il mio sonno o alcuna voce a echeggiarmi nella testa. Senza accorgermene, avevo stretto la mano di Christopher continuando a farlo per tutta la notte, ma ore dopo, con il sole alto nel cielo e brillante oltre il vetro della finestra, fui la prima a svegliarmi. Muovendomi lentamente, scivolai fuori dalla sua presa avendo cura di non disturbarlo, e una volta in piedi, mi accorsi anche di Willow. Sempre sdraiata sul divano, aveva aperto a fatica un solo occhio, e dopo avermi guardata, l’aveva richiuso, ignorandomi completamente. “Sei tu, buongiorno.” Sembrava voler dire, evidentemente seccata per essere stata ridestata così presto. Poco dopo, e con un’espressione di chiara noia dipinta sul muso, la gatta mi diede le spalle, tornai a dormire acciambellandosi fra i cuscini. Non aspettandomi nulla di diverso, ridacchiai sommessamente, e attimi dopo, il silenzio cadde ancora nella stanza. Per pura fortuna non faceva freddo, e camminando lentamente, arrivai alla libreria. Era lì che tenevo i due libri che in tutto quel tempo fossi mai riuscita a leggere sulle mie origini, e fra i due ne spiccava uno soltanto. Non il primo, dalla copertina nera e le orribili notizie impresse in ogni pagina, ma bensì il secondo, che bianco e immacolato, mi attirò subito. Sapevo bene di non averlo ancora letto, e difatti giaceva intonso al suo posto in quel ripiano, ma attimi dopo, non resistetti oltre. Curiosa, ne sfiorai il frontespizio, avvertendo una sorta di solletico corrermi lungo le dita. Stranita, mi ritrovai a scacciarlo come un qualunque brivido, per poi non sentire che un rantolo alle mie spalle. “Christopher?” chiamai, giocosa. “T-Tesoro?” balbettò lui, stanco e disorientato. Affatto sorpresa dallo stato in cui versava, mi avvicinai per salutarlo, e non appena fui abbastanza vicina da toccarlo, la mia mano fu più veloce dei miei stessi pensieri, andando quasi automaticamente ad accarezzargli la guancia.“Buongiorno, finalmente. Da quando i protettori sono così pigri? Scherzai, tornando a sedermi al suo fianco e sorridendo apertamente. “E da quando le fatine sono così dolci e mattiniere?” rispose lui a tono, voltandosi a guardarmi e cingendomi un braccio intorno alle spalle. Stando ai miei ricordi, quello era un gesto che non compiva da molto, e che per quanto semplice, mi fece sentire ancora più innamorata e a mio agio. Lo amavo, lo amavo davvero, e più passava il tempo, più ne ero sicura. “Da sempre.” Replicai, continuando a sfoggiare quel sorriso e facendomi ancora più vicina. Divertito, lui non provò a fermarmi, e nello spazio di un momento, ricambiò il mio bacio. “E dimmi, credi che cambierai mai?” mi chiese poi, lambendomi per una seconda volta la guancia con le labbra, innamorato. “No, mai. Non in questa vita.” Dissi soltanto, negando con la testa e osando quanto bastava per abbracciarlo e stringerlo a me. Lasciandomi fare, ricambiò quella stretta, e più vicini di quanto non fossimo mai stati, ci ritrovammo di nuovo l’uno fra le braccia dell’altra, ad occhi chiusi per assaporare meglio quel momento. Ad occhi estranei il nostro rapporto poteva sembrare eccessivo e fin troppo sdolcinato, ma non a quelli di chi ci conosceva davvero. Certo, Sky tendeva ad avere pareri alquanto discordanti su di noi, ma lasciandomi trasportare da sciami di pensieri e grappoli di ricordai, rimembrai il primo e unico incontro avuto con i genitori di Christopher. Edgar e Andrea, due persone squisite che sembravano essersi innamorate di me a prima vista, proprio come lui. Distratta, mantenni il silenzio, e tornando ad essere me stessa dopo quella che a entrambi parve un’eternità, lo guardai. Muto come un pesce, lui non seppe cosa dire, e tentando di spezzare l’improvvisa tensione che sentì fra di noi mi baciò ancora, e pur non allontanandomi, allora non provai nulla. Non che quell’improvvisa valanga di attenzioni non mi dispiacesse anzi, ma in quel momento, qualcosa di molto simile a un sesto senso mi diceva che tale comportamento non era da lui. Ci amavamo, e lo sapevo bene, ma così tanta insistenza era troppa perfino per lui.  “Chris, ma cosa… che fai?” azzardai, confusa e stranita. “Cosa? No, niente. Mi sei mancata, nient’altro.” Ammise, facendosi da parte e abbassando lo sguardo in segno di vergogna. “Amore, anche tu, ma posso sapere cosa ti è successo? Insomma, tu eri scomparso, ci siamo cercati ovunque, ma ho avuto paura.” Confessai, dando in quel momento voce al mio terrore. Ero sincera, sapevo bene di non mentire, e con il silenzio come mio unico compagno, attesi. Lenti, alcuni secondi sparirono dalla mia vita, e stringendomi delicatamente la mano, il mio amato si preparò a prendere la parola. È stato difficile anche per me, Kaleia. Quando abbiamo litigato ci siamo allontanati di nuovo, lo ammetto, ma sappi che non volevo, non per la ragione che credi.” Esordì, guardandomi negli occhi e accarezzandomi le nocche con lentezza. “Ma allora perché? Perché, Chris, spiegami. Non ti ho visto per giorni, ero così preoccupata, non sai quante volte avrei voluto...” biascicai in risposta, avendo di nuovo il folle timore di sbagliare e mettere metaforicamente un piede in fallo. “Arrenderti?” continuò lui, precedendomi e togliendomi incredibilmente le parole di bocca. “Io no.” Aggiunse poi, serio come mai prima. A quelle parole, piombai nel silenzio, e iniziando inconsapevolmente a tremare, sperai con tutto il cuore che non se ne accorgesse. Lo conoscevo bene, forse perfino meglio di me stessa, e mai, mai l’avevo visto così irrequieto. “Io no, ed è per questo che sono sparito ancora una volta. Hai sofferto, e posso solo immaginare quanto, ma sta pur certa che ora non accadrà più. Mai più tesoro mio, davvero.” Quelle le parole che completarono il resto del suo discorso, che ascoltai senza proferire parola, ma comunque con le lacrime agli occhi. Nel silenzio di quei momenti, lasciai al mio muto pianto la libertà di sfogarsi, e solo allora, lui indicò con lo sguardo un punto nel salotto. “Prendi il libro.” Pregò, con gli occhi intrisi di una tristezza forse più grande della mia. Annuendo, mi alzai in piedi, e facendo ciò che mi era stato chiesto, tornai indietro. In breve, mi sedetti con lui tenendo quel tomo sulle gambe, e nell’esatto momento in cui la mia mano si accostò alla copertina prima e alla prima pagina poi, ebbi un nodo alla gola e un tuffo al cuore. Volendo solo aiutarmi ed esorcizzare le mie paure, Christopher mi prese per mano, e nel farlo, sorrise. Fattami più sicura, lasciai che voltassimo una pagina insieme, ma poi mi fermai. “Su, leggi.” Provò a dire, incoraggiandomi. Rimanendo ferma e inerme, mi limitai ad annuire, e respirando a fondo per sciogliere il nodo che mi attanagliava la gola, non cercai che il momento adatto per iniziare la lettura. “Avanti, ormai sai che puoi fidarti.” Continuò Christopher, liberando grazie alla sua stessa voce un secondo incoraggiamento, che in un momento di quel calibro funse per me da vera e propria iniezione di fiducia. Aveva ragione, potevo fidarmi, e così, con quell’unico pensiero in testa, gli strinsi una mano poco prima di iniziare davvero a leggere. Senza fretta, ma lentamente, come d’abitudine. “Il legame di complicità che si crea fra fata e protettore è quanto di più magico possa esserci.” Quella fu la prima frase che vidi, l’introduzione al primo capitolo di quel pesante tomo sulla magia, e che mentalmente rilessi più volte. “Continua.” Mi sussurrò poi il mio amato, sostituendo alla mestizia un sorriso dolce e orgoglioso. “Un protettore è sempre tenuto ad assicurarsi del benessere della fata che ha a cuore.” Sul momento, ammetterlo mi parve sciocco, ma anche quella seconda frase mi colpì, come un tuono era spesso in grado di fare ad un albero durante un temporale. Ascoltandomi leggere, Christopher annuì impercettibilmente, e posando la mano sulla pagina che insieme stavamo esaminando, mi fermò. “Aspetta, ora arriva la parte migliore.” Disse, estraendo il segnalibro di raso bianco dall’indice del libro e marcando un altro paragrafo molto più avanti. Un’azione semplice che richiese alcuni secondi, allo scadere dei quali, sentii il cuore battermi nel petto con una forza e una velocità tali da poter essere udito nella quiete della stanza stessa. “Ci siamo, leggilo pure.” Mi disse, indicando con il dito la stringa di parole in questione. “Alla fine dell’addestramento e del loro tempo, il protettore e la fata non sono costretti a separarsi. Secondo alcuni allontanarsi è possibile, ma in condizioni favorevoli, la separazione non è mai consigliata. Altre guide affermano il contrario, ma spesso è come se i loro cuori si unissero per sempre.” Parole sagge, leggere e tanto belle quanto vere, che inaspettatamente, mi fecero piangere ancora. Chiudendo subito il libro, Christopher fu lì per sostenermi, e abbracciandomi teneramente, baciò con dolcezza le mie guance umide di lacrime, parlando poi con calma e sussurrando parole di conforto. “Sfogati, fatina mia, sfogati.” Diceva, serio e premuroso come sempre. Scuotendomi nei singhiozzi, annuivo a fatica, e quando finalmente riuscii a calmarmi, mi crogiolai nella calda accoglienza di quell’abbraccio, stupendomi di come il mio battito cardiaco decelerasse gradualmente. “Dì, va meglio ora, amor mio?” chiese poi, preoccupato. “Sì, sì, molto meglio, tesoro, grazie.” Risposi fra le lacrime, piagnucolando come la bambina che ormai più non ero. “Sai, leggere questo libro mi ha aiutata davvero, e avevi ragione a dirlo, ma non capisco, come mi hai trovata?” risposi, per poi raccogliere le mie forze e il mio coraggio formulando l’unica domanda che fino a quell’istante non avevo mai lasciato uscire dalla mia mente e dal mio cuore. Improvvisamente in ansia, attesi una risposta che tardò ad arrivare, ma che alla fine riuscì a scaldarmi l’anima come poche cose al mondo. “L’amore è una bussola potente, Kaleia. Ogni volta che calmo la mente e fermo il cuore, questo mi riporta sempre da te.” Una risposta tanto chiara quanto sincera, e in altri termini, una rivelazione. Cogliendomi di sorpresa, un brivido mi corse lungo la schiena, e abbracciandolo ancora, azzardai nel baciarlo. Lasciandomi pazientemente fare, Christopher non si sottrasse al mio amore, e quando arrivò per entrambi il momento di separarsi e respirare, si alzò in piedi, tenendomi la mano. “Ti va di uscire?” propose, sorridendo leggermente e avendo come sempre cura di non andare contro la mia volontà. “Certo.” Soffiai, sentendo il corpo scosso da tremiti che non avevano nulla a che fare con la paura. Ne avevo avuta, e l’avevo provata più volte, ma non certo in quel momento, quando, afferrando la sua mano con rinnovata sicurezza, mi alzai. Imitandomi, anche Willow si ridestò dal suo sonno, e capendo che da lì a poco ce ne saremmo andati lasciandola da sola, miagolò in protesta, volgendo il supplichevole sguardo verso la porta e sfiorandola più volte con una zampa. “Permetti che venga?” azzardò il mio amato, come sempre fintamente sorpreso dai capricci della gatta. “Non vedo perché no.” Risposi, azzardando un ennesimo sorriso prima di aprire la porta. Decisa, ero ormai vicina a farlo, ma più veloce di me, Christopher scelse di fermarmi. “Lascia, faccio io.” Mi diede modo di capire, afferrando la maniglia e abbassandola lentamente. Colpita, arrossii lievemente di fronte a quel gesto di pura galanteria, e soltanto attimi dopo, ci ritrovammo insieme nella foresta. Il mattino era scomparso da poco, e al suo posto un magnifico tramonto ci illuminava entrambi, circondando i nostri corpi come un’aura. Respirando a fondo, mi sentii, libera, speciale e felice, e nonostante sapessi di osare nel dirlo, del tutto rinata. Ad essere sincera, non avrei davvero saputo spiegare il perché, ma con l’imbrunire a farsi sempre più vicino, sentivo allo stesso modo l’avvicinarsi di nuovi inizi. Ora che eravamo tornati insieme, io speravo in un avvenire tutto nostro, e conscia della vastità del verde che ci circondava, sognavo letteralmente ad occhi aperti, lasciandomi controllare dalle emozioni e dai sentimenti.“Adoro questo paesaggio! Non ti sembra che tutto sia possibile?” gli chiesi, muovendomi al suo fianco e trascinandolo con me nel camminare. Ridendo divertito, Christopher non fece che annuire, e perdendo l’equilibrio per un attimo, rischiò di cadere. La colpa fu mia, ma sorridendo nel riacquistarlo, lui decise di non badarci. Imbarazzato, non seppe cosa dire, e all’improvviso, il grido di un uccello in lontananza parve riportarlo alla realtà. Ebbra com’ero di felicità, quasi non mi accorsi di nulla, e fra un passo e l’altro, improvvisai una goffa e stramba danza, durante la  quale diedi altrettanto goffo sfoggio dei miei poteri, non riuscendo a fare altro che riempire il roseo cielo di luci color speranza. “Che stai facendo?” non potè evitare di chiedermi Christopher, immensamente divertito. Ignorandolo, rimasi concentrata sui miei divertimenti, trovando pace solo quando un secondo stridio squarciò il silenzio. “Per favore, calmati, ho una cosa da mostrarti.” Mi fece notare, sperando di riuscire a riportarmi alla calma e alla ragione. “Va bene, scusami, ero solo… felice, ecco.” Ammisi, tentando di espiare la mia colpa e tornare con i piedi per terra. “Comprensibile, piccola mia, ma ora seguimi, è importante.” Vengo.” Lasciai presto intendere, seguendo i suoi passi e sentendo appena quelli felpati della gatta fra la vegetazione. Insieme, Christopher ed io camminammo per quelle che mi parvero ore, e alla fine del viaggio, non credetti ai miei occhi. Unicamente concentrata sul percorso a me dinanzi, non mi ero affatto guardata intorno, e guidata da colui che amavo, raggiunsi presto la nostra meta comune, lasciandomi poi travolgere e bagnare da un vero e proprio fiume di ricordi. Era incredibile, eppure la marcia al suo fianco mi aveva ricondotta in un posto conosciuto, che mai, in nessuna circostanza avrei dimenticato. La radura. Sì, la radura. Il luogo per me più magico del mio intero mondo, sede del radicale cambiamento della mia vita e della mia esistenza, unicamente paragonabile al giorno in cui scoprii le mie parziali discendenze dal popolo  umano. “Christopher, ma questa è…” biascicai, lasciandomi vincere dalle emozioni e non riuscendo a terminare la frase, che come mille altre mi morì in gola. “La nostra selva, amore. Bentornata.” Rispose subito lui, finendo per me e mostrando per l’ennesima volta il sorriso pieno di luce di cui mi ero innamorata. Non riuscendo quasi a respirare, mossi un singolo passo nella sua direzione, e afferrandomi il polso, il mio amato annullò la distanza che ci separava, donandomi un nuovo bacio al quale non osai sottrarmi. Da quel momento in poi, la fretta divenne nostra consigliera, e abbracciati, ci abbandonammo alla dolcezza di quel contatto, mentre muta ma felice, desideravo che non avesse mai fine. Per pura sfortuna, il mio desiderio non si tramutò in realtà, ma in compenso, qualcos’altro accadde. Ancora una volta, i miei pensieri viaggiarono liberi, e fallendo nel tenere a freno la lingua, pronunciai l’unica frase della quale non avrei mai potuto pentirmi. “È tutto assolutamente fantastico. Potrei… potrei restare con te per sempre!” nulla di dissimile dalla confessione di una ragazza profondamente innamorata, ma in quel momento, il vero simbolo della purezza e della forza dell’amore che provavo per Christopher, e che di conseguenza mi legava a lui. Orgoglioso ed emozionato, mi ascoltò senza proferir parola, ma poi si decise, e in quieta adorazione, restai a guardarlo, come ipnotizzata. “Magari non qui, amore, ma… perché non per sempre, proprio come dici?” rispose, guardandomi con i veri occhi di chi ama. “Come? Chris… io non…” ebbi a la sola forza di dire, stordita e confusa. Senza dire nulla, il mio amato mi intimò mutamente di voltarmi, e fu allora che lo vidi. Il panorama da quel punto era magnifico, e alla vista di alcune piccole e sporadiche lucciole unite nella danza, mi sembrò di vivere un bellissimo deja vu. Fu allora che ricordai il nostro primo bacio, e con esso l’inizio del nostro grande amore. Poco dopo, un fruscio fra gli alberi poco distante mi mise paura, e voltandomi, mi accorsi della verità. Tutti i miei amici, uno dopo l’altro, tutti presenti per quel momento di grande gioia. Sky, Noah, Major, Lucy, Lune e i loro genitori, la sorella del mio amato, la mia stessa madre, e incredibilmente, anche gli animali a cui ero tanto affezionato e che nel rogo del bosco ero convinta di aver perso. Bucky e la sua compagna, Red con i suoi cuccioli e la propria dolce metà, perfino Ranger, Midnight e il piccolo Bandit. Un vero branco di fidi compagni, capaci di amare e dare amore. Nel buio che era sceso, notai la presenza di due figure che in tutta onestà non mi aspettai di trovare, e ultime, ma non per importanza, la mia amica Marisa e sua madre Zaria. Una apprendista, l’altra strega per mestiere, invitate a presenziare a quel momento. Stentavo a crederci, ma nell’euforia del momento, l’aria sembrava essere diventata elettrica, e fuori di me dalla gioia, mi voltai di nuovo verso colui che amavo, per poi comprendere finalmente la realtà della situazione. Emozionato come e più di prima, Christopher era ormai in ginocchio, e aveva con sé una piccola scatola al cui interno era custodito un anello. Sbalordita, trovai faticoso perfino respirare, e coprendomi la bocca con la mano, sperai ardentemente di non svenire. Seppur flebilmente, lo chiamai per nome, e in risposta, una frase che non dimenticherò finchè in me aleggerà un anelito di vita. “Kaleia, sei speciale. Sei la mia fata, la mia gioia, il mio sostegno e quanto di più bello la vita mi abbia dato. Ti amo, ed è per questo che desidero che i nostri destini rimangano uniti per sempre, ora e negli anni. Ho mosso mari e monti per te, per il nostro amore e per noi. Io ho già preso la mia decisione, ma vorresti sposarmi?” quelle le dolcissime parole del suo discorso, a cui ogni battito diede un senso perfino più profondo del normale. Ascoltando, mi sforzai di non piangere, ma fallendo nel mio intento, mi ritrovai in lacrime, che per una volta non furono figlie di una perpetua tristezza. Piangevo, piangevo e non riuscivo a parlare, ma tendendogli la mano, lasciai che tremando, mi infilasse l’anello. Attimi dopo, non fui capace che di annuire, e rialzandosi, Christopher mi strinse a sé, nell’abbraccio più forte, tenero e caldo che ci fossimo mai scambiati. Un casto bacio suggellò quella promessa d’amore, e versando calde lacrime, desiderai di poter restare stretta a lui per l’eternità. “Christopher, sei l’uomo della mia vita.” Sussurrai nel pianto, con il cuore a battermi impazzito nel petto e il respiro ancora irregolare. “Sei la fata della mia vita.” Mi rispose lui, calcando la voce su quella terza parola e baciandomi ancora, proprio lì e davanti a tutti. “E finchè vivrò, amore mio… sarai la fata della mia vita.” Concluse, parlando in un sussurro dolce e innamorato ma allo stesso tempo pieno di verità. Non riuscendo a pensare ad altro, mi concentrai sul futuro che presto avremmo avuto, capendo solo allora che quella non era una semplice frase, e che come i miei sogni, per noi significava tutto. Ad occhi chiusi, sentii la fresca brezza della sera fra i capelli, e in lontananza, un rumore mai sentito, come di zoccoli che colpivano ritmicamente il terreno. Seguendo lo sguardo di Christopher, lo fissai verso il buio della radura, e all’improvviso, su uno sfondo di sola erba, eccolo. Non un destriero qualsiasi, ma in tutto la sua regale magnificenza, uno splendido unicorno. Richiamato da qualcosa che non vidi, l’animale si voltò verso di noi, e alla mia vista, nitrì con fierezza. Notandolo perfino prima di me, Marisa lo indicò con un gesto della mano, e nel farlo, sorrise. “Avvicinati, non ti farà del male.” Sembrò dire, parlando con il solo uso dello sguardo. Titubando, presi la mano del mio amato sfiorando le sue dita, e non appena fui vicina abbastanza, il fianco dell’animale. Allietato da quel tocco, questo chiuse gli occhi, e con un secondo nitrito, diede luce al magico corno che aveva in testa. Brillando come e più delle stelle, rivelò nell’oscurità una strada diversa da quella del ritorno, e come per magia, la mia veste divenne un vero abito adatto a quella romantica occasione. La stessa sorte toccò al mio Christopher, e insieme, sulla groppa di quel maestoso animale, ci avviamo verso l’ignoto a noi dinanzi, non dimenticando di salutare ad uno ad uno quegli amici tanto fidati. Piena d’orgoglio, mia madre finì per commuoversi e piangere, e nonostante il trotto a cui il nostro destriero si era ormai abbandonato, potei giurare di riuscire a sentire la sua voce portata dal vento. “Buona fortuna, piccola mia!” un grido d’amore materno e speranza, corona di un giorno in cui aveva preso forma la promessa a me più grande.





Una buonasera e un augurio a tutti voi, miei cari lettori. Spero che abbiate passato un sereno Natale e che vi stiate godendo le sue ultime ore, come ho fatto e sto facendo anch'io. Come avete visto, questo trentacinquesimo capitolo chiude la seconda parte delle avventure della fata Kaleia, e quale occasione più gioiosa per lei del proprio matrimonio. Nessuna, conoscendola, o almeno per ora è così. Prima di andare, voglio ringraziarvi tutti indistintamente per il sostegno mostratomi, con la speranza di un Felice Anno Nuovo e di un prosieguo per questa saga, la cui terza parte sarà pubblicata solo al termine di una piccola raccolta a tema natalizio a cui lavoro, che ha come protagonisti fate e umani del bosco incantato. Ci rivedremo quindi nel 2019, perciò non temete, e ancora una volta grazie a tutti,


Emmastory :)

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