I rinnegati

di Le VAMP
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio – L’analisi ebbe inizio ***
Capitolo 2: *** Frustrazion d’uccidere (dalla “Storia del terrorista”) ***
Capitolo 3: *** Il peccato d'uguaglianza (dalla 'Storia della Dittatrice') ***
Capitolo 4: *** Così venne la condanna ***
Capitolo 5: *** Dannato sia chi ripudia il sacro atto di ribellione ***
Capitolo 6: *** Quei diavoli dei burocrati ***
Capitolo 7: *** La fustigazione divien diritto ***
Capitolo 8: *** Quale dolce cosa è la vendetta! ***
Capitolo 9: *** Il castello, il covo e il circo ***
Capitolo 10: *** Chi commette il torto, chi verrà castigato? ***
Capitolo 11: *** Ecco, allora, il doppio volto rivelato ***
Capitolo 12: *** Epilogo - Ad analisi conclusa, verdetto sul malanno ***



Capitolo 1
*** Preludio – L’analisi ebbe inizio ***


I rinnegati

Per qualche ragione, quello strano gatto nero volle risponder ai dubbi della giovane Goldia lasciandole lì vari fogli, sui quali vi eran trascritti i racconti diversi di due assassini: l’una comandava strane creature, l’altro invece conviveva sol con bende e cicatrici; ma per quanto poi spettasse reggia ad ella e squallore al falciatore, entrambi si credevano giudici di falsi innocenti. Dov’è allor la differenza tra un terrorista o un dittatore, mi direte, se ciascuno vuole spegnere sia il cervello, che la pulsazion del cuore?
Fu questo che la ragazzina scoprì, di volta in volta, nella sua lettura.

–Dagli studi di Goldia, impegnativi questi per comprendere la ragazza dalle temibili forbici, ecco Moge-ko & Isaac Foster a confronto: poiché terrorismo e dittatura, anarchia ed imposizione, in fondo appartengono alla stessa medaglia–

[“Per strada tante facce non hanno un bel colore, 
qui chi non terrorizza si ammala di terrore, 
c'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo, 
io sono d'un altro avviso, 
son bombarolo!”
Il bombarolo, Fabrizio De André, 1972]

Preludio – L’analisi ebbe inizio

Da giorni accadeva che non si sentisse la stessa.
Goldia, si sa bene conoscerla, era una di quelle ragazze dalla perfetta etichetta, ebbe già imparato da piccina ogni norma del galateo, che doveva seguir con sorrisi e buoni gesti delle mani; eppure da giorni, in quegli ultimi tempi, si sentiva una strana bile risalir dalle sue viscere.
Non sapeva spiegarsi perché avvenisse quel fenomeno a cui spesso cercava di dar poca importanza, ma accadeva nei momenti in cui più voleva scatenar la collera che non poteva rivelar, poiché sarebbe parso sconveniente farlo. Credeva che Harpae stesse facendo così un buon lavoro...cos’era andato storto? Cosa c’era che non andava in lei?
Ogni giorno, trattenersi dal voler vomitar parole velenose diveniva più arduo e complicato, e la giovane preferiva rinchiudersi a chiave e non uscir per ore, finché non tirava pugni al suo cuscino attendendo di calmarsi.
Allora ecco che quel pomeriggio cercava qualcosa da leggere, diretta presso la libreria della sua camera, mentre già gettava sguardi preoccupati per quei libri posti tanto in alto che avrebbe combinato bei guai per raggiungerli.
D’improvviso la finestra fu aperta da una folata di vento, spalancata rabbiosamente per poter permetter a vecchi fogli di penetrar nella stanza, e spargersi sul pavimento imponendolo come loro dimora.
Goldia, stupefatta, batté ciglia tre volte, prima di chinarsi verso quelle carte, e rendersi conto che vi era scritto qualcosa.
Tra le tante parole da decifrare, vi erano due fogli in particolare che tenevano due titoli in grande: l’uno era “Storia del Terrorista”, l’altro “Storia della Dittatrice”. Allora percepì un tintinnio dalla finestra aperta, e si voltò appena ricordandosi che doveva chiuderla: non lo fece.
Era perplessa e affascinata, chinò la testa per osservarlo diversamente: era uno strano gatto nero sul davanzale, con una campanella al collo, e gli occhi terribilmente gialli e stretti. Continuò per buon tempo a fissarlo, poiché per qualche ragion le ricordava lo strano ragazzo che parìa nei suoi sogni prima che divenissero incubi.
Che avesse dei padroni?
Solo quando questo se ne andò e rimase sola ebbe l’idea di dedicarsi finalmente a quelle storie; ma essendo lei maestra nell’aver doppi occhi, orecchie, e menti, non le fu difficile porre entrambe le storie al giudizio del proprio sguardo e legger in parallelo sia la storia dell’una che dell’altro.  

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Capitolo 2
*** Frustrazion d’uccidere (dalla “Storia del terrorista”) ***


Frustrazion d’uccidere (dalla “Storia del terrorista”)

Chi va dicendo in giro che odio il mio lavoro 
non sa con quanto amore mi dedico al tritolo, 
è quasi indipendente, ancora poche ore 
poi gli darò la voce 
il detonatore.

Cominciando con quello che fu un folle assassino, e che ora scappava lontano, in piena notte e con qualche stella in cielo, dalla prigione da cui era evaso: farabutto e parassita quale era occupava la strada; percorrendo senza permettersi un sospiro di più, tenendo con sé la falce che mai lo tradiva e dava retta alla sua ira; egli stava correndo verso la sua amica, che gli era amica come lo era della morte, che probabilmente in quel momento si stava struggendo poiché non sapeva o meno se commetter peccato.
E proprio quel preciso istante, al ricercato pluriomicida Foster venne alla mente il ricordo del suo primo omicidio commesso con delusione e rammarico: a proposito di quella giovane che gli aveva mentito.
Quella gli aveva mentito due volte: la prima, dicendogli che in realtà ella non aveva paura di lui; e la seconda, pretendendo ch’egli mentisse a se stesso! Cominciando a parlargli di presunti sensi di colpa –magari sperava di scampar la morte– e molte cose inutili: “In realtà non vuoi davvero commetterli questi delitti! Sei un’anima in pena Zack, sei un’anima in pena!”
Quante menzogne per una preghiera ad un assassino.
Così continuava, senza perder forze, a correre nel buio, e nella solitudine dei suoi stessi ricordi, mentre il freddo dell’inverno che era alle porte passava attraverso le sue bende, chiedendone il passaggio per poter raggelar le bollenti cicatrici.

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Capitolo 3
*** Il peccato d'uguaglianza (dalla 'Storia della Dittatrice') ***


Il peccato d’uguaglianza (dalla “Storia della Dittatrice”)

Il mio Pinocchio fragile parente artigianale 
di ordigni costruiti su scala industriale 
di me non farà mai un cavaliere del lavoro, 
io sono d'un'altra razza, 
son bombarolo!

Dopo che Yonaka la base ebbe rivelata al termine della sua lunga avventura, e lei, assieme agli altri, dal castello venne sfrattata e spolverata in un nulla dalle forze dell’ordine locali, Moge-ko s’era ridotta ad essere una comune fuggitiva, in una comune e noiosa società d’umani, come in quel momento scappava dalle divise della polizia che la stava cercando, e lei s’era vista costretta a vestir altri costumi, chinar la testa, e guardare i piedi delle persone.
Doveva confondersi assieme a loro, e quella situazione la fece star ad occhi sgranati e mascella contratta per tutta la mezz’ora –o forse più– che vi si trovò.
Quel pomeriggio era cocente, e picchiava in maniera uguale e conforme, analogo e imparziale, sulle teste di ciascun vivente.
Quelle scarpe, quelle schiene...quelle teste...
Si assomigliavano tutti.
Com’era terribile la società! Come le faceva tirar via due ciocche di capelli, in continuazione, essendo l’unica possibilità del suo sfogo, nel veder tanta conformità e omogeneità: non solo nulla era diverso dal castello dei mogeko, ma non aveva neppure alcun potere di trattar le cose a modo suo, e punire quella vomitevole uguaglianza!
Quelle nuove emozioni si imposero allora su di lei, il terrore derideva la cupa dittatrice che fu, buttando i suoi gloriosi ricordi nel fango, e la costrinsero a cercar un vicolo per sedersi in pace e prender fiato: non le fu difficile trovar un posto a sedere, un gradino di pietra, e non poté far a meno di non ricordare il momento in cui cominciò la sua ascesa alla gloria.
Loro erano tante ragazze, tanti esperimenti prodotti da quegli esserini disgustosi, su ognuna delle quali si sperimentava un ingrediente diverso perché apparissero carine e amabili ai loro occhi; ma con lei fu fatto un errore terribile: quando per errore del cemento le penetrò nel cuore nulla fu come avrebbero sperato.
Anzitutto ella guardava con diffidenza ciascun di loro, sia quando vedeva i loro rotondi capi gialli, e gli occhi sempre chiusi, che parlavan meglio delle loro bocche quando accennavano a strani giochi che avrebbero fatto assieme; e continuava a guardar sempre più perplessa i comportamenti delle altre coetanee, che le assomigliavano tutte, soprattutto dal punto di vista delle carinerie: tutte volevano essere come lei e amar dolci e giocattoli, colore rosa e strambi peluche; eppure ciò per cui la bionda giovane sapeva che non si sarebbe mai abbassata erano quei toni dolciastri e terribilmente acuti e striduli delle fanciulle quando quegli strani cosi –si dicevano chiamarsi tutti “mogeko”, ed erano tutti orribilmente uguali– si rinchiudevano nelle camere con loro, e lei era l’unica a non venir scelta: ma di questo in fondo era felice.
Coi giorni che passavano e ancora non riusciva a comprendere quale fosse il suo nome –veniva ignorata di continuo–, cominciava a divertirsi nel far ricerche e comprendere come risvegliare determinati poteri; e mancava poco per terminar tutti i libri a tali propositi –visto che quasi tutti gli scaffali tenevan tutte riviste poco caste e poco interessanti– e comprese la bellezza di tutte quelle abilità, così diverse, così speciali!
La sua gioia non durò a lungo, poiché un giorno di quelli, mentre consultava forse l’ultimo di quei manuali, venne dichiarata difettosa: avevano intenzione di gettarla via.
Dapprima la paura, poi una nuova collera s’impossessò della gola sua e la spinse a rider mentre indietreggiava: si fermò, e si prese il tempo necessario per goder di quella risata che veniva dal profondo delle sue viscere, e ciascun mogeko che si avvicinasse in quell’istante veniva spazzato via dalla sua scarpa violenta, o da un pugno, finché non la lasciarono fuggire, interdetti, gli odiosi esseri gialli.
Ella era scappata in cucina, pronta per derubarne un bel coltello, affilato e pericoloso, ch’avrebbe affettato qualunque tipo di carne –come quel prosciutto che dicevano d’amare–, ma soprattutto la loro carne.
Intanto uscì, e armata di coltello e di pura libertà cominciò a fare stragi: strappò delle orecchie, e ci preparò una fascia da indossare in testa, e poi ancora andò a cercar ognuna di quelle ridicole concubine nate dalla sua stessa argilla per poterle rispedir laddove erano nate: ridurre la carne a concime per la terra.
Ciascuno di quegli esseri tornava al loro sangue, e soltanto quando quegli sciocchi ne ebbero visto abbastanza disperso per tutto il castello –tra cui quello del loro re, profondamente ferito– decisero di rimaner fitti e in silenzio, accerchiandosi attorno ad ella disperati.
«Chiamatemi Moge-ko, attenzione a dirlo diversamente da voi! Acclamate la vostra regina!» e detto ciò ebbe sollevato la mano incriminata, calpestando cadaveri dei loro compagni.
Notando del silenzio, fu lesta ad ucciderne un altro di quelli; e allora ricevette feste e applausi quando lo richiedeva, agitando da gladiatrice la sua mano assassina.
Quel lato dolce e amabile, fatto di finzione, si sa, l’avrebbe mostrato solo per tentar di tenerli contenti; ma chi si sarebbe voluto battere, sarebbe stato severamente punito.
Oh, come l’amavano tutti! Unica, sola regina; spietata e crudele tiranna! E com’era caduta, ora! No, non si sarebbe divenuta una comunissima “umana”.

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Capitolo 4
*** Così venne la condanna ***


Araba Fenice Live 16 Il Bombarolo Omaggio a De André - Gatteo Concerto del 1° Maggio

Così venne la condanna

Nello scendere le scale ci metto più attenzione, 
sarebbe imperdonabile giustiziarmi sul portone 
proprio nel giorno in cui la decisione è mia 
sulla condanna a morte o l'amnistia.

In vita sua continuava a starsene da solo. Né alcun appoggio, né alcun tipo di sostegno, che fosse emotivo o meno Isaac era uno di quei giovani tutti d’un pezzo si sa, che potrebbero prender in mano zappe ed asce, e passar da professioni di città a talune di campagna: proprio per quello magari se ne stava senza troppi problemi in quel quartiere lontano dal caos della metropoli, tornato a viver coi cani, e con gli odori di terra marcia, nella stanza che aveva assistito alla crescita della sua ira contro il mondo rinnovata di continuo come le fasce che ripuliva da quelle vomitevoli croste.
Difatti era vero che appena usciti da quell’edificio degli orrori lei era stata portata via, al sicuro, mentre il suo destino...
Continuava a guardarla pur quando stava venendo trascinato via, senza alcun riguardo, senza alcun rispetto per quel volto anonimo e coperto da fasce che per anni aveva atterrito quelle strade.
L’avevano preso; dopotutto era un condannato a morte per tutti quei reati.
E del periodo passato dietro le sbarre non dovette nulla a nessuno: da solo nella cella, circondato da sbirri con manganelli alla mano per colpir a ogni passo falso.

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Capitolo 5
*** Dannato sia chi ripudia il sacro atto di ribellione ***


Dannato sia chi ripudia il sacro atto di ribellione

Per strada tante facce non hanno un bel colore, 
qui chi non terrorizza si ammala di terrore, 
c'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo, 
io sono d'un altro avviso, 
son bombarolo!

E chissà cosa sarebbe accaduto se non si fosse venduta alla più cruda follia pur di non sottostar a quelle discutibili regole.
Oh, non avrebbe potuto star tranquilla nemmeno in quel vicolo: pensando che potesse tornar tra quei volti a lei estranei e lasciar perdere ricordi che non avrebbe voluto ripescare s’apprestò allora a levarsi e partir in marcia per nascondersi nella folla, per tornare a divenir un volto come gli altri.
E quelle chiacchiere, quelle denigrazioni che sentiva sui suoi atti: loro invece avrebbero preferito restar a vivere in quelle condizioni?
No, nessuno sarebbe stato in grado d’esser un capo come lei. Nessuno si sarebbe difeso, e piuttosto li avrebbe visti bene tutti a divenir penose vittime delle bestie vergognose ch’ella invece aveva fieramente domato: non avevano diritto alcuno di giudicar le eroiche azione ch’aveva compiuto.

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Capitolo 6
*** Quei diavoli dei burocrati ***


Quei diavoli dei burocrati

Intellettuali d'oggi idioti di domani 
ridatemi il cervello che basta alle mie mani, 
profeti molto acrobati della rivoluzione 
oggi farò da me senza lezione.

Odiava molte cose quel giovane, tra cui sentirsi un idiota.
Chi tentava di prenderlo in giro per l’ignoranza che mostrava, quando le prime volte che cercava onesti prezzi d’affitto e li tiravano dinnanzi quelle scartoffie così strane, piene di parole di cui non si fidava: come se ne accorgevano quelli che non avrebbe potuto leggere i termini dell’accordo.
Pareva che fossero tutti coinvolti in un subdolo gioco di cui era la vittima, anche quando cercava, con tutta l’onesta che tanto amava, di procurarsi le medicine per le cicatrici, e vi trovava quelle istruzioni che lo deridevano, in quei segni tanto piccoli e poco decifrabili, per colpa delle quali ogni volta si ritrovava addosso più segni di prima –e come li avrebbe rimossi quelli?– che un giorno si limitò a bendare.
Nessuno l’avrebbe più deriso. Quando quel giorno ebbe commesso il suo primo furto –una chiara e larga felpa con cappuccio per il capo s’intende, nemmeno si trattasse di viveri– s’era promesso di non farsi beffeggiare, e nemmeno farsi guardare in volto: quella era una trappola con la quale quei vergognosi lettori delle menti smascheravano tutta la sua incapacità di firmar contratti e affrontar quel mondo di uomini d’ufficio e schifosi ricchi borghesi.
Quello era uno dei motivi per cui alla fine aveva accettato di buon grado l’insolita proposta che gli era stata fatta sull’occupazione del piano B6: nessuna firma, nessun contratto, e nessun burocrate, ma solo un’altra figura anonima e senza viso, come lui.
La verità era che a quel dannato orfanotrofio aveva imparato poco: spalare cadaveri aiutava a formar braccia forti e sane, ma non un gran cervello.
A quell’età non parlava molto con gli altri ragazzini, ma poteva comunicare con loro quando capitava che incrociasse lo sguardo con qualcuno, e entrambi poi dirigevano i loro occhi verso i muri cadenti, il pavimento che scricchiolava, e la furtività che si condivideva nel girar di notte senza farsi notar dai direttori!
Capitava che delle sere sentisse dalle camere degli altri –condividevano uno spazio comune a sua differenza, che rimaneva solo– lamentele sulle condizioni in cui si trovavano, e qualcuno cominciava perfino a parlar di una ribellione.
Ogni sera s’affacciava a quelle porte per sentir meglio, e sebbene si rifiutasse di aprirla e mostrarsi, per dar forma a quelle voci, comunque quei discorsi stavano a dargli una sorta di speranza.
Ascoltava con entusiasmo quanto veniva detto, ed ogni battito era figlio di una sola parola d'ira: l'ira di quegli altri alimentava il suo entusiasmo.
Poiché per una vita avrebbe pensato di ascoltar i soliti discorsi morti come l'anima indossata da quei mille corpi, l'uno uguale all'altro, tanto grigi.
Come quando aveva visto, dopo la ribellione fallita e le misere frustrate ricevute da quei poveracci, lo schermo bianco e pien di polvere riempirsi di sangue vischioso, e di risate dell'assassino.
Dannazione, come avrebbe voluto ridere a quel modo!
Ci provò, stette a provarci tutta la vita: non era mai riuscito ad ottenere un gran riso soddisfatto, e per questo si odiava. Si sentiva tutta la disperazione nelle sue risa; e per questo non avrebbe mai reso delle verità quelle sporche accuse della ragazza.
Era ben felice di distinguersi e portare a sé tutta l'attenzione, proprio come quell'assassino.
Questa era la Storia del Terrorista che ebbe visto morir compagni e poi vendicarli.
Questa era la Storia del Terrorista che prima di tutto vendicò se stesso, ben felice fu di vendicarsi di quegli orchi, crudeli uomini d’affari, ribaltando i loro cuori e le interiora, i loro fegati e cervelli che maciullò come loro ebbero fatto per troppi anni.
Questa era la Storia del Terrorista che angosciava i ben pensanti e gli istruiti, caste che non avrebbe mai raggiunto.
Questa era la Storia di un Rinnegato.

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Capitolo 7
*** La fustigazione divien diritto ***


La fustigazione divien diritto

Vi scoverò i nemici per voi così distanti 
e dopo averli uccisi sarò fra i latitanti 
ma finché li cerco io i latitanti sono loro, 
ho scelto un'altra scuola, 
son bombarolo!

“Che crudeltà!” si sentiva dire, “crocifiggere degli esseri viventi!”
In verità quelle parole le aveva ascoltate molto prima di quell’umiliante declino.
Quando ancora governava, in realtà ben più magnanima di quanto quegli esseri disgustosi potessero meritare –e lo faceva tutto per loro, per apparir una credibile paladina agli occhi di quelle pupattole–, ebbe ascoltato tante di quelle opinioni contro il suo operato, che udire un nuovo disdegno da parte di quel mogeko difettoso e da Yonaka non le sortì stupore, o tristezza, o altra reazion possibile, ma curiosità.
Lei, quella Yonaka, non era certo seguita da mille esseri gialli fino a qualche momento fa, come lo erano state tante ragazze prima di lei?
Quello, dicevamo, era uno dei tanti dissensi, così aveva bisogno di riaffermar le sue certezze perché forse stavano iniziando a crollare: se n’era resa conto quando ancora non sapeva quale sarebbe stato il destino che avrebbe propinato a quei due.
Così s’era ritirata nella sua camera per lungo tempo, offrendo agli intrusi di vagar liberamente nel castello –quanto era generosa!– e cercò, nei più profondi e oscuri angoli, certi libri che nessuno avrebbe mai immaginato leggere –e così sarebbe dovuto rimaner segreto, o non avrebbe più ricevuto appoggi da quei cosi che volevano le figliuole ignoranti, e lei sebben con spada e sangue, doveva mantener buoni certuni, o tutti le si sarebbero rivoltati contro–; qualcosa in realtà di diverso e nuovo a differenza di quei libri tutti uguali esposti negli scaffali: chimica e biologia, letteratura d’ogni lingua e d’ogni segno; e poi, in particolare, la storia. Quella passione nascente delle guerre che venivano raccontate, e cosa se ne formava nel mezzo...
C'era un capitolo in particolar molto studiato, pieno di tracce di matita: era quello sul totalitarismo, e dittature.
Tutti loro, quei popoli, avevano ben scelto i loro capi, che si erano espressi per manifestar i loro dissensi e disagi e portare risoluzione ai loro problemi: ecco, quello magari era l’unico elemento di distacco rispetto agli altri suoi grandi idoli, poiché le sue gesta venivano dalla stessa ribellione di un singolo individuo; eppure sapeva di agire nel nome di quelle giovani segregate lì dentro in tutti quegli anni, e di far anche il loro bene, e per questo si sentiva in diritto d’uccidere gli esseri gialli, e distruggere dall’interno quella svergognata popolazione.
Non avrebbero mai capito quel tranello, che idioti! Pensarlo la fece ridere, e quelle risate poi la portarono coi ricordi alle altre giovani, quelle inseguite e torturate, come era stato nei tempi andati.
Quelle erano eccezioni però! Erano quelle che non lo capivano il suo atto, atto che avrebbe dovuto favorirle. Erano scontente, ipocrite sciocche!
Perché, se i nemici del Führer e di tutti gli ariani erano gli ebrei, quelli delle ragazze delle superiori non dovevano essere i mogeko? La sua era una vendetta più che giustificata!
In memoria di quelle selezionate e scelte come vacche per il macello, in memoria di quelle notti insonni fatti di risvegli e orrendi suoni, in memoria di quei libri che a loro avevano nascosto, e di quelle punizioni corporali e tremende che ricevevano se non rispondevano ai gusti degli orridi esseri gialli.
In memoria di ciò aveva ucciso, in memoria di ciò aveva finto da una parte le carinerie con cui non si riconosceva più, in memoria di ciò cercava di piacer a tutti, eppure non ci riusciva. Aveva dato tutto per tutti.
Quella che ora la criticava –e i dissensi rallentavano le procedure, creavano disagi, rovinavano tutto– necessitava d’esser punita, perché senza il suo potere ora Yonaka avrebbe posto fine molto prima alla sua vita: così ebbe deciso la sua sorte.
E quando quella volta li aveva raggiunti, con gli sguardi l’una perplessa e l’altro angosciato, da quelle dannate parole: “che carine che siete voi, ragazze delle superiori!” aveva dato inizio alla sua farsa. Grande attrice, magnanima tiranna, paladina delle giovani, e nemica di quelle che abiuravano l’insurrezione stessa.
Questa era la Storia della Dittatrice, che spesso andava contro chi voleva ella stessa proteggere.
Questa era la Storia della Dittatrice, tanto poi che si appassionò a quella fanciulla che in realtà aveva fegato da vendere, fiera e decisa, per la quale Moge-ko avrebbe contradetto la Ribellione a cui invece credeva di rivolgersi, sua stessa dea, per privarle di dignità come quegli esseri schifosi gialli tentarono di far con lei, se solo non fosse fuggita dalle sue mani!
Questa era la Storia della Dittatrice, che tanto si era venduta, alla fine, per gli altri che in un modo o l’altro la disprezzavano, che non riusciva più a scovar il suo stesso animo.
Questa era la Storia di una Rinnegata.

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Capitolo 8
*** Quale dolce cosa è la vendetta! ***


Quale dolce cosa è la vendetta!

Potere troppe volte delegato ad altre mani, 
sganciato e restituitoci dai tuoi aeroplani, 
io vengo a restituirti un po' del tuo terrore 
del tuo disordine 
del tuo rumore.

Legger quelle tristi storie le portò alla mente un terribile ricordo: la prima volta che ebbe gran paura di lei fu durante una delle sue visite.
Goldia era una dei pochi pazienti che potevano tranquillamente rimaner nella propria dimora, sotto la protezione del focolare famigliare, a differenza di quegli altri disgraziati che come carcerati passavano i loro giorni dietro le sbarre, legati a quei sudici letti che Fleta disprezzava, su cui avrebbe sputato sopra.
L’ultima volta che poté starsene sola coi suoi pensieri era sicura d’essersi addormentata, in attesa che arrivasse il suo turno per la cura con l’elettroshock; quello doveva essere il suo ultimo giorno per quel mese. Ma qualcosa era andato storto.
Pareva che in realtà l’avessero condotta lì, nella sala operatoria, pronti a procedere –avvenimento di cui non aveva memoria– ma, dopo la prima scossa, ella avesse urlato. Preoccupati per l’esito di quell’operazione, sicuri che la causa di quella reazione fosse lei, avevano rafforzato le misure di sicurezza.
Non si trattavano di semplici urla di dolore –per quello c’erano le precauzioni prese dai medici s’intende–, bensì l’ira impetuosa voleva prevalere sulla pacatezza di quell’ambiente, di quei dottori; e dopo la seconda, risultava che Goldia si fosse liberata, imponendo invece quei congegni ad uno di loro, e poi attivar delle scariche potenti.
Quale orrore che si prestava al suo sguardo innocente! Quell’uomo, pieno di convulsioni, e la propria bocca ch’invece stava ridendo!
Ma quale mostro era diventata; perché stava ridendo così, con quell’isteria?

Ed era chiaro a tutti che quel poveraccio, senza alcun anestetico o precauzione presa, fosse destinato alla morte.
Fleta sapeva che la colpa sarebbe stata attribuita a lei, come accadeva sempre. I genitori di Goldia l’avrebbero sgridata.
Non poteva accadere! Non quella volta che avevano commesso un omicidio. Non quella volta.

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Capitolo 9
*** Il castello, il covo e il circo ***


Il castello, il covo e il circo

Così pensava forte un trentenne disperato 
se non del tutto giusto quasi niente sbagliato, 
cercando il luogo idoneo adatto al suo tritolo, 
insomma il posto degno d'un bombarolo.

Aveva alla mente quell’episodio, la giovane Goldia, poiché nella lettura si parlava di due luoghi che si dicevano essere la dimora dei due personaggi: per una si trattava di un castello in cui questa poteva esser regina; e l’altro che invece si trattava di un re solitario, padrone della propria solitudine ed intelligenza, che si rifugiava nell’oscurità di un covo per le strade cittadine.
Sì, era proprio quel termine ad inquietarla molto: il “covo”.
Comprendeva solo ora il motivo per cui quel gatto nero s’era andato a impicciare dei suoi affari: quello voleva farle tenere a mente del circo.
Si trattava di sogni belli e pericolosi, tramutati in incubi, e in cui la realtà nella quale si risvegliava appariva più spaventosa: magari la notte sognava un pagliaccio che girava con una ruota e faceva rotear la frutta in aria, e quando si risvegliava ritrovava poi in cucina, in pieno giorno, nella cucina messa a soqquadro, e coi membri della sua famiglia che la guardavano angosciati.
Sicuramente l’episodio peggiore tra quelli era il lanciatore di coltelli. Quando i genitori l’avevano scoperta che rischiava di ferire gravemente il suo fratellino; oh, da lì erano cominciati seri controlli.
La prima volta che aveva provato l’elettroterapia...già, aveva rimosso quell’esperienza. Si trattava di una periodo in cui ancora non era uso comune usare certi anestetici, quelli erano venuti qualche anno dopo.
Le poche cose che ricordava riguardavano entrambe il terrore: da una parte i suoi brividi, affanno ai polmoni che la facevano respirar male e l’angoscia di tutte quelle persone che le stavano attorno, quello strano affare che le avevano ficcato in bocca; dall’altra il tremore e le lacrime di sua padre e suo padre che volevano starle affianco. Quella fu l’unica volta in cui furono rimasti con lei, a tenerle le mani. Poi, era arrivata.[1]
Non avrebbe mai voluto sviluppare quel covo per il mostro. Era stata colpa sua.
Strappando quelle pagine, allora, ai suoi muscoli tornò memoria di quegli spasmi, e questi le tornarono quando andò a pianger sul suo letto.
Se solo non fosse mai esistita Lisette, quella pazza criminale!

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Capitolo 10
*** Chi commette il torto, chi verrà castigato? ***


Chi commette il torto, chi verrà castigato?

C'è chi lo vide ridere davanti al Parlamento 
aspettando l'esplosione che provasse il suo talento, 
c'è chi lo vide piangere un torrente di vocali 
vedendo esplodere un chiosco di giornali.

Le folli risa erano nel frattempo divenute sempre più forti finché la voce non fu esaurita, e allora dovette lasciar il posto a qualcun altro.  
Quello stesso pomeriggio, dopo il decesso del dottore, Goldia si era strappata i capelli e inginocchiata addolorata a terra non appena il cadavere ebbe smesso di esser vittima delle ultime scariche.
C’era una voce disperata ora a parlar per lei, dai toni così adulti e rancorosi che pareva, nemmeno in quel momento, esser tornata in sé.
«Perché l’hai fatto, Lisette?» urlava la megera dai mille volti «Ci saremmo ricongiunte a lei, stupida ingrata! Adesso vedrai come ci puniranno!» e così continuò a batter i pugni, così piena di frustrazione e indignazione che quel corpo non riuscì a sostenerla per molto, e poi si ritrovò col viso a terra.

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Capitolo 11
*** Ecco, allora, il doppio volto rivelato ***


Ecco, allora, il doppio volto rivelato

Ma ciò che lo ferì profondamente nell'orgoglio 
fu l'immagine di lei che si sporgeva da ogni foglio 
lontana dal ridicolo in cui lo lasciò solo, 
ma in prima pagina 
col bombarolo.

Dopo la sua tremenda azione Lisette si era risvegliata quella sera stessa.
Avevano deciso, per precauzione, di tenerla al sicuro con una camicia di forza a causa del grave incidente che si era verificato. Per caso c’erano due medici a discutere quatti vicino alla sua cella, pensavano che dormisse ancora, ed era riuscita ad identificare il volto fotografato nella cartella clinica che uno portava sottobraccio: era sempre lei ad apparire. Non si riconosceva in quella!
Perché a lei, che comandava tutte loro, doveva spettare il controllo?. Lì, vicino alla foto, c’era un solo nome: “Goldia Barkin”[1].
Aveva combattuto la crudele macchina mangia teste, ma non bastava! Vedeva ancora lei; continuava a prender finti meriti, e non era giusto!
Ah, continuava a rinnegarla, maledetta!
Continuava a rinnegarla!


[1] Cognome assegnato arbitrariamente nel racconto

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Capitolo 12
*** Epilogo - Ad analisi conclusa, verdetto sul malanno ***


Epilogo – Ad analisi conclusa, verdetto sul malanno 

Quel gatto che tentava, da secoli infiniti, di far ragionar umano e propria ombra. Non ci provava davvero, era solo una possibilità che voleva donare a quei poveri mentecatti, ma ogni volta fallivano miseramente.
Ciò che mancava era la volontà di osservare con raziocinio ciò che accadeva nelle loro menti complesse, egli lo sapeva bene, ma non voleva rivelare la soluzione: sarebbe stato un danno al suo appetito!
Nel frattempo, quindi, si era rivolto, ancora quella volta, alla sua strega che stentava a morire; e che ormai passati due secoli da quando derubò quel corpo mortale, continuava a diffondersi da malattia letale come piccolo batterio per viver più a lungo in altri corpi: i patti erano sempre i medesimi.
Le istruzioni, ancora, di solite maniere, ma questa volta con più entusiasmo:
«Vai e prendi quelle anime per me, ne son troppe per un corpo solo!»
«Non far l’ingordo, stupido gatto»
Ed un ghigno si levò, bianco e tagliente come la mezzaluna nel ciel notturno.


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Approfondimenti:

Spiegazione “Il bombarolo” – Yahoo Answers

Per comprendere a fondo il significato del brano "Il bombarolo" bisogna contestualizzarlo nell'album di appartenenza, ovvero "Storia di un impiegato" del 1973. 
Come in molti casi accade per gli album di Fabrizio de André "Storia di un impiegato" è un concept album. Ciò vuol dire che le canzoni dell'album sono legate ed accomunate da un concetto, un idea comune che rappresenta il tema portante dell'album. Nel caso di Storia di un impiegato poi, risulta ancor più importante in quanto brano dopo brano il personaggio subisce un cambiamento, una maturazione che lo porta ad effettuare delle scelte anziché altre. 
La tracklist è questa: 

1.Introduzione 
2.Canzone del Maggio 
3.La bomba in testa 
4.Al ballo mascherato 
5.Sogno numero due 
6.Canzone del padre 
7.Il bombarolo 
8.Verranno a chiederti del nostro amore 
9.Nella mia ora di libertà 

Il tema centrale è la rivolta giovanile che si ebbe a Parigi nel Maggio del 1968. Questa però viene utilizzata come spunto per raccontare un’altra storia, quella dell'impiegato che ascoltando "La canzone del Maggio", (l'album si apre con un introduzione breve sui "cuccioli del Maggio" ovvero i rivoltosi francesi e subito dopo parte la Canzone del Maggio, che è un adattamento dei canti dei rivoltosi. Il testo è una traduzione dal francese.), viene a conoscenza degli avvenimenti accaduti qualche anno prima in Francia. 
Nel terzo brano l'impiegato comincia a riflettere su quale fosse stato il motivo che aveva spinto quei suoi coetanei alla rivolta. Egli inizialmente si distacca dai ragazzi francesi "Ed io contavo i denti ai francobolli, dicevo "Grazie a Dio", "Buon Natale", mi sentivo normale...", li definisce ingrati del benessere... 
poi però "E io ho la faccia usata dal buon senso, ripeto "Non vogliamoci del male" e non mi sento normale e mi sorprendo ancora a misurarmi su di loro, ma adesso e tardi adesso torno a lavoro" 

A quel punto l'impiegato capisce che è proprio quello che lui credeva la normalità che aveva spinto gli ingrati alla rivolta: il perbenismo, i luoghi comuni, la quotidianità delle azioni, la noia...la libertà, quella che l'impiegato si era accorto di non avere. 
Li ammira per il coraggio, quello che lui non ha avuto, si rende conto che ormai è tardi per aggregarsi a loro e decide così di fare tutto da solo, mettendo una bomba ad un ballo mascherato, dove sono presenti solo uomini e donne borghesi, rappresentanti di quel bigottismo al quale era diventato insofferente. 
Si addormenta e fa tre sogni, raccontati nel 4°, 5° e 6° brano. 
Nel primo sogna il ballo a cui lui avrebbe messo la bomba, dove sono presenti illustri personaggi della storia: Cristo, Nobel, la Madonna, Edipo, Dante, l'ammiraglio Nelson ma soprattutto i suoi genitori, rappresentanti supremi del mondo perbenista che lo circondava, coloro che lo avevano educato a quello nel rispetto della morale cristiano-borghese. Senza pietà li ammazza tutti con la bomba ed alla fine si distacca anche da colui che gli ha insegnato "il come si fa" intraprendendo una strada fortemente individualista che caratterizzerà le scelte del bombarolo fino alla fine. 
Il secondo sogno racconta quello che lui sogna essere il processo dopo la strage del ballo. Inaspettatamente il giudice gli svela che in realtà egli non era che una pedina del potere costituito, che lo avevano osservato in ogni momento e lo avevano quasi aiutato a favorire il potere uccidendo "i soci vitalizi del potere ammucchiati in discesa a difesa della loro celebrazione". Il giudice quindi lo premia assolvendolo, chiedendogli se vuole essere assolto o condannato. 
Il terzo sogno può essere considerato una continuazione del primo. 
L'impiegato-bombarolo si trova al cospetto di colui che deve integrarlo nuovamente in società. Come inizio gli offre il posto di lavoro che era del padre dell'impiegato, che lo stesso aveva ammazzato. "Non dovrai che restare sul ponte e guardare le altre navi passare, le più piccole dirigile al fiume, le più grandi sanno già dove andare." Ovviamente la metafora è semplice, l'impiegato, nonostante il suo gesto si ritrova punto e da capo, ricondotto in un mondo che lui stesso aveva rifiutato dove ritrova personaggi inquietanti come Berto, il figlio della lavandaia, morto arrugginito a forza di piangersi addosso, la moglie con cui non va più d'accordo e che lui crede lo tradisca con un uomo più magro di lui e l'ultimo figlio, il meno voluto, caduto nel tunnel della droga. 
L'impiegato a questo punto comprende che il suo obbiettivo era sbagliato, non deve colpire i borghesi ma il potere in quanto è il potere stesso a voler lasciare tutto com'è. 
E così l'impiegato si sveglia meditando un attacco terroristico al parlamento. 
Veniamo quindi al brano "Il bombarolo". 
Nel brano l'impiegato, ormai completato il lavoro, paragonandosi a Mastro Geppetto, si prepara all'attentato, da solo, in pieno stile individualista "profeti molto acrobati della rivoluzione, oggi farò da me senza lezione". Ma proprio quando sembrava andare
a buon fine la bomba scoppia nel posto sbagliato. Lui viene così arrestato, ma quel che più lo ferisce è vedere lei, la sua ragazza, in prima pagina con lui, dal quale aveva preso le distanze e che pur di apparire sul giornale era pronta a tutto, anche a ridicolizzarlo. 
Il brano "Verranno a chiederti del nostro amore" è una lettera scritta dal bombarolo a lei dove la accusa di non averlo amato davvero, di averlo tradito, di restare al centro dell'attenzione solo per apparire. Le chiede di non lasciar andar via a caso le parole nelle dichiarazioni, le chiede di raccontare tutto di loro dei tradimenti a vicenda perché possano capire quali erano i suoi sentimenti e cosa lo ha spinto ad agire. Non c'è pentimento però e l'individualismo che lo spinge non cessa. Ma alla fine, "Nella mia ora di libertà", egli capisce che l'unico modo per vincere davvero contro il potere è quello di agire in massa e lo capisce solo una volta entrato in carcere dove si confronta con gli altri e matura definitivamente. L'album si chiude con la frase più graffiante della canzone del Maggio: "Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti." 

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