And then I found you

di merty_chan11
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Fall ***
Capitolo 2: *** Through the dark ***
Capitolo 3: *** Eskimo kiss ***
Capitolo 4: *** Truth ***



Capitolo 1
*** The Fall ***


Day 4: No prompt 
Avvertenze: Spoiler sesta stagione




 
The Fall



-Perché continuo a perderti?
La voce di Keith giunse spezzata alle sue orecchie, stravolta dai singhiozzi.
Non era quella la piega che la conversazione avrebbe dovuto prendere. 
Stavano ridendo, all’inizio. Shiro aveva aperto il discorso con una delle sue solite battute con lo scopo di sdrammatizzare, e poco tempo era passato prima che entrambi fossero scoppiati a ridere. Nonostante tutto, erano ancora capaci di scherzare. Scherzare su tutto ciò che la vita aveva loro offerto, ormai convinti di aver valicato l’impossibile. 
Ormai certi che nulla potesse più sfiorarli.
Eppure, tra le risa erano sopraggiunte le lacrime.
Erano state come un temporale estivo. Inaspettato, capace di rendere tristi e delusi perché abituati alla presenza del sole come una costante. Era un universo ricco di variabili, il suo. Ma Shiro aveva cercato di ignorarle, di farle passare in secondo piano allo stesso modo dei suoi traumi, relegandole in un angolo della sua mente e convincendosi che tutto sarebbe stato sotto il suo controllo. Non aveva ancora imparato. 
Le lacrime avevano iniziato a cadere copiose lungo le guance di Keith, illuminando in maniera spettrale la sua nuova cicatrice. Cicatrice che lui stesso gli aveva procurato, e che pareva il letto di un fiume colmo di quelle lacrime che ne seguivano il corso.
Cadevano, cadevano e cadevano, come se fossero foglie d’autunno impotenti contro l’arrivo dell’inverno. Cadevano perché non potevano opporsi al freddo. Cadevano perché non potevano opporsi al dolore.
Shiro non aveva avuto il coraggio di fare alcun passo, all’inizio. Il loro materasso di fortuna pareva ora fatto di spine. 
Era seduto accanto a Keith e sentiva il corpo dell’altro abbattersi ad ogni singhiozzo come un albero scosso da un fulmine. Vedeva le sue spalle cedere sotto il peso di quel pianto.
Era straziante, il suono disperato prodotto da quelle lacrime, trattenute per chissà quanto tempo.
Shiro aveva creduto di aver ormai raggiunto da un pezzo il fondo dell’abisso in cui era precipitato. L’incidente della missione Kerberos, unito alla sua schiavitù e alla sua morte erano stati soltanto i principali sconvolgimenti della sua vita, troppi perfino per chi aveva la fortuna di raggiungere i cento anni. Non aveva mai considerato che in quella caduta non sarebbe stato solo, che sarebbe stato seguito. Non aveva mai pensato a chi, da lontano, avrebbe cercato di tendere una mano per raggiungerlo, anche se lo sforzo si sarebbe dimostrato vano. Perché il suo salvatore avrebbe incontrato un limite, prima o poi, limite dopo il quale lui avrebbe continuato a precipitare mentre le urla disperate di chi rimaneva indietro sarebbero giunte come echi distanti. 
Echi distanti che rendevano lo schianto con il fondo peggiore. 
Echi sempre preceduti dal boato di un cuore che si spezzava.
Non era mai stato sfiorato dal pensiero che la sua caduta sarebbe potuta cominciare una seconda volta. 
E una terza. 
E una quarta. 
E chissà quante altre, ancora.
Shiro si voltò verso l'altro, tentando di abbozzare quello che sembrava un abbraccio. Non gli riusciva bene con un solo arto, ma era tutto il supporto che, per il momento, poteva dare.
Prima che potesse anche solo formulare una frase, sentì Keith aggrapparsi a lui senza esitazione e stringerlo con forza. 
A Shiro non sfuggì la sua presa divenire sempre più salda e disperata dopo ogni secondo che passava, o l’impeto con cui le sue lacrime continuavano a cadere. O ancora, il modo in cui il suo corpo veniva scosso dai singhiozzi, come se dentro di lui avesse avuto inizio un magnitudo mai destinato a finire.
C’era sempre stato, forse. Un terremoto di piccola intensità, il tanto necessario adatto a scuotere delicatamente gli oggetti sulle mensole e di cui non ti curi perché talmente abituato a vederli tremare che ormai l’anormale diventa quotidiano. Ma i valori non possono nulla se non continuare ad aumentare, e le fondamenta cedono impotenti contro il lamento della terra. Contro il lamento del proprio cuore. 
Prima si formano le fratture, e in un battito di ciglia tutto crolla.
Keith era spezzato. 
Lo sapeva, lo vedeva. 
Quella caduta aveva generato troppi danni, e Shiro mai avrebbe pensato che Keith avrebbe avuto la forza di seguirlo fino a quel punto, nell’abisso in cui la luce non poteva giungere.
Shiro non seppe come rispondere, quel giorno. 
Forse non era nemmeno necessaria, una risposta. Keith non aveva bisogno di promesse vuote e impossibili da mantenere, perché avrebbero soltanto ridotto il suo cuore già infranto a un grumo di polvere.
Era più necessaria la sua stretta, insieme alla sua mano maldestra che tentava di calmare l’altro disegnando piccoli cerchi sulla schiena. Era più necessaria la sua voce, dolce e simile a un sussurro, che canticchiava una vecchia ninna nanna giapponese capace di tranquillizzarlo dopo gli incubi.
Perché era quello ciò che stavano vivendo. Un incubo a occhi aperti, in cui entrambi continuavano a cadere senza sosta verso un’oscurità che minacciava di intrappolarli per sempre nella sua morsa.
Shiro avrebbe voluto rassicurarlo. Dirgli che non l’avrebbe più perso.
Ma nemmeno lui era certo che la sua caduta si potesse fermare.









N.d.A.
Salve a tutti!
È da poco iniziato lo Sheith Month e ci tenevo a scrivere qualcosina su di loro ;_; Cercherò di non concentrarmi troppo sull'angst, ma dopo tutto il trambusto della s6 questa one-shot era d'obbligo.
Grazie per essere arrivati fino a qui, spero che vi sia piaciuta!
A presto
Merty
 

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Capitolo 2
*** Through the dark ***


Day 8: Save me
Avvertenze: Spoiler sesta stagione


 

Through the dark



Una persona può essere salvata in tanti modi.

Keith questo lo sapeva. 

L’aveva letto nelle tante fiabe che avevano accompagnato la sua triste infanzia, e l’aveva visto nei pochi cartoni animati che all’orfanotrofio gli permettevano di guardare.

Era sempre il fulcro della storia, il salvataggio di qualcuno. Come se la vicenda non potesse in realtà concentrarsi su altri temi, quasi fosse necessario rassicurare i bambini che prima o poi sarebbero stati salvati. Non importava in quale circostanza o situazione. Qualcuno sarebbe giunto dinanzi a loro e avrebbe teso la mano, portandoli via da quella landa desolata che era la vita.

Come se, nella realtà, ci fosse davvero qualcuno disposto sciogliere una maledizione o a sconfiggere draghi alti quanto un grattacielo per salvare una persona appena conosciuta.

Era questo il problema che Keith aveva sempre riscontrato in quei racconti.

Il salvataggio avveniva sempre in maniera così magica e irreale da fargli già comprendere che mai nessuno sarebbe venuto a risollevarlo da terra. 

Nella realtà, nessuno si occupa di bambini problematici. Men che meno a farlo è un principe o una principessa che può avere accanto molto, molto più di un reietto della società. 

Almeno, questo era ciò che pensava all’epoca. Questo era ciò di cui aveva iniziato a convincersi giorno per giorno, mentre gli altri bambini lo tagliavano fuori da qualsiasi gioco e lo stare nelle famiglie adottive diventava sempre più problematico.

Ripensandoci, però, neanche a distanza di anni Keith avrebbe mai potuto prevedere che il suo, di salvataggio, sarebbe avvenuto in maniera quasi banale, in un modo che sarebbe passato inosservato di fronte a occhi indiscreti e poco attenti. 

Ma non di fronte ai suoi. Il suo sguardo sarebbe stato subito in grado di captarlo. Ma la mente e il cuore avrebbero necessitato di più tempo per processarlo.

C’era stato l’arrivo di un ragazzo, all’inizio, un ragazzo che con voce carica e solenne aveva preso a parlare di pianeti, stelle e di luoghi mai esplorati. Un ragazzo che si rivolgeva alla sua classe con gioia e chiedeva di prendere parte a queste avventure. Voleva che tutti lo seguissero in quelle lande desolate che descriveva con sguardo luccicante, dove solo il silenzio regnava sovrano. Era strano, vederlo così appassionato. Era strano vedere i suoi occhi che brillavano con la stessa intensità delle stelle del cielo.

Keith ci aveva creduto, per un istante. Gli era sempre piaciuto lo spazio e ciò che aveva da offrire. Gli era sempre parso che lo chiamasse, certe volte, specialmente quando dormire era troppo difficile e la tristezza prendeva il sopravvento. Sapeva più di casa il cosmo infinito che la piccola Terra dove non era benvoluto.

Keith avrebbe voluto parlargli. Avvicinarsi a lui. Ma il ragazzo era stato subito sommerso da una folla di adolescenti in estasi, e Keith aveva dovuto riprendere a osservare fuori dalla finestra.

Forse non era lui, la persona giusta.

Forse aveva troppa oscurità, dentro di sé, perché quella luce accecante potesse raggiungerlo.

E di nuovo, a distanza di anni, Keith non avrebbe potuto prevedere nemmeno quello che accadde in seguito.

Aveva rinunciato a quel ragazzo, e al suo sorriso, e al suo incantare gli altri con le parole. Ma lui sembrava non avesse alcuna intenzione di seguire il suo pensiero. Qualcosa aveva cominciato a cambiare. 

Keith aveva sentito la sua barriera crollare, ma era stato un processo così lento e impercettibile al momento, al punto che se ne rese conto troppo tardi.

Il primo pezzo era caduto semplicemente venendo a conoscenza del suo nome.

Shiro, aveva detto di chiamarsi. Anzi, quello era il suo soprannome. Il suo nome completo era in realtà molto più lungo, ma a Keith non aveva importato, all’inizio. 

Shiro non gli piaceva.

Troppo gentile, troppo disponibile, ben voluto da tutti. Troppo perfetto.

Era il suo esatto contrario. 

Guardando Shiro, chiunque avrebbe detto che quel ragazzo aveva di fronte a sé un brillante futuro.

Una carriera leggendaria.

Guardando Keith, chiunque avrebbe conferito che quel marmocchio avrebbe procurato soltanto guai. 

Una vita di stenti.

Ma Keith non era riuscito a separarsi da Shiro. Non aveva potuto. Era come se tutto il suo essere, se la sua intera anima avesse cominciato a reclamare quelle chiacchierate, quegli incontri trascorsi per lo più ad osservare il sole che spariva dietro le montagne. 

Quei piccoli gesti l’avevano fatto sentire bene, protetto. Come quando bevi una bella tazza di cioccolata calda sotto le coperte, mentre fuori il cielo tuona e la pioggia cade incessante sull’asfalto.

Era piacevole, quel calore. Era piacevole allo stesso modo di quell’inaspettata gentilezza.

Il secondo pezzo era crollato durante la loro prima gita in moto.

Shiro aveva lanciato le chiavi in aria, che lui prontamente aveva afferrato. Sulle prime, non aveva saputo come reagire. Si era sempre più convinto che Shiro fosse un pazzo soltanto per il fatto di voler stare ancora con lui. E ora gli stava perfino dando il permesso di volare, dopo aver visto semplicemente una sua prestazione nel simulatore.

Matto.

Fuori di testa,

Ma il desiderio di libertà aveva preso il sopravvento, e Keith non aveva commentato. Aveva tenuto le sue considerazioni per sé, convincendosi sempre più che Shiro non fosse in realtà così male.

Tutto in lui stava iniziando ad accettarlo. 

Numerosi pezzi della sua corazza continuavano a precipitare senza sosta man mano che il loro legame diventava sempre più forte.

Non potevano più tornare indietro.

Shiro aveva continuato a esserci, e mai aveva mostrato l’intenzione di voler andare via. 

C’era stato per le cose più stupide e per quelle più importanti, per quelle tristi e per quelle felici.

C’era stato quando non riusciva a capire qualche concetto di fisica quantistica e durante le loro scappatoie nel deserto, una disubbidienza fatta in buona fede per poter osservare le stelle in pace.

“Non puoi rinunciare a te stesso.”

Era una frase scritta in lui con un pennarello indelebile, e non importava quante lacrime o sangue avrebbe dovuto versare per ottenere il suo tanto agognato futuro.

Sarebbe sempre stata lì, una presenza ormai costante.

Come Shiro.

Solo che, un giorno, non c’era più stato.

Le stelle, quelle stesse che loro avevano sempre amato, le stesse di cui avevano percorso i tratti con la punta delle dita, gliel’avevano portato via.

E Keith aveva potuto sentire la sua corazza ricomporsi con la stessa velocità in cui la sua vita era andata a rotoli. Aveva visto la luce sparire.

Niente più stelle, niente più futuro. Soltanto un passato che minacciava di affogarlo tra le onde della memoria. 

Erano stati mesi infernali, quelli, convinto che niente potesse più liberarlo dal buio.

Ma Shiro era tornato, caduto come un astro dal cielo stesso, e la corazza era crollata.

Di nuovo.

E aveva pensato, per settimane, che forse avevano finalmente concluso di scontare chissà quale pena. La luce era tornata, giusto in tempo per essere sommersa dal dolore.

Le stelle gliel’avevano riportato, quel giorno, ma l’avevano ripreso una seconda volta.

E una terza.

E il suono di quel ritorno, di quell’ennesimo salvataggio, era il prezzo da pagare per un’anima che ormai diventava polvere, piegata dal corso del destino.

Ma era un buon prezzo, quello, uno per cui non avrebbe esitato a dare qualcosa di prezioso se ciò significava poter stringere la persona più importante della sua vita tra le proprie braccia. Era uno scambio giusto, concluso per rivedere quegli occhi della stessa sfumatura delle nuvole temporalesche, occhi eternamente puntanti nei suoi e che non avevano alcuna intenzione guardare altrove.

“Mi hai trovato,” gli aveva sussurrato.

“Mi hai salvato,” avrebbe voluto rispondere Keith, stringendolo con dolcezza.

Se Shiro non l’avesse salvato, tanti anni prima, sarebbero morti entrambi. 

Forse in maniera differente, chissà. Non potevano saperlo. 

Ma se Shiro non avesse mai avuto il coraggio di sgretolare la sua anima nera, Keith non avrebbe mai visto la luce. Non avrebbe mai trovato alcuna forza per ripartire, nemmeno tra la polvere.

Il suo cuore infranto mille e mille volte era stato il prezzo migliore da pagare. 

Era stato il prezzo pagato per salvarlo, per salvare entrambi. 

Come nelle vecchie fiabe che sovente leggeva da piccolo, avevano dovuto cedere qualcosa. E Keith era stato ben felice di aver dato via la parte più buia di sé. 

Ci sarebbe stata soltanto luce, da quel momento in poi.

Luce, e un’anima che imparava a ricomporsi per splendere come una stella. 

 

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Capitolo 3
*** Eskimo kiss ***


Day 9: Quality time

 

 

Eskimo kiss

 

 

Qual era il rumore della felicità?

Forse il silenzio, Shiro ormai pensava. Quel suono che si creava con lo stare con la persona più amata sotto le lenzuola, mentre il sole iniziava pigramente la sua ascesa al cielo.

O forse era il rumore delle risa che sgorgavano spontanee dalle loro labbra ad ogni piccolo sguardo, ad ogni carezza che troppo spesso si trasformava in una lotta infantile a colpi di solletico.

Non lo sapeva, in realtà. 

Non riusciva mai a decidersi. Ogni suono sembrava sempre così bello, così puro al punto che stilare una classifica era per lui impossibile.

Era tutto troppo perfetto, a volte, per poter essere reale. Una fantasia per bambini, una fiaba a cui perfino lui aveva smesso di dar fede tanti anni prima. 

Con la guerra che sembrava infinita e con la morte sempre in agguato, la quotidianità era un concetto rimasto rintanato negli spazi più remoti della sua mente, forse nelle uniche zone ancora intatte di fronte a tutto l’orrore a cui aveva dovuto assistere. E di fronte a tutto ciò che aveva provato direttamente sulla sua pelle.

Mai un’idea simile era stata capace di sfiorarlo. Mai un solo pensiero, o una sola speranza, rivolto al sole, che un giorno l’avrebbe baciato con i suoi raggi facendo capolino tra le tende color pastello, tingendo d’ambra chiara quella che era diventata la sua nuova vita.

Mai avrebbe potuto immaginare di avere il lusso di trascorrere intere giornate a letto, con Keith stretto tra le sue braccia, intenti a guardare film o anche solo a sonnecchiare tra un pasto e l’altro.

Sarebbero stati pensieri troppo meravigliosi, troppo accecanti con la loro semplicità perché potessero avverarsi. Sarebbero strati troppo puri, e lui avrebbe rischiato di perdere la vita, in quella guerra, come un marinaio che non può fare a meno di udire il canto delle sirene per poi scomparire tra i flutti.

Eppure, quell’esatto momento rappresentava uno dei tanti desideri espressi con lo sguardo rivolto al cielo, espressi con la convinzione che mai si sarebbero realizzati.

Avrebbe dovuto avere più fede, nelle stelle.

Era estate, e faceva caldo. 

Perfino Keith, abituato a dormire con indosso pesanti pigiami dentro cui Shiro avrebbe probabilmente soffocato, aveva adesso abbandonato ogni abito e rimaneva sotto le lenzuola candide con soltanto la pelle a frapporsi tra lui e il materasso.

Il sole pareva avesse concentrato tutte le sue energie per baciare ogni zona esposta, dipingendola di quello che pareva un pallido dorato. Non troppo appariscente, ma nemmeno così tenue da non essere notato.

Keith lo osservava con i suoi grandi occhi viola, anche quelli indifesi contro la luce dell’astro del mattino. C’era dolcezza, in quello sguardo, una forza tale che mai avrebbe pensato di poter provare.

Dolcezza e amore erano ciò che Shiro vedeva riflesso in quel mare d’ametista.

Si sporse leggermente in avanti, incurante del lenzuolo che rischiava di cadere sul pavimento. La sua pelle rimaneva ora scoperta, esposta a quella quotidianità che ormai non poteva più bruciarlo.

Keith rise quando Shiro sfregò il naso contro il suo, in un gesto che avevano ripetuto tante, troppe volte da quando la tranquillità era entrata nelle loro vite.

Shiro adorava farlo. Lo adorava perché era come baciare ma allo stesso tempo no, toccare ma ammirare comunque da lontano. Era benevola, la sensazione che quel gesto gli provocava. Come se avesse appena mangiato un gelato al suo gusto preferito, o come quando, dopo una doccia, indossi il pigiama pulito e vai a dormire con le lenzuola fresche di bucato.

Era bella, e piacevole, una sensazione di cui mai si sarebbe stufato.

E poi lo adorava perché Keith sorrideva sempre. Non che in altre situazioni non lo facesse. Sin da quando avevano iniziato a frequentarsi, Shiro aveva notato quanto l’altro fosse in realtà più allegro e rilassato.

Ma la curva che le sue labbra disegnavano sul volto durante quei momenti era impagabile. Keith aveva sempre avuto un sorriso stupendo. Era sempre stato capace di toglierti il fiato e di lasciarti a bocca aperta, senza alcuna possibilità di evitare di balbettare. Ma in quei casi era…era lo stesso di chi dalla vita aveva ricevuto tutto e aveva imparato a emozionarsi anche per le piccole cose. Come se in quel sorriso ci fosse un Keith bambino che non aveva conosciuto la tristezza, ma soltanto amore, e che per questo sapeva cosa volesse dire emozionarsi per un nonnulla. 

-Matt mi aveva detto che avevi gusti strani- commentò il paladino rosso, e subito il suo sorriso dolce si trasformò in uno pieno di divertimento.

Shiro, che prima di quell’affermazione aveva preso ad accarezzare la guancia dell’altro, si bloccò in un istante.

-Come?- domandò, inarcando un sopracciglio.

Keith rise, accoccolandosi tra le lenzuola. Shiro vide le mani dell’altro tirare a sé le coperte, e non riuscì a trattenersi dall’impulso di stringerle tra le sue. Keith non protestò e lo lasciò fare. 

-Baci all’eschimese- continuò poi, tentando di simulare un’espressione di disgusto. Il ragazzo fallì miseramente, e a quella buffa occhiataccia subentrò in pochi secondi uno sguardo carico di tenerezza.

-Non posso credere che mio marito adori i baci all’eschimese.

-In mia difesa, posso dire che diversi studi hanno annunciato che naso-naso è uno dei modi migliori per dimostrare affetto- affermò Shiro, abbandonando la stretta dell’altro per riprendere ad accarezzare la sua guancia. La sfiorava appena con la punta del pollice, quasi avesse paura di romperlo. Era un pensiero stupido, lo sapeva. Keith era sopravvissuto a una guerra, e non si sarebbe certo distrutto per una semplice carezza. Ma Shiro non poteva fare a meno di dar vita a un simile timore.

-Allora baciami di nuovo- Keith chiuse gli occhi in attesa, le labbra curve in un sorriso già pronto a esplodere in una risata.

-Naso-naso?- chiese Shiro, avvicinandosi nuovamente.

Keith fece in tempo a riaprire gli occhi prima di sentire di nuovo il tocco dell’altro, leggero come il battito d’ali di una farfalla.

-Naso-naso può andare.

Faceva il solletico, un po’, e fu per questo che Keith rise di nuovo. 

Era in certi istanti che Shiro avrebbe voluto fermare il tempo, fare in modo che tutto si bloccasse per poter godere di quei momenti per sempre. La vita l’aveva privato di tante opportunità, e quelle occasioni spese non potevano essere recuperate.

Sperava almeno di poter compensare così, con intere mattinate estive trascorse a letto e con soltanto le risa dell’altro a fare da sfondo al resto della sua esistenza.

Forse era per questo che gli piacevano tanto quelle giornate.

Perché erano effimere eppure così importanti, un piccolo granello di sabbia contro il grande deserto che era la clessidra delle loro vite. Granello che, però, andava a delineare il cammino per la felicità.

E se la felicità era composta da risate, baci all’eschimese e classica pigrizia da coppia sposata, allora avrebbe proseguito su quel sentiero per il resto dei suoi giorni.

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Capitolo 4
*** Truth ***


Day 16: Error

 

Truth



Keith aveva trascorso i primi giorni in uno stato di apatia. Era come se si fosse chiuso dentro una campana di vetro nella quale i suoni giungevano attuti, come se tutto fosse troppo distante per poter essere toccato. I colori erano diventati più spenti, le facce delle persone che incrociava nei corridoi più anonime, e perfino le stelle pareva splendessero con minore intensità. Tutto aveva perso il suo fascino, la sua bellezza. Anche le piccole cose che tempo prima gli provocavano gioia, adesso trovavano in lui soltanto indifferenza. 

Non si era mai sentito in quel modo, così estraneo al mondo dal sembrargli di camminare in una zona preclusa soltanto a lui stesso, lontano da qualunque fonte di calore e di luce e di tutto ciò che prima era in grado di dargli la vita.

Era cominciato tutto una settimana fa. O forse, era cominciato tutto perfino prima.

Aveva udito voci, nei corridoi, sussurri spaventati e privi di alcun senso ai quali tutti avevano abboccato perché l’incertezza era sempre meglio dell’attesa stessa. Accettare ogni singola notizia anche se priva di fondo era forse un modo per ingannarla? Era forse un modo per controllare il tempo, per farlo scorrere più veloce mentre la verità viene pian piano a galla? Forse. Keith non l’aveva mai capito. Non aveva senso sperare, o dar fede a chiacchiere da bar se non c’erano prove alcune.

Qualche commento era giunto alle sue orecchie, ma lui non ci aveva creduto.

“La missione Kerberos è stata un fallimento.”

Impossibile. Era semplicemente irrealizzabile. 

Non con quell’equipaggio.  Non con Samuel e Matthew Holt a bordo. Sopratutto, non con Shiro come pilota.

Le chiacchiere erano continuate. Balzavano da una bocca all’altra senza alcuno ostacolo, e, in breve, tutta la Garrison era a conoscenza di quelle dicerie.

Keith aveva detestato, all’inizio, quei commenti. E aveva detestato il modo in cui tutti sembrassero concordare per quella soluzione, l’atteggiamento che perfino gli ufficiali avevano assunto. Nessuno aveva smentito nulla. Avevano lasciato correre quelle chiacchiere senza sapere.

La rivelazione giunse pochi giorni dopo. La mensa era sempre stata fastidiosamente chiassosa, più che mai all’ora di pranzo, colma di studenti e ufficiali che pareva non vedessero l’ora di mettere a prova le loro corde vocali parlando del più e del meno. C’era chi criticava gli insegnanti, chi una simulazione andata male, e chi invece parlava di strambe conquiste amorose avvenute nelle strade della piccola città studentesca.

E c’era chi stava da solo.

A Keith non importava. Da quando Shiro era partito, non aveva più mangiato con nessuno. Sembrava che tutti lo evitassero perfino più di prima, forse per invidia o chissà per quale altro motivo, ma lui non aveva battuto ciglio. Non gli importava più di niente. Era ormai insofferente a tutto e tutti.

Quel giorno, però, era stato diverso.

A Keith non erano sfuggite le occhiate tristi e colme di pietà che i passanti gli avevano indirizzato. In un primo momento aveva cercato di ignorarle. Non aveva compreso nemmeno il perché di quell’atteggiamento, il senso dietro a sguardi di compassione dove poco prima c’erano state soltanto punte di gelosia e rabbia.

Poi, il chiacchiericcio allegro e concitato della mensa si era spento. Tutti avevano alzato la testa verso il grande computer della sala, e Keith non aveva potuto fare altrimenti.

C’era una scritta, in rosso, che andava ad occupare tutto lo schermo e che Keith credeva non avrebbe mai letto.

“Errore del pilota.”

Tre parole, fredde come il ghiaccio e brucianti come le fiamme di cui portavano il colore.

Keith non aveva capito.

La mensa esplose in un coro di lacrime e delusione.

Alcuni avevano iniziato a piangere. Altri, disperati in egual modo, erano usciti fuori di corsa mentre certi, invece, si erano seduti in silenzio, fissando con occhi vuoti quel piatto da cui attimi prima mangiavano con gioia.

Keith aveva continuato a non capire.

A quella scritta se ne susseguirono altre, informazioni prive di senso riguardanti i dati della navicella, dell’equipaggio, dei progressi della missione. Alla fine, era giunti i dati delle circostanze della loro presunta morte.

Ipotesi, blande ipotesi.

Ancora, non aveva compreso.

Quando il suo sguardo aveva letto quel nome, il suo nome, Keith era andato via dalla mensa.

Lentamente, camminando con gli occhi di tutti puntati, come se non fosse accaduto nulla. Come se la missione Kerberos non fosse stata, in realtà, dichiarata fallita e ci fosse ancora qualcosa che agli occhi di tutti fosse sfuggito.

Forse ora capiva, cosa volesse dire aggrapparsi ad una sottile speranza.

Giorni erano trascorsi, fatti di silenzio e di una mente ormai assente, capace di accendersi soltanto lì, oltre i confini inesplorati del sistema solare. 

Keith non riusciva più a seguire le lezioni. Parlava a malapena. I suoi voti calavano e continuava a non dormire, e mangiare poco. Non aveva più tanta fame, o tanto sonno, e tutto il suo futuro sembrava essersi ridotto in cenere.

Stava andando tutto a rotoli, e non sapeva nemmeno perché. Non sapeva nemmeno come fare per poterlo controllare

Continuava a stare nella sua campana, ignorando quei commenti tristi che in breve tempo si erano trasformati in insulti, insulti contro una persona che non avrebbe mai più rivisto.

“È stata tutta colpa sua,” dicevano le voci.

“Shirogane ha compromesso la missione. Se non fosse stato per lui, tutti ora sarebbero sani e salvi.”

Aveva lasciato scorrere, come acqua sulla pelle, quelle stupide chiacchiere. Le aveva ignorate perché sapeva non fossero vere, perché era soltanto un guscio pieno di indifferenza.

Non poteva essere colpa di Shiro. Non avrebbe mai sbagliato. Non lui.

Passarono altri due giorni, e la campana si ruppe. Fu doloroso. Come in un’esplosione, tutti i cocci erano volati via, saltati in aria come tutta la sua vita. Non erano andati verso l’esterno, però: la campana era collassata al centro, rovesciando quei frammenti taglienti contro di lui. Mille e mille e più ferite, tutte unicamente sulla sua anima, tagli che non sarebbero mai più guariti. Keith aveva iniziato a sanguinare, a morire, ma nessuno se n’era accorto. Il suo cuore era andato in pezzi, ma nessuno l’aveva notato. Erano ferite invisibili, le sue, che facevano male più di una pallottola conficcata nel petto.

Era scappato quella stessa sera.

La Garrison non lo voleva più. L’aveva realizzato.

Non avevano bisogno di una zavorra, di uno che non riusciva ad andare avanti di fronte ad una semplice dipartita. Ma che, per Keith, era tutto fuorché semplice.

Aveva preso la sua vecchia moto, quella che Shiro gli aveva affidato prima di partire, non prima di aver portato via tutto ciò che possedeva. C’era il suo pugnale, nello zaino, l’ennesimo ricordo di chi era partito e non aveva più fatto ritorno, lasciandolo indietro. C’era la sua vecchia giacca insieme a qualche altro indumento, e qualche libro. E c’erano alcuni oggetti di Shiro. C’era il suo vecchio MP3, alcune fotografie, e le targhette con il suo nome che gli aveva regalato.

“Spero che non ti dimenticherai di me mentre sono via.”

Keith aveva messo in moto senza guardarsi indietro.

Aveva viaggiato, nel cuore della notte, in quello stesso deserto di cui tanto ammirava il silenzio. Ora lo detestava. Lo detestava perché poteva sentire tutti i suoi pensieri correre da un capo all’altro della sua mente. Perché non importava se ci fosse il vento, che fischiava tra le sue orecchie, o il rombo dei tuoni in lontananza.

Quelle tre parole, quelle uniche tre parole, avrebbero continuato a ripetersi all’infinito.

“Errore del pilota.”

E lui avrebbe continuato a udirle.
Giunto nella vecchia casa, quella che lui e Shiro avevano trovato soltanto pochi mesi prima, Keith non ce l’aveva più fatta.

Cadde in terra non appena scese dalla moto, e cominciò a piangere. E a gridare. Le lacrime scorrevano tra le sue guance come fiumi in piena, mentre con tutto il fiato che possedeva continuava a urlare il nome di Shiro. Urlava e urlava, ma non riceveva alcuna risposta.

Non si mosse nemmeno quando la pioggia prese a cadere, confondendosi con le sue lacrime. Non si mosse quando giunse il vento, o i tuoni, perché non aveva la forza per farlo. Aveva soltanto le energie per piangere le lacrime che aveva inconsciamente trattenuto, lacrime bloccate da un’anima che si rifiutava di accettare la verità.

Ora però, con il futuro svanito dalle sue mani come sabbia tra le dita, con il peso della solitudine sopra le sue giovani spalle, Keith l’aveva finalmente capito. Aveva realizzato ciò che gli altri avevano sempre saputo da tanto tempo.

Shiro era morto.

Keith rimase lì, in terra, con il cuore infranto, a chiedersi per quale motivo l’universo gli avesse, di nuovo, strappato via ogni cosa.

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