L'anello di rubino

di Morghana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1° dicembre 2063 ***
Capitolo 2: *** 2-3 dicembre 2063 ***
Capitolo 3: *** 4 dicembre 2063 ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1° dicembre 2063 ***


Chi è amato non conosce morte”
(E. Dickinson)

 

- Palermo, 1° dicembre 2063 – 09:30 -

L'atterraggio a Punta Raisi non era stato dei migliori, con buona pace della perizia del capitano Pete Richardson, ma nessuno ebbe da ridire: il professor Saverio Moncada di Paternò aveva avvisato il dottor Daimonji, con largo anticipo, di quanto la pista dell'aeroporto palermitano fosse tanto suggestiva al vedersi quanto tra le più malposizionate mai costruite.

Situato a pochi metri dal mare che bagnava Palermo, l'ingresso della pista aveva dato più di un filo da torcere anche ai piloti più esperti dell'aeronautica civile che, in più di un'occasione, avevano dovuto “riattaccare” e ripetere l'atterraggio, a scanso di finire in mare prima ancora di toccare terra.

Le operazioni di routine che seguivano ogni atterraggio furono sbrigate velocemente e, nemmeno due ore dopo, il dottor Daimonji ed il suo staff stavano percorrendo l'androne dell'Università degli Studi di Palermo, in direzione dell'ufficio del professor Moncada.

Scienziato di fama mondiale, di famiglia ricchissima e di antica nobiltà principesca, di bell'aspetto ed ancora prestante nel fisico nonostante i sessant'anni, il professore avrebbe potuto tranquillamente essere un esponente di spicco del jet-set internazionale ma, complice l'acuta intelligenza e la noia che provava nel frequentare il bel mondo, aveva preferito dedicarsi alla scienza ed approfondire gli studi in ambito geologico, specializzandosi in geofisica e vulcanologia.

Era appunto a causa dell'Etna, che aveva richiesto l'aiuto del dottor Daimonji e l'intervento del Drago Spaziale: negli ultimi tre mesi l'attività del vulcano siciliano era stata talmente intensa ed aveva presentato caratteristiche talmente anomale da far pensare che ci fosse qualcosa nel condotto del camino vulcanico... qualcosa che, con tutta probabilità, poteva essere attribuito ad un Mostro Nero o, comunque, riferito agli Zelani e ad un loro coinvolgimento nel fenomeno.

“Caro collega... benvenuto in Sicilia! Felicissimo di incontrarti di persona, dopo averti conosciuto di fama... e benvenuti anche voi, signori! Spero che la vostra permanenza non si limiti al risolvere il problema per il quale vi ho contattati... la Sicilia è meravigliosa e vi consiglio di fare almeno una visita approfondita di Palermo e dei suoi dintorni!” fu il benvenuto, in perfetto inglese, dello scienziato, nell'accogliere Daimonji.

“Ti ringrazio infinitamente, collega... permettimi di presentarti il mio staff di supporto, prima di cominciare a discutere della questione del vulcano. Mi spiace che il nostro capitano e pilota non sia ancora presente, ma aveva da ultimare alcune faccende, prima di lasciare il Drago. Ci raggiungerà tra poco.”

Un magnifico sorriso ed un cordiale annuire fu la risposta dello scienziato italiano, prima di accingersi a fare gli onori di casa ai suoi ospiti, in attesa dell'arrivo di Pete... che però, contrariamente alle sue abitudini, si fece aspettare non poco.

*


Chianci Palermu!
Chianci Siracusa!

A Carini c’è lu luttu nd’ogni casa…”



- Palermo, 1° dicembre 2063 – 11:00 -

Si sentiva a disagio nel percorrere le viuzze che il piccolo GPS da polso gli stava indicando come scorciatoie per raggiungere l'università di Palermo.

Cercò di convincersi che era soltanto una sua impressione ma, man mano che camminava, si rendeva sempre più conto di avere gli occhi di tutti puntati addosso.
Sbuffò tra sé e sé... diavolo, i biondi con gli occhi azzurri non mancavano in Sicilia, vista la dominazione normanna che c'era stata! Cos'aveva lui di tanto particolare da far voltare non soltanto le donne, ma anche gli uomini?

Si fermò per lasciar passare quella che, a tutta prima, gli parve essere un piccolo corteo funebre... ma, dopo un primo sguardo, rimase perplesso: non soltanto si trattava di sole donne, ma non c'era nessuna bara a precederle... ed in più quelle donne, più che disperate per la morte di un familiare, sembravano voler rendere un triste omaggio a qualcuno che già da tempo avesse terminato il suo percorso terreno.

Senza sapere perché, le seguì nella chiesa dove stavano entrando.

Le vide deporre i fiori che portavano su un sarcofago in marmo, addossato alla parete di fianco a quella che, presumibilmente, era la sagrestia... e se ne meravigliò non poco: sapeva, grazie ai suoi studi di archeologia ed arte antica, che le sepolture nelle chiese erano ormai in disuso da secoli e che, quindi, era impossibile che un loro congiunto fosse stato seppellito in quel luogo.

Conosceva l'italiano abbastanza bene da comprendere, nonostante il forte accento siciliano, che quello che le donne stavano sottovoce recitando era l'ufficio dei defunti di religione cattolica... la famiglia Richardson era di religione protestante e lui, personalmente, era poco credente e per nulla praticante, ma il tono accorato con il quale esse invocavano la pietà del Cielo per quella povera anima lo toccò profondamente, inducendolo – come non aveva più fatto, da quando era ragazzino – a farsi il segno della Croce a sua volta.

Chi poteva essere quel defunto che, nonostante fosse chiaramente inumato lì da secoli, ancora riceveva fiori e preghiere? Sicuramente un nobile, data la sontuosità della tomba, ma di chi poteva trattarsi?
Attese che le donne uscissero per avvicinarsi a sua volta al sarcofago, aspettandosi di leggervi scolpito il nome dell'occupante... ma non trovò alcuna scritta, tantomeno incisioni o blasoni di qualche tipo.

Vossìa desidera qualche cosa?”

La voce che sentì alle sue spalle, per quanto sommessa, lo fece sobbalzare e voltare nello stesso momento, ritrovandosi dinanzi un anziano sacerdote dallo sguardo bonariamente interrogativo.

“No, no... cercavo di capire chi fosse sepolto in questa tomba, nient'altro.” gli rispose Pete, in un italiano fortemente marcato dall'inglese, ma chiaro ed abbastanza scorrevole.

“Ah, vossìa straniero è... benvenuto a Palermo, allora. Vedo che parlate bene l'italiano, complimenti... “
“Mia nonna materna era di Verona... l'ho imparato da lei. Può dirmi qualcosa di questo sarcofago?”
“Posso chiedervi come mai vi interessa? Siete uno studioso di storia?”

“Di archeologia, per essere precisi: l'ho studiata all'università, anche se non mi sono laureato... ma la passione per l'argomento è rimasta intatta. Chi è stato sepolto in questa tomba? Non vedo iscrizioni né nulla che lo indichi...” chiese ancora Pete, con pazienza assolutamente insolita per lui.

Il volto carico di anni e di patimenti del sacerdote sembrò farsi ancor più vecchio e sofferente, nel sentirsi porre quelle domande, mentre pareva riflettere prima di dare una risposta.

“La leggenda dice che si tratta del sarcofago di una baronessa siciliana... la baronessa di Carini, un feudo confinante con Palermo. Morì a metà del Cinquecento... pare che avesse trent'anni o poco più, povera fimmina...”

Trent'anni.

Quella povera donna era morta nel fiore della gioventù, pensò Pete, sentendo il cuore farsi pesante come un macigno. Certo, nel Cinquecento le malattie portavano presto alla tomba anche i più ricchi, data l'arretratezza delle cognizioni mediche... ma qualcosa lo spinse a volerne sapere di più, se fosse stato possibile.

“Come mai è morta così giovane? Di parto, forse? All'epoca era frequente...”
“No, meschinedda... magari fosse stato...” mormorò il vecchio, in un sospiro.
“E... allora?”

“In questo momento non posso rispondere a vossìa... devo dire Messa e debbo ancora vestirmi con i paramenti sacri. Perché non restate per la funzione? Parleremo dopo...”
“Non sono cattolico, padre... ed ho anch'io un impegno urgente, ho perso la cognizione del tempo, entrando qui, ma ora devo andare.”

“Capisco. Ma tornate pure quando volete, la chiesa non scappa... se per caso non mi trovate, chiedete pure al sagrestano e vi saprà dire quando rientro. Calò, unni sì? M'hai a vistiri... unni sì?”
Qua sto, don Mariano, qua sto... l'acqua a li sciuri avanti a la Madonna stavo a canciari! Eccomi...”
“Calò, il signore è forestiero e interessato alla storia della Sicilia, tornerà per parlarmi... se non ci sono io, gli dici quando torno e intanto gli fai visitare la chiesa.”

Come desiderate, don Mariano, i furasteri sempri benvenuti sunnu... vossìa mi comandi!” gli rispose umilmente l'attempato paesano, mettendosi a disposizione del giovane che aveva di fronte.

Ma gli bastò guardarlo in viso per trattenere il fiato e segnarsi, invocando a mezza voce l'aiuto celeste.

Bedda Matri... unn'jè possibili! Ma voi...”
“Che succede, Calò?”
Nenti, patri Mariano... nenti! Bacio le mani a vossìa... compermesso.” fu il congedo, rapido e spaventato, del sagrestano... che corse in sagrestia, quasi a cercarvi rifugio.

*

Il ritardo di Pete non passò inosservato al dottor Daimonji, che fu lì lì per fulminarlo con un'occhiataccia non appena mise piede nell'ufficio del professor Moncada... ma l'espressione che il giovane aveva impressa sul volto spazzò via ogni collera, lasciando il posto prima alla perplessità e poi alla preoccupazione: che diamine era potuto succedergli, per suscitare nei suoi occhi quello sguardo carico di... sì, di angoscia?

La necessità di ascoltare la relazione del professore, riguardo alle anomalie eruttive dell'Etna, gli fece momentaneamente accantonare quel pensiero, ma non cancellò l'impressione profonda che il capitano aveva suscitato nel suo animo... e non solo nel suo: tutti gli altri avevano notato che Pete aveva una faccia tesa e pensierosa, anche se tentava di mascherarla sotto l'onnipresente freddezza nei modi e nel comportamento.
Che cosa era accaduto?

Non ebbero il tempo di fare domande: sui bracciali radio di tutti loro scattò l'allarme con il segnale di massima emergenza!

“Professore, credo che questa sia la prova di quanto i suoi sospetti siano fondati... dobbiamo rientrare subito nel Drago! Lei torni subito nel suo laboratorio, noi decolleremo immediatamente in direzione di Catania!”

In meno di mezz'ora il dottore e tutti gli altri erano ai loro posti ed il Drago Spaziale iniziò la fase di rullaggio sulla pista, per poi levarsi in quota con prua a ovest-sudovest.
 

- Vulcano Etna, Catania, 1° dicembre 2063 – 13:00 -

Fecero appena in tempo a scansare una bordata di lapilli, che avrebbe potuto danneggiare seriamente il ventre della loro fortezza volante: di fronte a loro, letteralmente sputato fuori dal cratere del vulcano, si parò uno dei mostri più orripilanti che avessero mai visto!

Il viso di quell'orrendo robot umanoide – se di viso si poteva parlare - aveva le fattezze della mitologica Medusa e, come la Medusa, era circondato da serpi che sputavano lava senza sosta: ecco da dove proveniva il magma che, negli ultimi mesi, era stato espulso dal vulcano!

Non persero tempo: il lancio dei componenti del Gaiking, seguiti a ruota dallo Skylar, fu questione di un minuto e, mentre il Drago teneva impegnato il Mostro Nero, Sanshiro assemblò i tre elementi del robot e si preparò a dare battaglia.

“Sanshiro, attento al magma che sputano quelle maledette teste di serpente! Ha una temperatura elevatissima e potrebbe fondere anche l'acciaio zormanium delle nostre strutture!” fu l'avvertimento del dottor Daimonji, tra le ondate di materia incandescente che investivano il Drago, imprimendogli continue e brusche imbardate.

“Stia tranquillo, dottore... quella lava è micidiale ma il mostro è dannatamente lento nel muoversi! Fan Lee, dammi una mano!”
“Arrivo, Sanshiro!”

Una pioggia di missili partì dallo Skylar, non abbastanza da distruggere il robot nemico ma sufficiente a far sì che Sanshiro gli arrivasse alle spalle e gli piantasse una delle due Croci Spaziali tra le scapole, servendosi dell'altra per tranciargli via il nido di serpi che gli circondava la testa.

Da qui al farlo esplodere con i Raggi Ottici fu faccenda di pochi secondi.

Sakon effettuò un breve controllo visivo e strumentale del cratere – ormai vuoto ed “a secco” – e confermò quanto il professor Moncada aveva sospettato: le ultime eruzioni non erano di origine naturale, ma provocate dal Mostro Nero che – in epoca imprecisata – era stato posizionato all'interno della camera magmatica dell'Etna.

Stanchi e sfatti, con lo stomaco in subbuglio per gli scossoni subìti durante la battaglia, tutti loro avrebbero voluto atterrare immediatamente al vicino aeroporto di Catania, ma sapevano bene che la cosa era impossibile: le piste di Fontanarossa non erano in grado di accogliere un apparecchio delle dimensioni del loro Drago ed, in aggiunta, l'eruzione provocata dal mostro aveva letteralmente ricoperto l'intera struttura di ceneri e pomici vulcaniche, rendendo indispensabile la temporanea chiusura dello scalo.

Non avevano altra scelta che rientrare a Palermo e ringraziare la loro buona stella per l'irrisorietà dei danni – limitati alla vernice delle paratie esterne – riportati durante la battaglia.

Il dottor Moncada, immediatamente avvertito dal dottor Daimonji, non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo, alla notizia del cessato allarme... oltre ad invitare lo scienziato ed il suo equipaggio a trattenersi per qualche giorno in Sicilia, sia per fare il definitivo punto della situazione sia per il piacere di averli ancora suoi ospiti.

Il dottor Daimonji, rendendosi conto che il suo equipaggio – oltre a lui stesso – avrebbe tratto soltanto benefici da un, sia pur breve, periodo di riposo, acconsentì.

- Palermo, 1° dicembre 2063 – 18:45 -

Ormai era il tardo pomeriggio e, dopo essersi concessi un paio d'ore di meritato riposo, tutti approfittarono della serata libera accordata dal dottor Daimonji che, dal canto suo, sarebbe andato fuori a cena con il dottor Moncada e consorte.

Si sparsero in giro per la città: Sakon e vari tecnici – dopo aver mandato giù un rapido spuntino sul Drago – si diressero verso l'Osservatorio Astronomico di Palermo, dove c'era in programma una conferenza serale, Sanshiro e Midori imitarono il dottore e si concessero una cenetta a lume di candela in un ristorante sul lungomare, mentre Fan Lee, Bunta e Yamatake scovarono un simpatico pub nelle vicinanze dell'aeroporto e vi si accomodarono, subito circondati da uno stuolo di ragazze affascinate dalle loro divise.

L'unico a non volere compagnia fu Pete.
L'immagine di quel sarcofago ed il desiderio di saperne di più sulla giovane baronessa che, secondo la leggenda, giaceva al suo interno, lo spinsero a tornare in quella chiesa.

Don Mariano non era in sede, poiché era andato a portare i conforti religiosi ad un ammalato – così almeno gli riferì un'anziana signora alla quale aveva chiesto informazioni – ma il sagrestano c'era e Pete lo trovò subito, appunto in sagrestia.

Ne fu accolto con lo stesso sguardo trasecolato e quasi spaventato di quella mattina... lo stesso che aveva più volte visto negli occhi dei passanti in strada ed in quelli della signora con la quale aveva parlato pochi istanti prima.

Decise di venire a capo anche di quella faccenda, oltre che di quella della baronessa.

Non si perse in preamboli.
“Signor Calò, mi ascolti, per favore... mi spieghi perché lei e molti altri, non appena mi avete guardato in faccia, siete rimasti quasi paralizzati. Non voglio fare ipotesi, voglio sentirlo direttamente da lei. Perché?”

Eh... vossìa mi perdoni, ma... haju da fari, nun putiti aspettare patri Mariano? Tornerà prestu...”
“No! A parte che con padre Mariano ho già da parlare di quel sarcofago, ma la faccia di chi sembrava aver visto il diavolo ce l'aveva lei, Calò! Allora? Vuole spiegarmi?”

Un sospiro sconsolato sfuggì dalla bocca del brav'uomo, insieme ad un altro lungo sguardo che percorse il volto di Pete lineamento per lineamento.

Si vuliti veramente sapiri a verità, apprima dovete iri ne u casteddu ri Carini. Jè a poca distanza da Palermo. Quannu u avirriti visitato, venite a casa meo... iu e meo mugghìeri abitiamo rintra a portineria do' casteddu, semu i custodi.”

Per quanto il dialetto del sagrestano fosse stretto, Pete riuscì a capire il senso delle sue parole... ma non per questo ne fu persuaso.
“Che c'entra il castello con me? Semmai ha a che fare con la donna sepolta nel sarcofago, sempre che sia realmente la baronessa di cui parlava padre Mariano! Che c'entro io con il castello?”

A verità sta propriu 'nto casteddu... vossìa si fidi ri mia. Iti a visitarlo e poi fatemi l'unuri di viniri a trovarmi a casa... e parleremo.”

Il giovane si rese conto che, almeno in quel momento ed in quel luogo, non avrebbe ottenuto nessuna informazione... e decise di seguire quel che aveva capito delle istruzioni del sagrestano: andare a visitare il castello di Carini.

“Quando posso visitarlo? Ci sono giorni ed orari per il pubblico?”
Putiti trasiri quannu vuliti: chiste sunnu i chiavi do' purtuni. Avviserò meo mugghìeri pi telefono, accussì nun ci sarrannu problemi. Ma, pi amuri ri Diu, nun diciti a nuddu chi vi haju datu i chiavi...”

Questa volta Pete non capì quasi nulla, ma Calò intuì il suo smarrimento dinanzi al palermitano strettissimo e ripeté il tutto in italiano, insistendo nel raccomandarsi di non dire a nessuno di aver ricevuto le chiavi del castello.

“Va bene, Calò... verrò questa sera stessa, visto che tra pochi giorni dovrò ripartire. Appena terminata la visita, vi riporterò le chiavi e mi spiegherete...”
“Va benissimo... bacio le mani a vossìa.

Si separarono con un cenno d'intesa e, mentre il sagrestano andava a telefonare a sua moglie per avvisarla dello speciale visitatore, Pete raggiunse il parcheggio dove aveva lasciato la macchina e, dopo aver cercato le coordinate dell'antico maniero sul GPS, partì senza esitazione.

*


Attorno allo casteddu di Carini
Ci passa e spassa u beddu cavaleri
Lo Vernagallu, di sangu gentili

Ca di la gioventù l’unuri teni...”



Carini, 1° dicembre 2063 – 21:00 -

Nonostante fosse inverno, una ventata di aria quasi calda investì Pete mentre attraversava il cortile principale della rocca: una folata d'aria che sembrava emessa dalle mura stesse dell'antichissimo edificio.

Il cigolìo dei cardini arrugginiti del portone dinanzi a lui, quello che costituiva l'ingresso al castello vero e proprio, gli fece comprendere che quello non era chiuso a chiave. Rimase perplesso... ma solo per un attimo: evidentemente Calò o sua moglie avevano dimenticato di chiuderlo, cosa che poteva tranquillamente capitare a chiunque.

Spinse sul battente in ghisa per aprirlo ed entrare... e la perplessità si trasformò in stupore: dall'esterno non si vedeva alcuna luce filtrare dalle finestre, eppure le luci della sala che gli apparve dinanzi erano tutte accese!

Rimase immobile, fissando le luci dei piccoli ma potentissimi fari posti in alto, ai quattro angoli di quella enorme stanza.
Dopo un tempo indefinibile, riprese le redini della propria razionalità e dedusse che nel castello doveva esserci qualcuno, magari entrato senza permesso ma che, di sicuro, era in possesso delle chiavi, visto che non c'erano segni di effrazione sul portone.

Certo, rimaneva la stranezza che questo qualcuno si fosse preso la briga di richiudere a chiave il portone principale e non quello di ingresso del castello, ma non ci si soffermò... ora voleva soltanto trovare questa persona, chiunque fosse: uno strano istinto gli diceva che costui, o costei, avesse a che fare non soltanto con quel sinistro edificio, ma con il mistero che circondava la tomba nella chiesa.

Percorse corridoi, visitò sale e saloni, si inerpicò lungo scale malsicure ed in alcuni punti parzialmente diroccate... e, dovunque andasse, il denominatore comune erano ancora le luci: sempre accese, dappertutto.

Il senso di oppressione che provava, nonostante la forte illuminazione e l'ampiezza degli ambienti, lievitava ogni minuto.

L'ennesimo corridoio, che dava su un balcone aperto su una torre merlata.
Fece per uscire all'esterno, ma la porta dell'ennesima stanza attirò la sua attenzione, più di tutte le altre che aveva già visitato.

Un senso di timore lo invase...
Di timore... o di terrore?

Esitò per un attimo, ma si impose di ignorare quell'ondata di paura e spinse la porta per aprirla.

Buio.
In quella stanza c'era soltanto l'oscurità più assoluta.
Un'oscurità che lo colpì come una mazzata gelida... un'oscurità che non era solo assenza di luce, ma assenza di qualsiasi cosa.

Assenza di tempo, di spazio, di aria... di qualunque cosa appartenesse al mondo reale.
Quella stanza sembrava sospesa nel nulla.

Un nulla che sembrava, nello stesso tempo, attendere e rifiutare qualsiasi presenza umana.

Un lieve rumore di passi lo riscosse da quell'atmosfera irreale, facendogli portare la mano al fulminatore che portava alla cintura. Si rifugiò dietro la porta, attendendo il probabile ingresso di qualcuno... visitatore in segreto o nemico che fosse.

Non dovette attendere molto: una fioca luce ed il passo ormai vicinissimo precedettero di pochi secondi l'ingresso di una donna, che reggeva un candeliere a vari bracci nella mano.

Il contrasto tra l'antichissimo candeliere ed un paio di dettagli del'abbigliamento della visitatrice lo stupì non poco: a parte i normalissimi jeans e pullover, portava al polso un orologio ultramoderno del tipo smartwatch ed, in un portacellulare inserito nella cintura, uno smartphone di ultima generazione... come mai non aveva pensato a portarsi una torcia a pile o, meglio ancora, ad utilizzare la funzione “torcia” dello stesso smartphone?

La vide raggiungere un piccolo cassettone antico, posto dinanzi alla parete di fronte a lui, sul quale posò il candeliere, per poi voltarsi verso destra... ed avviarsi in direzione del muro, posandovi la mano sinistra con le dita stranamente aperte e tremanti.
Un singhiozzo le sfuggì, flebile e strozzato.

La mano di Pete lasciò l'impugnatura dell'arma: era evidente che quella donna non era di certo una nemica zelana, tantomeno un pericolo di qualsiasi altra specie.

Fece per avvicinarsi, ma lei fu più rapida nel girarsi e si ritrovarono l'un l'altra a fissarsi negli occhi... mentre, inspiegabilmente, la luce irradiata dalle candele si faceva intensissima ed, altrettanto inspiegabilmente, dissipava ogni paura ed ogni diffidenza dall'animo del giovane.

“Chi sei...?” le chiese Pete, con voce della cui tranquillità si meravigliò lui stesso.
“Mi chiamo Laura... - gli rispose garbatamente la giovane donna, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano - … e tu?”
“Il mio nome è Peter Richardson... ma sono Pete, per gli amici ed i colleghi.”

“Allora anche io e te siamo colleghi, in un certo senso... colleghi di visita notturna, a quanto pare.” gli sorrise Laura.
“Così sembra...” sussurrò Pete, ricambiandole il sorriso.

"Perché piangevi?" le chiese, dopo qualche istante di silenzio.
"Ricordi... nient'altro che ricordi..." mormorò la giovane donna, distogliendo lo sguardo.

Le si avvicinò, per osservare la parete sulla quale lei aveva posato la mano.
Sull'intonaco, ancora bianchissimo nonostante i secoli che lo avevano scrostato in più punti, vi erano delle strane striature rosse... di un rosso scurito dal tempo.

Sembra sangue...” pensò Pete, istintivamente, ma non ebbe il tempo di far domande: preceduto da un rumore di passi in corsa, un uomo con una spada in mano fece irruzione nella stanza, scagliandosi contro di lui!

Il giovane fece appena in tempo a schivare un micidiale colpo di punta al torace, per poi pararsi in tutta la sua statura di fronte a quell'uomo, preparandosi ad affrontarlo.

Vestito in foggia del Cinquecento, quel tipo sembrava uscito da una festa di carnevale ma, lungi dallo strappargli una risata, il suo volto gelido ed inespressivo gli fece scorrere un brivido lungo la schiena.

Non era paura, no... era come l'impressione di aver già vissuto quel momento terribile.
Un momento che preannunciava morte.

Non stette a pensarci su, gli ci volle un attimo per prendere il fulminatore e servirsene... salvo accorgersi che i raggi laser non avevano il minimo effetto su di lui!
Sembrava attraversarlo, come se fosse fatto di nebbia.

“Usa una di quelle spade, Peter! Con quelle riuscirai a colpirlo! Presto, hai poco tempo!!!” gridò disperatamente Laura, indicandogli la parete dietro di lui, dove faceva splendida mostra una collezione di armi antiche.

“Ma io non so usarle!”
“Presto! O ci ucciderà!”

C'era poco da discutere: se quelle spade potevano qualcosa contro quell'essere, quelle spade avrebbe usato!

Staccò una di quelle antiche ma ancora micidiali lame dalla parete: le scintille che le due spade fecero sprizzare, incrociandosi, furono solo l'inizio di un breve ma furibondo duello... che lasciò Pete ferito di striscio in più punti, ma vincitore, anche se con poca gloria: il suo avversario, vistosi a mal partito, si era dato alla fuga.

“Laura... stai bene?” le chiese Pete, osservandola attentamente per accertarsi, pallida com'era, che non fosse sul punto di svenire.
“Sto benissimo, Peter... stai tranquillo... però, sai maneggiare bene la spada, a vederti non si direbbe ma sei agilissimo.”

“Sai che sei la prima...”
“A far cosa?”
“A chiamarmi con il mio nome per intero...”

“Beh, è un bellissimo nome. Qui non si usa, ma a me piace...” gli sorrise la ragazza, con quel sorriso che lo aveva incantato sin dal primo istante.
Un sorriso che gli riscaldò il cuore, facendogli abbassare gli occhi per la dolcezza della sensazione che lo stava invadendo.

“Perché non mi dici dove abiti? Così ti potrò riaccompagnare e non correrai altri pericoli. So che qui ragionano un po' all'antica ma... in fondo ti farei da scorta, non vedo cosa ci sia di male in questo.”
“No, Peter, non preoccuparti... non ce n'è bisogno. Ora devi andare, sul Drago Spaziale ti aspettano.”

Pete sobbalzò.
Non per il fatto che sapesse della presenza del Drago in Sicilia, era cosa di dominio pubblico, ormai, ma... come faceva a sapere che lui faceva parte dell'equipaggio?

Fece per chiederglielo, ma lei gli chiuse dolcemente la bocca passandovi le dita sopra... e lui non poté trattenersi dal baciargliele.

“Laura...”
“Ssst... vai, ti prego. Ti aspetto domani sera, se vorrai tornare... sarò qui ad attenderti.”

Gli si accostò, posando delicatamente le labbra sulle sue, come se fosse la cosa più naturale del mondo... ed, allo stesso modo, Pete la ricambiò.
Il lieve schiocco di quel bacio fu il loro saluto.

Dopo pochi minuti, lui si ritrovò nel cortile, ricordando solo confusamente il percorso fatto per raggiungerlo.

Laura... perché mi sembra di conoscerti da sempre? Perché?” si chiese Pete, fissando le stelle ormai impallidite dall'alba imminente.

Rientrò nel Drago e si diresse immediatamente verso la sua cabina, senza degnare di una risposta chi gli chiese dove fosse stato per un'intera nottata. Preferì lasciar credere di aver trascorso quelle ore in piacevole compagnia... cosa che, in un certo senso, era vera.

Non si era neppure accorto che il loro aggressore, non appena uscito dalla porta della stanza, era svanito nell'aria.

*

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Buio.
In quella stanza c'era soltanto l'oscurità più assoluta.
*



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"...una fioca luce ed il passo ormai vicinissimo precedettero di pochi secondi l'ingresso di una donna, che reggeva un candeliere a vari bracci nella mano."
*


 

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Capitolo 2
*** 2-3 dicembre 2063 ***


*

"Amuri, chi mi teni a to cumanni...
Unni mi porti, duci amuri, unni?”


- Palermo, 2 dicembre 2063 – 21:30 -

Il dottor Daimonji e Sakon si guardarono interdetti: mai e poi mai Pete si sarebbe sottratto ai suoi doveri, loro più di chiunque altro lo sapevano... eppure, dopo cena, il capitano aveva chiesto per la prima volta di essere sostituito per il turno di guardia notturno sul Drago e, senza dare spiegazioni, era andato a cambiarsi nella sua cabina.

Un'ora dopo si trovava al volante di una delle auto di servizio, schiacciando l'acceleratore a tavoletta, in direzione di Carini... per non mancare all'appuntamento con Laura.


- Carini, 2 dicembre 2063 – 23:00 - 

Quasi si lasciò sfuggire le chiavi di mano, per la fretta di aprire il portone principale... per il desiderio che aveva di immergersi di nuovo in quell'atmosfera che permeava il castello, in quel senso di familiarità con il luogo ed il momento che aveva il potere di estraniarlo completamente dalla realtà.

Ma, soprattutto, per il desiderio di rivedere Laura.

Man mano che percorreva i corridoi dell'antico maniero, gli sembrava sempre più di essere tornato in un luogo ove aveva già vissuto... e dove aveva lasciato il vero sé stesso.

Nel raggiungere la stanza dove aveva incontrato Laura, pregò che lei si trovasse davvero lì ad attenderlo, temendo per un attimo di averla solo sognata, la sera precedente.

Timore inutile... la prima cosa che vide, aprendo la porta, fu lei.
Laura.

La fissò negli occhi, come a chiederle lumi e guida in quella bolla nella quale si sentiva galleggiare, ma furono quegli stessi occhi a chiudere la porta della ragione e ad aprire quella del cuore: si abbandonò completamente nelle braccia che Laura gli aveva gettato al collo, stringendola a sua volta.

Non ebbe bisogno di cercare le sue labbra... avvicinò il viso al suo e, semplicemente, le trovò, perdendosi in esse.

Un lontano sussurro gli alitò nelle orecchie un nome... una voce femminile, lontana e vicina allo stesso tempo.
Ludovico... finalmente! Finalmente ti rivedo... finalmente saremo insieme... Ludovico...”

Era la voce di Laura?
Ed era con lui che parlava?

Eppure le loro labbra erano fuse insieme, non era possibile che lei avesse detto qualcosa... ma allora perché non gli sembrò assurdo il sentirsi chiamare Ludovico?

Come se quel nome gli fosse sempre appartenuto, nascosto solo dalla patina del tempo.
Ludovico.

Chi era? Cosa era stato per Laura, se lei lo chiamava con quel nome?
Perché era lui che stava chiamando... non un altro.
Lui...

Le ore trascorsero senza che lui se ne rendesse conto.
Ore durante le quali non proferirono parola... non ce n'era bisogno.
Le loro labbra parlavano con i baci.

Le loro anime erano strette in un abbraccio senza fine, al pari dei loro corpi.
Sì... lui l'aveva già incontrata, ormai ne era certo, in quello stesso luogo.
Ma perché non riusciva a ricordare?

Perché?

*

Ormai le stelle cominciavano a spegnersi, nel primo chiarore del sole che stava per sorgere.

Quello che non riusciva ad affievolirsi, sul balcone ove erano usciti, era l'impeto dei loro abbracci, che continuavano a tenerli allacciati... così come il fuoco dei loro baci, che non accennava ad esaurirsi.

“Devo andare... perdonami, Peter. Devo andare...” mormorò Laura, vincendo dolcemente la resistenza delle braccia di Pete, per staccarsi da lui.

“Dimmi quando ti potrò rivedere, Laura... non lasciarmi senza la speranza di rivederti. Ti prego...” sussurrò lui, ancora ansimante per l'intensità dell'ennesimo bacio che li aveva uniti.

Lei non rispose.

Chinò il capo, mentre si sfilava dall'indice sinistro l'anello di rubino che portava.
Glielo porse.

“Tienilo tu per me... a volte gli oggetti segnano il destino delle persone.”
“Che vuoi dire?”
“Torna qui domani sera... e comprenderai.”

Un ultimo sguardo, triste ma colmo di tenerezza, prima di rientrare all'interno nel castello, con quel suo passo leggero, che sembrava non toccare terra.

Con le lacrime agli occhi ed il cuore in gola, Pete tornò sul Drago.

Né il dottor Daimonji né Sakon gli dissero nulla.
Come se sentissero di doverlo lasciare in pace.

*

“Vidu viniri na cavallaria
Chistu è mè patri chi veni pì mia
Tuttu vistutu alla cavallarizza
Chistu è mè patri, chi mi veni ammazzari!”

“Signuri patri, chi vinisti a fari?”
“Signura figghia, ve vegnu a ammazzari!”


- Carini, 3 dicembre 2063 – 22:00 -

Era entrato, per la terza volta, nella stanza dove aveva incontrato Laura... e, per la terza volta, stava provando la stessa sensazione.

La sensazione di essere già stato in quel luogo, nel passato, insieme alla medesima disperazione delle due sere precedenti, nel frugare in ogni angolo della propria mente, senza riuscire a ricordare.

Ma tutto svanì, al vedersi di nuovo Laura dinanzi... non più in jeans e camicetta ma avvolta in una delicatissima camicia da notte, trapunta di merletti e lunga fino ai piedi.

Rimase immobile, credendo di sognare, tale era l'incanto di quella meravigliosa creatura.

“Peter...” fu il dolcissimo richiamo di Laura, in un sussurro.

Senza parlare, lui le si avvicinò, posandole le mani sulle spalle... sentì il pregiato merletto accarezzargli i palmi delle mani, così come gli occhi di Laura accarezzavano il suo volto.

Il tempo sembrò fermarsi, per poi tornare indietro... ad un momento che era rimasto fermo ed imprigionato in quella stanza, quasi incastonato tra quelle pareti, in attesa che qualcuno o qualcosa lo facesse riprendere a scorrere nella giusta direzione.

Qualcuno o qualcosa che riprendesse i fili del passato per riannodarli al presente.

Pete si sentì perdere nello sguardo di Laura, nella sensazione soffice di quei merletti sotto le sue mani... nella consapevolezza di quanto potesse essere morbida la sua pelle, se solo avesse osato sfiorarla.

Le mani di Laura si posarono dolcemente sulle sue... prima di far scivolare via, lungo le spalle, la camicia ed offrire il suo splendido corpo agli occhi di Pete.

In altra occasione il giovane sarebbe rimasto perplesso ed esterrefatto, dinanzi a tanta audacia... ma in quel momento ogni lume di ragione si era spento.
Lasciando brillare i lumi del cuore.

Le prese teneramente le mani tra le sue, posandosele sul collo del giubbotto... invitandola senza parole a spogliarlo, a fare di lui ciò che voleva.

Cosa che Laura fece... stringendosi poi a lui, lasciandosi racchiudere tra le sue braccia e concedendosi alle sue labbra, che la assaporarono ovunque riuscirono a giungere, prima che Pete la sollevasse tra le braccia e la deponesse sul letto.

Passione e tenerezza: ecco cosa videro quelle antiche pareti.
Solo passione e tenerezza infinite.

Non pronunciarono neanche una parola, mentre giacevano su quelle coltri, amandosi con tutto il trasporto che i sentimenti imprimevano ai loro corpi... abbracci dopo abbracci, baci dopo baci, fusi l'uno all'altra con un'intensità tale da sentirsi mancare, non avvertivano null'altro se non il bisogno disperato di appartenersi per sempre.

Il mondo e la realtà vennero chiusi fuori da quella stanza.
Esistevano soltanto loro due.

Soltanto due esseri... che si amavano.

*

Il freddo della notte decembrina sembrava essere totalmente impotente, contro il calore che permeava quel letto... il calore di un uomo e di una donna persi nel reciproco donarsi ed appartenersi.

“Laura... chi ti ha inferto quelle ferite?” mormorò Pete, tenendola stretta a sé, dopo essersi amati.

“Non... non ha importanza, Peter. Non ha importanza...”

Lui la stritolò, quasi, tra le braccia.
“Non è vero... io sono un militare, conosco bene le cicatrici e ciò che le provoca. Sono due pugnalate, quelle che hai ricevuto... al petto ed alla schiena. Chi è stato? Dimmelo, Laura... dimmelo e non avrai più da temere nulla!”

“Appartengono al tempo trascorso, Peter... fanno parte del passato. Qui ed ora, nel presente, non corro più alcun pericolo di essere ferita. Non voglio pensare a ciò che è stato... voglio pensare a te, adesso, in questo momento ed in questo luogo... soltanto a te. Amami, Peter... amami ancora... amami come solo tu sai fare...”

In un istante la bocca di Pete fu sulla sua, imprigionandogliela.
Le sue braccia la strinsero in una morsa.
I loro corpi si fusero di nuovo.

Ancora una volta, il tempo venne cancellato...

Nessuno dei due udì il sottile sibilo del bracciale radio di Pete.
Il sibilo dello scattare della mezzanotte e del cambiamento di data: 4 dicembre 2063.

*

Una folata di vento gelido li colse mentre, dopo ore ed ore, si erano abbandonati al sonno... accompagnata da un furioso scalpitare di zoccoli.

Pete si svegliò e si alzò per richiudere la finestra... e fu allora che vide un manipolo di quattro uomini a cavallo attraversare al galoppo il portone principale e fermarsi nel cortile: lo scintillare delle loro corazze, visibilissime sotto la luce della luna, gli fece comprendere che quello era il seguito di quanto accaduto due sere prima... e lo fece slanciare come una furia a rivestirsi.

Laura, ancora nel letto, lo osservava... con la paura dipinta sul volto.

Riuscì a proferire soltanto una flebile invocazione: “Ora, Peter... ora o mai più! Aiutami, Peter... aiutami! Solo tu puoi farlo...”

“Dovranno uccidere me, prima di arrivare a te!” fu la risposta secca e furente di Pete mentre, per la seconda volta, staccava una spada dalla parete e si preparava a dare battaglia.

Grazie all'istinto ed ai riflessi, riuscì appena in tempo ad evitare una pugnalata a tradimento nella schiena, voltandosi di scatto ed atterrando l'avversario con un fendente alla gola.

Non stette a chiedersi come avessero fatto ad entrare nella stanza senza il minimo rumore, ancor meno si domandò chi fossero quegli uomini, che sembravano sbucati da un dipinto rinascimentale: si preparò ad affrontarli, pronto a farsi ammazzare piuttosto che permettere loro di far del male a Laura.

Grazie al suo addestramento ed alla sua prontezza di riflessi riuscì ad eliminarne altri due, impedendo loro di avvicinarsi al letto... ne rimase uno solo, che sembrava quasi aver atteso di potersi scontrare con lui.

Si fissarono negli occhi, come due leoni pronti a sbranarsi... ed, in quell'istante, Pete si rese conto che quell'uomo era lo stesso con il quale si era scontrato due notti prima.

Bene: avrebbe chiuso i conti con lui una volta per tutte!

Si scagliarono all'unisono l'uno contro l'altro, le loro lame si incrociarono in uno stridore di metallo e diedero il via ad un duello furioso, nel quale Pete fu più volte sul punto di avere la peggio, visto che non era abituato all'uso delle armi bianche... senza contare che le ferite ricevute due sere prima, pur superficiali, gli bruciavano terribilmente.

Un colpo dietro l'altro, fu costretto ad arretrare verso la parete che era dietro di lui.

Il misterioso assalitore fu pronto ad approfittarne, vibrando una micidiale stoccata verso il suo addome... ma la rabbia e la disperazione resero Pete più veloce di lui: con uno scatto fulmineo riuscì ad evitare che quella lama gli affondasse nel ventre, mandandola a spezzarsi contro il muro.

Si rivoltò contro quell'uomo come una belva inferocita, puntandogli la spada alla gola.
“Chi sei? Cosa vuoi da noi? Rispondi, maledetto... rispondi!”

Una voce cavernosa uscì dalla gola di quell'essere.
Che tu sia maledetta, Laura... tu e il tuo amante... che siate maledetti in eterno!”

Pete perse ogni barlume di lucidità: nonostante l'uomo fosse ormai disarmato, salvo il troncone di lama che ancora aveva in mano, gli si avventò contro, trapassandogli il petto con la spada.

Respirò profondamente, ad occhi chiusi, per riacquistare il suo sangue freddo di capitano del Drago Spaziale: si volse dapprima in direzione di Laura per accertarsi che stesse bene, per poi rigirarsi verso il cadavere del nemico... e rimanere a bocca aperta, nel vederlo farsi sempre più evanescente e trasparente, fino a scomparire.

Insieme agli altri tre.

Dinanzi ai suoi occhi rimase soltanto la parete di antichi mattoni di tufo, legati da calce vecchia di secoli ma ancora solidissima.

Fece per chiedersi cosa diavolo stesse succedendo... ma un improvviso senso di completezza lo indusse a lasciare nel limbo quell'interrogativo, come se tutto quello che era appena accaduto non soltanto dovesse accadere, ma dovesse andare esattamente così come era andato.

Come se il cerchio del tempo si fosse chiuso.

Laura si era alzata dal letto e si era nuovamente rivestita della camicia da notte... la luce dell'alba si rifletteva su quel tessuto e sui suoi capelli, dando loro riverberi quasi eterei.
Gli si avvicinò, abbracciandolo.

Pete fece per baciarla, ma lei non gliene diede il tempo.

“Tu vuoi sapere il perché ti ho dato quell'anello... ora te lo dirò.”
“Laura...”
“No, non parlare... non abbiamo molto tempo. Ti prego, ascoltami... ascoltami e credimi!”

Lo scintillìo della veste e della chioma di Laura sembrò illuminare l'intera stanza, mentre lei parlava.

“Mio padre, nei sotterranei di questo castello, praticava di nascosto le arti della stregoneria... e, quando si rese conto che non sarebbe mai riuscito a piegare il mio cuore alla sua volontà, mi mise al dito quell'anello, dopo averlo maledetto. Gli conferì il potere di imprigionare in sé la mia anima, perché io non potessi mai, mai abbandonare questo luogo. Ti prego... distruggilo! Frantumane la pietra e spezzane il cerchio d'oro... solo così sarò libera di andar via. Soltanto così...”

“Vuoi dire che... sarai libera di venire via con me?”
“Sarò libera, Peter... posso dirti solo questo. Sarò libera... se tu acconsentirai a fare quel che ti ho chiesto. Ti prego...”

“No, non mi basta... voglio che tu venga con me, Laura. Voglio che tu sia libera... per amarmi!”
“Peter...”
“Laura, ma non lo capisci? Io ti amo!” fu il grido disperato di Pete, prima di stringerla a sé con tutta la forza che aveva e di affondare le labbra nelle sue.

Rimasero avvinghiati per un attimo interminabile, finché Laura non si sciolse lentamente dal suo abbraccio... fissandolo negli occhi.

“Posso prometterti che... saremo insieme. Non qui e non sul Drago... ma saremo insieme. Te lo prometto, Peter.”
“Laura...”
“Ora devi andare... e devo andare anche io. Vai da Calò... lui ti spiegherà tutto. Mostragli l'anello che ti ho dato e lui ti mostrerà i due ritratti che sono custoditi nella sua casa... e, allora, capirai.”

Pete, accecato dal terrore di perderla, fece per avventarsi su di lei e stringerla di nuovo a sé... ma le sue braccia incontrarono soltanto l'aria.

Trascorse solo un attimo, un attimo di devastante presa di coscienza della realtà... ed un grido lacerante gli squarciò la gola, un grido al confine tra il dolore e la follìa che risvegliò tutti gli echi del castello.

Crollò in ginocchio sul pavimento, con la testa tra le mani, il volto inondato di lacrime, la mente sul punto di cedere alla pazzia.

*

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Il mondo e la realtà vennero chiusi fuori da quella stanza.
Esistevano soltanto loro due.

*


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Capitolo 3
*** 4 dicembre 2063 ***


*

"Lu primu corpu la donna cadiu

L’appressu corpu la donna muriu
Nu corpu a lu cori, nu corpu ‘ntra li rini
Povera Barunissa di Carini…”


- Carini, 4 dicembre 2063 – 07:15 -

Si riebbe a fatica, sentendosi il corpo intorpidito dal freddo ed il viso ancora bagnato di pianto.

Si era addormentato... o era svenuto?
Non lo sapeva e non gli importava.
Sapeva soltanto che Laura se ne era andata... per sempre.

Riuscì lentamente a rialzarsi in piedi, ma solo per appoggiarsi con la schiena contro il muro, respirando profondamente per riaversi del tutto.

Il suo sguardo vagò senza meta lungo le pareti della stanza, quasi a cercare la presenza di Laura, come se la sua mente stesse tentando di ricrearla e riportarla a lui... finché l'occhio gli cadde sull'impronta rossastra sulla quale, la sera del loro incontro, lei aveva posato la mano.

Quasi senza accorgersene, la raggiunse e riuscì a mettere insieme quel poco di lucidità che bastava per osservarla attentamente.
Era l'impronta di una mano, sbiadita dal tempo ma riconoscibilissima.
Una mano insanguinata.

L'impronta di quelle dita gli riportò alla memoria l'anello maledetto che Laura gli aveva dato, raccomandandogli di distruggerlo perché lei fosse liberata da quel luogo... e le parole di Calò.

A verità sta propriu 'nto casteddu...”
“...fatemi l'unuri di viniri a trovarmi a casa...”

Sì... sarebbe andato da lui.

*

Fu proprio Calò ad aprirgli, senza mostrare meraviglia alcuna.
Probabilmente immaginava che gli avrebbe fatto visita anche se, forse, non a quell'ora così mattiniera.

“Le chiedo scusa, Calò, so che non è un orario appropriato per una visita ma...”
Vossìa non si preoccupi, qua tutti mattinieri semu... accomodatevi.”

Gli fece strada verso il tinello, arredato modestamente come il resto della casa, ma pulito e dignitoso, accingendosi a fare gli onori di casa.

Vossìa fici colazione? Saruzza, u cafè... e porta i dolci chi facisti ajeri! Meo mugghìeri pasticciera sopraffina jè... vedrete!”
“Grazie, Calò, ma non ce la faccio a mandare giù nulla... devo parlarvi e subito.”
Bedda Matri, jè cosa tantu urgente da nun potere fari neppure colazione?”
“Sì, Calò... proprio così.”

Senza aggiungere altro, Pete estrasse l'anello dalla tasca del giubbotto, mostrandoglielo.

Calò fissò il prezioso monile, senza proferire parola.
Solo una lacrima, scorrendogli sul viso, fece comprendere a Pete che, in qualche modo, quell'uomo sapeva ogni cosa di quanto era accaduto nel castello... e che Laura era indissolubilmente legata al sarcofago senza nome, nella chiesa di Palermo.

Il loro lungo silenzio fu interrotto dall'arrivo della moglie di Calò: un'attempata signora dai capelli grigi e dagli occhi neri, logorata dal lavoro e dagli anni ma colma della fiera dignità del popolo siciliano.

Pete fece rispettosamente per alzarsi e presentarsi, ma il suo volto bastò per farle fare quasi un salto indietro... insieme al segno della Croce, mentre lo fissava con occhi spalancati.
Bedda Matri... ma... ma voi...”

Saruzza, calmati... sì, lu sacciu a cosa stai pensannu, ni parleremo chiu tardu. Pi u mumenti io e chistu signuri dobbiamo parlari, lassaci soli...”
Sta bene... scusatimi. Vossìa s'abbenedica...” fu il congedo della donna, rivolta a Pete.
Se ne andò, senza aggiungere altro.

Calò chinò il capo, incapace di reggere lo sguardo di Pete, che si era seduto di nuovo e lo fissava con occhi ardenti e vitrei allo stesso tempo.
Mormorò soltanto una frase, stranamente in perfetto italiano... ma che Pete, ugualmente, non comprese.

“Oggi è il quattro dicembre... fanno giusto cinquecento anni...”
“Che significa?”

Vossìa mi ha onorato della sua visita per sapere la verità sulla tomba della baronessa... e la verità è cominciata esattamente cinquecento anni fa, il 4 dicembre del 1563.”
“Mi racconti tutto, Calò... la prego.”

“Vi avverto: la storia che vi racconterò vi sembrerà incredibile.”
“Qualsiasi cosa mi dirà, le crederò.”

Calò strinse le labbra, per poi schiuderle in un sospiro doloroso... ed iniziò a parlare, dipanando la matassa che ingarbugliava la mente del giovane.

“Esattamente cinquecento anni fa, nel castello di Carini, fu commesso il terribile omicidio narrato da una ballata delle nostre parti... una ballata composta per commemorarne le due vittime. Vossìa non la conosce, immagino...”
“No... non l'ho mai sentita.”

“Aspettate...”

Il brav'uomo si alzò per accendere un vecchissimo giradischi posato su di una mensola, estraendo poi un altrettanto vecchio 45 giri da una piccola pila di dischi posta di fianco all'apparecchio.

Non ci volle molto perché nella piccola casa risuonassero, accompagnate da una chitarra, le parole che narravano un'antica storia... una storia di amore, di dolore e di morte.

Pete non la comprese del tutto, ma Calò gli andò in soccorso traducendogli sottovoce, man mano, i versi più importanti.

Piangi, Palermo…
Piangi, Siracusa…
A Carini c’è il lutto in ogni casa…

Intorno al castello di Carini
Va avanti e indietro un bel cavaliere...
il Vernagallo, di sangue nobile
Che gode i favori della gioventù...

Amore, chi può trattenermi dall'obbedire ai tuoi comandi?
Dove mi porti, dolce amore, dove?”

Vedo arrivare degli uomini a cavallo
Questo è mio padre, che viene qui per me...
Tutto abbigliato con i suoi paramenti da cavaliere,
questo è mio padre... che viene ad uccidermi!”

Signor padre, cosa sei venuto a fare?”
“Signora figlia, vengo ad ammazzarvi!”

Al primo colpo la donna cadde,
al secondo colpo la donna morì.
Un colpo al cuore, un colpo alle reni...
Povera baronessa di Carini”.

“Credo di aver capito... il Vernagallo fu causa della morte della baronessa?”

“Sì, ma non nel senso che tutti potrebbero pensare... non era semplicemente l'amante della baronessa: loro si amavano fin da ragazzi ed avrebbero voluto sposarsi, ma non riuscirono a vincere la prepotenza del padre di lei, il barone di Trabìa, don Cesare Lanza. Lei aveva soltanto quattordici anni quando lui le impose un matrimonio con don Vincenzo La Grua, il figlio del barone di Carini... un matrimonio combinato, come si usava allora, per il quale nulla contavano i sentimenti e la giovanissima età della sposa.”

“Vedo che lei conosce bene la storia della baronessa... l'ha studiata a fondo.”
“Nessuno studio, capitano: la mia famiglia è legata da secoli alla baronessa... si può dire che io sia qui grazie a lei.”

Si asciugò gli occhi con il fazzoletto.
“A quel tempo le donne che mettevano al mondo un figlio senza essere maritate erano additate ed abbandonate da tutti, sempre che non finissero uccise dal padre o dai fratelli mentre ancora erano incinte... ed il bambino, se pure lo lasciavano nascere, veniva abbandonato in una chiesa, se non in mezzo alla strada. Ci fu una contadina di Carini, si chiamava Caterina, che rimase incinta di un giovane... si volevano bene assai, ma la famiglia non la voleva fare sposare, per non perdere due braccia nei campi. Lei pensò di metterli di fronte al fatto compiuto, ma per poco non la ammazzarono insieme al bambino che portava in grembo... lei si salvò scappando nella chiesa del paese e chiedendo asilo al parroco.”

Sospirò di rassegnazione, prima di proseguire.

“A quel tempo le cose andavano così ma, per fortuna, il parroco si rivolse alla baronessa... e quella brava giovinetta non fece mancare il suo aiuto: accolse Caterina e quel bravo giovane, Luca, al castello e non solo li fece sposare, ma fece da madrina al bambino e li tenne a servizio... Caterina diventò la sua cameriera personale e Luca il custode del castello. Nessuno ebbe niente da ridire, perché all'epoca erano le donne ad occuparsi di assumere la servitù... l'unica cosa che la baronessa chiese, in cambio, fu la promessa che sarebbe stata sempre la loro famiglia a custodire il castello di Carini. E così, di generazione in generazione... eccomi qua, io ed i miei figli. E' grazie alla baronessa che la mia famiglia esiste... e mantiene la promessa di custodire il castello.”

“Quindi lei è discendente da quel bimbo a cui la baronessa diede la possibilità di nascere...”

Calò annuì, con un sorriso malinconico ad illuminargli il volto... un sorriso che lasciava trasparire il gran cuore di quell'uomo che, anche dopo secoli, non aveva dimenticato il debito di gratitudine della sua famiglia nei confronti della nobildonna, che aveva reso possibile la loro stessa esistenza.

“Tutto il popolo la amava moltissimo, perché era di animo generoso e caritatevole: nessun bisognoso che si fosse presentato alla porta del castello sarebbe mai andato via a mani vuote, nessuna famiglia che avesse bisogno di aiuto veniva abbandonata... il buon cuore della baronessa era diventato leggenda in tutta la Sicilia sin da quando era una bambina. Quando, in qualsiasi città o paese, si parlava della baronessina, non c'era bisogno di farne il nome... tutti sapevano che era lei. Pure dopo che fu maritata e venne a vivere qui, gli anziani continuarono a chiamarla così... la baronessina. Le volevano tutti bene, come ad una figlia.”

Strinse le labbra in una smorfia di rabbia, prima di proseguire.
“Tutto il contrario di so' patri... quell'uomo era avido e spietato, avrebbe giurato il falso sulla tomba di sua madre pur di ottenere quel che voleva! Ricevette dai La Grua la richiesta della mano della figlia per il loro figlio Vincenzo... e non ci pensò due volte a concederla, pur sapendo che lei era innamorata di Ludovico. Considerava quell'amore come una ragazzata e, per lui, Ludovico era sempre e comunque l'erede di una famiglia meno nobile e meno ricca dei La Grua...”

“Ma... lei non poteva rifiutarsi?”
“No, povera figghia... le usanze e le leggi del tempo non consideravano per nulla la volontà delle donne, specialmente in faccende di matrimonio. Il padre aveva diritti ed autorità assoluta, non c'era modo per lei di opporsi.”

Pete strinse i pugni, avvertendo un sapore amarissimo salirgli in gola... intuì quanto Calò stava per dire, ma questo servì solo a gonfiargli gli occhi di lacrime, che a stento poté trattenere.

Fissò il suo anziano interlocutore, anche lui sul punto di commuoversi per l'ira e la pietà che lo avevano invaso, nel raccontare quella storia di soprusi e di ingiustizie.
“Non le servì a niente il piangere e l'implorare... fu costretta a sposare un uomo che non amava, impostole dal padre per dare lustro al loro casato ed aumentarne il patrimonio, mentre Ludovico piombò nella disperazione al vedere la donna amata condotta all'altare da un altro.”

“E... cosa successe dopo?”

“Le parole della ballata... ve le ricordate? Amuri, chi mi teni 'a to cumanni? Successe quello che doveva succedere: quei due infelici divennero amanti, non potendo sopportare di rinunciare l'uno all'altra... il marito di lei, don Vincenzo, era un codardo e non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare il Vernagallo a viso aperto, per cui finse di ignorare la faccenda, ma don Cesare aveva spie dappertutto e venne presto a sapere ogni cosa.”

Pete strinse i pugni... attendendo di udire quanto già, in cuor suo, aveva compreso.

Calò esitò, per riprendere il controllo delle labbra, che gli tremavano per il dolore e per la rabbia.
Prese un profondo respiro e proseguì.

“Tentò di affrontare l'amante della figlia da solo, per evitare che altri scoprissero la verità e scoppiasse uno scandalo, ma si trovò di fronte uno spadaccino di prim'ordine e dovette fuggire. L'onta della sconfitta si aggiunse alla vergogna che lei stava gettando sulla famiglia... e decretò la morte di quei due sventurati. Il tempo di organizzarsi e, due sere dopo, don Cesare piombò con tre dei suoi sgherri nella camera della figlia, proprio mentre lei e Ludovico erano l'una nelle braccia dell'altro...”

“E fu la fine...” mormorò Pete, con voce strozzata.

“... e fu la fine. Chiddu patri snaturato scannò la figghia senza pietà, facendo uccidere anche il Vernagallo dai suoi uomini, che lo pugnalarono alla schiena... non le concesse nemmeno l'ultimo atto di compassione, accordandole di confessarsi prima di morire.”

Pete quasi digrignò i denti per l'ira che lo invase: personalmente considerava il raccontare i fatti propri ad un prete come un qualcosa di inconcepibile, ma la crudeltà del voler condannare a morte non soltanto nel mondo terreno, ma anche nell'altro, lo fece imbestialire oltre ogni limite umano.

Gli rimase soltanto quel po' di lucidità necessaria per intuire, per quanto confusamente, quale fosse l'ultimo tassello del mosaico: il sarcofago senza nome.

“Per questo la tomba di... della baronessa è anonima?”
Vossìa ne ha di cervello... sì, è per questo. Chiddu cori ri pietra di so patri volle che nessuno potesse rintracciare la sua sepoltura, per impedire anche che si potesse pregare sulla sua tomba. Nunn'a fici aviri neppure 'n funerale cristianu.... fu chiusa ri notti 'nta sarcofago, sìenza neppure a benedizione ri 'n sacerdoti.
“Nemmeno il funerale o la benedizione di un sacerdote...” fu il ringhio di Pete, ormai fuori dalla grazia di qualsiasi Dio potesse esistere nell'Universo.

“Esatto... perché fosse dimenticata da Dio e dagli uomini. Per quell'infame veniva prima l'onore della casata e poi tutto il resto, figghia compresa!”

Un lampo attraversò la mente del giovane capitano.
Quell'impronta sul muro...

“Calò... su di una parete del castello ci sono delle strane strie brunastre... che sembrano riprodurre la forma di una mano. Non... non ne sono certo, ma mi è sembrato che fossero di sangue...”
Sono di sangue, vossìa ha ragione...”

Pete non ebbe il coraggio di chiedere nulla.
Il ricordo di Laura che posava la mano proprio su quell'impronta, del suo singhiozzo soffocato e del suo pianto silenzioso ma, soprattutto, delle due cicatrici che le sfregiavano lo splendido corpo, gli fece incasellare un altro tassello del mosaico e lo fece sprofondare ancor di più nella disperazione.

Si chiuse il viso tra le mani.

Ricordò altri versi della ballata che Calò gli aveva tradotto.
Ne sussurrò i versi, con un filo di voce.

“Un colpo al cuore... un colpo alle reni...”
“Sì, Vossìa ricorda bene. Al primo colpo la donna si portò la mano al petto, prima di cadere... per un momento si voltò verso la parete come per cercare sostegno... e vi appoggiò la mano, completamente rossa di sangue. Ma quel cane fetuso di so patri non si accontentò del primo colpo, che già era mortale... la pugnalò pure alla schiena, prima che lei crollasse morta.”

“BASTA! Basta, Calò... basta!” fu l'urlo rabbioso di Pete, che sentì di non poter reggere oltre al sentir parlare dell'atroce martirio subìto dalla... dalla baronessa? O forse da...

Sì.
Era giunto il momento della domanda cruciale.
Pete tirò un profondo respiro, prima di parlare.

“Calò... la baronessa... come si chiamava?”
“Laura, capitano... si chiamava Laura.”

Una lacrima, finalmente, scese sul volto di Pete... e poi un'altra.
Ed un'altra ancora.
Si racchiuse il viso tra le mani, rinunciando a trattenersi.

“Allora... quella tomba... è la tomba di Laura?”

Un sospiro gli rispose di rimando.
“Sì... ma non soltanto la sua. La leggenda dice che delle donne pietose, alle quali la baronessa aveva fatto del bene, con l'aiuto del parroco del paese presero in consegna il corpo del Vernagallo e, di notte, aprirono il sarcofago di Laura e vi posero anche lui.”

Si alzarono entrambi, contemporaneamente, con lo sguardo rivolto alla sagoma del castello, inquadrata dalla finestra aperta ma non più illuminata dal sole: un inseguirsi di nubi nere aveva velato il cielo, preannunciando tempesta.

Mille ricordi ed altrettante domande affollavano la mente di Pete, ma soltanto una di esse riuscì a trovare la via della sua bocca, mentre i suoi occhi fissavano l'anello di Laura, che era rimasto sul tavolo.

Un alternarsi di scintillii cupi e luminosi richiamò alla sua mente le ultime parole di Laura.

I ritratti...

“Calò, Laura mi aveva detto che, se vi avessi mostrato quell'anello, voi mi avreste mostrato...”
“... dei ritratti? Aspettavo solo che vossìa me lo chiedesse. Venite con me... e capirete tutto.”

Lo guidò lungo il corridoio che tagliava in due la casa, fino ad una porticina che dava su di una scala a chiocciola... la scala di una cantina.
Gli scalini terminavano in un altro corridoio, dalle pareti di roccia, che percorsero fino all'improvviso aprirsi di una enorme grotta... che ospitava due quadri, con ogni evidenza antichissimi.

Due ritratti, a grandezza naturale, l'uno a poca distanza dall'altro.

Un grido soffocato eruppe dalla gola di Pete.
“LAURA!”

Sì, Laura.
Impressa sulla prima tela, in abiti rinascimentali, con al dito indice della mano sinistra lo stesso anello che gli aveva affidato, c'era lei.
Laura.

La donna che, per un tempo troppo breve, lo aveva amato... e della quale lui, nonostante fosse ormai morta da secoli, si era innamorato.
Avrebbe invocato la morte in quello stesso momento, pur di raggiungerla...

La mano di Calò, paternamente, gli si posò sulla spalla.
“Non è tutto... vossìa guardi anche l'altro ritratto. Coraggio...”

Ci vollero parecchi minuti perché Pete gli desse ascolto e si girasse verso l'altra immagine dipinta... minuti di lacrime silenziose, alternate a singhiozzi soffocati.

Calò non ritrasse la mano: aveva compreso che quel giovanotto aveva bisogno di un contatto con la realtà, per non perdere del tutto la ragione dinanzi allo svelarsi di quel mistero e sotto il peso del dolore.

Vossìa se senti megghio?” gli chiese, sottovoce, quando gli sembrò che il pianto si fosse calmato.
“No...” mormorò Pete, soffocando un altro singhiozzo.
“Fatevi forza... dovete arrivare fino in fondo, ormai”.

Pete sollevò gli occhi, rossi ed annebbiati, per volgerli dove Calò stava puntando il dito... e, per un istante, credette di essere preda di un'allucinazione.

Il suo stesso volto...
Nel secondo ritratto, poco distante da quello di Laura, campeggiava il suo stesso viso... la foggia degli abiti era della stessa epoca di quelli di Laura, la capigliatura era lunga e liscia e di un biondo diverso dal suo, più scuro e lievemente cinerino, ma il volto era il suo!

Non ebbe bisogno di chiedere a Calò chi fosse il giovane dipinto su quella tela: su ambedue i ritratti l'artista aveva riportato il nome ed il titolo, oltre allo stemma, del personaggio che aveva raffigurato.

Ludovico Vernagallo, barone di Dainasturi... all'età di trent'anni.

Trent'anni.
Come Laura.
Ambedue nel fiore degli anni... ed ambedue assassinati.

Per il solo crimine di essersi amati.

Perché nel tempo in cui nacquero, l'amarsi contro la volontà delle proprie famiglie era una colpa da punire con la morte... mentre, invece, era assolutamente lecito il combinare un matrimonio per accrescere il potere e le ricchezze della famiglia, anche a costo di straziare il cuore della figlia o del figlio a cui veniva imposto.

Pete sembrò vacillare, mentre i suoi occhi vagavano da un ritratto all'altro, senza poter trattenere il pianto silenzioso che ancora gli bagnava le guance.

Calò si rese conto che il giovane non avrebbe retto ancora a lungo dinanzi a quelle due tele ed a ciò che gli avevano rivelato. Lo prese per un braccio, gentilmente, invitandolo a seguirlo.

“Basta, vossìa ha bisogno d'aria fresca... i ritratti non si muovono da qui, potrete scendere di nuovo, dopo, se volete.”
Lo trascinò via, garbatamente ma fermamente, riportandolo alla scaletta e facendolo risalire in casa.

Il caffè, anche se ormai freddo, fu un toccasana per il giovane, che ne mandò giù due tazzine colme.
Avrebbe voluto rifiutare i dolci – squisiti pasticcini di mandorle e ricotta, tipici siciliani – ma Calò, paternamente, insistette.

Vossìa deve mangiare... e poi meo mugghieri malissimo rimarrìa, se sapissi chi nun aviti favorito... mangiate.”

Più per stanchezza mentale che per necessità di nutrirsi, Pete obbedì.
Calò gli versò dell'altro caffè, comprendendo che il giovanotto dinanzi a lui aveva assoluto bisogno di una sferzata di energia per riprendersi da tutto quel che gli era accaduto... e non solo dagli eventi soprannaturali che aveva vissuto, ma dal dolore che gli stava divorando l'anima al pensiero che non avrebbe rivisto mai più la donna che amava.

Se avesse accettato di fare quello che Laura, sicuramente, gli aveva chiesto.

*
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Due ritratti, a grandezza naturale, l'uno a poca distanza dall'altro.



*


 

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


“Più dolce sarebbe la morte se il mio sguardo
avesse come ultimo orizzonte il tuo volto,
e se così fosse...
mille volte vorrei nascere
per mille volte ancor morire.”

(W. Shakespeare)


- Carini, 4 dicembre 2063 - 10:00 -

Il sole di dicembre, tornato insolitamente luminoso e sgombro da nubi, sembrò riportare Pete nel presente, dopo aver attraversato – tra le parole di Calò e la vista dei due ritratti – cinque secoli di oscurità.

“Calò... vorrei raccontarvi...”
“Quello che vi è accaduto nel castello? Non ne avete bisogno... so tutto. Lo sapevo sin da prima che accadesse e così mio padre, mio nonno ed i miei antenati, prima di me.”

“Tutto?” esclamò Pete a mezza voce, lanciandogli un'occhiata in tralice e vedendosi rispondere affermativamente, con un cenno del capo ed un lampo di affettuosa complicità nello sguardo.
Arrossì al pensiero che quell'uomo, per quanto semplice ed alieno dal fare cattivi pensieri, potesse essere a conoscenza anche di quanto c'era stato tra lui e Laura.

Istintivamente comprese cosa volesse dire Calò con quel “...lo sapevo sin da prima che accadesse...

“Laura?”
“Sì... donna Laura. La sera del primo anniversario della sua morte, lei si palesò a Caterina, mentre lei terminava di rassettare la stanza dove si era consumato il delitto... e le raccontò della maledizione che so patri aveva scagliato su quell'anello, prima di infilarglielo al dito subito dopo averla uccisa. Ma non le disse soltanto questo...”

“Cos'altro?”
“La avvertì che l'anima di don Cesare, subito dopo la morte, si sarebbe servita a sua volta del potere diabolico di quell'anello, per rimanere nel castello... sia per sfuggire al castigo di Dio per aver dato l'anima al diavolo, sia per impedire che chiunque potesse agire per annullare la maledizione.”

“Ecco chi era...” disse Pete, tra sé e sé, ricevendo dalle parole di Calò la conferma di quanto già aveva intuito.
“Lo avete incontrato e vi siete battuto con lui, vero?” sorrise malinconicamente Calò.

Il giovane annuì.

“Donna Laura l'aveva predetto ad un pronipote di Caterina, in una delle sue apparizioni... quella del primo centenario della sua morte.”
“E' apparsa spesso, mi sembra di capire...”

“Ad ogni anniversario... senza mai mancare, neanche una volta. Ogni discendente di Caterina, nel corso dei secoli, ha avuto il privilegio di vederla e la consolazione di parlarle. Lei, poco prima di morire, fece una promessa a lei ed a suo marito: non avrebbe mai abbandonato la nostra famiglia, anzi... ci sarebbe rimasta vicina, aiutandoci in ogni modo possibile con consigli, avvertimenti e predizioni che si sono sempre avverate.”

“Aveva predetto che suo padre si sarebbe manifestato a sua volta?”
“Non soltanto...”
“Cioè? Mi dica tutto, Calò... non mi nasconda niente, la prego.”

“Non ne ho nessuna intenzione, state tranquillo... semplicemente aspettavo che foste voi a domandare, per essere sicuro che ve la sentiste di ascoltare.”
“Ed è così... vi ascolto.”

“I poteri malefici di don Cesare erano enormi, perché conferiti dal demonio in persona, ma non erano illimitati... per questo, la prigionìa che aveva inflitto a donna Laura non poteva essere totale ed assoluta: ad ogni centenario della sua morte, pur non potendosi allontanare dal castello, le era concesso non soltanto di manifestarsi, ma di riprendere corpo e sembianze umane per tre sere, non una di più, non una di meno... ed in quelle tre sere avrebbe avuto la possibilità di chiedere aiuto per essere liberata.”

Le labbra di Pete tremarono, mentre pendeva dalle labbra dell'anziano custode del castello.

“Se mai un uomo di animo nobile e di cuore impavido avesse messo piede nel castello in quell'occasione, gli eventi che portarono alla morte lei e don Ludovico si sarebbero ripetuti... e, se quell'uomo fosse riuscito a sconfiggere suo padre, le sarebbe stato permesso di sfilarsi l'anello e di chiedere a quell'uomo di distruggerlo.”

“Non poteva farlo da sola?”
“No, non poteva: il barone suo padre, sin dal giorno dopo l'omicidio, aveva fatto sparire dal castello tutti gli oggetti che fossero abbastanza pesanti da poterlo fare a pezzi... avrebbe dovuto uscire per cercarne qualcuno, ma la maledizione non glielo consentiva. Non era neppure possibile portare nel castello qualcosa di adatto, perché la stessa maledizione lo avrebbe fatto svanire nel nulla.”

Non c'era altro da dire.
Ormai Pete sapeva tutto.
Rimaneva solo un ultimo mistero da svelare.

“Calò, posso farle una domanda?”
“Tutte le domande che vossìa vuole. Chiedete pure...”
“Come vi spiegate che io... che io e Ludovico Vernagallo...”

“Il fatto che vi somigliate tanto da sembrare la stessa persona?”
“Sì...” fu la risposta soffocata di Pete.

Calò gli sorrise... un sorriso benevolo ed affettuoso, come se stesse parlando ad un figlio.
“Vi basterebbe sapere che la famiglia Vernagallo era originaria proprio di Verona?”

Il giovane ebbe un sussulto, talmente forte da fargli fare un passo indietro.

“Vuole dire che...”
“Sì... proprio così.”
“Reincarnazione...” mormorò Pete, sconvolto.

“Non proprio... se così fosse, la baronessa non avrebbe motivo di voler lasciare questa terra e raggiungere il cielo, per riunirsi a don Ludovico... se reincarnazione fosse, l'anima di chiddu poveru giuvini sarebbe qui sulla terra, dentro di voi: le basterebbe restare qui.”

“E... allora?”

Vossìa, iu sugnu cìertu ca... insomma, sono certo che... che da lassù, don Ludovico vi ha riconosciuto come suo discendente e vi ha scelto come suo rappresentante in terra... ed ha legato il suo spirito al vostro, affidandovi il compito di liberare la sua innamorata, quando ne fosse arrivato il momento.”

Traendo un profondo respiro, lo sguardo di Pete si perse nel cielo... che sembrò riflettersi nei suoi occhi azzurri, colmi di tristezza.

“Il guaio è che non ha legato a me soltanto il suo spirito, ma anche il suo cuore... e tutto ciò che conteneva. Per questo Laura, il castello e gli eventi che sono accaduti in queste tre sere mi sono stati familiari sin dall'inizio, anche se non riuscivo a ricordarli. O, meglio, era la mia mente a non ricordarli, mentre il mio cuore... li ha riconosciuti subito.”

Vossìa...”
“Sì, Calò?”
“Vi siete innamorato di lei, vero?”

Pete sorrise malinconicamente, mentre il suo sguardo continuava a sondare l'azzurro del cielo ormai sgombro da nubi.
“Lo sono sempre stato, Calò... lo sono da cinquecento anni.”

Tacque, socchiudendo gli occhi, come se la sua mente si fosse distaccata da quel luogo e da quel momento per galleggiare sull'oceano del sentimento che provava per Laura.
Un sentimento che aveva attraversato, intatto, ben cinque secoli, nonostante lui non ne avesse conservato memoria.

Un sentimento che, in quell'istante, gli suscitò una folle speranza.
“Calò... se decidessi di non distruggere quell'anello?”

La mano dell'anziano custode gli si posò di nuovo sulla spalla, come quando si trovavano dinanzi ai due ritratti nella cantina, con lo stesso fare paterno... solo che, a differenza della volta precedente, la sua voce aveva un tono ammonitore.
Pacato, ma ammonitore.

“E a quale scopo? Per essere il suo uomo e fare di lei la vostra donna? Non servirebbe... lei ha la facoltà di materializzarsi soltanto una volta ogni cento anni e, al prossimo centenario, voi già non ci sareste più. Avreste soltanto la possibilità di incontrarla una volta all'anno, il 4 dicembre, ma senza poterla neppure abbracciare... perché sarebbe con voi soltanto in spirito, anche se con l'apparenza di persona viva.”

Già... soltanto in spirito.
Fino al centenario successivo, per il quale lui sarebbe stato già morto.

Vossìa se la sentirebbe di tenerla ancora prigioniera, pur di rivederla? A parte l'inutilità per voi del trattenerla... non pensate che chidda povera fimmina sta aspettando da cinque secoli il momento della libertà? Non pensate che, ogni volta che vossìa la rivedesse, lei non farebbe altro che supplicarvi di lasciarla andare?”

Supplicarlo di lasciarla andare... sì, sarebbe andata proprio così, era inutile illudersi.
Sentì la disperazione lasciare il posto alla rassegnazione.
Calò aveva ragione.

“Senza contare, Dio preservi vossìa da ogni male, che se vi succedesse qualcosa... sarebbe stato tutto inutile, perché soltanto voi potete e dovete distruggere quell'anello. Se anche lo facesse qualcun altro non servirebbe a niente... e donna Laura rimarrebbe prigioniera in eterno.”

Fu quest'ultimo avvertimento di Calò a fargli prendere la decisione definitiva.

Il trattenerla non sarebbe servito a nulla: avrebbe potuto incontrarla soltanto una volta all'anno e, soprattutto, avrebbe rivisto soltanto il suo spirito, sia pure in forma umana e visibile... ed ogni volta avrebbe letto sul suo volto e nel suo sguardo la stessa disperata richiesta: liberami, Peter, liberami!

Non avrebbe potuto amarla, stringerla di nuovo tra le braccia e farla sua.

Avrebbe voluto invidiare Ludovico Vernagallo, nonostante la morte atroce che gli era stata inflitta, che per molti anni aveva potuto – sia pure in segreto – essere il suo uomo... ma il ricordo dei momenti che aveva vissuto con Laura glielo impedì: quella notte lui era stato davvero il suo uomo, nonostante nella sua memoria non fosse rimasta traccia degli eventi del passato... ed era tornato ad esserlo, anche se soltanto per quella notte.

Per quell'unica e meravigliosa notte d'amore.
Ricordò la sua tenerezza, la sua dolcezza, il trasporto con il quale aveva fatto l'amore con lui.

Avvertì il suo corpo fremere, mentre rievocava quegli istanti... sentiva, ormai, che quelle carezze meravigliosamente dolci, quella passione incontenibile eppure colma di tenerezza, quella sensazione di unione totale dei corpi e delle anime lo avrebbero accompagnato per tutto il resto della sua vita.
Senza che, questa volta, l'oblìo facesse da balsamo al dolore ed al rimpianto.

Cercò il consiglio di Calò che, rispettosamente, attendeva la sua decisione in religioso silenzio.
“Cosa devo fare, Calò? Cosa devo...”

La voce gli mancò, gli si spezzò in gola, sebbene i suoi occhi rimanessero asciutti... né poteva essere diversamente: aveva già versato ogni lacrima che aveva, per la rabbia, il dolore ed il rimpianto.

“Quello che vi ha chiesto donna Laura... distruggere quell'anello. Solo così libererete la sua anima dalle catene di questa terra e le permetterete di raggiungere don Ludovico... e getterete l'anima di chiddu patri scelleratu all'inferno, unni havi a stari! Fatelo, ve ne prego... ve lo chiedo anche io, come padre di figli: fate giustizia!”

Gli porse l'anello.
“Dovete farlo ... la giustizia di Dio ha messo la sua spada nelle vostre mani, non potete lasciarla chiusa nel suo fodero... tutto quel che è successo diventerebbe inutile e donna Laura, con don Ludovico, non potrebbero mai riunirsi. Se non volete farlo per giustizia, fatelo per amore... per amor suo.”

“Non avrei mai creduto di poter amare qualcuno più della mia stessa vita, Calò... eppure è così. Quando ho visto il suo ritratto ed ho capito tutto... avrei abbracciato e benedetto la morte, se fosse venuta a prendermi in quel momento.”

“Lo so... non occorre che me lo diciate. Ve lo leggo in viso. Ma in questo momento, vicino a voi, non c'è la morte: c'è la vita... quella eterna, quella che potete dare a quella povera anima. Voi vorreste darle tutto il vostro cuore... ebbene, avete modo di farlo. Offritele questo pegno d'amore: liberatela dalle catene che la imprigionano nel castello e lasciatela andare, lasciate che don Ludovico la accolga di nuovo nelle sue braccia.”

Il silenzio dominò quegli istanti, nei quali Pete cercò nel suo animo tutte le forze che poteva chiamare a raccolta per compiere quell'atto definitivo: l'atto che gli avrebbe fatto perdere Laura per sempre... ma che, allo stesso tempo, le avrebbe restituito la libertà.
La libertà... e l'amore di Ludovico.

Un amore che durava ormai da cinquecento anni e che, se solo lui l'avesse reso possibile, sarebbe durato per sempre.

Sì... era giusto che così fosse.
Prese l'anello dalle mani di Calò, cercando con lo sguardo qualcosa che gli permettesse di distruggerlo.
Non c'era che l'imbarazzo della scelta: in terra c'erano sassi, sassi dappertutto e, poco distante, una sorta di roccia piatta sembrò chiamarlo.

Non indugiò oltre: raccolse una grossa pietra e si diresse verso quella roccia, posandovi l'anello sopra.

La disperazione gli fece imprimere al braccio ed alla mano una forza tale che bastò un solo colpo: in un baluginìo di schegge e scintillii rossastri, il rubino andò in frantumi.
Stessa sorte toccò alla montatura, che si spezzò nel cerchio e nel castone della pietra.

Né lui né Calò si meravigliarono nel sentir aleggiare, nelle loro orecchie, due voci distanti ed irreali... eppure udibilissime.

Una era maschile... rauca ed orripilante mentre emetteva un urlo demoniaco che sembrò levarsi dalle profondità infernali e poi, nel dissolversi, ridiscendervi... per andare incontro alla punizione eterna che la giustizia divina riservava agli assassini.

L'altra si levò nell'aria un istante dopo.
Un dolcissimo sospiro femminile, che sembrava contenere in sé tutto il sollievo di una prigioniera finalmente sciolta dalle catene... e tutta la gratitudine del mondo nei confronti del suo liberatore.

Per una frazione di secondo Pete pensò di essere sul punto di piangere, per l'ennesima volta... ma si rese conto che non ve n'era ragione, anzi: la consapevolezza di aver liberato Laura e di averla restituita al suo amato erano motivi per sorridere, per provare il più profondo senso di pace che avesse mai sentito dentro di sé.

Tristezza e felicità si fusero nella sua anima... tristezza per aver rinunciato ad averla con sé sulla terra, felicità per averla restituita a colui per cui lei aveva sacrificato la vita.
Il suo Ludovico.

Rimase a fissare i frantumi dell'anello per un tempo incalcolabile, prima di voltarsi di nuovo verso Calò, che gli sorrise.
Vossìa ha fatto la cosa giusta. So quanto vi è costato, credetemi, lo so... e, che Dio mi perdoni, è costato anche a me lasciarvelo fare, perché da oggi la baronessa non si presenterà più al castello ogni anno. Né io né i miei figli né nessun altro della mia famiglia la rivedrà più... anche se avremo il conforto di sapere che è finalmente in cielo, tra le braccia di don Ludovico.”

Si scambiarono uno sguardo colmo di malinconia, prima che Pete rivolgesse a Calò una richiesta. Una richiesta che il buon uomo sembrava aspettarsi ed alla quale rispose prontamente.

“Calò... non avreste qualche oggetto della baronessa da darmi, per suo ricordo?”
“Sì che ce l'ho. Aspettate.”

Lo vide entrare lestamente in casa per uscirne pochi minuti dopo, tenendo tra le mani – delicatamente, come fosse stata una sacra reliquia – un indumento accuratamente ripiegato.

Una camicia da notte.
Quella camicia da notte.
Con altrettanta delicatezza, Pete la ricevette con un cenno di ringraziamento.

Non fece domande.
Non volle sapere come l'anziano custode ne fosse entrato in possesso... o come gli fosse stata affidata.
Non ce n'era bisogno.

Non gli rimaneva che un'ultima cosa da fare... e decise di farla.
L'ultimo atto di giustizia.

“Calò, accompagnatemi a Palermo. Devo parlare con padre Mariano, ma voglio che ci siate anche voi.”
“Come vossìa comanda.”

*

- Palermo, 4 dicembre 2063 - 19:30 -

Dalle vetrate istoriate della navata, filtrava la luce rossastra del sole ormai al tramonto.

Con un sorriso triste che gli aleggiava sul volto, Pete seguì con gli occhi i due operai che uscivano dalla chiesa, dopo aver ultimato il loro lavoro.

Si era offerto di ricompensarli generosamente, ma nessuno dei due aveva voluto accettare denaro: si erano schermiti dicendo che non potevano farsi pagare da un ospite di don Mariano, ma lui era sicuro che anche loro conoscessero la storia del sarcofago anonimo della baronessa e del Vernagallo... e che, per questo motivo, fossero stati felici di porre fine a quella crudeltà postuma.

Si girò verso il vecchio sacerdote che, benevolo, gli sorrideva.

“Grazie, padre... so che per venirmi incontro ha commesso un reato, visto che quel sarcofago è tutelato quale oggetto storico. Spero che non debba pagarne le conseguenze in futuro...”
“Anche se ci fossero, non mi preoccupano: la giustizia viene prima di tutto... e non parlo di quella della legge, ma di quella degli uomini. Oltretutto sono vecchio e non ho famiglia... alla mia età, meglio le conseguenze di un processo che una cattiva coscienza.”

“Ma se è così... come mai non ha provveduto lei a far incidere i nomi sul sarcofago?”
“Perché ho sempre saputo che non toccava a me... e sapete bene cosa voglio dire. Vero, Calò?” disse, voltandosi in direzione del suo sagrestano, con uno sguardo d'intesa.

“Vero, patri Mariano.” - fu la risposta sorridente di quest'ultimo - “Ma perché la scritta sul sarcofago è in latino? Cusì nun si capisci nenti...
“Perché così usava all'epoca della baronessa, Calò... ed era giusto che la scritta fosse così come se l'avessero scolpita allora. Ve la traduco?”

Vossìa sì, grazie mille...”

Il sacerdote iniziò a leggere l'iscrizione in latino, per poi tradurla, indicandogli man mano con il dito le righe che stava percorrendo.

HIC QVIESCIT NOBILISSIMA DOMINA
LAVRA LANZA
FILIAM CAESAR BAR. TRABIAE
VINCENTII LA GRVA BAR. CARINII SPONSA
ORTO TRABIA A.D. MDXXIX – VII OCT.
OBIIT CARINI A.D. MDLXIII – IV DEC.

ET NOBILIS DOMINVS
LVDOVICO VERNAGALLO
BAR. DAINASTVRII
ORTO A.D. MDXXVIII – XVIII IUN.
OBIIT CARINI A.D. MDLXIII – IV DEC.

Qui giacciono la nobilissima signora Laura Lanza, figlia di Cesare, barone di Trabia, sposa di Vincenzo La Grua, barone di Carini, nata a Trabia il 7 ottobre dell'Anno del Signore 1529, morta a Carini il 4 dicembre dell'Anno del Signore 1563 ed il nobile signore Ludovico Vernagallo, barone di Dainasturi, nato a Dainasturi il 18 giugno 1528, morto a Carini il 4 dicembre 1563.”

"Che 
possino arrepusari in pace..." sussurrò Calo, segnandosi, mentre Pete rientrò nella chiesa - dalla quale era uscito per pochi minuti - con un meraviglioso mazzo di rose rosse tra le mani.

Lo depose delicatamente sul sarcofago, in silenzio. 

*

- Carini, 4 dicembre 2063 - 20:45 -

Le mura del castello emersero in distanza dalle ombre della notte, mentre l'automobile percorreva, lentamente, l'ultima parte della strada da Palermo a Carini.
Pete, silenzioso, sembrava perso nei suoi pensieri e, così almeno sembrò a Calò, più si avvicinavano alla loro destinazione e più rallentava l'andatura.
Come se non volesse giungere mai.

Come se il rimettere piede in quei luoghi decretasse la fine di quell'incredibile storia... ed il suo addio definitivo a Laura.

Le uniche parole che aveva pronunciato erano quelle rivolte al dottor Daimonji quando, appena usciti dalla chiesa e saliti in auto, lo aveva chiamato sul bracciale radio per avvertirlo che sarebbe rientrato molto tardi.
Stranamente, il dottore non gli aveva chiesto spiegazioni, tantomeno lo aveva rimproverato per essersi reso irreperibile sin dalla sera prima.

Gli aveva soltanto detto: “Va bene, Pete. Prenditi tutto il tempo che ti occorre. La partenza è prevista per domattina alle undici.”
Non più loquace era stato Sakon, inserendosi nella conversazione con un breve: “Cerca di essere qui per le nove, in modo da effettuare il check della strumentazione senza fretta.”

Calò aveva rispettato il suo evidente desiderio di non fare conversazione: aveva compreso benissimo il suo bisogno di silenzio e si era regolato di conseguenza.

Non si era sorpreso più di tanto quando Pete, giunti nella chiesa, aveva chiesto a don Mariano di rendere finalmente giustizia completa alla baronessa ed al Vernagallo, facendo incidere i loro nomi sulla parete del sarcofago che accoglieva il loro riposo... ed ancor meno nel vedere che il vecchio sacerdote non aveva fatto una piega, al riguardo: l'unica obiezione che aveva mosso era stata riguardo alla difficoltà di ottenere il tutto in giornata, soprattutto non potendo asportare il sarcofago e trasportarlo in qualche laboratorio apposito per effettuare il lavoro.

Tuttavia le insistenze di Pete gli avevano fatto ricordare di un suo compaesano di Montelepre, un paesino poco distante da Palermo, che lavorava appunto il marmo... il chiamarlo, spiegargli la situazione e ritrovarsi due marmisti in chiesa fu questione di due ore: non appena l'uomo all'altro capo del filo sentì nominare quel sarcofago, tutte le obiezioni sui problemi di tempo e di organizzazione si erano sciolti come neve al sole.

L'unica cosa che era rimasta dura come il granito era la determinazione dei due operai nel non presentare il conto a Pete – ordine del loro principale – e nel rifiutare qualsiasi compenso che il giovane volesse offrire a titolo personale.
Nulla di più facile – pensò – che anche loro, come il loro datore di lavoro, fossero a conoscenza della storia della baronessa... ed avessero voluto rendere, in quel modo, il loro omaggio ai due giovani che in quella tomba avevano l'ultima dimora.

Ritornò con la mente al sentiero sterrato che stavano percorrendo, alla fine del quale c'era la sua casa.

Vossia si fermi... siamo arrivati.”
“Ah... sì, giusto. Grazie di tutto, Calò...”
“Ma che... vossìa vuole già andarsene? Trattenetevi a cena, almeno... oggi a pranzo non avete mangiato nulla e meo mugghieri si dispiacissi si vossìa nun si degnassi di favorire... venite, ci saranno pure li figghi mei, sarei onorato di presentarveli.”

Pete sentì di non poter rispondere con una scortesia a quel galantuomo che si era messo a sua disposizione in ogni modo possibile... ed, ancora una volta, cedette.

Si accomodarono in casa.

*
La cena era stata semplicissima, tale da incontrare appieno i gusti di Pete, se fosse stato in grado di apprezzarla... ma il suo cuore era talmente greve ed appesantito che nel piatto avrebbero potuto esserci anche delle pietre, lui non se ne sarebbe neppure accorto.

La cordialità delle presentazioni con i figli di Calò e l'ospitalità dell'intera famiglia furono il solo balsamo che riuscì ad attutire il dolore dell'ultima consapevolezza: quella del dover andare via da quel luogo... dove, lo sapeva, avrebbe lasciato il suo cuore.

“Vuliti trasiri... cioè, volete entrare nel castello ancora una volta?gli aveva chiesto Calò, intuendo il suo desiderio mentre si congedava da loro.

Lo sguardo malinconico che il giovane gli aveva rivolto, in risposta, era stato più che sufficiente: Calò, con cortesia d'altri tempi, lo accompagnò fino al portone principale.
“Restate pure quanto volete, senza problemi... quando andrete via, lasciate pure le chiavi nella serratura del portone, le prenderò io domattina.”

Gli aveva stretto la mano, tenendola tra le sue: mani nodose, abituate al lavoro, prova evidente di quanto fosse un uomo semplice ed onesto.
Un uomo di gran cuore.

Pete fece per entrare ma la voce di Calò, anch'essa carica di malinconia, lo raggelò sul posto.
Vossìa entri pure... ma non credo si farà vedere.”

Lui si voltò di scatto, fissandolo con occhi roventi.
“Perché? E' ancora il 4 dicembre... non è ancora passata la mezzanotte!”

“Lo so, ma ormai l'anima di donna Laura potrebbe già essere sulla via del cielo. Però... chissà!” furono le ultime parole di Calò nel congedarsi definitivamente da lui, con un ultimo cenno di saluto.

Pete lo seguì con lo sguardo, finché non lo vide raggiungere la sua casa e rientrarvi, accolto dalla moglie.
Non sentì, né poteva sentire, le parole che si scambiarono.

Calò... u vidisti? Bedda Matri... 'u Vernagallu, 'parìa... beddo e biondo comu iddo... e gli stissi ùocchi azzurri! Uguale a iddo è!”
Saruzza, la mano di Domineiddio lunga è... e Dio nunn'è mercante, ca paga u sabbato. Cinque secoli ci sono voluti... ma finalmente chidda povera meschinedda ha avuto giustizia... ora havi solo da se riuniri co lu Vernagallu e da arrepusare 'nzemu a iddu cu 'a Maronna!”

I due paesani, silenziosamente, si ritirarono nella loro povera ma dignitosa casa, mentre Pete attraversava il cortile del castello e raggiungeva la stanza di Laura.

*

Era notte, ormai, ma la luce della luna pioveva a torrenti dalla finestra... dissipando l'ombra da ogni angolo e riflettendosi su ogni muro.

L'impronta insanguinata sembrava quasi chiamarlo... e lui, obbediente, le si avvicinò.
Poté osservarla solo per un attimo.

Un solo attimo... prima che iniziasse a sbiadire, fino a scomparire.
Pete barcollò, appoggiandosi a due mani alla parete per non crollare in terra.

No... non poteva andarsene così.
Non senza che potessero dirsi addio.
La chiamò, disperato, a piena voce... ma gli rispose soltanto il silenzio.

“Vorrei solo un bacio, Laura... soltanto quello, prima che tu te ne vada... non negarmelo, ti prego... non negarmelo!”

Silenzio.
Si guardò intorno, sperando di vederla apparire... sperando che lei gli concedesse l'ultimo saluto.

Nulla.
Soltanto il luccichìo lunare, riflesso delle pareti... seguito da quello delle sue lacrime.

No, non l'avrebbe più rivista.
Mai più.

Si avvicinò al letto, per dire addio a quelle morbide coltri che avevano accolto il loro amore... e che, in quel momento, accolsero il suo pianto.

Vi si gettò sopra, come a cercarvi ancora il profumo del corpo di Laura.
Gli sembrò di sentirlo... ma, lungi dal consolarlo, quell'aroma rese ancor più cocente il suo dolore, ancor più bruciante il suo rimpianto.

Sentì che non avrebbe potuto resistere ancora a lungo, disteso su quel letto, non senza di lei.
Si alzò, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano, dirigendosi verso il balcone che si apriva a fine corridoio ed aprendone la porta quasi con furia.
Aveva bisogno di aria.

Si appoggiò con la schiena al muro esterno, lo sguardo rivolto al cielo.

Nonostante lo splendore dell'astro notturno, che smorzava quello di ogni altro corpo celeste, vide scintillare una stella che sembrava pulsare... con lo stesso ritmo del suo cuore.
Come se volesse... dirgli qualcosa?

Fu questo l'interrogativo che gli balenò nel cervello, ma non ebbe il tempo di darsi una risposta: la sensazione di una presenza gli fece trattenere il respiro.

Si guardò intorno, ma non vide nulla e nessuno.
Tentò di convincersi che fosse stata solo un'impressione... quando avvertì una sorta di morbidezza sfiorargli tutto il corpo.
La stessa sensazione di morbidezza che gli aveva dato la pelle di Laura, dopo essersi sfilata la camicia da notte.

Sì, la stessa sensazione, identica... come se lei, invisibile ma presente, lo avesse sfiorato in un'ultima, soave carezza.

Un sospiro gli gonfiò il petto.
“Soltanto un bacio ti avrei chiesto, Laura... soltanto un bacio...” mormorò Pete, tra sé.

Forse fu un'allucinazione dei sensi... o forse fu il suo disperato desiderio di averla tra le braccia per l'ultima volta... ma sentì, nitidamente, il suo corpo venire racchiuso in una tenerissima stretta e, sulle labbra, un meraviglioso calore che gli invase tutto il corpo.

Si abbandonò a ciò che provava, senza più farsi domande.
Sapeva soltanto che, finalmente, Laura aveva chiuso gli occhi sul mondo terreno, per riaprirli lì dove Ludovico la stava aspettando.

Così come lui poteva chiudere i suoi ed abbandonarsi contro la parete, perdendosi nel rivivere quel che era appena accaduto... ormai consapevole che il suo desiderio era stato esaudito.

Non si chiese neppure, dopo, quanto fosse durato quel momento... non gli importava. Non contava.
Rivolse di nuovo lo sguardo verso la volta celeste, ancora rischiarata dallo splendore pulsante di quella stella... e non si sorprese, quando ne vide accendersi un'altra, vicinissima alla prima.

Vai, Laura... la tua felicità comincia adesso. Vai... sei libera.” pensò, prima di rientrare nel castello e ridiscendere all'ingresso.

Una bianca lucentezza, sul sedile posteriore della macchina, attirò la sua attenzione mentre rientrava in auto, per ripartire verso l'aeroporto di Palermo.

La camicia da notte di Laura.
Il ricordo della loro unica notte insieme.
Quello che lei stessa, ora lo sapeva, in qualche modo misterioso aveva voluto lasciargli tramite Calò.

La prese e se la avvolse intorno al collo, aspirandone profondamente la fragranza durante tutto il viaggio di ritorno al Drago Spaziale.

Sì... siamo insieme, Laura. Non a Carini e non sul Drago... ma siamo davvero insieme. In un altro tempo ed in un altro luogo... ma per sempre.

Le due stelle, che Pete aveva rimirato dal balcone del castello, emisero all'unisono un ultimo bagliore, intensissimo, prima che il chiarore lunare le velasse definitivamente.

L'ultimo addio di Laura.
Il suo ringraziamento, insieme a quello di Ludovico.
Il loro ultimo saluto... prima di involarsi, per l'eternità, verso il regno della luce.

* * *

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“...sentì, nitidamente, il suo corpo venire racchiuso in una tenerissima stretta
e, sulle labbra, un meraviglioso calore che gli invase tutto il corpo.


*

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