Blood

di DigitalGenius
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Giorni di sole ***
Capitolo 3: *** Il vento che soffia via la normalità ***
Capitolo 4: *** Ricordando il giorno ***
Capitolo 5: *** Che c'è sotto il mantello, Raven? ***
Capitolo 6: *** Profumo di segreti ***
Capitolo 7: *** Ciò che il cuore brama sapere, ciò che non vorrebbe mai patire ***
Capitolo 8: *** Un desiderio tra le stelle ***
Capitolo 9: *** Anime infrante ***
Capitolo 10: *** Come una maratona di film in TV ***
Capitolo 11: *** Quello che il demone non dice ***
Capitolo 12: *** Un altro giorno come quel giorno ***
Capitolo 13: *** Sangue ***
Capitolo 14: *** Lava e cenere ***
Capitolo 15: *** Sotto la polvere ***
Capitolo 16: *** Allo scadere del tempo ***
Capitolo 17: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Blood

Raven lasciò scivolare lo sguardo sulla baia di Jump City, a quell’ora della notte non era strano che fosse così pacifica, ma per la prima volta il paesaggio le parve troppo vuoto. La falce di luna si rifletteva nell’acqua, gettando i riflessi argentei per tutta la zona.
Sospirò, si passò una mano sul volto; tutta la stanchezza per la notte appena trascorsa le piombò addosso. Scostò le coperte, lanciandole ai piedi del letto. La testa fu attraversata da una fitta.
Rivide Robin che sbatteva il pugno contro il muro mentre le sibilava «Vuoi davvero liberare Trigon?». Era pronta a dargli una giustificazione valida, ma lo sguardo che le aveva rivolto l’aveva gelata. Li aveva delusi tutti. Si era limitata a chinare il capo, aspettando che Robin riprendesse a parlare.
Si morse il labbro inferiore, si alzò per poi raggiungere la scrivania. Era ingombra di libri e materiale per rituali di cui non ricordava nemmeno il nome. Dov’è lo specchio? Si chiese, preoccupata.
Lanciò un grimorio che atterrò sul pavimento con un tonfo, Raven strinse i denti, imponendosi di fare il meno rumore possibile.
«Traditrice» le aveva detto Robin, prima di iniziare a discutere con gli altri Titans di come poterla imprigionare senza il rischio che lei scappasse.
Spostò una confezione di candele, lo specchio era lì sotto. Sospirò sollevata, la superficie di vetro era nera intervallata da alcune increspature bianche. Raven recuperò la vecchia tracolla di cuoio da sopra la sedia e vi inserì lo specchio e pochi altri libri.
«Mi state prendendo in giro? Quella è Rae!» si era intromesso BB quando Robin l’aveva ammanettata per portarla via «Credi davvero che possa tradirci così?». Lei aveva incassato la testa tra le spalle, avrebbe voluto dirgli qualcosa ma non aveva potuto rischiare di compromettere tutto il lavoro ancora prima che iniziasse.
Indossò la tracolla.
Si diresse verso il letto, i suoi passi le parvero rimbombare nella testa «È meglio così» si disse, non poteva rischiare di fallire. Non in quel caso.
Sul comodino c’era il suo mantello piegato e, sopra di esso, il ricevitore. La giovane afferrò quest’ultimo e lo spostò sul letto, raccolse il mantello e aprì un cassetto. Le bastava una spilla da balia, nulla di più. Cercò a tentoni l’oggetto quando le dita sfiorarono una superficie ruvida. Una fitta dolorosa le attraversò il petto. Serrò la mandibola e tirò fuori una scatolina, al buio non poteva vederne i contorni ma passò i polpastrelli sul fianco, lì dove Beast Boy aveva scritto con un pennarello azzurro “Buon Compleanno Rae!”. La aprì, c’era una spilla della grandezza di una moneta in argento con alcune incisioni. Vi passò il dito sopra, richiuse la scatolina di scatto e la lasciò sul comodino.
Raccattò una spilla da balia e la appuntò al mantello per tenerlo bloccato, chiuse gli occhi.
Prese fiato e tese l’orecchio.
Il lontananza distinse il rumore delle onde del mare.
Non il suono dei passi pesanti di Cyborg, né la voce concitata di Robin che dava ordini, non il solito tono assonnato che aveva Star se svegliata nel mezzo della notte, né il rumore di Beast Boy che batteva i pugni sulla porta della sua stanza.
Che mi aspettavo? Un sorriso amaro le si delineò sul volto.
Si teletrasportò fuori dalla T-Tower. Nel mezzo della radura in cui si era materializzata tre figure incappucciate la aspettavano nell'oscurità. Il più alto tra i presenti si tolse il cappuccio: aveva i capelli argentei e la carnagione chiara, gli occhi erano totalmente bianchi. Belial. L’uomo sorrise, mosse qualche passo in avanti come a darle il benvenuto «Hai salutato i tuoi amici?» le chiese.
Raven lanciò uno sguardo dietro di sé, in lontananza poteva vedere il profilo della sua vecchia casa. Il cuore le mandò una fitta «Ho fatto tutto quello che dovevo» diede le spalle alla torre.

L'angolino delle Autrici

Ciao, sono Digital, non ho potuto fare a meno di appoggiare la geniale e sadica idea di questa fic! Alcuni di voi ci avevano chiesto una long, vi stiamo per accontentare, ma abbiate pazienza con noi

Stop! Genius mi ruba le parole e mi fa sembrare diversamente intelligente. Ricominciamo:
Ohilà, questa volta ci sono solo io a ringraziarvi. Piacere, sono Digital e il primo capitolo di questa matassa complicata è stato affidato a me. Quella che qua sopra si è spacciata per me è la mia modestissima partner. In ogni caso, in fondo è vero, qualcuno ci aveva chiesto una long e allora abbiamo accettato!
Vi ringrazio per aver letto e vorrei migliorarmi perciò non esitate ad essere il più crudeli possibile!
Ciao!
Digital 
P.s. e ciao anche da Genius, che si sente messa in disparte ed è modesta per davvero e non solo per finta

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Capitolo 2
*** Giorni di sole ***



GIORNI DI SOLE


Appena fuori dall’edificio, Garfield rischiò di inciampare sul marciapiede e ruzzolare per terra. Contare i soldi della sua busta paga camminando per strada non era stata una buona idea. Li rimise nella busta, la ripiegò e la infilò nella tasca posteriore dei pantaloni. Si guardò attorno con curiosità, riconoscendo il familiare ambiente cittadino. Lo stomaco brontolava leggermente, ricordandogli la colazione mancata. Guardò l’orologio al suo polso, notando che il suo incontro di lavoro si era prolungato più del previsto. Ringraziò il cielo che mentre era stato nell’ufficio del suo capo non ci fossero stati disordini in città, perché altrimenti avrebbe dovuto interrompere l’incontro e messo a repentaglio il suo lavoro e la sua copertura.
Mancavano una decina di minuti all’una e lui sapeva che il locale all’angolo aveva un menù particolarmente interessante. Si assicurò che la sua moto fosse ancora al suo posto, poi percorse il marciapiede, passando davanti all’edicola lanciò un’occhiata soddisfatta all’espositore. L’ultimo volume del suo fumetto era uscito appena un paio di giorni prima e lui non poteva che essere soddisfatto della fama che stava acquisendo uscita dopo uscita.
Si fermò al semaforo assieme ad un consistente gruppo di pedoni, tutti in attesa che le auto si fermassero per lasciarli attraversare. Quando questo successe la folla sciamò sulle strisce pedonali, per poi disperdersi una volta arrivati sul marciapiede opposto.
La vetrina esponeva numerose leccornie, ma Garfield sapeva bene a cosa mirava quel giorno. Si mise in coda, aspettando il suo turno. Nel frattempo recuperò il cellulare dalla tasca dei jeans, scoprendo di avere un nuovo messaggio e due chiamate perse.
Era ovvio che si fossero accorti della sua assenza, data la tarda ora. Di solito riusciva a sgattaiolare fuori e rientrare prima di pranzo.
“Torno tra un’oretta” , scrisse. Inviò il messaggio direttamente al cellulare di Richard e rimise via il proprio. Quando sollevò lo sguardo scoprì che era quasi arrivato il suo turno. Lanciò un’occhiata al cartellone appeso alla parete, scorrendolo con un’occhiata rapida senza prestarci veramente attenzione.
«Un panino con un hamburger di soia ed insalata, per favore» chiese accennando un sorriso alla signorina dietro il bancone. Lei ammiccò, poi farcì il panino e lo infilò in un sacchetto di carta. «Nient’altro?» domandò la ragazza sistemandosi il grembiule. «Qualcosa da bere?»
«Un bicchiere grande di succo d’arancia, magari» rifletté Garfield. Aspettò di essere servito e salutò le commesse con un cenno.
«Paga alla cassa»
Una volta fuori il profumino del suo pranzo – e quello del resto dei cibi del locale – era ancora nelle sue narici. Ora non gli restava che trovare un angolino tranquillo e pranzare con calma.
Il parco, pensò, non era molto distante. Tornò alla sua moto, infilò il sacchetto sotto il sedile e mise il casco.
Il parco era più affollato di quanto si aspettasse. Le prime giornate di primavera avevano a quanto pare attirato parecchie persone. Le famiglie che sedevano sull’erba nel bel mezzo di un pic-nick erano un paio. Scrutò il parco alla ricerca di un albero sotto cui sedersi per rilassarsi un po’. Finalmente avrebbe potuto festeggiare le sue vittorie della settimana e, ovviamente, rimuginare un po’ sul giorno che, nonostante lui non ne fosse poi così felice, si avvicinava inesorabilmente.

Lilith chiuse gli occhi, seppellì il volto dentro il colletto della giacca nera mentre sbuffava. Seduta su un’anonima panchina di un altrettanto anonimo parco, non poté fare a meno di pensare che essersi persa in quel modo fosse una cosa fin troppo stupida. Nemmeno suo fratello Jerry sarebbe stato in grado di sbagliare così platealmente.
Maledetto autobus, pensò.
Il parco pullulava di persone: coppiette sedute all’ombra degli alberi, un paio di famiglie stavano facendo picnic sui tavolini e bambini si lanciavano palloni. Lilith distolse lo sguardo, sperando che quei rumori fastidiosi smettessero di echeggiarle in testa.
Si concentrò su un anziano dai capelli radi e grigi che si stava avvicinando al laghetto delle anatre ed aveva preso a lanciare pezzi di pane dentro l’acqua. Avvertì un angolo della mente improvvisamente calmo, una lieve malinconia l’avvolse, stordendola. Strinse i denti e chiuse gli occhi. Estraniati, s’impose, queste non sono le tue emozioni.
Un uomo in giacca e cravatta le passò davanti alla panchina. Correva, gli occhi puntati all’orologio da polso, portava con se una ventiquattrore. Diverse sensazioni confuse le rimbombarono in testa, l’uomo si allontanò. Le sfuggì un sospiro stanco, spero che Jerry mi trovi in fretta.
«Ehi, rossa» disse una voce maschile «Posso sedermi?».
Alzò lo sguardo, un ragazzo dai capelli castani le rivolse un sorriso gentile, teneva stretto al petto un pacchetto unticcio e nella mano libera aveva un fumetto. La figura sfumò, una distorsione – simile a un lampo di energia nera – le attraverso gli occhi; ora il castano aveva la pelle verde. Il sorriso, però, era lo stesso.
Avvertì un fondo di tristezza gonfiarle il cuore. No! Pensò Lilith, estraniati, estraniati, estraniati. Lo sconosciuto le sventolò il fumetto davanti ai volto, le pagine le solleticarono il naso «Ehi, mi hai sentito?» chiese «Posso sedermi, Rossa?».
Lilith sbuffò, la sensazione di pesantezza continuava ad opprimerle il cuore «Fai pure, Macchia Verde». Si spostò di lato, ma il ragazzo rimase in piedi con la bocca spalancata. Passò lo sguardo dalla propria mano, al volto della giovane.
«Tu mi vedi? Cioè!» si pizzicò la guancia con forza. Fissò il proprio palmo aperto e batté indice contro un anellino grigio «Non ci credo, si sono scaricate le batterie a ‘sto coso?».
«Devo dedurre che non ti vuoi più sedere?» gli chiese.
Lo sconosciuto mosse le mani in segno di diniego: il cuore di Lily s’alleggerì, anche se aleggiavano ancora i rimasugli della sensazione negativa «No, che certo che mi siedo!» proseguì lui. Si lasciò cadere sulla panchina ed inspirò.
Nello stesso istante, anche Lilith prese un profondo respiro. Uno dei motivi per cui detestava essere empatica era l’essere così soggetta ai sentimenti delle altre persone.
Lo sconosciuto poggiò il fumetto al suo fianco e aprì il sacchetto unticcio «Ah!» esclamò, si voltò verso Lily «Non mi sono ancora presentato sono Garfield, piacere». Tirò fuori dal sacchetto un hamburger di soia «Sembri di cattivo umore» commentò con un sorriso, diede un morso e inghiottì rumorosamente «Vuoi un po’?».
«No, grazie» La ragazzina si mordicchiò il labbro inferiore, che seccatore, pensò. Si passò una mano tra i capelli, come faccio a contattare Jerry? Non sono mai stata in questa zona. «Ti piacciono i fiori?» chiese Garfield.
Lilith sbatté le palpebre diverse volte, prima di voltare la testa contro il ragazzo verde «Prego?» chiese «Come hai fatto a capirlo?».
Garfield le sorrise di rimando, accartocciò il sacchetto e lo lanciò dentro un bidone. Si sfregò il naso con l’indice «Hai tante di quelle fragranze addosso, tutte piante che fioriscono in questa stagione» gli sfuggì una risata. Sembrava così vera, eppure, grazie alla sua empatia, Lilith si accorse che il ragazzo si sforzava di essere allegro. «Devo dire che è un poco fastidioso starti vicino» proseguì lui, annusò l’aria intorno a se.
Grazie tante! Lily scrollò il capo, forse l’idea migliore era ignorarlo.
Garfield arricciò il naso, afferrò il fumetto «Sei stata in una chiesa, recentemente? Odori anche d’incenso» strizzò gli occhi, prima di passarsi per l’ennesima volta la mano sotto le narici. Lilith si mise una mano sul colletto della giacca, scostò un lembo e, sforzandosi di non farsi vedere, l’annusò. Possibile che i suoi vestiti si fossero impregnati così tanto d’incenso?
Garfield batté le mani davanti al volto «Visto che sei stata tanto carina da farmi compagnia» disse, «Posso darti un passaggio fino a casa tua? Dove abiti?».
Le spalle le bruciarono, mentre il calore s’espandeva fino alle guance. Doveva essere diventata rossa. Il passaggio di quello strano tizio le avrebbe fatto comodo, ma Jerry l’avrebbe rimproverata. Non poteva lasciare tracce.
«Io» mormorò la ragazzina, incassò la testa tra le spalle «Veramente, dovrei prendere l’autobus, adesso. Ho un impegno».
Un ghigno divertito s’allargò sul volto di Garfield «Non mi dire. Ti sei persa?».
Lilith ingoiò una rispostaccia, «Sì» esalò.
Il ragazzo le rivolse un’espressione comprensiva, la esortò ad alzarsi e la condusse via dal parco «Vieni,» le disse, incoraggiante «la fermata è a nemmeno due minuti da qui». Camminarono in silenzio; la ragazzina, a poco a poco, iniziò a riconoscere gli edifici e i pochi punti di riferimento che ricordava. Al punto che oltrepassò Garfield e prese a camminare, veloce, verso le strisce pedonali. Le sarebbe bastato attraversare la strada per arrivare a destinazione.
Le mani del ragazzo si poggiarono sulle sue spalle, e la costrinsero a compiere un brusco movimento all’indietro «Non così di fretta!» ridacchiò, la spinse dentro un negozio.
La sensazione di lieve infelicità – quella di Garfield – che le aveva stretto il cuore fino ad allora, scomparve. Gli occhi della ragazzina si animarono, felici. Quel tizio verde l’aveva condotta da un fiorista.
Lasciò scorrere lo sguardo sulle piante disposte negli scaffali, si ripeté i nomi con cui erano conosciute comunemente e quelli in latino. Sorrise, fermandosi davanti a un giglio.
«Ti piace?» chiese il ragazzo.
Lilith sfiorò con i polpastrelli il vaso del fiore «Sì» dischiuse le labbra, più che altro, si disse, le piaceva uno dei significati che poteva avere. «Non è il mio preferito, ma sì». Il giglio simboleggiava la purezza d’animo e, per un certo senso, lo invidiava. Si portò una mano al petto; per quanto lo desiderasse, non sarebbe mai stata come quel fiore.
«Davvero?» ora la voce di Garfield era venata di una lieve curiosità «Quale fiore preferisci?».
Un sorriso increspò le labbra di Lilith «Il mughetto».
Lanciò uno sguardo fuori dalla vetrina del negozio: un vecchio autobus si stava avvicinando alla fermata. Lilith lasciò perdere il giglio ed uscì fuori dal negozio, Garfield le corse dietro «Ehi!» protestò «Uffa!».
Lilith si bloccò quando giunse davanti alle strisce pedonali, il ragazzo si piazzò di fianco a lei e le mise tra le mani il proprio fumetto.
«Visto che non hai accettato l’hamburger, il passaggio o i fiori» le sorrise «Almeno permettimi di lasciarti questo». Lilith annuì sbrigativamente, poi attraversò la strada «Arrivederci!» urlò Garfield. La ragazzina strinse il fumetto al petto «Grazie!» disse, salendo sull’autobus.

Garfield guidò fino al molo, sfrecciando tra le strade di Jump City con fin troppo entusiasmo. Amava correre a quel modo, avere il vento addosso lo faceva sentire quasi potente. Era come se il mondo gli scrollasse di dosso tutti i problemi ed il dolore.
Peccato però che durasse poco. Già in prossimità del molo dovette rallentare, fermandosi poi davanti al vecchio magazzino che lui ed i suoi compagni di squadra utilizzavano come garage per i loro mezzi in borghese.
Smontò dalla moto per avvicinarsi al controllo elettronico, digitando a memoria il codice ed aspettando che la serranda del garage si alzasse completamente.
Nell’oscurità della stanza si delineò una fascia di luce che si espanse rapidamente. Ben presto tutte le vetture furono illuminate. L’auto sportiva di Victor era sempre la più fiammante; blu, ben lucidata e decisamente ed irrimediabilmente modificata. La bicicletta di Koriand’r era abbandonata in un angolo – aveva sempre preferito mezzi ecologici, per muoversi. E poi c’era lo spazio vuoto lasciato dalla moto che il mutaforma aveva temporaneamente fregato a Richard. Sperava che l’amico non si accorgesse mai che a volte, quando era in ritardo per sbrigare le sue commissioni, usufruiva del preziosissimo mezzo personale di cui era tanto geloso.
Rise tra sé, si sfilò l’anello olografico ed uscì, di nuovo proprietario del suo peculiare colorito verde. Aspettò che il garage si richiudesse dietro di lui, prima di avviarsi al pontile di legno.
Quel giorno la banchina era più affollata del solito; oltre al vecchio signor Smith, abitudinale traghettatore, c’erano anche un ragazzino minuto dai capelli scuri ed un giovanotto dall’aria goffa. Quest’ultimo cercava di caricare un pacco non troppo piccolo sulla barca ma, anche con l’aiuto del signor Smith, sembrava avere qualche problema.
Garfield inarcò la testa incuriosito. Il rumore dei suoi passi sul legno era coperto dal frusciare delle onde, ma questo non impedì al ragazzino di notarlo.
Lo vide scattare in piedi, come un soldato a cui avessero appena detto di scattare sull’attenti, poi strattonare la maglia del vecchio per attirare la sua attenzione.
Il pacco quasi cadde di mano al signor Smith, sarebbe finito dritto in acqua se Garfield non si fosse lanciato a prenderlo.
Quando il supereroe ebbe riportato al sicuro la scatola si rivolse ai due con un sorriso. «Non facciamo danni, eh?»
Strizzò l'occhio al fattorino alquanto sconvolto, sorridendogli.
«S-salve» balbettò il ragazzotto incerto.
Garfield sospirò e decise di aiutarlo a togliersi d’impaccio. «Quel pacco è per noi?» chiese divertito. Il fattorino doveva essere stato assegnato a quella zona recentemente, perché non ricordava di averlo mai visto prima di allora. Comunque, la domanda bastò a riscuoterlo.
«Sicuro» arrancò il ragazzo. «Può mettere una firma qui?» gli domandò poi formale allungandogli il suo taccuino ed una penna.
Garfield firmò senza esitazione. «Cyborg aspettava questo pacco da settimane, temeva che non arrivasse più. Giuro, l’altro giorno era disperato»
Fece l’occhiolino al ragazzino, che lo guardò divertito oscillando sul posto.
Il vecchio signor Smith, con la schiena ricurva e la barbetta bianca appena accennata, diede un colpetto sulla spalla del fattorino. «Bene, credo che tu possa andare, da qui possiamo occuparcene noi»
Il giovane annuì, allontana dosi tra il deluso e il sollevato. Il signor Smith rise sotto i baffi, poi si rivolse a Garfield: «Allora, pensavamo che non passassi più» disse saltando sul motoscafo con un po’ di difficoltà. Tese le braccia perché l’eroe verde gli passasse il pacco e poi, con attenzione, lo depositò sul fondo della barca.
«Ho avuto un incontro interessante, questa mattina» dichiarò Garfield con un sospiro.
«Una ragazza?» lo stuzzicò il vecchio.
Il mutaforma scosse la testa sorridendo. «Sì, si può dire così» poi si voltò a guardare il ragazzino. Aveva rilassato le spalle, ma non si era ancora mosso di un solo centimetro. Sembrava quasi che stesse a guardia dell’enorme sacco di lettere che Garfield riusciva ad intravedere dietro di lui; posta dei fan, senza alcun dubbio.
Il signor Smith parlò prima che lui gli chiedesse spiegazioni. «È il mio nipotino Julian, ci teneva a dare la lettera di persona ad uno di voi, così oggi l’ho portato con me. Spero che non ti dispiaccia»
Garfield sorrise a tutta bocca. «Nessun problema» poi si rivolse direttamente al ragazzino. «Allora, Julian, io sono Changeling» si presentò gentilmente. «Di che lettera si tratta?»
Lui si frugò nelle tasche tirandone fuori una busta bianca stropicciata. «È per Raven» rivelò. «So che non è più nella vostra squadra, ma speravo che uno di voi potesse dargliela. Lei è il mio eroe preferito» Il mutaforma dovette sforzarsi per reprimere il groppo in gola e continuare a sorridere. Erano mesi che non arrivavano lettere per lei; dopo che i titani avevano indetto una conferenza stampa per annunciare che aveva abbandonato la squadra i fan avevano smesso di inviarle.
«Vedi» cominciò Garfield dopo aver preso un gran sospiro «Noi non sappiamo dove sia lei adesso, ma ti prometto che se uno di noi dovesse incontrarla gliela consegneremo di sicuro»
Julian sorrise, poi lanciò un’occhiata soddisfatta al nonno, mentre Garfield infilava la lettera sotto la camicia, proprio sul cuore. L’avrebbe messa insieme a tutte le altre, nella speranza di fargliele leggere un giorno.
«Sei soddisfatto adesso?» domandò l’anziano al nipote.
Lui annuì convinto, mentre Garfield caricava il sacco di lettere sullo scafo. Il signor Smith lo aiutò a non farle cadere e poi, mentre il ragazzo saltava a bordo, fece un cenno serio al nipote. «Aspettami qui, accompagno il signor Changeling alla torre e sono da te. Non muoverti»
Julian annuì ubbidiente ed incrociò le braccia dietro la schiena, sorridente. Osservò il nonno mettere in moto ed aspettò che il motoscafo partisse, prima di rilassarsi e saltellare verso la spiaggia.
Garfield godette degli spruzzi delle onde che gli arrivavano dritti in faccia, rinfrescandolo ed inumidendogli la camicia.
Il signor Smith osservò la sua espressione corrucciata mentre si assicurava che il loro mezzo percorresse la giusta direzione.
I loro spostamenti lasciavano una scia di schiume bianca sull’acqua. La baia dei Titans distava solo pochi minuti dal molo, quindi non c’era tempo di intavolare lunghe chiacchierate o introdurre i discorsi con delicatezza.
E poi il signor Smith odiava temporeggiare. Preferiva arrivare subito al sodo. «Ci faranno sempre impazzire, eh?» domandò con un lieve tono di divertimento nell’osservare il ragazzo all’improvviso così mogio.
Garfield sollevò il volto confuso. «Cosa?»
Il vecchio gli sorrise gentilmente, facendogli notare il modo in cui stava strofinando le mani una contro l’altra, segno che il suo umore era precipitato notevolmente, mentre la sua mente era tornata a vagare in pensieri che da tempo aveva preferito ignorare.
«Le ragazze» chiarì l’uomo con un velo di nostalgia.
Finse di non notare l’espressione addolorata di Garfield, poi aggiunse: «Con il tempo andrà meglio, vedrai».
Il Titan sperò che lui avesse ragione, perché a volte quei pensieri non lo lasciavano neanche respirare. Aveva passato settimane intere a cercare Raven, aveva cercato di giustificare la sua fuga in mille modi diversi ma nessuno era riuscito a convincerlo veramente. Nonostante tutti i suoi tentativi di non pensarci il dubbio del tradimento era nascosto sul fondo della sua mente e lui era incapace di scacciarlo, ma non era disposto ad ammetterlo nemmeno a sé stesso.

Gettò l’ennesimo bullone arrugginito nel vecchio secchio. Nell’ultimo periodo sembrava che tutto, in quella torre, stesse andando in malora.
La T-Car era nel suo angolo, la fiancata completamente rigata, quasi un dolore fisico per il ragazzo. Era successo un paio di settimane prima, durante lo scontro con un supercattivo giù in città. Victor l’aveva presa più che bene, considerando che nessuno dei suoi amici si era fatto male e il criminale era stato consegnato alla giustizia nell’arco di mezz’ora. Più il tempo passava, più i Titans miglioravano. Si capivano senza dover comunicare, s’intendevano con uno sguardo ed i loro movimenti e le azioni erano sempre più coordinati. Chi non avesse conosciuto la loro storia non avrebbe neanche immaginato che la squadra non avesse sempre avuto quella formazione.
Sospirò, consapevole che presto si sarebbe abbattuto e perso nei ricordi. Appoggiò la schiena contro una parete, incrociando le braccia. Si domandò se il graffio sulla T-Car sarebbe stato paragonabile a quello che era stato inferto alla squadra e se qualcuno sarebbe stato in grado di ripararlo. La porta del garage si spalancò con violenza. Si voltò per sapere chi fosse, pronto ad avvertire di non essere così brusco. Poi notò Garfield che stringeva un pacco tra le mani. Sorrise, illuminandosi di colpo.
«Ehi Cy, guarda che è-» esordì il ragazzo verde.
Ma Victor lo interruppe accorrendo, esaltato. «È arrivato il mio pacco!» esultò quasi strappandolo dalle mani dell’amico.
«Esattamente quello che volevo dire io» appuntò Garfield divertito, seguendo il mezzo robot alla scrivania. Lo vide corrucciare la parte umana del volto, contrariato nel non aver trovato spazio per poggiare il nuovo arrivo.
Garfield batté due dita sulla gamba, in attesa. Victor gli aveva sempre impedito di toccare qualunque cosa, nel suo garage, ed ora non poteva non sfruttare le sue affermazioni per divertirsi.
«Allora?» sbottò spazientito il ragazzo più grande. «Ti dispiace liberarmi un po’ di posto?»
«Io non posso toccare nulla in questa stanza» gli ricordò Garfield sorridendo sbilenco. Una zanna scintillante gli spuntava fuori dal labbro inferiore, rendendolo ancora più malevolo. Victor fece roteare l’occhio, sbuffando. L’avrebbe colpito con piacere, se non avesse avuto entrambe le mani impegnate. «Sai che sei davvero una spina nel fianco, a volte?» borbottò indispettito.
Garfield sollevò un dito, saccente. «La parolina magica», disse.
«Caro amico» iniziò Victor. «Ti dispiacerebbe liberarmi la scrivania cosicché io possa poggiarvi dolcemente sopra questo pacco che sto aspettando pazientemente solo da quattro settimane?»
«Nessun problema» rassicurò il mutaforma. Poi, con alcune manate decise, spinse verso il muro la moltitudine di piccoli pezzi di ferro che appestavano la superficie scura. Alcune viti ruzzolarono per terra rotolando per qualche metro, invadendo il pavimento sporco.
Victor lo guardò storto, decisamente contrariato. Poté finalmente poggiare il suo pacco. Si voltò verso Garfield per sgridarlo e costringerlo a recuperare i dispersi, ma il ragazzo era già chino per terra e si astenne.
«Com’è andata in città?» chiese allora.
Garfield tenne la testa china, ripoggiando alcune viti ed un paio di bulloni sulla scrivania. Strofinò le mani sui pantaloni, poi tornò a raccogliere i mancanti. «Bene» esordì con convinzione, sollevandosi. «Ma potrei avere un problema con l’anello olografico, una ragazzina al parco mi ha visto verde» disse sfilando l’anello dalla tasca dei pantaloni e porgendolo all’amico.
Victor lo afferrò e lo studiò un istante. «A me sembra ok» disse. «Lascamelo qui che ci do una controllata, ti serve urgentemente?»
Il mutaforma scosse la testa. «Ho dovuto annullare tutti i miei appuntamenti. Le ragazze dovranno fare a meno di me, questa settimana» scherzò, facendo l’occhiolino.
Il mezzo robot lo colpì forte ad una spalla, divertito. Poi poggiò l’anello su una mensola. «Controllo il mio pacco e poi ci lavoro, parola mia»
«Grazie, sei un mito!» esultò Garfield avviandosi alla porta. Fece per chiudersela alle spalle, ma ci ripensò solo per voltarsi ed annunciare dispettoso: «Ti lascio le nostre lettere della settimana qui fuori, ci pensi tu a portale di sopra, vero?»
«Ma non stai andando tu?» domandò in fretta Victor. Ma Garfield aveva già chiuso la porta per correre via. «Certo che ci penso io» terminò rassegnato. Poi afferrò la carta della scatola e, con un gesto secco, la strappò via.

Le porte dell’ascensore si aprirono con un ding distorto.
La luce del soggiorno investì Garfield che socchiuse gli occhi, per poi massaggiarsi le orecchie doloranti. Udì Richard e Kori ridere, poi il raschiare ritmico di un mestolo contro un tegame. L’aroma di cioccolato bruciato appestava l’aria.
Arricciò il naso «Chi sta bruciando del buon cibo?» chiese, entrando in soggiorno.
Richard, stretto in un grembiule macchiato di crema e farina, alzò lo sguardo dalla ciotola, gemette «Eh?». Il suo sguardo corse verso la fidanzata «Kori!» esclamò, si buttò verso il piano cottura e spense il fornello.
«Oh?» Kori si voltò verso il ragazzo, sbatté le palpebre «Non andava bene?».
Richard sospirò, le sorrise mentre tornava a rivolgersi alla ciotola «Sì, sì, ma per la tenerina il cioccolato va fatto raffreddare, ora» le fece un cenno del capo «Che ne dici di dividere i tuorli dagli albumi?».
La ragazza annuì, «Quanti?» chiese, attenta.
Richard prese tra le mani un foglietto spiegazzato «Quattro» lesse. Kori prese il primo uovo e lo sbatté contro l’angolo della ciotola, il guscio si ruppe. L’albume e il tuorlo caddero a terra, mischiandosi «Ho fatto troppo forte?» chiese.
Una debole risata sfuggì dalle labbra di Garfield, un’espressione stanca si fece strada sul volto del moro «Giusto un poco» disse. Quello prese un altro uovo e lo batté, delicato, sul bordo della ciotola. Allo stesso modo, l’aliena né afferrò un altro e imitò i movimenti del fidanzato.
Garfield storse il naso, infastidito la puzza di bruciato. Mosse qualche passo verso la televisione, deciso a perdere un po’ di tempo con i suoi amati videogiochi: la voce tremula di Richard lo bloccò sul posto «Vieni a cucinare tu?» chiese. Nel suo sguardo si leggeva una muta supplica. Il ragazzo verde fece un gesto di diniego, si voltò «Passo» disse, mentre un sorriso saccente gli si allargava sul volto. Vide il moro impallidire, Kori, al suo fianco, rovesciò l’intero pacchetto di zucchero nella ciotola. Rivolse un’espressione gioiosa a Garfield «Come procede Black Wing?».
L’interpellato si fermò sul posto, colto alla sprovvista dalla domanda. In fondo, quasi tutti i Titans preferivano evitare di parlare del fumetto che stava disegnando. Richard, infatti, distolse lo sguardo; evidentemente più interessato agli albumi per la tenerina.
Garfield tamburellò le dita sulla coscia «Beh» si grattò il capo, imbarazzato «Black Bird e Mark si sono appena detti addio, conto di far arrivare la battaglia finale entro un paio di numeri».
Kori rimestò l’impasto grumoso con la spatola «Però Black Bird riuscirà a salvarsi!» sorrideva, canticchiò una melodia allegra, gocce giallastre d’impasto caddero sul tavolino.
No, sparirà. Si disse Garfield, o qualcosa del genere. Ridacchiò, si massaggiò una spalla, dirigendosi verso la televisione. Prima la ragazzina che lo vedeva verde, poi la lettera per Raven e ora quella domanda sul suo fumetto.
Si lasciò cadere sul divano. Si mordicchiò il labbro inferiore, chi voleva prendere in giro?
Aveva iniziato a disegnare Black Wing sperando di poter scrivere una storia alternativa; una storia dove l’eroe senza macchia avrebbe salvato la principessa del male, a qualsiasi costo. Accese il televisore poi la playstation, sullo schermo apparve il menù iniziale Zelda Ocarina of Time. Garfield spinse start, deciso a ignorare il dolore che provava al petto.

Lasciò che l’ascensore si chiudesse alle sue spalle senza preoccuparsi di voltarsi. Tornò a battere le mani sulla gamba, improvvisando un ritmo che gli impedisse di pensare a dove stava andando. Premette alla ceca il tasto del piano che doveva raggiungere. Conosceva la torre talmente bene che avrebbe potuto percorrerla in piena notte e con gli occhi bendati.
Riprese la lettera che il ragazzino gli aveva dato e la rigirò tra le dita. Forse avrebbe dovuto metterla con le altre, pensò. Era davvero troppo ingenuo pensare di poterla davvero recapitare, penso sorridendo con lieve rammarico.
L’ascensore si fermò, un altro ding gli ferì le orecchie sensibili. «Oh, miseriaccia!» si lamentò scuotendo la testa per scacciare la sensazione di aver sentito le unghie graffiare una lavagna. «La prossima volta prendo le scale» si disse.
Sapeva che non l’avrebbe fatto davvero; la torre aveva parecchi piani e non avrebbe retto a farne la metà. Uscì nel corridoio deserto. Era molto che non arrivavano lettere per Raven, e quando accadeva la cosa non passava inosservata. Con il tempo Garfield e Kori avevano preso l’abitudine di sistemarle in un vecchio armadio conservato in uno dei ripostigli abbandonati. L’edificio era talmente grande che sarebbe stato impossibile frequentare assiduamente ed occupare ogni stanza.
La porta si aprì con un leggero fruscio, Garfield entrò e spalancò le ante dell’armadio. Uno dei sacchi quasi gli cadde addosso, ma riuscì ad afferrarlo per riportarlo in equilibrio.
Non potevano aspettarsi davvero che sarebbe tornata, pensò riflettendo per un istante se fosse bene buttare finalmente tutte quelle buste nel cestino della raccolta differenziata. Prima o poi, si disse, avrebbero dovuto smettere di sperare.
Lanciò la busta sulla cima di uno dei vecchi mucchi, ma quella scivolò e ricadde sul pavimento. Le parole dei ragazzino gli tornarono in mente, assieme al suo volto innocente ed a tutta la speranza che la sua voce esprimeva.
Almeno una di quelle lettere non doveva finire nel dimenticatoio, pensò, tornando ad infilarla in tasca. Richiuse l’armadio a testa china.

**********************

L'angolino delle Autrici

E così, dopo lunghe battaglie e assurde chiacchierate su come disporre gli eventi, finalmente siamo in grado di postare il primo capitolo. Che si aprano i cieli per ringraziare la recensione di AlexRae, perché è solo dopo quella che l'ispirazione ha bussato alla porta di Digital. Prima faceva come il vento, che come dice la canzone di Cristina D'Avena "arriva e vuole giocar, bussa alla porta ma poi però lui si nasconde, dove non so". Fateci sapere se vi piace.
Genius

P.s. Ohibò - forse mi avete già riconosciuto da questo - forse dovrei sentirmi un po' offesa dalle parole di Genius. In realtà vi chiedo scusa per il ritardo e vi vorrei fare una piccola richiesta. All'inizio delle recensioni ai capitoli che vi piacciono particolarmente, potete scrivere "Boom!"? Non chiedete il perché di questa richiesta, per favore. xD Ciao anche da Digital, e grazie per aver letto da entrambe.

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Capitolo 3
*** Il vento che soffia via la normalità ***


Il vento che soffia via la normalità

Il mercoledì sera era uno di quei momenti dove nella T-Tower dovrebbe regnare il silenzio più assoluto, interrotto solo dal frusciare dei fogli che i Titans stavano smistando in tre mucchi precisi: pubblicità, messaggi da ignorare e quelli a cui rispondere.
Kori l’aveva soprannominato con il sorriso sulle labbra “il giorno dei fans”. Le piaceva ricevere quelle lettere da parte di bambini entusiasti che dichiaravano di voler diventare, un giorno, degli eroi proprio come loro. Avere tra le mani un messaggio come quelli, per lei, era l’equivalente di una carica di energia.
Per Garfield – e per il resto dei ragazzi – mercoledì significava stare svegli fino a tardi per passare lunghe ore di noia, scoccò uno sguardo ai due scatoloni colmi di buste di vari colori. Essere costretto ad abbandonare i suoi amati videogiochi o rallentare il suo lavoro sullo storyboard di Black Wing non gli piaceva, per lo meno, cercava di far fruttare il più possibile quelle ore.
Un ghigno divertito gli si allargò sul volto, si alzò dal divano e tossicchiò «Magda, 57 anni» soffocò una risata mentre Victor e Richard gli scoccarono uno sguardo perplesso. Kori, invece, tenne gli occhi incollati sulla lettera che stava leggendo.
«Signor Cyborg, sono stanca di nascondere questi sentimenti a me stessa» Garfield si mise una mano sul petto e incrinò la voce, quasi a voler aggiungere un tono melodrammatico. Il mezzo robot sbiancò, non era la prima volta che arrivava una lettera di quel tipo: era perfettamente conscio di dove sarebbe andata a parare. «Mi sono innamorata di lei quando mi ha salvato alla metropolitana, ricorda lo sguardo intenso che mi aveva lanciato? Da allora non l’ho più dimenticata» Garfield emise un lieve sospiro «Vorrei che lei mi concedesse una possibilità e se non si sente ancora pronto, le prometto che l’aspetterò» si voltò verso Victor, ora l’espressione affranta era stata sostituita da un sorriso «Sempre».
L’interessato gli strappò la lettera di mano, posizionandola nel mucchietto di lettere a cui non dovevano rispondere «Mai» esalò, infastidito e imbarazzato.
Kori fece un lungo sospiro, intenerita «Che dolci» disse.
Garfield e Victor le scoccarono uno sguardo perplesso «Noi?» domandarono, all’unisono; Richard trattenne a stento una risata.
L’aliena alzò gli occhi dal proprio foglio, confusa «Voi?» ripeté. Scrollò le spalle e rivolse di nuovo l’attenzione alla lettera «Questi Andrew e Thomas sono dolcissimi! Guardate» indicò il foglio dove i bambini avevano disegnato tutti i Titans.
I ragazzi annuirono mentre Kori, entusiasta, metteva la lettera nella pila dei messaggi a cui rispondere. «Pubblicità, pubblicità, pubblicità» mormorò Richard, sfogliando un malloppo di carta arancione, si bloccò e passò il foglio al ragazzo verde «Per Changeling».
Garfield annuì, prese la busta bianca, lievemente spiegazzata, tra le mani e la aprì. Era il messaggio di un ventenne che, a quanto pare, seguiva i Titans fin da quando erano stati fondati. Si complimentava con loro per il lavoro che facevano, diceva che li stimava – alzò gli occhi al soffitto, era il tipo di lettera che considerava noiosa – e che aveva solo una domanda da porgli.
“Come mai hai smesso di farti chiamare Beast Boy, Changeling?”
Garfield si passò la lingua sulle labbra secche, l’idea di rispondergli “non sono affari tuoi” lo colse per un attimo. Serrò la mascella, poi, controvoglia, mise il messaggio tra le lettere a cui rispondere. Non che ci fosse un grande segreto dietro al suo nome, semplicemente era cresciuto ed erano cambiate troppe cose perché lui si potesse chiamare ancora Beast Boy.

Jeremy sferrò un calcio ad una lattina rossa che andò a sbattere contro lo scivolo del parco giochi, un tonfo spezzò la monotonia del rumore del traffico cittadino. A quell’ora del mattino, i commercianti stavano a malapena iniziando ad alzare le serrande dei negozi. Era l’unico momento della giornata in cui poteva godersi un po’ di calma.
Il ragazzino si morse il labbro inferiore, si tolse il guanto e raccolse la lattina. La mano si colorò di un’aura nerastra, l’alluminio s’accartocciò su se stesso e prese un colorito ramato. La nebbiolina scura svanì, ora nella mano del ragazzino era rimasta solo sabbia. Mosse la mano e fece disperdere i granuli sul prato.
Si rinfilò il guanto, non lasciare tracce, si ripeté. Chiuse gli occhi, l’irritazione gli pulsò nelle tempie e si espanse per tutto il capo, prese un grosso respiro nella speranza di calmarsi. Ringraziò l’assenza di altri esseri umani perché, per ora, non aveva la minima voglia di sentire le loro emozioni rimbombargli in testa. Troppa confusione e, teoricamente, doveva concentrarsi.
Scrollò le spalle e soffocò un’esclamazione di stizza. Aveva battuto palmo a palmo il parco ma non era rimasto nulla del loro passaggio «Bah, tanto meglio».
Slacciò la cerniera della felpa; anche se soffiava una brezza piacevole, la temperatura stava iniziando ad alzarsi. Pensieri confusi gli riempirono la mente, desiderò potersi sdraiare sul proprio letto e smettere di pensare. Quando la città si risvegliava, non riusciva a contenere gli effetti della sua capacità empatica. C’erano troppe sensazioni da dover ignorare.
Un letto dove dormire, eh. Un sorriso ironico gli increspò le labbra. Frammenti di conversazione tra lui e i suoi fratelli gli affollarono la mente. Volti, sguardi seri, i rari sorrisi incoraggianti. Erano venuti in quella città con un solo scopo, dopo se ne sarebbero andati o avrebbero intrapreso strade diverse. Quel legame che li univa era troppo debole per poter durare a lungo.
Scrollò il capo, ciuffi neri gli ricaddero sugli occhi, lì soffiò via, seccato. Aveva voglia di prendere a pugni qualcosa, l’alternativa, era vedere il mondo trasformarsi in sabbia tra le sue dita. Poteva farlo, se lo desiderava.
Guardò i guanti neri che gli coprivano le mani, bastava un istante per disintegrarli. Serrò la mandibola, una sottile irritazione lo avvolse, artigliandogli il capo. Frustrazione, rabbia, le sensazioni gli colarono sulla schiena fino a gelarlo.
Non erano sue emozioni, realizzò.
Si guardò in torno – diamine – si massaggiò una spalla, a disagio. Lì avrebbe dovuto incontrare i suoi fratelli, non aveva nemmeno la possibilità di andarsene per sottrarsi a quelle sensazioni. Devo distrarmi, si disse. Batté la punta della scarpa sul marciapiede; con un rumore di ferraglia, la serranda di un bar s’alzò. Si mordicchiò il labbro inferiore, la rabbia sembrò iniziare a scorrergli sottopelle. Si stava logorando e lo stava facendo troppo velocemente.
Una macchina sportiva sfrecciò in mezzo alla strada anche se il semaforo era rosso, la vide seguire un percorso a zigzag e rischiare di scontrarsi con un altro veicolo. Il peso che gravava sul petto di Jeremy s’alleggerì, inspirò fino a gonfiare i polmoni d’aria tiepida.
A pochi metri da lui c’era un’edicola di dimensioni modeste, il proprietario stava tirando fuori gli espositori dei fumetti. Jeremy si toccò le tasche, se ricordava bene aveva qualche spicciolo con se. Se avesse comprato qualcosa da leggere e avesse concentrato i pensieri su quello, magari si sarebbe liberato completamente da quella sensazione pressante.
S’avvicinò al primo espositore, c’erano manga con copertine colorate e fin troppo appariscenti per i suoi gusti. Riconobbe come unico titolo “Naruto” ma non era mai stato interessato a quelle chiacchiere inutili sull’amicizia e i buoni sentimenti.
Sospirò e passò lo sguardo sull’espositore dei fumetti. I colori erano meno netti, le copertine erano più varie e mature: Ironman, Hulk, i vendicatori. Tutti nomi noti e che, ancora una volta, non l’avevano mai interessato.
Black Wing.
Si trattava di un volumetto in fondo all’espositore, nascosto dall’ultimo numero di Deadpool. Non era un titolo interessante, nemmeno lo stile di disegno brillava eppure c’era un dettaglio della copertina che l’attirava. Un ragazzo girato di schiena, dei dettagli della sua armatura si potevano notare a malapena i bracciali argentati, fissava un essere distante ammantato di nero.
Jeremy tirò fuori dall’espositore il volumetto, concentrò lo sguardo sulla figura: esile, era avvolta da un mantello fatto di piume nere con sfumature azzurre, lo sguardo rassegnato, gli occhi nascosti dai capelli corti, violacei.
Questa è – Jeremy sbatté le palpebre, sconcertato dal pensiero stupido che gli aveva attraversato la mente – Raven?
Una mano lo colpì al petto, il ragazzino arretrò di qualche passo. Alzò lo gli occhi, confuso; il proprietario dell’edicola gli stava lanciando occhiate severe e infastidite «Che ci fai fuori a quest’ora?» chiese, secco. Di nuovo la rabbia si rovesciò su Jeremy come una doccia fredda. Frustrazione, rabbia e irritazione.
Si rese conto, con orrore, che era finito proprio vicino alla fonte di quei sentimenti negativi che voleva evitare. Strinse i denti, lo stomaco si stava contorcendo, la presa su Black Wing si fece spasmodica «Non sono affari che ti riguardano» replicò.
L’uomo strabuzzò gli occhi «Tu guarda-!» incrociò le braccia e gli rivolse un’occhiata severa «Hai tra la mano la mia merce, se la rovini dovrai pagarla» un ghigno divertito gli si allargò sul volto «Come se voi ragazzini di strada poteste farlo» il tono era tronfio.
La frustrazione che pressava il cuore del ragazzino stava scemando, un senso di autocompiacimento e di vittoria lo stordì. Quell’uomo lo stava usando come valvola di sfogo, pensò Jeremy. Tremiti gli mossero il petto, strinse la mano che non reggeva Black Wing, il guanto si stava disfacendo fino a trasformarsi in sabbia. «Non parli?» l’uomo rise, sarcastico «Vi si riconosce ad occhio, sai? Sempre a girare di prima mattina, pronti a rubare ad ogni onesto cittadino. Non vi guadagnate niente di quello che possedete» gli strappò il volume dalla mano «Visto com’è rovinato? Ora non posso venderlo!» lo spintonò «Come pensi di ripagarmi?».
Una pulsazione, Jeremy avvertì la testa in fiamme, l’ennesimo tremito, la vetrata di un bar andò in pezzi e sparse frammenti per la zona. Il senso di autocompiacimento scemò, non c’era nulla. Solo la rabbia cieca che gli consumava la pelle e lo logorava con la potenza di una vampata di fuoco.
L’ululato del vento soffocò ogni suono, il silenzio che desiderava era a portata di mano. I guanti si dispersero nel nulla. Cadde in ginocchio, faticava a respirare. Si mise le mani sul volto, frustrato con se stesso per aver, di nuovo, ceduto alla propria rabbia.
Il volume di Black Wing fu trascinato nel centro della tempesta, si sfilacciò per poi diventare sabbia.

Richard batteva con impeto sulla tastiera del portatile, mentre segnava concentrato i punti principali dell’addestramento del resto del mese.
Gli piaceva svolgere questi compiti di prima mattina; solitamente il resto della giornata se ne andava per ricerche, allenamenti pratici e – raramente – perdite di tempo.
Alle spalle del Ragazzo Meraviglia, Victor armeggiava con i fornelli tra bacon e uova fritte. Sul bancone aveva già preparato i bicchieri e la brocca con il succo di frutta, ed i piatti erano impilati dall’altra parte, pronti ad essere riempiti.
La routine quotidiana prevedeva questo. I due ragazzi erano sempre i primi ad entrare nella sala principale. Victor si occupava del cibo, solo raramente Richard decideva di prendere il suo posto. La terza ad arrivare era Kori, il più delle volte, che scendeva a fare colazione solo dopo aver sorvolato l’isola un paio di volte solo per crogiolarsi al sole. Per quanto riguardava Garfield, invece, le sane abitudini della Torre prevedevano che si aspettasse almeno fino a metà mattinata. Era raro che i ragazzo si facesse vedere tanto presto. Kori aveva scoperto a sue spese, alcuni mesi prima, che il tempo che trascorreva il mutaforma dall’alba alla tarda mattinata non era affatto perso come gli altri avevano sempre pensato.
Garfield aveva preso l’abitudine di allenarsi da solo nella sua stanza prima ancora di fare colazione. Nessuno l’avrebbe scommesso, ma il ragazzo passava almeno due ore tra flessioni e piegamenti vari.
Se Cyborg l’avesse saputo non ci avrebbe mai creduto.
Quando, quel giorno, Kori entro nella sala principale, aveva i capelli più scompigliati del solito.
Richard la accolse con un sorriso, vedendola quasi saltellare nella sua direzione.
«Buongiorno ragazzi!» esclamò la tamariana con un sorriso che avrebbe sciolto anche l’iceberg che aveva affondato il Titanic.
«Giorno Kori» le rispose Victor poggiando sul tavolo la brocca con il succo. Lei lo affiancò per prendere i bicchieri, poi sfrecciò al fianco di Richard, per posargli un leve bacio sulla guancia mentre lui le diceva: «Buongiorno, Principessa».
La ragazza gli fece l’occhiolino, poi gli sfilò dalle mani il portatile, spostandolo dall’altra parte del tavolo. Victor poggiò il piatto colmo di uova e bacon proprio dove prima c’era il computer del ragazzo, poi sistemò l’altro nel posto al suo fianco, per Kori.
«Allora, buon appetito!» esclamò esaltato afferrando coltello e forchetta.
«Grazie per la colazione» canticchiò Kori versandosi del succo nel bicchiere.
«Si, grazie Vic».
Il ragazzo fece un semplice cenno, affamato, e portò una mega forchettata di bacon alla bocca, senza quasi preoccuparsi dell’olio che gli colava giù per il mento.
Mentre Victor spazzolava il contenuto del suo piatto senza pietà e Kori spiluccava educatamente il suo Richard decise di esporre le sue perplessità. «Dovremmo fare una sessione di addestramento intensivo, credo. In queste ultime settimane ce la siamo presa con calma e non ci sono stati neanche tanti problemi giù in città, non vorrei che perdessimo l’abitudine e ci trovassimo impreparati».
Kori annuì semplicemente; avrebbe accettato di buon grado tutto ciò che il ragazzo avrebbe proposto, Victor sospirò rassegnato. «Lasciami almeno fare colazione in pace, Iettatore»
Kori si grattò una guancia divertita; scene come quella erano un’abitudine della mattina da Titans e nessuno di loro le avrebbe cambiate per nulla al mondo.
Richard aprì la bocca per ribattere, ma l’allarme gli impedì di parlare, coprendo anche il suo sussulto stupito. Mentre le luci rosse lampeggiavano per tutta la Torre non poté che sussurrare a sé stesso «Sul serio, di prima mattina?».
«Ti hanno mai detto che se qualcuno dice che una cosa può andare storta questa lo farà?» rimbeccò Victor alzandosi indispettito.
Lasciarono la tavola così com’era, corsero in corridoio a rotta di collo mentre Robin ordinava risoluto: «Mettetevi il costume, ci vediamo in garage tra non più di tre minuti».

Cyborg fece inchiodare la T-Car nel bel mezzo della strada, appena in tempo perché un vecchio bastone da passeggio, ammaccato, si schiantasse contro il parabrezza.
«Da qui si prosegue a piedi» annunciò a Robin con un cenno d’intesa.
Una volta in strada i due notarono soddisfatti che i due amici, arrivati in volo, li avevano preceduti e già vagliavano la situazione con sguardo pratico.
Changeling, sfruttando la sua vista di falco, osservava attentamente lo strano vortice d’aria attorno cui la polizia si era schierata, nel tentativo di contenere un attacco di cui non riusciva neanche a comprendere le dinamiche.
Gli agenti si strinsero tra loro ed avanzarono, tentando di superare il vortice d’aria e raggiungere ciò che lo stava provocando, e che si trovava ben protetto al suo interno.
Non fu una buona idea e tre di loro furono scagliati contro un bacone di frutta allestito sul ciglio della strada.
Robin intervenne immediatamente, facendosi largo tra gli agenti rimasti. «Lasciate fare a noi» disse sicuro, aspettando che gli uomini battessero in ritirata. Cyborg gli fu subito affianco e Starfire li raggiunse immediatamente, atterrando a pochi centimetri dal fianco sinistro del Ragazzo Meraviglia.
Changeling rimase invece in disparte, ruotando leggermente il muso rapace mentre osservava con attenzione il vortice. Da quanto gli era parso di vedere da quando era arrivato la polizia non aveva fatto poi molto, per far innervosire il tipo. E non riusciva assolutamente a spiegarsi la ragione per cui il vortice continuasse ininterrotto, quando lui avrebbe potuto risparmiare le energie e concentrare l’attacco in un solo momento per farsi strada e fuggire, oppure uccidere.
Prese il volo per schivare una busta di plastica e planò fino ad appollaiarsi sul palo di un semaforo. Era più vicino, ora, e quasi riusciva a distinguere i contorni del tipo al centro del vortice.
Era ben più piccolo di quanto l’avesse immaginato all’inizio, gridava, anche se nessun suono poteva superare quello del vento che lo circondava, e non sembrava sapere esattamente ciò che stava facendo. Teneva le mani attorno alla testa, come per trattenersi, ma la cosa non sembrava funzionare.
Changeling lanciò un’occhiata verso gli amici, per controllare le loro intenzioni.
«Andiamo, qualcuno deve fermarlo» si lamentò Cyborg coprendosi gli occhi per ripararli dalla polvere. Un lampione esplose, Starfire sorvolò l’incrocio, alla ricerca di un punto debole nel muro di oggetti che vorticavano attorno al nemico. Lanciò due sfere di energia, ma queste si dissolsero prima di colpirlo.
«Cerca di avvicinarti!» le suggerì Robin, facendo un passo in avanti per cercare di distrarre il nemico.
Starfire fece un altro giro, questa volta volando più lentamente.
La polizia aveva già circoscritto il tutto, restando a distanza di sicurezza, le ambulanze stavano arrivando per portare via i pochi feriti. Robin, sotto lo sguardo sempre vigile delle telecamere, cercava di trovare un modo per fermare questo disastro.
«Changeling!» chiamò all’improvviso. «Puoi distrarlo per permettermi di trovare una breccia ed avvicinarlo?».
Lui lo scrutò poco convinto, poi si trasformò in un leone ed iniziò a ruggire.
Percepiva la minaccia grazie ai suoi sensi animali ma, soprattutto, percepiva l’odore della rabbia e la paura che dimostrava che, qualunque cosa avesse scatenato il loro avversario, ora lui non era più in grado di controllarlo. Fissò Robin un istante di troppo; lui non poteva capire, non sentiva quello che sentiva lui. Doveva calmare il ragazzino, perché Robin l’avrebbe attaccato senza preoccuparsi di ferirlo, mettendo al primo posto la sicurezza della squadra e dei cittadini. Ma Garfield voleva provare a placarlo.
Mutò in un elefante, sperando che questo avrebbe impedito al vento di spazzarlo via, ma questo servì solo a renderlo un bersaglio più facile. Cambiò ancora in un falco, evitando abilmente una cassa di frutta vuota ed una ventiquattrore che, probabilmente, era sfuggita ad un passante.
Robin lo richiamò furioso, ordinandogli di stare attento, di lasciar perdere, ma Garfield lo ignorò risoluto, battendo le ali per spostarsi tra una corrente d’aria e l’altra.
«Dannazione! Changeling! Lascia perdere!»
Ma Garfield scomparve dalla sua vista oltre il vortice. Starfire, che aveva tentato di raggiungerlo per tirarlo indietro, fu sbalzata via. Presa in pieno da una bicicletta venne scagliata contro la vetrina di un negozio, infrangendola sul colpo.
«Starfire!» gridò Robin furioso con l’amico e preoccupato per la ragazza. Ma conosceva la resistenza di lei e, come si aspettava, la vide venire fuori dal negozio quasi illesa.
Cyborg teneva i suoi cannoni puntati verso il vortice, aspettandosi quasi di vedere Changeling volare fuori dall’uragano da un momento all’altro.
Changeling tornò umano, puntò gli artigli nel terreno, tra i pezzi di asfalto, e sollevò gli occhi. I suoi dubbi vennero dissipati all’istante; il ragazzino dimostrava una quindicina di anni e stava chino sul terreno, con la testa tra le mani, esattamente come gli era parso dall’esterno. Ripeteva qualcosa che lui non riusciva a comprendere a causa del vento che gli feriva le orecchie. Garfield si abbassò appena in tempo per evitare di essere beccato in pieno da un monopattino, finendo invece per essere colpito al fianco da un pezzo d’asfalto. Il colpo fu abbastanza doloroso. Si trascinò avanti a fatica.
Il ragazzino distava ancora una mezza dozzina di metri ed il cerchio si stava lentamente stringendo quando Garfield cominciò a gridare.
«Ehi! Tu!» sbraitò contro al ragazzino. «Devi calmarti! Stai facendo a pezzi tutto il quartiere».
«Stai lontano da me!» gli urlò il ragazzino.
Garfield sospirò, notando che il vento si stava concentrando nella sua direzione. «Ascoltami, capisco cosa ti sta succedendo. Non riesci a controllarti, ma se riesci a calmarti prometto che andrà tutto bene. Non vogliamo farti del male, non vogliamo che nessuno si faccia male. Per favore».
Il ragazzino non rispose, ma Garfield percepì l’assenza di ostilità nei suoi confronti. Lui non si sentiva minacciato dall’eroe verde e non sembrava avere intenzione di attaccarlo. Almeno non volontariamente.
«Io sono Changeling» si presentò. «Qual è il tuo nome?».
Il ragazzino sollevò il viso, lo guardò, aspettò il momento in cui il Changeling l’avrebbe guardato con astio o con timore per via dei suoi occhi bicolore, ma il ragazzo verde gli sorrise.
«Jeremy. Mi chiamo Jeremy».
«Bene, Jeremy. Puoi fermare tutto questo, per favore? So che puoi farlo».
Jeremy annuì. Chiuse gli occhi, chinò il capo, si sedette a gambe incrociate e cominciò a borbottare tra sé. La voce era troppo bassa per sapere cosa stesse dicendo, ma Garfield capì subito che si stava calmando. In breve tempo tutti gli oggetti fluttuanti vennero giù dal cieli. Una pioggia di biciclette, cestini della spazzatura, gomme di auto, zaini scolastici. Molti finirono in testa a Garfield che dovette proteggersi con le braccia come meglio poteva. «Augh! Ehi!» si lamentò poco prima di venire sommerso.
In pochi secondi il punto un cui Jeremy si trovava fu circondato da una montagna di oggetti.
Garfield venne fuori a forza, sotto forma di topolino verde. Poi tornò umano e sorrise sornione a Robin. «Visto? La violenza non sempre è la risposta giusta».
Il Ragazzo Meraviglia lo guardò furioso. Il mutaforma sospirò, pregustando la ramanzina che avrebbe avuto una volta tornato alla torre.
Ma ora Robin aveva altro da fare. Si arrampicò sulla montagnola di rifiuti e si avvicinò a Jeremy arrancando. «Tu, ragazzino» disse serio pronto ad afferrarlo e trascinarlo via per – probabilmente – consegnarlo alla polizia. «Ti rendi conto del disastro che hai causato».
Garfield accorse, tentando di calmare l’amico. «Ehi! Non è colpa sua, so che non riusciva a controllare i suoi poteri. Non è una storia nuova; ha solo bisogno di una guida».
Jeremy chinò il volto, stringendo i denti. Era esattamente quello che sua sorella gli diceva sempre. Una guida. Ma lui non voleva una guida, voleva soltanto essere lasciato in pace. D'altronde, se nessuno si era mai occupato di lui prima perché ora avrebbe dovuto essere diverso? Un idrante saltò in aria, investendo con un violento getto d’acqua il povero Victor. Robin saltò sull’attenti.
«Fermo!» urlò al ragazzino. Si mise in posizione di difesa, pronto a fermarlo con la forza in caso di fuga. Ma questo non poté che fare innervosire ulteriormente Jeremy.
L’energia nera si dipanò da lui fino allo spazio attorno, in maniera fin troppo familiare.
Garfield strabuzzò gli occhi. Tutto quello che aveva appena fatto per calmare Jeremy sembrava ora inutile. «Jeremy! Fermati, per favore. So che non vuoi fare del male a nessuno, Robin non è cattivo, ha solo difficoltà ad ascoltare quello che gli dicono gli altri». Fulminò l’amico con lo sguardo e si guadagnò un’occhiataccia in cambio.
Un palo della luce venne sradicato e piombò sulla strada, appena dietro Cyborg.
«D’accordo, via di lì!» gridò il mezzo robot caricando i suoi cannoni.
Garfield si parò tra lui e Jeremy, supplicandolo di fermarsi.
«Tranquillo, questo lo stordirà e basta» urlò l’amico di rimando. Robin lo afferrò di peso e lo buttò di lato, poi Cyborg sparò.
L’aria si fece pesante mentre un gran polverone li investiva tutti in pieno. Per alcuni secondi nessuno di loro riuscì a vedere oltre il proprio naso e il fumo non si era ancora dissolto del tutto quando Robin fissò con un sorriso sollevato il punto in cui avevano visto per l’ultima volta il ragazzino.
Questo doveva averlo neutralizzato di sicuro.
Ma la polvere non si era ancora posata quando un altro tipo di vento la spinse indietro, verso di loro. Li costrinse a distogliere lo sguardo, a coprirsi gli occhi e le bocche.
Tossirono.
C’era una figura sfocata, ora, tra loro ed il ragazzino.
Garfield si strofinò il palmo contro gli occhi, per liberarsi dai granelli di polvere che gli si erano infilati sotto le palpebre. Gemette, incredulo. La figura longilinea stava a braccia incrociate, il mantello scuro la avvolgeva quasi completamente e il cappuccio le oscurava il viso. Un alone nero circondava lei e Jeremy.
Esso si dissolse mentre la ragazza girava loro le spalle, si chinò per poter fissare negli occhi Jeremy «Stai bene?». «Sto bene» la voce di lui tremò. La ragazza sorrise da sotto il cappuccio, lo abbracciò, sotto lo sguardo sbigottito di tutti i Titans.
Starfire serrò le labbra e prese il volo, atterrò a un paio di passi da loro. L’aliena fissò la nuova arrivata «Raven?» la chiamò con un tono preoccupato nella voce «Sei tu?».
Raven si abbassò il cappuccio, aveva la fronte corrugata «Che diavolo vi siete messi in testa?» disse, funerea. Lanciò un’occhiata a tutti loro, incrociò le braccia «Volevate ucciderlo? Non è colpa sua se non controlla i suoi poteri».
Cyborg si toccò il petto «Volevo solo stordirlo» mosse la mano, indicando il paesaggio circostante «Stava distruggendo tutto, non potevamo lasciarlo fare».
Robin si mise di fianco a Cyborg, prima di indicare Garfield «Lui ha provato a fermarlo e guarda come è ridotto».
Raven guardò Garfield negli occhi, i lividi e le contusioni parvero a quest’ultimo iniziare a bruciare. Sapeva di aver bisogno di cure ma non fino a quel punto. Sbuffò «Io ero riuscito a calmarlo» distolse lo sguardo «Poi sei arrivato tu a gridargli addosso, mandando in fumo tutto il mio lavoro».
Robin aprì la bocca per ribattere, ma Raven gli tirò una frustata di energia nera dietro la nuca. Jeremy sorrise, divertito.
Starfire si avvicinò a lei, ora le spalle delle due ragazze si potevano sfiorare ma la maga non si voltò «Dove sei stata tutto questo tempo?» chiese, le mise una mano sulla spalla «Tornerai con noi adesso?».
Silenzio.
Jeremy aveva un sorriso sarcastico stampato sul volto, mosse le labbra senza far uscire alcun suono. Si mise una mano sulla faccia, prima di passarla tra i capelli neri. Per Garfield non fu difficile interpretare il silenzio della ragazza come indice di un nuovo problema.
Starfire abbassò gli occhi, concentrandosi sul ragazzino sconosciuto «Lo conosci?» chiese.
Raven scrollò le spalle «È mio fratello» disse, si voltò verso Garfield; i loro occhi s’incrociarono di nuovo «Grazie per avergli impedito di farsi del male, Beast Boy».
Le guance del ragazzo si arrossarono, sentendola pronunciare il suo vecchio nome di battaglia. Aprì la bocca per risponderle, ma lei afferrò Jeremy per un braccio ed entrambi sparirono in una chiazza d’oscurità.
I Titans rimasero soli. Si guardarono l’un l’altro, preoccupati. Incapaci di comprendere ciò che era successo e, forse, di accettarlo.
Garfield crollò sull’asfalto «È tornata davvero?» chiese. Tutta l’adrenalina della battaglia lo aveva ormai abbandonato e non vedeva l’ora di dormire. Se non fosse stato per il dolore diffuso per tutto il corpo, avrebbe pensato che questo fosse solo un sogno.

Victor poggiò la spalla sullo stipite della porta dell’infermeria.
Garfield era disteso sulla brandina, gli occhi rivolti al soffitto, il petto si alzava e abbassava con lentezza. Aveva quasi ogni centimetro di pelle coperto da bendaggi, oltre che un vistoso cerotto sulla fronte «Come stanno Kori e Richard?» chiese.
Victor accennò una risata sarcastica «Beh, lui sta dando fondo al suo dizionario di imprecazioni» si umettò le labbra, non che non si aspettasse quella reazione da parte del loro leader, al contrario, la pacatezza di Garfield era troppo strana. Avevano appena rincontrato Raven e l’unico che non pareva troppo sconvolto era proprio lui. Che starà pensando, adesso?
Il ragazzo verde prese un profondo respiro, batté le mani e si mise a sedere. Un lampo di dolore gli attraversò il viso, si portò una mano al fianco e sbatté le palpebre «Ohi, prima o poi io e Jeremy faremo un discorsetto» ridacchiò. Calmo, si stava comportando nella stessa identica maniera in cui si era comportato in quegli anni dopo che Raven era scappata «Ah!».
Victor corrugò la fronte, perplesso «Ah…?» ripeté.
Garfield gli rivolse un’occhiata curiosa «Non mi hai detto cosa sta facendo Kori. rimprovera il suo fidanzatino per il linguaggio» mosse le dita come a mimare delle virgolette «non consono ad un eroe?». Era fasullo. Il robot avrebbe preferito vedere l’amico vacillare ed affidarsi a loro, non sforzarsi di essere allegro.
Gli sorrise di rimando, si portò le mani dietro al capo «Beh, sta cucinando qualcosa per farti sentire meglio» si voltò verso il corridoio e fece un passo in avanti «Sai, qualcosa tipico tamariano».
Udì Garfield emettere un gemito spaventato, la porta si chiuse dietro di lui. Victor sospirò, lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Si chiese, inconsciamente, dove il ritorno di Raven li avrebbe portati.

Raven non si fece problemi a teletrasportarsi direttamente dentro al salotto dell’appartamento. La stanza era illuminata, ogni singola finestra spalancata nel probabile tentativo di portare un po’ dell’aria fresca all’interno. Certo, non era facile in città.
Jeremy fremeva, a testa china, col respiro trattenuto e lo sguardo basso. All’interno era un vortice di emozioni contrastanti, Raven lo sentiva, e non voleva che lui provasse tanta confusione, rabbia e paura.
«Respira» suggerì pazientemente poggiando una mano sulla spalla del ragazzo. Lui la scrollò via con un gesto secco, cercando di ritrovare il suo spazio personale. Indietreggiò di alcuni passi, tentando di mettere distanza tra loro, ma non lasciò la stanza.
«Quelli erano i Titans» osservò, tentando di fare ordine nella sua mente. Raven ritenne superfluo rispondere, così Jeremy continuò, infastidito dalla situazione, arrabbiato con sé stesso per aver perso il controllo a quel modo, per avere attirato l’attenzione.
Era stato lui, in fondo, ad uscire allo scoperto. Era per lui che Raven si era esposta, sapeva di aver messo a rischio tutto ma la rabbia non avrebbe risolto nulla.
Diede le spalle alla sorella e passò le mani tra i capelli, frustrato. Se i Titans si fossero messi in mezzo la colpa sarebbe ricaduta su di lui.
La lampada del soggiorno saltò in aria, spargendo pezzi di vetro e plastica sul pavimento e sui cuscini del divano.
Raven si tenne a distanza. Fin da quando l’aveva conosciuto le era subito stato chiaro quanto detestasse il contatto fisico e la vicinanza con le altre persone. C’era un limite che doveva porre per non percepire troppo soffocanti i sentimenti negativi delle persone. Jeremy era un vaso colmo di rabbia verso il mondo, ma riusciva a domarla, finché poteva tenerla dentro ed ignorare la rabbia del resto del mondo.
«Non è successo nulla» gli disse Raven per provare a calmarla. Cercava di mantenersi a distanza, di calmare anche la propria agitazione per impedire che disturbasse la concentrazione che a lui serviva per non esplodere.
«Come può non essere nulla? Loro non avrebbero neanche dovuto immaginare che tu fossi qui, invece ora lo sanno per certo»
Raven stette ad osservarlo consapevole. Trovava che non vi fosse bisogno di ribadire l’ovvio, ma dirlo ad alta voce non sarebbe servito ad altro che a peggiorare le cose. Jeremy era empatico, però, non c’era modo di nascondergli le sensazioni che smuovevano il petto della ragazza.
«Non importa» mormorò Raven scuotendo la testa con voce morbida. «Noi non gli permetteremo rovinare i nostri piani». C’era troppo in ballo per preoccuparsi di loro, adesso. Il fatto che i Titans potessero intromettersi passava in secondo piano rispetto a tutto il resto. «Ora calmati e fai un bel respiro, andrà tutto bene».
Ma se c’era una cosa che Jeremy non riusciva a sopportare era la compassione, il tentativo di lei di assecondarlo, di proteggerlo. Lui non aveva mai avuto bisogno di qualcuno che gli guardasse le spalle e non le aveva chiesto di fare nulla, per calmarlo.
«Basta, Finiscila! Smettila di ripeterlo!» sbottò Jeremy furioso. Il fatto che Raven insistesse a cercare di comprenderlo, il fatto che fingesse di non avercela con lui per aver ferito quello che probabilmente era stato uno dei suoi migliori amici lo mandava in bestia.
Un mucchio di libri saltarono giù dalla mensola, volando sul pavimento ed aprendosi di botto. Il divano tremò.
Raven lanciò un’occhiata al disastro che stava diventando la stanza e riprovò: «Jeremy, voglio solo evitare che tu ti faccia male. Calmati, agitarsi così non serve a nulla».
Il ragazzo la fulminò con un’occhiata. Lo scambio di sguardi tra i due fratelli fu tanto intenso da distrarli al punto di non accorgersi della terza persona che li aveva raggiunti nella stanza.
Il giovane sembrava squadrarli con le orbite vuote, le pupille bianche quasi si confondevano con il bianco del bulbo. Era stato attirato dal frastuono, probabilmente, e li aveva raggiunti per evitare che si facessero male.
Allungò la mano per poggiarla sulla spalla di Jeremy, ma lui si ritrasse, percependo il movimento.
«Smettila, non prendertela con tua sorella, sai che lei non ha nessuna colpa, qualunque cosa sia successa» disse Belial con calma.
Jeremy tremò un secondo, strinse i pugni per celare il movimento ai due. «Io ho… In centro, ho avuto un piccolo scontro con i Titans» mormorò, tentando di sminuire l’avvenimento, per quanto fosse possibile. Distolse lo sguardo anche se Belial non riusciva a vederlo, anche se non poteva scrutare la sua espressione colpevole. Si aspettava una ramanzina, che il ragazzo se la prendesse con lui, ma Belial sospirò.
«E tu ti sei fatto male?» gli domandò invece spiazzandolo.
Jeremy scosse la testa, poi trattenne il fiato e la rabbia lo travolse. «Io sto bene! Non ho nessun problema! Smettetela di continuare a trattarmi come un bambino, ho quindici anni e me la sono sempre cavata da solo».
«Voglio solo assicurarmi che tu stia bene, prendermi cura ti te» gli disse Raven.
«Beh, sai la novità, Raven?» la interruppe lui, crudele. «Tu non sei mia madre, non hai alcun dovere nei miei confronti» poi si voltò verso Belial ed aggiunse: «E tu non sei mio padre, non cercare di fingere di capirmi. Tu non sai cosa ho passato».
Il ragazzo rimase zitto, lo sguardo vitreo ancora rivolto verso Jeremy. Nascose i suoi pensieri meglio che poté, poi poggiò una mano sulla spalla di Jeremy. «È vero, non siamo i tuoi genitori, ma non puoi avercela con noi per qualcosa che ti hanno fatto altri. Ed è inutile che tu chieda a tua sorella di smettere di occuparsi di te e di preoccuparsi, sai bene che è una cosa che non può fare. E poi, ricordatelo sempre, tua madre ti ha abbandonato, Raven ha lasciato tutto per te. E non ha mai preteso di prendere il suo posto».
Lo sguardo serio di Jeremy vacillò, i pugni che teneva chiusi si sciolsero e lanciò uno sguardo colpevole alla ragazza. Avrebbe voluto chiederle scusa, ma non era abituato ad ammettere i propri errori e le parole gli morirono in gola.
«Non importa» gli disse Raven con un lieve sorriso, intuendo il suo disagio.
Jeremy annuì grato, poi si voltò e si allontanò per andare in camera da letto. Raven si chinò a raccogliere i cocci di verto, ma Belial la fermò, afferrandola per un braccio e costringendola a fermarsi. «Non stai andando male, sai?» le disse sorridendole.
Raven arrossì lievemente; non era abituata a sentirsi tanto legata a qualcuno, a sentirsi compresa e parte di qualcosa. Certo, aveva amato stare con i Titans, ma con Belial era diverso. Quando lui era in giro sentiva che tutto avrebbe potuto andare apposto solo perché lui lo voleva. Sentiva che lui non l’avrebbe giudicata, che l’avrebbe appoggiata in ogni cosa.
Lentamente, e dolcemente, si abbracciarono.

L'angolino delle Autrici
E niente, io e Genius stiamo scommettendo su quante minacce di morte ci voleranno addosso, in ogni caso, ringraziamo i lettori e siamo sicure che apprezzerete molto i personaggi di Jeremy e Belial, soprattutto Belial.
Rinnoviamo la richiesta, se il capitolo vi è piaciuto, vi ha entusiasmato o simili -per favore- scrivete Boom nella recensione. Linguaggio in codice, sì.
Vi lovviamo e alla prossima,
Digital e Genius

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Capitolo 4
*** Ricordando il giorno ***



RICORDANDO IL GIORNO


L’odore dello studio del dottor Brennan era lo stesso del solito e risaltava alle narici come un concentrato di brutti ricordi. La situazione sembrava così crudelmente familiare che sembrava loro di essere tornati nel passato. A quando, due anni prima, la scomparsa di Raven aveva quasi portato la squadra allo scioglimento. I loro sguardi erano concentrati sui vari oggetti esposti nella stanza; il dipinto, il vaso antico, la scrivania in regno scuro, la vecchia libreria ricolma di grossi volumi. Nessuno di loro tre aveva voglia di incrociare lo sguardo degli altri, con la mente che vagava tra il pensiero di Garfield ancora in infermeria ed il ricordo di ciò che Raven aveva detto loro, prima di scomparire con quel ragazzino che aveva detto essere suo fratello. Raven ha un fratello, era la frase a cui tutti e tre ripensavano da quando erano tornati a casa il giorno prima. Si domandavano come l’avesse scoperto, cosa avesse provato in quel momento, perché non lo avesse detto, cosa le avesse impedito di restare comunque con loro.
Aveva davvero pensato che non lo avrebbero accettato? Si chiedeva Koriand’r pensando al modo in cui avrebbe voluto restarle vicina. Perché non si era fidata di loro? Davvero aveva pensato che le avrebbero voltato le spalle e li avrebbero cacciati perché lui non riusciva a controllare il suo potere?, era il pensiero fisso di Victor. La natura di quel ragazzino doveva certamente essere demoniaca, rifletteva Dick. Raven poteva aver scelto la famiglia agli amici, cedendo all’oscurità e smettendo di combattere per ciò in cui credeva per poter stare al fianco di qualcuno che avesse il suo stesso sangue e che, forse, comprendesse anche i suoi disagi e dilemmi interiori?
Ripensò allo sguardo del ragazzino, a come Garfield era riuscito a calmarlo, ad un certo punto.
Forse, si disse, una volta che il ragazzo avesse imparato a controllare i suoi poteri lo avrebbe portato a casa e sarebbe tornata. Una scintilla di speranza si accese nel suo petto, mentre convinceva sé stesso a concedere alla ragazza il beneficio del dubbio.
Innocente fino a prova contraria, dopotutto, era una frase da detective e se voleva ritenersi un buon detective avrebbe dovuto trovare una vera prova per affermare che Raven fosse una minaccia, anche perché il suo cuore non sarebbe riuscito ad accettarlo, altrimenti.
Ignorò le risposte che Koriand’r stava dando alle domande dello psicologo, restando in silenzio e ricordando con malinconia il giorno in cui avevano scoperto della fuga di Raven.

Richard aveva sempre catalogato con grande concentrazione e meticolosità ogni operazione, ogni criminale. La sua camera alla Torre era tappezzata da articoli di giornale e foto segnaletiche, la prima cosa che il ragazzo vedeva appena apriva gli occhi al mattino, l’ultima cosa che vedeva prima di addormentarsi, per ricordare quanta rabbia e che pericoli celasse il mondo, per non dimenticare contro chi stava lottando.
Quel giorno, però, non era riuscito a pensare a loro. Si era svegliato di soprassalto con la sensazione che qualcosa non andasse bene, con il presentimento di dover fare qualcosa che non era riuscito ad inquadrare bene.
All’inizio aveva pensato di aver dimenticato di sistemare qualcosa, di appuntarsi qualche schema oppure di aver perso qualche incontro. Si era alzato, tentando di ricordare quel qualunque cosa, frugando tra i fascicoli che aveva abbandonato sulla sua scrivania la notte prima quando, troppo stanco per proseguire le sue ricerche, li aveva abbandonati prima di stendersi a letto.
Aveva spalancato la serranda per fare entrare un po’ della luce dell’alba e si era fiondato ancora nel lavoro, in attesa della rivelazione e dell’ora di colazione.
Quando era entrato nella sala principale il sole era alto e Victor faceva colazione. Poco dopo Koriand’r li aveva raggiunti, prima che Garfield si fiondasse nella stanza con un biglietto stropicciato stretto tra le mani e desse la notizia.

Victor rigirò l’anello sul dito, come aveva preso l’abitudine di fare spesso quando era nervoso, e sbatté gli occhi quando sentì lo psicologo pronunciare il nome di Richard e puntare l’attenzione sul loro leader.
Si voltò a guardare Koriand’r, scambiando con lei un’occhiata di conforto e stringendole la mano con affetto.
«Tutto bene?» le domandò sottovoce. Lei annuì lievemente, mentre Richard borbottava sovrappensiero ciò che pensava.
«Dovremmo concederle il beneficio del dubbio». Il moro puntò gli occhi in quelli del dottor Brennan. «Sento che è la cosa giusta da fare. Lei c’è sempre stata, per noi, sarebbe ingiusto non darle una possibilità, almeno fino a quando non farà qualcosa che dimostri di averci traditi»
«È sempre stata dalla nostra parte. È sempre stata difficile, da capire, ma sa quello che fa» disse Victor, sperando che questo fosse vero. Rigirò per l’ennesima volta l’anello olografico al dito e ripensò a quanto avrebbe voluto che avesse scritto qualcosa di più, su quel foglio, oltre che quelle quattro parole in croce con cui aveva annunciato la sua partenza.

Non ci era voluto molto perché si rendesse conto di un calo nella sicurezza, quella stessa mattina, prima dell’alba.
Aveva controllato le eventuali intrusioni e, dopo essersi assicurato che non vi fossero problemi, era salito nella stanza principale per prepararsi una mega porzione di uova e bacon. Aveva spalancato il frigo, rotto le uova nella padella e sistemato il bacon al loro fianco. Aveva fischiettato tra sé la stupida canzoncina di una nuova pubblicità, mentre ripassava a mente le modifiche che avrebbe voluto fare alla sua auto nella tarda mattinata. Si era goduto in pace la sua colazione, gioendo di quella quiete che da sempre era possibile trovare alla torre solo la notte ed a quell’ora del mattino.
Aveva divorato la sua colazione, mandando giù il tutto con un bel bicchiere di succo d’arancia, ignorando l’orologio che ticchettava, il tempo che passava troppo in fretta e senza accorgersi dell’assenza dell’amica, almeno fino a quando Richard non lo raggiunse.
La porta scorrevole si era chiusa alle spalle del leader e, solo in quel momento, il mezzo robot aveva realizzato che Raven non era ancora salita farsi il suo tè mattutino.
Richard si era seduto al suo fianco e, come se nulla fosse, aveva iniziato a sfogliare il quotidiano.
Quando Koriand’r era arrivata dicendo che Raven non le rispondeva nessuno dei due si era preoccupato più di tanto.

Koriand'r non prestava attenzione a ciò che le succedeva attorno, non le importava cosa il dottor Brennan avesse da dire né cosa gli altri gli stessero dicendo. Non ricordava già più le domande che l’uomo le aveva fatto né le risposte che gli aveva dato. Si poneva di nuovo i quesiti che già mesi prima l’avevano tormentata; se avesse bussato prima alla porta della compagna di squadra?, se fosse stata un’amica migliore?, se fosse riuscita a comprendere meglio la personalità di Raven?

Aveva bussato ripetutamente e con entusiasmo alla porta dell’amica, quella mattina, con la rivista degli sconti del centro commerciale stretta nel pugno, entusiasta per la possibilità di poter passare la giornata con quella che, dolente o nolente, era la sua migliore amica.
L’aveva aspettata con impazienza continuando a chiamarla pensando che, prima o poi, Raven le avrebbe detto di smetterla o, ancora meglio, l’avrebbe raggiunta sul pianerottolo.
Ma la ragazza non era uscita e non le aveva risposto, così quando Kori aveva smesso di bussare il corridoio era scivolato nel silenzio. Almeno fino a quando i passi di Garfield non erano riecheggiati preannunciando il suo arrivo, rumorosi quasi quanto quelli di uno gnu.
Il ragazzo aveva salutato l’aliena e le aveva domandato cosa ci facesse lì. Non ci era voluto molto per capire che entrambi stavano cercando le attenzioni della stessa persona, ma un po’ più di tempo per capire che lei non era lì.
Garfield aveva affermato che, poiché non aveva sentito il suo odore davanti alla porta della sala principale ed era già passato in terrazza, lei doveva per forza essere in camera. Si era proposto di entrare a controllare che stesse bene e Koriand’r aveva preferito defilarsi per non vedere l’amica che gli faceva del male, infuriata per l’invasione della sua privacy. Si era recata con calma a fare colazione, pensando che avrebbe parlato con Raven in seguito, ma non aveva fatto in tempo a sedersi che Garfield aveva fatto irruzione sventolando agitato il biglietto d’addio.

Garfield era tornato in camera, furioso. Non aveva mai pensato di poter provare una simile rabbia, se non collegata alla Bestia. Aveva scaraventato la spilla contro una parete, mugugnando imprecazioni senza senso e parolacce che generalmente non usava.
Se Kori fosse stata lì l’avrebbe rimproverato per l’uso di un linguaggio tanto scurrile, ma non gli era importato, poiché in quel momento aveva avuto bisogno di sfogarsi e di ricoprirsi di insulti il più possibile, per ricordare a sé stesso quanto era stato stupido.
Buttare via tutti i suoi risparmi per far fare quella stupida incisione su quella stupida spilla non aveva portato a nulla, se non a farla fuggire a gambe levate. Si era chiesto perché ci avesse messo tanto a reagire al messaggio, perché non fosse bastato dirgli che non ricambiava i suoi sentimenti. L’avrebbe accettato. Aveva pensato di poter far finta di nulla e continuare con la sua vita, se lei non avesse deciso di stravolgerla così violentemente con la sua fuga.
Si era abbandonato per terra, con la schiena poggiata contro la fredda porta chiusa ed aveva chinato la testa, stendendo le gambe sul pavimento freddo.
Aveva pensato di voler sparire, quella sera. Si era rimproverato più volte, pensando che fosse colpa sua, che avrebbe potuto evitarla. Si era detto che avrebbe dovuto capirlo, dal momento che lei non gli aveva detto nulla. Aveva continuato a ripetersi che, se solo le avesse detto che non gli importava essere ricambiato, lei non se ne sarebbe andata.
Aveva odiato le ipotesi che Robin aveva fatto quel pomeriggio riguardo alle azioni di Raven. Era stato così stupido, da parte sua, pensare che Raven potesse essere andata via con quel bell’imbusto con cui l’avevano beccata a parlare alcuni giorni prima.
O meglio, Garfield pensò, avrebbe potuto dirglielo, se così fosse stato. Non avrebbe dovuto scappare in piena notte senza dire nulla a nessuno.
Aveva passato le settimane successive chiuso in camera, aprendo solo a Kori, quando lei insisteva a portargli da mangiare. Si era rifiutato di parlare con chiunque, anche quando lo avevano costretto ad uscire per vedere uno specialista. Aveva saltato allenamenti, lotte al crimine, svariati pasti. Aveva perso parecchie ore di sonno per pensare a cosa avesse sbagliato. Poi era successo, semplicemente. Aveva lasciato che gli amici andassero in missione da soli. L’attacco non era stato molto distante, era riuscito a vedere tutto dalla finestra della sua stanza. Varie esplosioni, molto fumo, cose che temeva potessero fare del male a quella che era la sua famiglia.
Non ci aveva messo molto a vestirsi ed accorrere in loro soccorso.
Da quel giorno aveva smesso di nascondersi, di tacere. Aveva iniziato a sfruttare al meglio le sue sedute con lo psicologo, aveva fatto in modo di essere partecipe delle attività degli altri, aveva finto che tutto andasse bene.
Si era tenuto tutto dentro per un po’, fino a che non fu facile fingere che quella bolla di tristezza in fondo al petto fosse qualcosa di estraneo a lui, che non lo riguardasse.
Si era abituato fin troppo in fretta all’assenza di Raven. Le giornate senza di lei erano diventate normali. Non c’era stato più bisogno di fare attenzione a non disturbare la meditazione della ragazza, non c’era più stata la teiera pronta per riscaldare l’acqua per lei, presto erano scomparse anche le varie buste di infusi nel mobiletto della cucina.
Alla fine anche le lettere dei fan indirizzate a lei avevano smesso di arrivare.
Il giorno in cui lui e Kori avevano deciso di salvarle dal cestino dell’immondizia a cui Richard già le aveva destinate gli era venuta l’idea. Era successo mentre lanciava con poca cura il sacco nel vecchio ripostiglio. Alcune delle lettere erano scivolate per terra e lui si era chinato seccato a raccoglierle. Alcune erano colorate ed altre avevano dei disegni infantili sulla parte posteriore.
Garfield aveva sorriso lievemente, nel vedere la Raven sbilenca dai contorni sbavati.
Quella sera aveva deciso di tornare a sognare ad occhi aperti, un po’ come faceva da bambino. Aveva tirato fuori una vecchia scatola di pastelli che credeva di aver buttato da secoli ed aveva iniziato a disegnare.
Aveva abbozzato una versione di sé priva di tutti i difetti che lo avevano tormentato negli ultimi tempi; niente orecchie a punta – chi voleva prendere in giro?, non servivano a nulla se non a farlo sembrare idiota –, un colorito normale, una dentatura priva di zanne e nessuna capacitò sovrumana, a parte forse una cospicua dose di ottimismo di cui sentiva un disperato bisogno.
Poi si era occupato di lei; una versione di Raven che le lasciasse scampo dalla sua natura, che potesse permetterle di essere libera alla fine della storia, anche da sola.
Poi, come se fosse già stato deciso in precedenza, vennero fuori conflitti e complicazioni per la sua storia. Così era nato Black Wing.

Lilith sfogliava le pagine con cautela, osservando attentamente le immagini e perdendosi in quell’insieme di segni - che ancora non riusciva a distinguere bene - che erano le parole.
Aveva provato a leggere, a seguire la storia, all’inizio. Poi aveva lasciato perdere e si era dedicata ad osservare le espressioni dei protagonisti. La principessa, ammantata di nero in un groviglio di piume scure dai riflessi argentei ed azzurri, aveva lo sguardo di una che non poteva permettersi di essere libera, il ragazzo, stretto nella sua armatura argentea, nascondeva un’espressione da cucciolo smarrito dietro un sorriso aperto che spesso non contagiava lo sguardo.
Lilith seguì con un dito il profilo della protagonista, domandandosi cosa le impedisse di fuggire, di trovare la felicità da un'altra parte se la vita che viveva era alla pari di quella di un canarino in gabbia.
Ne aveva visti parecchi, a Jump City, di uccelli in gabbia. Non riusciva a capire come si potesse fare una cosa simile ad un animale che era nato per stendere le ali contro il cielo e saltellare liberamente. Si era chiesta molte volte come la gente facesse ad ignorare il canto di disperazione dei piccoli volatili e lo sguardo buio nei loro occhi. Se avesse potuto li avrebbe liberati tutti, nessuno escluso. Avrebbe detto loro di nascondersi nei boschi, di non tornare. Avrebbe detto loro che potevano scegliere il loro futuro ed essere liberi.
Avrebbe voluto dirlo anche a Raven, si rese conto all’improvviso. Sapeva che teneva a loro, lo sentiva, ma sapeva anche che c’era qualcosa sul fondo del suo cuore che le impediva di essere felice, un groviglio di emozioni che teneva rinchiuse, soffocate.
Pensò che forse, un giorno, avrebbe potuto aiutarla a tirarle fuori; ad essere libera, in qualche modo. Sorrise inconsapevolmente, sollevando gli occhi al soffitto con sguardo trasognato. Poteva farlo, certo, bastava solo trovare ciò che le mancava e portarglielo.
I due tonfi, due pugni battuti forte contro la porta, la fecero sobbalzare, risvegliandola dai suoi pensieri.
«Avanti» esclamò veloce, nascondendo il fumetto sotto il cuscino, riemergendo in fretta dai suoi pensieri. Si era tanto abituata ai sentimenti dei suoi fratelli che erano diventati solo un lieve brusio sul fondo della sua mente e riusciva ad esternarsi quasi alla perfezione.
Raven dischiuse la porta con attenzione, entrando nella camera senza fretta. «Tutto bene?» domandò guardando la ragazzina attentamente.
Lilith sorrise, sventolando le gambe giù dal bordo del letto ed inclinando la testa. Lo sapeva bene che probabilmente Raven non aveva mai sentito tanta felicità e speranza provenire da lei tutte insieme. «Tutto bene» rispose. «Hai già pensato a cosa mangiare?»
Raven scosse la testa dal repentino cambio di discorso. «Tu hai qualche idea?» domandò. Non voleva smorzare in alcun modo quell’entusiasmo, quella leggerezza che lei emanava.
«Penso che magari potremmo prendere una pizza» propose ancora Lilith.
«Pizza» ripeté Raven. «Si, credo di conoscere un buon posto». Poi si voltò per lasciare la stanza, prima che i ricordi delle serate e dei pomeriggi passati in quella pizzeria la sommergessero, prima che qualcosa potesse rovinare il momento a Lilith. Qualunque cosa l’avesse resa così felice, pensò Raven, sperava restasse per molto, perché dopo quello che aveva passato quella ragazzina si meritava tutta la felicità del mondo.
Si chiuse la porta alle spalle, ripensando a quanto diversa Lilith fosse dalla prima volta che l’aveva incontrata.

La cenere era raggruppata in rune nere che scintillavano alla luce della luna, Lilith era ferma nel mezzo, circondata da erba bruciata. E piangeva, singhiozzava tanto forte che quasi non riusciva a respirare. Raven aveva provato molte volte a parlare, ma le lacrime non si erano fermate. Allora la ragazza le si era avvicinata, timorosa, ed aveva provato a calmarla, inginocchiandosi al suo fianco.
«Ti ho cercata tanto» le aveva detto alla fine la ragazzina, una volta trovate le parole, i capelli impolverati ed opachi, le guance arrossate dal pianto e gli occhi lucidi
Le aveva spiegato di essere figlia di Trigon e di una ninfa dei boschi, che un demone drago aveva ucciso sua madre da poco ed ora dava la caccia a lei. Le aveva chiesto aiuto piangendo. Poi tutto era andato a fuoco ed in breve il fumo le aveva avvolte.
Raven si era svegliata in un bagno di sudore, sconvolta. A quel sogno ne erano seguiti altri, più vividi, in cui Lilith era sempre più stremata e disperata. In breve la ragazza aveva imparato che le capacita empatiche della ragazzina le permettevano di influire sui sogni delle persone, per questo le era stato facile apparirle. Poi, quando Raven si era finalmente decisa ad andare a cercarla, i sogni si erano interrotti.
Un paio di giorni dopo Lilith le era apparsa ancora, dicendole che stava bene e che qualcun altro l’aveva salvata. Era stata quella notte che aveva sentito parlare per la prima volta di Belial.




********



Ok. È corto, è banale e non succede nulla di speciale.
Abbiamo avuto dei disguidi tecnici, poiché non avevamo idea di come sistemare i flashback, che erano divenuti problema di Digital poiché la prima metà del capitolo, appunto quella dei flashback, era affidata a lei. Poi le sono sorti problemi di vari impegni e, circa un mesetto fa, la povera Digital si è trovata tanto sommersa che ha deciso di non poter più proseguire con questa fic. Non abbiatecela con lei; proseguirò io e lei, se vorrà, potrà scrivere anche solo qualche scena qua e là (ad esempio qualcosa tipo un certo sogno di Starfire *fischietta e guarda in alto con faccia decisamente maligna, poiché era una scena che non voleva scrivere neanche prima – ed, ops, mi sono appena resa conto che ora tocca a me pure quella…*)
Dunque, spero che questo capitolo, scritto totalmente da me, non vi abbia delusi. Vi assicuro che dal prossimo torna l’azione e spero di postare almeno due capitoli entro febbraio.
Per farmi perdonare l’attesa posto anche un accenno del prossimo capitolo, sperando che non vi siate dimenticati di noi. Baci, Genius <3




Jeremy si avvicinò a Lilith. Ora erano fianco a fianco, di nuovo ignorati, ma il suo atteggiamento rigido non si sciolse. «Muoviamoci» disse seccato nascondendo ulteriormente il volto sotto al cappuccio. «Troviamolo e torniamo a casa».
Lilith annuì. Strofinò le mani una contro l’altra, perché non era abituata all’aria condizionata o a qualunque tipo di aria artificiale. A lei piaceva l’aria pura, frizzante e ricolma di odori selvatici.
Lanciò un’ultima occhiata alla pietra. «Mamma, io e le altre danzavamo sempre attorno a quella che c’era nella nostra foresta» disse tornando a riferirsi al discorso precedente. Era di nuovo tornata la solita Lilith, quella che fingeva di non sentire e si nascondeva dietro ad un sorriso. La vicinanza del ragazzo non la colpiva, poiché ormai ci era abituata, ma un lieve senso di malinconia personale la avvolse.

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Capitolo 5
*** Che c'è sotto il mantello, Raven? ***



CHE C’E’ SOTTO IL MANTELLO, RAVEN?


Lilith saltellò verso la teca con occhi sgranati. Piantò le mani sul vetro e sorrise.
«C’era uno di questi nella mia foresta. Era troppo nascosto nel folto perché qualcuno lo trovasse» raccontò entusiasta guardando la grossa pietra incisa.
Jeremy, a neanche un metro di distanza, però, non la ascoltava. Si guardava attorno confuso, perso in una moltitudine di emozioni non sue. Invidiava il modo in cui la ragazzina sembrava riuscire a lasciarsele scivolare addosso, non poteva evitarlo, ma non poteva farci nulla, quindi sospirò e seguì il suo sguardo.
La pietra era una grande lastra coperta di disegni celtici. Non sapeva da dove provenisse e, nonostante fosse certo che sul cartello vi fosse scritto, non gli importava saperlo.
Una delle guide del museo, una donna slanciata con i capelli striati di grigio che poteva benissimo essere scambiata per una bibliotecaria, lasciò un’occhiata preoccupata a Lilith, avvicinandosi. «Non si possono toccare le teche» disse alla ragazzina. Lo fece gentilmente, felice dell’entusiasmo che la ragazzina dimostrava verso le varie cose esposte.
Lilith fece due passi indietro ed incrociò le braccia dietro la schiena, le gambe rigide ed i pugni chiusi. Non era ancora abituata ad essere avvicinata dagli umani. Oltre un certo limite di spazio le loro emozioni diventavano così chiassose da non poter essere ignorate. Rimase a distanza dalla teca, domandando con lo sguardo alla guida se quella distanza andava bene.
La donna le strizzò l’occhio. «C’è qualcosa che volete sapere in particolare?» chiese lanciando un’occhiata anche a Jeremy, che intanto era rimasto in disparte in silenzio. Lui si strinse nella felpa e scosse la testa, tenendo gli occhi sgranati sotto gli occhiali da sole, preoccupato che la donna potesse riconoscerlo come il ragazzo che aveva distrutto il centro appena pochi giorni prima.
«Sappiamo già tutto» rivelò Lilith percependo, in mezzo a tutto il resto, il disagio di Jeremy. «Dove vivevo ce n’erano un sacco» aggiunse con aria sognante. Fece un sorriso a Jeremy, per fargli capire che ci avrebbe pensato lei, che poteva stare tranquillo e fidarsi. «Dirò io a mio fratello quello che deve sapere»
La guida annuì. Non poteva che ammirare l’interesse che Lilith sembrava dimostrare nei confronti della storia, anche se non ne conosceva la ragione.
«Molto bene» disse allora. «Se avete domande mi trovate nei corridoi»
Si allontanò, raggiungendo un altro gruppo di visitatori fermi poco più in là.
Jeremy si avvicinò a Lilith. Ora erano fianco a fianco, di nuovo ignorati, ma il suo atteggiamento rigido non si sciolse. «Muoviamoci» disse seccato nascondendo ulteriormente il volto sotto al cappuccio. «Troviamolo e torniamo a casa».
Lilith annuì. Strofinò le mani una contro l’altra, perché non era abituata all’aria condizionata o a qualunque tipo di aria artificiale. A lei piaceva l’aria pura, frizzante e ricolma di odori selvatici.
Lanciò un’ultima occhiata alla pietra. «Mamma, io e le altre danzavamo sempre attorno a quella che c’era nella nostra foresta» disse tornando a riferirsi al discorso precedente. Era di nuovo tornata la solita Lilith, quella che fingeva di non sentire e si nascondeva dietro ad un sorriso. La vicinanza del ragazzo non la colpiva, poiché ormai ci era abituata, ma un lieve senso di malinconia personale la avvolse.
Jeremy percepì la sua tristezza, ma non aveva alcuna esperienza nel consolare le persone e non la conosceva abbastanza per sapere cosa dirle. Allungò una mano e lei, senza alcuna esitazione, la strinse.
Lui avrebbe voluto dirle che c’era, per lei, ma non sapeva come. Lilith accennò un sorriso, perché comunque andasse tra loro non avevano bisogno di troppe parole.
«Magari un giorno mi farai vedere dove sei cresciuta» le propose.
Lilith sorrise. Sapeva che Jeremy si stava sforzando e voleva aiutarlo ad aiutarla nel miglior modo possibile. Lui non era più solo, e voleva che lo sapesse. Nessuno avrebbe più dovuto separarli dai loro fratelli, ora che finalmente potevano essere una famiglia. «Quello che cerchiamo è al piano di sopra, secondo quello che c’è scritto sull’opuscolo»
Le scale erano dall’altra parte della stanza, distavano un paio di mummie ed alcuni utensili da lavoro di chissà quale secolo. L’organizzazione era alquanto caotica, per uno sguardo attento, ma a Lilith e Jeremy non interessava. Raggiunsero il piano superiore con calma, salendo lentamente la scala del vecchio edificio scricchiolante. Una scolaresca passò loro accanto schiamazzando, lasciando vuota la sala in cui erano diretti. Alla fine furono solo loro ed una lunga serie di teche colme di vecchi libri, pergamene e manufatti incisi di rune.
Si separarono per percorrere i due corridoi paralleli tra i vari oggetti, accarezzarono con lo sguardo i ciondoli ed i pugnali. Poi arrivarono alle pergamene ed ai libri e rallentarono aguzzando la vista. Non ne sapevano molto, non erano in grado di leggerle, ma sapevano che Belial e Raven ci sarebbero riusciti.
Dovevano solo trovare il libro che i fratelli gli avevano descritto, poi sarebbero potuti andare via, dove Lilith avrebbe potuto di nuovo annusare il profumo dei suoi fiori invece che quello del vecchio pavimento di quercia ammuffito, e dove Jeremy non avrebbe dovuto stringere i denti per sopportare le chiassose emozioni di prime cotte, rabbia repressa e depressione umana.
Fu Lilith a trovalo. Non era in una bacheca particolare e non spiccava tra gli altri, anzi, sembrava quasi anonimo rispetto a gli altri enormi volumi rilegati in pelle ricoperti di miniature. Era al centro della stanza, poco distante dal grosso lucernaio di vetro che gettava ombre colorate sul pavimento scuro.
Jeremy si avvicinò a Lilith, vide il piccolo libricino ricoperto di rune.
Avrebbe voluto prenderlo e portarlo via subito, chiudere quella storia in fretta. Invece lanciò un’occhiata alla telecamera di videosorveglianza, poi sorrise a Lilith. Contò le finestre, per sapere ritrovare la teca anche al buio. Poi diede un colpetto con la spalla alla sorella.
Avevano fatto ciò che dovevano, potevano andare a casa.

Raven aprì gli occhi solo per richiuderli a forza un istante dopo, per evitare di essere abbagliata dalla luce intensa. C’era una leggera brezza che le scompigliava i capelli scuri sul cuscino. Si rigirò infastidita, scombinando le lenzuola che la ricoprivano, trovandosi intrappolata in un groviglio informe. Il braccio le ricadde fuori dal letto e la mano finì immersa nell’acqua tiepida. All’improvviso si rese conto che stava succedendo un’altra volta; il baldacchino immobile sul pelo dell’acqua, le tende candide libere di seguire la direzione del vento, i petali di rosa neri sparsi tutto attorno.
Provò a sollevarsi, riconoscendo la situazione, riconoscendo il luogo – o meglio, il non luogo. L’aveva già vissuto e, per quanto trovasse il tutto assolutamente idilliaco era anche assolutamente rivoltante. Si trovò ad urtare contro un petto muscoloso, due braccia forti la costrinsero a tornare giù, accompagnandola gentilmente di nuovo contro il materasso.
Sentì le sue labbra sul collo, tremando al suo tocco. Lo sguardo perso per un istante nell’orizzonte, dove il cielo si specchiava nell’acqua senza ostacoli.
Tentò di ritrarsi dalla figura dietro di lei, ma questa la teneva saldamente.
«Rae, Rae. Dove credi di andare?» le domandò dolcemente. La sua presa era fin troppo decisa, e la costrinse a voltarsi ancora.
Con la schiena di nuovo sul materasso, Raven gemette davanti a quel volto verde, ma conosceva troppo bene i suoi occhi per cadere tra le braccia di una misera copia appannata. «Tu» mormorò poggiando una mano sul suo petto, tentando di aumentare il distacco tra loro.
«Rae, Rae. Cosa credi di fare?» domandò ancora lui sollevandole i polsi per bloccarli sul cuscino. Si chinò a baciarla, ma lei ruotò la testa per evitare che cogliesse le sue labbra. Lui le leccò l’orecchio, impedendole di obiettare.
Raven strinse i pugni, incapace di ribellarsi e scrollarselo di dosso. La calma dell’acqua e il tepore del vento contribuivano ad intorpidire ogni sua resistenza.
«Vattene» supplicò, incapace di urlare. Sollevò un ginocchio, tentando di colpirlo, ma la gamba le parve quasi più pesante dei propri pensieri.
«Rae!» si lamentò lui divertito. «Sai che non vuoi davvero mandarmi via». Afferrò un lembo del lenzuolo con i denti, trascinandolo giù per scoprirle il petto, ma questo fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Azarath, Metrion, Zinthos!» gridò la ragazza infuriata. Un lampo di energia scura lo scagliò in acqua, e Raven poté finalmente svegliarsi.
Si ritrovò nella stanza lugubre, avvolta in cupe lenzuola sudate. Ansimava pesantemente nella semioscurità. Arretrò fino a poggiare la schiena contro la parete fredda e trascinò le ginocchia al petto per circondarle con le braccia.
«Maledetti Incubi. Maledetti demoni» brontolò.

Koriand’r sfogliò attentamente i fogli che aveva in mano, osservando con interesse sia le vignette che le parole che il ragazzo aveva scritto a matita nei baloon.
Aveva iniziato la sua revisione con il sorriso, ma man mano che proseguiva si rendeva conto che i toni dell’avventura si facevano più tristi e non le ci volle molto per comprendere che ciò avveniva perché l’aria che si respirava nella storia seguiva gli stati d’animo del suo autore.
Abbassò i fogli per sorridere all’amico, che era ancora costretto nel letto dell’infermeria. Sorrise, nel vedere nei suoi occhi la stessa ansia e preoccupazione di ogni volta. Le sue domande erano sempre le stesse.
«Come sono i personaggi? I miei disegni sono decenti? Come procede la storia, secondo te?»
Come al solito, Koriand’r gli fece cenno di stare calmo. «I tuoi personaggi sono ok, ogni numero sento di conoscerli un po’ di più. Per i disegni diventi più bravo ogni giorno che passa. La storia è avvincente, ma mi chiedo se quest’improvvisa aria cupa sia colpa di quello che è successo»
Lo sguardo del mutaforma si spense. Il ragazzo scrollò le spalle, allungò un braccio e si riprese i fogli. «Mi aiuti a spillarli?» chiese con gli occhi bassi porgendole la spillatrice.
L’amica lo fece volentieri, fingendo di non aver capito che lui voleva solo cambiare discorso. «Ehi, che ne dici se ci vediamo qualcosa in tv? Forse c’è quel cartone animato che ti piace tanto, quello del ragazzo con l’orologio alieno»
Garfield le sorrise. «Ben Ten?» domandò retorico.
Koriand’r annuì, afferrando il telecomando. «Sai, Dick ha detto che noleggerà un film in città, per vederlo questa sera qui in infermeria. Victor prenderà le pizze. Credo che abbiano in mente una specie di pigiama party» disse.
Il verde storse il naso. «I ragazzi non fanno pigiama party» si lamentò.

Quando Lilith e Jeremy rientrarono l’ora di pranzo era passata. Trovarono Raven nel salotto, con la sua tisana preferita in mano ed un pesante volume poggiato sulle ginocchia. Le dita erano contratte attorno alla tazza e le occhiaie, più scure del solito, incrociavano il suo sguardo spento. Non serviva essere empatici per capire che qualcosa in lei non andava.
Lilith saltellò verso di lei e si sedette al suo fianco, stringendole la mano. Jeremy rimase a distanza, tentando di non farsi coinvolgere ulteriormente dalle emozioni di entrambe.
«Hai fatto brutti sogni?» domandò Lilith con una punta d’innocenza che fece sorridere Raven lievemente. «Non devi preoccuparti» le rispose la ragazza, poggiando la tazza sul comodino lì affianco, ma Lilith insisté. «Se vuoi posso aiutarti, lo sai. Posso guidare i tuoi sogni mentre dormi» propose, desiderosa di rendersi utile.
La ragazza le sorrise lievemente. I Titans si erano sempre preoccupati per lei, ed ora era bello sapere che c’era anche qualcun altro, in grado di comprenderla anche meglio di loro, che non l’avrebbe abbandonata anche quando loro l’avrebbero fatto. Perché era certa che fosse solo questione di tempo prima che si convincessero a considerarla una nemica a tutti gli effetti.
Ed il momento che più temeva era quello in cui avrebbe dovuto scegliere tra l’assolvere il suo compito ed i suoi vecchi amici.
«Va tutto bene, non serve» disse alla bambina con un lieve sorriso. «Devo solo meditare un po’ prima di andare a prendere il libro»
Lilith le sorrise. «Stai tranquilla, tutto questo finirà presto» la rassicurò.
La fiducia e l’affetto che Lilith provava per lei invasero la sua mente ed il suo cuore, calmando ancora una volta tutti i suoi dubbi e ricordandole che, insieme ai sui fratelli e per un futuro assieme a loro, valeva la pena di lottare, pagando qualunque prezzo.
Guardò la bambina negli occhi e le sorrise ancora. «Dobbiamo dire a Belial che siamo pronte» le disse.

A sera, nella stessa sala del museo in cui Lilith e Jeremy erano stati quella mattina, Raven rimosse con attenzione il vetro della bacheca. Un viticcio di energia nera lo tenne sospeso per aria, dando a Jeremy il tempo di afferrare il libro.
I sistemi di sicurezza non erano avanzati quanto quelli di una banca, pensati per proteggere dei reperti storici, non certo per tenere al sicuro un libro che avrebbe potuto distruggere l’intera realtà conosciuta.
Raven sospirò, vedendo il fratello stringere il pesante volume tra le mani. Il ragazzino lo chiuse con delicatezza, facendo particolare attenzione a non rovinare le pagine ingiallite dal tempo.
Lilith, che fino ad allora era rimasta nell’ombra di un angolo, si guardò attorno. Gli altri due non ebbero bisogno di chiederle cosa la agitasse, poiché tutti e tre percepivano bene l’aura del guardiano notturno che si avvicinava annoiato a quella sezione. «È a soli due corridoi da qui» annunciò sottovoce la ragazzina.
Jeremy indietreggiò, per permettere a Raven di rimettere la teca al suo posto. La ragazza tentò di fare attenzione, poiché ogni secondo che passava l’uomo era più vicino. Non avevano portato torce con loro, dato che la loro natura demoniaca consentiva loro di vederci abbastanza bene anche al buio, ma nel momento in cui il riflesso della luce del guardiano notturno si stagliò sul pavimento Jeremy sussultò ed un paio di teche si incrinarono alle sue spalle.
Il crack che ne derivò fece sussultare l’uomo che, d’improvviso, si fermò per domandare nervosamente: «C’è qualcuno?». Agitò la torcia per tutto il corridoio, ma la luce non era ancora abbastanza intensa per raggiungerli.
Serviva una fuga veloce, si rese conto Raven. Mise giù la teca più velocemente e finì per farne sbattere i bordi di vetro contro il legno della parte inferiore. Nel silenzio della stanza il rumore fu assordante e subito dopo l’allarme scattò in tutto l’edificio. I passi del guardiano si fecero più pesanti e frettolosi mentre le luci si accendevano sfarfallando.
«Dritti a casa» ordinò Raven ad alta voce. Lilith si alzò in volo, Jeremy provò a fare lo stesso ma l’ansia gli impedì di riuscirci. Si sollevò di alcuni centimetri, con il libro ancora stretto tra le braccia e si ritrovò a cadere e perdere l’equilibrio. Una volta in ginocchio sollevò lo sguardo verso Raven; lei sospirò con calma, ed il guardiano irruppe nella stanza con la pistola in pugno.
Raven si sollevò da terra ed aprì le braccia. «Azarath, Metrion, Zinthos» esordì, disarmandolo.
L’uomo, spiazzato dalla sua presenza, tentennò dandole il tempo di preoccuparsi del fratello. All’esterno le sirene della polizia erano sempre più vicine.
«Tutto bene?» domandò la ragazza seria. Perdere il controllo in quella situazione non avrebbe fatto altro che far perdere loro del tempo prezioso, ma ora avevano ciò che volevano e sarebbe dovuto essere semplice concludere l’operazione svanendo.

Per quanto da sempre apprezzasse il chiasso, le battute squallide del suo migliore amico e le premure della dolce extraterrestre dai capelli rossi, quel giorno non poteva fare a meno di pensare che gli altri lo stessero controllando.
Certo, non era raro che si incontrassero nella stanza principale per passare insieme serate come questa, ma considerando il modo in cui parevano intenzionati a non lasciarlo un attimo da solo era ben chiaro che ci fosse qualcosa di più. Pensavano forse che si sarebbe alzato e sarebbe andato a cercare Raven? O forse che si sarebbe lasciato deprimere dalla situazione e avrebbe deciso di farla finita?
Garfield non aveva intenzione di fare nessuna delle due cose. Continuava a chiedersi il perché? Perché Raven non aveva parlato del fratello, perché non si fosse fermata a spiegare, perché era così stupido da continuare a pensarci ancora.
Distolse lo sguardo dallo schermo; aveva smesso di seguire il film appena dopo i titoli iniziali ed ora si godeva la totale intenzione dei compagni nei suoi confronti, potendo tenere lo sguardo basso a fissare il nulla senza che gli altri lo notassero e provassero ancora a parlargli.
Lanciò un’occhiata distratta ai cartoni di pizza vuoti, domandandosi se gli avrebbero chiesto un parere sul film, alla fine. Sarebbe riuscito a dare una risposta decente senza lasciar capire loro che non aveva prestato la minima attenzione alla storia?
Sperò, con l’ennesimo sospiro, che qualcosa movimentasse la serata. E come se l’universo avesse ascoltato la sua preghiera l’allarme della torre iniziò a suonare e le luci lampeggiarono di rosso brillante.
Sorrise, nel vedere l’occhiata che gli altri si scambiavano mentre balzavano in piedi per prepararsi ad intervenire.
Loro lo squadrarono, lo fissarono preoccupati. Lui si limitò a liquidarli in fretta.
«Andate, me la caverò» li pregò, gioendo di poter finalmente restare da solo.

Incapace di controllarsi, Jeremy scagliò uno dei cartelli informativi contro uno dei poliziotti. Un raggio azzurro lo distrusse prima che colpisse l’uomo e Raven sussultò.
«Jeremy. Dobbiamo andare. Adesso» ordinò secca. Ma in quelle condizioni non sarebbe riuscita neanche a svanire nell’ombra con lui, poiché trascinarselo dietro era impossibile. Ogni singola scarica di potere del ragazzo si sarebbe opposta a lei, calmarlo era quindi l’unica cosa che potesse fare.
I Titans irruppero nella sala, Cyborg con ancora il cannone attivo, pronto a caricare un altro colpo. Con un moto di apprensione Raven si rese conto che non sarebbero tornati a casa tanto presto.
Jeremy si guardò attorno come a cercare una via di fuga, Starfire si avvicinò in volo, tentando di raggiungerlo. Preoccupato, Jeremy strinse il libro a sé e, gridando, fece saltare un’intera parete dell’edificio. Pezzi di legno, cocci di vetro e mattoni frantumati piovvero sul gruppo, mentre la polizia batteva in ritirata per lasciare un maggior campo d’azione ai supereroi della città.
Fu solo per dire qualcosa che Robin affermò contrariato: «Questi sono reperti storici». Poi, con la solita risolutezza e senza chiedere spiegazioni gridò: «Titans, go!»
Le mani di Raven si contrassero, quasi stesse resistendo all’impulso di rispondere all’incitamento come se facesse ancora parte della squadra. Lanciò un dardo di energia addosso a Starfire per allontanarla da Jeremy, poi lanciò un’occhiata fiduciosa a Lilith. «Calmalo» le disse. «Io li terrò impegnati» Si lanciò in avanti, parò uno dei calci di Robin ed evitò il braccio di Cyborg che stava tentando di afferrarla. Il mezzo robot tentò di farla ragionare: «Raven, tu non sei una criminale, lo so. Fermiamoci un minuto e dimmi cosa stai cercando di fare»
La ragazza lo ignorò, approfittando della sua distrazione per atterrarlo. «Io non ho niente da dirvi» affermò convinta. Starfire la afferrò alle spalle, provò a tenerla ferma e cercò di calmarla. Stringendo i denti Raven piegò il gomito, l’intero braccio venne avvolto da energia oscura e poi spinse l’arto con forza contro la principessa aliena. Starfire mollò la presa, finendo scagliata indietro per alcuni metri.
Gli ordini di Robin non tardarono ad arrivare. «Neutralizzatela, ma senza farle del male», gridò aspettando un cenno dalla fidanzata, per sapere se stesse bene. «La interrogheremo una volta che l’avremo riportata alla torre» aggiunse rivolgendosi a Cyborg, che annuì a malincuore.
I tre Titans si mossero all’unisono; Starfire si avvicinò alla vecchia amica, spostandosi sulla destra, Cyborg si mosse verso la sua sinistra, Robin indietreggiò restandole di fronte ed insieme formarono un triangolo per bloccarla.
«Sul serio?» domandò Raven divertita. Fece lentamente un giro su sé stessa, vedendo Lilith china su Jeremy a sussurrargli parole confortanti che da lì non riusciva a sentire. Poi tornò ad occuparsi dei ragazzi. «Dovreste sapere bene che mettermi in trappola non è così facile» esclamò. Sollevò un bracciò, ripeté il suo mantra ed una bolla di energia nera si dipanò da lei esplodendo in faccia ai tre Titans. Li sbalzò all’indietro e Raven non poté trattenersi di sorridere per la soddisfazione. Il volto le si rabbuiò immediatamente; chinò lo sguardo e sospirò, sollevando il cappuccio per celare la sua espressione. Diresse ogni sua attenzione empatica verso Jeremy. Ogni minuto che passava lui sembrava sempre meno fuori controllo.
«Raven» la chiamò Robin infuriato, rialzandosi. «Credimi, non avrei mai voluto che finisse così» affermò. Fece per avvicinarsi, Raven si mise in posizione di difesa, ma la sua concentrazione era ancora tutta per Jeremy e Starfire ne approfittò per arrivarle alle spalle. Le strinse la mano sulla bocca per impedirle di recitare il suo mantra e Cyborg accorse in suo soccorso. La tennero ferma insieme, aspettando che Robin si avvicinasse a loro.
«Ora basta, Raven» disse serio, fissando la ragazza dritta negli occhi.
Raven serrò le palpebre risoluta, in attesa. Il colpo di energia oscura smosse il suo mantello e colse di sorpresa gli altri. Furono costretti ad allentare la presa e la ragazza ne approfittò per divincolarsi e sollevarsi in volo.
Lilith era ancora in posizione d’attacco e Jeremy, al suo fianco restava a testa china ed occhi chiusi a respirare. «Andate» ordinò loro Raven, inflessibile. La ragazzina annuì ed un turbine di oscurità si aprì dietro lei ed il fratello.
«No!» esclamò Robin nervosamente. Corse verso di loro per fermarli, ma il varco si chiuse un istante prima che riuscisse ad afferrare uno dei due. Si voltò a fulminare Raven con lo sguardo; la ragazza lo ignorò deliberatamente, fece apparire un secondo varco sopra la sua testa e prese quota per entrarci.
«Mi dispiace» mormorò tra sé.
L’esclamazione contrariata di Starfire la fece tentennare, ma non si fermò. E la principessa aliena le volò dietro, svanendo con lei nel portale.



********



Salve. Non ho molto da dirvi; tranne che, nonostante avessi detto che avrei voluto aggiornare due volte entro febbraio alla fine non ci sono riuscita. Ma almeno non ci ho messo altri quattro mesi. Ho di nuovo fatto tutto da sola; Digital si scusa ancora, a proposito. Come potete notare inizia l’azione, o meglio, pare che Raven prenda posizione. Ero indecisa se darvi un piccolo spoiler e nel dubbio opto per il no, ma posso dirvi che il prossimo sarà un capitolo interessante. Spero. Baci, Genius <3

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Capitolo 6
*** Profumo di segreti ***



PROFUMO DI SEGRETI


Garfield si agitò nel letto, incapace di prendere sonno. Una volta finiti gli effetti degli antidolorifici non aveva più avuto pace. Rimpiangeva i giorni in cui Raven era stata nella squadra, per la possibilità di essere guarito più in fretta dai suoi poteri e per molte altre ragioni.
Ogni singolo osso del suo corpo aveva qualcosa di cui lamentarsi riguardo allo scontro più recente ed addirittura i pensieri erano ben decisi a non lasciarlo in pace. Era proprio una giornata da dimenticare, e sarebbe stata da buttare l’intera settimana, se non fosse stato per l’inaspettato incontro con la sua vecchia amica e quel suo strambo, pericoloso fratellino.
Non poteva impedirsi di tornare a pensarci, qualunque cosa tentasse di fare rimaneva il suo chiodo fisso. Avrebbe voluto discutere con Victor, assicurarsi che Richard non si fosse messo strane idee in testa – ad esempio considerare Raven un pericolo per la squadra – e gli sarebbe piaciuto poter raggiungere gli amici ovunque fossero andati a prestare soccorso.
Quando aveva sentito l’allarme era stato felice che li allontanasse per un po’, ma già dopo pochi minuti aveva iniziato ad annoiarsi a morte.
Rimase steso a fissare il soffitto, contando immaginarie pecore verdi per tentare di raccattare un po’ di sonno. L’operazione bastava a malapena per distrarlo.
Allungò una mano sul comodino, su cui Victor gli aveva premurosamente lasciato il telecomando del televisore e lo puntò contro il grande schermo che avevano sceso in infermeria quel pomeriggio.
«Ufff…» sbuffò il ragazzo verde premendo il tasto principale.
Lo schermo si accese rapidamente, mostrando le immagini di un vecchio film in bianco e nero. Cambiò canale, iniziando la classica operazione di zapping che lo impegnava sempre nei momenti di maggiore noia. Puntò direttamente ai canali per ragazzi, Disney Channel, Disney XD, K2, Cartoon Network, Nickelodeon e tutti quelli che gli vennero in mente. Il tempo non lo aveva cambiato, ma le repliche lo scocciavano, rifiutò quindi di rivedere per l’ennesima volta Generator Rex, I Maghi di Waverly ed i Pokemon. Beccò una puntata di Victorious che non aveva ancora visto, ma scoprì che era quasi alla fine e decise di passare oltre.
Dopo alcuni minuti di ricerca abbandonò i suoi piani iniziali. Passò al canale principale di Jump City, chiedendosi se gli avrebbe dato notizie della missione dei suoi amici. Come previsto, la giornalista, a distanza di sicurezza dallo scontro, stava analizzando le mosse dei tre Titans. O almeno ciò che riusciva a vedere dal suo punto di osservazione. Effettivamente dell’azione si vedeva poco. Alcuni colpi, molta polvere sollevata e, decisamente, una Raven alquanto sulla difensiva, il tutto attraverso una parete semi crollate del familiare museo di Jump City.
«Oh… No… No…» si disse mortificato. Ora, si disse, Dick avrebbe avuto davvero una ragione per diffidare di lei.

La T-Car inchiodò davanti all’indirizzo da cui proveniva il segnale del comunicatore di Starfire. L’aliena li aspettava davanti all’ingresso dell’appartamento, nel momento stesso in cui vide Robin spuntare sul pianerottolo si affrettò a raccontare confusamente l’accaduto.
«Quando Raven si è accorta che l’avevo seguita ha afferrato quei ragazzi e li ha portati via di fretta. Non hanno preso nulla» disse, facendo strada. «Sono sicura che era qui che vivevano; potremmo aspettare che tornino» propose entusiasta, mentre Cyborg e Robin ispezionavano il salotto.
Il Ragazzo Meraviglia la guardò rammaricato. L’ottimismo di Starfire lo commuoveva, ma non poteva permettere che pensasse ancora inutilmente che la sua vecchia amica sarebbe tornata per parlare e rimettere tutto apposto, perché per più tempo si fosse illusa più sarebbe rimasta delusa alla fine. «Kori, mi dispiace, ma credo che se Raven avesse voluto parlare con uno di noi l’avrebbe già fatto» disse con dolcezza accarezzandole un braccio. «Io non credo che torneranno ancora qui, ora che sanno che sappiamo di questo posto»
Starfire si tirò indietro, sospirando pesantemente. Non disse nulla, ma fece cenno al ragazzo di tornare a guardarsi attorno. «Cosa facciamo adesso?»
«Cercheremo di capire cosa stanno cercando di fare, magari hanno lasciato qualche piano» disse con calma. «Puoi guardare in giro per vedere se trovi cose che appartengono a Raven?» le domandò poi, camminando con lei per il corridoio buio ed infilandosi in una delle camere. Starfire s’infilò nella stanza affianco, accendendo la luce con un gesto veloce.
Così come il resto della casa la camera da letto era quasi del tutto spoglia. Pochi abiti nell’armadio, pareti bianche e lenzuola anonime ben ordinate sul letto. Sulla cassettiera, sistemata ai piedi del letto, stava uno specchio scuro dall’aria familiare. Non aveva idea di quando fosse successo, ma era certa di averla già vista da qualche parte. Si avvicinò lentamente, dando una manata alla tenda per scostarla e poter osservare meglio l’oggetto. Allungò un braccio per stringerlo tra lei mani, ma la voce concitata di Cyborg glielo impedì, facendola sussultare.
«Non. Toccare. Quello. Specchio» esclamò il ragazzo dalla porta prima che lei riuscisse a sfiorarlo. Starfire, con il braccio ancora fermo a mezz’aria, lo fissò confusa sbattendo gli occhi. Il mezzo robot si voltò verso il corridoio, chiamando il leader con tono ansioso ed entrando in camera. «È lo specchio di Raven» informò incerto, osservandolo come se potesse aggredirlo da un momento all’altro.
I due amici lo fissarono, confusi, per poi realizzare improvvisamente. «Questa era la sua camera, allora» osservò Robin.
Cyborg annuì, poi accennò la spiegazione di ciò che era successo anni prima. «Io e Garfield siamo finiti in questo specchio, una volta. È un’esperienza che non ci tengo a ripetere» affermò con convinzione.
Robin annuì, comprensivo. «Meglio portarlo in un posto sicuro» disse.
Scambiò un’occhiata con Cyborg, mentre Starfire lasciava la stanza. La ragazza camminò lentamente, con la testa bassa e l’umore sotto i piedi. Non vedeva l’ora di uscire di lì, di poter tornare a casa e fingere che nulla fosse successo. Gli occhi le vagarono all’interno delle varie stanze; tutto era stato abbandonato in fretta e furia ma la casa era quasi completamente vuota. Non ci voleva molto, in quella situazione, a notare la nota stonata della camera in fondo al corridoio. La finestra aperta lasciava entrare la piacevole brezza notturna, trasportando per tutto l’appartamento il profumo delle piante; non c’era una sola pianta in tutto l’appartamento, ma quella stanza ne era colma al punto da sembrare quasi un giardino d’inverno. Erano tutte fiorite, rigogliose, perfette. Starfire non riuscì ad impedirsi di entrare per poterle osservare da vicino. Sfiorò la superficie di alcune foglie lucide, annusò uno dei ciclamini del vaso che stava sistemato sul comodino ed urtò inconsapevolmente una sedia stracolma di riviste e disegni.
La pila si rovesciò per terra, i fogli si sparsero sul pavimento. La ragazza si chinò, sentendosi in colpa per l’accaduto. Iniziò a raccogliere il tutto, ritrovandosi all’improvviso tra le mani un fumetto fin troppo familiare.
Fissò la foderina lucida ad occhi sgranati, riconoscendo i personaggi su cui Garfield aveva tanto lavorato. Rimise i fogli e le riviste sulla sedia, preoccupandosi di lasciare Dark Wings in cima e bene in vista.
Qualunque fosse il motivo per cui quel fumetto si trovava lì, Starfire sperò ardentemente potesse aiutare Raven a ritrovare la strada di casa.

Garfield li aspettava nella sala principale; avrebbe fatto avanti ed indietro per la stanza, se non avesse avuto paura di rovinarsi qualche medicazione.
Quando la porta scorrevole si spalancò ed i ragazzi entrarono nella stanza Garfield si alzò e, con risolutezza, si diresse verso di loro con il volto contratto dal nervosismo. «Che è successo?» domandò immediatamente. «Che ci faceva Raven al museo?». Si aggrappò al costume di Robin, come se questo potesse aiutarlo a capire meglio.
L’amico scosse la testa, afferrando i polsi del mutaforma. Avrebbe voluto essergli di conforto, in quel momento, ma non aveva idea di cosa potesse dirgli senza uccidere le sue speranze. «Ha rubato un libro, credo. Non c’è stato verso di chiederle la ragione» spiegò rammaricato.
Allora Garfield si rivolse a Cyborg. «Perché ci avete messo tanto? Dove siete stati?». Era chiaro che l’attesa del loro ritorno l’aveva reso irritabile, nessuno di loro poteva biasimarlo.
Esitarono, prima di dargli una risposta. Robin gli poggiò una mano sulla spalla, costringendolo a tornare a prestargli attenzione e dicendogli con rassegnazione quello che era successo. «Starfire ha seguito Raven ed ha trovato la casa in cui abitavano», disse. Ma non poté aggiungere altro, perché l’amico lo afferrò stretto per un braccio e lo scosse con forza.
«Allora li avete trovati!» esclamò speranzoso. Robin sospirò, lanciando un’occhiata a Cyborg e lasciando a lui il compito di parlare. Il mezzo robot ricambiò lo sguardo e cercò le parole giuste, ma quando pensò di averle trovate il mutaforma aveva spostato gli occhi su Starfire.
«Se e sono andati» gli disse la ragazza. «Spariti nel momento stesso in cui si sono accorti che li avevo seguiti. Li abbiamo persi». Scandì le ultime parole con attenzione, parlando come avrebbe potuto parlare ad un bambino che si rifiuta di capire. Il sorriso di lui tremò lievemente per qualche istante, prima di spegnersi.
«Ma abbiamo potuto dare un’occhiata in giro» fece poi Robin, il cui istinto da detective non si smentiva mai. Solo allora Garfield si accorse degli oggetti accatastati con poca cura sul carrello che i ragazzi avevano poggiato che avevano salito dal garage. Li osservò di sfuggita, ma non poté non accorgersi immediatamente del familiare specchio grigio poggiato sulla cima del cumulo. Scostò gli amici di lato, per passare e raggiungere il carrello, poi allungò le braccia per afferrarlo, ma Robin lo trattenne.
«Cosa hai intenzione di fare?» domandò il Ragazzo Meraviglia preoccupato.
«Lo specchio» gli rispose Garfield senza pensare. «Quello è lo specchio di Raven, forse posso usarlo per contattarla» iniziò, ma il leader non sembrava molto convinto ed anche Cyborg parve confermare i suoi dubbi.
«Quello specchio è pericoloso» disse quest’ultimo senza mezzi termini. «Ricordi cosa è successo l’ultima volta, vero?» gli domandò. Gli altri due li guardarono confusi; Cyborg fece un appunto mentale di riassumere l’avvenimento in seguito, ma si limitò a poggiare una mano sulla spalla dell’amico e dirgli risoluto: «Ti riporto in infermeria, Robin penserà allo specchio ed al resto»
Garfield balbettò qualcosa, contrariato, ma l’amico non gli lasciò scelta. Il mutaforma si disse che doveva solo aspettare il momento giusto per avvicinare l’oggetto e, fino ad allora, non dar segno di volerci riprovare. Si lasciò quindi trascinare in infermeria e si lasciò cambiare le medicature, fingendo poi di appassionarsi a una nuova puntata di La mia baby sitter è un vampiro fino a quando non rimase di nuovo solo.

Quando Robin aveva deciso di adibire una stanza della torre a camera di sicurezza, per potervi tenere in tutta sicurezza all’interno gli oggetti appartenuti ai nemici, ci era voluto molto tempo per scegliere una password che tutti i Titans avrebbero potuto ricordare.
Con la scomparsa di Raven il codice era stato cambiato ed ora, probabilmente non più di mezz’ora prima, era stato modificato un’altra volta.
Richard doveva aver intuito che avrebbe provato ad entrare e l’aveva preceduto. Garfield grugnì, quello era uno di quei giorni in cui sentiva che tutto il mondo remava contro di lui e non poteva fare nulla, a parte sbattere contro innumerevoli porte chiuse.
Ma non aveva intenzione di lasciarsi fermare da questa, di porta. Sapeva di poter fare un paio di tentavi, prima di innescare il blocco, e conosceva un paio date che l’amico avrebbe potuto aver utilizzato; cose personali che non avrebbero coinvolto gli altri membri del gruppo, ma preferì utilizzare un altro metodo.
Sapeva che, quando Victor aveva programmato il sistema, aveva costruito un’entrata d’accesso secondaria. Ora, nonostante nessuno lo tenesse in conto, o forse l’avesse mai capito, Garfield era figlio di due scienziati famosi e, anche se spesso tendeva a nasconderlo ed a dimenticarsene lui stesso, aveva un cervellino niente male. Già una volta aveva aggirato la sicurezza per introdursi nei file personali dei suoi amici, non sarebbe stato un problema neanche adesso.
Garfield sfilò delicatamente la copertura del controllo principale, scoprendone i cavi. Scollegò e ricollegò i vari fili e la porta si spalancò silenziosamente, le ante sparirono nella parete e le luci della stanza si accesero lampeggiando una dopo l’altra. Garfield entrò nella stanza soddisfatto e fece scorrere lo sguardo sui vari cimeli. Ci mise poco ad individuare ciò che stava cercando. Richard lo aveva lasciato vicino all’ingresso, troppo desideroso di cambiare i codici di accesso per preoccuparsi di trovarvi una collocazione migliore. Lo specchio era come se lo ricordava, esattamente come l’aveva visto alcuni anni prima. Era poggiato malamente su uno scaffale, Garfield rimproverò mentalmente il poco rispetto che l’amico aveva avuto nell’abbandonare un oggetto tanto importante su un’anonima mensola. Lo raccolse, vi si specchiò.
«Ecco» disse. «Trascinami dentro, ho bisogno di entrare». Strizzò gli occhi in attesa. Quasi si aspettava di restare deluso, immobile come il deficiente che sentiva di essere ad occhi chiusi e con la faccia al muro, e per un istante fu esattamente così.
«Ok, come non detto» sospirò dopo alcuni secondi lasciando con delicatezza lo specchio dove l’aveva trovato. Si voltò verso la porta, pronto ad andarsene, ma un’esclamazione concitata lo trattenne.
Qualcosa lo afferrò, trascinandolo indietro come se fosse un peso morto. La terra sotto i piedi gli mancò, almeno fino a quando non lo colpì con forza dritto sulle chiappe.
Era atterrato con una botta dolorosa, il terreno grigio era freddo ed il cielo era scuro come lo ricordava. Alzò gli occhi solo per incontrare lo sguardo di una delle emozioni di Raven. Perfettamente identica all’originale, Coraggio lo squadrava con un sorriso avvolta nel mantello verde scuro. «Yoho, Beast Boy» lo salutò.
«Ciao» le disse lui rialzandosi. Si massaggiò il sedere con una smorfia, poi le sorrise. «Mi faccio chiamare Changeling, adesso»
«Changeling» ripeté lei ammiccando. «Mi piace. Ti dona»
Garfield arrossì lievemente. Non poté evitare che il cuore gli si fermasse, nel guardarla, anche se non era la vera Raven.
«Allora, cosa ti porta qui?» gli domandò lei sorridendo.
Garfield dischiuse le labbra per risponderle. All’improvviso tutti i suoi piani, tutti i discorsi a cui aveva pensato per riportare Raven tra i Titans, sembravano inutili. Chinò lo sguardo e strofinò per terra una suola della scarpa.
Sentiva quegli occhi addosso a sé e quello sguardo lo trafiggeva.
«Dov’è che sono le altre emozioni? Potrei parlare con alcune di voi?» esordì all’improvviso agitando le punte delle orecchie.
Coraggio scrollò le spalle. Il sorriso le si spense mentre si avvicinava al bordo del precipizio su cui si trovavano. «Loro non verranno» annunciò rassegnata. «Si vergognano»
«Perché dovrebbero?» le domandò il ragazzo seguendola. «Sono sempre il buon vecchio Beast Boy, credevo di piacere almeno alla metà di loro»
«Tu ci piaci» lo tranquillizzò lei nel vederlo quasi nel panico. Gli sorrise. «Diciamo che non sono pronte ad incontrarti. O almeno non lo sono la maggior parte di loro»
«Perché?» domandò Garfield mogio. «Perché loro no e tu sì?»
«Perché?» ripeté lei. «Perché io sono il Coraggio»
Le spalle del mutaforma, che prima erano state rigide, si rilassarono. «Perché Rae non vuole incontrarmi? Perché non vuole che parli con lei? Perché non vuole parlare con me? Dimmelo, ti prego. Cos’avete da vergognarvi? Voi… Raven non ha fatto nulla per doversi nascondere da me»
Coraggio sorrise, felice di sentirglielo dire, ma la luce nei suoi occhi si spense quasi immediatamente. «Quindi non ce l’hai con lei per essersene andata?»
Garfield le sorrise lievemente. Era diventato quasi insensibile al dolore delle sue ferite, nelle ultime ore, ma riceveva ancora dolorose fitte improvvise a ricordargli lo scontro. «No, so che ci deve essere stato un buon motivo, solo che non riesco a capire quale sia. Vorrei che tu mi spiegassi» rivelò.
«Anche io vorrei spiegarti, credimi. Non c’è cosa che desidererei di più al mondo che dirti tutto adesso. Vorrei, o meglio, Raven vorrebbe tornare a casa, ma siamo andate troppo oltre per fermarci adesso»
Garfield digrignò i denti, sconcertato dall’evasività di Coraggio. «Sì, ma cosa dovete fare?»
Lo scatto d’ira gli costò una fitta particolarmente forte e lo costrinse a piegarsi in due con un gemito.
Lo sguardo di Coraggio si addolcì. Gli si avvicinò, sollevandogli il volto con tanta delicatezza che sembrò che temesse di romperlo. «Guarda Jeremy come ti ha ridotto» mormorò premurosa. «Lascia che ti guarisca»
Poggiò le mani sulla benda che riusciva a vedere meglio, quella che veniva fuori dalla maglietta a maniche corte del ragazzo. Un alone di luce nera circondò il braccio di Garfield ed in poco tempo il dolore scomparve. Poi Coraggio passò all’altro braccio.
In breve, senza un solo istante di esitazione, sbottonò i due bottoni del colletto per occuparsi di una spalla. Sorrideva lievemente, e presto ruppe il silenzio con una frase che Garfield all’inizio non riuscì a comprendere. «Forse non dovrei farlo» disse.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio. «Cosa? È vero, Dick si arrabbierà, quando verrà a sapere che sono stato qui»
«Sì» rise Coraggio. «Ma non mi riferivo a questo»
Poi, senza preavviso, poggiò i palmi delle mani sulle guancie di Garfield e sfiorò le labbra verdi con le sue.
Prima che Garfield se ne rendesse conto era fuori dallo specchio, esattamente nel punto da cui era partito, con un sorriso ebete inconsapevolmente stampato sul volto. Sorriso che si spense subito, però, quando scoprì che Richard era lì e lo fissava con furia omicida.
Era stato scoperto prima di quanto si fosse aspettato.

Raven spalancò gli occhi nel momento stesso in cui sentì il battito cardiaco accelerarsi. Era ancora nella posizione del loto, come quando aveva incominciato a meditare, circa mezz’ora prima. Ora però la tranquillità della meditazione era stata sostituita da una vampata di tepore che l’aveva percorsa da dentro e una lieve sensazione di inspiegabile sollievo.
Portò una mano al petto, per poi lanciare un’occhiata preoccupata ai ragazzini che stavano, a gambe incrociate, al suo fianco. Sospirò, sperando che questo suo repentino cambio di umore non avesse disturbato la loro concentrazione.
Lilith era ancora immobile, le palpebre serrate ed il mento sollevato. Jeremy, a tradimento, spalancò un occhio per scrutarla proprio nel momento in cui Raven si concentrava a guardarlo. La ragazza sussultò.
«Cosa?» le domandò Jeremy fissandola corrucciato. Aveva le mani lente contro le ginocchia, quindi nessun segno di fastidio per essere stato riportato alla realtà così di colpo.
Raven scivolò fino a terra, Jeremy fece per imitarla, ma il suo atterraggio impacciato fu molto meno leggiadro.
La ragazza ignorò per un istante le attenzioni del fratellastro, riflettendo su cosa avesse potuto scatenare quella reazione. Poi realizzò, all’improvviso, come colpita da una bastonata dritta dietro la nuca. «Il mio specchio…»
«Lo specchio?» le fece eco Jeremy.
«Qualcuno ci deve essere entrato… Io» s’interruppe ancora, rendendosi conto che solo una persona avrebbe potuto essere tanto incosciente e farla sentire a quel modo. E si rese conto che era ancora peggio di quanto avesse potuto pensare, perché non solo Garfield era riuscito ad entrare nel suo specchio, ma sicuramente aveva anche parlato con qualcuna delle sue emozioni.

Aveva trovato l’appartamento seguendo la traccia del pungente odore alieno di Starfire. Non c’erano molto odori simili sulla Terra e spesso era impossibile riuscire ad usarlo come guida, quando la ragazza si spostava in volo, ma quel giorno lei sembrava aver preferito viaggiare in macchina. Il profumo della ragazza, misto a quello dei sedili in finta pelle e dei circuiti dell’auto di Cyborg erano una combinazione a dir poco inconfondibile.
Era arrivato sul pianerottolo dopo aver avuto il permesso dagli agenti di polizia, poi aveva inspirato a fondo l’odore di Raven, misto ad altri odori familiare che ancora non riusciva a definire bene.
Abbassò la maniglia della porta d’ingresso senza esitare e fece il primo passo nel piccolo salotto. La polizia aveva il compito di controllare che nessuno entrasse o uscisse, ma solo i Titans avevano il permesso di visitare l’appartamento.
Esitò sulla soglia, distraendosi nel tentare di ricordare dove aveva già sentito quell’odore misto di piante selvatiche e fiori appena sbocciati che quasi lo costringeva dal trattenere il fiato. Aggrottò le sopracciglia, concentrandosi in silenzio. Sobbalzò, quando sentì la risatina infantile provenire da una delle camere da letto. Si chiuse la pota alle spalle con un colpo secco e si fiondò in corridoio.
La ragazzina dai capelli rossi, intanto, si era tappata la bocca. Lo fissò colpevole per un istante, mentre Garfield riconosceva in lei la sconosciuta a cui aveva regalato un numero del suo fumetto.
Lei premette il dito sulle labbra. «Non farmi scoprire, per favore, io non dovrei essere qui» supplicò. Poi tornò a sorridere, sventolando le gambe sul bordo del letto e poggiando le mani sul materasso. «Ho riconosciuto la tua aura da quando hai svoltato l’angolo» rivelò fieramente, sbattendo gli occhi. Sembrava felice di vederlo, cosa che in parte lo lusingava. Poi lei aggiunse: «Stai molto meglio in verde» e tutti i dubbi e le domande che fino ad allora si erano accavallate nella sua mente iniziarono a prendere forma.
Garfield chiuse la bocca ed incrociò le braccia. «Che ci fai qui? Chi sei? Come hai fatto ad entrare?» domandò confuso. «Chi diavolo sei tu davvero?» concluse serio. Non si aspettava che lei lo prendesse sul serio, che si preoccupasse di chiarire i suoi dubbi.
«Questa è casa mia. Mi chiamo Lilith. Sono la sorella di Raven» gli disse lei immediatamente.
Il ragazzo sgranò gli occhi. Non aveva mai immaginato che Raven avesse un fratello, figurarsi due. «Ok, Raven ha altri fratelli che ci tiene nascosti?» chiese, sbottando quasi esasperato.
Lilith ridacchiò, sollevando le gambe per intrecciarle sul materasso e fece cenno a Garfield di accomodarsi. Lui si limitò ad abbandonarsi sul pavimento a gambe incrociate. Finché la sua nuova amica non si dimostrava ostile avrebbe potuto stare al suo gioco, ma non riuscì a trattenersi dal domandarle: «Com’è che oggi sembra che io ti stia più simpatico?»
«L’altro giorno mi ero persa; ero un po’ preoccupata e non riuscivo ad estraniarmi dalle emozioni altrui. Mi innervosisco un po’ quando succede» ammise Lilith afferrando il suo fumetto e stringendolo al petto. Saltò sul pavimento e si sedette di fronte al ragazzo, sorridendogli. «E poi non sapevo ancora chi eri. Mi dispiace se ti sono sembrata sgarbata»
Garfield arretrò lievemente. La osservò con interesse e poi si sciolse in un sorriso. «Bene» disse, sporgendosi verso di lei. «E sentiamo, chi sarei?» domandò amichevolmente.
Un colpo di vento dalla finestra aperta portò verso di loro il profumo dei ciclamini e Lilith lo inspirò a fondo, poi lei rispose con calore: «Beast Boy. Tu sei uno dei Teen Titans»
Il ragazzo si portò una mano sulla nuca e si scompigliò i capelli, dicendo con un lieve moto d’imbarazzo: «Ora mi faccio chiamare Changeling». E si domandò quante altre volte avrebbe dovuto ribadirlo.
Lilith lo ignorò. «Tu cambi forma» gongolò. «Mi fai vedere?» supplicò trasognata.
Garfield deglutì, pensando a quanto l’avrebbe delusa se non l’avesse accontentata. Si grattò la guancia pensieroso e le domandò preoccupato: «In cosa vuoi che mi trasformi?»
La ragazzina sollevò lo sguardo e sbatté le ciglia mentre rifletteva. Il mutaforma aspettò pazientemente e lei alla fine disse: «Un gatto? No. Una lince». Il ragazzo la accontentò, mutando all’istante e saltellando silenziosamente attorno a lei, fermandosi all’improvviso e tornando umano quando lei gli fece notare: «Sei ancora verde!»
«Questo è il mio marchio di fabbrica» ribatté. «Io sono verde»
«Mi piace il tuo verde» gli disse Lilith all’improvviso «Ed hai le orecchie a punta, come un folletto dei boschi»
Garfield le sorrise. «Dimmi un po’ di te, invece. Quali sono i tuoi poteri?» le domandò. L’espressione di lei si incupì al punto da fargli quasi rimangiare la domanda.
Alla fine Lilith iniziò a spiegare: «Trigon è mio padre, quindi sono mezzo demone». Poi sorrise e dichiarò: «Mia madre era una ninfa dei boschi, perciò ho anche i suoi poteri»
Garfield strabuzzò gli occhi e capì: «Per questo profumii di tutti quei tipi di fiori tutti insieme?» domandò, annusandola lievemente.
Lei rise, lasciando cadere il fumetto sul pavimento. «Davvero senti il mio odore?» chiese divertita. «Di cosa profumo?»
Il ragazzo colse al volo l’occasione, sporgendosi verso di lei per annusarla ancora ed iniziando ad elencarle: «Dunque. Fiori, tanti fiori. Erba fresca appena tagliata. Incenso, terra ed un po’ di cenere». Poi prese coraggio e si fece forza, dichiarando con calore: «E sento su di te anche il profumo di Raven». Si zittì, studiando la reazione di Lilith.
Lei non sembrava affatto indispettita dalla sua affermazione, anzi gli disse: «Raven ha un buon odore. È rassicurante»
Garfield rise, domandandosi in che momento aveva iniziato a considerare la ragazzina un’amica, riflettendo su come, forse, sarebbe potuta diventare anche una sua alleata.
Lilith si voltò con uno scatto verso la finestra, guardando un punto indefinito con espressione tesa. Il ragazzo seguì il suo sguardo, ma non vide nulla. Poi la ragazzina parve rilassarsi e tornò a sorridergli.

Sospirò con rabbia, lasciando la piccola Lilith a ridere e scherzare con quel ragazzo verde dall’aria idiota, abbandonando il suo punto d’osservazione in cima al tetto e facendosi strada in una chiazza d’oscurità per poi riemergere dalle ombre del loro nuovo rifugio freddo ed umido. Sentì la presenza senza neanche bisogno di concentrarsi. La figura rannicchiata di Raven sembrava sofferente e la creatura stava china su di lei. L’aspetto vagamente umanoide non impediva al suo volto di apparire così raccapricciante, ma Belial sapeva cosa fosse senza neanche guardarlo. La ragazza, addormentata, si agitava nel vano tentativo di risvegliarsi da un sogno di cui non voleva fare parte.
Belial digrignò i denti, furioso, avvicinandosi con uno scatto. La creatura grugnì, sollevò il volto deformato e puntò gli occhi bianchi sul ragazzo. «Adesso basta» ordinò Belial con tono fermo. «Lascia andare il suo sogno». Si chinò, la afferrò per la giugulare e la sollevò con foga per spingerlo contro il muro. Immediatamente la creatura gli soffiò contro, agitandosi nel tentativo di liberarsi. Belial le tappò la bocca con la mano libera, intimandogli di fare silenzio. Fece un cenno in direzione di Raven, che ancora annaspava nel tentativo di risvegliarsi dall’incoscienza. «Ti avevo detto di starle lontano» quasi ruggì. Poi il volto si contrasse in un ghigno e disse: «Forse per questa volta ti lascerò andare, se accetterai di fare qualcosa per me».



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Ok. Speravo in qualche recensione in più ma vedo che nessuno ha nulla da dire e quindi ho proceduto ad aggiornare. Baci, Genius <3





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Capitolo 7
*** Ciò che il cuore brama sapere, ciò che non vorrebbe mai patire ***



CIO’ CHE IL CUORE BRAMA SAPERE, CIO’ CHE NON VORREBBE MAI PATIRE


Il piazzale davanti al museo era ancora un cantiere. Dopo lo scontro con Raven gli esperti avevano raccolto i reperti più importanti, solo in seguito erano potute cominciare le vere riparazioni. Il nastro giallo della polizia delimitava ancora la sala dello scontro ed il gestore del museo osservava assieme a Robin i lavoratori che sistemavano le macerie all’interno. «Non hanno preso ori o gioielli, né alcun tipo di oggetti rituali» spiegò l’uomo con pazienza. «Hanno preso solo un libro»
Il ragazzo annuì, comprensivo. «Un libro potrebbe essere molto pericoloso nelle mani di Raven, mi creda. Tutto dipende dal contenuto»
L’uomo sospirò, incrociando le braccia dietro la schiena e scambiando un’occhiata con il giovane supereroe. «So cosa si dice della tua giovane amica» tentò di confortarlo, intuendo i dilemmi che lo smuovevano dentro.
«Il mio compito è proteggere la città, sempre e comunque» spiegò Robin alla svelta, sperando così di tagliar corto con il discorso. «Qualunque cosa lei voglia fare, se porterà dolore o farà del male agli innocenti io sarò costretto a fermarla». Incrociò le braccia, osservando frusciare per i colpi di vento i teli sistemati al posto delle pareti mancanti. Era il momento di sapere con cosa avrebbe dovuto confrontarsi. «Mi può dire cosa c’era scritto in quel libro?»
L’uomo si sfilò gli occhiali e li ripulì accuratamente con una pezza. «Posso fare di più» rivelò serio. «Abbiamo in archivio le foto di ogni singola pagina di ognuno dei volumi che conserviamo qui»
Robin annuì, confortato. «Quando potrò averle?» domandò impaziente.
«Anche subito» lo rassicurò l’altro, «ti dispiace seguirmi in archivio?»
Il ragazzo sospirò, poi lasciò il cantiere con il gestore del museo ed entrambi si diressero insieme verso il piano inferiore.

L’allegro fischiettare di Victor animava la quiete del garage, accompagnato dal tintinnio degli attrezzi che usava per stringere i bulloni delle gomme appena cambiate. Il ragazzo aveva la sua routine e, per quanto le missioni e gli attacchi dei criminali potessero scombinargliela, ne aveva bisogno per ritrovare la sua calma.
Nel suo garage trovava la pace che gli serviva per potersi rilassare e ciò gli consentiva di essere pronto per quando il dovere l’avrebbe richiesto. Quella mattina, tuttavia, mentre il pensiero della ragione per cui Robin si era recato in città senza voler essere accompagnato da qualcuno lo metteva particolarmente in ansia, si ritrovò a ricevere il messaggio meno atteso della sua vita.
Aveva da sempre avuto una specie di archivio interno, un circuito che gli permetteva di ricevere chiamate ed addirittura mail direttamente all’interno del cervello, ma mai si sarebbe aspettato che lei tentasse di contattarlo a quel modo.
Il messaggio era breve, lapidale.
Ho bisogno di riavere il mio specchio. Possiamo vederci tra due giorni in centro, da soli?
Raven.

Rilesse il messaggio un paio di volte, prima di rendersi conto che non era frutto della sua immaginazione. Deglutì rumorosamente, tentando di ricomporsi. Con la mano tremante dovette l’asciar perdere l’idea di finire il suo lavoro, troppo nervoso per poter continuare.
Prima di darle una risposta, pensò, avrebbe dovuto soppesare bene possibilità e conseguenze.

DUE GIORNI DOPO

Il sole del mezzogiorno rendeva l’aria piacevolmente tiepida, anche in presenza della leggera brezza che scuoteva il parco facendo oscillare le fronde degli alberi ed i fiori attorno a lui.
Garfield restava ad occhi chiusi, steso a pancia all’aria a crogiolarsi sotto i raggi caldi. All’ombra avrebbe avuto freddo, ma così, nel mezzo del prato ed esposto alla piena luce del giorno, stava perfettamente. Era rilassante starsene così a non far nulla, ma il ragazzo aveva ben altre cose per la testa, quel pomeriggio. Lilith, Raven e Jeremy occupavano gran parte dei suoi pensieri, come era accaduto nei due giorni successivi all’incontro con Lilith nel piccolo appartamento.
Probabilmente era un pensiero stupido, ma più il tempo passava più si convinceva che Lilith potesse aiutarlo a capire ciò che era successo a Raven.
Rilassato com’era non si accorse neanche di essersi addormentato fino a quando non fu svegliato da un flash e da un sonoro click appena poco lontano da lui.
Dischiuse un occhio, sollevando svogliatamente la testa dalle braccia incrociate che fino ad allora aveva usato come cuscino, e osservò seccato il suo osservatore.
Ci mise alcuni secondi a mettere a fuoco il volto in controluce. Era una giovane dalla pelle diafana ed i capelli color mogano che lo osservava divertita dall’alto. Stringeva tra le mani una macchina fotografica dall’aria costosa, ma sembrava troppo giovane per essere una fotografa professionista. Probabilmente, pensò Garfield, era una delle studentesse del corso di fotografia che si teneva giù in città.
Lei lo osservava divertita, scrutandolo curiosa con un’espressione che mostrava quasi esplicitamente la curiosità riguardo a quello a cui lui aveva pensato prima di essere disturbato. Garfield la ignorò, tornando a chiudere gli occhi e reprimendo uno sbadiglio.
Non aveva nulla da dire, non aveva voglia di parlare, di fare amicizia o di chiederle cosa volesse. Aspettò, sperando che se ne andasse o si distraesse a fare foto alla natura che li circondava. Tentò di tornare al suo pisolino, ma sentiva gli occhi della ragazza addosso e questo non gli permetteva di rilassarsi appieno.
«Cosa?» domandò alla fin, con più astio di quanto avrebbe voluto. Non gli piaceva essere scontroso o maleducato, ma quello non era proprio il momento perché un estraneo lo disturbasse. Voleva solamente stare solo, nella speranza che Lilith lo avvicinasse ancora.
La ragazza gli sorrise, felice che lui avesse incominciato la conversazione, come se Garfield avesse usato un tono amichevole e l’avesse semplicemente salutata invitandola a sedersi con lui.
Si lasciò ricadere sul prato, appena poco più in là, guardò sul display della macchina fotografica scorrendo tra le foto. «Sei uno di quei supereroi di cui parla il giornale, vero?» domandò senza guardarlo.
«E allora?» ribatté il ragazzo controvoglia. Non voleva che ora la fan di turno iniziasse a tempestarlo di domande, ma non aveva prestato davvero attenzione al modo in cui la ragazza aveva posto la domanda.
«Sono appena arrivata in città» rivelò lei sorridendo. «Non ero sicura che fossi tu»
Lui le lanciò un’occhiata. Quanti ragazzi verdi c’erano in giro per il mondo? Davvero questa ragazza aveva dovuto chiedere la conferma, per essere sicura che fosse lui?
«Sono Changeling» si presentò, sperando che lo ricordasse. Tutti avrebbero dovuto conoscere i supereroi, almeno secondo lui.
«Io sono Veronica» gli rispose la ragazza. «Sei fotogenico, se non fosse per i vestiti e per i fiori rossi e bianchi ti mimetizzeresti perfettamente nell’erba. Ti dispiace se ti scatto qualche foto?»
Garfield sospirò, si mise a sedere e strinse tra le mani un ciuffo d’erba per poi strapparlo via lentamente. «Ti ringrazio, Veronica, ma non sono proprio in vena»
Tagliò corto, sperando che ciò facesse cadere il discorso, ma sembrava che lei non avesse intenzione di permetterlo.
«Allora cosa ci fai qui da solo? È una cosa da supereroi? Stai ricaricando le batterie tra una cattura di un criminale e l’altra?»
«Veramente speravo di incontrare una persona»
Veronica impugno bene la macchina e portò il mirino davanti all’occhio. Sistemò lo zoom e scattò alcune foto a ripetizione, tutte rivolte verso il prato davanti a sé. «Sei carino. Gli altri ragazzi della tua squadra sono carini come te? Sai, non credo che sia umanamente possibile»
«Ma non lo vedi mai il telegiornale? Non puoi decidere da sola guardandoci in tv?» domandò Garfield grattandosi il braccio imbarazzato. «Sinceramente non credo proprio di poter rispondere alla tua domanda. Dovresti chiede un parere esterno»
«Come sei modesto» rise Veronica. Spense la macchina fotografica e ne tappò l’obbiettivo per poggiarla tra l’erba accanto a sé. Allungò una mano, sfiorando con un dito la linea violacea delle vene sull’avambraccio verde di Garfield.
Il ragazzo si tirò indietro, srotolando la manica della camicia, che fino ad allora aveva tenuto avvolta fin sul gomito.
«Mi dispiace, non volevo metterti a disagio» si scusò Veronica. Sorrideva sbattendo gli occhi, mettendo in mostra le lunghe ciglia scure e le labbra rosso sangue. Non sembrava davvero dispiaciuta.
Garfield deglutì, evidentemente quella ragazza non era abbastanza intelligente da capire quando una persona voleva stare sola, o forse lo capiva fin troppo bene ed era decisa a far finta di nulla. Per qualche strana ragione gli aveva messo gli occhi addosso e non sembrava volerlo lasciare in pace.
«Posso aiutarti?» le domandò serio. Non voleva essere maleducato, ma non riusciva a non esserlo. Lasciami solo. Lasciami solo. Ripeteva tra sé.
«Non necessariamente» gli rispose Veronica. Scrollò le spalle e giocherellò con una ciocca per capelli. Non gli toglieva gli occhi di dosso e Garfield faceva di tutto per non incrociare il suo sguardo. Ma fu difficile, quando lei gli afferrò il mento con due dita e lo costrinse a guardarla in faccia. «Forse - pensavo - sono io che posso aiutare te»
Si spostò, strisciando verso di lui in ginocchio. Spostò la mano dal mento ai suoi arruffati capelli verdi, spazzolandoli lentamente. Lo accarezzò come avrebbe fatto con un gatto, dolcemente ma risolutamente. Lo forzò ad arrendersi al suo tocco e sorrise soddisfatta, quando sentì un lieve tremito provenire dal profondo della gola del ragazzo. Garfield iniziò a fare le fusa, contro la sua volontà, inaspettatamente, incapace di comprendere la ragione per cui una perfetta estranea gli facesse questo effetto. Non voleva, si rifiutava di arrendersi in questo modo a lei, si rifiutava di mostrarsi così a chiunque. Aveva sempre pensato che avrebbe fatto le fusa per Raven, un giorno, ma il pensiero di lei ora era distante, annebbiato. Veronica gli sfiorava le orecchie come nessun altro aveva mai fatto. Garfield non voleva essere toccato così da una persona qualunque, ma non riusciva a tirarsi indietro, a dirle di smetterla ed andarsene.
Veronica si sporse verso di lui, gli strinse il viso tra le mani e lo baciò lentamente. Stettero così per qualche istante, labbra contro labbra, in attesa. Veronica aspettò pazientemente il momento in cui lui avrebbe reagito, e questo avvenne dopo un paio di secondi.
Garfield la afferrò per la vita, trascinandola verso di sé. Lei assecondò il movimento, finendo per spingerlo di nuovo sull’erba. Era seduta a cavalcioni sopra di lui e iniziò a sbottonargli la camicia lentamente.
«Non credo che questo sia il posto e il momento giusto» mormorò Garfield con voce roca.
Veronica gli sorrise, chinandosi ancora su di lui. «Fai silenzio» gli suggerì.
Si chinò a baciargli il naso, poi gli rosicchiò il mento e spostò le labbra sul collo. Finì di sbottonargli la camicia, premendo con una mano sul suo petto. Garfield sentì il fiato mancargli, tanta era la pressione della mano della ragazza. La sentì ridere sommessamente, soddisfatta dell’effetto che stava avendo su di lui, consapevole della sua resistenza sempre più debole.
Garfield sentì l’ossigeno mancargli ma, nonostante tutto, la frenesia aumentava ogni secondo sempre di più. Nonostante tutto voleva che Veronica la smettesse, che se ne andasse. Voleva tornare a stare da solo. Veronica gli mordicchiò l’orecchio, poi il collo. Alla fine scese a baciargli il petto, giocando con due dita con la catenina d’argento, facendole scorrere fino ad afferrare il ciondolo con la runa che lui indossava.
Alla fine strillò, saltò lontano da Garfield e gli ringhiò contro, furiosa.
Il ragazzo sussultò alla vista del volto distorto di lei; i denti affilati erano ora rivolti verso di lui, mentre gli occhi stretti si erano fatti scuri.
«Che diavolo sei?» le domandò Garfield alzandosi allarmato. Si accucciò in posizione di difesa, preparandosi all’evenienza che lei gli saltasse addosso.
Lei non gli rispose, recuperando il suo contegno. Svanì sollevando un mulinello di terra, lasciando un cerchio d’erba incenerita nel punto in cui il vento le era vorticato attorno.
Garfield sussultò, scattò a sedere provando a riprendersi. Abbassò il volto, per constatare di avere ancora addosso la camicia. Strinse gelosamente la sua runa, ripensando al momento in cui Lilith aveva deciso di regalargliela per proteggerlo, appena prima di salutarlo l’ultima volta che si erano visti.

Batté ripetutamente il dito metallico sul tavolo della tavola calda. La borsa con lo specchio sistemata sulla tovaglia, dove poteva controllarla con la coda dell’occhio senza che qualcuno trovasse sospetto il suo interesse. Guardava l’orologio troppo spesso per non dare a vedere quanto fosse impaziente. Era nervoso all’idea di rivedere la sua amica, ma il senso di colpa per aver tenuto nascosto al suo migliore amico quell’incontro era un peso che sarebbe stato troppo pesante se non si fosse ripetuto che era anche per il suo bene, per impedirgli di trovarsi faccia a faccia con una persone che avrebbe potuto essere troppo diversa da quella che aveva conosciuto.
Trattenne il fiato, nel vedere la porta che si apriva e la ragazza dai capelli scuri entrare nel bar. Nonostante l’assenza del mantello sembrava essere la solita Raven; indossava un paio di jeans attillati ed il cappuccio della felpa blu era sollevato, lasciando libere di ricadere sul suo petto solo alcune ciocche di capelli scuri. Si avvicinò sicura, scostando la sedia con una mano e sedendosi con leggerezza. «Ciao Victor» tagliò corto lei. Vide immediatamente lo specchio, ma non fece nulla per prenderlo, invece si limitò ad accavallare le gambe e poggiare i gomiti sul tavolo.
Victor deglutì, tentò di abbozzare un sorriso che Raven non ricambiò. «Ciao» le disse. Non aspettò che lei dicesse qualcosa; iniziando di sua iniziativa a tempestarla di domande, non riuscendo ad aspettare oltre per esporre i suoi dubbi. «Si può sapere che fine hai fatto in questi mesi? Perché diavolo hai distrutto il museo?» domandò con impeto non riuscendo ad impedirsi di gesticolare. Qualcosa gli avvolse la gamba, strisciando sotto i pantaloni e sotto la giacca, per poi coprirgli la bocca per impedirgli di proseguire. Si guardò attorno con la coda dell’occhio, per assicurarsi che nessuno avesse visto. Raven lo liberò dalla stretta di energia nera, facendogli cenno di abbassare la voce. Una volta libero Victor si chinò sul tavolo ed abbassò la voce, sussurrando concitato: «Che significa questa storia che hai un fratello e chi era quella ragazzina che era con voi l’altra notte?»
«Vedi, Trigon non era certo che sarebbe riuscito a usarmi come portale» spiegò brevemente la ragazza. «Si è assicurato di avere più di una possibilità»
Victor annuì. Si chiedeva come mai non ci avesse pensato prima, ma ora non aveva importanza. «Per questo sei andata via? Per cercare i tuoi fratelli» disse comprensivo.
Ma Raven scosse la testa. «No; sono loro che hanno trovato me. Mi hanno chiesto aiuto ed io non potevo voltare loro le spalle»
«Aiuto per fare cosa?» domandò immediatamente il ragazzo, ansioso di sapere. Voleva capire, voleva aiutarla, voleva sapere che era ancora la ragazza che conosceva, quella per cui avrebbe dato la vita.
Raven si limitò a poggiare le mani sulla tovaglia. «Per fermare definitivamente Trigon» affermò all’improvviso, alzandosi ed afferrando il fagotto con tranquillità. «Statene fuori e nessuno si farà male» tagliò corto. «Grazie per avermi riportato lo specchio» concluse, voltandosi e dirigendosi fuori con passo svelto.
Victor non provò a fermarla.

Garfield aveva pensato che, una volta aperta la porta della stanza, sarebbe stato investito da una nuvola di polvere. Rimase quasi deluso quando questo non successe.
La camera era come la ricordava: ordinata, lievemente cupa e con un leggero strato di polvere a coprire le superfici piane. Passò rapidamente un dito sulla scrivania, osservando di sfuggita l’impronta più scura che vi aveva lasciato, poi strofinò il polpastrello dell’indice contro quello del pollice per liberarsi dalla polvere. Dopo un’occhiata rapida al letto, là dove Raven aveva dormito tante volte, tornò immediatamente a concentrarsi sul motivo per sui si trovava lì. La libreria era al solito posto ed il ragazzo si sforzò di non concentrarsi sull’aria di abbandono e solitudine che lo attorniava. Fece scorrere le dita sulle varie copertine, conscio di non sapere neanche cosa stesse cercando, e fece mente locale per avere almeno un indizio da cui partire.
Era stato aggredito, se si poteva davvero chiamare aggressione e, da quanto era riuscito a capire, era accaduto attraverso un sogno. Quella cosa che aveva visto era certamente un demone, quindi doveva cominciare da qualche dizionario di demonologia, ammesso che ne esistessero, ma dai titoli non riusciva a decidere quali provare prima.
C’era un’antologia degli spiriti, un intero volume dedicato a strani cerchi magici scritto in una lingua che non conosceva, un mucchio di robaccia di cui non riusciva nemmeno a comprendere l’argomento.
Con un sospiro ed una dozzina di scuse mentali rivolte a Raven, che sperava non scoprisse mai questa sua intrusione, si accinse a sfilare dallo scaffale l’ennesimo libro, bloccandosi con il braccio sollevato per aria, però, quando intravide finalmente qualcosa di utile appena dietro il tomo che stringeva nella mano.
Si trattava di un bel malloppo, con sulla copertina raffigurata una delle creature di pietra appollaiate in cima ad una vecchia cattedrale gotica. Garfield la osservò con attenzione, rendendosi conto con un sussulto che non si trattava affatto di una statua. Come diceva in una delle prime pagine, era l’illustrazione di un gargoyle. E sfogliando ancora le pagine ingiallite il ragazzo trovò altri mostri e volti deformi accompagnati da minuziosi dettagli e spiegazioni.

L’essere stato sveglio dal momento in cui aveva ricevuto quelle foto non era d’aiuto alla sua concentrazione. Due notti totalmente insonni erano troppe anche per il Ragazzo Meraviglia, ma nonostante tutto lui non riusciva a smettere di tentare di interpretare quella lingua antica.
Alla fine, suo malgrado, ciò che gli fu maggiormente d’aiuto fu uno dei vecchi libri che la sua ex compagna di squadra aveva deliberatamente lasciato nella sua vecchia camera. Non avrebbe mai pensato che Raven sarebbe stata così stupida da lasciare in bella vista qualcosa che potesse aiutarli a metterle i bastoni tra le ruote, a meno che la cosa non fosse stata intenzionale.
Una volta che, finalmente, il contenuto del manoscritto gli fu in parte chiaro, si domandò se Raven non volesse davvero essere fermata.



******

Volevo aggiungere qualcosa di intelligente, ma mio cugino vuole giocare a cluedo e devo dire che l’idea stuzzica anche me, quindi vado ad accontentarlo.
Baci, Genius

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Capitolo 8
*** Un desiderio tra le stelle ***



UN DESIDERIO TRA LE STELLE


Quando Cyborg mise piede nel corridoio, dopo aver abbandonato l’ascensore, il senso di sollievo riguardo ciò che aveva scoperto non l’aveva ancora abbandonato. Non vedeva l’ora di dirlo agli altri e sperava di trovarli nella sala principale.
Quando aprì la porta scorrevole non fu deluso, ma capì immediatamente che attirare l’attenzione di Richard sarebbe stato un compito arduo. Già Garfield era seduto davanti al loro capo e, sotto lo sguardo pensieroso di Kori, impegnata a cucinare qualcosa di accettabile, stava cercando di introdurre un discorso.
Con le spalle tese, il mutaforma, stringeva tra le braccia uno dei vecchi volumi di Raven, cercando probabilmente il modo migliore per dire qualcosa all’amico senza che questi si arrabbiasse.
«Dick» disse forse per l’ennesima volta. «Sul serio, questo è importante. Puoi darmi un paio di minuti di attenzione?»
Il Ragazzo Meraviglia gli fece un lieve cenno con la testa, ma non sollevò lo sguardo. «Dammi una ventina di minuti, poi sono tutto tuo. Voglio finire di catalogare questi moduli e poi…»
Sbuffando, Garfield spinse lo schermo del computer e richiuse il portatile. Richard li fulminò con un’occhiata mentre lui gli passava il libro e lo apriva alla pagina che gli interessava.
«Guarda» disse serio il mutaforma. «Questo capitolo parla di demoni chiamati Succubi, li hai mai sentiti?»
«Succubi?» domandò Richard. Poi scosse la testa. «Di che si tratta?»
«Leggi il capitolo. Leggilo attentamente» raccomandò Garfield. «Ero tranquillamente addormentato su un prato e sono stato attaccato da uno di questi. Una di queste» si corresse.
Lo sguardo di Richard si fece vigile, ed improvvisamente il volto s’indurì. «Tu stai bene?»
Kori smise di trafficare e prestò attenzione, sperando che la situazione non degenerasse.
Garfield si colpì la fronte con una mano. «Sono qui a parlartene, no? Hai un talento incredibile nel non capire la parte importante». Batté due dita sulla pagina e ripeté: «Io sono stato attaccato da uno di questi, volevo che lo sapessi per evitare che accadesse anche a te o a Victor, ok?»
Robin fissò la pagina, poi Garfield, la pagina e poi di nuovo Garfield. «Aspetta. Cosa ci facevi in quel prato? Lei sapeva che eri lì?»
Garfield emise un lieve rantolo. Capì immediatamente a cosa l’amico stava pensando, e non voleva che lo facesse. «No, non farlo. Non incolpare Raven. Lei non mi avrebbe mai fatto del male!»
«Gar» sospirò il ragazzo. «Non puoi sapere se è stata una sua manovra per tenerti alla larga dai suoi loschi affari»
«Loschi affari? Loschi affari?» sbottò Garfield nervoso. «Ti ho già detto che Raven non mi farebbe mai del male, non ne farebbe a nessuno di noi»
«Gar ha ragione» s’intromise Kori. «Se ne è andata, ma resta sempre nostra amica»
Prima che Richard potesse replicare Victor decise di farsi avanti, appoggiando saldamente una mano sulla tavola. «Quando è successo?»
Sia Richard che Garfield lo scrutarono, indispettiti per l’intromissione, ma lo sguardo di Victor era troppo cocciuto per non rispondere.
«Neanche due ore fa» mormorò Garfield, sperando di non dover subire una strigliata anche dal mezzo robot.
Ma l’amico sorrise sornione. «Allora Raven non centra, lo so per certo»
Richard saltò sull’attenti, nervoso. «Come fai a saperlo?»
«Perché due ore fa lei era con me» rivelò Victor senza pensare.
Kori sorrise sollevata, ma il volto del suo ragazzo si fece paonazzo dalla furia.
«E perché, di grazia, Raven ti ha concesso udienza proprio oggi? L’ultima volta che l’ho vista non mi è sembrata esattamente favorevole ad una rimpatriata»
Victor si grattò la pelata, poi sollevò le spalle. «Mi ha contattato l’altro giorno per chiedermi di riportarle il suo specchio, così le ho dato appuntamento in centro ed abbiamo pranzato insieme»
Come se l’occhiataccia di Richard non fosse abbastanza anche Garfield s’incupì di colpo. «Tu l’hai incontrata e non mi hai detto niente? Amico! Sarei potuto venire con te!»
«Ho preferito non farne una faccenda di stato, e lei mi ha chiesto di andare da solo» si giustificò il ragazzo.
Garfield chinò la testa. «Si, ma avresti potuto dirmelo comunque» gemette frustrato. Non si preoccupò neanche di nascondere la sua espressione delusa; gli amici sapevano bene quanto gli sarebbe piaciuto riparlare con lei a quattrocchi, senza qualcosa che potesse interromperli o metterli una contro l’altro.
Victor chinò le spalle. «Mi dispiace, davvero. Ho pensato che se avessi fatto come aveva detto lei poi avrebbe accettato più facilmente di rivedermi»
Kori sorrise, comprendendo che il ragionamento dell’amico non faceva una piega, ma Richard non sembrava d’accordo.
«Basta» ordinò. «Smettetela. Lei se n’è andata, ci ha traditi. È una criminale»
Victor strinse i pugni. «Non ci ha traditi»
«Il libro che ha rubato contiene una formula per far risorgere Trigon!» rivelò il Ragazzo Meraviglia controvoglia. Aveva rimandato il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto dirlo agli amici, ma ora aspettare non era più un’opzione
«NO!» gridò Garfield all’improvviso. Tutti s’interruppero, si voltarono verso di lui e lo videro stringere la mascella e premere i polpastrelli sul ripiano. «È Raven, porca miseria! Raven! Non è un demone qualunque! Non è un criminale qualunque! È Raven! Raven! Quella Raven che ha affrontato suo padre per salvare il mondo, che ci ha sempre guardato le spalle e che è sempre stata al tuo fianco durante la tua campagna contro Deathstroke!» sbottò. «Non starò qui ad ascoltare mentre tu parli male di lei»
«Lei se n’è andata» ribadì Robin. «Ha fatto la sua scelta. È il momento di dimenticarla. Non è la prima volta che un Titan tradisce»
Garfield spintonò Robin, gli ringhiò contro, pronto alla rissa.
Kori e Victor si avvicinarono; lei afferrò alle spalle il Ragazzo Meraviglia, lui il mutaforma, per impedire che si saltassero alla gola a vicenda.
«Non sai cosa voglia fare con quel libro. Ci deve essere qualcos’altro» grugnì Garfield furioso.
Richard aprì la bocca, ma Kori lo interruppe prima che riuscisse ad emettere un solo fiato. «Smettila, sai che Gar ha ragione. Non puoi sapere cosa vuole fare Raven, non finché non lo sentirai da lei con le tue orecchie»
Lo lasciò andare e lui si voltò a fulminarla con gli occhi. «Se avesse davvero in mente di fermare Trigon potrebbe venire a dircelo in qualunque momento e non la appoggeremmo e sosterremmo in ogni modo, ma lei chiaramente non ci vuole tra i piedi»
Garfield diede uno strattone a Victor, che lo lasciò andare, permettendogli di dirigersi a passo svelto alla porta digrignando i denti.
«Dove vai?» domandò il robot.
«In città» tagliò corto il mutaforma infilando l’anello al dito. Immediatamente la sua pelle assunse un colorito normale ed i suoi capelli persero il loro verde sgargiante.
Kori fece per corrergli dietro «Gar, aspetta!»
«Kori!» la fermò Richard preoccupato. «Non riuscite a vedere che ci sta facendo stare male? Ci sta facendo soffrire, ci sta dividendo!»
«No, Dick. Sei tu che non riesci a vedere che abbiamo bisogno di sperare e di credere in lei» concluse Kori uscendo a sua volta.
Victor sospirò. Ora erano rimasti solo lui e l’amico, nella stanza. Preferì non dire nulla, ma vide Richard chinare la testa mogio. Robin non aveva tutti i torti, rifletté, nonostante ciò che lei stessa gli aveva detto. Era stata troppo sbrigativa, troppo secca. Come se volesse sbarazzarsi di lui in fretta.
Robin sospirò, poi si lasciò ricadere sulla sedia e strofinò due dita sulle tempie. Victor si sedette accanto a lui, serio.
«Come fai a non sperare nel suo ritorno? Ti spaventa il fatto che potremmo preferire lei alla squadra?»
«Mi spaventa la possibilità che vi faccia - che ci faccia - star male di nuovo» rivelò Richard. «Non è la prima volta che un Titans tradisce» ribadì.

Quando, finalmente, vide Garfield camminare tra la folla con le spalle basse, Kori dovette trattenersi dal sollevarsi in aria per raggiungerlo. Sebbene l’anello nascondesse il suo colore non riusciva a fare nulla per l’aria avvilita che il ragazzo emanava.
Accelerò il passo, mentre i lampioni in strada iniziavano ad accendersi per fare luce nella sera che scendeva in fretta. Indossando un paio di jeans ed una semplice maglietta non doveva preoccuparsi di essere riconosciuta, poteva quindi dedicarsi esclusivamente ad ascoltare l’amico. Non esitò a chiamarlo a gran voce, ignorando gli sguardi accigliati della gente, per impedirgli di voltare l’angolo rischiando di perderlo di vista.
«Gar!» gridò. Vide l’amico fermarsi e guardarsi attorno, e prima che lui potesse ricominciare a camminare lo chiamò una seconda volta. «Gar!»
Lui si voltò, la vide, spalancò gli occhi e sorrise lievemente. Infilò le mani nelle tasche della giacca e rimase ad aspettare che lo raggiungesse.
«Tutto bene?» le chiese quando l’ebbe raggiunto, strisciando leggermente il piede per terra.
Kori scosse la testa. «Sono io che dovrei chiedere a te se va tutto bene. Robin si è comportato da vero Pnekton»
Garfield scosse la testa sospirando. «Non è grave, sta solo cercando di fare il capo. Sai com’è; il maschio Alpha che deve tenere insieme il branco»
La ragazza lo guardò confusa, anche se negli ultimi anni aveva imparato a conoscere le abitudini terrestri non si era mai concentrata sulle dinamiche del regno animale; non ne aveva mai sentito la necessità.
«Dovremo vedere insieme qualche documentario, qualche volta» le propose Garfield sollevando un braccio per avvolgerlo attorno alle spalle di Kori. «Vieni, facciamoci un giro. Dove vuoi andare? Al centro commerciale? A prenderci una pizza?»
«Non importa, mi basta stare un po’ con il mio amico» rispose lei con un sorriso iniziando a camminare affianco a lui.
Rimasero vicini, per confortarsi a vicenda dopo gli ultimi avvenimenti della settimana.
Garfield sorrise tra sé; era bello avere un’amica come lei con cui condividere le preoccupazioni. Teneva anche a Robin, certo, ma lui si lasciava cogliere troppo facilmente dalle manie di controllo ed in certi casi era difficile comunicargli quello che si provava davvero.
«Sai cosa pensavo?» borbottò il ragazzo timidamente. «Se solo riuscissi a parlare con Raven forse potrei convincerla a tornare»
Kori sospirò, ci aveva pensato anche lei nelle ultime ore. «Non lo so, Gar. Sembrava tenesse davvero a quei ragazzini, dubito che li lascerebbe da soli solo per tornare con noi»
«Non le chiederei mai di abbandonarli» rivelò Garfield serio. «Diamine, se io avessi dei fratelli farei di tutto per stare con loro. Vorrei solo avere la possibilità di dirle che non serve che scelga tra noi e loro. Ci sono così tante stanze alla torre…»
Kori sorrise ancora, camminando lungo il marciapiede spalla a spalla con lui. Annuì. «È vero. Era grande quando eravamo in cinque, è ancora più grande ora che siamo solo in quattro»
«Immagina come sarebbe anche con Lilith e Jeremy. Credo che potrebbe diventare alquanto caotica» ridacchiò Garfield.
«Sarebbe divertente» rifletté Kori divertita. «Credi che loro accetterebbero di venire a vivere con noi?»
Il ragazzo si fermò all’improvviso, trattenendo involontariamente l’amica. «Dovremmo chiederglielo» affermò convinto.
Lei lo guardò corrucciata solo per un istante, poi tornò a sorridere. «Credi che accetterebbero?»
«Può darsi. Ho parlato con Lilith alcuni giorni fa. Ha ascoltato, è stata socievole. Se riuscissimo a convincere uno di loro due Raven potrebbe accettare più facilmente di tornare con noi» ipotizzò sovrappensiero.
Kori si fece immediatamente avanti. «Questa è la notizia più gloriosa che io abbia sentito da lungo tempo. So che Robin non sarà d’accordo, ma è già arrabbiato e comunque voglio che Raven torni a casa. Sono con te. Dimmi cosa devi fare ed io lo farò»
Garfield le sorrise; probabilmente il sorriso più brillante degli ultimi mesi. «Dobbiamo trovare quei due ragazzini e riuscire a parlare con loro. Con calma, senza spaventarli, da amici»

Raven non aveva mai avuto problemi a dormire, tranne quando, in previsione del suo sedicesimo compleanno e con il giungere dello scadere della profezia, Trigon aveva incominciato a tormentare i suoi sogni. Questa volta, però, era diverso.
Non si trattava più dell’avvento dell’apocalisse, ma di un semplice demone che aveva iniziato a girarle attorno da un po’, giocando con i suoi sogni più proibiti e tormentando le sue notti, ricordandole ogni momento ciò che non avrebbe mai potuto avere. Non faceva nulla che potesse nuocerle, dato che era comunque la figlia di Trigon, ma spossava particolarmente la sua parte umana, soprattutto dal punto di vista emotivo.
Tutto questo, però, Lilith non lo sapeva. La ragazzina sapeva solo che qualcosa tormentava i sogni di sua sorella e che lei aveva il potere di aiutarla. Aveva preso l’abitudine di alzarsi a controllare se Raven stesse bene, quando la sentiva agitarsi emotivamente nel sonno, ma Belial l’aveva sempre rassicurata, dicendo che l’avrebbe aiutata lui.
Quella volta, però, Belial non c’era. E Raven era quasi in lacrime e non se ne era neanche resa conto. Stava rannicchiata nel lettino della vecchia villetta a schiera nella periferia di Jump City – i proprietari erano probabilmente in vacanza – e stringeva la mano attorno al lenzuolo stropicciato.
Lilith le si avvicinò di soppiatto, richiudendosi la porta alle spalle ed inginocchiandosi al fianco della sorella. Sembrava che la sua sola presenza fosse riuscita a tranquillizzarla, ma Lilith voleva fare qualcosa di più. Giocherellò leggermente con l’orlo del vestitino a fiori – che aveva trovato in uno degli armadi – ed inclinò la testa pensierosa.
Non sapeva cosa avrebbe potuto aiutarla, ma sapeva che chiunque sarebbe stato meglio grazie ad un semplice pensiero felice. Non era certa, però, di quale sarebbe stato il pensiero felice adatto a Raven, e si rese conto che lei non le aveva mai parlato di ciò che avrebbe voluto per il proprio futuro. Sapeva che, personalmente, sarebbe stata felice di essere libera in un bosco assieme a sua madre – un pensiero che dovette accantonare immediatamente, perché il pensiero del modo orribile in cui era morta le faceva ancora venire gli incubi la notte – e si domandò se anche per Raven il pensiero della madre sarebbe stato confortante.
Non sapeva nulla della madre di Raven, neppure il nome. Non aveva nulla da cui partire, per piantare le radici di un sogno che la riguardasse. Sollevò le mani, rassegnata, decidendo di infondere nella sua mente uno dei suoi desideri più recenti, dei suoi sogni più felici.
Sperava che Raven condividesse almeno un po’ la sua voglia di restare insieme per sempre, di essere felici come una vera famiglia.
Poggiò timidamente i palmi sulle guance della sorella ed iniziò a sussurrarle mentalmente il suo sogno.

Belial si introdusse nella grotta con cautela. Sapeva di non aver nulla da temere, e l’immagine di Lilith che calmava Raven gli aveva lasciato una piacevole sensazione di calore. Se all’inizio la presenza degli altri tre eredi di Trigon era per lui motivo di disturbo ora si era abituato alla loro compagnia. Non l’avrebbe mai ammesso, ma si sentiva bene in loro presenza; erano diventati una piacevole costante nella sua esistenza e questo gli dava in parte fastidio. La sua parte demoniaca gli ricordava ogni giorno che aveva un compito più importante a cui doveva pensare, e per questo gli occorreva il loro aiuto, ma che alla fine sarebbe andato per la sua strada, libero da ogni legame con loro.
Era grato che i suoi poteri gli permettessero di celare la battaglia che imperversava nel suo animo infranto, perché certo non si sarebbero più affidati a lui, se avessero scoperto i suoi dubbi e desideri nascosti.
Aveva imparato alla perfezione ogni sfumatura dell’animo dei suoi fratellastri e questo l’aveva aiutato a trattare con loro. Ora era capace di controllare la loro gamma emozionale con particolare facilità, ma l’effetto svaniva quando restavano per molto tempo lontani da lui ed iniziava a temere che questo potesse rivoltarsi contro di lui molto presto.
Aveva percepito diversi sbalzi emotivi soprattutto da parte di Raven, da quando lei si era trovata a scontrarsi contro i famosi Teen Titans. La prima volta aveva temuto per un istante che lei riprendesse il controllo di sé stessa abbastanza da intuire cosa le stava facendo, ma per fortuna non era successo. Ora Belial temeva che Raven potesse sconvolgersi emotivamente al punto da ritrovare la totale coscienza di sé, e questo non sarebbe stato d’aiuto alla sua campagna.
Raggiunse il fondo della grotta, il demone lo aspettava chino sulla carcassa di una qualche creatura che a Belial non interessava riconoscere, e si sentiva tanto sicuro da dargli le spalle. Sapeva bene che Belial non l’avrebbe mai attaccato.
«Abbiamo tutto pronto», lo informò Belial.
«Ci siamo quasi» annuì l’altro, sollevando gli occhi dalla carcassa per puntarli contro il nuovo arrivato.
Belial sospirò, avvicinandosi con passi svelti fino a trovarsi faccia a faccia con lui. «Dovremmo fare a Raven una festa memorabile» borbottò, incrociando le braccia.
«Stai tranquillo, non la dimenticherà facilmente» sorrise. «Sarà il suo primo compleanno con la sua vera famiglia» aggiunse. Una lieve risata roca sfuggì alla sua gola, prima che lui sollevasse la mano per dare una pacca sulla spalla di Belial. «Non mancherò per nulla al mondo».

Starfire aveva lasciato Garfield in centro a sbrigare alcune faccende di cui non aveva voluto parlarle. Non ci era voluto molto impegno, questa volta, per accantonare la curiosità. Trovava l’idea di fare amicizia con i fratelli di Raven abbastanza entusiasmante da tenerla impegnata per un bel po’. Si domandò quanto ci volesse per poter incrociare casualmente uno dei due, ma poi ricordò di aver sentito da qualche parte un detto che parlava di una montagna che aspettava qualcuno e che, non vedendolo arrivare, decideva di andargli incontro. Le pareva fosse un certo Moffetto.
Colta dalla rivelazione del significato dell’affermazione, Koriand’r esultò, incapace di trattenersi, e prese il volo incurante degli sguardi attoniti dei passanti, i quali, fino ad allora, non avevano avuto idea della sua identità.
Sorvolò le strade principali con una velocità particolarmente moderata, per i suoi gusti; scrutando i passanti sotto di lei con il suo sguardo affilato. Nessuno pensava mai che, essendo un’aliena, i suoi occhi potessero vedere meglio di quelli umani. Studiò le teste dei cittadini di Jump City, decisa ad individuare almeno uno dei due ragazzini anche a costo di stare sveglia a girare in tondo per tutta la notte, se necessario.
Alcuni bambini che giocavano nei giardini e nei parchi notarono la sua ombra stagliarsi per terra ed alzarono gli occhi per guardarla ammirati. Koriand’r li salutò con un sorriso, continuando la sua ricerca mentre si assicurava rapidamente che tra quelle faccette con gli occhi sgranati non ci fossero proprio quelle che cercava. Arrivò al molo e in periferia, ma fu quando tornò di nuovo in centro per un secondo giro che scorse la sagoma mogia di Jeremie vicino alla vetrina di un negozio.
Il ragazzo indossava la stessa tuta della prima volta che l’aveva visto, con il cappuccio sollevato sopra la testa per non essere riconosciuto o forse solo per sentirsi più sicuro. Aveva mosso lo sguardo immediatamente, puntandolo nella sua direzione quando si era sentito addosso i suoi, ma non fece nulla per muoversi o fuggire, certo che le intenzioni di Koriand’r non fossero ostili.
Lo vide restare immobile ad osservarla, mentre scendeva in un vicolo poco distante, e quando ne venne fuori, attraversando il marciapiede attenta a non urtare nessuno, lo trovò lì ad aspettarla con le mani nelle tasche.
Fu lei la prima a rompere il silenzio, sperando di riuscire a trattenere l’entusiasmo per non farlo scappare a gambe levate. «Ciao» disse in un sospiro, stringendo le mani al petto e sporgendosi verso di lui. «Tu sei Jeremie, giusto?»
Lui la fissò, distolse lo sguardo per un istante e poi le rispose controvoglia. «Sì», disse. E prima che Koriand’r potesse emettere un solo sospiro di sollievo continuò brusco: «Cosa vuoi da me? Arrestarmi?»
Il tono usato da lui non riuscì a smontare l’entusiasmo della ragazza, che scosse la testa e ribatté con dolcezza: «No, voglio solo conoscere meglio il fratellino di un’amica».
Attese che lui le rispondesse, ma Jeremie si limitò a voltarsi di nuovo verso la vetrina e puntò gli occhi su modellino di un telescopio. L’intera esposizione era dedicata all’astrologia, tra enciclopedie e mappe delle stelle. Una lampadina si accese sulla testa di Koriand’r.
«Ti piace lo spazio?»
Jeremie rifletté un istante se rispondere o no, scostò con la scarpa un po’ di terra dal marciapiede e disse controvoglia: «Magari troverei un posto per me, se potessi andarci»
Koriand’r rifletté sulle sue parole, trovandovi più significati nascosti di quanti lui avrebbe voluto. Conosceva la sensazione, e sapeva che non sempre il luogo da cui si proviene è adatto alla persona che si è. Aveva lasciato il suo pianeta in balia di una guerra ed ora chiamava casa quel piccolo pianeta azzurro trovato in quel lontano sistema solare. Ma, soprattutto, chiamava casa il posto in cui aveva conosciuto le persone più importanti della sua vita; i Teen Titans.
Si chiese se Raven avesse gli stessi dubbi di Jeremie, perché non si sentisse abbastanza al sicuro, apprezzata ed accettata da lei e dagli altri, ma forse il motivo per cui si era allontanata era veramente un altro.
«Sai» borbottò timidamente, domandandosi se fosse la cosa giusta da dire. «Io vengo dallo spazio»
Gli occhi di Jeremie si sgranarono, mentre il so interesse saliva alle stelle.

Belial scivolò tra le ombre che il tramonto rigettava su Jump City, diretto verso il villino che occupava con i suoi fratellastri. Sperava che lo stessero aspettando a casa tutti e tre, ma il suo potere gli disse il contrario, quando passando tra i vicoli della strada principale riconobbe l’aura di Jeremie in una traversa. Si avvicinò quatto, mascherando il suo potere per evitare che il fratellino lo percepisse, e lo vide camminare al fianco della ragazza aliena dei Titans.
Lei gli stava parlando, sorridente, e quel sorriso e quell’entusiasmo sembravano tanto intensi da essere capaci di fare breccia nel muro che Jeremie si era costruito attorno negli anni. Un muro che neanche lui aveva potuto scalfire senza l’aiuto dei propri poteri.
Devo assolutamente intervenire, pensò Belial.



******

Rieccomi qui, spero di non avervi fatto aspettare troppo, cercherò di essere più veloce con i capitoli – anche perché, miseriaccia – ho solo questa ed un’altra fic in corso e sarebbe stupido non dedicarcisi tanto. A proposito, a qualcuno interessa la mia altra fic? VI lascio il link; è nella sezione delle originali:
L’Ombra nell’anima, mia, che sono Kojima Ayano
e, visto che ci sono, con gli stessi personaggi originali, c’è anche questa fic di Digital nella sezione d i Pretty Cure:
Heroes, di Makoto Hoshikawa (Digital).
Baci, Genius

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Capitolo 9
*** Anime infrante ***



ANIME INFRANTE


Garfield non era mai stato troppo interessato al giardinaggio. È vero, da piccolo aveva girato il mondo con i suoi genitori, famosi scienziati, ma non si era mai soffermato troppo sulla moltitudine di piante che aveva trovato lungo i suoi viaggi, poiché era sempre stato troppo preso dai suoi giochi di bambino per interessarsene. Inoltre, se doveva essere sincero, non era mai neanche entrato in una serra con vero interesse. Era quindi rimasto davvero affascinato da tutti quegli strani arbusti, quei vasi e quei fiori di cui non conosceva il nome.
Garfield sapeva distinguere le piante grasse, probabilmente, ma era certo di non riuscire ad andare oltre questo.
Sollevò lo sguardo verso uno scaffale colmo di vasi di ciclamini e sospirò, probabilmente era stupido, ma gli piaceva pensare che, una volta che Raven fosse tornata a casa, avrebbero avuto bisogno almeno di un giardinetto per la piccola Lilith. Non era certo se la ragazzina preferisse i fiori o le piantine, i cespugli o gli alberelli (davvero c’era differenza?), ma voleva assolutamente organizzare al meglio uno spazio totalmente dedicato a lei. A Richard, poi, avrebbe raccontato semplicemente di aver finalmente deciso cosa fare dei suoi pollici verdi.
Rise sommessamente per la stupidità di quella battuta, rimpiangendo di non poterla testare immediatamente per provare a strappare una risata a qualcuno. Passò il dito su una strana pianta dalle grosse foglie striate di verde scuro e si domandò se sarebbe davvero stato in grado di curare decentemente un giardino.
Aveva già parlato al telefono con la proprietaria della serra, ed insieme avevano convenuto che sarebbe stato meglio se fosse andato a vedere le piante di persona, in modo da poter decidere insieme quali fossero le più adatte alle sue esigenze. Sinceramente, le aveva detto Garfield una volta arrivato, la mia unica esigenza è quella che sopravvivano a me. Aveva riso, ma subito dopo aveva sospirato rassegnato e aveva lasciato che la donna sparisse oltre una porta, dove aveva detto di avere qualcosa che faceva al caso suo.
Erano alcuni minuti che aspettava, e ne aveva approfittato per guardarsi in giro. Tra i vari profumi – che quasi l’avevano ucciso appena aveva messo piede lì dentro e a cui si stava appena abituando – e i nomi e i colori, il ragazzo aveva scoperto un intero mondo. Qualcuno, una volta, gli aveva detto che ogni fiore ha un significato ben preciso. Si chiese quali fiori avrebbe dovuto usare per dire ciò che sentiva per ognuno dei Titans.
Sbuffò sonoramente, domandandosi se fosse il caso di raggiungere la signora sul retro, ma il tintinnare del campanello all’ingresso lo riscosse, e Garfield si voltò inconsciamente a controllare chi fosse il nuovo cliente. Con la coda dell’occhio distinse solo la sagoma vestita di scuro, poi gli arrivò il suo odore, persistente ed intenso, così familiare e inaspettato che ebbe il dubbio che fosse solo frutto della sua immaginazione. Ma Raven era reale e la sua espressione di stupore era il perfetto riflesso della sua.
Garfield si raddrizzò, trattenne il fiato e restò immobile. Raven, all’erta, era pronta a balzare via al primo segnale di pericolo. Ogni muscolo del suo corpo era rigido, gli occhi sbarrati e la mascella serrata, in attesa del momento adatto a battere in ritirata. Ma Garfield, per quanto sapesse che la cosa non dipendeva da lui, si disse che non le avrebbe permesso che gli sfuggisse così. Sollevò una mano lentamente, trattenendo il sorriso che minacciava di aprirglisi sul volto nel constatare che, finalmente, lei era lì davanti a lui ed avrebbe potuto parlarle davvero.
«Ciao» le disse, sforzandosi di trasmetterle tutta la felicità che provava nel trovarsela davanti. Poi si diede dello sciocco, pensando a quanto grazie ai suoi poteri la ragazza potesse leggere della tempesta di sentimenti che gli scuoteva il petto. Probabilmente sapeva anche ciò che provava per lei, l’aveva sempre saputo ed aveva riso di lui per questo. Un moto di delusione lo percorse; c’era stato un periodo in cui aveva pensato anche di essere ricambiato, ma poi lei era scappata mandando tutto all’aria e lasciandolo in balia di sé stesso. Si morse il labbro, prendendo fiato, e si ripeté che qualunque fossero i sentimenti di lei sarebbero comunque stati prima di tutto amici.
Si apprestò a fare un passo verso di lei, constatando con stupore che nello stesso istante Raven aveva deciso di avvicinarsi a sua volta. Aveva tenuto il cappuccio della felpa sollevato, aveva i capelli più lunghi di quanto ricordasse che le scivolavano sulle spalle e la frangetta le ricopriva la fronte nascondendo il chakra rosso che tanto la distingueva dalle altre. Sembrava combattuta, come se si fosse resa conto solo in un secondo momento di qualcosa che le sue gambe avevano deciso di fare per lei. Garfield ripensò a quando Lilith gli aveva raccontato di non essere capace di distinguere i sentimenti degli altri dai suoi e sorrise colpevole. Che lei avesse percepito il suo desiderio di avvicinarsi e l’avesse assecondato scambiandolo per suo?
Non voleva in alcun modo che lei non fosse chi era, quindi percorse lentamente i pochi metri che li separavano pronto a cogliere anche il minimo cenno di disapprovazione, ma questo non vi fu e, appena fu direttamente di fronte a lei, Raven gli sorrise a testa china, osservando, forse con troppa poca acutezza, trattandosi di lei:
«Non sei verde»
Garfield trattenne una risata, sollevò la mano e mostro fiero il suo anello. Almeno, pensò, questo era un modo per rompere il ghiaccio. «Tutto grazie a questo fantastico anello inventato da Cyborg. Mi sorprende che tu mi abbia riconosciuto» tentò di scherzare.
Raven lo fulminò con un’occhiata. «Dovrei essere cieca e priva di poteri, se non idiota, per non riconoscerti» ribatté piccata. Incrociò le braccia e sbuffò, lanciando un’occhiata oltre la spalla del ragazzo per scrutare là dove la fioraia era sparita.
Con un movimento rapido, quasi troppo veloce per rendersi conto davvero di ciò che stava per fare, Garfield allungò la mano e spinse via il cappuccio, rivelando appieno l’espressione contrariata della ragazza. Schiuse le labbra, pensando a quanto avrebbe voluto dirle quanto gli era mancata, quanto avesse sperato di rivederla e quanto gli sembrasse surreale averla lì in quel momento.
Ma Raven ovviamente sapeva già tutto. Afferrò il cappuccio a testa china e lo sollevò, rifiutandosi di ricambiare lo sguardo del ragazzo come se questo potesse aiutarla a tenere sotto controllo l’empatia. «È meglio che vada, adesso» concluse mortificata.
Gli diede le spalle per tornare all’ingresso, ma il ragazzo la trattenne per un polso. «No», le disse secco, con un tono più duro di quanto avrebbe voluto. Provò a riportare a galla tutto ciò che provava per lei, a farle percepire la speranza di non vederla scappare un’altra volta. Pensò ancora che se Raven avesse voluto avrebbe potuto dirgli che ricambiava i suoi sentimenti in cogni momento, ma non l’aveva mai fatto. La vide scuotere la testa, la lasciò andare. Forse Raven non aveva mai provato nulla e lui si era solo illuso. «Ok» concluse deluso. «Vai allora, me ne farò una ragione». Raven si voltò, il volto teso e le labbra strette. «Addio allora» terminò Garfield.
E la lasciò andare.

Kori fece strada emozionata, guidando il ragazzino nell’edificio. La felicità di essere riuscita a parlare con lui era tanta che le ci vollero alcuni secondi per rendersi conto che lui non era più a fianco a lei.
Si voltò a cercarlo e lo vide immobile pochi passi dopo l’ingresso. Jeremy si guardava attorno sperduto, come se si aspettasse da un momento all’altro la rivelazione di essere caduto in una trappola. Era rimasto a distanza anche prima, evitando il contatto fisico, lasciando sempre almeno un metro tra loro. Kori non aveva provato ad avvicinarsi, lasciandogli tutto lo spazio di cui sentiva il bisogno.
Non la stava guardando, ma sapeva di essere osservato ed il suo volto si fece immediatamente gelido. Sospirò, nel tentativo di non essere contagiato dalla voglia di lei di diventare amici.
Lo sentiva chiaramente. La voglia di lei di aiutarlo, di proteggerlo, di trovare un punto di incontro che potesse fare felici entrambi. Tenne i piedi ben piantati a terra. Non sapeva più se la voglia di avvicinarsi e il desiderio di non ferirla fossero davvero desideri suoi. Quella ragazza era una vera tempesta emotiva, un vaso di sentimenti positivi.
Kori intuì il suo disagio. Non si scompose, esibendosi anzi nel più caloroso dei suoi sorrisi.
«Vieni avanti. Vedrai, ti piacerà. Ho visto come osservavi quella vetrina» gli disse incoraggiante.
Jeremy strinse gli occhi. Non gli piaceva che la gente lo osservasse, tanto più quando lo coglievano con la guardia abbassata, con il rischio di leggere in lui cose che non voleva che trapelassero. Cose che rischiavano anche di non appartenergli.
Obbedì, solo perché i suoi poteri gli permettevano di vedere chiaramente che la ragazza non voleva ingannarlo in alcun modo. Lei era circondata da un aura di felicità e fiducia che rischiavano di invaderlo. Uno dei problemi di essere un empatico; non riuscire a distinguere i propri sentimenti da quelli degli altri.
«Raven ti ha mai parlato di me?» gli domandò Kori sorridendogli. Non si aspettava una risposta positiva. Non si aspettava affatto una vera risposta. Era solo un modo come un altro per iniziare un discorso, per incitarlo a parlare, per fargli capire che potevano essere, se non amici, almeno conoscenti. Per fargli sapere in qualche modo che non era sua intenzione immischiarsi nei suoi affari, ma che gli avrebbe parlato di lei e poi lui, solo se l’avesse voluto, avrebbe potuto fare lo stesso.
Jeremy distolse lo sguardo, non che questo lo aiutasse a percepire di meno le emozioni altrui. Da qualche parte, nel corridoio, ci doveva essere un bambino che saltellava su un piede solo perché nessuno si degnava di portarlo in bagno a svuotare la vescica. Dovette ricordare a sé stesso che non era lui a dover fare pipì, come non era lui ad essere appena stato mollato dal fidanzato, o ad essersi sbucciato il ginocchio inciampando sul primo scalino.
Tornò a concentrarsi su Kori. Poteva gestirla, si disse. «Non parla mai del passato»
Il sorriso di Kori si allentò un istante, ma poi si riaccese più forte di prima, per la felicità di aver ricevuto una risposta, seppur negativa. Sentì la gioia di lei pervaderlo. Si pizzicò la gamba attraverso la stoffa della giacca e dei jeans, forte, per impedirsi di sorriderle a sua volta.
«Quindi non sai che io sono una principessa aliena» gli disse Kori spostandosi una ciocca di capelli dal viso. Jeremy sollevò lo sguardo. Tentava di nascondere la sorpresa, ma i suoi occhi sgranati lo tradivano. Si costrinse a non spalancare la bocca, mentre Kori sorrideva divertita dalla sua reazione.
«Vengo dallo spazio» ribadì poggiando una mano sul cuore in segno di giuramento. «Sono così lontana da casa che a volte mi chiedo come faccio a resistere»
Jeremy fu travolto dalla malinconia. Se non avesse passato ciò che aveva passato si sarebbe stupido di quanto dolore potesse provare una persona. Solo una volta aveva sentito un rimorso più grande. L’aveva letto in Raven in modo talmente intenso da pensare per un istante di poter soffocare.
Represse quel ricordo, e represse la nostalgia di Kori, ripetendosi che doveva restare in sé.
«Non sono mai stato in un planetario» rivelò allora Jeremy per distrarla. Lo fece involontariamente, senza rendersene conto. Non voleva causarle dolore. Non era sicuro se lei ci fosse cascata o no, essendo riuscito a sottrarsi momentaneamente alle sue emozioni, ma lei non si pose alcun problema e lo assecondò immediatamente.
«C’è questa grande stanza con il soffitto rotondo e poi ci riflettono sotto l’intero planetario» s’interruppe e guardò il ragazzo entusiasta. «Anche se non è questo che voglio farti vedere oggi»
Jeremy nascose la curiosità. Non chiese nulla. Aveva intuito in qualche modo che la ragazza avrebbe parlato comunque. Da quello che aveva visto non era una che avrebbe fatto attendere, nel voler allietare la giornata a qualcuno. E farlo felice almeno per un po’ era quello a cui lei mirava.
Bastarono pochi secondi perché lei si sbottonasse. «Al piano più alto c’è l’osservatorio» rivelò sognante. Percorse il corridoio, chiamò l’ascensore. Aspettarono insieme in silenzio.
Una volta che furono saliti sull’ascensore Kori riprese il suo racconto. «Sono nata nello spazio, su un pianeta che si chiama Tamaran. Non ti annoierò raccontandoti la mia storia, non preoccuparti. È solo che ho visto come guardavi quelle mappe stellari ed ho pensato che ti sarebbe piaciuto venire qui»
Jeremy trovò incredibile il modo in cui sembrava l’avesse capito anche senza avere alcun tipo di empatia. Non disse nulla.
L’ascensore si aprì, rivelando una sala dalle pareti quasi interamente trasparenti. Il cielo, ormai quasi completamente oscurato dalla notte, era ben visibile anche attraverso la cupola trasparente.
Jeremy spalancò gli occhi, lasciando trapelare la sorpresa un istante di troppo. Guardò di sottecchi Kori e, accennando un sorriso, decise di darle almeno un po’ di fiducia.
Lei aveva un cuore buono, ferirla sarebbe stata solo una crudeltà, e lui non voleva essere crudele come troppo spesso gli altri erano stati con lui.
«Vengo qui a guardare le stelle a volte» rivelò Kori. «Anche se Tamaran è troppo lontano per essere visto anche con il telescopio»
Jeremy s’impossessò immediatamente di uno de i telescopi, piantò l’occhio nello spioncino e s’immobilizzò estasiato.
Kori lo osservò soddisfatta, tenendosi a distanza, in silenzio.
Jeremy s’incantò a scrutare gli astri nell’oscurità del cielo. Ora che anche l’ultimo fascio di luce era scomparso oltre l’orizzonte era tutto più facile. Non era mai riuscito neanche a sperare di poter vedere tutto così da vicino, ed ora gli sembrava quasi possibile sognare di arrivare fin lì, dove nessuno lo conosceva, dove forse non sarebbe stato considerato strano e rifiutato.
Sapeva che la ragazza al suo fianco poteva intuire la sua, seppur lieve, felicità. Sapeva che lo stava osservando di sottecchi, con la speranza di aver fatto un passo avanti nell’essere amici. Lei non aveva fretta, in questo.
Ma questi pensieri erano controproducenti, per Jeremy, se voleva evitare di intrufolarsi involontariamente nel suo tumulto interiore.
«C’è la guerra, sul mio pianeta» raccontò Kori. «Anche se sono stata via talmente tanto tempo che ora potrebbe anche essere finita. A volte mi manca, altre volte penso che è meglio così. Qui posso salvare delle vite, ho quella marcia in più che mi serve per rendermi utile. Su Tamaran, stato sociale a parte, ero solo una dei tanti»
Jeremy non la guardava, ma rifletté sulle sue parole. Lei era vissuta in un mondo in cui tutti erano come lei, in cui tutti potevano comprendere le sue stranezze perché quella per loro era la normalità, ed aveva scelto ti abbandonarlo. Certo, lui non sapeva perché l’avesse fatto, ma non metteva in dubbio le difficoltà che lei aveva trovato una volta arrivata sulla terra. Erano più simili di quanto avesse pensato all’inizio.
Le parole gli sfuggirono prima che se ne rendesse conto.
«Ti sei mai sentita fuori posto, come se nessuno potesse capirti?» domandò Jeremy all’improvviso.
Kori si avvicinò, colta alla sprovvista, ma felice che le avesse fatto una domanda così personale.
«Diciamo che sono stata fortunata a trovare altri…» si fermò a riflettere sul termine giusto; l’aveva usato Victor un paio di giorni prima e le aveva spiegato il significato. «Outsider in un mondo di persone comuni» Jeremy si staccò dal telescopio e la guardò, anche se non gli serviva vedere i suoi occhi per sapere che era sincera, che ci credeva veramente. Era un po’ quello che era successo a lui con l’arrivo dei suoi fratelli. Era sempre stato solo, fino ad allora e non gli piaceva ripensare al passato, adesso.
Kori si avvicinò, Jeremy fece un passo indietro per evitare che lo sfiorasse, ma la ragazza voleva solo puntare un fazzoletto di cielo preciso. Gli fece cenno di guardare e, quando il ragazzo l’ebbe fatto gli disse: «Vedi, casa mia è oltre quel gruppo di stelle»
Jeremy scrutò rapito la costellazione; le trovava così distanti, luminose. Loro non dovevano preoccuparsi di spaventare le persone, perché erano indispensabili. Alcune erano soli di altre galassie, altre semplicemente la mappa che si usava da tempo immemore per non perdersi in mare. Loro erano luce nell’oscurità.

La porta le si richiuse alle spalle con un cigolio sommesso; i cardini erano stati oliati di recente, ma questo a Raven non importava; ciò che la preoccupava era il chiasso che le proveniva dall’interno, e che i suoi fratelli empatici avrebbero percepito immediatamente. Era stata in giro una mezz’ora buona per smaltire la delusione che aveva portato il pessimo finale dell’incontro con Garfield, meditando su un tetto poco distante fino a quando non si era sentita meglio. Aveva spinto le sue emozioni in un angolo com’era stata abituata a fare fin da piccola e, solo allora, si era resa conto di non aver preso la pianta che aveva promesso a Lilith. Per un istante aveva pensato alla possibilità di rubarne una da un giardino o da un balcone, ma aveva constatato che non sarebbe stata una buona idea, se avesse voluto considerarsi ancora una protettrice della città. Si era rassegnata ed era tornata a mani vuote in quella che avrebbero chiamato casa almeno per un po’.
Lilith la aspettava nel giardino d’inverno, circondata da quelle piante che la sua natura di ninfa la costringeva sempre a ricercare. Inclinò leggermente la testa, confusa ed involontariamente partecipe delle sue emozioni. Raven accennò un sorriso; uno di quelli rari, colpevoli e grati. Lilith non le chiese della pianta, ma voleva sapere cosa l’avesse ferita. Raven non avrebbe voluto dare spiegazioni, ma quell’affetto così puro, quella curiosità così colma di premura la avvolgevano, ed era così grata che insieme ai suoi fratelli potesse sentirsi finalmente al suo posto.
Si inginocchiò davanti a Lilith, scuotendo la testa lentamente. «Garfield era alla serra. Credo di averlo perso per sempre, questa volta» ammise rammaricata ed a testa bassa.
Lilith la abbracciò premurosamente. Quel ragazzo le piaceva, ma nessuno avrebbe mai dovuto fare sentire così Raven, perché lei era la persona più fantastica e dolce dell’intero universo.

Garfield si sfilò l’anello in un vicolo. Per una volta aveva voglia di essere solo sé stesso mentre camminava in città; essere verde l’avrebbe aiutato a ricordare com’era fino a pochi mesi prima, ma sarebbe stata solo una questione di aspetto esteriore. Era solo questo che contava, no? Apparire come gli alti si aspettavano che fosse, privo di dubbi ed esitazioni, un eroe per la città, qualcuno che non aveva bisogno di nessuno su cui contare per restare in piedi. Rimise l’anello al dito ed abbandonò il vicolo con le mani nelle tasche dei pantaloni. Robin gli avrebbe detto che agire senza riflettere era proprio da lui, ed avrebbe dato lo stesso parere riguardo a ciò che aveva detto a Raven quasi due ore prima, ma Garfield sentiva, per una volta, di essere nel giusto. Non poteva continuare ad aspettarla, a correrle dietro all’infinito, specialmente se lei non aveva intenzione di fare qualcosa per dimostrargli che i suoi sforzi non erano totalmente vani.
Tirò un calcio ad una lattina vuota che era stata abbandonata sul il marciapiede, ma la rabbia era già scemata in delusione. Pensò che avrebbe dovuto annullare l’ordine delle piante per la camera di Lilith, ed a come avrebbe potuto dire a Starfire che del loro piano non se ne faceva più nulla.
Sospirò ampliamente e la brezza della sera gli porto alle narici il profumo di sottobosco. Era leggero e mescolato agli altri centinaia di odori presenti nella strada commerciale di Jump City, quasi coperto dal profumo emanato da una bancarella di zucchero filato che stava alla sua destra, ma abbastanza intenso da farlo voltare a colpo sicuro verso il punto da cui proveniva.
Lilith lo fissava con un’intensità tale da fargli credere quasi che volesse colpirlo con lo sguardo. Il vento le scompigliava i capelli, portando ancora il suo odore verso di lui, non indossava alcun cappuccio, ed aveva l’espressione più truce che le avesse mai visto in volto. Restava immobile e, controvoglia, fu Garfield ad avvicinarsi, facendo lo slalom controcorrente dalla parte sbagliata del marciapiede.
Talvolta qualcuno gli lanciava un’occhiata contrariata, probabilmente chiedendosi cosa volesse da quella strana ragazzina e perché lei lo fissasse a quel modo. Nessuno domandò nulla e lui non sentì la necessità di spiegare, ma il suo istinto animale percepiva l’ostilità di lei.
«Cosa c’è?» le domandò confuso, una volta che furono faccia a faccia.
Lei sbatté gli occhi e strinse i pugni. «Raven» asserì, cercando le parole. «L’hai ferita» affermò, portando una mano al petto per mostrargli da dove provenisse il suo dolore.
Garfield ebbe un moto di sconforto, ma lo scacciò, ricordando che era proprio per questo che aveva detto quelle parole; per ferire Raven quanto lei aveva ferito lui.
La reazione di Lilith a quel sentimento fu istintiva, quasi selvaggia. Gli occhi le scintillarono di rosso, l’oscurità le oscillò attorno e lei sollevò un braccio e lo scaraventò contro una vetrina con una sfera di oscurità familiare. Garfield infranse il vetro e sbatté contro alcuni manichini in esposizione, rotolando sul pavimento e rialzandosi alla svelta. La gente iniziò a gridare ed a fuggire in preda al panico, Lilith camminò verso di lui come posseduta, mentre alcune persone si rifugiavano nel retro del negozio.
Garfield tossì, agitò il braccio dolorante su cui era atterrato e domandò a Lilith: «Che diavolo ti sei messa in testa?»
Ma capì subito che c’era poco, in quel momento, della Lilith che aveva conosciuto. Era come rivedere Raven prima della sconfitta di Trigon; la stessa energia oscura che la muoveva e lo stesso sguardo demoniaco. Garfield non riuscì a comprendere cosa le avesse detto per scatenare questa reazione, e non aveva alcuna voglia di iniziare a combattere contro di lei. Evitò un altro attacco e saltò fuori dal negozio, decidendo che prima di riuscire a tentare di calmarla avrebbe dovuto prendere tempo per permettere alla gente di mettersi in salvo. Si voltò verso la strada, constatando che la gente era ancora in preda al panico, poi tornò a fissare dritto verso Lilith, che intanto stava caricando un fascio di energia nera da scagliargli addosso come se fosse una frusta. Garfield scartò di lato appena in tempo per essere preso solo di striscio, e quello di abbatté su un’auto, affondando nel tettuccio ed infrangendone parabrezza e finestrini.
«Ok, ora stai esagerando» affermò nervoso, alzandosi e sistemandosi in posizione d’attacco. Non aveva intenzione di usare contro di lei i suoi poteri, anche se la strada ora era sgombra, ma non poteva negare che la sua parte animale percepisse da lei una maggiore soglia di pericolo rispetto a quella che aveva percepito davanti a Jeremy alcuni giorni prima.
Il ragazzo era spaventato, lei era arrabbiata, ed alla fine Garfield avrebbe dovuto difendersi. Sentì le sirene della polizia in lontananza, si domandò se non sarebbe stato meglio togliersi l’anello e rivelare la sua identità di Titans, ma non voleva giocarsi la copertura e dare loro la possibilità di riconoscerlo anche senza il suo inusuale colorito verde. Saltò sul cofano di un’auto per sfuggire all’ennesima sfera di energia e, rammaricato, si decise a contrattaccare.
Non sarebbe riuscito a fermarla, se non ci avesse neanche provato. Le si lanciò addosso e la atterrò, le sirene si fecero più vicine e, mentre Garfield si distraeva nel vedere accorrere i poliziotti, Lilith riuscì a scollarselo di dosso. La vide sollevarsi ad alcuni metri da terra, poi prepararsi ad attaccarlo ancora ed i poliziotti puntarle contro le loro pistole.
Senza il suo colorito particolare appariva come un civile, rifletté alla svelta, e lei, con i suoi poteri, una minaccia per la sua incolumità. Per un attimo pensò di sfilarsi l’anello ed informare gli agenti del fatto che poteva cavarsela da solo, ma decise di provare un’altra strada, prima, e sollevò le mani per intimare ai poliziotti di restarne fuori. Era improbabile che lo facessero, ma lui li ignorò.
«Lilith, per favore!» le disse con tono duro. «Qualunque sia il problema questo non è il modo per affrontarlo»
Lei gli si avvicinò. «Hai ferito Raven per tua scelta. Nessuno deve fare del male a Raven»
Garfield sgranò gli occhi. «Mi dispiace, ma lei non è l’unica che sta male, in questa storia» ribatté. Lilith sferrò un’altra sfera di energia, Garfield si lasciò colpire e scivolò indietro strisciando sull’asfalto per diversi metri. «Non sono io che ho cominciato!» ribadì Garfield. «Io era felice di vederla, è lei che ha rovinato tutto!»
«Bugiardo!» ribatté Lilith. Lanciò un'altra sfera, ed il ragazzo scartò di lato per non essere colpita. Quella si schiantò contro una cassetta della posta, facendola saltare in aria e spargendo lettere per tutta la strada. «Tu non sai cosa hai fatto!» gridò, la voce gonfia di rabbia e tanto perfida da non sembrare neanche la sua. «Sì invece. Non posso continuare così, io le ho dato un mucchio di occasioni e lei le ha rifiutate tutte!»
«Solo perché è troppo presto!» ribatté Lilith. Sollevò una mano a mezz’aria, un colpo carico che però non lanciò mai. La rabbia di Garfield scemò in un istante, e con essa anche la furia di lei.
«Troppo presto? Che significa?» le domandò. Ma lei non rispose; pareva essere ritornata in sé all’improvviso, e si guardava attorno colpevole. Scesa a terra, cessando ogni ostilità davanti ai poliziotti ancora in allerta.
«Io… Mi dispiace» sussurrò a testa china. «Giuro che non volevo arrabbiarmi, ma Raven era così triste dopo aver parlato con te. Promettimi che non ti perderà, qualunque cosa succeda. Se dovesse accadere potrebbe perdere sé stessa»
Per Garfield la rivelazione fu un colpo dritto nel petto, e si rese conto di quanto le sue parole, dette per rabbia in uno sfogo improvviso, avrebbero potuto significare per lei. «Lo prometto» mormorò colpevole. «Lei non mi perderà mai, qualunque cosa possa succedere»
Lilith alzò lo sguardo sollevata, sorrise. «Grazie» mormorò.
Garfield le sorrise a sua volta, mentre con la coda dell’occhio intravedeva alcuni poliziotti avvicinarsi a lei per coglierla alle spalle. Solo allora si rese conto che erano entrambi circondati, ma non poteva permettere che la ragazzina venisse arrestata. Scartò in avanti, ed impedì ad uno degli uomini di coprirla con una rete di energia. «Vai via!» le urlò. «Scappa!»
Lilith si dissolse in una pozza nera, mentre altri due agenti lo afferravano ed ammanettavano.
Sorrise tra sé, pensando alle parole di Lilith. Il cervello era talmente in subbuglio che le parole degli uomini lo raggiunsero solo in seguito. «Lei è in arresto per intralcio alla giustizia. Metta le mani dietro la testa!». Il sorriso del giovane s'incrinò, dischiuse le labbra «Oh, andiamo. Sul serio?» ma l'agente gli puntò la pistola alla fronte, senza voler sentire ragioni. Garfield sbuffò. Questa volta Robin sarebbe diventato una vera belva.


******

Salve gente. BOOM! Scrivetelo nelle recensioni, se questo capitolo vi piace, o vi faccio saltare come la cassetta delle lettere. BOOM!

P.S. Gli ultimi due righi sono opera di Digital, visto che a me non andava di scriverli XD

In attesa del prossimo capitolo, spero al massimo il mese prossimo, vi invito a fare una visitina alle fanfiction qui sotto:
L’Ombra nell’anima, di me, che sono Kojima Ayano
e, visto che ci sono, con gli stessi personaggi originali, c’è anche questa fic di Digital nella sezione d i Pretty Cure:
Heroes, di Makoto Hoshikawa.


Baci, Genius

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Capitolo 10
*** Come una maratona di film in TV ***



COME UNA MARATONA DI FILM IN TV


Il rimbombo dello scattare della serratura della prigione risuonò per tutta la cella, svegliando Garfield di prima mattina. Il ragazzo pareva aver preso il suo arresto quasi come una vacanza. Non aveva provato a scappare, né aveva sventolato ai quattro venti di essere uno dei Titans, fino a quando non l’avevano scoperto da soli, costringendolo a sfilarsi l’anello per la perquisizione, ed anche allora era rimasto docile quando lo avevano dotato di un braccialetto che annullava i suoi poteri. Aveva appreso con un sospiro che avrebbero contattato la torre per informare gli altri membri della squadra dell’accaduto e, dopo aver ringraziato gli agenti per la premura, si era steso sulla schiena e si era addormentato quasi a comando.
Era stato abbastanza tranquillo, ma nel notare il sole oltre la finestrella che era sulla parte alta della parete non poté che provare un lieve senso di irritazione nei confronti degli altri, quando aveva capito che era già mattino.
Era pur sempre rimasto in gattabuia per tutta la notte!
Lo scortarono all’ingresso, dove trovò ad aspettarlo Robin, vestito di tutto punto della sua calzamaglia nera e rossa. Lo fissava cupo da sotto la maschera, ma Garfield era felice di non doverlo guardare negli occhi, perché era certo che il suo sguardo avrebbe potuto ucciderlo senza neanche il bisogno di un potere sovrannaturale.
Gli parlò prima che potesse lamentarsi della sua condotta: «Amico! Mi hai lasciato dentro una notte intera! Non potevi venire ieri stesso?»
Ma Robin non diede segno di pentimento. «Avrei potuto lasciarti dentro per sempre» borbottò. «Hai idea di quello che ci hai fatto passare? Un Titan dovrebbe essere un modello per la comunità, non farsi arrestare! Non dovremmo essere la giustizia, non un intralcio ad essa!»
Garfield fece roteare gli occhi. Non aveva voglia di discutere, ma doveva ammettere di essere d’accordo con l’amico. «Lo terrò a mente, sì. Ora possiamo per favore andare a fare colazione? Ho avuto l’impressione che volessero giustiziarmi tramite digiuno» tentò di scherzare, ma subito il sorriso gli si spense. Robin non dava affatto cenno di divertirsi. «Ok, hai vinto. Mettimi pure in punizione» concluse. Non aveva voglia di litigare e non vedeva l’ora di mettere qualcosa sotto i denti e farsi una bella doccia. Sorrise all’agente che si avvicinava per restituirgli i suoi oggetti personali e, come prima cosa, infilò in tasca il suo anello di copertura. Attese che gli sfilassero il braccialetto che gli annullava i poteri, poi riprese la giacca ed infilò il portafogli nella tasca dei pantaloni.
Il silenzio ostile di Robin iniziava a diventare irritante, mentre lo scortava fuori, verso la sua moto. Garfield sapeva che avrebbe aspettato che fossero lontani da orecchie indiscrete, prima di dirgli ciò che stava pensando. Infilò il casco e si sedette dietro l’amico, che mise in moto e si infilò nel traffico di Jump City.
Erano fermi ad un incrocio quando il Ragazzo Meraviglia decise di interrogarlo. «Perché hai impedito che la polizia la prendesse?»
Le orecchie di Garfield si piegarono, mentre lui trovava il modo migliore per parlargli di Lilith. «Lei non è cattiva, non meritava di essere arrestata»
«Ha distrutto mezzo museo, l’altra sera» gli ricordò Robin con calma. «E mi hanno raccontato che ti ha attaccato in pieno centro senza una ragione apparente»
Garfield tossicchiò. «Ecco, vedi, una ragione c’era. Stavo parlando con Raven e le ho detto delle cose veramente brutte; Lilith l’ha saputo e si è arrabbiata perché Rae c’era rimasta male»
«Perché tutti decidono di parlare con lei alle mie spalle?» domandò Robin, indispettito. Lanciò un’occhiata all’amico e poi ripartì con le altre auto quando il semaforo fu verde. «In realtà» disse alzando la voce «quello che vorrei veramente sapere è perché Raven non viene a parlare direttamente con me. Lei non ci vuole tra i piedi, Garfield, credevo che te lo fossi messo in testa, finalmente.» sbuffò, inclinandosi per voltare a destra e raggiungere una traversa familiare.
Garfield lanciò un’occhiata stanca all’ingresso dello studio dello psicologo del gruppo. «Oh! Dai!» sbottò nervosamente. «Non un’altra volta!»
«Non riesco più a parlare con te, Garfield» ammise preoccupato Robin. «Ma so che hai bisogno di parlare con qualcuno».

Era raro che le tende, in camera di Koriand'r, fossero tirate. Per questo anche quella mattina il tiepido calore del sole attraversava la spessa finestra della Torre Titans fino a raggiungere il letto della giovane, riflettendosi sulla pelle scura della caviglia di lei, che era sfuggita alla stretta morsa delle coperte.
Il lieve respiro assopito le gonfiava il petto lentamente, mentre sorrideva mesta. Aveva dimenticato per alcune ore i dubbi ed i contrasti che avevano agitato la squadra nell'ultimo periodo, e quando si sarebbe svegliata ed avrebbe potuto gioirne quelli sarebbero tornati a punzecchiarla dispettosi, ricordandole in ogni momento di veglia quanto la famiglia che tanto amava stesse rischiando di sgretolarsi. Non sapeva cosa avrebbe potuto fare se davvero fosse accaduto, se quelle persone che tanto amava avrebbero deciso di separarsi come granelli di sabbia spostati dal vento. Ma per ora, dormendo, non ci pensava, e così sarebbe stato fino al risveglio.
La creatura interruppe le sue riflessioni e sorrise. Era l'alba e non aveva voglia di stare lì per tutto il giorno. E poi non sapeva neanche quanto fosse pattumiera la sua futura vittima. Abbandonò il cartoncino in ombra che aveva occupato nell'ultima ora, sotto la scrivania nell'angolo, e si avvicinò caproni al grande letto che era dall'altra parte della stanza. I movimenti fiacchi e la schiena china gli permisero di restare lontano dalla luce solare, anche se questa non gli avrebbe causato altro che una piacevole sensazione di tepore sulla pelle. Ma non era a quel tipo di piacere che la creatura mirava.
Sollevò un braccio, arrampicandosi cautamente ai piedi del letto, mosse la testa con curiosità, facendo scorrere gli occhietti neri come l'abisso sul profilo della ragazza. Non aveva ancora avuto l'occasione di osservare il volto, preferendo limitarsi a studiare quella camera fin troppo femminile ed allegra, ma ora non aveva più scuse o ragioni per tergiversare, e non era neanche quello che voleva.
Allungò le mani raggrinzite verso di lei e queste iniziarono lentamente a prendere la consistenza di mani umane, sbatté gli occhi e lasciò che l'oscurità si concentrasse nel mezzo di una pupilla artificiale, la pelle si colorò di un tenue rosa carne ed i capelli neri dal taglio sbarazzino gli andarono ad incominciare il volto. Era già dentro al sogno, e Koriand'r rinchiuse le palpebre assonnata per poi sorridergli.
«Dick» sussurrò flebilmente.
In quel mondo onirico artificiale non c'era alcun problema tra loro, nessun battibecco o incomprensione in sospeso. Koriand'r poteva permettersi di essere sé stessa e di avere il come aveva sempre voluto. Non c'erano catene, nessuna costrizione.
Solo quello splendido, malefico sogno.

Garfield entrò imbronciato nella sala d’attesa. Scrutò di sfuggita il proprio riflesso nel vetro della finestra che dava sulla strada e proseguì oltre. C’erano momenti in cui non si riconosceva a causa l’assenza del colorito verde sul suo volto e sulle sue mani scoperte. Era come essere fuori dal proprio corpo, ed in quel momento poter essere sé stesso era l’unica cosa che avrebbe potuto farlo sentire meglio.
Richard teneva le mani nelle tasche dei pantaloni e lo guardava dall’ingresso, aspettando che lui si facesse avanti ed entrasse nell’ufficio. Lanciò un’occhiata anche alla segretaria che era al suo fianco: «Prego, entri pure» gli disse senza sollevare lo sguardo dalle cartelle «Il dottore la sta aspettando»
Garfield sbuffò, fece un cenno con la testa a lei ed all’amico e si diresse alla porta trascinando i piedi per terra, entrando seccato senza neanche guardare in faccia l’uomo che lo aspettava dietro la scrivania.
«Dottor Brennan» salutò cupo sfilandosi l’anello olografico ed infilandolo in tasca. Riprese immediatamente il suo colorito verde acceso, si buttò sul lettino mettendosi comodo e accavallando le caviglie, aspettando in silenzio che lo psicologo iniziasse a parlare.
«Allora, Garfield» iniziò lui immediatamente «quando il tuo caposquadra ha detto che ti avrebbe portato qui non mi ha spiegato quale fosse esattamente il problema»
Il mutaforma batté ripetutamente gli artigli sulla finta pelle del lettino – si era assicurato che fosse pelle finta la prima volta che era stato in visita lì, alcuni mesi prima. Aveva passato molto tempo in quell’ufficio, così come i suoi amici, dopo la scomparsa di Raven. L’abbandono della ragazza aveva provocato parecchi disagi emotivi all’interno del gruppo.
«Problema» borbottò sottovoce il ragazzo. Fissava un dipinto appeso di fronte a lui, proprio accanto alla libreria. L’aveva guardato talmente tante volte, nelle sue prime visite, quando preferiva restare a fissarlo e si rifiutava di parare di ciò che provava veramente, che avrebbe potuto riprodurlo quasi a memoria. Non che avesse davvero voglia di ridisegnare uno stupido paesaggio di mare.
«Immagino che avrà visto il notiziario, ultimamente. L’avrà saputo, lei non mi sembra affatto stupido» sbottò Garfield digrignando i denti.
Il dottor Brennan non si scompose, fece scattare la penna un paio di volte. «Ho visto il notiziario, si»
«Robin è convinto che il ritorno di Raven distruggerà la squadra»
«E lei la pensa così?» domandò lo psicologo prendendo appunti senza alzare lo sguardo.
Garfield scattò in piedi, affilò lo sguardo e strinse le mani sul bracciolo fino a ad aprire degli squarci sulla finta pelle.
«No, certo che no!» disse mettendosi a sedere «È Raven accidenti! Continuo a ripeterlo anche a Robin. È a lui che servirebbe lo strizzacervelli, è sempre convinto che ci sia qualcosa sotto, che qualcuno trami contro di noi, ma non capisce» deglutì strofinando le suole delle scarpe contro il poggiapiedi. Dopo un sospiro si lasciò cadere ancora una volta contro lo schienale della poltrona e puntò gli occhi verso la finestra, lo sguardo si fece vacuo ed il volto si addolcì, seppure il ragazzo non stesse sorridendo. «Lui non capisce che io devo credere in Raven. Non posso fare altrimenti, ne ho bisogno»
Il dottore sollevò lo sguardo e non riuscì a trattenere un sorriso, picchiettò la punta della penna contro il blocco su cui aveva preso gli appunti fino ad allora e si sporse verso di lui sulla sedia: «Quindi non è davvero convinto della sua posizione» concluse. Garfield si voltò a fissarlo e lui spiegò: «lei mi sta dicendo che crede a Robin ma ha bisogno di negarlo»
Garfield sussultò e picchiò con un tonfo la mano sul bracciolo «Ma lei da che parte sta?»
Il dottor Brennan si sfilò gli occhiali e li poggiò sul tavolino davanti a sé, ignorando la domanda. «Mi faccia solo capire, signor Logan. Ricorda quello di cui abbiamo parlato in una delle sue prime sedute? Ricorda quello che abbiamo detto riguardo ai suoi sentimenti?»
Garfield fece leva sui gomiti e rimbalzò un paio di volte sulla poltrona «E come potrei dimenticare?»
Seguirono alcuni secondi di silenzio in cui il ragazzo sperò che il discorso morisse lì.
Invece il dottore domandò: «Cos’ha provato dopo averla rivista?»
Il ragazzo si sollevò, poggiò i piedi per terra ed i gomiti sulle gambe. Lo guardò negli occhi, poi sollevò il volto verso il soffitto per ammettere anche a sé stesso: «È stato quasi irreale. C’era quel ragazzino, Jeremy, e lei è comparsa dal nulla e l’ha difeso. Quando mi ha guardato in faccia, quando mi ha ringraziato per aver impedito che si ferisse… non sapevo che cosa pensare. Non sapevo neanche se quello che vedevo fosse vero. Se lei fosse reale»
Il dottor Brennan annuì comprensivo. «Cosa pensa, Garfield? Cosa la spaventa?»
Lui si grattò una guancia, agitandosi un istante. Poi si ristese. «Quei ragazzini, i suoi fratelli, sembrano importanti per lei. Io la capisco, se venissi a sapere all’improvviso di avere un fratellino o una sorellina anche io vorrei occuparmene. Vorrei aiutarla, ma non riesco ad avvicinarla. Ho provato. Io e Koriand’r abbiamo pensato che avvicinando prima i ragazzini forse potremmo convincere tutti e tre a trasferirsi alla torre»
«Parlami un po’ delle tue impressioni su questi fratellini ritrovati, allora»
«Lilith è ok» esclamò Garfield entusiasta. «Mi sta simpatica, andiamo d’accordo» deglutì «Jeremy, lui potrebbe essere… non un problema, ma sembra che sia più difficile trattare con lui. Però possiamo farlo. Voglio dire, basta provare. Sembra che abbia delle difficoltà a controllare la rabbia. Ma parlandoci, meditando, si può sistemare, lei non crede?»
Il dottor Brennan sollevò lo sguardo e lo fissò. «Mi stai chiedendo se questo è possibile, Garfield, oppure mi stai chiedendo il permesso?»
«Non posso negare che mi piacerebbe avere una guida, dottore. La Guida per riportare Raven a casa, o quello che sarebbe. Ma mi rendo benissimo conto che la vita è fatta di scelte e sono queste a definire il nostro futuro» dichiarò il ragazzo. Fissò il dottor Brennan serio, sfidandolo a contestare ciò che aveva detto. Tempo prima era stato lo stesso dottore a dirgli quelle ultime parole, quando la fuga di Raven lo aveva tormentato al punto da renderlo quasi uno zombie.
«Garfield. Lei si rende conto che questa è una scelta di Raven, vero?».
Garfield sollevò lo sguardo piccato. Dischiuse le labbra per rispondere a tono e le parole gli si bloccarono in gola quando colse con la coda dell’occhio un movimento oltre la finestra dello studio. Sbatté gli occhi per mettere a fuoco l’imponente mostro che camminava per le strade della città, un paio di elicotteri della polizia già gli ronzavano attorno e al ragazzo ora pareva anche di sentire le grida dei civili giù in strada. «Ma che» iniziò, incapace di concludere la domanda. «Godzilla?»
Il dottore seguì il suo sguardo e strabuzzò gli occhi a sua volta, il comunicatore Titan iniziò a squillare all’improvviso e Garfield lo sfilò dalla tasca e lo aprì. La voce di Cyborg era seria, quando annunciò metallicamente:
«Mostri in centro, ti aspettiamo lì»
Garfield scambiò uno sguardo con il dottore «Sembra che la seduta sia finita, per oggi».

L’asfalto scorreva veloce sotto le ruote della moto di Robin mentre lo sguardo del ragazzo era puntato per aria, verso la creatura distante solo poche traverse. Le grida della gente erano tutt’attorno a lui, le persone si affollavano in strada abbandonando le auto ferme sulla strada intasata e zigzagando tra esse per allontanarsi dalla zona di percolo e mettersi in salvo. Invadevano totalmente la carreggiata e presto Robin avrebbe dovuto abbandonare la moto per evitare di investire qualcuno.
Fu solo allora che il ragazzo notò i piccoli, sfuggenti velociraptor che saltavano dai marciapiedi ai tettucci delle auto cercando di afferrare le loro prede. I piccoli mostri gorgogliavano, agitavano le code, piegavano le zampe per saltare di cofano in cofano e si sporgevano per azzannare le teste dei civili. Uno di loro saltò davanti ad una donna dai capelli grigi che arrancava sorreggendosi ad un bastone, le tagliò la strada e le fece perdere l’equilibrio balzandole addosso e gettandola per terra e, prima che Robin potesse fare qualunque cosa, fece scattare la mascella ed inchiodò il capo di lei contro l’asfalto, affondandovi i denti e strappando la carne dalle ossa con un movimento rapido del collo. Il sangue iniziò a zampillare imbrattando l’asfalto ed allargandosi in una grande pozza scarlatta, mentre il velociraptor sollevava il capo per masticare.
Dall’altro lato della strada un poliziotto tendeva le braccia stringendo la pistola tra le mani, trivellò di colpi un altro velociraptor che puntava una ragazza, permettendole di fuggire e rifugiarsi all’interno dell’ufficio postale assieme ad alcuni altri civili.
Saranno al sicuro, pensò Robin. Strinse le dita attorno ai freni e spostò in avanti la ruota anteriore della moto, saltando giù e lasciandola slittare sull’asfalto. Ignorò il botto della carrozzeria che investiva in pieno un o dei dinosauri, spiaccicandolo contro il fianco della prima auto abbandonata dell’ingorgo, rimasta con gli sportelli aperti nel mezzo della strada dopo una sterzata che l’aveva spedita contro un cassonetto ora rovesciato sul marciapiede pochi metri più in là.
Rotolò per alcuni metri finendo steso di schiena, sollevò le ginocchia ed usò le gambe e le braccia per darsi lo slancio e rialzarsi. Rimase fermo al centro della strada con i piedi paralleli e le mani strette a pugno solo per un istante prima di scattare in avanti e pararsi tra un predatore e due anziani spauriti. Gli occhi strabuzzati dei due spiccavano sul volto ricoperto di rughe ed i capelli avevano acquisito una nuova sfumatura di bianco.
Gettò un disco esplosivo sul marciapiede e l’urto lo fece esplodere. Lo scoppio rimbombò per la strada spaventando due dei dinosauri più vicini che arretrarono. Robin fece cenno ai due anziani di mettersi al riparo e loro si allontanarono sorreggendosi a vicenda in direzione di un gruppo di agenti che arrivavano da una traversa.
Afferrò un Birdarang e portò indietro la mano, per poi farla scattare in avanti e lanciare l’arma contro il predatore che già piegava le zampe e si preparava ad avventarsi su di lui. Il Birdarang lo colpì al collo tranciandolo di netto, l’animale fece mezzo giro su sé stesso e con un rantolo crollò al suolo, a metà tra il marciapiede e l’asfalto, schizzando di sangue la vetrina di un negozio.
Quando il Birdrang tornò indietro Robin lo afferrò, lo rimise al suo posto ed estrasse il suo bastone pieghevole, impugnandolo con tanta forza da non lasciar scorrere il sangue nelle dita.
Saltò sul cofano dell’auto che aveva davanti, fece una capriola per aria e colpì sul muso il velociraptor che, tra le auto, spalancava le fauci per affondare i denti nel suo cranio, sbattendolo contro il fianco dell’auto. Gli sportelli si incrinarono e i finestrini si infransero invadendo l’abitacolo mentre quello scivolava per terra stordito. Ma fu solo una frazione di secondo, prima che quello si riprendesse e si rialzasse con le zampe tremanti e pronto a reagire. Si voltò verso il ragazzo sbattendo la coda contro l’auto e muovendosi con difficoltà nello spazio angusto, piegandosi per venirne fuori. Robin lo colpì ancora e saltò indietro.
Colse un movimento con la coda dell’occhio e si voltò, scoprendo di averne un altro alle spalle. Era sul tettuccio di un autobus, il suono dei suoi artigli che incidevano sulla carrozzeria lo fece rabbrividire.
Si voltò facendo scorrere lo sguardo tra le auto proprio nel momento in cui il primo dinosauro gli saltava addosso, si fece scudo con il bastone per impedire ai denti affilati dell’animale di raggiungergli il volto e tenne le gambe piegate e le suole delle scarpe premute contro il suo petto per distanziarlo.
Sentì il tonfo del dinosauro che saltava dal tettuccio dell’autobus a quello dell’auto pochi metri dietro di loro, poi il velociraptor che aveva addosso spostò la testa indietro per liberarsi del bastone e fece scattare la mascella con un gorgoglio di soddisfazione, mentre le grida della gente intorno si facevano più spaventate e meno importanti.
Robin serrò le palpebre, ma non sentì mai i denti della creatura affondare nella sua carne.
La tigre dai denti a sciabola si mosse con tanta rapidità da sembrare solo una chiazza verde scagliata contro il dinosauro. Lo spinse contro l’altro e tutti e tre sfondarono il parabrezza e ruzzolarono all’interno sfondando i sedili e graffiandoli. Pezzi di stoffa e brandelli di spugna svolazzarono mentre i velociraptor si agitavano e si allungavano agitando la coda per sollevarsi dal grumo di plastica e metallo che i sedili erano diventati.
Changeling riprese sembianze umane e, dal centro del corridoio, li fissò a pugni stretti. Un canino affilato gli spuntava dal sorriso tra le labbra strette e, con il capo inclinato da un lato e lo sguardo affilato li studiò bene.
Seguì con la coda dell’occhio Robin, che lanciava due dischi elettrici su uno spinosauro, vide quello dibattersi infastidito dalle scosse prima di emettere un rantolo e scrollarsele di dosso agitando il corpo possente. La coda colpì un segnale di divieto di sosta, che si piegò arrivando addosso al dinosauro e colpendolo in testa. Ricadde di lato, comprimendo con il suo peso le tre auto più vicine.

Che fortuna, pensò Changeling. Poi riportò gli occhi sui due velociraptor e sorrise loro. Uno dei due era di nuovo in piedi e gli si avvicinava a piccoli passi osservandolo con occhietti luminosi, l’altro si alzò in quel momento ed urtò contro un sedile solo leggermente incrinato prima di tornare fermo sulle proprie zampe. Il più vicino dei due scattò in avanti, Changeling sollevò il bacino e spostò le gambe in avanti, facendosi leva con le braccia e stringendo le mani attorno agli schienali dei sedili che aveva alle spalle. Mutò in un canguro e saltò, colpendo con forza il dinosauro sul muso, quello finì addosso all’altro con un grugnito di protesta.
Changeling mutò in una scimmia e si arrampicò fuori dal veicolo, saltò sul tettuccio e, dopo aver fatto un altro salto, prese le sembianze di un elefante. Quando vi ricadde sopra il tettuccio si compresse, incastrando le due creature all’interno del pullman.
Saltò giù e raggiunse Robin, passando da cofano a cofano, guardando con occhi strabuzzati ed il volto teso gli elicotteri che ancora volavano attorno a Godzilla e continuavano a sparargli addosso.
Gli sguardi di entrambi erano puntati contro il cielo, quando quattro pterodattili emersero dal profilo degli edifici e si scagliarono contro gli elicotteri. Una serie di proiettili raggiunsero uno di loro, forandogli la membrana dell’ala in diversi punti. Lo pterodattilo batté ripetutamente le ali, finì girato di schiena e precipitò verso il basso atterrando con un tonfo e con un grido gracchiante su un grattacielo.
«Non ho assolutamente idea di chi li abbia scatenati» ammise Robin, il volto teso e le gambe stabili.
Un secondo pterodattilo si scaglio contro le pale di uno degli elicotteri, questo fu sbalzato all’indietro e perse quota. Changeling e Robin s’irrigidirono e trattennero il fiato prima che, sfrecciando velocemente nel cielo, Starfire lo afferrasse e lo trattenesse, portandolo a terra dolcemente.
Changeling deglutì. «Control Freak» disse.
«Come lo sai?» gli chiese Robin. Poco distante Cyborg puntò il suo cannone contro lo pterodattilo che planava con il becco spalancato verso Starfire. Il fumo si sollevò dalla carcassa fumante che precipitava tra gli edifici, lontana dalla loro vista.
Garfield storse il naso con un rantolo, poi si voltò verso Robin. «Oggi c’è una maratona dinosauri su AXN Sci-fi. Godzilla, Jurassic Park. Mi spiego?»
Robin sbuffò. «Tu occupati di Godzilla, dirò a Cyborg di localizzarlo»

Gli agenti formavano tre fitte file lungo tutta la larghezza della strada ed avanzavano tenendo gli scudi davanti a loro, formando una barricata. Cyborg, davanti a loro, sorresse il braccio teso, prese la mira con il cannone. Il tirannosauro fece scattare le zanne, voltò il muso nella sua direzione, gli occhi puntati addosso a lui. Cyborg sparò, colpendolo sul muso ed ustionandogli la parte destra. Una sferzata della sua coda ribaltò una motocicletta abbandonata scagliandola contro un banco di frutta e le cassette piene si rivoltarono sulla strada lasciando rotolare per terra ortaggi e frutta.
Il tirannosauro batté una zampa per terra e la strada tremò, costringendo i poliziotti ad ondeggiare sulle gambe malferme per non cadere per terra. Il suono del comunicatore avvisò il Titans del messaggio in arrivo.
«Ho bisogno che mi localizzi Control Freak» gli disse Robin. Il tirannosauro si tese verso di lui e aprì a mascella, mettendo in mostra i denti ed alitandogli addosso. Cyborg tese anche l’altro braccio, caricò entrambi i cannoni. «Sono un momento occupato, sai»
«Se trovo Control Freak fermo tutto questo» aggiunse Robin.
Cyborg sospirò. «Dammi un secondo» gli rispose. Sparò dritto al petto del tirannosauro, che fu scagliato indietro e collassò sull’asfalto con un rantolo.
Il ragazzo rilassò i muscoli, mentre una squadra speciale si avvicinava a controllare che l’animale non si rialzasse. Li vide estrarre delle reti di metallo e stenderle sopra di lui, agganciandole alla base. Distolse lo sguardo e si voltò nella direzione opposta.
«Ok, cosa ti fa pensare che ci sia dietro Control Freak?» chiese sollevando lo sguardo. Sentiva il ronzio delle pale degli elicotteri che giravano ad alta velocità sopra di lui, il rombo dei passi di Godzilla che avanzava sulla strada principale e la terra che tremava sotto il suo peso.

«Garfield dice che questi dinosauri e Godzilla vengono fuori da una maratona in tv»
Una seconda serie di ruggiti si aggiunsero ai primi ed il botto di due immensi corpi che si scontrano gli arrivò alle orecchie tanto forte da fargli vibrare il petto. Cyborg cercò uno spiraglio tra due grattacieli e scorse Godzilla con il muso sollevato. Garfield aveva preso le sue stesse sembianze e affondava i denti nel suo collo.
Il ragazzo distolse lo sguardo e picchiettò l’indice contro il mento. «Umh» fece schioccare la lingua «Qualunque cosa abbia usato per portarli nella realtà deve richiedere molta energia»
«È esattamente quello che pensavo anche io».

Sfrecciò sotto uno pterodattilo, diede le spalle al terreno e si spostò all’ombra del dinosauro. Si infilò sotto di lui, spalancando le braccia e salendo di quota. Si premette contro il suo petto e strinse le braccia attorno al lungo collo guizzante di muscoli, frenando il suo volo e facendo resistenza per trascinarlo a terra. Piegò le ginocchia e colpì con due calci paralleli l’attaccatura dell’ala, incrinandone le ossa. L’animale si agitò, le ali persero forza e si afflosciarono ai lati. Starfire lo accompagnò piano a terra, depositandolo nel centro di un incrocio. Lo pterodattilo si dimenava spaventato, sollevava il muso verso il cielo e gridava dal dolore e dalla paura.
La giovane sfrecciò via; la voce del capitano dei corpi speciali sovrastò il grido dello pterodattilo «La rete!». I soldati si mossero in sincrono e si disposero in cerchio attorno al dinosauro. Due punti di un lato della rete erano agganciati a due fucili in mano a due soldati, che sollevarono le armi verso il cielo e, all’ordine: «Ora!» del loro capitano spararono. L’estremità della rete sfrecciò in aria, formò un arco nel cielo e ricadde dall’altro lato, i soldati sollevarono le braccia e la afferrarono al volo, tirandola a terra e bloccandola.
Lo pterodattilo scalciò, tese il collo e si agitò liberandosi da un lato. Il soldato che reggeva quel pezzo di rete fu sbalzato all’indietro e ruzzolò sull’asfalto urtando il palo del semaforo. Starfire planò al posto del soldato ed afferrò la rete, bloccandola. Costrinse il dinosauro ad abbassarsi e assieme alla squadra speciale strinse la rete fino a quando non fu immobilizzato.
Bloccarono la rete, il capitano si voltò verso di lei e le disse: «Grazie» ma lei era già volata via, verso l’ultimo pterodattilo. Gli sorrise e volò attorno ai due Godzilla, quello vero stava mordendo Garfield a una spalla e lo tartassò di Starbolt fino a quando non lo lasciò andare.

Ciò che era rimasto del caos e del traffico di quella mattina erano le auto abbandonate sulla carreggiata, con gli sportelli aperti, a tratti ammaccate. Le impronte dei velociraptor erano impresse sui cofani, alcuni finestrini infranti e l’asfalto macchiato di sangue.
Le sirene delle ambulanze e della polizia giungevano ovattate sulla strada principale, gli elicotteri sorvolavano le aree adiacenti. Se non fosse stato per il chiasso degli allarmi Robin avrebbe potuto pensare di essere finito in una bolla ai confini della realtà.
Fuori da quella zona di mostruosa calma i cittadini combattevano ancora l’invasione; sentiva le grida, vedeva con la coda dell’occhio l’enorme massa verde scontrarsi con quella grigia e spingerla indietro per impedirle di guadagnare terreno.
Teneva il localizzatore davanti al volto e controllava continuamente la direzione, mentre girava attorno all’imponente edificio di mattoni che ospitava alcuni negozi di videogiochi, di elettronica e un supermercato.
L’ampio marciapiede era diventato una cascata d’acqua per via di un idrante rotto pochi metri più in là e la carcassa di un velociraptor era abbandonata nella pozza, ancora scossa a tratti dalle scariche elettriche di un cavo della tensione caduto lì accanto.
Le scintille piovevano sull’asfalto, rendendogli impossibile avvicinarsi ulteriormente al punto da cui proveniva il segnale.
Sbuffò, agganciò il localizzatore alla cintura e strizzò gli occhi per scrutare l’interno del negozio di elettronica attraverso la vetrina infranta. I vetri erano all’esterno, gli scaffali del negozio erano rovesciati per terra e la merce disseminata in direzione della vetrina, buttata per terra da qualunque cosa si fosse precipitata fuori facendo quel disastro.
Potrebbe essere stato il velociraptor morto qui. Pensò Robin calcolando la distanza che lo separava dall’interno del negozio. Sfilò l’arpione dalla cintura, lo sparò contro l’infisso della vetrina e poi si aggrappò alla corda per oltrepassare la pozza d’acqua restando sospeso per aria. Giunto a metà si diede lo slancio con le gambe e lasciò la presa per scivolare oltre la parete aperta, piegando le ginocchia ed atterrando agilmente sul pavimento del negozio. Una lampada oscillava precariamente pendendo dal soffitto, sganciata da un lato, e dovette scostarla di lato con una mano per potersi immettere nella corsia centrale, l’unica abbastanza sgombra da permettergli di avanzare senza il rischio di inciampare ad ogni passo.
Riprese in mano il localizzatore e seguire il puntino luminoso lo condusse alla porta sul retro.
Se non è qui sarà sopra di me o sotto di me, devo solo trovare un modo per arrivarci.
Una scalinata buia lo aspettava oltre la porta e scendeva fino a perdersi in quello che doveva essere uno scantinato di cui non riusciva a distinguere i contorni. Impugnò la torcia e strinse il bastone tendendolo in avanti come difesa, mentre scendeva cauto un gradino per volta man mano che li illuminava.
Arrivato in fondo alla rampa trovò una serie di scaffali affiancati e ricolmi di pacchi ancora imballati tra i quali si formavano stretti corridoi per il passaggio dei magazzinieri. Un ronzio persistente gli faceva vibrare la pianta dei piedi dal fondo di una di esse, la seguì fino a trovare sul pavimento una grata divelta e quando vi si sporse vide il criminale che cercava, intento a gioire e ad agitare le braccia sollevate sopra la testa mentre guardava un notiziario da un piccolo apparecchio poggiato sopra un tavolino.
Al centro della stanza c’era una grossa consolle coperto di tasti lampeggianti e manopole, sul lato era accostato alla parete un altro tavolo con un bizzarro macchinario composto da una piattaforma e due braccia in ferro che sorreggevano due coni ricoperti da bracciali di ferro puntati l’uno contro l’altro, qualcosa rigettava luce azzurrina e ondeggiante sul pavimento da una terza parete che da dov’era Robin non poteva scorgere.
Spense la torcia, la riagganciò alla cintura e poggiò i palmi sul bordo del tombino per far leva sulle braccia, issarsi e infilarvi le gambe dentro. Scivolò giù senza problemi ed atterrò sul pavimento ricoperto di muffa con un tonfo, stringendo il manico del bastone che portò davanti al volto e brandì contro Control Freak: dal punto in cui era atterrato l’unica cosa che li separava era la consolle lampeggiante ed se si fosse sporto abbastanza avrebbe potuto sfiorare il criminale, ma non sarebbe riuscito ad avere una presa ferma su di lui da impedirgli di divincolarsi.
«Arrenditi adesso. Richiama i tuoi animaletti e lascia che ti sbatta in prigione una volta per tutte» gli disse. Control Freak smise di ondeggiare e si voltò, ancora con le mani sollevate e sorridendogli, i tasti fosforescenti illuminavano le sporgenze del suo viso formando cupe ombre nere nell’incavo degli occhi, da cui emergeva il luccichio degli occhietti assottigliati dalla smorfia del volto. «Ti stavo aspettando» disse agitando i fianchi un’ultima volta in una inquietante imitazione del ballo della giraffa ubriaca. Fece un cenno alle sue spalle ed il ragazzo ne seguì lo sguardo verso la parete che non aveva ancora visto per scoprire una serie di vecchi schermi impilati uno sull’altro, da cui si vedevano la strada da cui era venuto ed il negozio da cui era sceso, più diverse zone in cui gli agenti di polizia ancora affrontavano alcuni dinosauri e una pessima inquadratura laterale dei Godzilla.
Colse con la coda dell’occhio un movimento di Control Freak e si avventò su di lui scavalcando la consolle, ma il dito di lui era già calato su uno dei bottoni e lo strano marchingegno con la piattaforma ed i due coni che stava addossato alla parete si accese ed iniziò a ronzare mentre i due finivano per terra avvinghiati. «Non vedevo l’ora di farti vedere questo!» rise Control freak. «Anche se sono certo che BeastBoy l’avrebbe apprezzato di più»
Robin estrasse un paio di manette e gliele infilò ai polsi, poi riprese i comunicatore e contattò Cyborg. «Il nostro amico, qui, sta tirando fuori qualcos’altro dalla televisione» gli disse, inquadrando l’agglomerato di triangoli di luce gialli ed arancioni che si scontravano e scivolavano tra loro incapaci di trovare un equilibrio. «Sapevo che non avresti capito» lo schernì Control Freak «Tu sei più un tipo da polizieschi»
«Spegni quell’affare» disse Cyborg. «Ci deve essere un pannello di controllo, trovalo e ti dirò come fare»
Robin sorrise «Ce l’ho davanti» disse, poggiò il comunicatore sul bordo ma quello volò verso l’agglomerato di luci e ne venne inghiottito.
«Dannazione!» esclamò Robin scatenando uno scoppio di risa in Control Freak.
«Se avessi visto il telefilm sapresti dell’attrazione magnetica! Sarebbe stato più divertente se ci fosse stato BeastBoy, qui» disse riprendendo fiato.
Sbuffò, cercò il filo della corrente a cui a consolle era collegata e lo tagliò in due interrompendo l’alimentazione. Le luci dei tasti si spensero, l’agglomerato di luci si allargò come se stesse per esplodere, poi si contrasse, si allargo ancora ed in fine implose scintillando e svanendo senza lasciare traccia di essere mai esistito.
«Non capisci!» esclamò Control Freak agitando le gambe per sollevarsi da terra. «Non potrai mai apprezzare la magnificenza di questo telefilm e la genialità delle sue creature del futuro!»
«Me lo farò spiegare da Changeling - ora si fa chiamare così - dopo che ti avrò sbattuto in cella, o in manicomio» ribatté Robin con un sorriso nel vedere attraverso gli schermi i dinosauri che svanivano. Spostò la sua attenzione sul piccolo schermo in disparte sintonizzato sul telegiornale e si godette la vittoria dei Titans attraverso gli occhi dei giornalisti. Vide Starfire accennare un sorriso alla telecamera con volto pallido, la vide fare una smorfia e resistere alla forza di gravità più che poté prima di perdere i sensi e scivolare giù tra i grattacieli in caduta libera.



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Tatatatan! Indovinate chi torna dopo un’eternità?
Lo so, lo so, mi sono fatta attendere. Giuro che sono mesi che cerco di finire decentemente questo capitolo, ma non riuscivo a farmelo piacere ed ho dovuto riscrivere alcuni pezzi più volte. Spero che il risultato sia almeno decente e che la lunghezza (è il capitolo più lungo che io abbia mai scritto in vita mia, ne sono certa) sia valsa la pena dell’attesa.
Cioè, gente… Sono quasi 10 pagine di word, di solito ne scrivo 4, massimo 6 XD


Baci, Genius

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Capitolo 11
*** Quello che il demone non dice ***


CAPITOLO 10
Quello che il demone non dice



Raven tenne lo sguardo fisso sullo schermo del televisore e raddrizzò la schiena sporgendosi in avanti e serrando le dita attorno al bracciolo del divano con tanta forza da farle diventare bianche.
Starfire precipitò al suolo con tanta rapidità che la telecamera non fu in grado di seguirla.
Raven scattò in piedi, portandosi una mano a coprire la bocca per mascherare un gemito di preoccupazione. Nel bagno alla destra della stanza, oltre la porta aperta, il rubinetto del lavandino schizzò in aria, rimbalzando contro il soffitto e finendo affianco al water. Un possente getto d’acqua iniziò a zampillare verso l’alto e schizzò lo specchio, allagando il pavimento.
Con gli occhi sgranati ed il volto teso, Raven era pronta a recitare il suo mantra per fermare la caduta di Starfire. Si rese conto con un gemito di essere troppo lontana per essere d’aiuto.
Lilith, ancora seduta immobile sul cuscino, la fissava sbattendo gli occhi ed un’espressione che era quasi lo specchio di quella della sua. Non riusciva ad isolare l’ansia di lei dalle sue sensazioni personali, quindi l’aura nera dei suoi poteri che si dipanava attorno a lei fece esplodere una bottiglia piena d’acqua e mandò in frantumi un bicchiere.
Il servizio televisivo proseguiva, Raven non osava distoglierne lo sguardo. Non aveva mai visto Starfire crollare in quel modo sul campo di battaglia. L’amica si era sempre ripresa in fretta, ed era sempre tornata a spalleggiare i suoi compagni in breve tempo. L’inquadratura si concentrò sulla sua caduta, Beastboy si trasformò in uno pterodattilo e planò su Starfire, avvolse gli artigli attorno alle braccia dell’aliena ad un paio di metri dal suolo, poi planò con dolcezza e la depositò piano sul marciapiede. Tornò umano immediatamente dopo e, con un sospiro ed un sorriso mesto, fece cenno agli altri Titans che la ragazza stava bene. Anche se lei non si era mossa né aveva dato segno di aver ripreso i sensi.
Raven sospirò e rilassò le spalle, portò una mano al petto e sorrise. La percezione del mondo attorno a lei tornò vivida. Mosse le dita dei piedi nudi sul pavimento, l’acqua stava per raggiungere il tappeto ricoperto di cocci di vetro.
Smise di prestare attenzione alla televisione. Tratteneva ancora il fiato e tremava leggermente. Sollevò le mani fino a sfiorarsi il mento e le labbra serrate, poi si voltò di scatto verso il terrazzino. Oltre il vetro, in lontananza, riusciva a vedere le sagome di due dei grattacieli che aveva riconosciuto in televisione. Era il luogo in cui si stava svolgendo lo scontro.
Dovrei essere lì, dovrei essere con loro. Si disse Raven. Se fossi lì potrei fare qualcosa per Kori.
Si mosse tra il divano ed il tavolino, afferrò la maniglia della portafinestra spalancandola. Deglutì e mise i piedi sulla pietra chiara e fredda dell’esterno, pronta a spiccare il volo per raggiungere i suoi vecchi amici. Una macchia di oscurità prese vita alle sue spalle, Belial ne emerse con uno scatto e le afferrò il polso con la mano fredda.
La ragazza rabbrividì, si voltò e deglutì.
Belial. Mi dispiace, ma i miei amici hanno bisogno di me.
Gli occhi cechi del ragazzo erano puntati su di lei, tanto da sembrare che riuscissero a vederla per davvero. Raven lasciò la maniglia e fissò il ragazzo in quegli occhi.
La sua mente si ribellò. Lasciami andare, hanno bisogno di me.
«Raven» mormorò Belial tra i denti «Cosa è successo? Riesco a sentire la tua ansia»
La ragazza si voltò ancora una volta verso i grattacieli, strattonò il braccio per liberarsi dalla sua presa, ma lui la strinse più forte.
«I Titans» gli disse con voce rotta. «Starfire è caduta. Non si è rialzata. Devo andare a controllare che stia bene»
«Starà bene» disse Belial. Non si mosse né le permise di allontanarsi.
Raven insisté. «Hanno bisogno del mio aiuto»
Ti prego, lasciami andare. Tornerò il prima possibile, ma non posso lasciarli così.
Lui provò a riportarla dentro casa. «Staranno bene. Noi abbiamo cose più importanti a cui pensare» disse a denti stretti.
«No!» sbottò Raven. Strinse le dita della mano libera attorno quelle di lui, provando a liberarsi. Ma la presa di lui divenne tanto ferrea da bloccarle il sangue. «Io devo raggiungerli, devo dire loro perché me ne sono andata, devo spiegargli tutto»
Una scarica di energia demoniaca aprì numerose crepare nel vetro della portafinestra.
Lilith strinse la testa tra le mani, sollevò le ginocchia e vi poggio sopra la fronte. La tensione empatica presente nella stanza quasi la soffocava, un vaso esplose e due finestre si infransero. I cocci schizzarono addosso ai tre, lasciando striature rosse sulla loro pelle.
Belial sollevò una mano per cercare a tentoni il viso di Raven. Le sfiorò la guancia e le disse:
«Raven, non stai ragionando! Se vai adesso avremo fatto tutto questo per niente!»
La ragazza scosse la testa, conficcò le unghie nel polso di lui e si corrucciò. Non c’è nulla che possa ostacolarci, in quello che devo fare adesso. Non c’è ragione per cui aiutarli possa metterci in difficoltà.
«No. Invece è adesso che sto ragionando, dopo tanto tempo» scosse la testa, abbassò gli occhi e li fece scorrere su Lilith. La bambina era arretrata, la schiena premuta contro i cuscini del divano come se potessero salvarla da quella discussione, gli occhi sgranati ed il respiro corto.
Come ho fatto a pensare che non dire nulla potesse essere la scelta migliore? Cosa mi è preso? Dopo tutto quello che è successo, dopo quello che abbiamo passato insieme…
Belial strinse i denti, pose il palmo sulla nuca di Raven e le tirò con forza il viso contro il suo. Le loro fronti picchiarono l’una contro l’altra e lui strinse le dita tra i capelli di lei per impedirle di divincolarsi. «Loro non hanno bisogno te» disse. La lasciò andare, sentendola di nuovo docile nella sua presa. Sorrise. «Loro staranno bene. È per questo che non gli hai detto nulla». Le accarezzò una guancia. «Se loro sapessero vorrebbero aiutarti e rischierebbero di farsi male. E poi queste sono questioni da risolvere in famiglia»
Raven si morse il labbro e chinò il capo. Sollevò gli occhi per guardare ancora il profilo di quegli edifici, poi Lilith e Belial.
Staranno bene, se vado adesso finirò per metterli in pericolo. Devo pensare a Trigon, adesso. Non posso permettere che si facciano del male a causa mia.
Belial la lasciò andare, indietreggiò e mise un piede su un frammento di vetri, infrangendolo con un sonoro crack. Si accostò al divano per sorreggersi, sollevò il piede ferito mentre bloccava un’esclamazione sul fondo della gola.
Il sangue iniziò a gocciolare sul pavimento, formando piccoli cerchi e striature rosse nella pozza d’acqua che si allargava tra il bagno ed il salotto.
Lilith si sollevò e gattonò sui cuscini del divano fino ad arrivare alle spalle del ragazzo, sbirciò da sopra la sua spalla e sollevò gli occhi verso la sorella.
Raven, ancora ferma davanti alla finestra, ricambiò lo sguardo per un istante prima di voltarsi verso il tavolino che stava davanti alla televisione. C’era un pacco di fazzoletti abbandonato, tese la mano in quella direzione e quello fu avvolto da uno strato di energia scura oscillante e fluttuò verso di lei.
«Mi dispiace» disse a Belial, inginocchiandosi davanti a lui. Sollevò il piede ferito con dolcezza, mosse la mano con leggerezza, quasi come avrebbe fatto in un oceano per smuovere dell’acqua verso sé, e la scheggia di vetro uscì dalla carne fluttuando in aria. Lasciò che cadesse a terra, poggiò le dita sul taglio ed usò i suoi poteri per curarlo.
Devo solo finire questa cosa con la mia famiglia, poi potrò tornare dai Titans, se ancora mi vorranno con loro.

Victor fissò il monitor che ronzava.
Il bip regolare dell’elettrocardiogramma era perfettamente sincronizzato con il battito del cuore di Koriand’r, che stava seduta sul vecchio letto cigolante dell’infermeria della torre. Il respiro della ragazza era leggero e normale, mentre guardava Victor studiare le sue analisi.
Il ragazzo si strofinò una mano dietro la nuca, afferrò l’angolo di una pagina e la sollevò per sbirciare la successiva. Deglutì, serrò le labbra e riabbassò il foglio evitando lo sguardo dell’amica.
«Qui è tutto normale. È stato solo un calo di pressione e per qualche minuto non è arrivato abbastanza sangue al cervello, quindi hai perso i sensi. Basterebbe che tu mangiassi per riprendere le forze»
Strinse le dita sulla carta fino a stropicciarla ed abbassò il braccio nascondendolo dietro la schiena.
Quando alzò lo sguardo Koriand’r lo stava fissando. Strinse il pugno, fece un passo verso di lei e poggiò il palmo sulla sua fronte.
Poi si ritrasse, puntò i piedi accanto al letto e tese le braccia lungo i fianchi. «Sì, sono certo che ti basterà mettere qualcosa sotto i denti e riposare. Domani mattina starai meglio»
Kori scosse il capo lentamente, sollevò la coperta spostandola di lato e fece scivolare una gamba giù dal letto. Quando vi poggiò sopra le mani e vi fece leva per alzarsi Il materasso ondeggiò sotto il suo peso. Si morse il labbro e trattenne il fiato. Victor la afferrò per le spalle e la spinse contro il cuscino.
La ragazza sollevò la mano e strinse due dita alla radice del naso, inspirando. «Non sono umana, Vic. Questa non è una cosa che dovrebbe succedermi»
Lui le sorrise, poggiando il referto medico sul comodino. «Lo so, lo so». Le sollevò le gambe e le risistemò sul letto, afferrò la coperta e la incastrò sotto il materasso, spingendola sotto fin quando non vide che lei non riusciva più a muoversi. Sospirò e le si sedette affianco. «Stavo solo cercando di tranquillizzarti ed a parte il salto della colazione di questa mattina non ci sono altre ragioni che potrebbero giustificare il tuo svenimento». Si grattò la guancia e distolse ancora lo sguardo, battendo il tallone del piede contro il pavimento. «Senti, sinceramente non so che altro dirti, se non di riposare più che puoi».
Le strinse la mano e puntò gli occhi nei suoi con un sospiro. «Ti terrò in osservazione, anche se non so cosa devo davvero osservare». Le lasciò la mano, sollevò il braccio e si strofinò le dita ai lati della fronte, mentre la metà umana del suo volto si tendeva in una smorfia.
Koriand’r spostò lo sguardo verso la parete affianco alla porta d’ingresso, strinse la coperta tra le mani e strofinò le gambe contro e lenzuola. Sollevò il volto con uno scatto e tese le labbra in un sorriso. «Va bene allora. Riposerò»
Portò il braccio dietro la schiena e sollevò il cuscino fino all’altezza del collo, abbandonò la testa contro la parete ed incrociò le braccia. Chiuse gli occhi e sospirò.
Cyborg le sfiorò in braccio e strinse le labbra. «Ti prometto che farò il possibile per fati stare meglio» si alzò, afferrò i fogli delle analisi e guardò ancora una volta il monitor. «Meglio che vada, ora».
Raggiunse la porta a grandi falcate e spinse il pulsante di apertura. La porta di metallo si aprì, fino a scivolare interamente all’interno della parete. Si fermò di colpo; Richard era immobile dietro la porta, a testa bassa e con il vassoio del pranzo tra le mani.
Alzò il volto e guardò Cyborg, aprì la bocca per porre una domanda, ma l’amico lo precedette, «Deve stare a riposo, le analisi non hanno trovato nulla che non vada». Gli diede una pacca sulla spalla, lo spinse dentro la stanza e si allontanò lungo il corridoio.
La porta scorrevole si chiuse alle spalle di Richard, Koriand’r rizzò la schiena e trattenne il fiato, sorridendogli e stringendo ancora il lenzuolo.
«Dick» mormorò. Si morse il labbro e sollevò le spalle, sporgendosi in avanti e stringendosi le mani sollevandole davanti al volto. Stette in silenzio mentre il ragazzo le si avvicinava lentamente, e sorrise nel vederlo esitare davanti a lei. «Tutto bene?» gli domandò.
Richard sospirò e chiuse gli occhi, poi li riaprì e poggiò il vassoio sul comodino, avvicinandosi a Koriand’r e sedendosi sul bordo del letto, là dove fino a poco prima era stato Cyborg. Allungò una mano e la tenne sospesa tra il piatto di minestra, il tubetto di maionese, il panino ed il bicchiere di succo di frutta. Sollevò lo sguardo verso il monitor, batté due dita sulla coperta ed afferrò il panino spezzandolo in due. Ne porse un pezzo alla ragazza e rimise l’altro al suo posto, mentre Koriand’r addentava l’altro.
«Grazie» gli disse lei a bocca piena. Masticò ed ingoiò, portò il pezzo di pane alla bocca per dare un altro morso, ma si interruppe e guardò Richard in faccia. Lui invece evitava il suo sguardo. Allungò una mano e gli sfiorò il braccio, stringendogli la felpa tra le dita e strattonandolo per avvicinarlo. «Stai bene?» gli domandò con un sorriso.
Lui scosse la testa, alzò lo sguardo su Koriand’r e scosse il braccio, sciogliendo la sua presa, facendo scivolare la mano in quella di lei e stringendola. «Dovrei essere io a chiederlo a te» disse. Passò i polpastrelli sul polso della ragazza e sollevò gli occhi su di lei, mentre l’espressione tesa crepava leggermente e le labbra si contorcevano in una smorfia. Si alzò le avvolse un braccio attorno alle spalle, spingendo la sua testa contro il proprio petto e stringendola a sé. «Avrei dovuto stare più attento» le disse contrò l’orecchio in un alito caldo. «Avrei dovuto impedire che ti facessi male. Pensavo che ti avrei persa»
Il pezzo di pane le sfuggì di mano e rotolò a terra fino ad urtare contro la gamba del comodino. «Come sai sono più dura di quanto pensi» sorrise, lo afferrò per le spalle e lo spinse via fino a guardarlo in faccia. «Ma è stato molto dolce da parte tua preoccuparti per me». Sbatté gli occhi e scrollò le spalle come se fosse una cosa da niente, poggiò le mani sulle guance di Richard e si sporse verso di lui per baciarlo. Il ragazzo arrossì irrigidendosi, ma quando sentì le labbra di lei sulle sue si rilassò e le avvolse le braccia attorno alla vita avvicinandola a sé. Il tum-tum del cuore di Koriand’r era amplificato dalle macchine ed era il solo rumore nella stanza.

I passi pesanti di Victor rimbombavano tra le pareti mentre lui proseguiva lungo il corridoio, lasciando impronte lucide sul pavimento impolverato. Da una delle porte in fondo proveniva una canzone rap, e la voce di Garfield seguiva perfettamente il ritmo delle parole e della musica.
Batté le dita contro la gamba di metallo e il ticchettio che ne derivò rimase offuscato dalla musica. Victor raggiunse l’ultima porta e premette il bottone d’apertura, quella scivolò dentro la parete cigolando lievemente e Garfield, all’interno della stanza, sobbalzò e si voltò a fissarle l’amico nascondendo malamente una pianta dietro la schiena. Perse l’equilibrio dopo aver poggiato la scarpa su una montagnola di terra umida, il piede gli scivolò di lato. «Posso spiegare!» disse. Perse la presa sul vaso e questo scivolò sul pavimento rompendosi mentre lui si raddrizzava e si sforzava di non rovinare a terra. Riuscì a riportare i piedi paralleli e tese le gambe rigido, mentre il sorriso si incrinava in una smorfia e le labbra si assottigliavano.
Victor fece scorrere lo sguardo sull’ampia camera, le vetrate larghe permettevano alla luce di inondare completamente la stanza, varie piante erano ammucchiate ai lati della porta mentre vasi di varie dimensioni erano alle spalle di Garfield, pronti per essere riempiti.
Seguirono alcuni secondi di silenzio in cui Victor ignorò gli occhi sgranati di Garfield puntati su di lui, incrociò le braccia e strinse le spalle. «Allora?» domandò. «Sto aspettando»
Il mutaforma sussultò, scosse la testa e si batté le mani sulle guance come per riprendersi prima di saltellare tra una paletta ed un paio di guanti da giardiniere per. «La sorellina di Raven è per metà ninfa» iniziò agitando le mani verso le piante, ma Cyborg sollevò un braccio e gli fece cenno di fermarsi, picchiettandosi la fronte con un dito.
«E ci risiamo» sospirò «Pensavo che avessi lasciato perdere»
Gli occhi di Garfield si affilarono al punto che le sopracciglia parevano quasi toccarsi, ma Victor non lo lasciò ribattere. «Senti, io non ho visto nulla e non so nulla» lo vide sorridere e gli diede un leggero buffetto. «Ma se le cose non andranno come speri, non» chiuse gli occhi cercando le parole giuste. «Non aspettarti che le cose vadano come speri, ecco».

Passi cadenzati. Erano distanti, soffocati da bassi gemiti e piagnucolii.
Evren chiuse gli occhi e ispirò a pieni polmoni, l’aria era viziata, carica dell’odore di polvere che si era accumulata negli anni. Si concentrò sulle proprie mani; immaginò l’esplosione di calore che circonda le dita quando affonda le mani nella carne di un essere vivente. La sensazione viscida del sangue che gli ricopre il braccio, gli schizzi che gli bagnano il volto.
Sorrise, trepidante.
I passi erano sempre più vicini, i fastidiosi piagnucolii dell’Incubo crescevano di intensità.
Così inetto e rumoroso, dischiuse le palpebre: i raggi del sole si gettavano nella sala attraverso i buchi nel soffitto, tagliando l’oscurità sotto forma di decine di piccole lame oblique.
Ci fu un tonfo, i piagnucolii dell’Incubo furono spezzati da un gemito di dolore.
Evren sorrise, non ti darò nemmeno il tempo di emettere un fiato, si voltò con lentezza esasperante, concentrandosi sui ogni suono. Il lieve tonfo degli scarponi, il fruscio del mantello di scaglie nere, i battiti furiosi del cuore dell’Incubo. Erano così forti che non riusciva a percepire quelli controllati di Belial.
Poco più avanti rispetto all’entrata, il suo amato fratellino era in piedi e composto. Steso di fianco a lui, l’Incubo era trattenuto con la faccia premuta a terra da una catena di energia. Evren sfregò i polpastrelli di pollice e indice, aveva i muscoli del braccio tesi e pronti a scattare «Belial, ti prego» disse, chissà se nella sua voce c’era quel tono lievemente corrucciato che sperava di avere «Un po’ di gentilezza per un nostro compagno».
Un angolo della bocca di Belial tremò appena, come se stesse trattenendo a fatica un sospiro irritato. Le catene che legavano l’Incubo brillarono più intensamente, prima di scomporsi in frammenti irregolari. Gli occhi del demone si fecero più piccoli, alzò il busto, rivolgendogli uno sguardo confuso. Dischiuse le labbra. Evren scosse la testa e mosse la mano come per scacciare una mosca; i muscoli del braccio erano sempre più rigidi e desiderosi di scattare «Via, non dire niente» lo fece alzare e gli rivolse un sorriso carico di aspettativa.
Gli piantò la mano nel petto.
L’essere ebbe uno spasmo; Evren avvicinò appena il volto, spingendo con il braccio più in profondità, fino a stringergli il cuore. L’Incubo mosse la bocca senza riuscire a emettere fiato, il sorriso di Evren si fece più dolce «Shhh, non sforzarti» Estrasse la mano di scatto, il cuore pulsante ancora stretto tra le proprie dita, mentre sferrava un calcio nello stomaco del demone «Mi ero ripromesso di tapparti la bocca». Cadde mentre Belial si passava la mano sulla guancia, arricciando il naso, probabilmente seccato dal grosso schizzo di sangue che l’aveva raggiunto.
Con un movimento secco, Evren piantò il piede nel centro del petto del mostro. Il gemito di dolore risuonò per tutta la sala e rimbombò fino a distorcersi. Poi l’Incubo smise di muoversi.
Finalmente.
Lasciò cadere il cuore a terra; quando quello era ancora a mezz’aria, una scintilla azzurra scaturì dalla pelle nera e proruppe, inghiottendo l’organo in un fuoco vivo. Evren sospirò, scosse la mano sporca di sangue per scrollarselo via. Era troppo denso e maleodorante per i suoi gusti, Beh, dopo aver bevuto quello di una ninfa è difficile trovare qualcosa di meglio.
«Allora, fratellino» attaccò in direzione di Belial, che aveva fatto un passo in dietro per evitare di essere schizzato «La prossima volta gradirei affidassi le missioni a qualcuno di competente» si mordicchiò l’interno della guancia, meditabondo «Non vorrei che il compleanno di Rae venisse rovinato da invitati imprevisti»

Richard contrasse le dita sul foglio che stringeva, le rivelazioni a cui era giunto non lasciavano molti dubbi, né speranze sull’utilità di quell’incantesimo.
«Spero davvero che i ragazzi abbiano ragione» sussurrò infine, depositando le carte sulla scrivania e sollevando gli occhi sulla vecchia foto di gruppo che non aveva mai avuto il coraggio di togliere dalla parete.


***

Come potete vedere a volte ci vuole un po’, ma il nuovo capitolo arriva sempre, quindi non perdete mai le speranze XD
Ringrazio Digital che ha scritto il pezzo con Evren perché io non ne avevo voglia <3

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Capitolo 12
*** Un altro giorno come quel giorno ***


La luce nascente del primo mattino non aveva ancora raggiunto la vecchia biblioteca abbandonata, che restava ancora immersa nel suo cupo silenzio e preda di quell’aura oscura che soffiava fuori dall’invisibile frattura che dava su un altro mondo. Scendendo verso l’oscurità il ragazzo lasciava dietro di sé dei piccoli solchi sulla terra che si era accumulata nel tempo, scoprendo piccole porzioni del pavimento di pietra nascosto da anni di polvere.
Il mantello ondeggiava dietro di lui, celando le sue possenti spalle sotto la pelle nera e la spada scarlatta, ben assicurata al suo fianco, scintillava ancora del sangue scuro dell’ultimo demone che aveva ucciso.
La sala del rito si aprì davanti ai suoi occhi appena giunto in fondo alle scale, dal soffitto sfondato si riusciva a vedere solo la volta del piano superiore, ricoperto di arabeschi e affreschi di miti greci e creature straordinarie, come la sagoma del Minotauro illuminata in un angolo alle prime luci del mattino e le fauci di un dragone spalancate nell’atto di sputare fuoco. Evren sorrise in quella direzione, girando attorno ad un grosso pezzo di soffitto crollato per raggiungere il centro della stanza.
Non aveva bisogno di ulteriori fonti di luce per vedere bene anche in quell’ambiente, estrasse la spada e ne scagliò la punta contro il pavimento, incidendo nella pietra per quanto la lama glielo permetteva.
 
Victor sollevò la scatola dei videogiochi e la rigirò sul tavolino della stanza principale, beandosi del rumore dei dischetti che urtavano contro la superficie lucida e lasciando cadere il contenitore per disporli in una fila ordinata davanti a sé. Osservò per l’ennesima volta ogni familiare copertina, seguendo al contempo con la coda degli occhi il lieve ondeggiare della figura di Garfield, fermo davanti alla vetrata a scrutare pensieroso la città con la tazza della colazione stretta tra le mani.
Fece fare mezzo giro al polso, quasi fosse un gesto di un illusionista, e calò la mano puntando l’indice contro una delle confezioni, premendone il polpastrello al punto da creare una piccola conca sulla copertina in plastica. «Mega Monkeys 8?» domandò sollevando lo sguardo verso l’amico con un sorriso.
Vide le spalle e la testa dell’amico abbandonarsi pesanti alla forza di gravità ed ebbe una visione più chiara della sua nuca dalla quale trasudava uno sconforto tale da appesantire anche il suo cuore e farlo scivolare con un tonfo fino al fondo del suo stomaco contorto.
«No» gli rispose, rigirandosi la tazza tra le mani e risollevando la testa verso uno dei piccoli agglomerati di nuvole che interrompevano la sfumatura azzurra del cielo mattutino.
Victor prese tra le dita Mega Monkeys 8 e lo lanciò nella scatola con uno sbuffo, batté il piede per terra ripetutamente ed ignorò l’aura cupa che l’amico emanava da ogni poro per ritentare spudoratamente a coinvolgerlo in qualcosa: «GTA?»
«No» ribadì Garfield spostando il peso da un piede all’altro, dondolò lievemente facendo ondeggiare pericolosamente il latte caldo nella tazza, fin quasi a farlo schizzare fuori dal bordo, ma si voltò solo nel sentire la porta scorrevole che scivolava e scompariva nella parete e Kori che irrompeva nella stanza a passo svelto.
Il «Buongiorno!» della ragazza rimbalzò allegro sulle pareti, quasi rompendo la bolla di aura scura che Garfield aveva avuto attorno fin dalle prime luci del mattino, contagiandolo in un seppur mesto sorriso. «Non trovate che sia una giornata fantastica, amici?» domandò loro candidamente spalancando le ante dei mobili della cucina e iniziando a frugare tra le padelle tintinnanti alla ricerca di qualcosa. Non aspettò che uno di loro le rispondesse e proseguì il suo discorso con voce squillante: «Vorrei fare dei waffle» disse mentre apriva il cassetto delle posate ed afferrava una spatola, «o forse delle crepés, non lo so» continuò spostando le pentole sul tavolo e lanciandoci dentro un mestolo. Spalancò il frigo e batté le unghie contro uno degli scaffali sorridendo apertamente: «Potrei inventare una nuova ricetta unendo i waffle alle crepés e voi mi darete un giudizio»
Cyborg deglutì e batté i palmi l’uno contro l’altro mentre balzava in piedi. La raggiunse dimenticando i videogiochi e le mise un braccio intorno alle spalle amichevolmente per impedirle di fermarlo dal rimettere a posto tutte quelle padelle inutili. «Perché non ti limiti a seguire le ricette terrestri alla lettera ancora per un po’, prima di darti alle sperimentazioni?»
La lasciò andare per riporre la spatola nel cassetto delle posate e la spinse a sedersi a tavola per afferrare una tazza, del latte e dei cereali. «Dovresti riposare e limitarti a pasti semplici o lasciar cucinare noi altri per un po’»
«Sto bene, adesso» gli disse lei stringendosi nelle spalle con un sorriso, guardò prima Victor che le versava il latte ed i cereali nella ciotola e poi Garfield che la scrutava di profilo, restando in controluce davanti alla finestra. «Davvero, sono felice di cucinare per voi»
«Grazie, ma abbiamo già fatto colazione» le disse Garfield. Mandò giù con un poco educato gorgoglio gli ultimi sorsi di latte come per rimarcare il concetto. E mentre accarezzava lentamente la testa di Kori Victor lo sentì sussurrare, rivolto di nuovo verso la città: «Buon compleanno, Raven».
 
Dalla finestra della camera che Raven aveva scelto di occupare si vedeva gran parte di Jump City e, oltre il profilo dei grattacieli, la Torre Titans svettava sulla sua isola stagliandosi contro il cielo azzurro leggermente chiazzato di nuvole chiare; era bianca e scintillante dei riflessi dell’acqua della baia.
La ragazza fluttuava nella posizione del loto ma aveva smesso di meditare già da molto tempo ed ora si limitava a guardare il panorama familiare con sguardo vacuo, consapevole della frenesia dei cittadini appena svegli per i quali quello non era altri che un giorno come tutti gli altri.
Lo sguardo si perse sul riflesso torre, per poi tornare a scivolare sulle grande vetrate fino a puntarsi contro la finestra della sala principale proprio in cima, attirato da uno scintillio d’anima familiare e rincuorante e dalla sensazione di un pensiero indefinito che l’aveva raggiunta ed avvolta con calore.
Un altro pensiero, molto più vicino ed intenso, la colse alle spalle strappandole un contagioso sorriso prima ancora che i due colpi rapidi e frettolosi contro la porta la risvegliassero riportandola nella realtà ed il faccino arrossato di Lilith si fece largo attraverso lo spiraglio appena aperto. Raven sciolse l’incrocio delle gambe e planò lentamente al suolo voltandosi.
«Buongiorno» disse alla ragazzina, e lei si sentì libera di irrompere nella stanza saltellando senza troppa cautela.
Lilith sollevò le braccia e fece un piccolo balzò verso di lei buttandole le braccia al collo e stringendola in un abbraccio. «Buon compleanno, Raven!» le disse, ignorando la serie di pesanti libri e la lampada che si erano sollevati in aria attorno a loro mentre affondava il volto contro il collo della sorella.
Raven la sollevò da terra con un abbraccio. «Grazie» le disse rimettendola giù. Lilith la fissò e batté le mani un paio di volte. «Devi venire a vedere cosa ti abbiamo preparato, oggi è il grande giorno!»
Rimbalzò ripetutamente sulle ginocchia e scrollò le spalle, afferrando una mano di Raven e trascinandola fuori dalla camera. «Ci siamo svegliati presto, abbiamo comprato delle cose, ne abbiamo preparate altre» spiegò mentre attraversavano il corridoio. Le lasciò la mano solo una volta arrivate alle scale e la precedette correndo giù ed aspettandola accanto alla porta della sala da pranzo. Raven fece un sospiro e scese le scale a passo sostenuto, mentre Lilith spalancava la porta e le indicava la tavola con un gesto plateale: «Ta-daaan!»
Jeremy le sorrise e chinò il capo, ancora con il grembiule e con una paletta da cucina sporca di impasto stretta tra le mani. «Buongiorno e buon compleanno» disse. Diede una gomitata a Belial, già seduto a tavola e con gli occhi ciechi persi nel vuoto.
Lui si raddrizzò, trovandola attraverso i suoi poteri e sollevando gli angoli delle labbra «Sì» disse passandosi una mano tra i capelli. «Buon compleanno. Finalmente è arrivato il grande giorno»
Raven seguì Lilith a tavola e si sedette al suo fianco «Non vedo l’ora che sia finita ed arrivi domani» ammise.
 
Cyborg parcheggiò la T-car ad un paio di isolati di distanza dalla biblioteca, sotto una terrazza sporgente che dopo un paio d’ore avrebbe assicurato ancora dell’ombra. Sganciò la cintura di sicurezza, spalancò lo sportello e mise il piede sull’asfalto sbiadito. Il fresco venticello mattutino scivolò sui suoi innesti e, ben più piacevolmente, sopra la sua pelle scura. Dopo aver richiuso lo sportello ed inserito la sicura, Cyborg si diresse con un sospiro verso il punto in cui Robin gli aveva dato appuntamento.
La periferia era calma e solo alcuni pettirossi si azzardavano ad infrangerne la quiete con il loro tipico cinguettio, mentre un gattone tigrato, appena alcuni metri più in là, li osservava con occhi ridotti a due fessure, le orecchie tirate indietro e la coda pelosa che sventolava a destra ed a sinistra in attesa.
Quella zona della città aveva poco da spartire con il centro di Jump City, le strade non erano così nuove e neanche troppo curate, i lampioni erano stati sistemati distanti come per risparmiare e ciò che restava degli edifici circostanti doveva avere almeno la metà degli anni che aveva la stessa biblioteca. Le case erano scrostate, le pareti ricoperte di muffa, alcuni balconi pericolanti non avevano neanche una ringhiera e molti vetri erano rotti, alcuni edifici erano ormai privi di porte e finestre. I marciapiedi stretti erano ancora ricoperti di pietre che ticchettavano sotto i piedi di metallo dei ragazzo, mentre lui avanzava.
Il sole si stava alzando pigramente in cielo, non c’erano nuvole a gettare ombre nette sulla strada, quindi la sagoma scura che scivolò per terra attirò subito l’attenzione di Cyborg, per poi afferrarlo e spingerlo contro l’ingresso di una casa.
«Sttt!» disse Robin, tenendolo schiacciato contro una parete polverosa, con la mano premuta sulla sua bocca. «Loro sono già qui»
Lo lasciò andare e Cyborg lo fissò con l’occhio umano strabuzzato, la bocca dischiusa in una genuina espressione di stupore.
«Chi?» gli domandò.
Il ragazzo si avvicinò alla finestra, sbirciando oltre la strada. Dalla loro postazione si vedeva perfettamente il prospetto rovinato della biblioteca, ancora più diroccato di quanto Cyborg ricordasse, la ragazzina saltellò attraverso l’ingresso, Raven e Jeremy, appena dietro di lei, affiancavano Belial salendo la piccola scalinata in pietra rovinata. Svanirono nell’oscurità del corridoio oltre l’uscio, lasciandoli soli in strada.
Cyborg sospirò, scambiandosi un’occhiata con l’amico. «Raven non riporterebbe indietro Trigon, me l’ha detto. Questo deve essere parte del suo piano per farlo fuori definitivamente»
«Può darsi» ammise Robin «Ma il libro che hanno rubato al museo aveva solo un incantesimo per riaprire il portale, quindi voglio assicurarmi che vada tutto bene»
Salì sul davanzale della finestra e saltò dall’altra parte, correndo verso il marciapiede opposto, si acquattò contro lo stipite della porta e tornò a guardare Cyborg. Gli fece cenno di raggiungerlo con uno scatto della testa.
«Maniaco del controllo» sospirò Cyborg. Scavalcò a sua volta il davanzale e si avvicinò a lui a spalle basse, senza preoccuparsi di nascondere la sua presenza in alcun modo. Robin lo afferrò per un braccio e lo spinse dietro di sé.
«Se non prenderai questa cosa sul serio sarò costretto a lasciarti qui» sibilò a denti stretti.
Cyborg deglutì. «Ok, andiamo»
Compose il cannone sul proprio braccio e lo tese verso l’oscurità, parandosi davanti alla porta spalancata, Robin impugno un birdarang e lo seguì dentro.
 
Le spalle del Ragazzo Meraviglia, davanti a lui, erano una sagoma scura che risaltava solo a grazie alla luce della torcia, il cono di luce rischiarava i gradini abbastanza da permettere loro dove mettere i piedi.
Robin spinse indietro una mano, facendogli cenno di fermarsi, Cyborg obbedì e aspettò mentre lui si chinava e posava il palmo sullo scalino inferiore «Qualcuno è passato di qui di recente». Fece roteare gli occhi, lasciando che scendesse ad analizzare le impronte anche sul gradino successivo «Un paio di scarpe da ragazza, un paio da bambina, due ragazzi e un adulto»
Cyborg li contò sulle dita «Raven, la ragazzina, il ragazzo» stirò le labbra «Hai contato due paia di impronte in più»
Robin scosse la testa «No, qui sotto c’è anche qualcun altro»
«Magari qualcuno è risalito e poi è sceso di nuovo dopo essersi cambiato le scarpe»
«Magari ho ragione io e ci sono cinque persone là sotto» sbottò Robin, voltandosi quel tanto che bastava per scrutarlo con espressione torva. La torcia incorporata nel braccio di Cyborg fece scintillare la parte bianca dell’amico, dando ancora più enfasi al suo fastidio, facendo quasi emergere la smorfia attraverso essa. «Comunque sia Raven non ci ha detto tutto e questo non è da lei»
Riprese a scendere e Cyborg avanzò con lui poggiando una mano sulla parete al suo fianco «Non è che Raven ci abbia mai detto tutto della sua vita» gli ricordò «Anzi, l’ha fatto solo quando era questione di vita o di morte»
«Questo rientra nella categoria “questione di vita o di morte”»
Cyborg sospirò, sollevando gli occhi al soffitto. Qualcosa si mosse, quasi un agglomerato scuro, ondeggiante e vivo, puntò il braccio contro di esso, rivelando un gruppo di pipistrelli che agitò le ali frusciando e soffiando contro di lui per poi lasciarsi cadere e volare oltre Robin fino a sparire nel buio.
Avanzarono ancora nell’oscurità, gradino dopo gradino verso la sala principale in cui anni prima avevano visto Trigon risorgere, la luce ondeggiante filtrava dalla porticina in fondo al corridoio, rendendo viva e calda la pietra attorno a loro, sbirciarono all’interno della stanza, individuando le candele disposte attorno ad un cerchio di rune disegnate sulla polvere. Jeremy dava loro le spalle, e potevano vedere bene anche il profilo paffuto di Lilith ed il riflesso delle fiammelle negli occhi di Belial.
«Ne mancano due al conteggio» sussurrò cyborg. Robin si voltò per raccomandargli di fare silenzio, ma Raven li anticipò emergendo dalle ombre alle loro spalle e spingendoli oltre l’ingresso con un viticcio di energia nera. Scivolarono sul pavimento sporco fin quasi ad urtare i piedi di Jeremy, che si era voltato verso di loro. Il mantello sulle sue spalle prese a fluttuare attorno al suo corpo, il potere trapelò anche attraverso le sue parole, vibrando assieme alla sua voce inumana quando si rivolse a loro.
«Che diavolo ci fate qui?» tuonò.
Belial tese la mano come per trattenerlo «Jeremy» disse con calma, ed il ragazzino rilassò le spalle sbattendo gli occhi mentre il mantello tornava a pendere contro le sue gambe quasi sfiorando una delle candele. «Non importa, è tutto pronto»
Cyborg lo scrutò, tutta quella calma che lo circondava, quella sicurezza che aveva nonostante la sua cecità, si domandò quanto fosse grande il suo potere per permettergli ciò. Lo osservò girare la testa come se sapesse esattamente dove era Raven, anche se non puntò gli occhi direttamente su di lei. «Raven» sospirò, abbassando il braccio fino a sfiorare il proprio mantello con i polpastrelli «Spiega loro cosa stiamo per fare»
Lei annuì, avvicinandosi a Robin e tendendogli la mano, che l’amico afferrò, lasciandosi tirare su con uno strattone. Si ripulì i pantaloni mentre lei passava ad aiutare lui. Cyborg scosse la testa, rifiutando l’aiuto con un sorriso per poi alzarsi da solo.
Lo sguardo di Robin corse alle rune rosse disegnate per terra. «Quello è sangue?» domandò diffidente con un cenno della testa. «È umano?» si voltò verso di lui, storcendo la bocca in un’espressione che diceva chiaramente “te l’avevo detto”.
Lilith fece un saltello verso di loro e congiunse le mani davanti al petto, intrecciando le dita «Rubato alla banca del sangue» si affrettò a spiegare «Non abbiamo fatto del male a nessuno»
Raven le carezzò una guancia e le sorrise, poi tornò a rivolgersi a loro «Ascoltate» disse «il portale che si è aperto anni fa è ancora instabile, rischierebbe di riaprirsi» deglutì, puntando gli occhi verso Robin «Noi siamo tutti i discendenti di Trigon e possiamo usare il nostro sangue per chiuderlo definitivamente, in modo che la terra non corra più alcun pericolo»
Robin sospirò allargando le braccia in un gesto di stizza, fece scorrere gli occhi sui presenti, puntò il dito contro di loro, soffermandosi su Belial, poi disse: «Bene, ma vi teniamo d’occhio»
Si fecero da parte, ma il ragazzo non riusciva a smettere di guardarsi attorno in cerca di qualcosa, lo vide percorrere le mura con gli occhi e si domandò cosa stesse cercando con quell’espressione tanto sospettosa, ma non fece domande, limitandosi invece ad osservare Raven ed i suoi fratelli che si disponevano in mezzo alle rune e si preparavano per il rito. Belial dispose per terra il libro che avevano rubato in biblioteca e lo spinse verso Jeremy, che si inginocchiò vicino a lui. Formarono uno stretto quadrato all’interno del cerchio, ponendosi ai quattro angoli.
«Sii i miei occhi» disse Belial a Jeremy.
«Certo» gli rispose lui. Aprì il libro, sfogliandolo sotto gli occhi degli altri.
Cyborg notò con la coda dell’occhio Robin che si sporgeva in direzione di un’intercapedine sulla parete, tentando di intravedere se ci fosse qualcosa attraverso l’oscurità. «Cosa stai facendo?»
«Qui ci dovrebbero essere cinque persone» gli ricordò «Devo capire chi è e cosa vuole»
Aprì la bocca per ribattere, sebbene non sapesse esattamente cosa dire, ma la voce di Belial che iniziava a svolgere l’incantesimo lo fermò. Iniziò la litania da solo, poi gli altri tre si unirono a lui e le voci si fusero in un coro uniforme che riecheggiò quasi a tempo con l’oscillazione delle fiammelle delle candele. Continuarono a recitare frasi che non riusciva a comprendere, parole che Cyborg non conosceva e di cui non riusciva ad intuire il significato. Jeremy scostò il libro di lato, Belial sollevò il pugnale intagliato e tese una mano verso Lilith, non riusciva a vedere cosa raffigurasse l’incisione, ma vide bene la ragazzina deglutire mentre gli porgeva il palmo e, stringendo il polso del fratello, guidava la lama contro il proprio dito e la osservava ferirle la pelle. La vide mordersi il labbro e stringersi il polpastrello ferito, mentre Belial pungeva il proprio dito. Poi, seguendo il senso orario, venne il turno di Jeremy, ma dalla loro posizione non riuscivano a vedere la sua espressione. Raven, direttamente di fronte a Belial spinse la punta del dito contro la lama che lui teneva ferma a mezz’aria.
«È il momento» disse il ragazzo, e Cyborg si aggrappò al braccio di Robin. Percepivano entrambi la tensione di quel momento, ma il Ragazzo Meraviglia pareva non aver messo ancora a posto tutti i pezzi.
«Cy, ci dovrebbe essere una quinta persona» ribadì.
I quattro fratelli congiunsero le dita nel centro del cerchio, premendole una contro l’altra, il sangue zampillò più di quanto avrebbe dovuto e le gocce rosse si allargarono tra loro. Le rune attorno a loro si illuminarono, scintillando scarlatte tra le candele. «Il portale è aperto» sussurrò Raven, mentre tutti ritiravano le proprie mani. Lilith leccò il polpastrello per fermare il sangue, le sorrise mentre la sentiva dire: «È il momento di sigillarlo definitivamente»
Le spalle di Jeremy ebbero un sussulto, Belial chinò il capo scoprendo i denti in quello che Cyborg pensò dovesse essere un sorriso inesperto. Uno dei canini parve scintillare prima che lui richiudesse le labbra. Tese ancora una mano verso Raven, che lo guardò confusa.
«Tutto bene?» gli domandò, si sporse verso di lui e tese la mano a sua volta, gli afferrandogli il gomito come per dargli forza.
«Stai tranquilla» le disse Belial «dopo questo sarà tutto finito e saremo liberi»
Raven gli sorrise scambiando uno sguardo fiducioso prima con Jeremy e poi con Lilith, che le sorrise a sua volta con le mani congiunte davanti al volto, lui si agitò sul posto premendo un palmo a terra.
Raven chiuse gli occhi e sospirò, percependo la stretta della mano del ragazzo che aumentava attorno al suo gomito fino al punto da riuscire a sentire il battito del proprio cuore rimbalzare sulla fredda pelle di lui. Belial fece scorrere la mano contro il suo braccio, fino ad afferrarle la spalla. «Belial?» gli domandò.
Lui si lanciò in avanti, spingendo la lama del pugnale verso di lei ed affondandola nel suo stomaco.

L'angolino di Digital

Ehi, oggettivamente non sto facendo più molto per la fic, ma Genius è stata brava e ha finito il capitolo in una sola giornata o al contrario, dovremmo rimproverarla per aver temporeggiato tanto?
Belial scopre le carte e torno ad essere orgogliosa di quel ragazzo, c'è un motivo se la sua creazione è stata divertente!
Che ne pensate?
Chissà se il prossimo capitolo vi farà dire sul serio "BOOM".
-Digital

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Capitolo 13
*** Sangue ***


Dato che sono passati secoli dall’ultimo aggiornamento è d’obbligo un riassunto. Cercherò in breve di fare una carrellata veloce di quello che è successo dall’inizio della fanfiction.

Allora, tutto è cominciato nel momento in cui Raven è fuggita dalla torre in gran segreto, lasciando dietro di sé una spilla regalatale da BeastBoy ed un bigliettino su cui lui aveva scritto chissà cosa (so che alcuni di voi – quelli che ancora seguono la fanfiction e non ci hanno, anche giustamente, abbandonate a causa dei lunghi tempi di attesa – si chiedono cosa c’è scritto, ma la verità è che ancora non lo sappiamo neanche noi). Anni dopo Raven è tornata in città, ma non è tornata alla torre a rimettere insieme i pezzi della squadra che dopo il suo abbandono aveva anche avuto bisogno di andare dallo psicologo per superare il fatto.
Raven non è tornata da sola; si è portata dietro tre ragazzi (fratelli da parte di padre, ovviamente): Belial, Jeremy e Lilith. E se il primo resta un po’ in disparte gli altri due attirano l’attenzione uno di Starfire e l’altra di BeastBoy (che ora si fa chiamare Changeling) per via di una sorta di legame/simpatia per cui loro vorrebbero prenderli sotto la loro ala. Se Belial pare avere pienamente il controllo della situazione (e di altro), i poteri dei più piccoli sono invece ancora instabili, oscillando tra i traumi delle loro vite (che voi ancora non conoscete) e l’incapacità di relazionarsi in un mondo umano/cittadino in cui tutto può accendere le loro emozioni, che ovviamente sono quelle che scatenano il loro poteri.
Presto si scopre la ragione del ritorno di Raven: lei, Belial, Lilith e Jeremy stanno preparando un rito per evocare Trigon… e qualche altra cosa…

CAPITOLO 12
Sangue



«Stai tranquilla» le disse Belial «dopo questo sarà tutto finito e saremo liberi»
Lilith osservò il sorriso di Raven, e quando lei si voltò a guardarla le sorrise a sua volta, congiunse le mani davanti al viso e premette le labbra insieme per reprimere la felicità. Jeremy, davanti a lei, si agitò sul posto premendo un palmo a terra.
Belial aumentò la stretta della mano attorno al gomito di Raven, che chiuse gli occhi e sospirò, fece scorrere la mano contro il suo braccio, fino ad afferrarle la spalla. «Belial?» gli domandò lei.
Lui si lanciò in avanti, spingendole contro il pugnale ed affondandolo nel suo stomaco.
«No!» gridò Lilith, si aggrappò a Raven, mentre lei scivolava per terra con un singulto e gli occhi sbarrati. Premette il palmo della mano sulla sua ferita e strinse le dita attorno alla lama, incapace di estrarla. Jeremy lanciò un viticcio di energia nera addosso al fratello, scagliandolo lontano mentre il pavimento attorno a loro si frammentava sotto lo strato di polvere fino a ridursi ad una chiazza sabbiosa. Si sporse anche lui verso la sorella, mentre altra polvere di marmo scivolava giù dalle pareti attorno a loro. «Raven!» gridò tanto forte che a Lilith fecero male le orecchie.
Il terrore le si avviluppò attorno, quasi soffocandola, il dolore della ferita di Raven la strinse in una morsa che solo la rabbia di Jeremy riusciva ad offuscare. Il ghigno di Belial, che pareva essersi dimenticato di loro, fu un pugno nello stomaco che frantumò ogni barriera che avrebbe dovuto alzare per proteggersi dai sentimenti e dalle sensazioni di chi la circondava, poiché Belial stesso, si rese conto all’improvviso, aveva smesso di avvolgerla in quella bolla di fiducia forzata in cui l’aveva rinchiusa per tutto quel tempo.
Incapace di respirare e riprendere il controllo di sé stessa, finì preda di quelle emozioni. Quasi lasciò che le lacerassero l’anima, mentre in ginocchio al fianco di Raven restava impietrita senza sapere cosa fare. Chinò il capo, la pozza di sangue scuro si allargava sotto il corpo della sorella imbrattando i vestiti e le scarpe, scivolava dentro le fessure di un cerchio rituale che non riconobbe, scorreva nelle incisioni e tracciandone i simboli nascosti fino a renderli visibili.
«Perché?» chiese la voce, rimbalzò rabbiosa tra le pareti della sala. La avvolse, la cullò, Lilith decise di accettare quella rabbia e lo fece di buon grado, la lasciò scivolare nel proprio corpo assieme ai dubbi, alla speranza e alla consapevolezza non sua di dover fare qualcosa per Raven, quasi inerme davanti ai suoi occhi, con le palpebre pesanti, il respiro corto per il dolore e la pelle pallida anche più del solito.
Sollevò lo sguardo, Robin e Cyborg erano tra loro e Belial. La risolutezza del primo le rimbombava ancora in testa, mentre lui digrignava i denti con le mani strette attorno al bastone, scrutando Belial con tutto l’odio che aveva in corpo. E Lilith lo sapeva bene.
Cyborg si chinò davanti e le sfiorò un braccio con la mano fredda, ma i suoi occhi erano fissi su Raven e la sua anima irradiava una preoccupazione così calda, inebriante e consapevole da riuscire a confortarla.
«Stai bene?» domandò. Scostò la mano di Lilith con dolcezza, avvolse le dita attorno all’elsa del pugnale e lo sfilò con un gesto secco per lasciarlo scivolare a terra. Raven tossì e gli afferrò il polso stringendolo forte.
«Il portale» gemette senza fiato «Dobbiamo chiudere il portale!» Tossì sangue ed ebbe un sussulto, Cyborg premette la mano sula ferita per rallentare la perdita di sangue.
«Riesci a curarti?» le domandò.
Lilith le afferrò una mano e la strinse, la voce di Robin tuonò ancora nella stanza. «Perché l’hai fatto?»
Una candela esplose al fianco di Jeremy, Lilith chinò il capo e poggiò la fronte sulle nocche di Raven respirando finché i polmoni non furono pieni d’aria al punto da farle male. Belial non rispose, la risata che sfuggì alla sua gola non aveva nulla di crudele o vendicativo, ma celava quasi un velo di pietà che vibrava assieme alle sue emozioni.
Lasciale fuori. Lasciale fuori. Si ripeté Lilith. Raven aveva bisogno di lei, adesso. Si morse il labbro e concentrò tutta la propria energia nella punta delle dita. Si sforzò di visualizzare la ferita che rimarginava, il sangue che smetteva di scorrere ed il dolore che svaniva, ma non successe nulla.
«Mi dispiace, Raven» disse Belial «Trigon ha troppo potere per lasciare che vada sprecato»
Lilith sentì svanire ogni residuo di fiducia che lui aveva saputo infondere in loro nel tempo. Tutte le belle parole, tutto l’affetto scomparve, lasciando solo il vero Belial e mostrandolo per ciò che era. Un manipolatore, in ogni senso.
Perché? Si domandò Lilith, incassò la testa, la smorfia di dolore di Raven le strinse il cuore, il groppo che le nacque in gola quasi le impedì di respirare e gli occhi le si inumidirono. Raven, ti prego! Ti prego, guarisci!
Aveva ancora gli occhi puntati su di lei, quando la figura uscì dall’ombra con il mantello ondeggiante ed il ghigno che gli deturpava il volto scuro ed affilato.
Sgranò gli occhi, il panico la colse quando incrociò quello sguardo sadico familiare. Lui la guardò appena, non risparmiandole però uno sguardo di sprezzo prima di sorridere a Belial. «Non funzionerà» le disse. Lilith impiegò poco a capire che si riferiva alla mano che aveva poggiato sulla ferita della sorella nel tentativo disperato di richiamare il potere di guarigione. «La ferita è stata inferta da una lama incantata» le spiegò.
Tremò, strinse il pugno, poi si rivolse a Cyborg con gli occhi offuscati dalle lacrime. «Ti prego! Non lasciare che mi porti via anche lei»
Il ragazzo poggiò una mano sul suo capo ed annuì, una placca di metallo si sollevò con uno scatto dal suo braccio, rivelando un piccolo schermo che Lilith ignorò. Le parole di Cyborg riuscirono ad infonderle la speranza necessaria per tornare a distinguere le proprie emozioni da quelle altrui.
«Garfield, Kori, abbiamo bisogno di voi alla vecchia biblioteca, mi serve un kit di pronto soccorso, Raven è ferita. Correte»

La piccola cascata scrosciava nel laghetto mentre Lilith agitava i piedi a pelo d’acqua per schizzare le altre ninfe davanti a lei.
«Ehi ehi, piccola Lily» si lamentò la più vicina di loro, scivolò nell’acqua verso di lei con un sorriso ed una mano tesa. Il palmo bagnato rifletté la luce della luna ed una delle lucciole le si depositò sul dito, lampeggiando un momento prima di alzarsi di nuovo in volo. La ninfa rise, poi tornò a rivolgersi a lei «Vieni in acqua anche tu»
Lilith scosse la testa, si alzò e sorrise. «Voglio Inseguire le lucciole» Disse. Sua madre era alcuni metri più in là, appena sotto la cascata, la guadò e le sorrise.
«Non ti allontanare troppo» si raccomandò, mentre lei scivolava tra i cespugli verdi con una grazia quasi pari a quella di una ninfa purosangue.
Lilith sorrise, immersa in una nuvola di lucciole e gigli sotto la luce della luna. Fece una giravolta ed inciampò su una radice, atterrando sul terriccio muschiato lì affianco. Amava il suo bosco, la sua famiglia, il suo potere e l’aria della notte che si respirava in quell’angolo di paradiso. Non conosceva altro all’infuori di questo; né odio, né crudeltà, non aveva mai visto nulla al di fuori di quelle rocce, quei monti e quel bosco sconfinato in cui era nata.
Non le interessava e non voleva che nulla cambiasse, canticchiava a mezza voce un’antica canzone che conosceva fin da quando aveva memoria e non sentiva il freddo del vento che portava l’autunno.
Ciuffi d’erbetta si infilavano tra le dita dei piedi scalzi mentre camminava verso la radura, un gufo che stava appollaiato su un ramo cosò inclinando il capo, ma il grido che scosse la foresta subito dopo lo fece sussultare. Lasciò il ramo con uno scatto e volò via, lasciando Lilith da sola a fissare con il cuore in gola la strada che aveva percorso dopo che aveva lasciato il ruscello. Con gli occhi sgranati ed il fiato mozzato, rimase solo un altro istante ad ascoltare le grida delle ninfe che si accavallavano le une sulle altre. Un ruggito la scosse e la risvegliò dal suo terrore, Lilith strinse i pugni ed iniziò a correre verso il ruscello; non c’erano più lucciole e le grida diminuirono fino a divenire semplici sussulti e poi morire.
«Mamma!» Gridò Lilith, senza fiato e disperata. Emerse dai cespugli a pochi passi dal ruscello, fermandosi e tremando alla vista di lui. Stava chino sul corpo martoriato di sua madre, sorreggendolo a pelo d’acqua. Lilith non aveva mai visto nulla di più spaventoso, nulla di così cattivo, ma da quel giorno, quando pensava al puro male, Lilith rivedeva il mostro che aveva fatto a pezzi la sua famiglia, immerso in un lago di acqua e sangue di ninfa.

Le mani di Lilith erano strette attorno al polso di Raven, la testa di lei era incassata tra le spalle e gli occhi sgranati. Tremava, Jeremy non aveva bisogno di leggere la sua anima per vedere il terrore che la divorava. Strinse i pugni, piegò i gomiti e si parò tra le sorelle e l’uomo. «Chi diavolo sei?» domandò. Concentrò l’oscurità che emergeva da lui sulla punta delle dita. Se devo distruggere qualcosa, si disse, quello è chiunque riesca a spaventare Lilith così tanto.
Non gli importava davvero avere una risposta alla sua domanda, ma lui si stava avvicinando e Jeremy si rifiutava di permettere che raggiungesse Lilith.
Una piccola porzione di pavimento esplose alcuni metri dietro l’uomo, Jeremy strinse i pugni e grugnì, consapevole di poter fare di meglio.
Colpiscilo. Si disse. Concentrò ancora la sua energia, ma riuscì solo a fare esplodere un altro pezzo di pavimento alla sua sinistra.
Puoi fare meglio di così. Pensò tra sé.
Digrignò i tenti, Lilith singhiozzava alle sue spalle e Cyborg le sussurrava parole che lui non riusciva a sentire. Jeremy sentiva il proprio cuore battere tanto forte da distrarlo dai suoi stessi pensieri. «Non ti avvicinare» Grugnì.
L’uomo non sembrava spaventato, anzi sorrideva come se avesse aspettato questo momento da una vita intera. La sua soddisfazione inebriante lo nauseava al punto da impedirgli di provare ogni minima sensazione di sollievo quando distolse lo sguardo per raggiungere Belial.
Se non avesse saputo che Belial era cieco, avrebbe pensato che si stessero scambiando uno sguardo d’intesa assoluta, se non fosse stato per così tanto tempo soggiogato al potere di Belial forse non si sarebbe trovato così spiazzato, così incapace di controllarsi. Ora percepiva tutto; la rabbia, la disperazione, il dolore di Raven stesa a terra a pochi metri da lui. E poi c’erano gli echi provenienti dalla città, centinaia di vite vibranti e cariche delle emozioni più disparate.
Il demone che era appena arrivato vibrava di una soddisfazione così intensa e sciabordante da nausearlo, da smorzargli ogni respiro e fargli montare dentro un odio così intenso da fargli quasi perdere il controllo.
Jeremy si morse il labbro, contrasse le dita in uno spasmo e chinò il capo, scattò verso di lui gridando e tese le braccia. Non gli importava di sapere chi o cosa fosse, quanto potere avesse e quali fossero le sue intenzioni. Sapeva che tutto questo era colpa sua, ormai era chiaro che Belial era stato solo il braccio in quel piano, che li avevano usati per riportare Trigon sulla terra, che Belial non aveva mai avuto intenzione di cancellarlo definitivamente.
«Ti ammazzo! – Gridò – Ti distruggo!» Scattò in avanti ed evitò il braccio teso di Robin che cercava di fermarlo, attraversò la sala, agitò il braccio e concentrò la sua energia su di loro. La scia di potere oscuro sfrecciò verso Belial e l’altro con la stessa velocità di un fulmine, ma bastò un solo cenno del secondo per essere deviata e schiantarsi contro la parete provocando una crepa che si aprì fin quasi al soffitto. Polvere e detriti piovvero sul pavimento, il gemito di Raven fece capire a Raven che l’aveva visto, la sua preoccupazione si irradiava dentro di lui quasi più del suo dolore, ma non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
Io mi fidavo, pensò. Mi sono fidato e sono stato tradito. Sono stato stupido.
Sollevò il pugno, ogni cosa nella stanza divenne un ricordo confuso; c’erano solo loro tre, e Jeremy sapeva bene che Belial non avrebbe potuto prevedere l’arrivo di un colpo diretto.
Fu l’altro, con una calma inaudita, a bloccarlo a pochi metri da lui. Belial non si mosse, ma voltò lentamente la testa verso di lui e sorrise.
«Evren.» Gli disse.
Jeremy lo sentì stringere la presa, la fitta di dolore gli percorse il braccio e lo fece gridare, il suo potere gli strisciò nelle ossa fino a renderlo incapace di reagire, poi cadde ai loro piedi con il fiato corto e gli occhi pesanti, finendo per perdere i sensi e smarrendosi nell’oblio.

Il piccolo vicolo in cui Jeremy si era rifugiato era freddo è puzzava di spazzatura e urina; era quel tipo di odore che uno si aspetta di trovare descritto in un libro e che crede possa essere solo un artificio narrativo fin quando non ne incrocia uno per davvero. Era abbastanza nascosto per non sentire la folla ma non abbastanza lontano da essa per percepire le loro emozioni. C’erano giorni in cui Jeremy credeva che quegli echi l’avrebbero fatto impazzire ed altri in cui il freddo o la fame riuscivano quasi ad offuscarle ogni altra cosa; la notte in cui aveva incontrato Lilith per la prima volta era stato uno di quelli.
La morsa allo stomaco era tanto forte da dargli quasi l’impressione che esso volesse rigirarsi su sé stesso e digerirsi da solo, la febbre lo stava tormentando da giorni ed il freddo gli impediva di sentire le dita delle mani e dei piedi, riducendo ogni cosa alla sensazione di migliaia di piccoli aghi che affondavano nella pelle.
Lei era emersa dalle ombre e l’aveva avvicinato piano, quasi sapesse che ad ogni centimetro che faceva verso di lui il dolore alla testa aumentava sempre di più.
In futuro, Jeremy non avrebbe ricordato il momento in cui quella sofferenza era cessata, il tocco della mano di lei che si posava sul suo braccio ed i suoi occhi limpidi che lo fissavano apprensivi.
A ripensarci in futuro, sarebbe rimasta solo la sensazione di svegliarsi da un brutto sogno.
Il giorno in cui per la prima volta un’emozione non sua nella sua testa non gli fu così estranea, il momento in cui una nuova speranza iniziò ad essere parte di lui, la notte in cui per la prima volta dopo la morte di sua madre seppe che non era più solo.

Quando Jeremy riaprì gli occhi i suoni dello scontro erano quasi un brusio indistinto, Starfire era in ginocchio davanti a lui e gli carezzava il braccio. Non lo stava guardando; era concentrata su qualcosa che stava avvenendo alle sue spalle. La vide caricare una sfera di energia e lanciarla addosso a qualcuno, sollevò la testa e fece per girarsi, ma quasi scivolò di nuovo sul pavimento.
Starfire lo aiutò a sollevarsi. «Tranquillo, – gli disse – ora ci siamo noi».
Jeremy premette una mano sulla testa dolorante ed annuì, vide Changeling che cercava di raggiungere Raven, ora rinchiusa in un bozzolo di energia sospeso ad alcuni centimetri da terra. Il ragazzo ringhiava e mutava forma, scagliandosi contro il bozzolo prima con le sembianze di un rinoceronte e poi in quelle di un triceratopo, rimbalzando sempre indietro e scivolando per terra con un gemito. Lilith lo osservava con sguardo perso, scambiò un’occhiata con Jeremy ed ebbe un sussulto. I suoi occhi si ammorbidirono e perfino da lì riuscì a percepire il sollievo che si irradiava in lei.
Changeling fu respinto dal bozzolo per l’ennesima volta, ma, forse per la prima volta, invece di lanciarglisi di nuovo addosso si fermò a riflettere.
«Ragazzini, potete trovare un modo per farmi passare?» Domandò affondando una mano tra i capelli e tirandoli leggermente per stemperare la tensione. Jeremy gli si avvicinò, Starfire lo lasciò andare esitante, per poi sfrecciare al fianco di Robin proprio nel momento in cui un colpo della spada di Evren gli fece volare via il bastone. Cyborg, dall’altra parte della stanza, era impegnato in uno scontro a fuoco con Belial.
«La magia la sta proteggendo.» Spiegò Lilith.
Changeling grugnì. «La magia dovrebbe sapere che è quello che sto cercando di fare anche io.»
Jeremy scosse la testa. «La magia non lo sa, sa solo che deve proteggere Raven da qualunque cosa cerchi di avvicinarsi mentre lei cerca di guarire»
Changeling si morse l’interno delle guance e allungò il collo per vedere meglio oltre la barriera. «Allora sta guarendo?» Domandò.
Jeremy tese il collo seguendo il suo sguardo e scorse ciò che sapeva che l’altro stava guardando; il rivolo di sangue della ferita di Raven che, attraversando il vestito ormai zuppo, gocciolava sul cerchio sotto di lei. «Direi di no.»
«Perché?» Chiese Changeling diretto.
Aprì la bocca per rispondergli, ma Lilith lo precedette avvicinandoglisi mentre si asciugava le lacrime. «È a causa del cerchio, richiede un tributo di sangue e continuerà a farla sanguinare fin quando l’avrà prosciugata»
Jeremy seppe cosa. Changeling stava per chiedergli prima ancora che lui lo facesse. «Che succederà quando accadrà? A parte la morte di Raven, ovviamente»
Chinò il capo, nel rispondergli, come se questo potesse rendere meno reale ciò che sarebbe successo di lì a poco. «Trigon avrà un varco aperto per questo mondo.» Scambiò un’occhiata con Lilith, che continuò per lui.
«Ne serviva una sola goccia, avrebbe dovuto esserlo, ma ora la dimensione dell’apertura del varco sarà proporzionata alla quantità di sangue versato.» Spiegò lei.
Changeling si portò indietro i capelli impolverati. «Più Raven sanguina più saranno guai.» Concluse in fretta annuendo.
«Quando il sangue smetterà di cadere sul cerchio il varco si aprirà comunque.» Chiarì Lilith. Strinse le mani attorno al braccio di Jeremy e lui si appoggiò a lei, senza sapere come confortarla.
Changeling non perse tempo a sconfortarsi. «Possiamo farla smettere di sanguinare?» Domandò, come se non riuscisse a vedere che si trattava di una strada senza uscita.
Jeremy gli rispose comunque. «Solo se riusciamo a spostarla di lì.»
«Come facciamo a spostarla di lì?» Insisté il ragazzo. Jeremy lo scrutò, scorrendo con lo sguardo la sua figura immobile ai lati dello scudo; la tensione nelle sue spalle, i suoi pugni stretti e l’espressione risoluta gli fecero pensare per qualche istante che avesse un piano.
«Superando lo scudo.» rispose semplicemente.
«Cosa può far abbassare lo scudo?» Domando ancora Changeling.
La sua risposta fu secca, quasi sputata controvoglia tra le labbra semichiuse. «Cederà quando lei smetterà di respirare.»
Changeling scosse la testa e lo fulminò con un’occhiata, la fiducia e la speranza che il suo corpo emanò lo colpì come un fiume in piena. «Non è un’opzione accettabile. Puoi aprirmi un varco?»
Jeremy si raddrizzò, perfino la stretta di Lilith attorno al suo polso parve dargli coraggio. «Posso provare, ma non ti assicuro che sarà abbastanza grande per permetterti di passare»
Changeling sorrise, il canino quasi scintillò contro il labbro superiore e lo sguardo risoluto. «Tu aprilo per quel che puoi, io mi adatterò.»
Annuì, dando una scrollata al braccio per allontanare la sorella.
«Se non dovesse essere abbastanza grande» disse, tentando di farlo ragionare.
«Sono un mutaforma, non sarà mai troppo piccolo per me.» Chiarì Changeling, lanciandogli un’occhiata.
Jeremy annuì. «Spingila via, lontana dal cerchio, il varco si aprirà subito dopo e potremo vedere l’altra dimensione.»
«Potrebbe essere già abbastanza grande per permettere a Trigon di passare da questa parte.» Gli ricordò Lilith.
Changeling le sorrise, poggiandole una mano sul capo e scompigliandole i capelli. «Ma potrebbe non esserlo ancora, se ci proviamo subito.» Si allontanò e si accucciò come un corritore che si prepara ad una maratona, con i polpastrelli per terra e un ginocchio sollevato; ondeggiò leggermente e fece un cenno a Jeremy, che annuì.
Jeremy prese fiato. Come farebbe Raven a concentrarsi? Si domandò. La guardò, sospesa e immobile quasi come se fosse già morta; sangue scuro gocciolava fino a terra dal mantello ondeggiante. Si chiese se anche tirandola fuori da lì non sarebbe stato troppo tardi.
Si lasciò cadere a terra ed incrociò le gambe intrecciandole nella posizione del loto, lasciò che la sua magia lo facesse fluttuare. «Ti darò io il via.»
Non aspettò che Changeling annuisse.
«Azarath, Metrion, Zinthos.» cantò.
Lasciò che la sua energia defluisse fino a scontrarsi con quella che avvolgeva la sorella, la percepì prima rimbalzargli addosso, mentre lo scudo di Raven vibrava e bruciava come una fiamma ardente, poi restringersi ed allargarsi come un cuore palpitante.
La avvolse e la studiò alla ricerca di un punto debole, di un momento di quel battito in cui avrebbe potuto aprirsi una breccia. Ci mise alcuni secondi ad accorgersi del momento.
Si trattava del frammento di un millisecondo, ben più breve della durata di un respiro spezzato, in cui tutto lo scudo si assottigliava, regolandosi per non sovraccaricarsi troppo. Era quasi un brivido elettrico che divampava senza freni prima di un nuovo battito. Jeremy puntò a quello, scegliendo il limite più vicino a Changeling. Gli scivolò attorno, lo punzecchiò e scavò fino a ricavare un piccolo forellino.
Tentò di allargarlo, ma lo scudo provò a succhiargli via la forza che stava usando.
Jeremy lanciò un’occhiata a Changeling, che spiccò un balzo e mutò a mezzaria, lo perse di vista fino a quando non si trasformò ancora all’interno dello scudo; stringendo al volo le braccia attorno a Raven e spingendola via.
Lo scudo esplose in una miriade di scintille ed un boato lo assordò. Cadde a terra con un gemito, la testa gli girava mentre cercava di rimettersi in piedi. Dall’altra parte del cerchio BeasyBoy stringeva Raven cercando di fermare l’emorragia.


----- Come intuirete dal titolo, tutto lo scopo della fanfiction era quello di arrivare fino a questo capitolo.
È qui che si capisce la ragione del titolo, quindi: il sangue dei legami tra Raven, Jeremy, Lilith, Belial ed Evren, tra loro e Trigon, il sangue per il rito.
Quanto amo questo titolo <3 Genius

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Capitolo 14
*** Lava e cenere ***


Signori, signore, demoni e mezzi demoni di questa e di quell’altra dimensione, dopo nonhovogliadicontarequanti giorni dall’ultimo aggiornamento ecco il tredicesimo capitolo di Blood. Tutti si stanno certamente domandando: “passeranno altri nonhovogliadicontarequanti per il prossimo capitolo (che probabilmente sarà l’ultimo)?”. Lo sapremo solo quando vedremo il prossimo aggiornamento, ma speriamo che non passi così tanto!

Vi lascio al riassunto dei capitoli precedenti e vi informo che ora la fanfiction è anche su Wattpad a questo link:

https://www.wattpad.com/373330147-blood-prologo

Se ci siete seguitemi, ci sono anche le altre mie fanfiction sui Titans e alcune fanart.

RIASSUNTO SPOILER PER CHI NON HA LETTO:
Raven è fuggita dalla torre in gran segreto, anni dopo è tornata in città, ma non è tornata alla torre a rimettere insieme i pezzi della squadra che è più o meno crollata in sua assenza. Non è tornata da sola; si è portata dietro tre ragazzi (fratelli da parte di padre): Belial, Jeremy e Lilith. E se il primo resta un po’ in disparte gli altri due attirano l’attenzione uno di Starfire e l’altra di BeastBoy (che ora si fa chiamare Changeling) per via di una sorta di legame/simpatia per cui loro vorrebbero prenderli sotto la loro ala. Se Belial pare avere pienamente il controllo della situazione (e di altro), i poteri dei più piccoli sono invece ancora instabili, oscillando tra i traumi delle loro vite e l’incapacità di relazionarsi in un mondo umano/cittadino in cui tutto può accendere le loro emozioni, che ovviamente sono quelle che scatenano il loro poteri.
Presto si scopre la ragione del ritorno di Raven: lei, Belial, Lilith e Jeremy stanno preparando un rito per evocare Trigon, ma una volta aperto il varco che lo riporterà in questo mondo, quando i quattro fratelli dovrebbero ucciderlo e bloccarlo per sempre, Belial li tradisce per mantenere il varco aperto, pugnala Raven e dimostra di aver fatto sempre il doppio gioco con Evren, un quinto fratello.
Ora il varco si sta aprendo e la terra è di nuovo in pericolo, mentre Raven sta morendo tra le braccia di BeastBoy, perché in questa fanfiction nata per il BBRae c’era troppo poco BBRae.



CAPITOLO 13
Lava e cenere



La cenere piovve dal nulla, si impigliò tra i capelli di Changeling e si depositò sulle sue dita umide del sangue di cui i suoi guanti erano ormai impregnati. Nulla sembrava riuscire a fermarne il flusso.
«Non mollare, ti prego.» supplicò a denti stretti.
I polpastrelli scivolavano, premevano sulla pelle calda di Raven attraverso lo strappo che il pugnale aveva lasciato nel vestito e non riuscivano a fare presa sui due lembi della ferita per tenerla chiusa.
«Sei stata stupida, non credevo che te l’avrei mai potuto dire, ma avremmo potuto essere tutti qui per aiutarti e tu invece hai scelto di tenerci fuori.» le disse tremando.
Premette il palmo sulla ferita, guardò il viso pallido di lei e trattenne un singulto. «Stupida, stupida Raven.»
Le palpebre di Raven tremarono, il ragazzo pensò di averlo immaginato, oppure di aver provocato quella reazione perché stava premendo troppo forte, ma quando vide le pupille leggermente sbiadite di lei che cercavano il suo viso, nonostante il sollievo, non riuscì a sorriderle.
«BeastBoy.» disse lei senza fiato.
«Ora mi faccio chiamare Changeling.» le ricordò.
Sollevò lo sguardo, l’aria odorava di fumo, qualcosa sopra di loro si stava muovendo, tutto ciò che aveva davanti vibrava dando l’impressione che la realtà attorno a loro si stesse distorcendo.
«Changeling.» ripeté Raven.
«Esattamente.»
Con un gemito, Raven piegò un braccio e premete un gomito per terra per sollevarsi, ma Changeling la tenne giù.
«No! Non muoverti!» le disse. «Hai perso molto sangue, sto cercando di rallentarlo ma non ci riesco, devi iniziare a guarirti da sola.»
«Non ci riesco.» rispose Raven. Si aggrappò al polso di lui e cercò il suo sguardo. «Non riesco a concentrarmi.»
Changeling scosse il capo. «Sì che ce la fai, devi solo impegnarti.»
Ma Raven lo ignorò e si girò verso gli altri.
Nonostante fosse cieco, Belial riusciva a parare ogni sfera di energia di Starfire respingendole con sicurezza come se riuscisse addirittura ad anticipare il lato da cui lo avrebbero colpito. Lilith era al fianco della ragazza, cercava di aiutarla come poteva, la teneva al sicuro dalle sfere di energia che Belial le rimandava indietro, punzecchiava il mezzo demone per cercare di distrarlo, ma nulla sembrava efficace.
Robin e Cyborg si spalleggiavano nell’affrontare Evren, ma lui sembrava avere per loro la stessa considerazione che avrebbe avuto per un insetto che fosse fermo sulla parete dalla parte opposta della stanza rispetto a dove si trovava. Usava la spada per respingere i Birdarang, per tagliare in due e deviare i raggi laser di Cyborg, ma continuava a guardare in alto, a cercare qualcosa nell’aria carica di elettricità.
Changeling si sforzò di distogliere lo sguardo.
«Ehi.» disse a Raven. E solo quando lei tornò a guardarlo continuò. «Andrà tutto bene, ok? Sistemeremo questo casino e tu starai bene.» Lei tossì ed uno schizzo di sangue le imbrattò il mento e scivolò contro la guancia.
«Cyborg!» gridò Changeling. «Non riesco a fermare il sangue, mi serve il kit del pronto soccorso!»
«L’ho lasciato in fondo alle scale!» gli rispose l’amico.
Le dita di Raven si strinsero attorno al suo polso, la stretta si allentò e poi si fece di nuovo forte. «Il portale si sta aprendo.» disse.
Lui annuì, trovò il kit con lo sguardo, ma scoprì con un gemito che era troppo lontano per raggiungerlo senza togliere le mani dalla ferita di Raven. D’un tratto, inaspettatamente, il kit scivolò da solo verso di lui fino ad urtare contro i piedi di Jeremy, ancora fermo dall’altra parte del cerchio. Il ragazzino lo raccolse e corse verso di lui, quando fu di fronte a Changeling lo fissò ad occhi sgranati, come per chiedergli cosa avrebbe dovuto fare adesso.
«Passami le garze» gli disse Changeling.
«Si sta aprendo.» disse Jeremy, infilò le mani nella scatola e ne tirò fuori delle forbici e due grossi rotoli, iniziò a srotolarne uno ed a passarglielo così che lui potesse usarlo per tamponare la ferita.
«Non me ne frega nulla, in questo momento.» gli disse, ma non si aspettava che proprio in quel momento lo squarcio tra le due dimensioni si aprisse con il rimbombo di un pezzo di stoffa che si strappa amplificato di diecimila volte. Fu tanto intenso da ferirgli le orecchie, l’aria si fece pesante ed il calore invase la vecchia biblioteca, mentre proprio sopra le loro teste appariva un cielo rosso fiammante che portò da loro odore di fumo e carne bruciata.
Evren attraversò la fessura con un balzo, Belial indirizzò uno Starbolt verso Starfire, sbalzandola contro la parete, poi fece lo stesso.
«Non lasciateli scappare.» disse Raven.
Robin annuì, pochi secondi dopo aveva lanciato il suo rampino oltre la fessura ed era corso dietro i demoni. Starfire lo seguì, mentre Cyborg e Lilith, corsero verso Changeling. Lilith si aggrappò al mantello di Raven come se fosse l’unico modo per non scoppiare a piangere.
«Qui ci penso io» disse Cyborg. «Tu sei più utile a Robin e Star.»
Changeling lasciò che prendesse le bende inzuppate di sangue tra le mani, ma non si allontanò e la mano di Raven era ancora avvolta attorno al suo polso. Premette il palmo sul dorso della sua mano e scosse il capo.
«Non posso lasciarla così.» disse.
Allora la presa di Raven si allentò. «Ti prometto che starò bene,» gli disse lei. «ma tu devi andare.»
Lui scosse il capo, si irrigidì, piantò le ginocchia per terra anche se gli dolevano per il timore che lo trascinassero via di peso. «No.»
Raven lasciò il suo polso e gli sfiorò la gamba, il sangue scorreva ancora imbrattando le bende, ma lei tenne gli occhi aperti ostinatamente fissi nei suoi. «Starò bene se andrai e ti assicurerai che Trigon non vinca.»
Changeling sospirò, il dolore che provava nel petto faceva sì che il mondo attorno a lui risultasse ovattato e l’aria che si distorceva non faceva che intensificare la sensazione. Non voleva lasciare Raven, ma temeva che non darle ascolto l’avrebbe spinta ad insistere rischiando di farla peggiorare e Lilith e Jeremy lo guardavano supplichevoli, mentre Cyborg teneva gli occhi bassi.
Pulì le mani sui pantaloni della tuta, la cenere si stava accumulando sulla polvere e sui simboli che Belial ed Evren avevano tracciato sul pavimento, il calore offuscava i suoi sensi animali, quindi doveva fare affidamento solo sugli occhi secchi per l’aria pesante. Con un’ultima occhiata sfocata a Raven e gli altri, mutò in un’aquila ed attraversò il varco in un battito d’ali.
Appena fu dall’altra parte gli fu subito chiaro di essere in un’altra dimensione; si sentiva pensante al punto da dover atterrare e ritrasformarsi, ma qualcosa continuò a ribollire nel suo corpo, come se tutti gli atomi del suo corpo si scindessero e riordinassero in continuazione, incapaci di ritrovare il loro equilibrio o forse semplicemente adattandosi al mondo che ora lo circondava. Changeling premette le mani sugli occhi, cercando di fermare la terra che oscillava attorno a lui, di impedire alle rocce di sdoppiarsi disorientandolo.
Cadde in ginocchio sulla sabbia, sembrava che tutto fosse rosso, dal cielo alla terra, tanto che gli venne il dubbio che fossero i suoi occhi ad avere qualche problema. Strofinò i dorsi delle mani sulle palpebre, qualcosa pizzicava all’angolo dell’occhio, forse un granello di polvere smosso dal vento, ma neanche le lacrime incontenibili parevano riuscire a dargli sollievo. Asciugò le guance e si sforzò di guardarsi attorno, studiando con difficoltà ciò che lo circondava.
Se mai si fosse soffermato a pensare a come fosse l’inferno, di certo l’avrebbe immaginato simile per aspetto e temperatura. Ora che era tornato a vedere, si alzò ed avanzò incerto e, ancora chino su sé stesso, scoprì che quella che aveva scambiato per terra era in realtà cenere ancora incandescente che cadeva dal cielo e si ammucchiava ai suoi piedi. Changeling non riusciva a capire cosa stesse bruciando. Si girò un’ultima volta verso il varco, fermi in aria a pochi metri da uno strapiombo che era ben felice di aver evitato.
Gli venne quasi la tentazione di guardare cosa ci fosse lì sotto, ma scacciò via quel pensiero per cercare le impronte degli amici in modo da capire quale direzione avessero intrapreso. Iniziavano proprio davanti a lui, delle incerte piccole fosse abbastanza distanti da fargli intuire che Robin aveva corso. Le seguì, ragionando sul fatto che Starfire e i due mezzi demoni dovevano aver volato fin da subito e, ad un certo punto, Starfire aveva probabilmente sollevato Robin in volo per raggiungerli. Quando le impronte dell’amico si interruppero, Changeling spiccò un salto sfruttando lo slancio per spalancare le ali, trasformando gli arti a mezz’aria, ma non riuscì a mantenere quella forma e precipitò di nuovo al suolo e slittando sulla cenere per alcuni metri.
«Porca miseria.» gemette, sputando la cenere che gli era finita in bocca.
Qualcosa gli impediva di mutare come voleva, il suo corpo quasi non gli obbediva, gli animali racchiusi nel suo DNA mutante facevano a gara per uscire e nessuno di loro riusciva ad avere la meglio sugli altri, provocandogli un gran mal di testa.
Rannicchiato per terra, portò le mani alla testa e strinse denti gemendo. «Basta.»
Prese fiato, capendo che suo mal grado prima di poter essere utile a sé stesso ed a chiunque altro avrebbe dovuto risolvere questo problema, allora si fece forza, issandosi in ginocchio e restando a capo chino, la fronte quasi premuta nella cenere. Se gli animali miravano a venire allo scoperto tutti insieme, avrebbe fatto in modo di dare spazio ad ognuno di loro il più possibile. Cercò nella sua mente gli animali più chiassosi, fece spazio loro uno alla volta, abbastanza per dargli fiato, ma non per prendere il controllo. Lasciò gli artigli affilarsi fino a perforare stivali e guanti, le squame ricoprire la sua pelle, i denti affilarsi e la lingua scattare tra le labbra secche. Strappò le maniche per permettere alle prime ali di svilupparsi direttamente dalle ossa del braccio e ricoprirsi di membrana sottile, rimase chino perché un altro paio si sviluppasse dalla schiena e gemette, quando il loro peso lo investì in pieno e le piume iniziarono a frusciare, accavallate sulla carne fresca.
Mutare era sempre stato abbastanza doloroso ma, pensò Changeling nel percepire la schiena aprirsi in due per liberare una coda di lucertola che subito iniziò ad agitarsi sulla cenere disegnando un ventaglio dietro di lui, probabilmente dopo questo avrebbe evitato di farlo per almeno un mese. Quando finalmente gli istinti animali furono solo dei sussurri nel fondo della sua mente, con il fiato corto ed il proprio sangue che andava a mescolarsi con quello di Raven che aveva addosso, sollevò il capo verso il cielo. Alla fine non aveva ben chiaro quali animali avesse lasciato uscire allo scoperto, ma fu ben felice che uno di essi avesse una membrana sull’occhio che gli permetteva di vedere alla perfezione e sopportare meglio il calore, quindi agitò le orecchie sensibili per cercare di captare dei rumori e scandagliò il territorio circostante in cerca di segni di vita.
Li individuò quasi istantaneamente, alcuni chilometri più avanti, oltre un altro strapiombo che gli impediva di vederli. Prese ancora la rincorsa, arrancando per lo scatto iniziale e poi piegando le ginocchia per darsi lo slancio. La ali si spalancarono, le piume frusciarono mentre lui divaricava le braccia per usare anche l’altro paio, quindi prese quota e si concentrò per dare un ritmo ad entrambe le sue paia d’ali ed a sincronizzarle, poco dopo iniziò a muoversi in avanti invece che verso l’alto e sorvolò la zona deserta, sollevando nubi di cenere ad ogni colpo d’ala. Il terreno scivolò rapido sotto di lui, che si lasciò alle spalle il portale senza guardare indietro, la coda che lo appesantiva restando a penzoloni, costringendolo ad un volo sbilenco a schiena china e con il peso male equilibrato, le gambe flesse in un vano tentativo di tenerle strette contro il corpo ed essere più aerodinamico. Si trovò a chiedersi se correre su quattro zampe non sarebbe stato meglio, poi vide lo strapiombo.
Le rocce finivano su quella che sembrava una scogliera, ma dai riflessi che vedeva risalire da esse, là sotto doveva esserci un mare di lava. Qualcosa si muoveva, grugniva e vibrava, qualcosa colpiva le rocce, rompendole, qualcosa cadeva nella roccia fusa, Starfire e Robin erano là sotto e, almeno per ora, erano vivi. Qualche altro metro permise a Changeling di vedere l’immensa sagoma di Trigon e, inaspettatamente, di Belial ed Evren che lo affrontavano.
Atterrando ad un pelo dallo strapiombo, per prima cosa si sporse e cercò gli amici che, stupiti forse quanto lui, si erano rifugiati su una sporgenza appena una cinquantina di metri più in basso, sotto di loro la lava si ramificava districandosi tra le diverse isolette. Trigon era imponente, i piedi affondavano nella lava senza risentirne ma, assurdamente, sembrava infastidito dagli attacchi ripetuti dei suoi figli, che a Changeling sembravano solo zanzare moleste che lo punzecchiavano saltellando senza alcuna organizzazione. Planò lungo la parete di roccia, voltandosi in caduta libera ed aggrappandosi ad ali spiegate per rallentare la propria discesa. Gli artigli delle mani quasi si piegarono per il suo peso, scavando piccoli solchi nella parete di roccia fin quando, in prossimità degli amici, Changeling piegò le gambe ed usò i piedi per fermarsi.
Starfire e Robin ebbero un sussulto, ma erano illesi.
«Cosa mi sono perso?» domandò loro.
I due tornarono a guardare lo scontro. «Pensavamo che l’avrebbero portato al varco, ma lo hanno attaccato.»
L’incertezza che trapelava dalle parole di Robin, di solito così composto e deciso, lo spiazzò. Starfire lo fissava come se lo vedesse per la prima volta, confusa dal suo aspetto e forse anche dal suo arrivo.
«Dobbiamo aiutarli?» domandò.
Changeling grugnì. «Io non aiuto chi pugnala i miei amici.»
Con una rotazione del braccio, Trigon colpì Belial e lo scagliò contro la parete della scogliera, il suo corpo scavò un solco nella roccia che lo fece sparire alla loro vista per alcuni secondi, polvere e detriti scivolarono verso la lava, atterrando in essa con diversi sonori splash. «Sarà rischioso, ma voglio vedere dove vogliono arrivare.»
Sotto lo sguardo affilato di Changeling, Belial si rialzò, ma non gli diede l’impressione di voler tornare ad attaccare direttamente. Ai suoi occhi, in realtà, era tutto abbastanza semplice, forse per via dei suoi sensi animali. La lotta poteva essere benissimo un modo di far valere il proprio valore, per la contesa di un territorio, per il dominio degli inferi. Forse Trigon si era sentito minacciato e non aveva preso bene il loro arrivo, nonostante il legame di sangue con lui, ma se erano stati loro a cominciare potevano semplicemente essere in cerca di vendetta per la sorte toccata loro a causa delle loro origini. Oppure volerlo spodestare per prenderne il posto nel dominio degli inferi.
Anche Evren planò a terra, proprio dalla parte opposta di Trigon. Lui e Belial rimasero ai due lati del demone, che solo allora si accorse di Changeling e i suoi amici che restavano appollaiati sulla sporgenza. I suoi occhi scintillarono di curiosità, prima che le sue labbra si schiudessero scoprendo i denti in un ringhio che fece vibrare il suo petto e rizzare i peli sulla nuca. Parve che Trigon si fosse dimenticato dei suoi figli, tese il braccio verso Changeling e gli altri, dischiudendo la mano come per afferrarli e, probabilmente, stritolarli, ma prima ancora che loro potessero realizzare quello che stava facendo per reagire lui aveva stretto il pugno a vuoto e chinato lo sguardo.
Changeling pensò che Evren e Belial avessero ricominciato a punzecchiarlo, invece scoprì che avevano approfittato della sua distrazione per disegnare un cerchio magico tutto attorno a lui.
Il ruggito di furia che il demone emise fece tremare la terra, in lontananza qualcosa si alzò in volo sbucando dalla lava sciamando verso di loro. Il cerchio era quasi completo, i due lo avevano disegnato talmente in fretta che Changeling si domandò come avessero fatto, considerata la stazza di Trigon.
«Ecco perché lo attaccavano a turno.» osservò Robin.
Sotto lo sguardo confuso di Starfire, Changeling intuì che mentre uno dei due lo teneva impegnato l’altro si occupava di tracciare il cerchio simbolo per simbolo, incidendo direttamente sulle rocce degli isolotti attorno a lui. Ora che avevano finito, un campo di forza si sviluppò attorno a lui, scie di luce si alzarono fino al cielo formando una barriera. Le creature che arrivavano da lontano formavano una nuvola scura, dietro di loro i fulmini infiammavano il cielo, quasi come se loro stessero arrivando con la tempesta. Changeling non ci teneva affatto a scoprire cosa sarebbe successo se li avessero raggiunti.
Starfire strinse la mano attorno al braccio di Robin, pronta a sollevarlo ed a trascinarlo via. «Dobbiamo andare via?»
«Senza assicurarci che Trigon sia morto? Non cedo proprio.» rispose Robin, i piedi ben piantati sulla sporgenza.
I demoni arrivarono abbastanza vicini per far sentire i loro strilli acuti ed i battiti ritmici delle loro ali, Changeling riconobbe nelle loro ali la forma di quelle che si erano sviluppate dalle sue braccia, piegate seguendo la curva del suo gomito e ora sferzate dal vento e spinte da esso contro i suoi fianchi e contro il ginocchio. Si domandò se in qualche modo il suo corpo si fosse adattato a quella dimensione acquisendo le fattezze degli animali che lo abitavano, ma quando i suoi occhi misero a fuoco i volti bruciati, le braccia scheletriche ed i denti affilati e luridi scoperti verso di loro si disse che mai, per nessuno ragione, avrebbe preso la forma di uno di quelli.
Belial ed Evren portarono le mani alle labbra, premettero i denti sul polso fino a ferirsi e tesero il braccio, lasciando scivolare le mani oltre la parete di luce, lasciando uno squarcio in essa. Il sangue iniziò a gocciolare sul terreno, i rivoli atterrarono sulle rocce fumanti e, invece di seccarsi o evaporare per il calore del terreno, scivolarono verso Trigon che, a capo chino, sollevò i piedi per evitare che lo toccassero. I demoni erano vicini, i primi planarono sulla barriera tentando di attraversarla per arrivare in soccorso di Trigon, ma presero fuoco prima di arrivare a lui, precipitando a terra come un ammasso di carne bruciata. Il secondo sciame evitò la parete di energia girandole attorno in una spirale che, giro dopo giro, li portò all’altezza di Evren e Belial. I due si voltarono per affrontarli, ma Changeling non aveva interesse a guardarli ancora.
Il sangue non smise di rincorrere Trigon, lo raggiunse e scivolò su per i suoi piedi, ripercorse le gambe e i fianchi; nessuno dei tentativi di lui per scrollarselo di dosso pareva funzionare. Trigon si dimenò, cercò di premere i grossi palmi contro i rivoli per asciugarli, ma quelli deviarono, scivolarono verso la sua schiena quel tanto che bastava per essere fuori portata, risalirono dal collo e, prima che lui potesse rendersene conto, si fecero strada lungo le guance e si ripartirono in due scie che raggiunsero gli occhi.
Trigon gridò, il suo grugnito di dolore tuonò facendo quasi perdere l’equilibrio a Robin, che dovette aggrapparsi a Starfire per non cadere. Si accasciò come se avesse perso tutte le energie contro la barriera, che scintillò e sfrigolò a contatto con la sua pelle.
Changeling non si riusciva capacitare di quello che aveva davanti, non avrebbe mai immaginato che avrebbe assistito ad una scena simile, che bastasse così poco per stendere un demone simile. Probabilmente aveva a che fare con qualche magia di sangue, pensò, ed aveva già visto quanto era stato fondamentale per l’apertura del varco e per tutto il resto.
Una volta che Trigon fu in ginocchio, i demonietti apparvero provati quanto lui; lasciarono in pace Belial ed Evren, sbandarono in volo, urtarono gli uni contro gli altri schiamazzando e strillando, sbattendo contro la barriera, cadendo ed ammucchiandosi a terra privi di vita.
«Forse ora dovremmo intervenire.» disse Robin.
Changeling concordava, ma in quell’unico momento di esitazione precedente a quello in cui le sue dita si allentarono dalla roccia per permettergli di saltare via, la barriera cadde, il corpo di Trigon si rovesciò all’esterno del cerchio schizzando la lava e sollevando la cenere da sopra le rocce calde, qualcosa si stava formando nel centro della sua fronte; un taglio verticale quasi simile ad un occhio che si dischiuse, mentre i veri occhi si scioglievano gocciolando liquido putrido seguendo gli zigomi ed imbrattando i capelli bianchi. Belial si alzò in volo mentre gli ultimi demoni morivano, Evren lo precedette, affondando le dita nel taglio ed estraendone una perla rilucente di oscurità abbastanza grande da sembrare una sfera da chiromante. Sembrava che l’oggetto assorbisse la luce intorno, spegnendo i colori ed assorbendo i contorni delle dita di Evren.
Belial tese le braccia e mostrò all’altro i palmi come un mendicante che chiede l’elemosina, anche attraverso i suoi occhi spenti Changeling riusciva a vedere la smania di potere. Non c’erano dubbi che quella sfera contenesse un’energia inimmaginabile, che era ciò a cui avevano mirato fin dall’inizio. La sfera era una minaccia e i ragazzi non avevano idea di come avrebbero voluto usarla, ma sapevano che non avrebbero dovuto permetterlo.
Changeling lasciò che le dita scivolassero sulla roccia, si diede lo slancio per distanziarsi dalla scogliera e ruotò spalancando le ali per indirizzare il suo volo verso i due, sbatté le ali rapido e non si preoccupò di controllare che Robin e Starfire lo stessero seguendo. Belial era troppo vicino alla sfera, Evren troppo tranquillo, era impossibile che non si fossero ancora accorti di loro, che non si stessero preparando a reagire. Evren fu il primo a sollevare lo sguardo, Belial sembrava ancora perso a contemplare l’energia della sfera, che Changeling riusciva a percepire anche da lì, assieme a qualcosa che gli scorreva giù per la spina dorsale fino a raggiungere la punta della coda, che si agitava come se vivesse di vita propria, sollevandosi ed incurvandosi sulla sua testa per prepararsi ad attaccare.
Quando Changeling fu in prossimità dei due, Evren spinse Belial davanti a sé facendosi scudo con il suo corpo. La coda di Changelig si conficcò nel suo petto e iniettò il suo veleno, mentre Belial rantolava di dolore e, stupito ed incerto per il tradimento, cadeva in ginocchio e moriva.


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Capitolo 15
*** Sotto la polvere ***


Raven è fuggita dalla torre ed è tornata anni dopo con tre ragazzi (fratelli da parte di padre): Belial, Jeremy e Lilith. I più piccoli si sono guadagnati le simpatie di Starfire e BeastBoy (che ora si fa chiamare Changeling), mentre Belial è rimasto inizialmente in disparte.
Presto si scopre la ragione del ritorno di Raven: lei, Belial, Lilith e Jeremy stanno preparando un rito per evocare Trigon, ma una volta aperto il varco che lo riporterà in questo mondo, quando i quattro fratelli dovrebbero ucciderlo e bloccarlo per sempre, Belial li tradisce per mantenere il varco aperto, pugnala Raven e dimostra di aver fatto sempre il doppio gioco con Evren, un quinto fratello.
Appurato che in questa fanfiction nata per il BBRae c’era effettivamente poco BBRae, per un po’ Raven è stata morente tra le braccia del ragazzo, poi lui ha seguito Starfire e Robin all’interno del varco oltre cui Evren e Belial erano andati in cerca di Trigon. Ucciso Trigon, i due si apprestano ad assorbire il suo potere, ma Changeling ha colpito per uccidere ed Evren ha usato il corpo di Belial come scudo. E così il karma è girato e Belial c’è rimasto secco (ben gli sta) ed Evren può assorbire da solo il suo potere.


CAPITOLO 14
Sotto la polvere



Raven non riusciva a mettere a fuoco il volto di Cyborg, ma a lei non importava. L’unica cosa che riusciva a percepire più della stanchezza e del dolore era l’eco del tocco di Changeling, persistente anche dopo che lui si era allontanato. Sapeva che era solo una sua impressione, che ora lui non era lì, ma sapere che era accorso per lei ed il ricordo delle sue parole le faceva sperare che non fosse tutto perduto.
Sapeva che Cyborg stava tentando di fermare l’emorragia, ma anche che nessuno avrebbe potuto aiutarla se non fosse stata la prima a fare di tutto per curarsi. Eppure non riusciva a dare il via a quella scintilla che avrebbe risvegliato il suo potere sanativo, impegnata com’era a preoccuparsi di quello che sarebbe successo se Belial ed Evren avessero assorbito i poteri di Trigon. Si chiese che cosa ne sarebbe stato dei suoi amici, dei suoi fratelli e tutta la gente che abitava quel magnifico pianeta, se ci fossero riusciti.
Cyborg continuava parlarle, ma Raven non riusciva a sentirlo; le sue parole si perdevano da qualche parte tra l’orecchio ed il suo cervello e lei non ne comprendeva il significato.
Sentì due piccole mani che le si poggiavano sulle tempie, Lilith invase il suo spazio visivo, le sue lacrime le bagnarono il volto, avrebbe voluto dirle di stare tranquilla, poterle promettere che sarebbe andato tutto bene e sarebbe potuta tornare ad essere felice, ma non voleva e non poteva mentirle. Si sforzò di tenere gli occhi aperti, ma Lilith la stava trascinando contro la sua volontà in un sogno e presto, debole com’era, non riuscì a resisterle.
Il dolore sparì, mentre osservava il parco di Jump City prendere forma davanti a lei; la sua coscienza venne conquistata dall’immagine di una tovaglia a quadri posata sull’erba, mentre i suoi amici ridevano tutto attorno a lei.
«Dimmi, Raven» disse Garfield sorridendole. «Sai qual è il colmo per un gatto?»
Inclinò il capo, pensare a quale potesse essere la risposta divenne un riflesso in volontario, ma non l’avrebbe mai ammesso. Presto dimenticò che si trattava di un sogno e si crogiolò della dolcezza di quella falsa, idilliaca realtà.

Changeling vide Belial cadere in ginocchio, la sua pelle iniziare a sgretolarsi divenendo cenere e perdersi nell’aria tutto attorno a loro. Presto del demone rimase una carcassa annerita che sarebbe potuta sembrare quella di un semplice essere umano bruciato vivo, con le labbra dischiuse in una smorfia di dolore ed un enorme squarcio nel petto là dove la coda di Changeling l’aveva trapassato.
Quando il ragazzo si riscosse e sollevò lo sguardo, Evren aveva avvicinato la sfera al proprio petto e l’aveva appoggiata all’armatura sporca di sangue. Non fece in tempo ad impedirgli di iniziare ad assorbire tutto quel potere, il suo scatto in avanti fu interrotto da una sorta di barriera invisibile che gli provocò centinaia di piccole fitte in tutto il corpo. Quando la barriera si dissolse, la sfera si era smembrata e l’energia oscura stava scorrendo in rivoli addosso ad Evren.
Uno dei Birdarang di Robin sfrecciò accanto a Changeling e colpì il demone, esplodendo in numerose piccole scintille che lo fecero rimbalzare leggermente indietro. Changelig pensò di aver solo immaginato che arretrasse, poiché con tutta quell’energia avrebbe dovuto essere così potente da essere invincibile. Lo squadrò, osservando il modo in cui anche gli starbolt di Starfire andavano a segno; Evren non si sforzava di evitarli ed ognuno di loro lo faceva arretrare, le impronte dei suoi piedi avevano lasciato delle piccole scie di sabbia smossa e solchi tra i ciottoli, l’energia scura ancora gli vorticava attorno. Allora capì, perché le scie di oscurità percorrevano il demone e scivolavano su ogni parte di lui come se lo stessero studiando, infilandosi sotto l’armatura, facendosi largo tra le dita, scompigliandogli i capelli e, solo di tanto in tanto, scivolando dentro di lui attraverso gli occhi, le narici e le orecchie. Quell’energia non aveva familiarità con il nuovo corpo e voleva prima conoscerlo, solo dopo decideva se lasciarsi assorbire per poter diventare parte di lui. Lanciò un’occhiata alle sue spalle, dove trovò Robin che lo fissava a sua volta, capì che anche lui aveva intuito come funzionava. Annuì, pronto a spalleggiarlo per fare qualunque cosa gli avrebbe detto di fare.
Evren incassava i colpi, ma quelli non sembravano disturbarlo. Changeling immaginava che l’energia che lo aveva respinto poco prima lo proteggesse solo dall’essere avvicinato da altri e non da colpi a lungo raggio, allora si fece da parte per permettere a Starfire e Robin di cercare di fiaccarlo; con solo gli artigli e la coda come arma si sentiva inutile, ma non poteva farci nulla. Guardò verso il pendio, e strinse i pugni contro i fianchi, il sangue di Raven si era seccato, ma era ancora pesante sulla sua pelle anche solo per ciò che significava. Sperò che la ragazza stesse bene, non voleva pensare a cosa avrebbe fatto si lei fosse morta e lui non fosse stato lì.
Il rantolo di dolore di Robin lo riportò al presente appena in tempo per vederlo ruzzolare a terra, Changeling si domandò cosa fosse successo. Evren sollevò la spada e si preparò a lanciarla contro il ragazzo; il colpo l’aveva stordito, sapeva che non sarebbe riuscito a rialzarsi in tempo. Corse verso Robin, lo afferrò e lo trascinò di lato, la spada cozzò contro il terreno lasciando un profondo solco sulla roccia. Come aveva immaginato, non era un’arma comune, sospirò per il sollievo di essere riuscito a salvare l’amico appena in tempo ed estrasse gli artigli.
A volte dimenticava che Richard era solo un umano, che non aveva superpoteri né la super forza. Sapeva quanto potesse essere intelligente, agile e furbo, ma questa volta non poteva bastare. Potenza e potere avrebbero potuto essere ciò che avrebbe ribaltato le sorti dello scontro che li aspettava; probabilmente lui e Starfire erano gli unici a poter essere efficaci. Se Raven non fosse già morta, la sua presenza avrebbe potuto essere l’ago sulla bilancia. Rimise da parte il pensiero di lei, si disse per l’ennesima volta che era troppo tosta per morire, che doveva avere fiducia in lei, quasi non vide arrivare la spada di Evren e la lama gli sfiorò il braccio. Il suo sangue cadde a terra e sfrigolò, il calore del terreno lo fece ribollire e seccare in pochi istanti.
Changeling ringhiò contro Evren, che accennò un sorriso; sul suo volto pallido quel gesto gli diede un brivido.
«Non adesso, ragazzino.» disse il demone.
L’ennesimo rivolo di oscurità si avviluppò attorno al suo collo e scivolò all’interno della sua bocca, filtrando tra i denti come nebbia nera. Il resto dell’oscurità faceva ancora sì che Evern sembrasse un buco nero.
Changeling non voleva sapere cosa intendesse, vide Starfire atterrare alle sue spalle e le lanciò un’occhiata, poi rimase dov’era, consapevole che Evren lo stava fissando. Aspettò che Starfire caricasse il colpo, quando lei lanciò la sfera contro Evren sorrise. Ma il demone saltò via all’improvviso.

«Non posso credere che abbia funzionato.» ripeté Cyborg per l’ennesima volta.
Il sangue aveva smesso di scorrere, il potere di Lilith aveva fatto miracoli ed ora lo scudo di Raven le avvolgeva entrambe mentre la sua ferita si rimarginava. Cyborg era rimasto quasi senza parole, ma si sentiva anche molto più sollevato.
«Bastava solo darle un po’ di calma.» spiegò Lilith.
Le mani della ragazzina erano ancora poggiate contro le tempie di Raven, mentre lei pilotava il suo bel sogno per tenercela incastrata dentro.
«Starà bene?» domandò Jeremy.
Cyborg gli sorrise «Credo proprio di sì.»
Quello che preoccupava il ragazzo, ora, era ciò che stava succedendo oltre il portale; se avesse potuto inviare un drone che gli inviasse le immagini dello scontro l’avrebbe fatto, ma era partito dalla torre tanto in fretta che non aveva pensato di portarsene dietro uno.
Forse ora che Raven può curarsi potrei raggiungerli, pensò.
Strinse i pugni, pochi passi lo separavano dal mettere in pratica questa idea, ma il calore che si faceva strada nella sua dimensione attraverso il varco lo fece esitare e qualcosa si muoveva in lontananza. Tra le vallate deserte e le apparentemente sconfinate pianure di terra rossa e cenere una figura si faceva largo verso di lui, la sua sagoma ondeggiava a causa dell’alta temperatura davanti al suo occhio stanco.
Sentendo Jeremy muoversi fino a raggiungerlo al suo fianco, Cyborg capì immediatamente che anche lui l’aveva vista e, vedendo l’altro rigido lungo la linea di confine, seppe che non si trattava di un amico. «È quel mostro.» disse Jeremy.
Non Belial, realizzò Cyborg, né Trigon. Non era certo di poterlo gestire, da solo. Ma non era solo, realizzò; i fratelli di Raven erano con lui e sperava che presto lo sarebbero stati anche Robin, Changeling e Starfire. Doveva continuare a pensare che fossero impegnati con Belial, perché non avrebbe potuto sopportare che fosse diversamente.
Il demone si avvicinava sempre di più, i capelli al vento e la spada che ondeggiava contro la coscia, ma più era vicino e più era chiaro che non fosse solo il calore dell’inferno a distorcerne l’immagine, poiché tutto attorno a lui ondeggiava un’aura di fitta oscurità che pareva quasi palpabile.
Presto fu tanto vicino che potevano vederlo in faccia, il volto era contorto in un ghigno di soddisfazione che fece temere a Cyborg il peggio per i suoi amici. Diede un’ultima occhiata a Raven, che fluttuava con Lilith a pochi metri da terra. Sperò che fossero al sicuro, protette all’interno della sfera di energia, perché non aveva idea di quello che sarebbe accaduto a breve tutt’attorno.
Quando il demone oltrepassò il confine tra le due dimensioni fu come se una bomba fosse esplosa alle sue spalle, un intenso flusso di energia sbalzò Cyborg e Jeremy indietro.
L’impatto contro la parete riscosse Cyborg, la polvere ed i calcinacci caddero addosso a lui ed al ragazzino impigliandosi ai capelli ed al mantello del piccolo.
«Non lasciare che esca.» disse Cyborg.
Dimenticò che fosse poco più di un bambino, sperò che con Raven avesse imparato abbastanza per proteggersi ed essere utile. Si rialzò e sorrise, quando vide che lo affiancava praticamente all’istante.

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Capitolo 16
*** Allo scadere del tempo ***


Vi lascio al riassunto dei capitoli precedenti e vi ricordo che ora la fanfiction è anche su Wattpad

Raven è fuggita dalla torre ed è tornata anni dopo con tre ragazzi (fratelli da parte di padre): Belial, Jeremy e Lilith. I più piccoli si sono guadagnati le simpatie di Starfire e BeastBoy (che ora si fa chiamare Changeling), mentre Belial è rimasto inizialmente in disparte.

Presto si scopre la ragione del ritorno di Raven: lei, Belial, Lilith e Jeremy stanno preparando un rito per evocare Trigon, ma una volta aperto il varco che lo riporterà in questo mondo, quando i quattro fratelli dovrebbero ucciderlo e bloccarlo per sempre, Belial li tradisce per mantenere il varco aperto, pugnala Raven e dimostra di aver fatto sempre il doppio gioco con Evren, un quinto fratello.

Appurato che in questa fanfiction nata per il BBRae c’era effettivamente poco BBRae, per un po’ Raven è stata morente tra le braccia del ragazzo, poi lui ha seguito Starfire e Robin all’interno del varco oltre cui Evren e Belial erano andati in cerca di Trigon. Ucciso Trigon, i due si apprestano ad assorbire il suo potere, ma Changeling ha colpito per uccidere ed Evren ha usato il corpo di Belial come scudo. E così il karma è girato e Belial c’è rimasto secco (ben gli sta) ed Evren può assorbire da solo il suo potere.

CAPITOLO 15
Allo scadere del tempo



«Non lasciare che esca.» disse Cyborg.

Dimenticò che fosse poco più di un bambino, sperò che con Raven avesse imparato abbastanza per proteggersi ed essere utile. Si rialzò e sorrise, quando lo vide affiancarlo praticamente all’istante.

Entrambi pestarono i piedi per terra, scavarono quasi delle impronte sulla polvere e sui piccoli frammenti della parete che erano scivolati fin lì poco prima. Jeremy, disarmato, si piegò in avanti, le ginocchia flesse quasi come quelle di un corridore che si stesse preparando ad iniziare una maratona, a Cyborg parve che la sua intenzione fosse quella di correre incontro al demone appena fosse arrivato da loro e rispingerlo dentro con la sola forza del proprio corpo corpo. Fu proprio quello che Jeremy fece, Cyborg aveva ancora il braccio sollevato, si sorreggeva il polso con l'altra mano pronto a lanciare uno dei suoi attacchi, quando il ragazzino attraversò il varco con due soli passi. Lui e il demone si scontrarono all'istante e, da quel tocco, si generò un'onda d'urto che sbalzò indietro dapprima Jeremy stesso e poi anche Cyborg, che finì contro la parete. La forza dell'impatto incrinò l'intonaco, fece cadere alcuni calcinacci sul capo del ragazzo e aprì una crepa che quasi raggiunse il soffitto. Quando riuscì a togliersi dal volto le tracce dei detriti, Cyborg scopri che il demone era già nel loro mondo.

Non c'era voluto molto perché il loro piano di tenero dall'altra parte fallisse, forse a causa dello scontro di potere che era derivato dal contatto di Jeremy e del demone, e Cyborg non poté fare a meno di voltarsi a cercare Lilith e Raven con lo sguardo, certo che sarebbero state il prossimo bersaglio.

Ma non lo furono, invece il demone restò per alcuni secondi immobile, piegato sul pavimento ancora sporco di sangue, dove Raven aveva aperto il portale. L'armatura dell’uomo, che ormai sembrava un uomo ancor meno di quanto lo fosse sembrato prima, sferragliò e si piegò contro i suoi muscoli come se non riuscisse più a trattenerli. I lacci che la tenevano premuta contro i suoi polpacci furono i primi a saltar via, dando spazio ad una crescita spaventosamente rapida dell'arto, poi toccò alle spalliere, al pettorale, alla fascia di ferro che aveva avvolta attorno alla vita. Il demone iniziò a gonfiarsi, la pelle sfrigolò e si ricoprì di una fitta rete di venature nere che percorsero tutto il corpo, tra i capelli nudi, poiché il demone non indossava alcun elmo, spuntarono due grosse corna nere e ricurve. Stava nascendo un nuovo Trigon e Cyborg non aveva ancora idea di dove fosse finito il precedente.

Rimase inerme nel vedere prendere forma la creatura che aveva davanti, nell’avvertire la profonda oscurità che essa emanava. Quell'energia, quella malvagità che gli faceva rizzare i peli sulle braccia faceva anche tremare il soffitto e il demone divenne sempre più grande, il suo peso crebbe sempre di più finché egli non lasciò le sue impronte non solo sul sangue che Raven aveva versato sul pavimento, ma sulla superficie del pavimento stesso.

Cyborg guardò Lilith e Raven ad occhi sgranati, la ragazzina riuscì a spostare sé stessa e la sorella fino ad arrivare fuori dalla portata del demone. Jeremy, invece, sì tiro su stordito e, con la mano premuta contro la nunca, rischiò quasi di essere colpito da una gomitata.

Il ragazzino si spinse indietro, scivolò traballante verso Cyborg, che lo afferrò per un braccio e lo tiro su, stringendolo a sé.

Il demone crebbe sempre di più davanti ai loro occhi, era chino in avanti e nonostante questo quasi occupava metà dello spazio che della biblioteca. Sì tiro su, probabilmente consapevole del fatto che a breve non sarebbe riuscito a restare lì dov’era, che presto sarebbe stato troppo grande.

In piedi sfiorava il soffitto, sollevò la mano e spinse il palmo contro gli affreschi della volta, sollevandolo e scavando per raggiungere la superficie. Cocci e lastre più spesse iniziarono a cadere, infrangendosi contro il pavimento con un gran fragore e sollevando grandi masse di polvere.

Cyborg guardò verso Raven e Lilith, ogni frammento di pietra che arrivava loro addosso veniva scagliato via dallo scudo, che pareva proteggerle al suo meglio mentre la luce del giorno inondava la stanza. Lui è Jeremy, invece, erano inermi.

Strinse il ragazzino per un braccio e, quando capì che lui non riusciva a reggersi in piedi, se lo caricò in spalla. Un grande porzione del soffitto scivolo verso di loro, le puntò contro il suo cannone e la frantumò con un singolo colpo. Gli fu subito chiaro, senza bisogno di pensarci, che avrebbero dovuto andarsene via da lì al più presto. Strinse Jeremy a sé, lo sentì tossire, lo stomaco che si contraeva contro la sua spalla, allora percorse a grandi falcate il poco spazio che lo divideva dalla scala e iniziò a correre su, verso l'esterno.



Un momento prima Evren era davanti a loro ed il momento dopo al suo posto c'era solo la roccia bollente, gli occhi di Changeling ci misero un secondo di troppo a spedire quell'informazione al cervello; quando lo fecero, Robin si sorreggeva alla sua spalla. Il ragazzo sollevava a turno i piedi dal terreno, le suole fumanti che andavano squagliandosi sempre più minuto dopo minuto.

«Tra poco resterò scalzo.» commentò.

Changeling gli permise di appoggiarsi a lui finché Starfire lo sollevò da terra, stringendo le sue braccia e tenendolo sospeso a pochi centimetri dal suolo. Changeling lasciò che fossero loro a precederlo lungo la strada del ritorno, in lontananza Evren sfrecciava via veloce, si era lasciato dietro una nuvola di polvere e sabbia rossa che lo celava alla vista, per quanto potevano saperne avrebbe potuto benissimo già essere fuori di lì.

Chinando gli occhi verso il terreno, là dove le scarpe non erano riuscite ad adattarsi alla nuova trasformazione strappandosi sulle punte per lasciare spazio alle grosse dita tozze e pelose della bestia, scoprì che parte della pianta del suo piede sfiorava la roccia bollente. Neppure se n'era accorto, non per via dell'attenzione che aveva riservato allo scontro ma a causa della sua nuova forma, che gli aveva donato una apprezzata resistenza, oltre che una violenta e pressante serie di istinti che sentiva sibilare e strisciare dentro di sé in attesa che abbassasse la guardia per mostrarsi in tutto il loro impeto.

Deglutì, dispiegò le ali e piegò le ginocchia per darsi uno slancio che gli permettesse di alzarsi ancora una volta in volo.

Era veloce, forse più di quanto lo fosse mai stato nella più veloce delle altre sue forme, e sentiva i muscoli che permettevano alle sue ali di reggere il suo peso flettersi a partire dalle sue scapole senza quasi nessuna fatica.

Fu al fianco di Starfire e Robin in poco tempo e scambiò un'occhiata con loro quando furono in prossimità del portale. Era facile individuarlo, poiché era il punto in cui la terra rossa e la sabbia lasciavano spazio alla polvere ed al pavimento decorato della biblioteca, ora illuminato.

Oltre esso, scoprirono Changeling ed i suoi amici appena furono fuori, il soffitto era crollato quasi del tutto mostrando sprazzi del cielo notturno, i cocci avevano formato una montagnola poco distante, accumulandosi e celando in parte il globo pulsante che proteggeva, Changeling lo scoprì solo ad un'occhiata più attenta, Lilith ed una Raven ancora incosciente.

Si arrampicò sui detriti per arrivare al loro fianco, ignorò l'ombra del demone enorme contro cui, alle sue spalle, Jeremy, Cyborg e da quel momento anche Robin e Starfire, stavano combattendo, ed afferrò con entrambe le mani una delle lastre più grosse tra quelle che fino a poco prima avevano fatto parte del soffitto. Parte della lastra quasi gli si sgretolò tra le dita, il resto volò via come fosse cartongesso, la forma di demone persisteva nonostante avesse lasciato il luogo che l'aveva generata, oppure era quel luogo stesso, con la sua essenza, che stava scivolando velocemente nella loro realtà.

Tranquilla, sono io, disse a Lilith, vedendola accoglierlo con gli occhi strabuzzati e le mani che tremavano visibilmente contro la pelle di Raven.

Spinse via un altro mucchio di calcinacci che scivolarono giù per lo scudo, poiché esso manteneva al sicuro sia Raven che la sorella, non provò ad attraversarlo né a farsi più vicino, domandò invece:

«Come sta?»

«Sta guarendo» rispose Lilith, il sorriso mesto nonostante fosse visibilmente sollevata.

In effetti, notò Changeling, il sangue aveva smesso di sgorgare dalla ferita, anche se imbrattava ancora la maglia e, forse per effetto dello scudo che si frapponeva tra loro, Raven gli pareva ancora mortalmente pallida.

Lo scudo era ancora alzato, non avrebbe potuto fare nulla per lei, quindi changeling si alzò e inspiro forte.

Avrebbe dovuto lasciare Raven da sola un'altra volta, ma se grazie a questo una volta che lei si fosse svegliata avrebbe trovato tutte le cose a posto ne sarebbe valsa la pena.

Dispiegò le ali e si diede lo slancio per prendere il volo, ruotò a mezz'aria e premette le ali contro la schiena mentre lo slancio lo spingeva dritto fuori dalla biblioteca, spuntando a poche decine di metri dalla caviglia ricoperta di peli di Evren.

Girò attorno al demone, scrutò e studiò il campo di battaglia tutto attorno, analizzò bene la posizione dei suoi amici, fermi a distanza di sicurezza là dove potevano attaccare senza il rischio di essere calpestati, e calcolò approssimativamente quante centinaia di metri ci fossero tra l'enorme creatura e la città addormentata. Le sirene della polizia si sentivano già in lontananza, ma Changeling era quasi certo che non avrebbero potuto fare nulla per aiutarli e non potevano nulla neppure gli elicotteri che vedeva sfrecciare dritto verso la loro posizione. Quella era una battaglia che apparteneva a loro, a chi aveva avuto un addestramento speciale e soprattutto a chi aveva il potere e le capacità per portarla a termine.

Scese in picchiata verso Robin quando vide il mostro fare un passo in avanti e quasi rischiare di calpestare l'amico, lo afferrò per i fianchi spingendolo via e stringendolo a sé con un sussulto fino a trascinarlo al sicuro.

Starfire gli fu a fianco immediatamente, così veloce che neppure la vide arrivare, ma quando furono insieme virarono fino a raggiungere Cyborg e Jeremy.

Non vi furono domande tra loro, Changeling non era interessato a sapere cosa fosse successo in sua assenza, né capire il perché di quel cambio così repentino di dimensioni, ma gli sarebbe piaciuto che gli amici potessero dirgli immediatamente dove colpire per abbattere il gigante rosso.

Ma nessuno sapeva dove puntare, lo colpirono alle caviglie ripetutamente cercando di rallentarlo e di convincerlo a non avvicinarsi alla città, tentando di buttarlo giù prima che finisse per calpestare qualche civile. Erano ancora nella zona disabitata, ma grazie al passo enorme di Evren erano certi che non lo sarebbero stati a lungo.

Appurato che colpire le caviglie non era la migliore delle tattiche, Starfire prese quota e provò a colpire gli occhi, ad accecarlo, a impedirgli di vedere ciò che aveva davanti per poi, probabilmente, attirarlo in un'altra direzione. Intuendo quale fosse l intenzione di lei, changeling le volò accanto e, come Se riuscissero a leggere uno nella mente dell'altra, coordinarono i propri colpi.

Dall’altezza raggiunta, essendo proprio di fronte al demone, changeling riusciva a guardarlo dritto in faccia, poteva leggere chiaramente il suo ghigno per nulla infastidito, cogliere la sfumatura nero perla dei suoi occhi. Erano solo due, si rese conto Changeling, forse si aspettava che sarebbero diventati quattro come quelli di trigon, ma non era stato così.

Nonostante non sembrasse essere infastidito dai loro colpi, il demone sollevò una mano e la sventolò davanti a loro, quasi come se volesse schiacciare delle mosche o delle zanzare fastidiose e, quando riuscì a colpirli, changeling si trovò scagliato all'indietro con il petto e la mascella dolorante. Precipitò per qualche metro, preda dell'aria che lo avvolgeva e dell'intontimento causato dalla botta ricevuta, ma si riprese in fretta, doveva, e si voltò per riprendere quota appena in tempo per non colpire il terreno.

Batté le ali al massimo delle sue possibilità per tornare in alto, sempre di più, e superò prima l'altezza delle caviglie, poi delle ginocchia e del bacino del demone, i colpi di cannone di Cyborg che lo accompagnavano ad ogni battito. Lui e Starfire sembravano essere gli unici in grado di avvicinarsi abbastanza per colpirlo di persona, Robin cercava ancora di sbilanciarlo, colpendo con i suoi Birdarang le caviglie ed il tallone. Sembrava che Evren neppure se ne accorgesse.

E poi c'era Jeremy, piccolo, quasi spaurito, nascosto all'ombra di Cyborg e quasi affondato nel cappuccio della propria felpa. Changeling non poté dedicargli più che l'occhiata di un secondo, poi si spostò alla spalle del demone e lo afferrò per l'orecchio appuntito, lo tirò indietro, lo trattenne, cercando di dirigerlo come si fa con un cavallo quando gli si vuol far cambiare direzione. La città era sempre più vicina, tra i vicoli appena un po' distante iniziavano a sistemarsi le volanti della polizia, le sirene ancora accese.

«Andiamo, razza di diavolo schifoso.» disse Changeling, e per un attimo gli parve che la forza data dalla sua nuova forma riuscisse rallentarlo. Poi il demone sollevò la mano e si voltò verso di lui, allungando le dita come per afferrarlo. Changeling usò la punta delle sue stesse dita per darsi lo slancio ed evitare che riuscisse a stringerlo. Nella foga scostarsi da lì andò ad urtare una delle due corna, vi si afferrò per non perdere l'equilibrio, quasi le sue ali si impigliano tra i capelli bianchi del demone e, con un istante di troppo, si mosse finendo per essere colpito all'ala e precipitò sul terreno.

Si aspettava di atterrare sull’asfalto, sul tetto di un’abitazione, a metà di una ringhiera tra un balcone ed il vuoto che dava sulla strada, invece Robin lo afferrò in volo, appeso all suo arpione, e lo scortò fino a raggiungere Cyborg e Jeremy.

Evren passò loro davanti, li ignorò, procedette imperterrito, gli occhi vacui puntati verso la città ed il passo sicuro, ogni volta che posava il piede nudo - come era il resto della sua figura - per terra, erano tetti sfondati, pareti crollate, enormi fosse lungo il suo percorso.

Changeling si chinò sul terreno al fianco di Jeremy, lo stomaco in subbuglio, l’ala dolorante, la sensazione di non riuscire a reggersi in piedi lo fece traballare un momento prima di potersi drizzare e riuscire a lasciarsi cadere per sedersi sul marciapiede freddo.

A separarli dal demone prima solo un paio di strade, poi una mezza dozzina e più spazio c’era tra loro e lui meno ce n’era tra lui e la città.

Evren doveva essere alto più trenta metri, Changeling non riusciva a capire se stesse crescendo ancora oppure no, allora scosse il capo per ricordare a sé stesso che non era importante, che comunque avrebbero dovuto ucciderlo, qualunque altezza avesse raggiunto.

Jeremy era ancora fermo, quasi tremava, Changeling gli posò una mano sulla spalla e questo gli provocò un sussulto.

«Stai bene?» gli domandò. Gli occhi si muovevano velocemente da lui al gigante rosso, non voleva perdersi neppure un secondo di ognuna delle cose che gli stavano accadendo attorno, come se perdendosi un millisecondo di ciò rischiasse di perderne anche il controllo. Quello non l’aveva mai avuto, però, rammentò.

Jeremy annuì, anche se poco convinto, e sollevò il capo e lo guardò, gli occhi spenti, pieni di apprensione e timore, in attesa.

Robin gli batté una mano sull’altra spalla e gli disse: «Abbiamo bisogno di te, ora che Lilith, è impegnata con Raven.»

Jeremy sgranò gli occhi e tremò, annuì, si morse il labbro e chinò ancora il capo.

Changeling comprendeva bene la ragione per cui Robin aveva detto ciò che aveva detto; il ragazzino, che aveva tra loro un tipo di potere più simile a quello del loro nemico, avrebbe potuto essere il loro jolly, la loro speranza, quello che aveva maggiori possibilità. Sarebbe stato un compito arduo, ma non avevano altra scelta che affidarlo a lui. Gli sarebbe stato accanto, decise Changeling, passo dopo passo, ad aiutarlo in ogni modo possibile.

«Cosa devo fare?» domandò Jeremy, la voce tremante e gli occhi tondi ben visibili sotto al cappuccio.

Mentre Starfire era sospesa in cielo, intenta a colpirlo come poteva, il demone aveva rallentato il suo incedere per cercare di afferrarla, ma la ragazza era veloce, furba, e non restava mai più un momento nella stessa posizione. Disegnava diverse figure in aria secondo uno schema sempre diverso, mai prevedibile, così Evren stringeva i pugni nel vuoto ogni volta.

«Dobbiamo impedire che arrivi in città.» spiegò Robin. «Spingilo indietro, fai da esca perché ti segua, quello che vuoi, ma non farlo procedere.»

Changeling si rimise in piedi e strinse la presa sulla spalla del ragazzino, cercando di dargli coraggio, di fargli capire che avrebbe potuto farcela, che poteva credere in sé stesso. Quando Jeremy sorrise, prima di rizzare la schiena e di inspirare a pieni polmoni, gli piacque pensare che avesse funzionato almeno un po’.

Il ragazzino annuì si liberò del cappuccio che gli metteva in ombra il viso e deglutì, Changeling sperò che lui potesse avvertirlo e trarre forza dalla fiducia che aveva in lui. «Però non sono tanto bravo a indirizzare i miei poteri, di solito mi lascio trascinare troppo dalle emozioni che ho attorno.»

Cyborg gli si avvicinò.

«Allora accoglile, abbiamo tutti lo stesso obiettivo, lascia che ti accompagnamo così.»

E così Jeremy fece, per un momento chiuse gli occhi rivolto direttamente verso il demone, Changeling lesse la sua concentrazione nella sua immobilità, nel suo respiro quasi trattenuto e nel modo in cui le ciglia tremavano gettando lunghe ombre sulle sue guance, poi i familiari tentacoli di energia oscura si dipanarono dal suo corpo, scivolarono strisciando e sibilando nell’aria, serpeggiarono fino a percorrere lo spazio che li divideva dal demone passando di strada in strada e passando per diverse traverse, dalle finestre delle case abbandonate, per le porte. Changeling e gli altri non capirono che erano arrivati ad efferrare Evren finché non li videro avvilupparsi su per una delle gambe e stringere la presa sulla sua pelliccia fiammante. Il demone mosse per primo l’altro piede, probabilmente arrivò ben vicino alle volanti della polizia, perché gli agenti presero ad urlare e ad ordinargli di tornare indietro ed il suo sguardo si soffermò sulla strada davanti a sé, prima che lui tornasse a guardarsi indietro. Poi li osservò, arricciando il naso aquilino come per esternare il suo disappunto per quella mossa, e provò a tirar su il piede. Jeremy tremò, quando riuscì a sollevarlo di alcuni metri, e quasi gridò quando riuscì a costringerlo a tirarlo ancora una volta giù e vi riuscì.

L’impatto fece tremare la strada e saltar giù qualche tegola dei tetti più vicini, Starfire approfittò della distrazione e di quella posizione - Evren aveva il busto per metà direzionato verso la propria sinistra - per scendere velocemente verso di lui e spingerlo a braccia tese a fare qualche passo indietro. Lui quasi si sbilanciò e, per non cadere, dovette ondeggiare sul posto in un modo quasi ridicolo. Changeling avrebbe riso, se quel movimento non avesse fatto tremare il quartiere ancora una volta.

Prima che potesse avanzare ancora, Starfire tornò indietro e fece inversione curvando in aria per spingerlo indietro ancora una volta, ma ora Evren se l’aspettava e gli bastò disegnare un arco con la mano per arrestare la sua corsa ed afferrarla.

La strinse nel proprio pugno, Changeling avvertì la nausea catturarlo al pensiero che forse se l’avesse stretta abbastanza forte avrebbe potuto ucciderla, Jeremy mollò la presa alla caviglia del demone e lasciò che i suoi tentacoli salissero ancora più in alto, fino a percorrere il braccio e avvolgersi attorno alla ragazza, pronti a proteggerla ed a contrastare ogni tentata mossa del gigante.

«Grande.» disse Robin. Poi si rivolse verso Changeling: «Portami lassù.»

Lui non esitò ad afferrarlo sotto le braccia ed a spalancare le ali, una volta in volo si spinse di lato per arrivare dal demone raggiungendolo dal fianco, Robin gli indicò di lasciarlo sulla spalla di lui e così Changeling fece. Robin scivolò lungo il braccio di Evren, corse per raggiungere Starfire, la presa del demone di stringeva sulla ragazza che urlava in preda al dolore, nonostante i poteri di Jeremy la proteggessero al massimo delle possibilità del ragazzo.

Robin afferrò le dita del gigante, provò ad aprirle come poteva, tirando, spingendo, usando la gamba come leva, ma nulla pareva servire.

Evren non si dette pena neanche di cercare di fermarlo e rimase a guardare, sorridendo, mentre anche Changeling si poneva di fronte a Robin e cercava di dischiudere quella presa, quasi come se si divertisse.

L’avrebbe stritolata, realizzò Changeling, doveva solo aspettare che loro si stancassero di contrastare la sua stretta, che fossero troppo stanchi per insistere, che si distraessero a causa degli arti intorpiditi. Forse, pensò con un moto di orrore, già in quel momento avrebbe avuto la forza di spazzarli tutti via e si stava solo divertendo.

Puntò gli artigli nel dito di Evren che stava stringendo e ringhiò verso di lui, cercando di non sentirsi impotente.

Non era ancora stanco, quando il sorriso del demone si spense, né si aspettava che allentasse davvero la presa, alla fine, e lasciasse che Starfire cadesse giù. Un momento prima stava cercando di allentare quella presa, il momento dopo volava indietro e Starfire precipitava verso la strada. Volò verso di lei, tese le braccia per afferrarla e si voltò, nel sentire Robin gridare. Evren aveva abbassato il braccio, facendogli perdere l’equilibrio e facendo cadere anche lui, così Changeling strinse Starfire a sé e poi si rigirò in aria per afferrare anche lui e, incapace di volare a causa del peso dei due amici, finì per schiantarsi per terra e subire l’impatto per tutti e tre.

Gemette di dolore, rimase steso sull’asfalto, le gambe sollevate a causa della presenza del marciapiede, i due amici ancora premuti addosso. Gli occhi erano puntati su Evren che, sopra di loro, guardava dietro di sé; il suo incedere verso la città si era concluso ed ora restava immobile, il volto contorto di rabbia, mentre i viticci neri di energia oscura lo avvolgevano. Solo che, e gli fu chiaro quando Jeremy li raggiunse e gli si chinò accanto, non appartenevano alla magia del ragazzino.

Cyborg sollevò Robin e poi Starfire, Changeling gliene fu infinitamente grato perché riuscì subito a respirare meglio, anche se non osò comunque alzarsi e, anzi, quando l’amico gli porse una mano preferì rifiutare l’aiuto e rimanere disteso lì dov’era. Aveva una visione quasi perfetta del mento di Evren, di lui che osservava prima loro e poi la persona - l’altro demone - che lo stava attaccando, del modo in cui pareva volesse provocare il suo assalitore restando loro accanto, gli parve.

Alla fine Evren diede uno strattone con il braccio, trascinandosi indietro e riuscendo a divincolarsi, anche se di poco, dalla presa dell’energia nera, sollevò il piede e lo pose sopra di loro, preparandosi a calarlo per calpestarli. L’energia che lo avvolgeva si fece da parte un momento, per permettere ad un tentacolo più affilato di colpirlo e affondare nel suo petto, trapassandolo come fosse burro, poi Changeling iniziò a udire la cantilena e, seguendo la voce di chi la pronunciava, trovò la figura di Raven - in piedi anche se un po’ barcollante - in cima al tetto proprio dietro di loro.

L’amica aveva le braccia aperte, come se volesse accogliere il demone in un abbraccio, proseguiva nella sua litania che probabilmente era un incantesimo che nessuno di loro conosceva e, con Lilith al suo fianco, da sola pareva essere in grado di ferire il demone più di quanto fossero riusciti tutti loro.

Nonostante gli occhi neri che esprimevano al meglio la sua natura demoniaca, Changeling riuscì a notare solo il volto pallido ed il suo procedere incerto, come se stesse mettendo tutte le sue energie in quell’attacco senza essere guarita definitivamente. E forse stava funzionando, perché Evren gridò, si piegò su sé stesso, si portò le mani alle tempie e calò il piede per reggersi in equilibrio, Jeremy lo spinse via appena in tempo, spostando sé stesso e gli altri con una sferzata della propria energia, poi Changeling lo vide scambiare uno sguardo con Lilith, che gli fece cenno di raggiungerlo sul tetto. Lui obbedì, gli bastarono un paio di salti accompagnati dal suo potere per arrivare a destinazione, e come Lilith afferrò e strinse la mano della sorella.

Anche loro due iniziarono a recitare l’incantesimo; chi aveva dato inizio a tutto poteva anche porne fine, probabilmente. Changeling sperava che fosse così e soprattutto che il prezzo da pagare non fosse troppo alto. Passarono interminabili minuti in cui la formula venne ripetuta così tante volte che perfino lui riuscì a memorizzarne alcune parole. Avrebbe potuto essere utile, se le avesse recitate?, si chiese. ne dubitava fortemente.

Vide Raven chinarsi in avanti, troppo debole per reggersi in piedi, e prima ancora di rendersene conto si era alzato in volo e l’aveva raggiunta, frapponendosi tra lei ed il demone per sorreggerla.

«Ce la puoi fare, lo so» le disse guardandola dritta negli occhi scuri. «Ma non morire nel tentativo, ti prego.»

Non era certo che l’avesse sentito, si fece da parte per non celare Evren alla sua vista ma le rimase accanto, stringendola per la vita per tenerla in piedi. Ogni atomo del suo corpo, ogni briciolo del suo istinto, gli sussurrava di afferrarla e correre via da lì, portandosi dietro i ragazzi ed i suoi amici, ma farlo avrebbe provocato la morte di troppe persone.

Alla fine, quando il suo istinto ebbe quasi preso il sopravvento nel vedere il volto di Raven contorto in una smorfia di dolore, Evren gridò e venne avvolto dalle fiamme.

Prima che Changeling potesse gioirne, Raven si accasciò contro di lui, totalmente inerme.

***

Chiedo ancora una volta infinitamente scusa per il ritardo e, questa volta per davvero, l'epilogo arriverà il 29 dicembre, prometto e questa volta non sgarro, giuro.

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Capitolo 17
*** Epilogo ***


EPILOGO



Le emozioni altrui non l'avevano abbandonata neanche un momento, mentre era stata incosciente; l’avevano avvolta, le avevano indicato in ogni momento chi era al suo fianco.

Aveva sentito Lilith e Jeremy, in loro una leggerezza anomala, come se tutto il peso del mondo non fosse più in grado di colpirli e ferirli. Aveva avvertito Dick, la preoccupazione mista al rimbecco causato dalla sua fuga ed al suo chiudersi in se stessa assieme alla sua famiglia di sangue. Kori era stata come un sole e si era fermata tanto, per tutto il tempo in cui aveva percepito la sua presenza non era riuscita a sentire altro che felicità, sollievo, certezza il futuro sarebbe stato fantastico. Ogni volta che l’amica si allontanava quel buonumore e quell’ottimismo restavano in parte con lei, colmandola di un tepore da cui non avrebbe mai voluto separarsi. Di solito poi arrivava Victor, i cui sentimenti rispecchiavano più la preoccupazione e la consapevolezza di essere la persona che avrebbe dovuto occuparsi della sua salute. In lui non c'era felicità, ma una calma sincera e stabile che, Raven lo avvertiva, rispecchiava il sollievo per la sua altrettanto stabile situazione di salute.
Ma la presenza più confortante era quella di Garfield, che andava a trovarla spesso assieme Lilith, i due emanavano sempre un tornado di complicità di cui quasi non riusciva a capacitarsi. Le sarebbe piaciuto sentire anche cosa avessero da dirsi, conoscere il modo in cui si erano adattati l'uno all'altro, invece doveva stare lì in attesa, accontentandosi di quel briciolo di mondo esterno che i suoi poteri riuscivano a portarle attraverso la sua incoscienza.

Tutto questo la cullò a lungo, mentre il tempo passava senza che lei riuscisse a tenerne il conto. I giorni trascorsi avrebbero potuto essere solo un paio oppure centinaia, avrebbe potuto pensare di essere lì da pochi secondi, se non avesse riconosciuto l’alternarsi di quelle auree.

Arrivò il giorno in cui accanto a quelle emozioni, perlopiù distante ed ovattato, avvertì il calore del letto su cui era distesa e la morbidezza invitante delle coperte e del materasso, una sensazione così piacevole che quasi non avrebbe voluto mai privarsene. Era passato molto tempo dall'ultima volta che si era svegliata con quella sensazione e non era più abituata a sentire l'odore delle frittelle di Victor prima ancora di riaprire gli occhi, rimase immobile a bearsi di quel sogno con il timore che potesse svanire. La coscienza tornò pian piano, le ricordò per prima cosa che la torre non era più la sua casa da tanto tempo, poi che aveva due fratelli minori a cui pensare.

All'improvviso svanì ogni ricordo delle emozioni che le avevano tenuto compagnia mentre guariva, avrebbero potuto essere solo un sogno, un'illusione che la sua mente aveva creato per mantenere la calma mentre il suo corpo cancellava ogni ferita. Si mise a sedere e scoprì che nell'ansia del momento non aveva letto la presenza al suo fianco, ma Victor era lì e le sorrise con calore, poi si sporse verso di lei e l'aiuto a togliersi di dosso gli elettrodi che fino ad allora avevano monitorato i suoi segnali di vita.

«Eccoti qua, finalmente.» disse.

Raven avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma avvertiva la gola secca e tossì.

Pronto per quella evenienza, Victor versò dell'acqua nel bicchiere che stava sul comodino e glielo porse, attendendo pazientemente che lei bevesse.

Continuava a fissarla, fregandosene altamente del fatto che avrebbe potuto darle fastidio, dello sguardo di rimprovero che Raven stessa era sicura di avere negli occhi e destinava proprio lui.

Il suo calore, il suo sollievo, la sua felicità, erano ora palesi, tanto che a Raven si strinse al cuore.

Avrebbe dovuto trovare, ed al più presto, il modo giusto per fare a lui ed agli altri le sue scuse, per ringraziarli di essersi occupati dei suoi fratelli in sua assenza, e poi cercare un posto per tutto per loro per evitare di dare gli amici altro disturbo.

Victor le posò una mano calda sulla fronte, «Non hai più la febbre», le disse.

Raven neppure si era accorta di averla avuta.

Poi Victor le premette una mano sullo stomaco, dove il coltello l'aveva colpita.

«La ferita si è rimarginata già da una settimana, senti ancora dolore?» le chiese ancora.

Raven scosse il capo, fisicamente si sentiva bene, ma era ancora un po' scossa. Come aveva potuto permettere che Belial la imbrogliasse così? Come aveva potuto lasciare che si infilasse nella sua mente e la manipolazione così?

Avrebbe dovuto avvertire quali fossero i suoi scopi, la sua malvagità, proprio lei che si era sempre vantata di avere un potere pressoché infallibile. Ora non riusciva più a fidarsi ad esso, aveva la sensazione che i sentimenti che avvertiva da Victor e dagli altri nel resto della torre fossero solo ciò che lei voleva avvertire.

Voleva alzarsi, assicurarsi di poter camminare ed avere tutte le funzionalità del proprio corpo al proprio posto, odiava l'idea di pesare sui Titans dopo ciò che aveva fatto loro.

Mise i piedi per terra e si alzò, le ginocchia tremavano mentre lei si sorreggeva alla testiera del letto per evitare di cadere giù. Un brivido più forte degli altri la scosse e Victor la tenne su per i gomiti aiutandola a restare in equilibrio.

«Non affaticarti, non c'è nessuna fretta.» le disse.

Raven scosse capo, aveva fretta eccome.

«Prenditi il tempo che ti serve, rimettiti in forze, poi parleremo. Garfield già parla di una serata pizza, i tuoi gusti sono sempre gli stessi?»

Raven provò a trattenere un sorriso, quando le sue gambe si abituarono di nuovo a sostenere il peso del suo corpo e riuscì a reggersi da sola domandò: «I miei fratelli?»

«Di sopra con gli altri», rispose Victor.

«I miei vestiti?» chiese allora.

Victor le indico il fagottino posto sulla sedia alle sue spalle, era una vecchia tuta che aveva lasciato alla torre quando, mesi prima, aveva scelto di allontanarsi. Era pulita, profumata, tutto quello che le serviva per sentirsi a casa.

Victor la lasciò da sola per permetterle di cambiarsi, e si chiuse la porta le spalle. Quando ebbe fatto, Raven lo raggiunse al piano superiore.

L'ascensore si aprì sulla sala principale, erano tutti lì ad aspettarla, la tavola era imbandita, vasetti di marmellata e di crema di nocciole erano sulla tovaglia, i piatti straripavano di frittelle, muffin e waffle, quasi come se Victor non fosse riuscito a decidersi su cosa preparare per colazione..

Le braccia di Lilith furono subito attorno a lei, tanta la felicità della ragazzina era da farla fluttuare ad alcuni centimetri da terra, Raven sentiva bene quell'emozione. La strinse a sua volta, non l'avrebbe più lasciata andare.

Non staremo qui per moto, non disturberemo, avrebbe voluto dire. Invece rimase in silenzio e lasciò che gli altri le facessero spazio al loro tavolo con una naturalezza che le diede l'impressione di non essere mai andata via. Perfino Jeremy e Lilith sembravano essere a loro agio, prendevano waffle, frittelle, marmellata e burro di arachidi senza chiedere, si riempirono i bicchieri di aranciata e succo di frutta fino all'orlo e bevvero senza preoccuparsi di sporcare la tovaglia. L'unica cosa che fece Dick quando vide Lilith soffermarsi osservare il suo waffle fu passarle il tubetto di panna montata pronta. Lei gli sorrise e quasi lo svuotò sulla sua colazione.

Non la sgridarono, non le rinfacciarono nulla, questo fece quasi sentire Raven ancor più in colpa.

Il suo piatto rimase vuoto davanti a lei, mentre tutti si servivano. Non sapeva cosa dire.

Poi Victor le passò una porzione di ogni cosa, le avvicino un bicchiere e domandò: «Succo o latte?»

«Magari entrambi» replicò Garfield. «Non latte di soia» aggiunse poi «Neanche ci provo più a proporvelo.»

L'affermazione la fece sorridere, ma non riusciva a togliersi dalla testa l’idea di stare facendo loro un torto a far finta di nulla. Lo cercò, eppure non riuscì a trovare un solo grammo di rancore nei suoi confronti, nessun cenno di aver perso per sempre ciò che prima c’era tra loro.

«Garfield mi ha preparato una stanza bellissima!» raccontò Lilith, il mento sporco di panna ed un sorriso che le illuminava il viso. Non ricordava di averla mai vista e sentita così felice.

Poi guardò Jeremy, che era concentrato sul suo waffle a triplo strato, era tranquillo, non c’era un solo grammo di disagio e timore, in lui.

«Non è nulla di che,» replicò Garfield. «Ho solo pensato che le avrebbe fatto piacere un po’ di verde.»

Raven quasi non sentì le sue parole, ma nel sentimento di protezione e affetto che il ragazzo stava sviluppando nei confronti dei suo fratelli avrebbe potuto crogiolarsi per tutta la vita.

«Te la faremo vedere, prima di pranzo.» aggiunse Lilith, che quasi saltellava sulla sedia. Il suo piatto si sollevò, i bicchieri oscillarono. Lilith sospirò e cercò di calmarsi. «Scusate.» disse allora.

Ancora una volta nessuno la sgridò.

Raven si piegò sul tavolo, si torse le dita, sarebbe stata solo una questione di tempo prima che i poteri di Lilith combinassero qualcosa che non avrebbero dovuto, che quelli di Jeremy facessero saltare in aria qualcos’altro e finissero per ferire qualcuno.

«Non era necessario.» sussurrò.

Il sorriso dei ragazzi si spense, le orecchie di Garfield si piegarono indietro mentre la sua espressione accompagnava la sua delusione crescente. Per Raven fu come avvertire di sprofondare nelle sabbie mobili.

«Beh,» fece il ragazzo «Tutti hanno bisogno di una stanza in cui dormire, no?»

Raven annuì. «Ma non possiamo imporvi la nostra presenza.» replicò.

Eppure il desiderio di tornare alla torre e poter avere con sé tutte le persone a cui teneva era grande, quasi soffocante, solo la speranza degli amici di tenerla a sua volta con loro - lei ed i suoi fratelli - le permise di tornare a respirare.

«Nessuna imposizione.» chiarì Dick incrociando le braccia. «Ma questo posto non è lo stesso senza di te.»

Raven fece un cenno verso i suoi fratelli. «Loro non si sanno ancora controllare bene.»

«Un motivo in più per restare.» concluse Victor.

Kory, che fino a quel momento si era limitata a mescolare la maionese con il burro di arachidi, versò l’intruglio sulle sue frittelle e aggiunse: «E potremo organizzare serate pizza, pigiama party, iscriverci a corsi di cucina.»

Rassegnata, Raven consumò la propria colazione.

Più tardi, dopo che Lilith le ebbe fatto vedere la sua nuova camera, Raven ritornò alla propria. La ritrovò perfettamente in ordine, già pronta per tornare ad accoglierla, e la borsa con le poche cose che aveva portato via quando se n’era andata era già sul letto.

«Jeremy e Kori hanno accompagnato Lilith e Jeremy a prendere le vostre cose il giorno dopo che vi abbiamo portati qui.» spiegò Garfiel affiancandola sull’uscio. «Davvero vorresti andartene?»

Raven ignorò la domanda. «Non mi aspetto di cancellare quello che ho fatto, né che possiate dimenticarlo.»

Lui le si fece più vicino. «Rae, noi capiamo. Eri sotto l’influsso di quel demone, non è colpa tua.» «Ma sono io che gliel’ho permesso, non avrei dovuto lasciare che mi soggiogasse.» replicò Raven. Garfield scosse il capo. «Non potevi impedirlo, non ne avevi il controllo.»

Sospirò, avrebbe voluto potergli dare ascolto, smettere di avvertire quel senso di colpa, ma farlo avrebbe in qualche modo sminuito il suo abbandono e non voleva questo.

«Rae,» la chiamò Garfield. Le prese la mano e ne posò il palmo contro il proprio petto, all’altezza del suo cuore. «Ti sembra che io ce l’abbia con te? Sei tu l’empatica, dovresti capirlo subito.»

Raven avvertiva il battito del cuore di lui, i suoi sentimenti fluirono in lei e lei li accolse, incapace di contrastarli, desiderosa di averli con sé per sempre, e non c’era traccia di rancore o qualunque altro sentimento negativo. In Garfield trovò pace, nessun cenno che avesse anche solo provato ad odiarla e ad essere arrabbiato con lei, un amore tiepido che la avvolse, la speranza di avere la possibilità di un futuro insieme, anche solo come amici.

Gli sorrise. «Nessun rancore.»

«Nessun rancore.» confermò lui. Poi si fece serio e aggiunse: «Senti altro?»

Raven sorrise, l’insicurezza che il ragazzo aveva iniziato ad irradiare le fece avvertire le gambe molli e le guance calde.

«Uhm… Forse sì, in effetti.» lo stuzzicò.

Le orecchie di lui si agitarono contro i suoi capelli, il cuore batteva forte contro la sua mano, lo avvertiva bene anche se tra lei ed esso c’era la cassa toracica.

«Ok….» fece lui. La voce era flebile, trasudava incertezza tanto quanto la sua anima. «beh… Allora?» domandò timoroso.

Raven spostò la mano sulla sua guancia e gli accarezzò la gota, poi si sporse verso di lui e si alzò in punta di piedi. Lui aveva appena realizzato ciò che stava per fare, quando lei lo baciò.


***



Mi dispiace, mi dispiace davvero. Ero convinta di aver postato questo epilogo lo scorso anni e invece non l’avevo fatto.

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