The Good Left Undone

di edoardo811
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stelle ***
Capitolo 2: *** Emozioni di una futura madre ***
Capitolo 3: *** Momenti di intimità ***
Capitolo 4: *** Pirati spaziali ***
Capitolo 5: *** Quantus ***
Capitolo 6: *** La valle ***
Capitolo 7: *** La Salvatrice ***
Capitolo 8: *** Permanenza Forzata ***
Capitolo 9: *** La spiaggia dei ricordi ***
Capitolo 10: *** Il tempio ***
Capitolo 11: *** I primi problemi ***
Capitolo 12: *** Rottura ***
Capitolo 13: *** Notte ***
Capitolo 14: *** Amiche ***
Capitolo 15: *** Traditore ***
Capitolo 16: *** L'attacco ***
Capitolo 17: *** Shamus McGee & Von Walis Caruso ***
Capitolo 18: *** Shyltia e Slag ***
Capitolo 19: *** Puffy Pants ***
Capitolo 20: *** Sogno nel cassetto ***
Capitolo 21: *** Infiltrati ***
Capitolo 22: *** I luogotenenti ***
Capitolo 23: *** Inizia la battaglia ***
Capitolo 24: *** Mai lasciar andare ***
Capitolo 25: *** Il Ritorno ***
Capitolo 26: *** Festeggiamenti ***
Capitolo 27: *** Fine ***



Capitolo 1
*** Stelle ***


Heroes 






Ciao, mi chiamo Edoardo811 e pubblico storie che poi cancello e poi ripubblico senza motivo, proprio come questa. Questo è il seguito pubblicato e poi cancellato e poi ripubblicato di Hearts of Stars, storia che vi consiglio di recuperare se volete capirci qualcosa di questa, se non l’avete letta la prima volta. E se invece l’avete letta, forse è meglio dargli un altro sguardo prima di iniziare qui, anche perché sono passati i SECOLI da quando ho cancellato questo seguito ed è più che legittimo che nessuno si ricordi un TUBO di quella storia. Evviva! (e so che la RaeTerra non è esattamente la coppia preferita dei fan della serie animata, sinceramente, non è nemmeno la mia, ma spero che possiate cercare di sorvolare su questa coppia e cercare di concentrarvi di più sulla storia)

BUONA LETTURA!

 

 

 

The Good Left Undone

I

STELLE

 

 

 

Lo spazio era davvero enorme.

Miliardi di stelle, l’equivalente di miliardi di soli, equivalenti a miliardi di galassie e di conseguenza miliardi di pianeti.

Minuscola. Una pulce, neanche, un microorganismo. Ecco come si sentiva Amalia a guardare tutto ciò, eretta in tutta la sua statura, con una mano sul grembo e l’altra a peso morto su un fianco. Le bastava solo buttare l’occhio su tutto ciò per sentirsi schiacciata, una nullità. Quello spettacolo le ricordava quanto fosse fragile in realtà, quanto poco ci sarebbe voluto per sopraffare non solo lei, ma tutta la nave su cui si trovava e i ragazzi al suo interno.

Ma la cosa, anziché angosciarla, aveva tutt’altro effetto su di lei. Le stava traendo beneficio. Si sentiva meravigliosamente bene a guardare quanto fosse grosso il mondo intorno a lei, a ricordarsi quanto poco esso ci avrebbe messo per ridurla in polvere.

Questo perché tutti i suoi problemi, le sue paure, le sue angosce, si erano trasformati in capricci di quasi nulla importanza. I suoi rimorsi enormi, che nonostante il tempo trascorso, continuavano a tormentarla, si erano attenuati, davanti a tutto ciò. Le atrocità che aveva commesso in passato, le cose orribili che aveva fatto a sé stessa, a sua sorella, alla sua gente, sembravano insignificanti, al cospetto di quel manto nero striato di luci parato di fronte a lei. Quanto poteva contare la sua vita infame, in confronto a qualcosa di così mostruosamente grande? Quel qualcosa in cui le infamie dovevano sicuramente essere all’ordine del giorno? Lei non era la prima e sicuramente non sarebbe stata l’ultima, a commettere errori madornali. E poi, Stella l’aveva perdonata! I Titans non proprio, ma almeno non la odiavano! Non doveva continuare ad angosciarsi!

Doveva invece ringraziare di cuore X, più tardi. Era stato lui a suggerirle di mettersi ad osservare lo spazio, quando aveva notato il suo animo tormentato. All’inizio lei l’aveva presa per una scemenza, ma non appena aveva deciso di ascoltarlo, si era ricreduta. Si era ricreduta eccome. Era davvero sorpresa che, nonostante nello spazio ci avesse passato anni, questo potesse essere così meraviglioso. Era proprio stata cieca, in passato, a non accorgersi di una simile bellezza. E non era una metafora, cieca lo era stata per davvero. Ma dalla rabbia. La rabbia che nutriva nei confronti di Stella, quella che l’aveva spinta a commettere le atrocità che aveva commesso.

In quel momento, però, di quel sentimento oscuro non vi era alcuna traccia. E giurò a sé stessa che non ci sarebbe mai più stato, non nei confronti di coloro che le volevano bene, perlomeno.

Era cambiata. Era diventata... buona. Come Stella aveva detto. Non doveva più darsi tante pene.

E allora perché una voce nella sua testa continuava a martellarla, navigando tra i pensieri positivi? A dirle che era un mostro, che non meritava tutto ciò che era successo nelle ultime ore?

Aveva tentato di zittire quella voce frastornante i tutti i modi, ma non c’era riuscita. E probabilmente non ne sarebbe stata in grado nemmeno in futuro. Fino a quando avrebbe respirato sapeva che quella litania l’avrebbe tormentata. Neppure le immensità del cosmo  erano riuscite a farla tacere. Semplicemente... l’avevano offuscata. A tratti era perfino riuscita a dimenticarla, guardando quelle stelle e sentendosi meglio di conseguenza, ma al primo momento di cedimento, questa tornava più insistente e spietata che mai.

L’umore di Amalia balzava da un estremo all’altro con velocità sorprendente. Passava dal sollievo, guardando lo spazio, all’angoscia, udendo quel ronzio nella propria mente.

Le sembrava di andare avanti così da ore, ormai. Sola, nella cabina di pilotaggio, immersa nella penombra quasi come se ne facesse parte.

Un po’ desiderava compagnia, un po’ avrebbe preferito continuare a starsene sola. Doveva mettere in ordine i propri pensieri. Quella sala calma e vuota era il luogo ideale per farlo. Dopo gli ultimi avvenimenti, dopo ciò che aveva scoperto, dopo aver discusso con X – e non solo quello – il bisogno di districarsi in quell’enorme labirinto che era la sua mente era diventato impellente.

Nei giorni trascorsi precedentemente, di momenti ne aveva avuti molti, per farlo, ma nessuno era stato come quello. Durante la prigionia di Metalhead era rimasta in una cella per giorni interi, completamente sola o quasi. Di occasioni per rimuginare ne aveva avute, eccome se ne aveva avute. Ma più che altro, il suo pensiero primario era stato quello di fuggire. Certo, c’erano stati momenti in cui aveva provato anche a riflettere su sé stessa e sui suoi tormenti, ma erano stati attimi sporadici, interrotti sempre dai frastuoni che si sentivano nel corridoio fuori dalla sua cella, oppure dagli arrivi di Metalhead e quelli decisamente più graditi di Edward. Su quella nave, invece, non aveva niente da temere. Era tra "amici" se così poteva dire. Era al sicuro. Poteva riflettere quanto voleva, in tutta calma e tranquillità.

La voglia di farlo, tuttavia, era svanita quando effettivamente si era resa conto del pandemonio che erano i suoi pensieri. Si era sentita male. Riuscire a destreggiasi in mezzo a tutto quel caos era pressappoco impossibile.

Doveva farlo, sapeva di doverlo fare, ma le sembrava impossibile. Fu quasi sollevata nel sentire rumore di passi dietro di lei, che interruppero le sue riflessioni. Qualcuno stava arrivando. Si voltò sorpresa, grata che, per il momento, il faccia a faccia con i suoi pensieri era rimandato. Non poteva scappare per sempre da sé stessa, quello era ovvio, però le piaceva pensare di poterlo fare.

Una figura entrò nella sala comandi. Nella penombra, Amalia distinse chiaramente occhi azzurri, capelli neri luminosi, costume sgargiante e una bellezza mozzafiato. Robin. E chi altri, se no?

Il leader dei Titans ci mise poco a notarla e si incamminò verso di lei. La ragazza lo guardò avvicinarsi in silenzio. Le venne inevitabilmente in mente quando si era presa una cotta per lui, la prima volta che lo aveva conosciuto. Altro motivo per cui aveva odiato Stella in passato, si era sentita invidiosa di lei e del fatto che quel ragazzo già all’epoca sembrava averla molto a cuore. Anche in quello stesso momento, dopo anni di distanza dall’ultima volta in cui si erano trovati faccia a faccia, continuava a pensare che Robin fosse davvero un bel tipetto.

X aveva i capelli neri come i suoi, ma erano opachi, spenti, i suoi occhi erano molto più duri e scuri di quelli di Robin, così come il suo look, mentre il suo volto era scarno e pallido, rigato da due cicatrici. Non c’era quasi paragone in fatto di avvenenza, tra i due. Eppure, il leader dei Titans non sarebbe mai e poi mai stato intrigante, attraente e misterioso come il suo attuale ragazzo. Red X aveva qualcosa nel suo modo di fare, nel suo stile, nel suo essere tetro, che aveva attirato a sé Amalia come una calamita. E poi le aveva regalato emozioni che, anche se non poteva dirlo con certezza, era pronta a scommettere che Robin non sarebbe mai riuscito a darle. Era infinitamente sollevata dal fatto di non essere più infatuata del ragazzo davanti a lei, anche perché poi le cose sarebbero state tremendamente più difficili, sia per lei che per i Titans.

Robin la raggiunse, la squadrò dalla testa ai piedi senza dire una parola, poi avanzò ulteriormente, passandole accanto e raggiungendo l’enorme parabrezza della sala comandi, dove anche lui cominciò ad ammirare il cielo stellato. Amalia lo seguì pensierosa con lo sguardo, si domandò quasi se il ragazzo l’avesse davvero notata o meno, quando lui parlò per primo, senza staccare gli occhi dallo spazio. «Non dormi come gli altri?»

La tamaraniana quasi trasalì quando le parlò. Non tanto per il fatto che quel momento le ricordò l’ultima volta che erano rimasti da soli, in cui si erano ritrovati talmente vicini che quasi avrebbero potuto baciarsi. Più che altro il tono che Robin aveva usato per parlare, le aveva riempito la bocca di sabbia. Non aveva usato un tono burbero, o rigido, quanto più neutro, quasi indifferente. Non sembrava contrariato dal fatto che fosse lì, ma nemmeno entusiasta.  Non che Amalia potesse biasimarlo, dopotutto. Comprendeva perfettamente la diffidenza del leader dei Titans nei suoi confronti. Tuttavia, egli le aveva posto una domanda, lei doveva rispondere. Per farlo dovette prima mandare giù l’enorme nodo che le si era formato in gola. «Non... non ci riuscivo. Sono successe tante cose... dovevo...  cercare di raccogliere un po’ le idee...»

Robin sorrise tenuamente, comprensivo, senza staccare gli occhi da davanti a sé. «E ci sei riuscita?»

«Vuoi la verità?» replicò Amalia incrociando le braccia, corrucciata. «No. Per niente.»

Una risata sommessa fuoriuscì dalla bocca del leader. «Viva l’onestà.»

La ragazza riuscì a sorridere appena, poi distolse lo sguardo da lui. «E tu invece, non dormi?»

«Volevo assicurarmi che qua tutto quanto procedesse liscio.»

«Cyborg ha detto di non preoccuparsi» osservò la ragazza appoggiandosi con la schiena ad una consolle, guardandolo di nuovo con un sopracciglio alzato. «Ha detto che il pilota automatico avrebbe fatto tutto da solo.»

«Meglio prevenire che curare» spiegò Robin voltandosi e guardandola per la prima volta. Amalia non aveva mai visto prima di quel giorno i suoi occhi privi di maschera, e forse ne capì anche il motivo. Gli occhi sono un’arma a doppio taglio, sono belli, importanti, ma trasmettono molte più informazioni di quanto uno non vorrebbe dare a vedere. E Robin, probabilmente, essendo a conoscenza di questa cosa, preferiva tenerli nascosti.

«In ogni caso...» proseguì lui dando le spalle alla consolle di fronte a lui, appoggiandoci sopra i palmi. «... visto che ormai sei qui, volevo anche... palarti un momento.»

«Parlarmi?» Amalia schiuse le labbra stupita. «Parlarmi di cosa?»

Per un attimo la ragazza temette che lui la volesse rimbrottare per ciò che aveva fatto, oppure metterla in guardia, dirle di non minacciare più Stella o gliel’avrebbe fatta pagare, invece no. Ciò che disse probabilmente sorprese lo stesso Robin.

«Volevo dirti che non devi più sentirti a disagio in mezzo a tutti noi. Il passato è passato, non serve penarsi l’anima per lui. Ciò che conta è il presente. Hai fatto quello che hai fatto al tuo pianeta e ne sei pentita. Si vede chiaramente quante colpe tu ti sia dando.» Robin piegò il capo battendo le palpebre. «E, anche se ammetto che ancora non riesco a fidarmi ciecamente di te, non posso certo negare quanto il tuo comportamento con Stella sia stato di mio gradimento. Hai davvero dimostrato di volerle bene. E poi, lei ti ha perdonata. E se c’è riuscita lei, che è stata... beh... la "vittima" più grande, se così possiamo definirla, non vedo perché non potrei farlo anch’io. Un giorno» sottolineò con enfasi, ma sorridendole.

Amalia ascoltò in silenzio le parole, per poi trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo. Ma nulla poté impedirle di sorridere come un’ebete. Si sentì quasi come se un macigno le fosse stato tolto dalle spalle. Quella di essere vista sotto cattiva luce dai Titans era una delle preoccupazioni più grandi che aveva avuto fino a quel momento, ma se Robin in persona le aveva detto che forse poteva metterci una pietra sopra, beh, allora era praticamente tutto risolto. Il leader era quello da cui meno di tutti si aspettava la clemenza, fu un enorme liberazione scoprire che invece era disposto a concedergliela. Un giorno.

«E comunque...» Robin andò ancora avanti. Abbassò lo sguardo e lo fece vagare dal ventre della ragazza ai suoi occhi, per poi allargare il suo sorriso. «... non mi sembra giusto provare astio verso una futura madre.»

Amalia si irrigidì, portandosi d’istinto una mano sulla pancia, gesto che aveva cominciato a fare meccanicamente ormai da ore. Robin voleva solo essere gentile, probabilmente. Per lui, per Stella, per gli altri, ciò che lei portava in grembo era una bella cosa, una cosa magnifica. Invece, per lei, tutto ciò non faceva che infonderle un opprimente senso di inquietudine. Ne era felice, assolutamente sì. E altrettanto spaventata.

«Una futura madre...» mormorò, ripetendo le parole di Robin quasi come se fosse in trance, mentre fissava con sguardo improvvisamente vitreo la sala buia in cui si trovava. «Già...»

 

***

 

«Abbiamo molte cose da dirci» sussurrò Amalia abbracciando Stella, sorridendo di pura e semplice felicità. Non le importava come, dove, perché, sapeva solo che doveva restare accanto a sua sorella minore, per tutti i giorni a venire. Per i suoi pensieri, per le sue angosce, per Red X, avrebbe trovato senza dubbio il tempo. Ma la sua famiglia, in quel momento, era ciò che per lei aveva più importanza tra tutto.

«Amalia» chiamò qualcuno dietro di lei, facendole drizzare la testa. Una voce femminile, roca e bassa.

Dovette interrompere il magico abbraccio con la sorella e guardare chi l’aveva chiamata, ovvero Corvina. «Sì?»

La maga sembrava a disagio. Non tanto dalla sua postura, neanche dai suoi occhi, quanto più dal tono di voce che aveva usato per chiamarla. Nonostante il timbro vocale della maga fosse in genere incolore e apatico, quella volta poté chiaramente cogliere venature di agitazione. Anche Terra, il suo amorino segreto, si era messa a guardarla sorpresa, così come tutti gli altri. Ma lei non sembrò dar troppo peso agli amici. Fece vagare lo sguardo tra Amalia e Red X, per poi sospirare. «Tu e Red X... potreste... venire un attimo con me? Devo dirvi una cosa importante.»

«Non puoi dircela qui?» domandò il ragazzo interessato, guardandola corrucciando la fronte.

«Meglio di no. Credetemi, il motivo lo capirete. Per favore, seguitemi.» La maga si incamminò verso l’uscita della sala. Terra sembrò volerla fermare, ma evidentemente cambiò idea. Si fermò sull’uscio, per poi volgere un’occhiata di chiaro significato ai due ragazzi.

Amalia e X si guardarono tra loro perplessi, poi la ragazza scrollò le spalle. Se X era con lei, non si sarebbe preoccupata del resto. E poi, quanto importante poteva essere ciò che Corvina aveva da dire loro?

Molto più di quanto avrebbe mai potuto credere.

«Andiamo, facciamo in fretta» disse al ragazzo, per poi incamminarsi, sotto gli sguardi perplessi di tutti, di Robin soprattutto. Nessuno di loro, neanche il leader, sembrava sapere cosa frullasse nella mente della maga. X la seguì, più titubante, ma comunque obbediente.

La maga li condusse lungo i corridoi, allontanandosi sempre di più dalla sala comandi. Amalia non capì il motivo di tale comportamento. Ciò che non sapeva, era che Corvina aveva davvero un valido motivo per allontanarsi così tanto dagli altri.

Venne condotta in quella nave enorme, e ne approfittò anche per riuscire a conoscerne meglio gli interni e le zone. Durante il tragitto adocchiò diverse volte X, che dal canto suo non faceva che risponderle sollevando le spalle, ignaro di tutto. La maga proseguì, camminando spedita, con il mantello che rasentava il pavimento freddo e metallico, poi, finalmente, giunsero alla fine del corridoio, davanti a due porte. Amalia pensò che Corvina volesse condurli dentro una di quelle stanze, ma quella si limitò a fermarsi e a voltarsi, per poi scrutarli a braccia conserte quasi con aria severa e critica.

La scena poteva quasi essere buffa, sotto certi aspetti. Corvina era minuta e, beh, di corporatura gracile, soprattutto se messa a confronto con la tamariana e con X, entrambi più alti di lei di almeno una spanna e mezzo. Eppure, nonostante ciò, la maga avrebbe potuto battere entrambi in un battito di ciglia, considerando ciò che aveva fatto a Metalhead.

«Corvina, cosa c’è? Che devi dirci?» domandò Amalia.

La maga squadrò ancora i due, evidentemente  rimuginando fino all’ultimo se parlare o meno. Dopo un altro grosso sospiro si strinse nelle spalle e parlò. «Sentite, andrò dritta al punto. È vostro diritto sapere che...che...» Corvina si voltò verso Amalia, guardandola con una strana espressione. «Tu... sei incinta.»

Quelle due parole sembrarono riecheggiare nel corridoio come un eco. Un silenzio tombale cadde tra i tre ragazzi, pesante come un camion pieno zeppo di incudini di metallo. Amalia ed X fissarono straniti la maga per uno, due, tre secondi. Lei cercò di reggere lo sguardo di entrambi.  La tamaraniana tentò di parlare, ma dalla sua bocca non uscì altro che aria. E poi, a rompere la quiete, una risata sommessa di X, che guardò con un sorriso divertito la maga. «Stai...stai scherzando, vero?» Accortosi di come Corvina non sembrava prossima a mutare la sua espressione mai stata così seria, Red X sembrò farsi molto più agitato. Il sorriso svanì dal suo volto, mentre ripeteva, quasi disperatamente: «Vero? Vero?!»

Corvina non disse nulla. La sua espressione non cambiò di una virgola. Si limito a scuotere lentamente la testa.

«COSA?!» esclamò Amalia, con uno strano tono di voce, non riuscendo più a trattenersi. Lo disse talmente forte che quasi temette che i ragazzi in sala comandi potessero sentire.

Corvina abbassò lo sguardo, segno inequivocabile. Tutto ciò non fece altro che agitare ulteriormente i due neo-fidanzati. «L’ho scoperto non molto tempo fa’, mentre guarivo le contusioni sulla tua pancia» spiegò Corvina, quasi con cautela. «Dopo che Metalhead ti aveva picchiata. Avevi moltissimi traumi interni, troppi. Man mano che ti guarivo, le cose diventavano sempre più evidenti.» Sollevò lo sguardo e Amalia capì che mai Corvina aveva detto parole più vere. «Non eri tu quella ferita. Cioè, lo eri, ma era solo un postumo diretto di... di ciò che Metalhead aveva fatto al feto che ti porti dentro. Erano sue le contusioni. Tue di conseguenza. Per fortuna, l’ho curato in tempo. Ha circa due, tre settimane, forse anche di più.»

Amalia quasi non l’aveva ascoltata, occupata a scuotere la testa com’era. «No, no, non è...non è possibile... d-diglielo Luc...» Si voltò verso di X, il quale era altrettanto sconvolto. I loro sguardi si incrociarono. E, guardando i suoi occhi blu, profondi come oceani, intuì che ciò che stava dicendo non poteva essere più falso. Era possibile. Era possibile eccome. Era riuscire a crederci veramente, la cosa impossibile.

E fu proprio per quello, per la sua incredulità, per il suo stupore, per la sua... paura... che corse via, lontano da Corvina, da Red X, da tutti quanti.

Sentì la maga e il suo ragazzo chiamarla, ma lei non si voltò. Sentì gli occhi inumidirsi per l’ennesima volta, diverse lacrime caddero alle sue spalle mentre correva. Attraversò il lungo corridoio per poi svoltare al primo bivio che incrociò. Non sapeva nemmeno dove stava andando, sapeva solo che voleva scappare e basta. Da tutto e tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EVVIVA! Eccoci qui, dunque, parliamo.

Cancellai questa storia tempo orsono perché diciamo che mi ero stancato di scrivere. Ma proprio stancato nel senso che stavo per impazzire. Scrivere questa storia era diventata una tortura, letteralmente, non ce la facevo più ed è inutile dire che iniziai addirittura ad odiarla, all’epoca. Non volevo più vederla. Quindi, per questo motivo, unito ad altri diciamo più personali e non, rabbia, frustrazione, stanchezza ed eccetera, decisi di eliminarla. È passato molto tempo da allora, molti di voi che state leggendo magari non sapete nemmeno di cosa sto parlando, ma in queste righe mi sto rivolgendo a chi, invece, mi segue da più tempo. E voglio che sappiate che mi spiace per ciò che ho fatto, ma potete stare tranquilli, questa volta la storia avrà il suo finale. E forse anche qualcosina in più, per farmi perdonare.

HoS è una storia che non mi aspettavo avrebbe ricevuto tutto questo successo e, francamente, non credo nemmeno che se lo meriti, ero ancora molto acerbo come scrittore all’epoca e i difetti che ci sono in quella fanfiction sono molti ed anche evidenti, tanti dei giudizi positivi che ho ottenuto, ora come ora, non mi sembrano molto meritati, però è anche vero che son passati due anni da quando la scrissi, i tempi cambiano e le persone, e le loro idee, pure. Se potessi tornare indietro cambierei molte cose di quella storia (e sicuramente la RaeTerra sarebbe una di queste) però per correttezza la lascerò inalterata, così che chiunque possa notare l’enorme salto in avanti che ho fatto da quando ancora scrivevo i primi capitoli di quella lunghissima long a i miei ultimi lavori, ossia quelli della saga di Infamous.

Spero che possiate perdonarmi per ciò che ho fatto, ma, da quello che avrete potuto intuire, sto cercando di rimediare ai miei errori, questo comunque per dimostrare che io ci tengo a quello che faccio, e tengo anche a tutti coloro che leggono i miei capitoli ogni volta che vengono pubblicati.

So che forse è un po’ tardi per questo, ma non mi importa, ho deciso di farlo anche per me stesso. Non mi importa se questa storia otterrà lo stesso successo che aveva ottenuto all’epoca oppure no, voglio ripubblicarla e voglio finirla, per poter dimostrare a me stesso di esserne in grado.

Ce la farò. Resterete tutti a bocca aperta. Credo. Spero.

Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Emozioni di una futura madre ***


The Good Left Undone

II

EMOZIONI DI UNA FUTURA MADRE

 

 

Si ritrovò poco dopo in uno stanzino angusto, che puzzava di chiuso, buio pesto e pieno zeppo di dispenser di legno. Non si preoccupò di cercare un interruttore per la luce, non si preoccupò nemmeno di aggirare tutti gli scatoloni. Procedette a tentoni, dando diverse ginocchiate, mugugnando di dolore e continuando a lacrimare dagli occhi, per poi trovare l’angolo della stanza e sederci contro rannicchiandosi su sé stessa. Affondò il mento tra le ginocchia e cominciò a piangere con più insistenza, mentre tutti i segni evidenti di come si fosse trovata in quella condizione piombavano nella sua mente come una pioggia torrenziale.

La prima volta che lei e Red X avevano fatto l’amore non avevano usato precauzioni. Lucas era stato attento a non venirle dentro, ma forse qualche goccia era caduta lo stesso. E se non la prima notte, probabilmente il mattino successivo. O la notte, successiva. O il giorno dopo ancora. I loro primi quattro, cinque rapporti, erano stati del tutto privi di protezioni. Non ci avevano prestato molta attenzione, tuttavia. Nonostante Amalia non prendesse contraccettivi, entrambi sapevano che le probabilità di restare incinta erano basse, facendo il tutto con un minimo di controllo. Nella maggior parte dei casi. L’avevano presa entrambi alla leggera, non aspettandosi sicuramente di ricevere la notizia che Corvina aveva appena dato loro.

E adesso, Amalia era in stato di gravidanza. Gli stessi sintomi che aveva avuto nei giorni precedenti erano una prova ben più che sufficiente. Non aveva nessuna malattia, come Metalhead, Edward e lei stessa avevano ipotizzato. Il vomito, le nausee, i dolori alla schiena, tutti segni fin troppo chiari.

La tamaraniana si sentì sotterrata da quella notizia. Fu ben più forte di uno schiaffo, più traumatica di una pugnalata. Ogni momento passato a vomitare le sembrò un pugno, ogni pensiero che aveva fatto a riguardo, ogni volta che si era, stupidamente, convinta di non correre alcun rischio, diventò una freccia che le trafiggeva il cuore.

Una stupida. Ecco cos’era. La stupida più grande di tutto l’universo.

Non solo era in preda a rimorsi e ad angosce, pure incinta doveva essere. E la cosa peggiore era che lo aveva scoperto neanche un paio d’ore dopo aver rivisto Red X. Bel modo di ricongiungersi, davvero.

Mentre si abbracciava le gambe stritolò talmente forte gli stinchi da farsi male, ignorando tuttavia il dolore.

Pensò a come X doveva aver preso la sua fuga improvvisa, quella sua reazione così impulsiva e bambinesca. Doveva esserci rimasto male. Lui c’era dentro tanto quanto lei in quella situazione, forse avrebbero dovuto parlarne insieme. Anzi, se c’era qualcuno con cui parlarne, beh, era proprio lui. Ma il solo pensiero di uscire da quello stanzino per cercarlo divenne disgustoso. Non credeva di potercela fare. Probabilmente non sarebbe uscita da lì per molto tempo ancora. Chissà che figura avrebbe fatto con Stella, o con tutti gli altri. Cosa avrebbero pensato di lei? Che era una poco di buono, che preferiva saziare l’appetito dell’organo tra le sue gambe e progettare vendette inutili, piuttosto che combinare qualcosa di meglio.

E non avrebbe potuto che trovarsi d’accordo con loro.

Non era neppure stata capace a badare a quell’embrione che nemmeno sapeva di avere. Stando alle parole di Corvina aveva quasi rischiato di rimanere danneggiato irreparabilmente. Lo avrebbe perso se la maga non lo avesse salvato. E la cosa più brutta era che non sapeva nemmeno come reagire a questo pensiero. Non sapeva nemmeno se ringraziare la titan o meno. Certo, aveva salvato suo figlio. E allo stesso tempo, se ciò non fosse accaduto, se l’avesse perso, beh, la colpa non sarebbe stata di nessuno, no?

Rabbrividì. Solo dopo averlo concepito, si rese conto di quanto crudele fosse quel pensiero. Dentro di lei, nella sua pancia, c’era una creatura organica. Era solo un embrione, non aveva ancora praticamente niente in comune con un bambino, ma era pur sempre vivo. C’era la vita dentro di lei.

Doveva esserne fiera. Doveva esserne felice, non doveva preoccuparsi dell’idea che gli altri si sarebbero fatti di lei. Eppure non ci riusciva. Non ce la faceva, era impossibile. Era troppo angosciata da tutto ciò. Troppo spaventata. Su di lei incombeva un futuro che mai e poi mai si sarebbe aspettata. L’aveva colta alla sprovvista, completamente. Aveva paura.

Una sorpresa a doppio taglio. Ecco, quella era la definizione ideale della notizia che aveva ricevuto. Era incinta, doveva esserne orgogliosa, considerando anche quanto prezioso fosse un bambino. E invece ne era terrorizzata.

Rimase a lungo a singhiozzare, a rimpiangere ciò che aveva fatto, a piagnucolare. Potevano perfino essere passate ore, non era in grado di dirlo con certezza. Sapeva solo che i secondi passarono lentamente e furono uno più doloroso dell’altro. E poi la luce dello stanzino si accese all’improvviso.

La ragazza aveva il volto seppellito tra le ginocchia, ma le sue orecchie captarono alla perfezione lo scatto metallico dell’interruttore e gli spiragli di luce che si insinuarono tra la testa e le ginocchia, una sottilissima riga arancione. Sollevò appena lo sguardo e fu costretta a socchiudere le palpebre, per via dei suoi occhi abituati alla penombra.

«Amalia...» mormorò Red X guardandola quasi con pena dall’ingresso, neanche stesse osservando un cagnolino ferito.

Amalia volle darsi un contegno, cercare di smettere di piangere e ripulirsi dalle lacrime, apparire forte almeno davanti a lui, ma non appena incrociò gli occhi preoccupati del ragazzo, tutto ciò le parve una battaglia inutile. Tempo pochi secondi, e il baratro di angoscia in cui fino a poco prima era precipitata si rifece sentire più forte che mai. Ricominciò a piangere davanti a lui, sentendosi quasi patetica, poi incassò di nuovo il volto tra le ginocchia. «L-Lucas...»

Sentì alcuni rumori soffusi, la luce si spense di nuovo e la porta si richiuse, lo stanzino rimase illuminato semplicemente dalle stelle fuori dall’oblò. Amalia per un momento pensò che Red X l’avesse lasciata sola in quello sgabuzzino, ma poi due calde braccia – all’incirca – la avvolsero, e sentì qualcosa appoggiarsi sulla sua tempia. Non ci mise molto a capire che X aveva spento la luce ed era andata a consolarla, avvolgendole la vita e appoggiando la testa contro la sua. A quel punto, grazie a quel piccolo e gradito contatto, la ragazza si fece forza e sollevò lo sguardo incrociando quello del ragazzo.

«Lucas...» mormorò ancora lei guardandolo quasi implorante, con gli occhi arrossati e le guancie rigate dalle lacrime salate.

Lui le accarezzò una guancia con la mano ancora umana, apprensivo. «Tranquilla, sfogati pure. Ne hai bisogno. Quando ti senti pronta ne parliamo.»

 «Lucas...» Amalia si sentì una completa interdetta. Poteva dire milioni di cose, ma non ci riusciva, sapeva solo che era infinitamente grata a quel ragazzo e sempre lo sarebbe stata. Perché per lei, lui c’era. E anche in quel momento così complicato, in cui lui tanto quanto lei aveva motivo di sentirsi angosciato, era lì, a consolarla, a cercare di risollevare il suo morale.

Quello era amore. E fu esattamente in quel momento, che Amalia realizzò quanto meraviglioso fosse. Singhiozzò di nuovo e si lasciò andare, obbediente ai consigli dell’amato, appoggiando la testa sotto il suo mento, premendocela contro e piantando quasi con forza le mani sul suo petto. X accolse il contatto stringendola intorno alla schiena.

E Amalia pianse ancora. Seduta all’angolo di quella stanza, stretta tra le braccia del ragazzo che amava, del futuro padre di suo figlio. Il duro e pesante destino incombente si fece meno ingombrante di fronte alla coppia di amanti. Sembrò intuire anche lui che, forse, poteva almeno evitare di infastidire la ragazza in quel momento. Almeno quello. Le stelle osservarono in silenzio, da fuori l’oblò. Ma a parte loro, soli inanimati distanti milioni di chilometri, nessun’altro sembrava essere a conoscenza della presenza dei due adolescenti dentro quella stanza. 

Poco per volta, mano a mano che Red X accarezzava la schiena e i capelli neri come la pece di Amalia, questa cominciava a sentirsi più tranquilla. I suoi singhiozzii diminuirono, fino a cessare del tutto. Riuscì finalmente a calmarsi, grazie all’aiuto non indifferente di X. Passarono diversi altri minuti ancora  prima che potesse finalmente separare la testa dal suo corpo caldo e rassicurante. E finalmente i due si ritrovarono faccia a faccia, pronti per poter discutere civilmente su quel piccolo "problema" – perché, alla fine, un problema non era, assolutamente no. Era pur sempre un bambino! – che li accumunava.

«Ti senti meglio?» domandò lui alla fine, dopo diversi attimi di silenzio.

Amalia annuì quasi impercettibilmente. «Sì...»

No. Assolutamente no. Ma se lui era riuscito a darsi un contegno, anche lei doveva farcela.

«Non si direbbe» commentò X osservandola meglio, per poi accarezzarle con il dorso delle dita gli zigomi. «Sei vuoi piangere ancora, puoi farlo.»

La tamariana sentì lo stomaco in subbuglio. Ma non era per via dei conati di vomito, che prima o poi sarebbero comunque arrivati. Era per via di quelle emozioni che solo lui sapeva darle. Quel ragazzo, così tetro e duro all’esterno, così... fantastico, all’interno. Premuroso, apprensivo, serio quando era il caso di esserlo, ironico e sarcastico in casi contrari. Era lui, era Red X. Lucas. Il suo amore.

Sorrise tenuamente, infinitamente grata a lui per la sua gentilezza e pazienza. «Sto bene, davvero. Ho pianto abbastanza. Ora...» Abbassò lo sguardo verso il suo ventre nudo, lasciato scoperto dal top nero. Il sorriso le si smorzò, quando ricordò a sé stessa cosa riponeva lì dentro, oltre che disgustosi organi e vari. D’istinto, si premette una mano su di esso. La prima di una lunga serie di volte. «... ora... parliamo di lui...»

«O lei» suggerì X, con voce smorta. Nonostante fosse venuti lì proprio per quello, nemmeno lui sembrava molto entusiasta di parlare di quell’embrione.

«Giusto... lui o lei...» Amalia sospirò rumorosamente, per poi guardarlo di nuovo. «Ma prima... potresti dirmi quanto sono rimasta qui dentro, prima che tu arrivassi?»

Il ragazzo corrucciò la fronte. «Non saprei... mezz’ora, un’ora al massimo. Non c’ho fatto molto caso, a dire il vero. Ho preferito lasciarti sola per qualche minuto, per darti il tempo di abituarti all’idea. E anche io ho avuto bisogno di qualche minuto, a dire il vero.» Sorrise. «Corvina ha creduto che fosse colpa sua se sei scappata. Ha detto che forse avrebbe dovuto usare un approccio più delicato.»

La tamaraniana guardò di nuovo il proprio ventre, poi scosse la testa. «No, non è colpa sua. Assolutamente no. Anzi, le sono grata per avercelo detto in privato. La colpa è mia, che... mi sono spaventata.»

«La tua reazione era più che comprensibile, lo sai.»

«No, non lo era. È giusto essere sorpresi, ma non correre via terrorizzati.» Sollevò lo sguardo, quasi imbarazzata. «Scusa se sono scappata in quel modo...»

Il ragazzo le accarezzò di nuovo la guancia, ampliando il sorriso. «Stai tranquilla, davvero. E poi... anch’io per un momento avrei voluto mettermi in un angolo a piangere. Solo che non potevo lasciare Corvina la da sola.» Il suo sorriso vacillò, fino a contorcersi in una smorfia preoccupata. «A proposito... Corvina mi ha chiesto se preferivo tenere questa cosa tra noi due e lei o no. E io... le ho detto che poteva dirlo anche agli altri.»

Amalia lo guardò sorpresa, quasi indignata. «Cosa?! Ma... ma... perché l’hai fatto?!»

Avrebbe fatto meglio ad avere una spiegazione valida, o tutti le considerazioni positive che lei aveva avuto su di lui avrebbero valso meno di zero all’improvviso.

 «Lo avrebbero saputo comunque, prima o poi. Tanto valeva dirglielo adesso. Scusa, so che avrei dovuto parlarne con te, ma sul momento non ci ho pensato. Ero preoccupato per te, per il feto, Corvina mi rompeva le scatole, ho aperto bocca a sproposito.»

«E non hai pensato alle loro reazioni? Adesso cosa penseranno di noi? Che ci piace scopare come conigli senza protezioni e basta!»

«Cosa?» Red X sorrise quasi divertito, oltre che incredulo. «Spero tu stia scherzando.»

Toccò ad Amalia essere perplessa. «Che intendi dire?»

«Amalia...» Lucas prese le mani di lei fra le sue. La mano sinistra del ragazzo era tremendamente fredda, ma decise di ignorare quel dettaglio. «... erano tutti entusiasti all’idea. Mi sono beccato un migliaio di complimenti. E li faranno anche a te, poco ma sicuro. Inoltre...» Le labbra di X si aprirono in un sorriso ben più ampio, quasi complice. «... tua sorella non vede l’ora di essere zia.»

Amalia sgranò gli occhi. Stella. Era completamente uscita dai suoi pensieri, fino a poco prima. Come poteva aver dimenticato lei, sua sorella? Che stupida, era evidente che Kori non l’avrebbe mai tradita. Poteva fidarsi di lei tanto quanto si fidava di X. E ripensando alle parole di quest’ultimo, le venne da sorridere. Stella zia. Non sembrava tanto brutto.

 Sorrise, in parte incredula, in parte meravigliosamente sorpresa e felice. «Non sembra poi... poi così male. Resta comunque il fatto che...» Il sorriso si spense, poi abbassò la testa afflitta. «Io non... non me lo merito.»

«Cosa?»

La ragazza sospirò. «Un figlio, dico. Cioè, guardami!» Amalia si drizzò, separò le mani da lui e gli fece cenno di osservarla. «Con tutto quello che ho fatto in passato, con le atrocità che ho commesso, come puoi immaginarmi come madre? Cosa farò quando racconterò la fiaba della buona notte a nostro figlio, gli racconterò di come mamma Amalia ha cercato di uccidere zia Stella quando aveva diciannove anni? Oppure di come la mamma ha distrutto il proprio pianeta nativo? Io, io...» Distolse lo sguardo da lui, sentendo di nuovo gli occhi inumidirsi. «Un bambino... è praticamente un dono dal cielo. È la cosa migliore che possa succedere a qualcuno. E io, la tamariana che ha distrutto il suo popolo, la reietta, l’unica con i capelli neri e gli occhi viola, ne sto per avere uno. Non... non è giusto. Non è giusto nei confronti di chi se ne meriterebbe davvero uno, come Stella. Lei sì, che sarebbe una madre fantastica. Io invece... faccio pena.»

Red X non rispose subito, la osservò come lei aveva detto di fare. «Certo, puoi raccontarle quella favola...» cominciò a dire una volta che la ragazza si calmò, per poi dirle quasi con tono di rimprovero: «Oppure puoi raccontargli come sei cambiata con il tempo, come hai rincominciato ad amare tua sorella, come tu ti sei preoccupata per lei, come hai combattuto contro di Metalhead fino allo stremo.» Sorrise dolcemente afferrandole una ciocca di capelli e rigirandosela tra le dita, guardandola  quasi ammaliato. Amalia si sentì fremere, ma non si ritrasse.

«Puoi raccontargli di come hai distrutto il tuo pianeta e di come ti sei sentita in colpa subito dopo. Di come ti sei tormentata, di come ti sei pentita e, soprattutto, di quanto inutile fosse questo comportamento, anche perché la zia Stella ti ha perdonata da un secolo ormai. E per finire, puoi raccontargli quanto questi capelli neri e i questi occhi viola siano diversi da quelli degli altri tamaraniani... e di come tutto ciò ti renda tremendamente più bella di tutti loro messi insieme.»

Amalia arrossì vistosamente, forse per la prima volta in tutta la sua vita. Sicuramente, era la prima volta che X le faceva dei complimenti veri e propri per il suo aspetto. Non erano esattamente una coppia che tirava avanti di cene a lume di candela e smancerie, ma forse quello si era già capito, perciò una cosa del genere era stata una sorpresa un po’ per entrambi.

«Tu non sei diversa dagli altri tamaraniani. Tu sei meglio, degli altri tamaraniani.» Red X si avvicinò ulteriormente a lei, prendendo di nuovo le sue mani. Il suo sguardo non era mai stato così intenso, così bello, così... fantastico. Di solito era il contrario, ma quella volta fu Amalia a sciogliersi come burro davanti a lui. «Sarai una madre stupenda, Amalia. Sono io che come padre farò ben schifo.» Sorrise. «Questa è la nostra occasione. Possiamo redimerci entrambi, possiamo ricominciare a vivere per davvero. Potremo... avere una vita felice e normale. E se ancora non sei convinta, se ancora credi di non potercela fare, cerca di convincerti del contrario. Non farlo per me, non farlo per te, fallo per lui.» Appoggiò il palmo della mano destra sul suo ventre, per poi sfiorare le labbra della ragazza con le sue. «Fallo per noi. Per un domani migliore.»

E terminato il sermone, il ragazzo la baciò con passione. Amalia, senza neanche un attimo di esitazione, ricambiò appieno il gesto. Dopo quel discorso, non poteva essere più certa. Red X, Lucas, era l’uomo per lei. Non poteva chiedere di meglio. Intrigante, forte, serio, passionale, e tremendamente profondo, come un pozzo pieno di sentimenti. Le parole che le aveva detto avevano mutato radicalmente il suo pensiero sul loro futuro bambino.

Aveva ancora paura, naturalmente, ma sicuramente meno di prima.

Si baciarono a lungo, intrecciando le dita delle loro mani, stringendole con forza. Separatasi da lui dopo tempo immane, la ragazza sorrise tenuamente. «Grazie X... grazie davvero.»

Lui ricambiò il sorriso, accarezzandola nuovamente.

Entrambi avrebbero voluto restare fermi in quella stanza per ancora ore ed ore, ma sapevano di non poterlo fare. Dovevano tornare dagli altri. Amalia guardò la porta e brontolò quasi a malincuore: «Meglio andare...»

«Sì...» convenne lui, altrettanto svogliato. «... tua sorella sarà preoccupata.»

Si rimisero in piedi, Amalia asciugò il volto ancora inumidito dalle lacrime e cercò di sistemarsi i vestiti e i capelli rimasti stropicciati dopo la corsa,  poi uscirono dallo stanzino mano nella mano.

 

***

 

«Kom!» esclamò Stella quando la vide rientrare, correndo da lei e soffocandola in un altro abbraccio. Sembrava quasi che la maggiore fosse svanita di nuovo per anni, talmente Stella era contenta di rivederla. Ma ciò non dispiacque per niente ad Amalia, che, anzi, ridacchiò e fu ben più che felice di abbracciarla di nuovo, sotto gli sguardi di tutti gli altri.

«Ehi, che ti prende? È passata un’ora al massimo, da quando sono uscita...»

«Fai pure due e mezzo...» commentò Beast Boy, senza alcuna cattiveria nella voce, cosa che Amalia notò e che la fece sentire infinitamente meglio.

«Due ore, sul serio?» domandò X grattandosi i capelli ancora arruffati. «Wow...»

Amalia sentì le guancie in fiamme, di nuovo. Aveva piagnucolato per così tanto tempo? Non poté rimuginarci molto a lungo sopra, perché Stella smise si abbracciarla e incrociò i suoi occhi, guardandola preoccupata. «Corvina ha detto che sei scappata... adesso ti senti meglio?»

La tamariana mora si sentì una completa deficiente, ripensando al suo comportamento. Aveva fatto stare in pensiero Stella per nulla. «Sì, certo che sto bene. Scusa se ti ho fatta preoccupare...»

«Tranquilla Kom, è naturale essere spaventati. Io stessa lo sarei, dopo la notizia che hai ricevuto.»

Amalia abbassò lo sguardo. «Sì, ma tu non scapperesti via. E non dire che non è vero, perché non ci credo. Ti conosco abbastanza per saperlo.»

«Beh, sì, io probabilmente non sarei scappata, ma ciò non significa che sia per forza sbagliato farlo. Hai reagito in quel modo, eri sconvolta, non devi rimproverarti di niente.»

«Sarà...» mormorò Amalia sospirando. Si sentì ancora più stupida, a farsi consolare in quel modo da sua sorella minore. Quanto le sarebbe piaciuto vedere il mondo con la stessa ottica di Kori. Vedere solo il meglio delle cose, tralasciare quelle brutte, essere gentile, comprensiva e buona di natura. Essere di più... come lei. Si sarebbe risparmiata un mucchio di tormenti inutili.

Stella nel frattempo sorrise di nuovo e la abbracciò una seconda volta. «E comunque, non preoccuparti...» mormorò strofinando il naso sulla sua spalla. «... io ti resterò accanto e ti aiuterò ogni volta che ne avrai bisogno.»

«Kori...» Amalia le accarezzò i lunghi capelli rossi. Sentì le lacrime agli occhi, ormai aveva perso il conto di tutte le volte che aveva pianto in quella giornata. «... grazie. Grazie davvero.»

Il mondo si stava rivelando molto più buono di quanto avrebbe mai potuto immaginare, con lei.

«Amalia» mormorò qualcuno da qualche parte intorno a lei. La ragazza drizzò la testa e incrociò gli occhi di Corvina, viola come i suoi, e notò la sua postura scomposta e tesa. «Volevo... chiederti scusa per come ti ho detto... la notizia. Avrei dovuto essere più delicata...»

Amalia sorrise e scosse la testa. «Non scusarti, davvero. Sarei scappata comunque, poco ma sicuro.»

Corvina ricambiò il sorriso, apparendo visibilmente più sollevata. Terra, accanto a lei, le sussurrò qualcosa, probabilmente un "te l’avevo detto".

Nel giro di pochi attimi, il resto dei Titans si perse in parole e chiacchiere riguardo l’argomento. Più o meno fecero tutti la stessa cosa. Qualche complimento, qualche sorriso. Più o meno, ciò che già X aveva detto che sarebbe successo.

La tamaraniana mora notò una confidenza che prima non esisteva neanche lontanamente, tra lei e i Titans. Si domandò se fosse tutto dovuto alla sua condizione. E la risposta era ovviamente sì. Fu in quel momento che Amalia ricominciò a tormentarsi con i propri rimorsi, intuendo che, nonostante fosse incinta, dubitava che l’avessero perdonata per ciò che aveva commesso in passato. E probabilmente non lo avrebbero mai fatto.

Il gruppo si spartì poco dopo. Tutti erano stanchi, spossati, doloranti, alcuni perfino senza vestiti. Avevano bisogno di un buon sonno ristoratore. Amalia osservò in silenzio gli altri ragazzi dirigersi ai dormitori. Lucas le posò una mano sulla spalla e fece cenno di venire anche lei. La ragazza obbedì, con qualche milione di pensieri diversi per la testa.

Ai dormitori si divisero. Stella e Robin si salutarono dandosi la buona notte con un lungo e dolce bacio. Guardandoli, Amalia riuscì a sorridere, per poi cadere in preda all’inquietudine non appena si separarono. Ad ogni distrazione, riusciva a tirarsi su di morale, per poi venire di nuovo sopraffatta dai propri angusti pensieri.

Una mano si posò sulla sua spalla, facendola voltare di scatto. Era X, che le sorrise molto più comprensivo di quanto lei avrebbe mai potuto immaginare. «Se per caso... ti senti ancora tormentata... guarda le stelle. Ti aiuterà, vedrai.» Detto quello, le diede un rapido bacio a fior di labbra, per poi augurarle la buona notte ed entrare nel dormitorio dei ragazzi. Amalia lo guardò stupita mentre svaniva nella stanza assegnata ai ragazzi, riflettendo su ciò che le aveva detto.

Passò diverso tempo ancora, trascorso rigirandosi nelle coperte senza nemmeno riuscire a chiudere gli occhi, prima che si decidesse a seguire quel consiglio.

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Momenti di intimità ***


The Good Left Undone

III

MOMENTI DI INTIMITÀ

 

 

Ed eccomi qui, pensò Amalia, con ancora lo sguardo perso nel vuoto, continuando ad accarezzarsi la pancia, gesto completamente inutile del quale non riusciva però a fare a meno. Non le sembrava ancora vero che, dopo sole tre settimane, avesse già scoperto di essere incinta. I successivi nove mesi si preannunciavano per lei lunghi e difficili. X era con lei, e dopo che Robin aveva detto che forse avrebbe potuto perdonarla si era sentita molto meglio, ma la paura di crescere un bambino era comunque alta. Poteva avere tutti gli aiuti che voleva, X poteva essere la persona migliore che avrebbe mai potuto avere al suo fianco, ma sapeva che in ogni caso la madre biologica era lei, lei era quella che aveva le maggiori responsabilità sul suo futuro figlio, era lei a cui spettavano i sacrifici più grandi. Lei lo avrebbe allattato, gli avrebbe cambiato i pannolini, lo avrebbe vestito e lavato. Ed era poco più che una ragazzina, molto, molto immatura, sotto certi punti di vista.

Aveva paura. E ne avrebbe avuta per ancora molto tempo.

Robin pareva quasi un fantasma, nella stanza insieme a lei. A malapena udiva il suono del suo respiro. Il ragazzo la guardava in silenzio, studiandola, probabilmente provando pena per lei. Amalia si sentì un animale ferito, patetica, fuori luogo. Forse avrebbe fatto meglio a tornarsene a letto e soffocare nei suoi pensieri bui, terminando quel momento tremendamente imbarazzante.

«X come l’ha presa?» domandò Robin all’improvviso, facendola sussultare. «Sembrava tranquillo, ma scommetto che in realtà era altrettanto spaventato...»

«Beh...» La tamaraniana si voltò, mesta. «Diciamo che l’ha presa meglio di me. E... se non ci fosse stato lui... probabilmente non avrei più trovato il coraggio di uscire dal buco in cui mi sono andata a nascondere.»

«Capisco.»

Amalia giocherellò nervosa con una ciocca di capelli, non sapendo cos’altro aggiungere. Tra i due scese nuovamente il silenzio.

«Gli... gli altri Titans... mi perdoneranno?» domandò la ragazza, poco dopo. Sperava che saperlo l’avrebbe aiutata a tranquillizzarsi ulteriormente.

«Beh... non posso dirlo con certezza, ma credo che, ora come ora, tu abbia dalla tua parte Stella, Corvina e Terra. BB e Cyborg non si sono ancora espressi, mentre la mia posizione già la sai» rispose Robin sorridendole. «Le signore sono a tuo favore, praticamente. Eccetto me ed X, ma lui non può nemmeno essere considerato un Titan. Per farla breve, sono più quelli che ti hanno perdonata che gli altri, puoi stare tranquilla.»

Questa volta, Amalia non poté trattenere un respiro di sollievo. Doveva ringraziare Corvina e Terra, quando sia lei che loro avrebbero avuto il tempo. Sì, perché quelle due di tempo non dovevano averne molto, visto che restavano sempre incollate l’una alla bocca dell’altra. Le venne quasi da ridere, a ripensarci, ma si controllò, per via della presenza di Robin.

Ormai era sicura al cento percento, nessuno sapeva, a parte lei, che la fredda e dura maga e la biondina esuberante avessero una storiellina romantica. Chissà cosa stavano combinando, in quello stesso momento. Era pronta a scommettere che non stavano dormendo...

 

***

 

«Terra... ti prego, sono stanca...»

Corvina cercava di lottare, ma era tutto inutile. Nulla al mondo sarebbe riuscito a saziare l’appetito di Terra, se non il corpo della maga stessa.

«Scusami Corvy, ma proprio non posso trattenermi...» bisbigliò la bionda maliziosa, sdraiata sopra di lei, nello stesso letto.

Corvina sembrava quasi spaventata, in quel momento, ma Terra non poteva biasimarla. Si trovavano nel dormitorio e non in un luogo appartato, dopotutto. Ma il desiderio era troppo, irrefrenabile. La bionda voleva Corvy, la desiderava. Nelle ultime ore non si era fatto altro che parlare di Red X e Amalia, quando lei non voleva altro che potersene stare un po’ da sola con la sua amata. E quello era il momento ideale. Affondò le labbra sopra quelle della maga, percorrendo con le mani il suo corpo vellutato, strofinandole i fianchi, la schiena, i glutei, le cosce e qualsiasi cosa trovassero sul loro tragitto.

«Potrebbero sentirci!» Quasi la implorò, Corvina, quando Terra le riconcesse il dono della parola separando le labbra da lei.

«Amalia è uscita, e sai meglio di me che Stella non si sveglia neanche con le cannonate» le fece notare con tono calmo la bionda, avvicinando una mano al petto di Corvina e stringendole uno dei floridi seni, avvertendo qualcosa esplodere dentro di lei. Forse il suo stesso cuore, per via di ciò che il petto della maga le trasmetteva.

Corvina gemette più forte quando Terra affondò le dita nelle sue carni, tappandosi immediatamente la bocca con la mano.

Guardandola mentre si comportava in quel modo, Terra si innamorò di lei una seconda volta. Era così bella, sensibile, timida... il cuore della bionda si scaldava ogni volta che la guardava. Ogni volta che incrociava i suoi occhi sentiva le gambe sciogliersi. Corvina era stupenda, era praticamente una dea. Ed era sua. Tutta sua. Da quando entrambe si erano dichiarate, niente e nessuno avrebbe mai potuto portargliela via. Si amavano, l’una poteva vivere solo se c’era l’altra. Avevano caratteri diversi, contrastanti, ma era proprio quello ciò che rendeva così bello il loro rapporto. Le loro anime erano come due puzzle frammentati. Terra era curiosa, spiritosa, avventata, audace. Corvina era calma, riflessiva, titubante. Da sole erano incomplete. Insieme, i pezzi dei loro puzzle si mescolavano tra loro, trovando il giusto posto per ciascuno di essi. E il puzzle si completava, rivelando un disegno magnifico. Quando erano solo loro due, erano complete, erano felici, avevano tutto ciò che potevano desiderare. Erano vive.

In quello stesso momento, seppur Corvina stesse negando con convinzione pure a sé stessa, Terra sapeva che in realtà voleva andare avanti. La maga viveva sempre senza correre rischi, nella calma e nella quiete. Era giusto che qualcuno, ogni tanto, si intromettesse in tutto ciò. Corvina aveva bisogno di provare dei brividi, correre sul filo del rasoio, aveva bisogno di un tornado che le scombussolasse la vita. E quel tornado era Terra.

«E se... se Amalia entra di nuovo?» domandò di nuovo la maga fissandola con i suoi enormi occhi viola la ragazza. Terra sorrise e le accarezzò una guancia. Quanto adorava Corvina quando era lei a fare le domande. In genere era la maga ad avere sempre la risposta a tutto, ad ogni evenienza, perciò, le volte in cui era lei a doverle spiegare qualcosa, la bionda si sentiva come se avesse vinto le olimpiadi. 

«Amalia sa già che tra noi c’è qualcosa, al massimo, se ci vede, glielo ricorderemo e basta.»

«Sì, ma se ci vede mentre... insomma...» Corvina arrossì vistosamente e non concluse la frase, ma era ben chiaro dove stesse andando a parare.

La bionda sorrise maliziosa. Però, Corvy pensava in lungo!

«Le chiediamo se vuole fare una cosa a tre» rispose ammiccando.

«Cosa?!» La voce di Corvina si alzò di un’ottava, se Stella non avesse avuto il sonno di ferro, si sarebbe sicuramente svegliata.

Terra ricevette un’occhiata talmente stranita che dovette trattenersi con tutta sé stessa per non scoppiare a ridere e mantenere un’espressione più seria possibile. «Mh, hai ragione... non credo che tradirebbe X, con un figlio in grembo, tra l’altro. Peccato però, è un bel bocconcino... come Stella.»

«Terra!» Corvina si mise a sedere, rivolgendole un’occhiata furente, che forse aveva lo scopo di impaurire l’interlocutrice, ma che ebbe il risultato opposto. La bionda ridacchiò e avvolse le braccia intorno al collo della maga, per poi appiopparle un altro bacio, dal quale Corvina, volente o nolente, non poté ritrarsi.

«Scherzavo» disse Terra staccandosi appena da lei, questa volta in maniera sincera, per poi percorrerle con le dita il suo petto, raggiungere il volto e concludere dandole un buffetto sul naso. «Non fare la gelosa, lo sai che per me esisti solo tu...»

«Gelosa? Io? Hai preso un granchio, carina...» sbottò Corvina distogliendo lo sguardo da lei. Le guancie imporporate, tuttavia, la colsero in flagrante.

Terra rise di nuovo e si fiondò su di lei, facendola di nuovo sdraiare sul materasso. Anche la maga, a volte, sapeva essere divertente. A modo suo, ovviamente. Terra cominciò a divorarla di baci, letteralmente. Corvina era restia a lasciarsi trascinare, in un primo momento, ma poi dovette intuire che la bionda non si sarebbe mai fermata. A quel punto, forse rassegnata, o forse anche lei in preda alla lussuria, la maga cominciò a ricambiare la danza delle loro lingue.

Le guancie di Terra furono divorate dalle fiamme. I baci con Corvy erano la cosa migliore che potesse esistere. Le sue labbra erano morbide, delicate, avevano un loro sapore, un loro odore, qualcosa di unico nel suo genere. Non avrebbe mai potuto averne abbastanza, di loro.

Con i palmi delle mani cominciò a scendere lungo i suoi fianchi, per poi soffermarsi sui glutei e stringerli con avidità. La maga ansimò separandosi appena da lei, per poi avvolgerle le mani intorno alla testa e trascinarla nuovamente a sé. Allargò le gambe e le avvolse intorno a quelle di Terra, quasi come una morsa. La bionda, improvvisamente, cominciò ad avere dei dubbi su chi controllava la partita, ma di certo non si fermò.

Si baciarono a lungo, accarezzandosi, massaggiandosi, stringendosi talmente forte tra loro che i loro petti si spremettero l’uno contro l’altro, ed entrambe avvertirono le punte dei seni farsi turgide.

La bionda abbandonò di colpo le labbra della maga, per poi abbassarle il lungo colletto del body e avventarsi sul suo collo come un vampiro. Corvina soffocò un grido all’ultimo momento e piegò la testa di lato, per lasciare più spazio a Terra. Le sue mani percorrevano frenetiche la schiena della bionda, facendola rabbrividire.

«Terra... Terra... agh...» Cominciò ad ansimare, ad emettere respiri talmente forti da sembrare grida, il tutto mentre le sue dita si insinuavano sotto la maglietta di Terra, strofinandole la pelle calda. «Ti amo Terra... ti amo...»

«Anch’io Corvy...» rispose Terra separando appena la bocca dal collo candido della maga, per poi attaccarlo di nuovo e con più insistenza. Avvertiva le dita di Corvina avvicinarsi al gancio del suo reggiseno, un altro brivido la percorse e le sue guancie si incendiarono ulteriormente. Nulla sembrava poterle più fermare ormai. Volevano andare avanti, volevano ben più che dei semplici baci. Neanche un uragano avrebbe potuto spegnere l’incendio alimentato dalla passione delle due ragazze.

O, almeno, Terra era convinta che fosse così. Finché non udì un forte sospiro. A quel punto si irrigidì di colpo, diventando di granito. Lo stesso fece Corvina, pure le sue mani si fermarono all’improvviso, da sotto la sua maglietta.

Entrambe diventarono due statue, trattennero perfino il respiro. Qualcuno aveva sospirato, ed entrambe erano certe che non fosse nessuna di loro due.

Terra girò lentamente la testa, inorridendo al pensiero che quel qualcuno le avesse viste. Non tanto perché non voleva che ciò accadesse, anzi, le sarebbe piaciuto moltissimo poter vivere quella relazione con Corvina senza nascondersi. Più che altro temeva che la stessa maga l’avrebbe uccisa, per non averla ascoltata mentre la metteva in guardia sui rischi che correvano a sbaciucchiarsi su quel materasso.

Si sentì morire quando vide la figura longilinea di Stella mettersi a sedere sul bordo del proprio letto, stiracchiandosi e sbadigliando.  Per fortuna, la tamaraniana dava loro le spalle e si trovava nel letto vicino all’ingresso del dormitorio, al capo opposto rispetto a quello in cui si trovavano le altre due ragazze. Ma le sarebbe bastato ruotare il collo di novanta gradi per vederle.

Corvina e Terra rimasero immobili, senza respirare, con gli occhi incollati alla compagna, attente perfino a non battere le palpebre per paura di far rumore e pregando qualsiasi entità conoscessero affinché la tamaraniana non si girasse.

Non accadde. Stella si alzò dal letto, offuscò un altro sonoro sbadiglio portandosi una mano davanti alla bocca e si incamminò verso la porta. Questa si aprì automaticamente, scorrendo di lato, e si richiuse non appena la rossa fu fuori dalla stanza.

Passarono diversi secondi, prima che le due ragazze riprendessero a respirare. Terra sorrise di sollievo, scuotendo la testa per scacciare la tensione e si voltò verso la maga, credendo di trovare un’espressione sollevata anche sul suo volto. Ma non appena incrociò i suoi occhi furenti, diventò bianca come il latte.

Da quello sguardo che avrebbe incenerito ogni cosa, intuì subito che la maga provava tutt’altro che sollievo e che una bella strigliata per non aver ascoltato i suoi ragguagli non gliel’avrebbe levata nessuno.

Oh oh...

 

***

 

Stella attraversò il corridoio, stiracchiandosi, in parte ancora assonnata, ma pur sempre vigile e attenta. Non sarebbe certo stata un po’ di stanchezza, ad impedirle di fare ciò che aveva in mente. Al pensiero, un gigantesco sorriso le dipinse il volto, anche se, prima, doveva accertarsi di dove si trovasse chi stava cercando.

Diversi pensieri fiorirono nella sua mente, mentre camminava. A spiccare tra tutti questi, la notizia di sua sorella incinta.

Beh, dire che era al settimo cielo per lei era un eufemismo. Sapeva che in realtà Kom era terrorizzata all’idea di partorire, sapeva che la sorella maggiore probabilmente non avrebbe mai voluto una simile cosa, ma sapeva anche che presto si sarebbe ricreduta. Non appena avrebbe cominciato a vivere le gioie che solo una madre può vivere, avrebbe capito che in realtà quel bambino era molto più di quanto avrebbe mai potuto credere.

Certo, Stella non poteva veramente essere a conoscenza di cosa provasse una madre verso il proprio figlio, ma era certa che ad Amalia sarebbe piaciuto. Aveva visto centinaia di madri felici di poter abbracciare la propria prole, con gli anni trascorsi a badare a Jump City, e anche con quelli trascorsi su Tamaran. Era solo una bambina all’epoca, ma non avrebbe mai potuto dimenticare tutti quei volti sorridenti. E sapeva che un giorno Amalia sarebbe stata tra questi. Se lo sentiva dentro, come un presentimento che sapeva al cento percento si sarebbe rivelato veritiero.

Certo, per una razza rigida come i tamaraniani attenderne uno prima del matrimonio era un’eresia bella e buona, perché significava aver avuto un rapporto sessuale prematuro, ma Kori dubitava che quelle regole fossero ancora in vigore per lei e la sorella. Inoltre Amalia non era mai stata una santerellin . Ma Stella non la giudicava di certo per quello, certo che no. Kom poteva fare quello che voleva. Anzi, sotto certi aspetti, Kori ammirava perfino il modo in cui sua sorella se ne era infischiata delle tradizioni ferree della loro gente, facendo l’amore con Red X prima della loro unione legittima. Doveva avere un bel coraggio. E non solo perché aveva infranto le tradizioni, ma anche perché il rapporto carnale era qualcosa che spesso e volentieri mandava in crisi Stella. Ogni volta che aveva sentito allusioni a riguardo, da quei pazzoidi di Cyborg e BB in particolare, le sue guancie erano andate in fiamme. Forse dire che aveva paura di quel genere di cose era un po’ eccessivo, ma non era nemmeno lontano dalla realtà. Per lei baciarsi era una cosa normale, baciarsi significava amore. Dormire nuda con un’altra persona, invece, per quanto bello avrebbe mai potuto essere... la inquietava. Per questo era sorpresa dal comportamento di Amalia, lei non aveva avuto paura o altro, a differenza di sua sorella minore che quando aveva trovato una rivista dal dubbio gusto appartenuta a BB per poco non le era venuto un infarto. 

Presa in questi pensieri com’era, non si rese nemmeno conto di essere arrivata alla fine del corridoio, in prossimità della sala comandi. Mosse i primi passi dentro di essa ed ebbe un tuffo al cuore quando notò le due figure prese a parlare. Una era Amalia, l’aveva riconosciuta all’istante, l’altra... Robin.

Sentì le gambe divenire burro quando lo vide. Era lì, proprio dove aveva sperato di poterlo trovare. Poco prima, dopo essere uscita dal dormitorio delle ragazze, era andata in quello dei ragazzi. Aveva appena messo la testa dentro la stanza, per cercare il suo leader, per poi, non notandolo, uscire all’istante, con gli occhi che quasi lacrimavano per via dei... forti odori che alleggiavano lì dentro. Come facessero i ragazzi a vivere in quelle condizioni, era un mistero. Forse era per quello che Robin era uscito. D’intuito, era andata in sala comandi, sperando che lui si trovasse lì e non a zonzo per la nave, anche perché se si fosse messa cercarlo tra quei corridoi che nemmeno conosceva, probabilmente si sarebbe persa. Beh, le era andata bene. Lo aveva trovato.

Non appena fu abbastanza vicina, Robin e Amalia si accorsero si lei, si voltarono e le sorrisero, salutandola.

«Che succede qui?» domandò lei sorridendo e avvicinandosi ulteriormente.

«Niente di che, parlavamo di quella cosa» spiegò Robin.

Stella afferrò al volo e non ebbe bisogno di altre spiegazioni.

«Tu invece, perché sei qui?»

«Non riuscivo a dormire...»  mentì la tamaraniana, incrociando i suoi occhi privi di maschera. Non aveva ancora capito dove e come, ma l’aveva persa da qualche parte sul Parco Marktar. E a Stella andava benissimo così. Era davvero... naturale, con quelle iridi azzurre libere di essere viste da tutto e tutti. Ricordava alla tamaraniana che, in fondo, Robin era esattamente un ragazzo come tanti e non solo il leader di un gruppo di supereroi che aveva come unico obiettivo quello di catturare i criminali.

Rare volte aveva visto quegli zaffiri che aveva come occhi, e in ciascuna di esse ciò era accaduto per pochi istanti, non aveva mai potuto godersi appieno la visione di quelle iridi brillanti. In quel momento, invece, sentiva il cuore battere tutte le volte che le incrociava anche solo di sfuggita. Non sentì nemmeno la risposta di Robin, talmente era occupata ad osservarlo. A dire la verità, non fu nemmeno certa di averne avuta una.

Amalia osservò la scena in silenzio, poi sorrise e si congedò. «Vi lascio soli.»

Questa volta Stella la sentì e si girò verso di lei, trattenendola con un gesto della mano. «No, no, resta pure se vuoi.» Non voleva che sua sorella si sentisse obbligata ad uscire, anche se, si sentiva in colpa ad ammetterlo, avrebbe preferito che lo facesse.

Ma Kom allargò il sorriso e scosse la testa. «Sei gentile, ma no. Ho bisogno di dormire un po’, sono stanchissima. Ci vediamo più tardi. E comunque...» Si avvicinò a lei e le sussurrò maliziosa. «... non mi va di fare la terza incomoda.» Le strizzò l’occhio e si diresse verso l’uscita, per poi svanire nel corridoio.

Stella la seguì con lo sguardo, mentre un tenue sorriso le appariva in volto. Sì, ammirava Komand’r.

«E così...» Stella si girò lentamente verso di Robin, sorridendo melliflua e avvicinandosi a lui. «... siamo soli.»

«Non era quello che volevi?» domandò il ragazzo scoccandole un’occhiata eloquente.

La tamaraniana ridacchiò e lo raggiunse, per poi avvolgergli il collo con le proprie braccia e sussurrare: «Sì.»

Unì le labbra a quelle di Robin e il resto fu storia. Sentì le guancie andare a fuoco, le gambe tremare, la pelle d’oca e brividi d’eccitazione che la percorrevano lungo tutto il corpo. Quello era il momento che tanto sognava da anni, ormai. Da quando aveva conosciuto Robin la prima volta, anzi, da prima ancora, quando era bambina e tanto sognava il principe azzurro.

Era dal giorno che aveva baciato il leader dei Titans per imparare le lingue terrestri con il contatto labiale, che desiderava poterlo assaporare di nuovo. Sul Parco Marktar il bacio era stato senza dubbio sensazionale, ma purtroppo breve e sotto gli occhi di tutti. Lei desiderava un momento un po’ più... intimo, con il suo amato. E quello era il momento che cercava.

Si strinse al corpo caldo e definito di Robin, pervasa dal senso di sicurezza e protezione che solo il suo leader sapeva donarle. Il ragazzo le circondò i fianchi con le mani, ricambiando la lussuriosa danza delle lingue, infondendo a Stella un tepore magico e unico nel suo genere.

Amò quel ragazzo più di quanto non avesse mai fatto, in quel momento. I loro respiri pesanti e mugugni di soddisfazione andarono a riempire l’aria, mescolandosi tra loro in una sinfonia che era una grazia per le orecchie. Il fiato caldo di Robin soffiava contro il volto della ragazza, facendola fremere ogni volta.

Ad un certo punto il moro non riuscì più a contenere quell’impeto di passione che Stella aveva avuto e fu costretto ad indietreggiare. Allungò una mano dietro di sé, tastando il vuoto in un primo momento, quasi freneticamente, per poi trovare ciò che cercava. Le dita si richiusero intorno ai bracciali della poltrona davanti alla consolle e tirò, girando la seggiola. A quel punto indietreggiò, portando Stella con sé e senza separare le labbra da lei, poi vi si sedette sopra, afferrando la ragazza intorno alla scapole.

La tamaraniana intuì i movimenti che Robin stava compiendo e li assecondò, per poi ritrovarsi seduta a cavalcioni su di lui, sopra la poltrona, il tutto senza mai staccarsi dalle sue labbra. A causa della posizione, Robin fu costretto ad inarcare la testa all’indietro per riuscire a baciarla. Non che gli dispiacesse.

Non poté trattenere pensieri ben più audaci che semplici baci, trovatosi seduto con la ragazza sulle sue gambe in quel modo. E se ne sentì quasi in colpa. Stella era buona, dolce, gentile... innocente. Non sembrava quasi giusto che una ragazza pura come lei fosse al centro di simili pensieri. Ma nonostante ciò, nonostante queste considerazioni, Robin era pur sempre un essere umano. Anzi, peggio, era un adolescente in piena tempesta ormonale. E Stella era una ragazza mozzafiato, bellissima, magnifica come una corrente d’aria fresca in piena estate e più focosa del sole stesso. Il profumo della sua pelle, poi, inebriante, talmente forte da far girare la testa, peggio di una droga. Probabilmente quella fu l’erezione più prorompente che gli fosse mai venuta. Supplicò con la mente che Stella non la notasse.

Così sembrò, Stella non smise un solo istante di baciarlo, di strofinare le mani sul suo corpo, sulle sue spalle ampie, sul suo petto robusto. Ad un certo punto afferrò perfino il colletto e cominciò a tirarlo verso di lei. Robin rabbrividì quando la pelle sotto il costume aderente entrò in contatto con l’aria fredda della sala. I suoi polpastrelli scesero lentamente, calamitati al corpo focoso della tamaraniana, anche loro ormai in preda al desiderio che quell’amplesso aveva acceso. Scivolarono lungo la schiena vellutata e morbida, giungendo all’inizio delle natiche. Qui esitarono, valutano se scendere ulteriormente o meno. Poteva davvero arrivare a quel punto con Stella? La sua Stella? La dolce, ingenua, innocente e soprattutto pura Stella? Certo, era stata lei a baciarlo per primo, ma forse lo aveva fatto impulsivamente, magari non voleva arrivare davvero fino a quel punto. Rimase immobile, come una statua. L’unica cosa che fece fu quella di ricambiare i baci colmi d’emozioni della ragazza, cosa non troppo azzardata, ma abbastanza focosa da riuscire a placare in parte la sua brama di andare oltre e fare ciò che Amalia e Red X invece avevano fatto.

Stella non si accorse minimamente di ciò che Robin stava facendo o pensando, l’unica cosa che sapeva era che lo stava baciando, il resto non contava.

Il bisogno d’aria diventò impellente e, purtroppo, dovettero interrompere quel magico momento per permettere agli apparati respiratori di riprendere il loro corretto funzionamento. Una volta separati rimasero a guardarsi negli occhi, entrambi con il fiato grosso, la ragazza vistosamente arrossita e il ragazzo ancora mezzo sorpreso da ciò che era appena accaduto. E poi, inevitabilmente, si sorrisero.

«Cavolo Stella...» cominciò Robin, tra un respiro e l’altro. «Non... non avrei mai pensato che...»

La ragazza gli posò un indice sulle labbra, zittendolo e avvicinando talmente vicino la bocca a lui che gli sarebbe bastato spostarsi di un millimetro avanti per baciarla di nuovo.

«È da quando ti ho baciato la prima volta, per apprendere la tua lingua...» cominciò a mormorare, rinfrescando il volto di Robin con il suo alito assuefante. «... che desideravo di poterlo rifare nella giusta maniera...»

«Oh... beh... in tal caso...» Robin si avventò sul collo della tamaraniana, strofinandoci sopra naso e labbra, ubriacandosi del suo odore e cominciando a riempirlo di baci.

Stella fece un verso sorpreso, che andò ben presto a trasformarsi un mugugno appagato, poi inarcò il collo di lato, pizzicandosi le labbra e stringendo le palpebre. «Mhh... Robin...»

Quello sì, che era una goduria. La lingua di Robin stava assaporando la pelle calda del suo collo, lasciando roventi scie di saliva, che venivano presto cancellate dalle labbra del ragazzo. La tamaraniana quasi gridò. Sul suo pianeta non esistevano certi tipi di contatti labiali. Il massimo che si poteva fare su Tamaran, prima del matrimonio e del concepimento dei figli, era quello di baciarsi con la lingua e basta, e oltretutto con un certo senso del pudore. Ciò che aveva fatto con Robin poco prima avrebbe fatto venire un colpo a qualsiasi anziano della sua razza. Cominciò a capire perché  Kom aveva letteralmente mandato al diavolo tutte le loro usanze. Ciò che stava provando era... bellissimo. Un po’ inusuale, forse, ma era proprio la sua particolarità e stranezza a renderlo gradevole. Si concentrò a smettere di pensare alla propria razza. Non era più su Tamaran, non doveva darsi tante pene con quei pensieri pressappoco inutili. Fino a quando si sarebbe semplicemente trattato di baciarsi, non avrebbe pensato al resto.

Si pizzicò con più forza le labbra per non urlare e stritolò la testa di Robin, accarezzandogli i capelli e giocherellando con le corte ciocche di essi. Quanto avrebbe voluto che quel momento durasse in eterno. In ogni caso, se lo sarebbe goduto in tutta la sua durata.

«Ohh Robin... Robin...» cominciò a mormorare, mentre lui non accennava a separarsi da lei. Riaprì leggermente gli occhi, sperando di poter di nuovo incrociare i suoi occhi privi di maschera, ma l’unica cosa che riuscì a vedere fu uno spettacolo che le fermò il cuore all’improvviso. Sgranò gli occhi di colpo e si separò da Robin quasi con violenza, lasciandolo a baciare l’aria.

Il ragazzo fece un verso sorpreso, quasi offeso, e la guardò perplesso. «Stella, che cosa...» Si interruppe, quando vide l’espressione sconvolta della compagna. Fissava un punto alle spalle del ragazzo. Robin decise di capire cosa la preoccupasse e si girò, per poi scoprire che alle sue spalle si trovava proprio il parabrezza della sala comandi. E quando vide cosa c’era oltre la grossa vetrata, intuì quale fosse la preoccupazione della ragazza.

Le stelle, le nebulose, gli asteroidi vaganti, ogni cosa era sparita, offuscata da una sagoma nera enorme. Robin non era un esperto dello spazio, ma avrebbe riconosciuto quella figura ovunque. Era una nave spaziale. Anche se quella era... diversa, dalle poche altre che aveva visto. Era molto più... rustica, rispetto a quella su cui si trovava in quel momento o a quella di Metalhead. Se non fosse sembrata una follia, avrebbe detto che assomigliava ad un antico galeone.

Aveva un’enorme prua costituita da decine e decine di giganteschi listelli gialli e luminosi, il resto era di un color marrone scuro, misto al’arancione. Sui fianchi aveva quelli che sembravano in tutto e per tutto dei grossi cannoni, era dotata di un enorme ponte. Su di esso si potevano benissimo notare altre decine di cannoni, che sembravano quasi delle balliste più tecnologiche.

E per finire, al centro della nave, un grosso albero maestro spuntava dal terreno, per poi smarrirsi a decine di metri di altezza, dove si trovava una piattaforma circondata da una ringhiera protettiva e, poco più su, sulla punta, un grosso drappo nero e sgualcito era afflosciato su sé stesso, chiaro segno che il mezzo spaziale fosse fermo. Aveva perfino delle vele grigiastre e una polena raffigurante la testa di un grosso animale molto simile ad un drago.

Entrambi i giovani innamorati osservarono stralunati quell’immenso velivolo, sentendosi quasi intimoriti dinnanzi ad esso. Stella si strinse ulteriormente al ragazzo, sperando di riuscire così a tranquillizzarsi.

Robin intuì cosa stesse preoccupando la tamaraniana, lo intuì eccome. E, tolto il timore che era naturale provasse, si sentì quasi arrabbiato per aver interrotto quel magnifico momento che stava vivendo con la sua dolce metà. E, tolta anche la rabbia, venne la curiosità. Da quando quella nave era lì, di fronte a loro? Era lì per un motivo particolare? Chi la pilotava? Ma soprattutto... visto che sembrava ferma davanti a loro... non rischiavano di andarsi a schiantare contro di essa?!

A quel pensiero, il cervello di Robin ricevette un impulso. Fu costretto ad alzarsi dalla seggiola, costringendo Stella a fare lo stesso, poi, ignorando completamente come si pilotasse la loro nave, corse ai dormitori per svegliare Cyborg affinché provvedesse lui a non trasformare il loro velivolo in una palla di fuoco, mandando di nuovo al diavolo quella maledetta nave per aver interrotto il suo momento con Stella.

La poverina interessata rimase da sola nella sala comandi, con le mani congiunte sul grembo, a fissare sbigottita ora la nave di fronte a lei, ora il corridoio in cui il suo amato era fuggito.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Pirati spaziali ***


The Good Left Undone

IV

PIRATI SPAZIALI

 

 

Red X fu il primo a svegliarsi. In un primo momento gli parve di trovarsi in una specie di limbo, in cui né dormiva né era desto. Si sentì come in una specie di stato di trance, durante il quale gli avvenimenti delle ultime ore lo soffocarono. Padre. Lui stava per diventare padre. A distanza di diverso tempo da quando era andato a parlare con Amalia, ancora non gli sembrava vero. Quando ripensò a ciò che aveva detto alla tamaraniana, gli venne da fare una smorfia. Non aveva detto quelle cose per rassicurare lei, quanto più rassicurare sé stesso. Il solo pensiero di lui in una stanza che si prendeva cura di un bebè gli faceva venire i brividi.

C’erano molti modi per evitare quella situazione. Scaricare Amalia, oppure scappare, due gesti che meritavano il Nobel per la codardia, non c’era che dire. Ma lui, per quanto fossero sbagliate le scelte che aveva intrapreso in passato, non avrebbe mai potuto fare quelle cose. Amava Amalia, nel bene e nel male, fuggire l’avrebbe distrutta e naturalmente lui non voleva che ciò accadesse. Lo attendevano un sacco di responsabilità, notti in bianco ed emicranie, ma doveva farsi forza. Ormai era nel ballo e doveva ballare. Sperando che, dopo quella notizia, non arrivassero altri imprevisti. Non lo avrebbe potuto sopportare. Con tutto ciò che era accaduto, la gravidanza di Amalia era stata il colpo di grazia. L’ultima cosa che voleva erano altri problemi. Se essi fossero arrivati non l’avrebbe presa bene. Assolutamente no.

Passarono pochi istanti, prima che si accorgesse di essere davvero sveglio. Robin era entrato nel dormitorio dei ragazzi di corsa, cominciando a chiamare Cyborg a gran voce. Peccato che il diretto interessato aveva continuato a russare bellamente, così come Beast Boy, sdraiato poco lontano. In poche parole, l’unico imbecille che era stato strappato dal mondo dei sogni era il ragazzo in nero. Si mise a sedere di colpo, lanciando un’occhiata omicida a Robin, una di quelle che avrebbero dato fuoco alla foresta amazzonica. Il leader non si accorse di lui.

Fu quasi tentato a lanciargli addosso una delle sue lame per farlo tacere, magari anche per sempre, ma poi si fermò. Per prima cosa, di lame ne aveva ormai ben poche e non voleva sprecarle. E quello era il motivo principale per cui non gliene lanciò una. Poi, secondo, lui era Robin erano quasi amici, perciò era meglio non rovinare tutto.

Non si rese nemmeno conto che Robin nel frattempo stava continuando a chiamare Cyborg, strattonandolo. Passarono diversi istanti, prima che il robottone drizzasse la testa e mugugnasse qualcosa di incomprensibile. Robin prese quel verso come una richiesta sulla situazione e si mise a spiegare: «Cyborg, devi venire in sala comandi, ora! Rischiamo di schiantarci!»

A quelle parole, sia Cyborg che Red X scattarono sull’attenti.

«Cosa?!» domandò il ragazzo in nero, sedendosi sul bordo del letto, guardando il quasi amico atterrito.

«Venite a vedere voi stessi!» esclamò Robin avvicinandosi alla porta e facendo cenno di seguirlo. Red X e Cyborg si scambiarono un’occhiata, mentre Beast Boy continuava a russare incurante. Beato lui e il suo sonno pesante. Robin corse fuori dalla stanza e gli altri due ragazzi si affrettarono a seguirlo, abbandonando il mutaforma a sé stesso. E alla sua puzza.

«Che significa che stiamo andando a schiantarci?» domandò X, urlando per farsi sentire da Robin che correva diversi metri davanti a lui.

«C’è una nave ferma davanti a noi, rischiamo di andarci addosso!»

«Una nave?!»

«Lo vedrai con i tuoi occhi!»

Divorarono il corridoio fino a quando non si trovarono in sala comandi. Qui Stella si trovava in piedi, con un’espressione mista all’imbarazzo e allo stupore.

«Ecco, guardate!»

Red X alzò lo sguardo e, oltre il parabrezza, anziché vedere le stelle che aveva imparato ad amare, notò una gigantesca nave spaziale nera, grossa il doppio della loro, come minimo, e armata di tutto punto, con cannoni e balliste. Più che una nave spaziale come le altre, tuttavia, assomigliava ad un galeone antico, ovviamente modernizzato. Le vele grigie e l’albero maestro stonavano parecchio in quell’ambiente, considerando anche che quel velivolo per muoversi sicuramente adoperava i propulsori posteriori, e non i grossi teloni sgualciti. Era ferma di fronte a loro e il ragazzo in nero intuì perfettamente cosa Robin stesse intendendo, pochi momenti prima. Allora era serio.

Cyborg spalancò la bocca per la sorpresa e non perse un secondo. Si fiondò su una delle poltrone e cominciò a premere tasti con la precisione e l’abilità che solo qualcuno di veramente esperto poteva possedere. Come facesse ad essere così pratico con quella nave dopo soli quattro giorni di utilizzo, era un mistero, agli occhi di Red X. Sapeva solo che senza il robot non si sarebbe trovato lì nello spazio, con Amalia accanto a lui. E non avrebbe mai appreso la notizia della sua donna incinta.

Si avvicinò a Cyborg, il quale borbottava frasi sconnesse e continuava a pigiare tasti. «Che stai facendo?»

«Devio traiettoria! Quella nave è ferma davanti a noi e...» Si interruppe di colpo. La sua carnagione marrone scura sbiadì. E ad X la cosa non piacque per niente.

«Cyborg, che succede?» domandò Robin mettendosi accanto a lui, dall’altro lato della poltrona.

«Oh oh.» Quei monosillabi piacquero ancora meno al ragazzo in nero. Le poche volte che li aveva uditi fuoriuscire dalla bocca del robot, dopo erano sempre, sempre, accadute cose spiacevoli. Come quando erano precipitati su Tabora.

«Puoi renderci partecipi a ciò che ti assilla?» domandò X cercando di essere paziente, anche se, detestava ammetterlo, la tensione lo stava uccidendo.

Il robot scosse la testa, facendo una smorfia preoccupata, poi indicò uno dei monitor sopra la consolle. «Guardate voi stessi.»

Il monitor raffigurava un puntino arancione su uno schermo completamente nero. Attorno al puntino, si potevano benissimo notare altri quattro ovali, dello stesso colore, disposti rispettivamente a destra, sinistra, davanti e dietro il suddetto. Soltanto un idiota non avrebbe capito cosa significava tutto ciò. E, sfortunatamente per lui, Red X non era quell’idiota. Sentì la bocca piena di sabbia, quando domandò: «Quel puntino... siamo noi?»

Sapeva perfettamente la risposta, ma quando Cyborg annuì fu comunque un duro colpo. Gli sembrò di trasformarsi in una statua di granito, talmente si irrigidì. La domanda successiva era perfino più tosta da porre, ma per fortuna ci pensò Robin: «E gli ovali... sono navi come quella davanti a noi?» Anche il tono di voce di Robin era venato dal timore e dalla preoccupazione.

Un altro cenno di assenso da parte del robot. Stella, dietro tutti loro, intuito cosa stava accadendo, si lasciò scappare un gemito spaventato.

Cyborg deglutì. «Siamo circondati.»

«Cazzo» imprecò X piantandosi le dita nei palmi. Non c’era solo una nave grossa il doppio della loro. Ce n’erano ben quattro. Di bene in meglio.

«Che stanno facendo? Perché ci hanno circondati?» domandò Stella guardandosi intorno sempre più agitata.

«Di sicuro, non per farmi le congratulazioni...» rantolò X guardando con rabbia il galeone spaziale davanti a loro.

«Non puoi dirlo con certezza, magari vogliono solo...»

La riflessione di Cyborg fu interrotta da un sibilo metallico proveniente da sopra le loro teste. Tutti e quattro alzarono gli sguardi e si stupirono parecchio nel notare uno scomparto che non avevano mai notato prima aprirsi. Da esso, cominciò lentamente a calare un altro monitor, agganciato al soffitto tramite un’asta telescopica di metallo. I ragazzi lo seguirono con lo sguardo, un po’ come dei gatti con la famosa lucina rossa, finché questo non si trovò di fronte a tutti loro. Rimase spento per diversi istanti, poi si accese all’improvviso con uno scatto meccanico, facendo sobbalzare i quattro. Un volto comparve sopra di esso. Non era affatto amichevole. La sua pelle grigia scura e chiaramente metallica riluceva di fronte a qualche luce fuori dall’obiettivo, così come i suoi occhi completamente azzurri elettrici e privi di iridi e pupille. Aveva la mascella sproporzionata, nessun naso e due coni senza punta al posto delle orecchie, neri alle estremità. Sul capo indossava – o forse era proprio fuso con la testa – un tricorno, il copricapo tipico dei... pirati.

Era un robot, al cento percento un robot.

I ragazzi lo osservarono quasi ammaliati. Red X per un momento non credette ai propri occhi. Quello li intanto li scrutò uno per uno, in silenzio. Li vedeva. Li vedeva e probabilmente li sentiva anche. Il ragazzo in nero sentì il respiro cessare, probabilmente lo stesso accadde agli altri.

E poi quel robot parlò, facendoli trasalire: «Salute a tutti voi, gloriosi soldati del Dominio!»

La voce era alterata dai microfoni e gli altoparlanti, ma nonostante ciò udirono alla perfezione il suo timbro vocale fastidioso, gracchiante, sembrava il suono di qualcosa che sfregava una grattugia. Inoltre dava enfasi a quasi tutte le vocali, allungandole più del dovuto, in particolare quelle che si trovavano al fondo di una parola prima di una pausa. In poche parole, non piacque per niente a nessuno di loro, malgrado il suo fare apparentemente cordiale.

«Qui parla il prode capitano Slag II, successore diretto del primo capitano Slag, il più grande pirata spaziale che questo universo avrà mai modo di poter ammirare!»

Prode capitano. Pirata spaziale. Successore. Qualcosa diceva a tutti loro che quelle parole, decisamente, non erano un buon segno.

«Onde evitare inutili conflitti, vi chiedo gentilmente di spegnere i motori e di lasciarvi arrembare dai miei soci senza opporre resistenza» proseguì quello, con quel falso tono zelante. «In questo modo eviteremo insulti spargimenti di sangue e bulloni, anche perché non avete alcuna possibilità di avere la meglio. Abbiamo un vantaggio di superiorità numerica di ben... mh... beh, considerato che i nostri scanner hanno rilevato solamente otto organismi all’interno della vostra nave, vi superiamo di circa cento uomini ad uno.»

X si strozzò quasi con la propria saliva, non credendo alle proprie orecchie. «Cosa?! Ma che cazzo?!»

«Suvvia, giovane, non essere così scorbutico!» esclamò Slag. «Sarà una cosa veloce! Voi smollate ai miei uomini tutto ciò che trasportate di valore, magari qualche piano ultra segreto del Dominio, noi ce ne andiamo e chi si è visto si è visto! Inoltre...» Spostò i suoi inquietanti occhi privi di vita, molto simili a quelli del defunto Mr Zurkon, su di Stella. «... siete fortunati ad aver incontrato me, e non qualche porco schiavista, o avrei preteso di portarmi via anche te, piccola tamaraniana. Ma no, no, noi pirati abbiamo un codice d’onore! E a proposito, non disturbatevi a chiamare aiuti, anche perché i miei esperti hanno tagliato i vostri sistemi di comunicazione.»

I ragazzi si guardarono tra loro, deglutendo.

«E allora come facciamo a parlare con te?» domandò di nuovo Red X, non sapendo nemmeno se sentirsi arrabbiato o spaventato da quella situazione. Ma era molto più propenso alla prima opzione, a differenza degli altri.

Slag, per tutta risposta, avvicinò gli occhi allo schermo e squadrò Red X con molta attenzione, grugnendo. «Lo sai, i ficcanaso non mi sono mai piaciuti. Ti consiglio di finirla di aprire bocca a sproposito.»

Il ragazzo serrò la mascella. Stava per ribattere a tono, ma il leader lo interruppe. «Un momento!» esclamò sollevando le mani verso il robot pirata, come per fargli cenno di rallentare. «Noi non siamo soldati del Dominio! Non conosciamo alcun segreto e non trasportiamo niente di valore! Solo... cibo.»

«Che cosa? Non siete soldati?» domandò quello, sorpreso.

«No, siamo terrestri! Cioè, eccetto lei che è una tamaraniana» spiegò Robin indicando Stella con un cenno del capo.

Slag mugugnò a bocca serrata, sembrando quasi un toro che sbuffava, mentre osservava il quartetto con più attenzione, socchiudendo le palpebre meccaniche con freddezza. «E come ci siete finiti su una nave del Dominio, di grazia?»

«Beh, ecco... l’abbiamo rubata.»

Il pirata sgranò gli occhi. «Per mille Pythor!» esclamò incredulo. «Siete i terrestri! Quei terrestri! Quelli che hanno rubato l’incrociatore del Dominio su Tabora!»

«Ehm... sì?» Robin non sembrò molto convinto delle proprie azioni mentre rispondeva. Ma, d’altronde, lui era l’unico che ancora avesse il dono della parola. X non era un chiacchierone di suo, mentre Cyborg e Stella erano pietrificati, intimoriti dal robot pirata.

«Grande Darkwater! Siamo ricchi! Ricchi!»

«Che cosa?» Red X ebbe la sgradevole impressione che il tentativo di salvarli di Robin li avesse in realtà ficcati in guai ben peggiori.

Il pirata continuò ad esultare insieme a qualche interlocutore invisibile agli occhi dei ragazzi, poi riportò l’attenzione su di loro. «Ma come, non lo sapete? Il Dominio ha messo una taglia sulla vostra testa! Il suo vecchio e becero sovrano è pronto a pagare fior di quattrini per poter mettere le mani su coloro che hanno osato intralciare i suoi piani e che sono anche responsabili in parte della distruzione del Parco Marktar!»

L’ossigeno tornò a mancare tra i ragazzi. Non capivano dove Slag volesse andare a parare, ma di una cosa erano certi: si metteva male. Molto male. E la cosa peggiore, era che erano perfino accusati di aver distrutto la famigerata nebula, cosa assolutamente non vera!

«Mhh, vediamo...» proseguì il pirata, grattandosi il mento pensieroso con un una mano uncinata. «Sei terrestri. Decine di milioni di bolt di taglia sulle teste di ognuno di voi... sì. Preparatevi ad essere arrembati. Non avete merci preziose, ma ci accontenteremo ben volentieri di un bel mucchio di milioni sonanti!»

«No, aspetta!» sbottò X sollevando una mano. «Il tesoro adesso siamo noi?!»

«Beh... praticamente sì! Vi porteremo a Ryckan V, e riscuoteremo la vostra taglia! Chi ha detto che la fortuna la si fa solo con il raritanio?»

«Un momento, hai detto che voi pirati avete un codice d’onore, o una roba del genere! Non puoi rapirci!»

«Abbiamo un codice, ma non mi sembra di aver detto nulla riguardo allo riscuotere taglie» replicò Slag, dimostrando di essere uno stronzo viscido che non esitava a distribuire le carte a proprio favore. «E adesso tappatevi la bocca e preparatevi ad accogliere i miei uomini. Avete sentito marmaglia?!» urlò ad un gruppo di interlocutori che i ragazzi non poterono vedere. «Tutti sui Torpedo, mettetevi al lavoro!»

La comunicazione si interruppe. Un silenzio tombale cadde nella sala comandi della nave grigio platino. I quattro cercarono di realizzare cosa fosse appena accaduto e cosa si fossero detti durante quella trasmissione. E quando ciò accadde, quando realizzarono di essere tutti in pericolo, di nuovo e nel giro di nemmeno un giorno, fu un’impresa impedire al panico di sopraffarli.

«Cyborg, devi portarci via da qui!» esclamò Robin stringendo la presa intorno alle spalle di Stella, protettivo.

Il robot annuì freneticamente. «Sì, sì! Ci hanno circondati, ma possiamo sempre passare sotto o sopra di loro, prima che...»

Vi fu un boato e la nave si inclinò pericolosamente di lato, sbalzando i ragazzi. Si raddrizzò poco dopo e Stella finì addosso a Robin per il contraccolpo.

«Maledizione, ci stanno sparando!» imprecò Cyborg, cominciando a premere pulsanti per l’ennesima volta. «Vogliono danneggiarci per impedirci di scappare!»

«Proprio come i pirati nel settecento...» sussurrò Robin.

«Con l’unica differenza che qui siamo nello spazio e i cannoni sono a laser!» esclamò X, un attimo prima che un altro boato e conseguente inclinazione della nave lo facesse barcollare e imprecare coloritamente. «Porca puttana! Una taglia! Abbiamo una cazzo di taglia sulla testa! E adesso uno stronzo vuole catturarci!»

Ma non poteva una volta, non cento, non mille, non diecimila, no, UNA volta sola, andare tutto per il verso giusto? Non potevano tornarsene sulla Terra, almeno quello, in santa pace, senza incontrare altri pazzi psicotici in pieno stile Metalhead il Juggernaut?

No, a quanto pare no. L’universo odiava tutti loro. Lui in primis.

«Finiscila, X!» esclamò Cyborg finendo di premere tasti per poi mettere la mano su una leva, con l’intento di spingerla in avanti. «Non ci hanno ancora presi» Spinse la leva, e la nave schizzò in avanti all’improvviso, sbalzando tutti quanti loro indietro. «E mai ci prenderanno! Vediamo di cosa è veramente capace questa nave! E per l’amor del cielo, X, non sei uno scaricatore di porto, smettila con tutta questa volgarità!»

Il loro velivolo si inclinò verso il basso e sfrecciò come un proiettile sotto il galeone pirata che avevano di fronte. I ragazzi faticarono a restare in piedi a causa dell’enorme velocità che li stava risucchiando all’indietro. Di fronte a loro sciamavano come api decine e decine di piccole navi, grosse appena quanto un’ala della loro. Erano rosse, dotate di enormi cannoni sul muso e volavano talmente veloce da risultare quasi più dei lampi colorati che velivoli: erano i Torpedo dei pirati. O, perlomeno, intuirono che lo fossero. Stavano sparando alla nave senza tregua, rendendogliela un colabrodo, probabilmente erano loro la causa dei boati. Volavano davanti al parabrezza con enorme maestria, facendo acrobazie aeree, avvitandosi e capovolgendosi, evitando collisioni con loro per pochi metri.  I cuori dei ragazzi cessavano dei battiti ogni volta che vedevano quelle piccole navi evitare conflitti disastrosi con loro all’ultimo secondo.

Cyborg strinse i denti e riuscì a condurre la navicella sotto il primo galeone, il tutto mentre i Torpedo continuavano a far piovere laser addosso a loro. Come se non bastasse, non appena passarono sotto il vascello spaziale, i cannoni e le balliste situati su di esso si azionarono, aggiungendo i loro proiettili alla pioggia infernale che già stava infuriando su di loro. Furono colpiti diverse volte ancora. I boati proseguirono. La nave si trovava in condizioni critiche.

Il titan bionico sudava freddo e continuava a borbottare frasi incomprensibili mentre cercava di tirare fuori sé stesso e gli amici da quel casino. Stella era avvinghiata a Robin e singhiozzava per la paura, mentre X, dopo l’ennesimo boato, riacquistò l’equilibrio e corse fuori dal dormitorio. Amalia. Doveva andare da lei, immediatamente, e assicurarsi che non si fosse fatta male in nessun modo.

Incrociò la sua amata più Corvina e Terra a circa metà strada tra la sala comandi e i dormitori. Tutte e tre sembravano sconvolte. Non appena fu da lui, Amalia lo guardò allarmata. «X, che sta succedendo? Cosa sono queste esplosioni?»

«Ci... ci stanno attaccando.»

«Cosa?» domandò Corvina incredula. «Chi?!»

«Se te lo dico non ci crederesti, è meglio che vediate voi stesse in cabina di pilotaggio.»

La maga, Terra e Amalia si scambiarono dei cenni, poi ascoltarono il consiglio del ragazzo e si diressero verso la sala comandi. Le prime due passarono accanto ad X, mentre la terza fu trattenuta da quest’ultimo. «Aspetta Amalia!»

La ragazza si voltò incuriosita. «Cosa c’è?»

«Stai... stai bene?» domandò lui ritraendo la mano con cui l’aveva afferrata.

«Certo che sto bene!» rispose lei inarcando un sopracciglio. «Perché non dovrei?»

«Non hai... preso colpi alla pancia?»

«Cosa? No!»

«Sicura?»

Amalia lo fissò stranita. «Credo che lo saprei se ho preso colpi sulla pancia o no...»

«Beh, magari...»

«Finiscila, sto bene!» esclamò lei interrompendolo, quasi accigliata. «Che cavolo ti prende?»

Il ragazzo sollevò le mani in segno di resa. «Niente, niente, volevo solo... accertarmi della vostra condizione.»

«Ehm... vostra?» chiese lei, sempre più stranita, per poi capire e roteare gli occhi. «Ah... io e il bambino...»

Red X annuì e la ragazza sospirò, quasi esasperata. «Stiamo bene, non preoccuparti... forza, raggiungiamo gli altri, ho un’idea su come uscire da questo casino.»

«Davver...» Il ragazzo non terminò la domanda, perché Amalia gli girò accanto e corse verso la sala comandi. X rimase a fissarla interdetto, poi scrollò il capo e si affrettò a seguirla.

 

***

 

«Che sta succedendo?» domandò Corvina non appena furono nella sala comandi. Gli ultimi avvenimenti l’avevano stremata. Prima la rivelazione che aveva fatto a Red X e Amalia, poi l’essere quasi stata scoperta da Stella mentre si sbaciucchiava con Terra e per finire tutti quei boati. E non era passato neanche un giorno dalla battaglia con Metalhead.

Robin si voltò verso di lei, mentre stringeva tra le proprie braccia una Stella non poco spaventata. «I pirati ci stanno attaccando.»

Prima che sia Terra che Corvina potessero domandare cosa diavolo significasse quella frase, il leader aveva già cominciato a spiegare la situazione, parlando della loro videoconferenza con il robot pirata.

«Slag?!» domandò la maga a racconto terminato.

«Taglie sulla testa?!» fece eco Terra.

Entrambe spalancarono la bocca incredule.

«Ha una flotta di circa ottocento uomini e tutte queste navicelle ultraveloci. Non arriveremo molto lontano» osservò Cyborg preoccupato, mentre faceva il possibile, dava il triplo delle proprie capacità per salvare tutti loro da quel disastro.

Corvina scambiò un’occhiata preoccupata con Terra, la bionda sembrava trattenersi a stento dall’abbracciarla per la paura. «Non... non possiamo andare più veloce?»

«Ci sto provando, ma se la nave continua ad essere colpita non possiamo andare lontano! Dobbiamo fare in modo di non essere colpiti anche solo per trenta secondi!»

«Corvina» la chiamò Robin, guardandola pieno di aspettative. «Puoi creare una barriera abbastanza grande da coprire tutta la nave?»

La maga deglutì. Il solo pensiero le fece venir meno le forze, ma da come tutti la guardavano, così speranzosi e fiduciosi, intuì che non poteva tirarsi indietro. Poteva farcela, poteva farcela benissimo, solo che sarebbe stato difficile. Annuì. «Sì, posso provarc-»

«Non ce ne sarà bisogno!» esclamò Amalia entrando di corsa, insieme ad X. «Questa è una nave da guerra, ha degli scudi già di suo!»

A quelle parole, sguardi indagatori di tutti i presenti caddero su di lei, di Cyborg soprattutto. «Che cosa?»

Amalia annuì, con il fiato corto per via della corsa. «Sì, la nave di Metalhead era praticamente identica a questa, e quella gli scudi ce li aveva! Una volta ho sentito degli altoparlanti azionarsi e dire che si stavano attivando!»

«È vero, li avevo sentiti anche io!» confermò Stella riuscendo a calmarsi e guardando la sorella. «E poi gli scossoni della nave di Metalhead si erano fermati!»

La maggiore annuì una seconda volta, per poi rivolgersi a Cyborg. «Non lo so, prova a guardare nel computer, magari trovi il modo di azionarli!»

Il robot si mise all’opera. Nessuno era riuscito a seguire alla perfezione il discorso delle due sorelle, probabilmente avevano parlato di cose che solo loro sapevano, ma decisero di non dare troppo peso a tutto ciò. L’aria si caricò di tensione, i secondi trascorsero lenti, inesorabili e carichi di angoscia. Il silenzio cadde nuovamente nella sala, interrotto solo dal rumore dei tasti premuti dalle dita frenetiche di Cyborg che si muovevano sulla consolle e dai frequenti boati.

Ad ogni scossone, Stella si stringeva a Robin, anche Terra cercò la mano di Corvina. La maga, dopo un attimo di esitazione, si decise a stringergliela. Era calda e morbida. Come tutto il corpo di Terra, del resto. Riluttante ad intrecciare le dita con quelle della bionda, la maga cominciò poco per volta a sentirsi meglio, quasi felice di essere proprio lei il punto di riferimento di Terra in quel momento. E poi, nessuno sembrava far caso a loro due, talmente la concentrazione era alta su Cyborg e la sua consolle. Pure Corvina non si rese quasi conto di come Terra si era avvicinata ulteriormente a lei e aveva posato la guancia sulla sua spalla. Quasi, perché il suo corpo non sarebbe mai riuscito non percepire quello della compagna. Si irrigidì di colpo, temendo che qualcuno potesse accorgersi di loro, ma quando vide che ciò non era prossimo ad accadere, il suo corpo si mosse da solo, desideroso di avere Terra accanto. Separò la mano dalla sua e con lo stesso braccio la avvolse intorno alla vita, tirandola a sé. Si voltò e le bastò un rapido sguardo agli occhi per capire che era spaventata. Non come lo pareva Stella, ma anche lei sembrava desiderare di gran lunga non vivere quel momento.

«Terra...» mormorò premurosa, mentre un altro boato faceva gemere spaventati quasi tutti i presenti. Ormai incapace di arrestarsi, abbracciò del tutto la bionda, avvolgendola intorno alla schiena. «Non avere paura, ce la faremo, vedrai.»

Terra annuì senza guardarla e appoggiò la testa sul petto della maga, premendo le mani sul suo ventre. Corvina era spaventata e non poco, ma non voleva darlo a vedere. Non a Terra, perlomeno. Perché, anche se poco prima l’aveva strigliata per bene, teneva a lei più di quanto non tenesse a sé stessa. Tra le due, Corvina era quella che caratterialmente era più forte, e come tale si sentiva in dovere di essere protettiva nei confronti della compagna. Già una volta l’aveva quasi persa, dopo tanto dolore e tanta sofferenza, non voleva certo che accadesse di nuovo. L’avrebbe difesa fino a quando non sarebbe crollata a terra senza nemmeno più le forze di battere le palpebre.

Un altro boato. La paura crebbe. La paura di essere catturati da quei tizi o peggio ancora, che la nave saltasse in aria, uccidendoli. Certo, Corvina e le tamaraniane potevano creare barriere difensive, ma non sarebbero servite a molto, nel vuoto dello spazio dove sarebbero tutti morti per via dell’assenza di ossigeno, eccetto le stesse tamaraniane.

E poi, finalmente, Cyborg esultò: «Sì! Gli scudi ci sono e posso attivarli! E posso anche azionare i cannoni sotto le ali!» Premette diversi tasti, osservando il monitor di fronte a lui, e poi una barriera viola chiaro apparve all’improvviso davanti a tutti loro, ricoprendo la nave intera come una bolla su cui i laser nemici si infrangevano senza arrecare danni. I ragazzi sorrisero di sollievo, anche Terra staccò lentamente la testa dal petto di Corvina, per poi essere fermata dalla maga, che le sussurrò in un orecchio, invitante: «Se vuoi restare fa pure...» Se qualcuno avesse chiesto qualcosa a proposito di quell’abbraccio, avrebbe semplicemente risposto che Terra era spaventata e che voleva consolarla.

La bionda sorrise maliziosa e abbandonò di nuovo la testa sul tempio sacro di Corvina, ammirando lo spettacolo fuori dal parabrezza. I cannoni della nave si erano attivati e abbattevano autonomamente una navicella pirata dietro l’altra, facendole esplodere in mille pezzi.

Cyborg premette altri tasti e una voce robotica femminile si azionò: «Preparazione all’ultravelocità. Tempo di avvio: 30 secondi. 29, 28, 27...»

«Sì! Bacia le mie lucide chiappe, Slag!» esclamò Cyborg sorridendo di trionfo, mentre la loro nave infliggeva una pesante umiliazione alla flotta del pirata spaziale. I Torpedo cadevano come birilli mentre i loro cannoni automatici sfoderavano tutta la loro potenza. Ma, d’altronde, quella era una nave da guerra del Dominio, avrebbero dovuto arrivarci molto tempo prima che le armi posizionate su di essa non fossero delle semplici decorazioni.

Il monitor che Slag aveva usato per contattarli poco prima si accese di nuovo e quella brutta faccia robotica apparve una seconda volta alla visuale. Corvina lo osservò stupita. Tutto si aspettava di vedere, ma quella faccia sproporzionata la sorprese in pieno.

«Che diavolo state facendo?!» sbraitò il pirata, corrucciato. «Smettetela di distruggere i Torpedo! Lo sapete quanta fatica mi è costata farli rubare?! Disattivate immediatamente quelle barriere e spegnete i motori, o giuro sulla testa di Darkwater che...»

«Tappati quel cesso di bocca!» sbraitò Red X prima di sferrare un potente pugno con la mano sinistra allo schermo, radendolo al suolo e mettendo Slag a tacere per sempre. «Che liberazione!» sbottò estraendo il braccio dai pezzi di vetro e cristalli liquidi di quel quadrato che un tempo poteva essere definito monitor.

Gli sguardi di tutti si posarono su di lui, e il ragazzo corrucciò la fronte. «M’beh? Che avete da guardare? Lo avreste sicuramente fatto anche voi!»

Il suono della voce robotica femminile riportò tutti alla realtà: «5, 4, 3, 2, 1... ultravelocità attivata. Passaggio da 15 chilocubiti per decimo a 150 chilocubiti per decimo.»

Cyborg spalancò la bocca. «C-Centocinquanta...»

Non riuscì mai a concludere la frase. La nave si catapultò in avanti all’improvviso, scaraventando letteralmente tutti i ragazzi contro la parete al fondo della sala, facendoceli sbattere contro con violenza.

Vi furono versi di dolore, di protesta, di rabbia e diverse imprecazioni, Corvina riconobbe perfettamente l’artefice di queste ultime. Ognuno di loro sentì il fiato mozzarsi all’istante, mentre tutto quanto, al di fuori del parabrezza, diventava bianco.

E poi la nave, con loro dentro, svanì nel nulla.

 

 

 

 





Slag e la sua nave:

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Capitolo 5
*** Quantus ***


The Good Left Undone

V

QUANTUS

 

Passarono pochi secondi, o forse ore intere. Non potevano saperlo con certezza. Fatto stava che la luce bianca svanì all’improvviso e i ragazzi, si ritrovarono sdraiati sul pavimento della sala comandi, con gli occhi che bruciavano e la testa che girava.

«Ultravelocità terminata: ingresso in Sistema di Breegus» esordì la voce robotica della nave, prima di cadere di nuovo nel silenzio.

Robin si rimise in ginocchio tossendo, poi si guardò intorno allarmato. «State tutti bene?»

«Più o meno...» brontolò X mettendosi a sedere, per poi aiutare Amalia a fare lo stesso. «Tu come ti senti?»

«Sto bene...» assicurò lei massaggiandosi la schiena, per poi avvertire diverse fitte provenire da essa e fare una smorfia di dolore. Non seppe nemmeno dire con certezza se fossero causate dall’urto con la parete o dalla gravidanza.

«Amalia!» esclamò lui accorgendosene.

«Sto bene!» rimarcò lei infastidita, allontanando le sue mani con un gesto rabbioso. Il ragazzo la fissò ammutolito e si guardò per bene anche solo dallo sfiorarla ancora.

Cyborg mugugnò mentre si rimetteva in piedi, poi corse dalla consolle per controllare la situazione. Gli altri, poco per volta, lo imitarono. Il robot ricominciò a premere tasti come se non avesse mai smesso, mentre gli altri facevano da spettatori. La situazione sembrava essersi calmata. Intorno a loro non c’era più alcuna traccia delle navi di Slag, nessun raggio laser e Torpedo kamikaze, perciò tutti quanti supposero che il peggio fosse passato. Un pianeta si trovava non molto distante da loro. Questo, a differenza di Tabora, era completamente verde, più chiaro in alcuni punti e più scuro in altri, segno che la vegetazione su di esso fosse rigogliosa, a differenza del pianeta desertico.

«Cyborg, puoi spiegarmi cos’è successo con esattezza?» domandò Robin mettendosi accanto all’amico.

«Beh, la nave ha usato l’ultravelocità per fuggire dalla flotta di Slag. Siamo entrati in un tunnel che ci ha praticamente teletrasportati qui, nel... Settore Breegus, o una roba del genere. Abbiamo percorso milioni di chilometri in un lampo.»

«Quindi... abbiamo accorciato il viaggio di ritorno?» domandò Robin, speranzoso.

Cyborg annuì. «Praticamente sì... solo che...»

«E non potevamo farlo prima?» sbottò Red X, accigliato. «Oppure puoi farlo di nuovo! Così nel giro di un lampo saremo di nuovo a casa!»

Il robot sbuffò dal naso, spazientito. «Se magari mi fai finire di parlare...»

X roteò gli occhi e sollevò le mani. «Scusa, capo...»

«Bene. Allora, abbiamo usato l’ultravelocità, ma...»

«Ragazzi!» esclamò qualcuno all’improvviso, alle loro spalle. Tutti si voltarono di colpo, con Cyborg che sembrava voler mandare al diavolo tutto e tutti per essere stato interrotto una seconda volta, e videro BB, sull’ingresso della sala, con un enorme bernoccolo in testa.

«Che... che cavolo è successo?» domandò lui massaggiandosi la contusione, per poi sbadigliare. «Stavo dormendo, poi mi sono ritrovato sbattuto come un uovo alla parete, e poi...»

Solamente in quel momento tutti loro realizzarono che il mutaforma aveva bellamente dormito per tutto il tempo, anche mentre Slag faceva piovere fuoco su di loro e la nave era in preda a scossoni e boati. Doveva essersi svegliato solo quanto il velivolo era schizzato in avanti per via dell’ultravelocità. Non sapevano se ammirarlo o arrabbiarsi con lui, per quel suo sonno di ferro.

Alla fine non fecero nessuna delle due, perché la voce robotica registrata ritornò alla carica: «Capacità serbatoio critiche, livelli sotto il 5%»

I ragazzi drizzarono la testa sorpresi, udendola, poi sentirono Cyborg imprecare sommessamente ed intuirono che, qualsiasi cosa significasse quella frase, non era un buon segno. I guai erano ancora molto lungi dall’avere fine.

«Cyborg, che significa?»

Il robot sospirò e si rimise a pigiare tasti. «È quello che cercavo di dirvi. L’ultravelocità ha prosciugato le ultime riserve di carburante della nave, che era già poco di suo al momento della partenza. Per questo Mr Zurkon mi aveva detto di non usarla mai, saremmo rimasti a secco. Ma ormai è accaduto.»

Il sangue gelò nelle vene di tutti i presenti. Nessuno di loro era entusiasta all’idea di rimanere senza carburante, perfino BB che ancora non aveva capito cosa fosse successo.

«Non... non c’è carburante sulla nave?» domandò Robin, cercando di non far spegnere del tutto la speranza.

Cyborg scosse la testa, con aria severa. «Abbiamo già controllato, ricordi? Ci sono solo le casse di cibo. Ci toccherà... atterrare da qualche parte e sperare di trovare il modo di rifornirci.»

Diverse occhiate nervose aleggiarono nella stanza. Nessuno sembrava entusiasta all’idea.  

Rendendosi conto di essere l’unico che a quanto pare non voleva assolutamente vivere altre sgradevoli avventure su pianeti alieni, X esclamò contrariato: «Cosa?! Non vi è bastato Tabora?! Volete davvero atterrare su un altro pianeta abitato da chissà chi e chissà cosa?!»

«O quello, o restare a fluttuare nella galassia fino a quando non moriremo di fame o la flotta di Slag non riuscirà a rintracciarci» replicò Cyborg, mentre faceva rotta verso il pianeta verdeggiante. «Decidi tu, io nel frattempo uso il poco carburante che ci rimane per salvare le tue chiappe e la madre del tuo futuro figlio.»

A quelle parole, non appena Amalia venne tirata in ballo e con lei ciò che portava in grembo, X strinse i pugni, ma si calmò all’istante, non appena proprio lei lo prese per mano, scambiandogli un’occhiata significativa. Il tocco vellutato della ragazza e il suo sguardo lo avrebbero tranquillizzato in qualsiasi contesto. Capì che, se a lei andava bene atterrare in quel pianeta sconosciuto, anche lui avrebbe accettato la cosa, volente o nolente.

«Perlomeno, su quel pianeta non sembrano esserci deserti...» osservò Beast Boy, ottimista.

Si sollevarono diversi mugugni tra i ragazzi. Il tentativo di calmare le acque di BB non era servito a niente.

E, senza aggiungere altro, tutti quanti osservarono quel globo verde farsi sempre più vicino, sperando che il destino non riservasse loro altre brutte sorprese.

 

***

 

Quantus, così si chiamava il pianeta stando alle informazioni riportate dal computer della nave. Costituito per praticamente il cento percento da foreste e vegetazione, fatta eccezione che per alcuni fiumi e laghi. Dotato di atmosfera e di conseguenza di aria respirabile. Ma a parte quello, non essendo un pianeta di proprietà del Dominio, non c’erano altre informazioni a riguardo. Toccava ai Titans scoprire cosa si celava in quel luogo, chi lo abitava e se, soprattutto, c’era un luogo tra tutte quelle foreste in cui poter rifornire la nave.

Cyborg la fece atterrare nel primo spiazzale abbastanza grande da contenerla che trovò. A causa dell’enorme spostamento d’aria generato dalla nave l’erba si appiattì e gli alberi si piegarono come fuscelli. Sembrò quasi una scena irreale sentire la nave arrestarsi sotto i loro piedi e vedere quegli alberi al posto del cielo nero e stellato dello spazio.

Quando uscirono dalla nave si sentirono quasi degli animali spauriti che entravano in un mondo a loro sconosciuto, cosa che non era nemmeno troppo lontana dalla realtà. Rimettere i piedi sull’erba fu la sensazione più strana ed insolita che potessero provare, visto che non vedevano un prato da almeno due settimane. Rivedere il cielo azzurro, udire versi in lontananza di quelli che dovevano essere uccelli, sentire i propri volti accarezzati dolcemente dai raggi del sole e non colpiti con violenza da essi come su Tabora, tutte cose di cui tutti quanti, chi più chi meno, avevano avuto nostalgia.

«Devo dare una controllata alla nave, non vorrei che, oltre ad essere rimasta senza carburante, si sia danneggiata senza che ce ne fossimo accorti» disse Cyborg a Robin, una volta che tutti furono fuori dal velivolo. Il leader gli diede carta bianca e il robot cominciò a girare intorno alla nave per esaminarla.

«Mh... siamo sicuri che qui ci sia civiltà?» domandò BB poco convinto, guardando quell’enorme foresta che tutto poteva significare, meno la presenza di tecnologie o stazioni di rifornimento.

«Possiamo solo sperarlo» sospirò Robin, mettendosi le mani sui fianchi e contemplando a sua volta la radura. «Questo era l’unico pianeta abbastanza vicino alla nave. Con meno del 5% del carburante, non potevamo correre rischi inutili continuando a volare.»

«E neanche con metà dei propulsori distrutti e uno squarcio enorme nella chiglia...» rantolò Cyborg sotto la nave, mentre realizzava quanto la situazione fosse critica. La flotta di Slag aveva arrecato danni e non pochi, al loro velivolo. «Dovrò ripararla, oltre che rifornirla, se vogliamo rivedere casa nostra...»

«Magnifico!» sbottò BB calciando una zolla di terra. «Di bene in meglio! Di nuovo bloccati su un pianeta sconosciuto e pieno di chissà quali insidie! Ho una strana sensazione di déjà-vu.»

«Non dovrò mica difendervi tutti come ho fatto in quel deserto, vero?» domandò sottovoce Terra a Corvina, le quali avevano entrambe ascoltato lo scambio di battute tra Cyborg, Robin e BB. Nessuna delle due era entusiasta di essere lì, ma sicuramente erano meno intimorite di quando erano su Tabora. Forse perché non rischiavano di essere cotte dal sole, la temperatura era più gradevole e con loro c’erano anche Amalia e Stella, il cui contributo non sarebbe stato indifferente. O forse perché ad entrambe bastava essere insieme, non importava dove e come.

«Sicura che non sarai tu quella ad aver bisogno di aiuto, questa volta?» replicò Corvina.

«Dubito...» ribatté Terra, sventolando la chioma dorata con fare altezzoso.

«Tiratela di meno...» sbottò la maga roteando gli occhi, ottenendo come scherzosa risposta una linguaccia dalla bionda.

Amalia andò a sedersi sotto la chioma di un albero, appoggiandosi al suo tronco. Osservando meglio quell’arbusto notò che differenze tra quello e i suoi simili e quelli terrestri o tamaraniani non erano molte. Anzi, sembravano pressappoco identici. Ciò non toglieva l’eventualità che le sue foglie potessero essere orticanti o ultravelenose. Sospirò e si lasciò scivolare con la schiena lungo la superficie ruvida, cercando anche di trovare una posizione più comoda sul manto erboso. I forti odori della vegetazione si insinuarono nel suo naso e realizzò che era da davvero molto tempo che non li sentiva, non in quel modo, almeno. L’odore dell’erba, delle foglie, l’aria fresca e pulita e non quella contaminata delle città o quella chiusa della nave spaziale, perfino diversi profumi che non riuscì a catalogare. Fu gradevole risentire queste cose. Si concentrò anche sui versi lontani, provenienti dagli animali segregati nella boscaglia. Erano molti e quasi tutti totalmente diversi tra loro, ma non sembravano minacciosi, tutt’altro. Semplici versi di animali che comunicavano tra loro. Osservò i ragazzi di fronte a lei spartiti in piccoli gruppi, ognuno indaffarato a parlare con l’altro, dicendosi chissà cosa. Il suo sguardo cadde su Corvina e Terra e quando vide le due parlottare nulla poté impedirle di lasciarsi scappare un sorriso. Chiuse poi gli occhi e cercò di rilassarsi per quei pochi istanti in cui sarebbero rimasti in quella radura, prima di avventurarsi nei boschi alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarli. Inspirò ed espirò grandi boccate d’aria, per cercare anche di smettere di pensare ai dolori alla schiena che ancora non avevano cessato di infastidirla.

«Tutto bene?» le domandò qualcuno. Amalia riaprì un occhio e vide Red X sedersi accanto a lei, divaricando le gambe e appoggiando i palmi a terra, sospirando esausto.

Smise di concentrarsi sui suoni della foresta e si voltò verso di lui, serrando la mascella. «Me l’hai già chiesto dieci minuti fa’, sai? Sulla nave. Per ben due volte di fila.»

Il ragazzo sembrò rendersene conto solo quando lei glielo fece notare. «Oh... sì, è vero, scusa. È che... sono sovrappensiero.»

«No, tu ti preoccupi per me cento volte più di quanto faresti normalmente solo perché sono incinta» corresse la ragazza, quasi con tono di rimprovero. Sapeva che l’amato teneva a lei, ma fino ad un certo punto. Stava cominciando a diventare fastidioso, comportandosi in quel modo. Per colpa della gravidanza di lei si era quasi messo a litigare con Cyborg e prima ancora, quando lei aveva avvertito uno di quei dolori alla schiena, l’aveva fissata terrorizzato, neanche stesse morendo davanti a lui. Per non parlare del terzo grado che le aveva fatto poco prima di tutto ciò.

Certo, prima era stato gentile con lei, il modo con cui l’aveva rassicurata sulla nave era stato stupendo, però dal momento della notizia data da Corvina, X guardava Amalia con occhi diversi. Non la considerava più la ragazza tosta di cui si era invaghito, ma una più fragile. Il che forse era anche vero, Amalia era cambiata radicalmente da quando si erano conosciuti la prima volta, ma di sicuro non era una ragazzina impaurita e bisognosa del supereroe di turno.

«Beh...» X esitò. «... voglio solo accertarmi che tu stia bene. Dopo quella botta che ci siamo presi ho avuto paura che... beh... puoi immaginare.»

 «Sono incinta da tre settimane, non da otto mesi! Non mi serve la balia!»

«Non voglio fare la balia!» protestò il ragazzo.

«Bene, perché so perfettamente badare a me stessa.»

«Si è visto...» brontolò il ragazzo tagliente e con tono sarcastico, distogliendo lo sguardo da lei.

«Come prego?!» domandò Amalia alzando la voce, sporgendosi verso di lui.

Il ragazzo la guardò sottecchi, facendo una smorfia. «Niente.» Si alzò in piedi spolverandosi con gesti rabbiosi, più che altro colpendosi con le mani che strofinandosele addosso, poi le diede le spalle. «Riparliamone quando ritrovi le buone maniere.» Detto quello la lasciò sola, allontanandosi e brontolando.

Amalia si piantò le unghie nelle ginocchia, ringhiando di rabbia, e distolse lo sguardo dalla sua schiena, sbuffando di disappunto. Probabilmente credeva perfino di essere nel giusto, ad essere appiccicoso in quel modo. Anzi, sicuramente lo era. La amava, era comprensibile la sua preoccupazione, in quella circostanza più che mai, ma lei non digeriva comunque la cosa. Era una guerriera tamaraniana, non una bambina. Solo perché era incinta e rischiava molto non significava che al minimo colpetto rischiasse di morire tra atroci sofferenze, o perdere addirittura il loro futuro figlio. Essere al centro di pensieri e preoccupazioni solo per via di un feto ancora ben lungi dall’essere un vero bambino la faceva imbestialire. Era sempre lei, maledizione! Era Amalia, la stessa ragazza che aveva usato Metalhead come palla demolitrice! Perché X sembrava averlo dimenticato?

«Forza gente!» esclamò Robin all’improvviso, interrompendo i suoi pensieri, facendole drizzare la testa. «Andiamo.»

La tamaraniana sospirò e si rimise in piedi. I ragazzi accerchiarono Robin, anche Cyborg, il quale aveva concluso le analisi sulla nave e per primo aveva avvertito il leader che potevano andare.

«Da che parte?» domandò Stella guardandosi intorno, verso le numerose vie che la radura forniva loro.

Robin esitò. Tutte le strade sembravano uguali, era impossibile dedurre quale fosse quella giusta. «Beh...»

«Che ne dite di andare di là?» Beast Boy indicò un punto nel cielo. I ragazzi pensarono li stesse prendendo in giro, ma quando si voltarono verso il punto da lui indicato capirono che forse era la prima cosa sensata che diceva da settimane. Nel cielo azzurro, intenta a far breccia tra la vegetazione, si stava sollevando una cappa di fumo grigio chiaro, poco inquinato, tipo quella di un falò di rami secchi. Era difficile che si fosse acceso da solo.

Robin sorrise, ammirato. «Bel colpo BB. Se c’è un fuoco, c’è anche chi lo ha acceso. E non sembra nemmeno essere lontano. Forza!»

 

***

 

Lo scalpiccio dei passi sul terreno disseminato di foglie e rametti risuonava nell’aria. Il gruppo procedeva in fila ordinata, capitanato da Robin. Subito dietro di lui c’era Stella, che camminava tenendo appoggiate entrambe le mani sulle sue spalle, per rassicurare più sé stessa che lui. A seguito, tutti gli altri. Corvina, chiudi fila insieme a Terra, aveva di nuovo recuperato alcune provviste dalla nave, casomai ce ne fosse stato il bisogno, mentre BB svolgeva il suo classico ruolo di vedetta. Procedevano a passo moderato, senza troppa fretta. Il clima sembrava quello della foresta amazzonica, afoso e tropicale, ma grazie all’ombra degli alberi non era troppo opprimente. E sicuramente non era torrido come quello di Tabora.

Avevano deciso di procedere a piedi, per non essere avvistati in cielo dalla popolazione locale e rischiare di allarmarla. Soltanto BB, grazie al suo camuffamento da uccello, procedeva per via aerea.

Creature aliene per il momento non ne avevano incontrate, se non qualche volatile che, percependo il gruppo di ragazzi come una minaccia, si alzava in volo dall’albero su cui riposava e si allontanava con un frusciare di ali.

Quantus sembrava innocuo. Sembrava.

La foresta di diradò lentamente e quando sembrarono non esserci più alberi intorno a loro percorsero una breve discesa, che li condusse sulle rive di quello che sembrava essere un lago, anche se il liquame al suo interno non sembrava proprio essere acqua. Era di un colore azzurro brillante, quasi elettrico, e sembrava avere la consistenza della bava di una lumaca. Nessuno ebbe il coraggio di berla o anche solo toccarla. La superficie non era molto grande, avrebbero benissimo potuto girarci intorno, oppure usare le enormi foglie che vi galleggiavano sopra per attraversarlo. Erano simili a quelle su cui le rane si sedevano usualmente, ma erano molto più grosse e spesse, avrebbero sicuramente retto il peso dei ragazzi. Peccato che non appena le videro, tutti loro ebbero uno sgradevole presentimento. Se le rane di quella zona erano di grandezza direttamente proporzionale a quelle foglie, allora c’era da preoccuparsi. Oltre il lago vi era un’altra lieve salita e la foresta si rifaceva fitta.

Robin decise di accerchiare il lago e, sopratutto, di allontanarsi da li al più presto. Quel luogo non lo convinceva per niente. Anche su Tabora avevano trovato una zona totalmente diversa dal deserto circostante, un mucchio di rovi e detriti che si era poi rivelato essere la tana di un orrendo mostro, non voleva certo che la situazione si ripetesse anche su quel pianeta.

Sentì il rumore di un tuffo improvviso e sobbalzò, girandosi di scatto. Qualcosa era caduto nel lago. «Cos’è stato?»

Gli sguardi allarmati di tutti i ragazzi caddero su Red X e sulla pietra che aveva in mano. La situazione fu presto chiara.

«X! Che diavolo ti salta in mente?!» sbottò Robin lanciandogli un’occhiataccia.

Il ragazzo in nero scrollò le spalle. «Non posso lanciare pietre in un lago?»

«Ma non qui!» esclamò il leader quasi incredulo. Non gli sembrava vero di star rimbrottando l’ex rivale e non Beast Boy. «Non sappiamo cosa c’è li dentro!»

X roteò gli occhi, gettando a terra l’altra pietra. «Ti prego! Cosa vuoi che ci sia in un lago pieno di...»

Un fragoroso ruggito scosse tutta la zona, i ragazzi sentirono battere i denti e perfino gli alberi tremarono. Red X diventò più bianco di quanto già non fosse.

Qualcosa si mosse sotto il lago, poi questo esplose, letteralmente, riversando il suo contenuto sui ragazzi come una pioggia torrenziale. I loro costumi si imbrattarono. Non solo quel liquido era viscoso e appiccicoso, era perfino maleodorante. Non poterono prestarci molta attenzione, tuttavia, perché qualunque cosa si stesse muovendo sotto quei liquami azzurri, adesso si stava sollevando in cielo, ruggendo di nuovo rumorosamente e apparendo dinnanzi ai loro occhi in tutta la sua grandezza.

Era un enorme serpente con il corpo azzurro fluorescente, stesso colore del lago. Il corpo all’inizio grosso si assottigliava lentamente, fino ad arrivare alla lunga coda da pesce. Era ricoperto di scaglie marroni, principalmente sul dorso, dove erano molto più acuminate, e sul volto, che era interamente ricoperto da esse. La bocca era ancora spalancata in quel fragoroso ruggito, rivelando due file di denti lunghi almeno venti centimetri e affilati come coltellacci. Gli occhi erano tre, tutti gialli. Volava, letteralmente, davanti a tutti loro, contorcendosi, continuando a ruggire e agitando la coda con rabbia, ma non aveva arti, tantomeno ali, semplicemente alcune protuberanze che ricordavano parecchio delle pinne.

Meraviglioso, ecco com’era. Non era come i Mostri Duna del deserto, che erano degli insetti giganti e orrendi di conseguenza. Era una creatura imponente, maestosa, leggendaria, simile ad un drago.

I ragazzi la osservarono rapiti, non sapendo nemmeno se la stavano ammirando o se la stavano temendo. Si dimenticarono perfino di uccidere X per averla attirata lanciando quella pietra.

«È... è un...» Stella era quella che più di tutti era affascinata dalla creatura, parlava a stento dall’emozione. «... un Basilisco Leviathan!»

Il serpentone sembrò riconoscere il proprio nome, perché si voltò verso tutti loro, smettendo di ruggire serrando la bocca. Non appena i suoi tre occhi si posarono sui ragazzi, un ringhio sommesso, ma comunque poderoso, fuoriuscì tra le file di denti.

Il gruppo di giovani intuì ben presto che quella creatura non aveva intenzioni amichevoli. Red X in particolare lo intuì. «Oh-oh» sussurrò con un fil di voce.

Il Basilisco ruggì di nuovo, inarcando la schiena all’indietro, e i ragazzi lo presero come un segnale che stesse per attaccare. Tutti quanti scattarono. Amalia si alzò in volo, illuminando mani e occhi, Cyborg preparò il cannone, i capelli di Terra cominciarono ad agitarsi, gli occhi di Corvina divennero bianchi, mentre Robin ed X stringevano i pugni e si mettevano in posizione.

«Fermi!» gridò Stella sollevandosi in aria e parandosi fra gli amici e il Basilisco. «Non fatelo!»

«Stella, che ti prende? Torna qui!» esclamò Robin preoccupato. «Allontanati da quel coso!»

L’aliena scosse energicamente la testa. «Fidatevi, sono innocui!»

«Quei denti non sembrano la definizione ideale di "innocui"...» osservò Corvina, senza abbassare la guardia.

Stella allargò le braccia a mo’ di scudo, di fronte al serpentone che dal canto suo continuava a ringhiare e a restare con la schiena inarcata. «Loro hanno paura di noi tanto quanto noi ne abbiamo di loro! Siamo entrati nel suo territorio, lui vuole solo proteggerlo! Non fate mosse brusche, non attaccatelo, non spaventatelo, e lui non ci farà niente.» Si voltò verso la bestia, abbassando le braccia e sorridendole rassicurante. «Vero? Vero che non ci farai niente?»

«Come fa quel coso ad avere paura di noi?» domandò Cyborg, senza abbassare il cannone.

Stella lo ignorò, avvicinandosi lentamente al B, tenendo le braccia allargate in segno amichevole. «Non vogliamo farti del male, stai tranquillo.»

I ragazzi sentirono i nervi a fior di pelle guardando quella scena, la loro amica che si avvicinava in quel modo a quella creatura enorme, ma nessuno trovò il coraggio di muoversi.

«Kori, quelle bestie sono imprevedibili, torna qui!» cercò di farla ragionare Amalia.

«Stella ti prego! Non farlo!» insistette anche Robin, con evidenti venature di preoccupazione nella voce.

La tamaraniana rossa non ascoltò né la sorella né l’amato. Oramai si trovava all’altezza del volto spigoloso del Basilisco, che ancora non aveva smesso di ringhiare, e allo stesso tempo non sembrava intenzionato ad attaccare. Stella gli sorrise e allungò una mano verso di lui, lentamente, senza mosse azzardate. Il serpente si ritrasse diffidente, continuando ad emettere quel verso gutturale, ma ancora non attaccò.

«Non voglio farti del male» ripeté Stella, allungando le dita verso di lui e avvicinandosi ulteriormente, con quella sua voce calma e rassicurante che avrebbe placato chiunque. Pure il Basilisco sembrò subirne gli effetti, perché smise di ritrarsi. Continuò tuttavia a ringhiare e non appena Stella riuscì a toccargli una delle scaglie sul volto emise un verso molto più forte e minaccioso degli altri, come se la ragazza avesse toccato un punto dolente. Gli amici dell’aliena sussultarono quando lo udirono, ma mantennero comunque il sangue freddo. Robin e Amalia si sarebbero mangiati le mani dalla tensione, se solo non avessero avuto così tanta paura di muoversi.

Gli occhi verdi e luminosi di Stella incrociarono quelli gialli e opachi della creatura. Il sorriso della ragazza si allargò, cominciò ad accarezzare il muso duro e freddo del Basilisco e mormorò di nuovo: «Non aver paura. Io sono tua amica.»

La bocca della creatura si serrò, il suo ringhio si fece sempre più sommesso e poi svanì nel nulla. Fissò Stella senza più compiere alcun movimento, avendo chissà quali pensieri per la mente. E poi rilassò la schiena e cominciò ad agitare la coda. Si era calmato.

«Wow...» Terra rimase a bocca aperta. I suoi capelli smisero di agitarsi, mentre Stella cominciava ad accarezzare con più enfasi le guancie dure del Basilisco.

«Bravissimo piccolo bumgorf!» esclamò la tamaraniana, scalpitando nell’aria, per poi abbracciargli la testa, o più che altro il muso, sospirando di felicità e facendo scodinzolare ancora più forte il Leviathan.

«"Piccolo"...» commentò Corvina, brontolando, per poi accennare un lieve sorriso, che venne ben presto imitato da tutti gli altri. Quella scena era probabilmente la più comica e toccante allo stesso tempo che avesse mai visto. Una piccola e gracile tamaraniana che con il suo carattere dolce e gentile riusciva a rabbonire un vero e proprio mostro. X più di tutti riprese a respirare regolarmente. Se quel serpentone avesse divorato Stella le maggiori colpe sarebbero cadute su di lui, per ovvi motivi.

Robin tirò un sonoro sospiro di sollievo, per poi sorridere a sua volta. Stella. Avrebbe mai finito di sorprenderlo? La vide ridacchiare e continuare a stritolare la testa del Basilisco e capì che, no, quella ragazza non avrebbe mai smesso di dare lezioni a tutti quanti loro. Gli sembrò di innamorarsi di lei una seconda volta.

Stella continuò a ridere e ad accarezzare il Basilico, per poi dire: «Ti chiamerò Crotch! Ti piace?» Strofinò la guancia sulla scorza dura della creatura. «Secondo me ti piace!»

I ragazzi rimasero diversi istanti ad osservare la scena, godendosi quella piccola pausa, ma non poterono farlo molto a lungo. Un’altra creatura piombò improvvisamente dal cielo, lanciandosi contro il Basilisco Leviathan stridendo e sbattendo le ali con rabbia. Uno pterodattilo verde. Prima che potessero dire o pensare una sola cosa, il dinosauro aveva già cominciato ad accanirsi sulla schiena del Leviathan, che ruggì di rabbia e cominciò a contorcersi, costringendo Stella ad allontanarsi di scatto, interdetta.

Robin ci mise poco niente a capire la situazione. «Beast Boy, FERMO!» urlò tendendo disperatamente una mano verso di lui, ma ormai era troppo tardi.

Il Basilisco ruggì una seconda volta e si girò di scatto per fronteggiare l’aggressore, la sua coda frustò l’aria come una saetta e si abbatté su Stella per errore. La ragazza avvertì un dolore lancinante all’addome, come se le carni le fossero appena state strappate via e gridò con quanto fiato aveva in corpo, prima di venire violentemente scaraventata contro un albero.

E poi fu il caos.

 

 

 

 

 

 





Basilisco Leviathan:

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Capitolo 6
*** La valle ***


The Good Left Undone

VI

LA VALLE

 

 

La situazione era degenerata. Il Leviathan e BB continuavano ad azzannarsi a vicenda e il Basilisco sembrava nettamente superiore al mutaforma. Morse lo pterodattilo con i suoi denti acuminati, facendo sbraitare il dinosauro di dolore, un verso che squarciò i timpani dei ragazzi. A salvare Beast Boy ci pensarono Terra, Corvina e Cyborg che, non avendo altre alternative, attaccarono il Basilisco. L’alieno lasciò la presa da intorno all’ala di BB e concentrò la sua attenzione su loro tre, ruggendo per l’ennesima volta.

Amalia nel frattempo si diresse da Stella come un fulmine. La trovò semisvenuta sotto l’albero contro cui era stata scagliata. Emetteva dei gemiti soffocati ed era in preda a spasmi e convulsioni. Si inginocchiò accanto a lei per esaminare meglio la situazione e si sentì mancare. Un orrendo sfregio attraversava la pelle nuda del suo ventre, che da ambrata come la sua era divenuta orribilmente rossa. Anche i suoi stessi capelli erano imbrattati di sangue, probabilmente fuoriuscito dal punto sulla testa che aveva battuto.

«Kori!» esclamò preoccupata, afferrandola per le spalle e facendola adagiare sulle sue gambe, per poi posarle una mano sulla guancia e costringerla a guardarla con i suoi occhi semi aperti e vitrei. «Kori! Kori guardami!»

«Mhh...K-Komi?» rantolò Stella, ciondolando con la testa, per poi scoppiare in un violento attacco di tosse.

La maggiore sospirò di sollievo. Era ammaccata, ma stava bene.

Stella continuò a tossire. La testa le faceva un male lancinante, che andava peggiorando man mano che la tosse proseguiva, vedeva sua sorella e il mondo a sé stante sfocati e il ventre le bruciava terribilmente, come se dei tizzoni ardenti fossero adagiati su di esso. Per un momento dimenticò perfino cosa fosse accaduto, ma non appena l’ennesimo ruggito del Basilisco lacerò l’aria, sgranò gli occhi. «Crotch!»

Amalia batté le palpebre. «Cosa?»

Stella si mise a sedere di scatto, ignorando il dolore e osservò cosa stava succedendo al suo amico Basilisco. E ciò che vide la lasciò atterrita. Il Leviathan stava venendo sopraffatto dai suoi amici. Corvina, Terra, Cyborg, Robin, BB ed X lo stavano attaccando in simultanea. L’alieno poteva essere grosso e forte quanto voleva, ma gli attacchi di cui era bersaglio erano troppi, anche per uno come lui. BB, sempre pterodattilo, lo artigliava in tutti i punti del corpo non protetti dalla corazza naturale, Corvina gli stava riversando contro una marea di sfere nere, Terra faceva lo stesso con massi e zolle di terreno circostanti, Cyborg gli sparava con il cannone e Robin ed X utilizzavano le loro armi da lancio.

Il Leviathan si difendeva come poteva, ma non sarebbe mai riuscito ad avere la meglio. I ragazzi erano forti, uniti e, soprattutto, erano tutti nel pieno delle forze, non come su Tabora. Sempre più ferite apparivano sulla pelle azzurra del Basilisco, cominciava a muoversi più lentamente e ormai nessuno dei suoi attacchi riusciva ad andare a segno. Era accerchiato, poteva essere grosso quanto voleva, ma non poteva difendersi da quell’assalto. Ogni volta che cercava di colpire uno dei ragazzi, riceveva in risposta dieci attacchi alle spalle. Se attaccava Corvina, Terra lo colpiva, se attaccava Terra, era Cyborg a colpirlo, se attaccava Cyborg, era il turno di BB quello di infierire. Era come un cane che si mordeva la coda. Aveva i minuti contati.

«No! NO! FERMI!» gridò Stella disperata, cercando di alzarsi in piedi, per poi crollare in ginocchio senza energie. Osservava impotente i suoi amici attaccare in quel modo il Basilisco. Voleva intromettersi, voleva fermarli, ma non ci riusciva. Era troppo ferita. Sentì gli occhi inumidirsi, mentre cercava di urlare ancora più forte: «Smettetela! Smettetela!»

Crotch non aveva alcuna colpa, non doveva attaccarlo in quel modo. Erano loro ad aver fatto irruzione nel loro territorio e ad averlo disturbato, lui voleva solo difendere sé stesso! Perché non lo capivano?

Un altro ruggito, che questa volta risuonò più come un lamento straziante, e Stella sentì il petto pesare quanto un macigno. Si girò verso di Amalia, la quale continuava a guardarla senza dire una parola, e la fissò implorante. «Kom, diglielo tu! Digli che Crotch non è cattivo!»

La maggiore non riuscì a reggere il suo sguardo devastato. Chiuse gli occhi e scosse la testa. «Non posso. Hai visto cosa ti ha fatto alla pancia? Poteva ucciderti. Lascia che lo sistemino.»

«Ma non l’ha fatto apposta!» protestò Stella, tirandola per il top.

Amalia bloccò i polsi della sorella con le mani, per farla smettere di tirarle il vestito, poi la guardò con sguardo severo. «Però lo ha fatto. È una bestia, non un animale domestico. È violento e imprevedibile. Ed è pericoloso.»

Un altro ruggito lamentoso e Stella trasalì di nuovo. Intuendo che Amalia non l’avrebbe aiutata, si dimenò dalla sua presa e si alzò di nuovo in piedi. «Allora li fermo io!»

«Kori, no!»

Stella non la ascoltò e fece per alzarsi in volo, ma Amalia la afferrò alle spalle e la tenne ferma. Stella cominciò a dimenarsi e a scalciare, ma la maggiore mantenne la presa salda. Persero l’equilibrio e caddero entrambe a terra, continuando a litigare per la supremazia. Amalia voleva solo che Kori non corresse alcun rischio, ferita com’era e con quel bestione in circolo avrebbe solo rischiato di farsi uccidere per davvero, mentre Stella non tollerava ciò che i suoi amici stessero facendo a quella creatura che di colpe non ne aveva.

«Lasciami! Lasciami!» gridò Stella riuscendo a girarsi e tentando di allontanare Amalia spingendola sul volto, ma la maggiore non cedette di un solo millimetro e la rimproverò: «Lo vuoi capire che ti farai ammazzare se ti intrometti?!»

Un altro ruggito straziante ed entrambe smisero di lottare, per poi spostare lo sguardo e vedere il Basilisco Leviathan crollare nel lago ed infrangersi sul suo specchio come se fosse fatto di vetro. Vi sparì dentro come se non avesse fondo.

Stella sentì le lacrime scavarle le guancie. «NOO!»

Amalia decise di lasciarla andare, ora che la minaccia era sventata. Smise di tenerla bloccata ed entrambe si misero a sedere, ma la minore non scappò. Anzi, si riaggrappò alla sorella, piangendo sulla sua spalla, supplichevole. «Perché l’avete fatto? Perché?»

La mora le accarezzò i capelli, cercando di calmarla, non trovando tuttavia le giuste parole da dirle. «Kori...»

«Stella!» Robin e gli altri raggiunsero di corsa le ragazze, il leader in testa al gruppo e visibilmente preoccupato.

Si inginocchiò accanto a loro ed incrociò lo sguardo di Amalia, visto che Stella ancora non sembrava volersi staccare da lei. «Come sta?»

«Un po’ ferita, ma se la caverà. Non le è andato giù ciò che avete fatto al Basilisco.»

Robin sospirò e posò una mano sulla spalla della fidanzata. «Stella... non avevamo altra scelta. Quando BB lo ha attaccato è impazzito, ti ha quasi ucciso e avrebbe fatto lo stesso anche con noi.»

Il mutaforma, chiamato in causa e conscio della situazione, si guardò i piedi, imbarazzato. «A-Amalia, io non... non volevo che finisse così. Ero in cielo e ho visto quel coso con la bocca vicino a lei... credevo che Stella fosse in pericolo... mi dispiace.» Strinse i pugni. Sembrava quasi si vergognasse di rialzare lo sguardo. «Mi dispiace. Se mi odierai capirò.»

Amalia si voltò verso di lui, con la furia di un tornado, pronta a rivolgergli le peggio maledizioni che le sarebbero venute in mente ma quando notò il suo sguardo, la sua espressione mortificata, si fermò. Era chiaro come il sole quanto il mutaforma non fosse orgoglioso delle sue azioni. Inoltre, era stato più un fratello lui per Stella di quanto non lo fosse stata lei, era evidente che l’ultima cosa che volesse era quella di ferirla, direttamente o meno. Amalia assottigliò le labbra, colpita da quel suo atto di maturità: aveva commesso un errore e lo aveva ammesso, segno che era pronto ad accettarne le conseguenze. Sospirò, continuando a consolare Stella. «Non preoccuparti. Non potevi sapere.»

BB riacquistò l’ombra di un sorriso, grato delle sue parole. Komi ricambiò il sorriso, per poi accorgersi di come Red X, invece, stesse bellamente ignorando tutta quella situazione, fissando un punto nel vuoto di fronte a lui con le braccia conserte. A quel punto, l’aliena si infuriò nuovamente. «Tu piuttosto!»

Il ragazzo sobbalzò. «Io?»

Amalia annuì, ringhiando. Si separò dolcemente da Stella e permise a Robin di occuparsi di lei, poi si alzò in piedi e fronteggiò il ragazzo in nero. «Cosa diavolo avevi in testa quando hai lanciato quella pietra nel lago?!»

X indietreggiò con la testa, ma non distolse lo sguardo da lei, per nulla intimorito. «Come potevo sapere che un sassolino avrebbe fatto incazzare quel bestione?!»

«Per poco Stella non veniva uccisa!» gridò Amalia indicando la sorella piangente.

«Non è colpa mia se ha cercato di ragionare con una bestiaccia!»

La tamaraniana mora strinse i pugni. «Non accusarla!» esclamò, per poi cominciare a puntellargli il petto con l’indice. «Lo sai benissimo che la colpa è solo tua!»

«Lo abbiamo sconfitto e Stella è ancora viva, qual è il problema?!» sbraitò lui allargando le braccia.

«Non è questo il punto!» Amalia accennò ai ragazzi che, in glaciale silenzio, osservavano quel litigio così inaspettato. «Chiunque di noi avrebbe potuto restare coinvolto! E se quel Basilisco avesse colpito me, sulla pancia?! Ci hai pensato?!»

Red X ammutolì e sentì le guancie andare a fuoco.

«Il tuo silenzio dice tutto» concluse la tamaraniana, quasi con tono disgustato. «Io avrò anche dimenticato le buone maniere, ma tu hai dimenticato il cervello.» E detto quello, la ragazza gli diede le spalle e aiutò Robin a mettere Stella in piedi.

Il ragazzo in nero la guardò quasi come in trance mentre aiutava la sorella ad alzarsi, e si sentì un verme totale. Amalia aveva ragione, lui stesso infondo lo sapeva, aveva combinato una cazzata bella e buona. Le parole della tamaraniana erano state come un pugno allo stomaco. Se fosse accaduto a lei ciò che era accaduto a Stella, beh, non l’avrebbe presa così alla leggera. Gli bastò vedere lo sguardo preoccupato di Robin per intuire che non doveva essere bello sentirsi come lui in quel momento.

«Mi dispiace...» rantolò flebilmente, diretto non solo a lei, ma a praticamente tutti.

Amalia gli lanciò un’occhiata di sfuggita, mentre si avvolgeva il braccio di Stella intorno al collo. «Sì, anche a me dispiace.» Distolse di nuovo lo sguardo da lui, desiderosa di non vederlo per almeno qualche altra ora, e si rivolse alla sorella, con tono molto più morbido, non sembrava nemmeno più la stessa persona che aveva aggredito verbalmente Red X. «Come ti senti? Stai meglio?»

Passarono diversi istanti, poi Stella annuì debolmente. «S-Sì... Cro... il Basilisco... era solo un... un animale...» Tirò su col naso e strizzò le palpebre per ripulirle dalle lacrime. Povera Kori. Così sensibile, così buona. Era chiaro ad anni luce di distanza che non pensava davvero quelle parole, ma né Amalia, né Robin, né nessun altro ebbe commenti a riguardo da fare.

«Corvina, puoi guarirle le ferite?» chiese invece Robin, anche lui intento a tenere Stella sollevata.

La maga annuì. «Sì, certo.» Si avvicinò alla tamaraniana rossa e posò delicatamente il palmo sulla ferita sulla pancia. Stella gemette per il contatto, poi Corvina mormorò il suo mantra e nel giro di pochi secondi dell’orribile sfregio non restò altro che una lieve striatura rosa, appena distinguibile tra la pelle color arancione. Anche il taglio sulla testa si rimarginò. Stella ricominciò poco per volta a riacquistare le energie, ma non era ancora intenzionata a separarsi da Robin o da Amalia.

Robin ringraziò Corvina, si assicurò che Stella non faticasse troppo e ordinò di procedere con la marcia. Voleva andarsene da lì e al più presto. Non si perse nemmeno in ulteriori chiacchiere con Red X. Poco dopo aver sbaragliato il Basilisco avrebbe voluto affogarlo nella melma, ma dopo aver assistito alla discussione tra lui ed Amalia, aveva intuito che rigirare ulteriormente il dito nella piaga era inutile. Le cose che Robin voleva dirgli, gliele aveva già dette la sorella di Stella. Da come camminava a testa bassa, era ben chiaro che la fidanzata gli aveva fatto recepire il messaggio. Ed era anche chiaro che venire rimproverati in quel modo da qualcuno che si ama non doveva essere una sensazione tanto gradevole. Ciò, naturalmente, non gli impedì di rivolgergli un’occhiata incendiaria. Il suo gruppo non era mai stato così numeroso. Erano in otto in totale, tra cui una ragazza incinta, Robin aveva responsabilità enormi. Correre rischi stupidi ed inutili come quello non era proprio ciò che desiderava, oltretutto per mano di uno che nemmeno era un Titans onorario ma un loro vecchio nemico. Non avrebbe mai dimenticato la sua storica rivalità con Red X, avercelo in squadra, nonostante tutti i loro precedenti accordi, continuava a turbarlo, dopo aver visto cosa aveva appena combinato soprattutto. Aveva quasi smesso di diffidare di Amalia, in compenso, adesso, doveva tenere d’occhio il ragazzo in nero.

Un gemito di Stella lo riportò alla realtà e si ricordò che, malgrado tutto, i suoi problemi in quel momento erano ben altri. Aveva visto con i suoi occhi la sua amata restare gravemente ferita per colpa di un mostro, doveva per prima cosa occuparsi di lei mettendoci anima e corpo. Prima Stella, la sua principessa, poi il resto.

Fu Cyborg a fare strada, tenendo d’occhio la coltre di fumo che, in alto nel cielo, si faceva sempre più vicina. BB non fece più da vedetta, non ce n’era bisogno. Non che il mutaforma fosse ancora in vena di farlo. Dopo il casino che aveva combinato, anche lui aveva voglia di seppellirsi sotto tre metri di terra insieme ad X. Per colpa sua Stella c’era quasi rimasta. Gli mancava solo più Amalia e poi avrebbe combinato una fesseria con tutte le ragazze presenti. Bell’idiota che era.

Sospirò sconsolato, poi procedette anche lui con sguardo fisso di fronte a sé, estraniando ogni altro pensiero superfluo, concentrandosi sulla guida di Cyborg e sulla strada.

 

***

 

«Secondo te ce la faremo?»

Corvina si voltò verso di Terra, la quale camminava accanto a lei, al fondo della fila. «Come?»

«Intendo dire...» Terra si tormentò le mani, fissando i rametti secchi disseminati nel manto erboso. «... secondo te chiunque troveremo, sarà disposto ad aiutarci?»

Corvina si mordicchiò l’interno della guancia, riflettendo. «Non possiamo fare altro che sperare che sia così. Perché mi fai questa domanda?»

La bionda scostò una ciocca di capelli ribelle dietro l’orecchio, prima di rispondere. «Beh, non mi aspetto grandi cose da un pianeta abitato da creature come quella che abbiamo appena incontrato...»

«Il Basilisco è stato una sorpresa sgradevole, è vero, ma non significa che sia così per tutti gli abitanti.»

«Speriamo...» sospirò Terra, buttando fuori una grossa boccata d’aria. Era chiaramente tesa e non poco, sembrò riuscire a rilassare le spalle solamente grazie alle parole di Corvina. Alla maga sfuggì un sorriso sommesso. Si sentiva quasi orgogliosa della fiducia che Terra riponeva in lei e allo stesso tempo, certe volte, aveva paura di sbagliarsi e deluderla.

Un’altra cosa di cui le era venuto il terrore improvviso, era quella del poter litigare con lei. Dopo aver visto l’acceso dibattito tra X e Amalia, quel pensiero le si era insinuato abusivamente nella mente e non sembrava volersene andare. Se perfino due futuri genitori ogni tanto sembravano trovarsi in disaccordo, cosa poteva impedire lo stesso anche a lei e alla compagna? Si voltò verso di Terra, osservò il suo profilo, il suo viso bello e dagli zigomi morbidi, le sue gambe snelle e lunghe, il suo petto con le giuste curve, pensò al suo carattere così diverso dal proprio eppure così gradevole, e immaginare di poter perdere una sola di queste cose, un giorno, per un litigio troppo aspro, le fece venire le vertigini.

Terra si accorse degli occhi della maga posati su di sé e si voltò, lanciandole uno sguardo incuriosito. «Che c’è? Ho qualcosa sulla faccia?» Si toccò il viso istantaneamente.

Corvina si riscosse dai suoi pensieri e scosse frettolosamente la testa. «No, no, è solo che...» Un sorrisetto furbesco le dipinse il volto, quando la giusta risposta le arrivò. «... sei sexy.»

La bionda ridacchiò. «Ruffiana...» ribatté, per poi assumere un tono malizioso e sussurrare cosicché nessuno la sentisse. «Vorrei tanto che in questo momento fossimo solo noi due...»

Anche Corvina ridacchiò. «Anche se siamo in questo bosco pieno di bestiacce?»

«Qualunque posto mi andrebbe bene.» Terra si avvicinò a lei, sfiorandole un braccio e facendo fremere la maga con quel piccolissimo contatto, poi avvicinò il volto già arrossato a quello della maga. «L’importante è che siamo tu ed io...»

Corvina vide il viso di Terra a pochi centimetri dal suo, i suoi occhi celesti, udì il suo tono mellifluo e notò le goti imporporate. Arrossì anche lei, contro il proprio volere, e il desiderio di azzerare le distanze fra loro due divenne impellente. Si chiese cosa sarebbe accaduto se avesse baciato Terra lì, in quel luogo, in quel momento, con tutti gli altri a pochi metri da loro. La prospettiva, anziché intimorirla, la fece sentire più eccitata di quanto già non fosse. Sentì il bisogno di provare quei brividi che solo Terra riusciva a farle provare, correre il rischio di farsi beccare dagli amici ed essere costretta a vuotare il sacco sulla storia da poco sbocciata tra lei e la compagna, assaporare le labbra della bionda infischiandosene del resto, ma poi sentì il terreno sotto i propri piedi mutare inclinazione e, con la coda nell’occhio, vide anche la vegetazione farsi meno fitta intorno a tutti loro. Anche Terra sembrò accorgersene, perché ad un tratto entrambe distolsero gli sguardi, guardandosi intorno sorprese.

E quando i loro occhi caddero davanti a loro, si dimenticarono tutto ciò che entrambe avevano avuto per la testa. Erano arrivati. La giungla si era diradata e adesso stavano percorrendo un sentierino di terra battuta situato in mezzo a due campi coltivati. Strane piante gialle e ricoperte di foglie, fiori e strati si sollevavano dal suolo, dando un tocco di colore vivace a tutta la zona, ma non era quello ciò che aveva catturato le attenzioni di tutti loro, non solo delle due ragazze.

Il sentiero che stavano percorrendo sfociava in una grossa strada costituita da ciottolato grigio chiaro, quasi bianco, che andava poi a diramarsi in mezzo ad una sconfinata quantità di edifici piccoli, tozzi, squadrati e ammucchiati tra loro indistintamente. Erano disposti verticalmente, gli uni sopra gli altri. Decine e decine di terrazze, balconi, muniti di panni stesi ad asciugare al sole si sovrastavano gli uni con gli altri. Erano grezzi, rudimentali e sembravano anche malridotti. Così, per chilometri e chilometri avanti a loro, a destra e a sinistra, a perdita d’occhio. 

Non fu difficile ai ragazzi capire cosa si trovavano di fronte. Una città. O perlopiù un villaggio, ma comunque case, edifici, negozi ed abitazioni. Civiltà.

Era immersa in una valle. Attorno a tutto il composto di edifici, si potevano intravedere un mucchio di altri campi coltivati, vegetazione e piante, che poi andavano a mescolarsi con la giungla. Videro anche un laghetto, a diversi chilometri di distanza. Se non fosse stato per queste zone erbose e colorate, probabilmente quella città sarebbe sprofondata nella monotonia e nella tristezza del grigio.

Un sorriso soddisfatto si accese sui volti di tutti, anche su chi durante il viaggio era incappato nei disagi più grandi. Non era stato difficile attraversare la giungla, eccezion fatta per il Basilisco Leviathan. Il clima non era sgradevole, così come il sole, e le loro condizioni fisiche erano ottimali. Avevano camminato per appena qualche ora, ma comunque ognuno di loro era molto entusiasta delle proprie prestazioni.

«Bene gente!» esordì Robin. «Ci siamo! Forza, vediamo se c’è qualcuno in giro!»

«Sperando che parlino la nostra lingua...» rantolò X.

«Oh, andiamo Mister Lato Negativo!» protestò Terra. «Non essere deprimente una volta ogni tanto!»

«Mister Lato Negativo?» domandò il ragazzo accigliato. «Da quando anche tu ti metti ad appioppare nomi idioti?» Diverse risate sommesse si sollevarono e quando X si accorse che erano rivolte a lui e che Amalia in primis stava ridendo, sentì l’indignazione tramutarsi in imbarazzo.

«Tsk, lasciamo perdere...» sbottò distogliendo lo sguardo da tutti loro e indirizzandolo verso i campi.

Robin vide anche Stella sorridere e gli si scaldò il cuore. Le sfiorò una mano, facendola voltare verso di lui. «Stai meglio?» domandò premuroso.

La ragazza allargò il sorriso e annuì. «Sì, sì, mi è passato tutto, davvero.»

«Sono felice per te» rispose il ragazzo, per poi darle un bacio a fior di labbra. Una volta separato da lei, incitò di nuovo gli altri a procedere. «Andiamo ragazzi!»

Il gruppo distolse l’attenzione da X ed annuì. Scesero il sentiero, in fila per due, poi raggiunsero il ciottolato. I loro passi cominciarono a riecheggiare sulla superficie come lo scalpiccio di degli zoccoli, mentre si avventuravano in quel rustico paesino. Esaminandolo dall’interno poterono constatare che non era molto all’avanguardia. Messo a confronto con la città che avevano visto su Tabora sembrava quasi un sito preistorico. Cominciarono seriamente a dubitare di poter davvero trovare un luogo per fare rifornimento. Ma la cosa peggiore che notarono, fu che in giro non c’era nessuno. Gli edifici erano sbarrati, i negozi chiusi, i campi vuoti. Sui bordi della strada c’erano bancarelle, panchine, sedie, lampioni rudimentali, quelli che ancora si accendevano con il cherosene, tendoni. E nessuno intorno ad una sola di queste cose.

«Non sarà disabitato anche questo posto!» esclamò BB, mentre quella sgradevole impressione si faceva strada dentro di lui.

Robin si prese il mento. Anche lui ci aveva pensato per un momento, ma gli sembrava comunque una cosa strana. «Ne dubito. Se fosse disabitato, non ci sarebbero quei panni stesi e tutti questi campi sarebbero ormai morti...»

«E allora dove sono tutti?»

Il leader scosse la testa. «Non ne ho idea.» Indicò la nube di fumo che, non molto lontana da loro, continuava a svettare in cielo. «Andiamo a controllare da quella parte, di sicuro troveremo qualcuno.»

Non avendo idee migliori, il gruppo continuò a seguire il ragazzo. Man mano che procedevano nel silenzio glaciale di quella città, tutti loto cominciavano a sentirsi a disagio. Era impossibile che quel luogo fosse disabitato, questo era vero, eppure non c’era nessuno. Anche se, dopo non molti passi, cominciarono a sentirsi osservati.

Corvina soprattutto. Tentò di usare i suoi poteri per percepire altre presenze, ma non trovò nulla. O meglio, riuscì perfettamente a percepire i sette ragazzi insieme a lei, più il feto nella pancia di Amalia, ma null’altro. Qualcosa di diverso da loro riusciva a carpirlo di tanto in tanto, ma erano presenze lontane, quasi indistinguibili, sicuramente appartenute ad animali selvatici nella giungla o fra i campi. E allora cos’era quella sgradevole sensazione che sentiva? Le sembrava di essere sotto un enorme riflettore che la metteva in bella mostra davanti ad ogni cosa.

Di una cosa era certa, non era ancora finita. Anzi, la loro avventura su Quantus era solo all’inizio.

 

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Capitolo 7
*** La Salvatrice ***


The Good Left Undone

VII

LA SALVATRICE

 

 

Alla fine quel paese non si rivelò molto grosso. Rispetto a Jump City o alla metropoli di Tabora, sembrava una formica. Non avrebbe contenuto neanche un decimo degli abitanti di quelle due città. La strada che stavano percorrendo doveva essere la via maestra, perché tutte le sue derivanti erano molto più corte, piccole e strette e quasi sempre non conducevano a niente se non a qualche altro complesso di edifici, vicoli ciechi o campi. Presto poterono scorgere la fine di quel ciottolato: arrivava fino ad un grosso cancello chiuso, dietro il quale cominciava una ripida scalinata di marmo che conduceva in cima ad una collina, oltre la quale era impossibile scorgere altro, se non proprio la coltre di fumo verso la quale si stavano dirigendo. Si fermarono lì, anche perché non avevano molti altri posti dove andare. Il cancello aveva alle proprie estremità due spesse mura, che circondavano tutta la base della collina. Non sarebbe stato un problema, per loro, scavalcarle, ma non lo fecero. Rimasero immobili, ad osservare la spessa barriera di ferro e cemento.

«Chiunque stiamo cercando, è oltre questo cancello» osservò Robin appoggiandoci sopra una mano.

«Dunque che facciamo?» domandò Beast Boy.

Il leader si strinse nelle spalle. «Non credo abbiamo molte alternative. Scavalchiam-»

Si interruppe di colpo, quando lui, come tutti gli altri, udì diversi rumori, simili a quelli di porte e finestre che sbattevano, seguiti poi da uno scalpiccio loro molto familiare. I rumori si accavallarono tra loro, giungendo dagli edifici come un eco fastidioso. I ragazzi si voltarono tutti quanti sorpresi, per poi strabuzzare gli occhi. Dalle vie secondarie delle città, quelle che fino a poco prima avevano ritenuto deserte e poco importanti, si riversarono nella strada principale decine e decine di individui, che cominciarono poi a camminare verso di loro con passo spedito e pesante. Gli abitanti di quel luogo. E da come si dirigevano verso i ragazzi, sembrava sapessero perfettamente che loro fossero clandestini.

Non appena il gruppo di eroi riuscì a vederli meglio, si sentirono ancora più sbalorditi. Era ovvio che quel pineta fosse abitato da alieni, ma quelli erano... davvero strani. Erano creature antropomorfe, non troppo grandi, tutte molto simili tra loro. Il corpo era quello di un umanoide, camminavano su due gambe, ma le somiglianze terminavano lì. Le mani erano molto simili alle zampe di un rapace, i volti erano rosa brillante, i nasi grossi e da animale, gli occhi erano gialli, le teste erano prive di capigliature dotate però di quelle che avevano le vaghe sembianze di antenne ed avevano corna ricurve girate verso il basso. Vestivano con strani abiti, simili a tuniche, però più malandate e la maggior parte di loro aveva intorno al collo collane decorate da strani cristalli azzurri, simili a pietre preziose. Tramite i tratti fisici, tra loro si potevano distinguere chiaramente donne, bambini, anziani. In testa al loro gruppo c’erano quelli che invece dovevano essere gli uomini, erano molto più grandi e robusti degli altri e tenevano in mano un grosso bastone, con incastonata nella cima un altro di quei cristalli azzurri, molto più grosso di quelli delle collane.

Arrivarono a pochi metri di distanza dai ragazzi, circa una quindicina, e li scrutarono in silenzio. Era impossibile intuire cosa stessero pensando. Robin e gli amici si ritrovarono centinaia di occhi gialli piantati addosso, e cominciarono a sentirsi davvero a disagio. Capirono presto che erano rimasti nascosti nelle case e li avevano guardati passare nel loro villaggio, per poi accerchiarli attorno al cancello. Ecco cos’era quella sensazione che Corvina aveva provato. Restava solo da capire come mai non avesse percepito le loro presenze.

I due fronti si scrutarono attentamente, senza muovere un solo muscolo, poi Robin si fece coraggio e mosse un passo avanti. «Salve, noi siamo...»

Gli alieni in testa al gruppo si misero in posizione da combattimento e puntarono al leader i loro bastoni come se fossero dei fucili, grugnendo di rabbia. «Shtilkayt!» ordinò uno di loro, con in testa un bizzarro copricapo nero.

I ragazzi non capirono cosa disse, ma da come sembrava arrabbiato, intuirono che non fosse qualcosa di gentile. Si guardarono tra loro perplessi, non avendo la più pallida idea di cosa fare, rimpiangendo tremendamente l’assenza di Mr Zurkon, poi gli alieni avanzarono verso di loro, senza smettere di puntare i bastoni e senza mutare di una virgola le loro espressioni minacciose.

Robin sollevò le mani in segno di resa, non sapendo che altro fare, e cercò ancora di ragionare con loro: «Non siamo vostri nemici, vogliamo solo...»

«Taci!» gridò di nuovo quello con il copricapo, sorprendendo tutti quanti i ragazzi. «Siete entrati abusivamente in un territorio sacro, nel nome di re Alpheus III, il sommo Orvus e gli Zoni, vi dichiaro in arresto!»

«Cosa?» domandò BB con la voce più alta di un’ottava.

Red X ringhiò, letteralmente, mentre gli strambi alieni gli accerchiavano puntando loro quegli altrettanto strani bastoni. «L’avevo detto io che atterrare su un altro pianeta era una pessima idea...»

 

***

 

Furono condotti proprio nel luogo verso il quale si stavano dirigendo. Alcuni di quegli alieni aprirono il cancello, poi vi condussero il gruppo di ragazzi, spingendoli, strattonandoli e puntellandoli con i loro strambi bastoni. Per un momento, alcuni avevano pensato di combattere e di ribellarsi a loro, ma non appena si erano accorti di come Robin avesse preferito mantenere la calma, lo avevano imitato. Anche Red X, seppur con molta riluttanza, aveva deciso di tenere le lame nella cintura e di non cavare gli occhi a quelle sottospecie di alieni capra.

«Dove ci state portando?» domandò Robin mentre cominciavano a salire la gradinata. Si accorse presto che solamente gli individui armati continuarono a scortarli, mentre tutti gli altri, i cittadini, rimasero ai piedi della scalinata, a guardarli quasi intimoriti. I bambini erano perfino nascosti dietro le proprie madri, le quali li abbracciavano protettive e fissavano i ragazzi come se fossero delle bestie pericolose.

«Silenzio!» esclamò l’alieno con il copricapo, sbattendo a terra l’estremità del bastone.

«Per favore, noi non abbiamo cattive intenzioni! La nostra nave è...» Robin cercò ancora di parlare, di far ragionare l’alieno, ma quello lo interruppe di nuovo bruscamente, puntandogli il bastone, la cui gemma cominciò ad illuminarsi di azzurro: «Ho detto di tacere!»

Il leader vide quella pietra accendersi come una lampadina ed intuì che forse era meglio obbedire. Qualunque arma fosse, quel bastone non prometteva nulla di buono. Si guardò intorno pensieroso, vide tutto il gruppo di amici camminare poco dietro di lui, accerchiato da una decina di alieni armati. Red X si guardava intorno con una smorfia nervosa stampata in faccia, sembrava un lupo ferito braccato dai cacciatori, un misto tra la rabbia e la sofferenza. Terra, Stella e BB sembravano più impauriti, mentre Cyborg, Corvina e Amalia erano più perplessi che altro. E poi c’era lui che si stava arrovellando per trovare una soluzione a quella situazione lievemente incasinata. Se solo lo avessero lasciato parlare, avrebbe spiegato chiaramente la situazione, ma quei tizi non sembravano proprio volergli dare una possibilità. E il motivo gli era stato ben chiaro fin dall’inizio: avevano paura di loro e cercavano di nasconderlo mostrando un’aria più determinata. Bastava vedere come si erano comportate le donne con i loro figli. Fecero quasi pena al ragazzo.

Stella cercò la sua mano, il leader se ne accorse quasi immediatamente, e gliela strinse. Non si guardarono, non dissero una sola parola, semplicemente rimasero così, a salire le scale e con le dita intrecciate le une nelle altre, per cercare di infondersi calore e sicurezza a vicenda. Robin giurò che qualunque cosa sarebbe successa da lì a poco, Stella non si sarebbe fatto ulteriore male. Avrebbe perfino combattuto contro quegli alieni, pur di proteggerla. Ma soprattutto, non avrebbe permesso a neanche uno dei suoi amici di venire sul serio arrestato ed imprigionato. Avrebbe prima chiarito la situazione con le buone, o lo avrebbe fatto con le cattive. Sperava caldamente che ad avverarsi fosse la prima opzione.

Finalmente i gradini terminarono e raggiunsero di nuovo la pianura. Si ritrovarono in un enorme cortile realizzato in porfido, di centinaia di metri di lunghezza per larghezza. Come le strade, anche quello sembrava essere stato realizzato con moltissima cura nella disposizione delle piastrelle, sembrava quasi un’opera d’arte su cui poter camminare. Le due estremità laterali erano delineate da due pinete lunghe quanto tutto il cortile, mentre esattamente nel centro si poteva scorgere la base di un falò ormai spento da ore, la fonte del fumo che i ragazzi stavano cercando. Pochi ramoscelli erano ancora integri nell’enorme cumulo di cenere rimasto ed erano tutti ormai secchi e abbrustoliti.

«Perché avete acceso un falò qui?» domandò di nuovo Robin, ottenendo come risposta l’ennesimo invito a tenere la bocca chiusa. Il ragazzo cominciò a spazientirsi.

Sospirò e sollevò lo sguardo, per poi notare al fondo del cortile un enorme edificio, molto più bello e fatiscente delle abitazioni verticali che avevano visto poco prima. Un enorme portone decorava la facciata, ornato poi da decine e decine di finestre, sparpagliate per il muro e su diverse torri.

«Un palazzo!» osservò Stella quasi incredula. «C’è un reale in questo villaggio!»

L’alieno con il copricapo grugnì. «È lui a governare questa piccola civiltà. E sarà lui a decidere cosa fare di voi, se imprigionarvi, esiliarvi o scaraventarvi nel Pozzo.»

«Il "Pozzo"?» domandò BB deglutendo. «Perché non sembra niente di buono?»

«Perché non è, niente di buono» replicò l’alieno, per poi sbattere di nuovo a terra il bastone. «Ma ho già detto abbastanza! Fate silenzio!»

Red X roteò gli occhi e sbuffò. «Perché non cambi un po’ repertorio, Palla di Neve?» Finì appena di parlare e si beccò una bastonata su un fianco, che gli mozzò il respiro.

I ragazzi accanto a lui gemettero sorpresi, Amalia si portò entrambe le mani di fronte alla bocca.

«Qualcun altro è in vena di battute?» domandò l’alieno che lo aveva colpito, guardando minaccioso gli amici del ragazzo in nero. Questo in testa aveva una piuma azzurra, attaccata alla protuberanza simile all’antenna. Non ricevendo risposte, annuì soddisfatto. «Bene. Seguite Galvor e tenete chiusa la bocca. Non appena vi porteremo al cospetto del nostro re potrete parlare quanto vorrete.»

Osservando X mentre si massaggiava il fianco dolorante, il gruppo di giovani supereroi, molto poco propenso a ritrovarsi nella medesima situazione, decise di obbedire.

Attraversarono il cortile e raggiunsero il portone. Qui trovarono altri due alieni armati di bastone, di guardia. Quello col copricapo, Galvor, a quanto pareva, si avvicinò a quello sulla sinistra e accennò con il capo ai terrestri e alle tamaraniane. «Dobbiamo portare gli intrusi al cospetto di Alpheus

La guardia annuì e cominciò ad aprire il portone, imitata dall’altra. Non appena terminarono, Galvor entrò nel palazzo e i ragazzi furono costretti a seguirlo.

Si ritrovarono ben presto in un’enorme stanza, con il pavimento formato da lucide piastrelle nere, muri e soffitto di marmo grigio scuro, ornati di affreschi, quadri, candelieri e oggetti decorativi di ogni genere. Uno spazioso tappeto rosso ornava la sala, conducendo dall’ingresso ad una breve scalinata formata da tre gradini. Diversi altri tappeti, più stretti, sfociavano da esso e portavano in corridoi illuminati dalla luce delle finestre aperte, il cui fondo era impossibile da vedere. Poco più sopra la scalinata si trovava un’alta ed ampia sedia di legno, imbottita con dei cuscini rossi con due grossi braccioli, un trono. Accanto ad esso, una sedia molto più piccola e grezza. A chi fosse destinata quest’ultima, era difficile da capire.

Il portone si richiuse alle loro spalle, con un tonfo che riecheggiò in tutta la sala, facendo piombare i ragazzi nella penombra e nell’aria fredda che in quella stanza regnava sovrana. Nessuno disse più una parola. Gli alieni rimasero in silenzio, così come il gruppetto di supereroi.

Robin sentì la presa della mano di Stella stringersi intorno alla sua e lui non fece altro che ricambiarla, per tentare di tranquillizzarla. In testa non aveva altro che ciò che si era prefissato poco prima, ovvero difendere Stella e i loro amici a tutti i costi. Stella soprattutto. Cominciò a far vagare lo sguardo per la sala, cercando di trovare qualcosa che potesse catturare la sua attenzione e distrarlo un po’, ma tutti quei quadri di paesaggi e alieni come le guardie che li tenevano sotto controllo non erano un granché come distrazione. Non ci mise molto a capire che tutti quegli individui raffigurati sulle tele dovevano essere i precedenti re di quel piccolo villaggio.

Un altro alieno sbucò da un corridoio laterale, accanto al trono, e proclamò con tono solenne, prima di inginocchiarsi: «Inginocchiatevi dinnanzi al nostro grande sovrano, re Alpheus III!»

Tutte le guardie obbedirono, mettendosi in ginocchio. Anche i ragazzi furono presto invitati a farlo. O meglio, obbligati. Poi dallo stesso corridoio sbucò un alieno con indosso una tunica bianca, un pesante mantello rosso che rasentava il terreno e una corona. Non era molto difficile intuire chi fosse. Robin lo osservò attentamente, con la diffidenza di un felino, mentre andava ad accomodarsi sul trono, sospirando esausto. Sembrava piuttosto anziano. Le sue corna erano molto più lunghe di quelle delle guardie, arrivavano quasi all’altezza del collo, ed aveva anche trecce di peluria sul volto.

«Ebbene, la nave grigia che è stata avvistata poche ore orsono appartiene a questi individui?» domandò con voce roca e bassa.

Galvor annuì, rimettendosi in piedi. «Sì, vostra maestà. Li abbiamo arrestati mentre attraversavano la città. Orvus solo sa quali fossero le loro intenzioni.»

«Non vogliamo farvi del male!» esclamò Robin esasperato.

«Silenzio!» tuonò Galvor. «Non osare parlare con questo tono in presenza di re Alpheus! Chiedi subito...»

Alpheus alzò una mano, interrompendolo. «Calmati Galvor. Gridare in questo modo non ci porterà da nessuna parte.» Si voltò verso di Robin, osservandolo dall’alto in tutti i sensi. «Li avete portati da me affinché io decida la loro sorte, ebbene, per farlo devo prima sapere la loro storia.» Alpheus a quanto pare sapeva già tutto. Come fosse possibile, non era dato sapere. Rivolse ai ragazzi un cenno della testa. «Mi presento. Io sono il re Alpheus III, discendente di Alpheus II, sovrano indiscusso di questa ormai piccola comunità di fongoid, la nostra razza. Parlate, dunque. Cosa vi ha portato qui, nel mio regno?»

Gli sguardi si posarono su di Robin, che finalmente poté esporre la situazione. Si schiarì la voce, poi cominciò a spiegare con tono e modi di fare che si addicevano al colloquio con un reale: «Ci perdoni per la nostra intrusione, ma non abbiamo avuto altra scelta. Poche ore fa’ la nostra nave è stata attaccata da una flotta di pirati. Siamo riusciti a fuggire da loro, ma nel farlo abbiamo esaurito il carburante e la nave è rimasta anche danneggiata.»

«Menzogne!» gridò Galvor sbattendo di nuovo il bastone, per poi voltarsi vero Alpheus. «Vostra maestà, mi sembra evidente che questi futili intrusi stiano solo cercando di...»

«Silenzio Galvor» ordinò il re, per poi rivolgersi ai ragazzi. «Continua, prego.»

Robin annuì, ignorando Galvor, che nel frattempo sembrava sempre più furente. «Rischiavamo di rimanere senza carburante nel vuoto dello spazio e rischiavamo anche di farci trovare di nuovo dai pirati, così abbiamo deciso di atterrare sul vostro pianeta, che purtroppo era il più vicino, nonché l’unico. Non siamo venuti qui con cattive intenzioni, glielo posso giurare. Vogliamo solo rifornire la nave e ripararla, poi ce ne andremo.»

«Bugie!» esclamò di nuovo Galvor. «Anche l’ultima volta degli intrusi hanno chiesto il nostro aiuto! Noi gli abbiamo ospitati, curati, e loro ci hanno ripagato saccheggiando il paese, bruciando i campi e rubando la Reliquia! E noi dovremmo cascarci di nuovo?! Io mi rifiuto di...»

«Galvor!» lo richiamò il re, chiaramente spazientito.

La guardia ammutolì all’istante e chinò il capo, farfugliando delle scuse. Sembrava un bambino appena rimproverato.

Alpheus sospirò di nuovo, accasciandosi contro lo schienale, poi guardò Robin. Fu uno sguardo comprensivo e dispiaciuto, qualcosa di molto diverso rispetto a quelli rabbiosi o spaventati che aveva ricevuto fino a poco prima. «Perdonate la sua diffidenza, ma purtroppo è comprensibile. Come lui stesso ha già detto, non è la prima volta che una razza che non sia quella dei Fongoid mette piede su Quantus. E l’ultima volta che ciò è accaduto si sono verificati avvenimenti molto spiacevoli. Voglio essere sincero, in voi non vedo alcuna minaccia. Ma purtroppo non posso fidarmi. Gli avvenimenti di quel giorno lontano sono marchiati a fuoco nei ricordi di tutta la nostra comunità. Piangiamo ancora oggi i cari caduti durante quel conflitto. La mia gente a fatica è riuscita a risollevarsi, non posso rischiare che accada un’altra atrocità come quella.»

«Cosa? Ma... ma... ci serve aiuto!»

«A tutti serve aiuto, giovane terrestre. Ma non sempre lo si ottiene. In questo stesso momento, noi fongoid stiamo vivendo un periodo molto più difficile di ciò che sembra. L’ultima cosa che desideriamo, sono altri scocciatori. E, anche se volessi, non potrei comunque aiutarvi. La nostra è una razza che non fa uso di tecnologie, non abbiamo alcun carburante per la vostra nave, tantomeno degli addetti alle riparazioni. Il vostro è stato un viaggio a vuoto.»

Robin era incredulo. «In tutto il pianeta non c’è un carburante o...»

«Giovane terrestre, quella in cui ti trovi ora è l’unica traccia di civiltà rimasta in tutta Quantus. Oramai la giungla che avete sicuramente attraversato ha ricoperto tutta la superficie di questa terra.»

Il ragazzo chiuse la bocca e sgranò gli occhi. Quell’ultima frase era stata un gran bel colpo basso.

«Ma non temete...» riprese Alpheus, con un sospiro. «... vi permetterò di tornare alla vostra nave e andarvene facendo uso del poco carburante rimastovi. Non sarebbe corretto giustiziarvi o imprigionarvi non sapendo nemmeno se avete buone o cattive intenzioni. Ma prima di farlo lascerò che anche lo sciamano vi esamini coi propri occhi.»

«Lo sciamano?» domandò Beast Boy, ricevendo diverse occhiatacce dalle guardie per aver parlato senza permesso.

Il vecchio re annuì, ignorando la formalità mancata del mutaforma. «Lui è la figura autoritaria più alta, seconda solo a me, nonché il più saggio della comunità. L’ho mandato a chiamare nel momento esatto in cui mi avevano avvertito della vostra presenza nel palazzo. Tra poco ci raggiungerà. Saprà sicuramente cosa fare di voi, e so per certo che ci troveremo a concordare sul vostro esilio.»

Il silenzio scese nella sala. Nessuno dei ragazzi trovò il coraggio di dire ancora qualcosa. Robin si mordicchiò l’interno della guancia. Le cose si mettevano male. Non c’era carburante su quel pianeta. Se quel fantomatico sciamano non avesse detto nulla, Alpheus li avrebbe lasciati andare, ma a quale scopo? La nave era danneggiata ed era a secco, non sarebbero mai arrivati ad un altro pianeta, Robin se lo sentiva dentro. In genere era il contrario, ma quella volta aveva presentimenti tutt’altro che positivi. Se fossero ripartiti sarebbero rimasti bloccati nello spazio e lì o sarebbero morti di fame, o sarebbero stati catturati da qualche cacciatore di taglie come Slag. Erano in un casino bello e buono, questa volta dubitava davvero ce lui e i suoi amici potessero uscirne. A quel punto, tanto valeva che lo sciamano li facesse arrestare.

Non passò molto prima che il soggetto in questione arrivasse. Il portone d’ingresso si aprì di nuovo e dallo spiraglio creato apparve un altro di quegli alieni. Anche questo aveva il collo circondato da collane ornate da quelle gemme azzurre, più un altro di quegli scettri. La testa era coperta da un bizzarro copricapo realizzato interamente in piume azzurre e blu. Le corna erano molto più corte di quelle del sovrano, ed erano sempre rivolte verso il basso. Attraversò la sala, passando accanto a tutti loro senza degnarli di uno sguardo, poi si inchinò davanti ad Alpheus. «Vostra maestà, mi cercava?»

«Alzati, Canoo.»

Lo sciamano obbedì e si rimise in piedi.

«Siediti accanto a me e ascolta ciò che questo terrestre ha da dire.»

Canoo annuì chinando la testa e salì le scale, per poi sedersi sulla sua sedia rudimentale e tenere appoggiato a terra lo scettro con una mano. «Questi sono gli intrusi?» chiese guardando per la prima volta i ragazzi. Era molto più giovane del sovrano, si notava perfettamente dal suo aspetto e sembrava anche molto più socievole delle guardie e dello stesso re. Lo si intuiva dal timbro della sua voce, era molto più gioviale. Aveva un’aria molto più rilassata, nonché alcune piccole rughe sotto gli occhi, segni che era uno abituato a sorridere spesso.

 Alpheus nel frattempo rispose con un cenno di sì.

Gli sguardi caddero di nuovo su di Robin e al ragazzo non toccò altro che spiegare di nuovo la loro storia. Non ne capì alcuna utilità, tuttavia. Che senso aveva continuare a parlare, se tanto non potevano aiutarli? Ma non poté nemmeno aprire bocca, che Canoo si era alzato di colpo dalla sedia, facendo un verso sorpreso e sgranando gli occhi.

«Canoo, cosa ti prende?» domandò Alpheus allarmato.

Lo sciamano schiuse le labbra. «È... è lei...»

«Come?»

Canoo sollevò lentamente una mano, poi, con il dito che vibrava a causa del tremolio, indicò il gruppo di ragazzi. «Guardi la sua fronte, maestà...»

I giovani supereroi faticavano a capire cosa stava accadendo, e soprattutto faticavano a capire chi stesse indicando.

Nel frattempo pure Alpheus sgranò gli occhi, sembrando rendersi conto solo allora di una cosa importantissima che gli era sfuggita. «Sommo Orvus...» sussurrò incredulo.

Anche le guardie emisero dei gemiti sorpresi, perfino Galvor. Indietreggiarono tutti quasi intimoriti dai ragazzi e nel giro di pochi attimi fu facile intuire dove tutti gli sguardi fossero posati e chi stesse indicando Canoo. Le iridi gialle di tutti gli alieni... erano puntate su Corvina.

«È lei...» proseguì Canoo abbassando di nuovo la mano, per poi aprire le labbra in un sorriso gioioso. «È La Salvatrice!»

«Ehm... cosa?» domandò Corvina, che tra tutti era senza dubbio la più sbigottita.

Nessuno le rispose. Tutti gli alieni, incluso lo stesso Alpheus, si gettarono a terra e si inchinarono davanti a lei.

 

 

 

Fongoid:

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Capitolo 8
*** Permanenza Forzata ***


The Good Left Undone

VIII

PERMANENZA FORZATA

 

«Quanto hai detto che è profondo?» domandò BB avvicinando timidamente la testa oltre il bordo del precipizio.

«Non si sa con molta certezza. C’è chi dice perfino che non abbia fine, ma io non ci credo molto. Comunque, secondo me, qualche decina di chilometri» rispose il piccolo fongoid seduto, con le gambe a penzoloni nella voragine. BB ancora si domandava come facesse a sedersi lì senza morire di vertigini. Nonostante lui meno di tutti doveva temere quel precipizio, visto che poteva trasformarsi in ogni qualsivoglia di volatile e quindi non poteva morirci spiaccicato dentro, ne aveva una fifa matta.

Ecco cos’era quel famoso "Pozzo" di cui si era parlato un mese prima con quello psicopatico di Galvor. Si trattava di un enorme burrone, situato sul limitare della cima di una collina non molto lontana dal villaggio. Sembrava scavato naturalmente ed era impossibile scorgerne il fondo. L’unica cosa che si poteva vedere al suo interno era una sottile nube bianca, simile a nebbia. Per quello che il verdolo sapeva, poteva condurre direttamente all’inferno. Il solo ripensare a quella discussione avuta con Galvor in proposito ad essere scaraventati lì dentro gli metteva i brividi. Il mutaforma si grattò la testa, deglutendo, poi rivolse di nuovo l’attenzione al fongoid, un bambino di dieci, undici anni. «Non potremmo andarcene, Yurik? Questo posto mi da i brividi...»

«Sei tu che hai voluto vederlo» replicò il bambino guardandolo incuriosito con i suoi occhietti gialli.

«Sì, e me ne sto pentendo amaramente. Forza, andiamo, e ti prego, non sederti mai più lì...» BB si stava facendo venire un infarto, continuando a guardare Yurik mentre ondeggiava le gambe nel vuoto del Pozzo come se nulla fosse.

Il bambino scrollò le spalle. «Okay.» Si rimise in piedi e i due ritornarono sui propri passi, scendendo la collina verde rigogliosa e dirigendosi di nuovo al villaggio. Solamente quando furono lontani un centinaio di metri dal precipizio BB riuscì a respirare di nuovo correttamente. Per un attimo aveva avuto il terrore che quella voragine si spalancasse da sola e inghiottisse lui e il piccolo fongoid.

Volse lo sguardo all’orizzonte e gli fu impossibile reprimere un sorriso, alla vista dello spettacolare paesaggio che solamente da lì poteva vedere. Siccome erano in cima ad una collina che si affacciava sulla radura dalla quale erano arrivati, BB poteva scorgere tutto il villaggio, il palazzo di re Alpheus – nonché la loro abitazione – i campi coltivati e il lago situato nella periferia del paese. Era un’esplosione di colori, da far venire male agli occhi. Le piante dei campi, l’erba dei prati in cui gli animali pascolavano, il blu del lago, l’azzurro smagliante del cielo, lo stesso grigio dei palazzi dava il suo contributo a rendere stupenda quell’opera d’arte naturale stagliata di fronte a lui. E poi, oltre il villaggio, si trovava la giungla, un miscuglio di verde scuro, marrone e giallo, che si protendeva fin dove l’occhio riusciva ad arrivare. Cominciava a piacergli, Quantus. Beh, dopo un mese di alloggio forzato su di esso, non aveva molte altre alternative. Poteva farsi andare bene la vita in quel villaggio, farsi dei nuovi amici, come Yurik – quel bambino con il quale aveva scoperto di andare davvero molto d’accordo, a discapito della differenza d’età – oppure poteva ridursi come Red X, a passare quindici ore della propria giornata alla locanda a bere. E per quanto anche lui fosse un adolescente che adorava da matti ubriacarsi, non poteva certo reprimere il suo istinto animale che gli imponeva di visitare ogni angolo di quella radura, fiutarne ogni centimetro e impararne la planimetria per riuscire a conoscerlo come le proprie tasche.

Anche se, a dire la verità, la loro non era proprio una permanenza forzata. Semplicemente, da quando i fongoid avevano scoperto che Corvina era "la salvatrice", qualunque cosa significasse, l’avevano implorata, letteralmente, di restare nel villaggio. Alpheus, Canoo, Galvor, Yurik e praticamente ogni fongoid si era chinato dinnanzi a lei, durante l’arco di quella stramba giornata in cui avevano conosciuto quella gente. Le avevano offerto una stanza al palazzo, avevano concesso a lui, Robin e tutti gli altri di soggiornarvi a loro volta, avevano offerto loro vitto, alloggio, abiti puliti e servitori, in poche parole, tutto ciò che si poteva desiderare. E per quanto quell’offerta fosse stata molto allettante, nessuno di loro aveva voluto fermarsi. L’unica cosa che avrebbero voluto, era tornare sulla Terra, a Jump City, a casa loro. Ma le discussioni non erano servite a nulla e Corvina, l’unica che non aveva praticamente detto niente, esasperata e senza il cuore per poter dire di no, aveva accettato.

«Mi stanno letteralmente implorando di restare, non posso rifiutare» aveva detto. «Sarà solo una cosa temporanea, fino a quando non troverò una soluzione.»

Beh, di soluzioni, dopo quasi un mese, ancora non ce n’erano. Di certo le cose erano andate molto meglio di quanto tutti loro avrebbero mai potuto credere. La popolazione non aveva più paura di loro e li trattava con rispetto e riguardo, anche se BB sospettava che fosse semplicemente per via della loro amicizia con La Salvatrice. Erano dei raccomandati, in poche parole, la gente era obbligata a trattarli bene. C’era chi sembrava più propenso ad essere gentile per peculiarità propria, come la famiglia di Yurik, e chi, invece, sembrava molto contrario alla loro presenza, come Galvor, ma tentava – fallendo miseramente – di nasconderlo.

E poi c’erano Canoo e Alpheus. Loro erano gentili, gentilissimi, con loro. Lo stesso non erano con Corvina. O meglio, sicuramente le loro erano buone intenzioni, ma tenerla segregata nel palazzo ventiquattrore su ventiquattro, permettendole di vedere gli amici solo durante i pasti, non doveva essere una cosa che la maga gradiva molto.

La cosa peggiore era che nessuno di loro, nemmeno Robin, era riuscito a capire cosa facessero tutto il giorno con Corvina. Dovevano scoprire cose, dicevano loro. Ma cosa? Cos’avevano da scoprire ancora? E perché diavolo Corvina era La Salvatrice?

BB non lo sapeva. Sapeva solo che lui come tutti gli altri erano costretti a fare buon viso a cattivo gioco e restare in quel villaggio finché Corvina non avesse estratto il coniglio dal cilindro. E dopo quasi trenta giorni, il mutaforma cominciava a dubitare che quel giorno sarebbe arrivato.

«B, che fai?» domandò Yurik all’improvviso.

Il mutaforma trasalì, ritornando alla realtà. Si accorse solo in quel momento di essere rimasto a fissare come in trance il paesaggio per tutto il tempo. Scrollò di nuovo il capo per ricomporsi, poi sorrise al fongoid. «Niente, niente. Torniamo al villaggio, forza. Vuoi che ti porto io?»

Il bambino si illuminò e saltellò entusiasta. «Sì, sì ti prego B! Trasformati di nuovo nello pter... ptero... ahm...»

«Pterodattilo?» domandò BB lanciandogli un’occhiata eloquente.

«Quello!»

Il ragazzo ridacchiò, poi si mise nella corretta posizione. «E va bene, pterodattilo sia!»

 

***

 

Robin sbadigliò, poi scostò un ciuffo di capelli ribelle finito sugli occhi. Il sole brillava di luce accecante sopra di lui, smagliante, piazzato nel mezzo di quella volta meravigliosamente celeste, completamente incontaminata. E al ragazzo tutto ciò interessava poco niente. Si rigirò nel suo giaciglio di erba, in quell’enorme prato destinato al pascolo degli animali e si rimise in bocca il gambo di una pianta simile a grano che si era tolto prima di sbadigliare. Ormai quella era la sua giornata tipo. Mentre tutti i suoi amici tentavano a loro modo di combattere la noia, girovagando per il villaggio, chiacchierando con i fongoid e facendo amicizie, lui nella noia ci navigava. Si alzava al mattino, faceva colazione, usciva, si sdraiava in quel prato a fissare le nuvole, tornava al palazzo per pranzo, si sdraiava di nuovo in quel prato, talvolta passava un po’ di tempo con Stella, cena e poi andava a dormire. E il giorno dopo il ciclo si ripeteva.

Pensava. A cosa, ormai, nemmeno lui lo sapeva. Si sentiva in prigione, letteralmente, anche se quel paese sembrava tutt’altro. Sembrava. A detta sua, qualsiasi luogo dal quale non potevi andartene era una prigione. Poteva avere sbarre oppure prati verdi e rigogliosi, non gli importava. In prigione era e in prigione sarebbe rimasto fino a quando Corvina non si fosse decisa a spiegargli cosa diavolo stava succedendo. Diverse volte aveva cercato di prenderla da parte, farsi spiegare perché lei era ritenuta La Salvatrice, capire perché i fongoid non volevano che se ne andasse, ma lei aveva evitato l’argomento, apparendo dinnanzi a lui molto più a disagio e spaventata di quanto non fosse mai stata. Le uniche cose che era riuscito a tirarle fuori dalla bocca, era che i fongoid avevano bisogno di lei e che non poteva andarsene.

E Robin non poteva far altro che assecondarla, andare in quel prato e rimuginare. Cercare di trovare una scappatoia, ben conscio del fatto che se non sapeva come stessero le cose in realtà, non poteva arrivare lontano.  Sospirò. Quello era davvero un bel casino. Non erano in pericolo di vita, non avevano nemici mortali da affrontare, ma l’ansia che quel posto generava in lui forse era ancora peggio. Avrebbe dato una gamba per scoprire qualcosa di più su ciò che stava accadendo tra Corvina, Alpheus e Canoo.

Si rimise a sedere, stiracchiandosi, poi si alzò in piedi e si tolse di dosso i ciuffi d’erba che si erano attaccati ai suoi nuovi abiti, dei pantaloni neri e una camicia di un materiale simile alla flanella, gentilmente offerti dai fongoid in rimpiazzo al suo vecchio costume, che non era proprio l’indumento migliore da indossare per andare in giro. Anche tutti gli altri avevano ricevuto abiti nuovi. Vestiti per le ragazze, camice e pantaloni per i ragazzi. Corvina invece... meglio non parlare dell’abbigliamento che avevano appioppato a lei.

Con le mani in tasca e il passo pesante tornò nel villaggio. Camminò lungo il ciottolato, ricambiando i saluti di praticamente ogni fongoid che incontrava e cercando di sorridere. Doveva ammettere che quella strada non sembrava nemmeno più quella che aveva visto il giorno del loro arrivo su Quantus. Era piena di vitalità. La gente era accalcata dalle bancarelle, fuori dai negozi, dalla locanda, seduta sulle panchine, i bambini correvano gioiosi, giocando, altri trasportavano carretti pieni di piante da poco raccolte dai campi, oppure si dirigevano in essi attrezzati di tutto punto. Un estraneo, ecco cos’era Robin in mezzo a tutti loro. Inspirò profondamente l’aria fresca e fece per dirigersi alla locanda dove Cyborg e Red X si erano diretti qualche ora prima, sperando di incontrarli, per poi fermarsi all’improvviso quando ai suoi occhi apparve una chiazza rossa fuoco, semi nascosta dalla folla. Aguzzò la vista, poi sorrise di nuovo quando vide Stella seduta su una panchina, con le mani allacciate davanti al grembo, intenta ad osservare la folla che scorreva indaffarata davanti a lei. Non appena la vide, vestita con l’abito bianco che alcune fongoid le avevano donato, più alcuni fiori intrecciati nei capelli, ricordò alla perfezione che, infondo, in quel villaggio non stava poi così male.

Mandò al diavolo tutti i suoi grattacapi e decise di andare da lei.

 

***

 

«Un altro.»

Cyborg guardò Red X mentre porgeva il bicchiere al locandiere e questo glielo riempiva con il contenuto di una botte dotata di spillatrice. «Non starai esagerando?» domandò preoccupato per la salute del ragazzo. Ormai era il... quarto, quinto bicchiere di quello strambo alcolico che beveva?

Il ragazzo in nero, rimasto tale anche se senza costume per via degli abiti neri che aveva richiesto ai fongoid, avvicinò il recipiente alle labbra e sorseggiò, grugnendo di disapprovazione. Si separò dal bicchiere boccheggiando, poi lanciò un’occhiata in cagnesco al robot. «Lo decido io quando sto esagerando, chiaro?!»

Il robot trasalì, poi sollevò le mani in segno di resa. «Ok, ok, dicevo tanto per dire.»

Il moro grugnì di nuovo, poi ricominciò a bere. Tra tutti, lui era sicuramente quello che aveva preso peggio la loro permanenza forzata in quel villaggio. Non era mai stato convinto dell’atterraggio, figurarsi l’essere costretto ad abitare lì per tempo indeterminato. Ormai quella locanda era divenuta la sua seconda casa e visto ogni cosa era spesata da Alpheus, ne approfittava alla grande. Dopo quasi un mese passato a tirare avanti in quel modo, X doveva ormai avere più alcol che sangue nelle vene. Era diventato scorbutico, intrattabile, facilmente irritabile e, soprattutto, stentava a tenere a freno la lingua. I fumi dell’alcol gli annebbiavano la mente, facendolo spesso e volentieri parlare a sproposito o commettere atti tremendamente stupidi ed impulsivi. Per questo quel giorno Cyborg aveva voluto accompagnarlo alla locanda, per assicurarsi che non commettesse idiozie. Forse era un bene che Red X restasse tutto il giorno lì, almeno se causava problemi li causava lì e basta e non coinvolgeva donne, bambini e cittadini innocui.

Cyborg sospirò. Dovevano andarsene da quel pianeta. Dovevano farlo al più presto. Nemmeno lui ne poteva più, ma cercava comunque di nasconderlo. Corvina o Robin dovevano sbrigarsi a trovare una soluzione. Se solo avessero tutti avuto modo di scoprirne di più su quella storia riguardante La Salvatrice...

Un brusio sommesso si sollevava dall’altro lato della locanda, scavalcando tavoli di legno zeppi di bicchieri vuoti, navigando nell’odore del cibo e dell’alcol, e giungendo fino alle orecchie dei due ragazzi, seduti al bancone. Il robot ci mise poco niente a capire chi fosse l’artefice di quel parlottare e capire cosa stesse dicendo.

I fongoid erano stati molto gentili con loro. Bardock, il locandiere, era simpatico, disponibile e aveva sempre un sacco di storie interessanti da raccontare. Aveva raccontato loro che i fongoid erano un popolo che venerava molto la magia, gli dei, non a caso avevano uno sciamano. Non erano una razza bellicosa, erano più contadini, agricoltori, la tecnologia dalle loro parti praticamente non esisteva, erano... arretrati, in poche parole. E nonostante ciò, vivevano felici e possedevano conoscenze mediche e non che sulla Terra non sarebbero giunte neanche in un milione di anni.

I cittadini erano anche molto cortesi, salutavano educatamente ogni volta che incontravano uno dei ragazzi.

E poi c’era chi, invece, non riusciva a vederli nemmeno dipinti. Chi proprio non tollerava la presenza di Cyborg, di Robin e di tutti gli altri. Questi avrebbero voluto che solo La Salvatrice restasse nel loro villaggio e cacciare a calci nel sedere gli altri. Ed erano proprio loro, che dall’altra parte della taverna, stavano avendo una discussione molto accesa a riguardo.

Cyborg udiva ogni singola parola. Sentiva come reputavano lui e gli altri dei farabutti, che volevano solo derubarli dei loro cristalli, che volevano saccheggiare il villaggio. Alcuni sostenevano pure che Corvina non fosse La Salvatrice e che Canoo era un ciarlatano. Beh, in quel caso non avevano tutti i torti. Comunque sia, volevano vedere il gruppo di nuovi arrivati divorati interamente da un Basilisco Leviathan, oppure precipitare nel Pozzo. Ma tutto ciò, anziché far arrabbiare Cyborg, lo esasperava. Se non potevano andarsene, non potevano andarsene, fine della storia. Su Quantus non c’erano stazioni di carburante per la loro nave, non potevano rifornirsi.

Certo col poco carburante rimasto potevano tentare un viaggio disperato e sperare di trovare un altro pianeta – potevano anche chiamare soccorsi, a dire la verità, ma così facendo avrebbero segnalato la loro posizione all’universo intero e Slag, il Dominio e ogni qualsivoglia di cacciatore di taglie sarebbe stato alle loro calcagna in un battito di ciglia – ma tanto, finché la nave sarebbe rimasta danneggiata, oltre che senza scorte, non poteva farla decollare. E Cyborg non aveva gli attrezzi ideali per ripararla. Perfino Mr Zurkon, pace all’anima sua, da poco restituitogli da Corvina era ancora mezzo distrutto nella camera che avevano assegnato al titan robotico. Fino a quando non avesse trovato l’equipaggiamento adeguato non poteva riparare un bel niente, né il sintenoide, né la nave. Erano bloccati lì, volenti o nolenti. Perché non lo capivano?

«Ora basta...» rantolò X posando il bicchiere ancora mezzo pieno sul bancone, sbattendolo con così tanta forza che fu un miracolo se non si spaccò in due.

Cyborg lo guardò sorpreso. «Che ti prende?»

Il ragazzo non rispose. Si alzò in piedi dallo sgabello, ringhiando come un cane rabbioso, poi si voltò verso il gruppetto dal quale il brusio proveniva. «Avete finito di spettegolare?!» urlò, facendo sobbalzare il robot.

I fongoid seduti al tavolo tacquero e spostarono le loro attenzioni su Red X. I loro sguardi erano talmente adirati che a Cyborg vennero i brividi e si domandò come il moro riuscisse a sostenerli senza esserne intimorito.

«Non sono sordo, vi sento mentre dite che vorreste vedere me e i miei compagni morti stecchiti!» proseguì X, stringendo una mano a pugno. «Beh, la volete sapere una notizia bomba? Nessuno di noi vuole restare in questo buco di paese un solo secondo di più, ma siamo costretti a farlo, perché quel drogato del vostro sciamano ha detto che la nostra amica è La Fottuta Salvatrice, qualunque cazzo di cosa significhi!»

Cyborg sbiancò quando vide uno dei fongoid alzarsi. Lo riconobbe all’istante, era Galvor, quello che più di tutti non tollerava la loro presenza. «Che cos’hai detto riguardo il nostro villaggio e il nostro sciamano?» domandò con tono rabbioso, se Cyborg avesse ancora avuto la pelle, se la sarebbe sentita accapponare.

«Hai sentito Palla di Neve!» sbraitò X per tutta risposta. «Odio questo posto, odio tutti voi, odio il vostro fottuto sciamano e il vostro fottutissimo re! Ma soprattutto...» Lo indicò. «... odio la tua cazzo di faccia!»

«X, smettila! Sei ubriaco!» sussurrò Cyborg cercando di farlo ragionare, tirandolo per la camicia.

«Non mi toccare, bullone umano!» gridò l’altro allontanandogli la mano con uno schiaffo, per poi riportare l’attenzione sui fongoid e fargli cenno con le mani di farsi avanti. «Vuoi liberarti di noi? Bene, fatti sotto, fammi vedere di che pasta sei fatto!»

Galvor emise un verso gutturale, simile ad un ringhio. «Rimangiati immediatamente ciò che hai detto sul nostro conto!»

«Baciami il culo!»

«RIMANGIATELO!»

«COSTRINGIMI!»

Il fongoid girò intorno al tavolo, sotto gli sguardi dei suoi amici e si mise di fronte ad X, a pochi metri di distanza da lui. Il silenzio era calato nella locanda, gli occhi erano fissi su loro due, la tensione era palpabile, l’aria era satura di elettricità.

«Hai un’ultima possibilità, shlaym, ritira subito tutto quello che hai detto!» ringhiò ancora Galvor, piantandosi gli artigli da rapace nei palmi.

«Mi stai minacciando forse? Perché non lasci che siano i fatti a parlare e non chiudi quella fogna?!»

«Signori, vi prego, non commettete idiozie!» supplicò Bardock, quello che sicuramente meno di tutti voleva scoppiasse una rissa.

Anche Cyborg si alzò dalla sedia e si frappose fra i due. «Finiscila X! Forza, torniamo al palazzo! E tu...» Si voltò verso di Galvor, cercando di farlo stare calmo con un cenno della mano. «... scusalo, ti prego. Non è in sé, non pensa davvero quelle cose.»

«Sì che le pensò!»

«No, non le pensi!» tuonò Cyborg fissando X con rabbia. «Chiudi la bocca, o giuro che se qualcuno ti prenderà a calci entro la fine della giornata, quello sarò io!»

X serrò la mascella e lo fissò con quanto odio possedesse in corpo. Cyborg attinse a tutta la sua forza di volontà per poter reggere il suo sguardo.

«Pensa a tuo figlio, pensa ad Amalia, per l’amor del cielo, pensa a qualsiasi cosa, ma non metterti a litigare con lui!» Cyborg quasi lo implorò, questa volta. E le sue parole sembrarono avere effetto. La tensione sulle spalle di X si allentò, smise di serrare pugni e denti, il suo sguardo si ammorbidì e chinò la testa.

Il robot sospirò di sollievo. Parlare della tamaraniana mora era sempre una strategia vincente. «Forza, andiamocene.»

X annuì senza guardarlo, ancora con il capo chinato. Era sbronzo come una spugna, ma un minimo di lucidità sembrava ancora avercelo.

Cyborg lo obbligò quasi a camminare, spingendolo per le spalle. Si voltò verso Bardock e lo ringraziò per le bevande, poi passarono accanto a Galvor, che si scansò per lasciarli passare, fissandoli quasi disgustato. Il robot tentò di scusarsi ancora a nome di X, ma il fongoid liquidò la faccenda con un gesto della mano. «Sparite dalla mia vista.»

«V-Va bene.» Cyborg spinse ancora X, che seppur riluttante si lasciò guidare.

L’uscita della locanda si fece vicinissima e Cyborg poté sospirare di nuovo di sollievo.

«... prima che sia troppo tardi!»

Non appena Galvor pronunciò quelle parole, X si fermò di colpo e diventò più pesante di un macigno da spingere. Si voltò verso il fongoid, guardandolo con uno sguardo quasi da psicopatico. «Che intendi dire?» domandò con voce cavernosa.

«X, lascia perdere!» esclamò Cyborg ormai esasperato.

«Sì, lascia perdere moccioso, torna ad ingravidare quella gandz della tua fidanzata» lo incalzò ancora Galvor, suscitando l’ilarità dei compari. Qualunque cosa "gandz" significasse, non doveva essere un complimento.

Red X si mordicchiò l’interno della guancia, osservando i fongoid che si facevano beffe di lui. Il suo sguardo era divenuto indecifrabile. Cyborg deglutì. Avevano offeso Amalia e fatto battute sulla sua gravidanza. Una tempesta stava per scoppiare e Cyborg doveva agire. «X, ti prego...»

Il moro annuì, interrompendolo. «Sì, sì, ho capito.» Si voltò di nuovo verso l’ingresso e fece per dirigersi in quella direzione. «Ho capito...» Si girò di nuovo verso di Galvor. «... che quello stronzo vuole una bella lezione!» urlò prima di liberarsi dalla presa di Cyborg e saltare addosso all’alieno.

«Maledizione X! FERMO!» urlò il robot disperato mentre Galvor gridava di sorpresa e si ritrovava a ruzzolare sul pavimento di legno lucido insieme al ragazzo.

Bardock, i fongoid amici di Galvor, tutti gli altri clienti e lo stesso Cyborg scattarono, mentre Red X e la guardia reale continuavano a rotolare e si riempivano di cazzotti a vicenda. Una vera e propria bolgia si scatenò, le urla divennero talmente forti che richiamarono l’attenzione di chi si trovava in strada. Nel giro di poco tempo, la locanda si riempì come un uovo, il tutto mentre i due si spaccavano la testa a vicenda.

Cyborg non aveva mai visto Red X così furioso. Urlava, sferrava pugni, testate, gomitate, morse perfino la mano di Galvor, facendogliela sanguinare. Il fongoid, dal canto suo, aveva già procurato un bel po’ di lividi e tagli più e meno profondi sul volto del ragazzo e tentava alche di ferirlo con le proprie corna. La differenza d’età fra i due era mostruosamente alta, ma in quanto a stazza erano alla pari. Red X era alto, atletico, disponeva delle condizioni fisiche ideali per contrastare il fisico più possente di Galvor.

Il titan robotico cercò di fermarli, ma non fece altro che finire nel fuoco incrociato e beccarsi un pugno vagante, talmente forte che sentì la mascella vibrare, e fu scaraventato contro un tavolo. Si rialzò quasi immediatamente, massaggiandosi la testa. «Porca puttana...» rantolò, mentre quei due facevano letteralmente a pezzi ogni cosa. Avrebbero finito con l’uccidersi continuando di quel passo. Il robot cercò di fermarli di nuovo, ma gli amici di Galvor lo intercettarono, parandosi di fronte a lui e sgranchendosi le nocche.

«Ce n’è anche per te!» gracchiò quello in centro, con un sorriso sghembo sul volto. Era ubriaco fradicio, proprio come tutti i suoi amici e probabilmente lo stesso Galvor.

 Cyborg strinse i denti. «Merda...»

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Capitolo 9
*** La spiaggia dei ricordi ***


The Good Left Undone

IX

LA SPIAGGIA DEI RICORDI

 

Amalia camminava con passo leggero, le mani intrecciate dietro la schiena e il volto sorridente, in un’espressione di completo e totale relax. Il sole dai raggi caldi e morbidi le accarezzava il viso, il clima temperato e gradevole si attaccava alla sua pelle gratificandola, il profumo del meraviglioso fiore che una foingoid le aveva intrecciato fra i capelli la inebriava. Era molto simile ad un giglio, viola come i suoi occhi e dalle spore gialle, allacciato alla sua tempia destra. Lei con un fiore in testa, era difficile crederci. Un simbolo di pace, di amore, di calma e quiete come quello, su di lei, stonava terribilmente. Su Stella sarebbe stato molto più bello da vedere, magari uno verde acceso, che le mettesse in risalto i suoi occhi color smeraldo. Anche su Terra vedeva bene un bel giglio azzurro, mentre su di Corvina... non proprio. Ma Amalia non aveva avuto il cuore di rifiutare quel generoso dono da parte di quella fongoid e poi, doveva ammetterlo, non le stava tanto male. Aveva ricevuto molti complimenti per il suo aspetto, da donne, bambini, uomini e anche anziani. Erano tutti davvero gentili con lei, ma soprattutto, lo erano con sincerità. E non sapeva se essere felice di ciò oppure rammaricata.

Era passato quasi un mese, ormai. Viveva nell’agio, nell’allegria contagiosa dei fongoid, in quella radura rigogliosa e stupenda. La trattavano come una regina, aveva tutto quello che poteva chiedere. Assistevano la sua gravidanza, i fongoid più superstiziosi cercavano di preannunciarle come sarebbe stato il suo bambino nel futuro, lanciavano benedizioni... e tutto ciò le sembrava tremendamente sbagliato. Se avessero saputo cos’aveva fatto in passato, non sarebbero mai stati così buoni con lei...

Era anche vero, però, che dopo così tanti giorni i sensi di colpa avevano cominciato ad affievolirsi. Inoltre aveva cominciato a trascorrere il tempo insieme ai Titans e, beh, doveva ammettere che da entrambi i fronti la situazione era migliorata. Andava d’accordo praticamente con tutti loro, non c’era più astio, non riceveva più occhiate di sfuggita e, soprattutto, la consideravano quasi come... una di loro.

Aveva trascorso un po’ di tempo con praticamente tutti, singolarmente, eccezion fatta per Corvina, la quale non era praticamente mai disponibile.

E poi c’era Red X...

Non appena pensò al suo pseudo fidanzato il buonumore svanì da dentro di lei. Ma non poté rimuginarci più di tanto perché nella periferia del suo campo visivo vide Terra seduta in riva al lago, sulla spiaggetta di ghiaia. Usava i suoi poteri per far ribalzare dei sassolini sull’acqua, si stava abbracciando le gambe e sembrava molto pensierosa. Amalia sorrise guardandola, dimenticandosi di quell’idiota di X, poi decise di andare a parlarle.

«Ehi» disse quando le arrivò accanto, sedendosi accanto a lei.

Terra si voltò sorpresa, poi, quando la vide, sorrise tenuamente. «Ciao Amalia...»

Lo disse con tono flebile, mogio e alla tamaraniana fu impossibile non cogliere questo particolare. «Qualcosa non va?»

La bionda sospirò e tornò a guardare lo specchio del lago. Era di un blu intenso, talmente pulito che rifletteva l’erba alta dei campi coltivati accanto ad esso e i palazzi che vi si affacciavano. Rifletteva perfino le due ragazze, in tutti i loro dettagli. Il vestito bianco ricamato di Amalia sembrava fatto di neve candida, anche i pantaloncini e la maglietta di Terra erano riprodotti fedelmente, così come i loro capelli, occhi e le carnagioni abbronzate. Adesso che ci faceva caso, la bionda aveva indosso i suoi abiti di sempre e non quelli regalatole dai fongoid. Forse era più comoda così, o era pura scaramanzia.

«Beh...» cominciò lei scostandosi un ciuffo biondo dietro l’orecchio, esitando. Si mordicchiò un labbro, pensierosa, poi sospirò una seconda volta, affondando il mento tra le ginocchia. «È che... mi manca Corvina...»

«Oh...» replicò Amalia, sorpresa. Ricordò solo in quel momento che Terra e Corvina erano ben più che amiche e lei era l’unica a conoscenza di quel fatto. E realizzò anche che vedere la maga tre volte al giorno per nemmeno un’ora alla volta doveva essere dura per Terra. Bastò vedere come sembrava afflitta per capirlo. Aveva perfino l’aria di aver pianto, adesso che la guardava meglio. «Mi dispiace» mormorò, non trovando parole migliori.

Terra nel frattempo usò i suoi poteri per far rimbalzare un altro sassolino sull’acqua. Entrambe lo fissarono mentre schizzava sulla superficie del lago, compiendo ben otto salti prima di affondare. Calò poi il silenzio tra le due, ma Amalia non lo trovò fastidioso. Forse perché dietro di loro i fongoid proseguivano con le loro compravendite e chiacchiere allegre, forse perché quel momento lo stava trascorrendo con una ragazza che aveva imparato a chiamare compagna.

«Entrambe ci eravamo dette che non ci saremmo mai separate...» riprese a parlare Terra, prima di far rimbalzare un altro sassolino. Nove rimbalzi. «... e invece...»

Amalia si sorprese ancora di più quando la bionda cominciò ad esporre meglio il problema senza troppi ripensamenti. Certo, la tamaraniana mora sapeva che tra loro due c’era qualcosa, ma se si fosse trovata al suo posto non avrebbe parlato tanto apertamente nemmeno con lei.

«Ci vediamo a malapena durante il giorno, riusciamo a stento a parlare... non so quanto tempo sia passato dall’ultima volta che... beh...» Si interruppe, arrossendo, per poi guardare Amalia. «... insomma... ci siamo baciate o...»

Malgrado la tristezza di Terra, Amalia ridacchiò. «Tranquilla, ho capito.»

La bionda riuscì a sorriderle di nuovo, poi tornò a guardare il lago. «Lei c’è, è lì, al palazzo, a pochissima distanza da me. Potrei vederla tutte le volte che voglio, potremmo parlare in qualsiasi momento, non ci siamo separate per davvero in poche parole... ma è come se lo fosse.» Le sue labbra  tremolarono, mentre abbassava lo sguardo. «Vedo Robin e Stella, vedo te ed X, vedo anche coppie di fongoid sposate... vedo la felicità nei vostri occhi... e ciò mi fa sentire peggio di quanto già non stia. Mi manca Corvy... la mia Corvy...»

Io ed X..., pensò Amalia, con un moto di riluttanza dentro di sé. Terra poteva stare tranquilla, non era l’unica che non riusciva a godersi la compagnia della persona che amava, ma la tamaraniana decise di non dirglielo. Non voleva caricarla ulteriormente di preoccupazioni e problemi. Soffriva già abbastanza per la sua lontananza da Corvina, non era il caso di deprimerla ulteriormente con i suoi problemi di coppia con l’ex criminale.

«Posso domandarti come vi siete messe insieme?» domandò invece, sperando così di riuscire a tirarla su di morale, facendola parlare di come il suo amore per Corvina fosse sbocciato. E, in effetti, era anche tremendamente curiosa. Cosa poteva aver spinto quelle due ad innamorarsi e a dimenticarsi dei ragazzi?

Il sorriso nostalgico che apparve sul volto di Terra fu la dimostrazione che la tattica di Amalia aveva funzionato.

«Beh...» cominciò la bionda, guardando un punto non ben precisato davanti a sé. «... è cominciato un paio di anni fa’. Ero una ragazzina piuttosto... esuberante, euforica, facilmente impressionabile. Ero da poco entrata a far parte dei Titans e tra alti e bassi diciamo che me la cavavo abbastanza. Il mio punto di riferimento nella squadra era Beast Boy. Eravamo... molto amici. Ridevamo, scherzavamo, ci allenavamo insieme, uscivamo, insomma... eravamo affiatati. Ci sono stati anche momenti in cui, forse, ho pensato a lui perfino a qualcosa di più che un amico... finché, un giorno, io e Corvina ci ritrovammo ad inseguire un criminale, un semplice ragazzo armato, nulla di che.»

Prese una breve pausa, per inspirare profondamente. «Tra me e lei non correva buon sangue, il perché lo puoi immaginare. Eravamo come il giorno e la notte, il bianco e il nero. Io ero euforica, chiassosa, infastidivo spesso e volentieri il suo carattere molto più calmo e quieto. Non parlavamo quasi mai e quando accadeva lo facevamo per litigare e basta. Fino a quando lei non mi salvò la vita, proprio mentre inseguivamo quel ragazzo. Ora che ci penso meglio, non credo di aver mai corso un pericolo vero e proprio. Avevo una pistola puntata alla testa, ma avrei potuto facilmente liberarmene, se solo non fossi stata ancora un’incapace con i miei poteri. Certo, me la cavicchiavo, ma mai come adesso... » Sollevò una mano e per dimostrare la veridicità della sua affermazione diversi sassolini la seguirono nel movimento, spostandosi sopra il lago e trasformandosi in un piccolissimo tornado, che poi si dissolse in acqua.

«Ero con le spalle al muro, ma poi lei è arrivata e ha steso quel tizio... salvandomi» riprese a parlare. «Solo che poco prima quel tizio si era preso gioco di me per... insomma... all’epoca non ero molto avvenente o sviluppata, lui mi ha deriso per quel motivo  e Corvina... aveva sentito tutto. E quando la minaccia era sventata... me lo ha rinfacciato, però in maniera scherzosa. Sorrise perfino. E io l’avevo vista sorridere... quante volte, una? Due? Fu una bella sorpresa per me... e mi piacque molto. A quel punto mi sono messa a scherzare anche io su ciò che quel tizio mi aveva detto. Della serie, "se non puoi batterli, unisciti a loro". Facemmo battute, spostammo anche l’argomento su di lei, ridemmo insieme.»

Terra allargò il sorriso. «La prima vera volta in cui ridemmo insieme, in cui parlammo senza litigare... non dimenticherò mai quel giorno. L’avevo sempre reputata come una rompiscatole, una ragazza che non sapeva divertirsi, che non sapeva ridere... una strega, in poche parole. E invece quel giorno mi sono ricreduta. Anche lei era una ragazza come me, anche lei sapeva come ridere, sapeva essere spiritosa... ed era... molto carina, quando rideva. Sembra... sembra quasi una follia questa, però... la vidi sotto tutta un’altra luce. Era spiritosa, era bella, era piacevole ridere insieme a lei, era molto piacevole, molto più di quanto con BB non sarebbe mai stato. Ed era una ragazza piena di risorse, sveglia, intelligente, con la risposta pronta a tutto. Aveva carisma, personalità, la sua presenza era rassicurante, infondeva coraggio. Era forte. Molto forte. All’inizio ero consapevole di questo fatto, sapevo che Corvina apparteneva ad un livello molto più alto del mio e, beh, ero gelosa. Pensavo che una ragazza apatica e noiosa come lei non meritasse simile forza. Ma dopo aver visto come anche lei sapeva ridere e scherzare, ho capito che invece meritava di esserlo. E... volevo anche che... che non smettesse più di ridere o sorridere. Volevo che continuasse a farlo, in mia compagnia. Volevo... che restasse così. Io... ho capito che... che il mio astio nei suoi confronti era sbagliato. L’ho ammirata, quel giorno, l’ho ammirata davvero molto. E... ho capito che volevo diventare sua amica, a tutti i costi. E poi, nel giro di poco tempo... questo sentimento si è trasformato in qualcosa di più grosso. Nemmeno io, tutt’ora, riesco a spiegarmi come la semplice ammirazione si sia trasformata in amore, ma so per certo che non me ne pento. Assolutamente no. Sono felicissima di essermi innamorata di lei.»

Il sorriso di Amalia si addolcì, colpita da quella breve ma intensa storia. «E poi? Lei come ha capito di amarti?»

L’espressione di Terra si fece più triste e rassegnata. «Questa è la parte più tosta. Sono accadute molte cose spiacevoli, sia a me che a lei, prima che il nostro sentimento si potesse affermare da ambo i fronti. Lei in particolare, ha avuto bisogno di diverse spinte, per ricambiare il mio amore. Dopo quell’episodio in cui ho capito di ammirare Corvina, le cose sono precipitate. Io... non ero mai entrata a far parte dei Titans per mia volontà. Agivo per un uomo... Slade, non so se ti dice niente.»

Amalia scosse la testa.

«Beh, era un uomo che mirava alla distruzione dei Titans. Io mi ero infiltrata tra loro, in poche parole. Ero una spia, una traditrice. Non ti racconterò tutta la storia perché non ha niente a che fare con la domanda che mi hai posto, comunque, dopo aver scoperto il mio tradimento e dopo la mia successiva redenzione, sono rimasta... "fuori dai giochi", per due anni. E quando sono tornata da Corvina, diciamo che non sono stata accolta a braccia aperte. È stato difficile spiegarle tutto quanto, ma ce l’ho fatta. Le ho raccontato di amarla, le ho fatto una vera  e propria dichiarazione. Lei era sconvolta. Non capiva, non accettava, non... non mi ricambiava, semplicemente. Come se non bastasse, mentre io ero stata via, lei aveva cominciato ad interessarsi a Beast Boy. E poi, insomma, se arrivasse una ragazza che dice di amarti, tu come la prenderesti? Una con cui tra l’altro hai condiviso momenti tutto meno che felici?»

«Immagino che rimarrei sconvolta...» mormorò Amalia, anche se aveva prestato poca attenzione alle ultime parole. Era rimasta al fatto che Terra era una traditrice. Anche lei aveva avuto rapporti negativi con i Titans, allora. E, proprio come lei, era lì, era una di loro. Improvvisamente, Amalia si sentì più simile a lei di quanto mai avrebbe potuto immaginare. E capì di non essere sola. E capì anche che, se Terra era riuscita a voltare pagina, cosa impediva anche a lei di riuscirci? La ragazza bionda seduta davanti a lei, che non aveva mai visto in vita sua, brillò sotto tutta un’altra luce ai suoi occhi. Sorrise inconsapevolmente. Fu la prima volta in assoluto nella sua vita che non si sentì sola, non sotto quel punto di vista, perlomeno. Anche Red X aveva avuto un passato travagliato, ma quello di Terra era quello che più si avvicinava a quello della tamaraniana. Amalia capì ben presto che se cercava un’amica, quella bizzarra manipolatrice del suolo faceva al caso suo.

Terra nel frattempo piegò lanciò un’altra pietra. Questa volta attraversò rimbalzando tutta la superficie del lago e si ritrovò dall’altra sponda. «Esattamente» rispose all’affermazione della mora. «Comunque sia, è stato proprio grazie, o a causa, di questa loro pseudo relazione, che sono riuscita a suscitare il suo interesse nei miei confronti. Più precisamente, il giorno del tuo rapimento e quello di Stella. È stato quel giorno che tutto è cambiato.»

«Così recentemente?» domandò la tamaraniana incredula.

La bionda annuì, accennando un sorriso. «Eh già... sono accadute così tante cose che qualcuno potrebbe perfino scriverci un libro... In ogni caso, quel giorno, quando BB mi rivide, beh... a quanto pare lui non aveva mai dimenticato i nostri trascorsi, perché mandò letteralmente al diavolo ciò che stava sbocciando tra lui e Corvina, per me. E quello fu proprio un colpo basso per Corvina...»

Amalia schiuse le labbra, sorpresa da quel comportamento così schifoso da parte di BB. «Davvero? BB ha fatto questo?»

«Già. È stata una bella sorpresa per tutti, a dire la verità...»

La tamaraniana si stupì parecchio di quella rivelazione. Ancora di più si stupì quando si rese conto della sua stessa reazione. Era sempre stata convinta che BB fosse un bonaccione un po’ infantile, ma mai fino a quel punto. Se fosse stata l’Amalia di qualche anno prima probabilmente se ne sarebbe infischiata, ma essendo cambiata, essendo maturata ed avendo mutato il suo carattere dapprima crudele, si sentì sinceramente presa in contropiede da quel racconto. «Cavolo... che... verme...» Trattenne all’ultimo parole ben peggiori.

Terra scrollò le spalle. «Beh... Corvina ci è rimasta male all’inizio, ma adesso sia lei che io siamo felici, e ciò ci basta e avanza.» Sorrise timidamente. «Anzi, è probabile che se ciò non fosse accaduto, con Corvy non avrei mai avuto una chance...»

«Quindi... è stato grazie a Beast Boy che vi siete messe insieme?»

«Più o meno» rispose Terra, scostandosi un’altra ciocca di capelli ribelle da davanti agli occhi. «Diciamo che sono riuscita a farle capire che il mio amore era sincero e che mai e poi mai l’avrei delusa o abbandonata. Le ho fatto capire che... lei era tutto per me. E così, mentre eravamo sulla nave diretti al Parco Marktar, dopo l’avventura di Tabora, lei ha deciso di darmi una possibilità e così abbiamo... beh...» La bionda diventò nuovamente rossa come un peperone. «... puoi capire da te cosa è successo...»

Amalia ridacchiò di nuovo, vedendola arrossire in quel modo. «Accidenti, siete subito andate al sodo, eh?»

La bionda arrossì ancora di più, per quanto possibile, e fece di tutto per non incrociare gli occhi divertiti della tamaraniana. «Ecco... insomma...»

«E tu come ti sei sentita?» domandò ancora Amalia, intenerendo la sua espressione.

Gli occhi di Terra si colmarono di nostalgia, mentre un altro lieve sorriso scacciava il rossore delle goti. «Io... non credo di aver mai vissuto momenti meravigliosi come quello. Le parole non mi basteranno mai per descrivere l’emozione che ho provato quel giorno. È stato... magnifico, non mi viene in mente altro.»

La tamaraniana annuì. «Ma quindi i ragazzi non ti piacciono?»

Terra si voltò verso di lei inarcando un sopracciglio. «Perché me lo chiedi?»

Amalia esitò, realizzando che forse quella domanda era un po’ eccessiva. «No, niente, era solo... curiosità. Se non vuoi rispondere non c’è problema.»

La bionda la guardò perplessa ancora per un momento, poi, quando Amalia pensò che non avrebbe risposto, riportò lo sguardo sul lago e sorrise di nuovo. «È un po’ complicato. Direi... sì e no. Nel senso che i ragazzi mi piacciono, basti pensare al mio vecchio rapporto con BB. Ma ora che sto con Corvina, non riesco ad immaginarmi con uno del sesso opposto al mio. Perciò, se la mia più grande paura dovesse avverarsi e dovessi rompere con lei... credo cercherei un’altra ragazza.» Le labbra le si arricciarono in un’espressione scherzosa. «O forse mi suiciderei direttamente.»

Forse fu un gesto fuori luogo, ma ad Amalia venne da ridere sentendo quell’affermazione. «Accidenti, come sei pessimista...»

Terra si lasciò ben presto contagiare, e ridacchiò. Parlare con Amalia sembrava averla aiutata per davvero. Finalmente, la tristezza che fino a poco prima l’aveva attanagliata sembrava scomparsa, lasciando posto ad una molto più genuina giocosità. Poter esprimere ciò che con altri era costretta a tenere nascosto le aveva incredibilmente giovato.

 Quando le risate cessarono, Amalia decise di chiudere l’argomento con un’ultima domanda. Aspettò di incrociare lo sguardo di Terra, poi le rivolse un’occhiata carica di maliziosità. «E di me cosa pensi?»

«Cosa?»

«Le ragazze ti piacciono, no? E allora di me cosa pensi?»

La faccia che fece Terra era esattamente ciò che Amalia sperava di vedere. Rise di nuovo, guardando la sua espressione stralunata e le sue guancie arrossarsi per l’ennesima volta. La bionda distolse nuovamente lo sguardo da lei e lo evitò come la peste, quasi temesse che guardandola potesse trasformarsi in una statua di pietra. «Ehm... p-posso evitare di rispondere?»

«No, questa volta sei obbligata a farlo.»

«Beh, ecco... insomma...» La bionda si tormentò le mani, tenendo gli occhi rigorosamente incollati ai propri guanti marroni. «... sei... sei carina...»

«Oh, ma grazie!» esclamò Amalia con ilarità, per poi avvicinarsi a lei e sfiorarle appena la guancia con un bacio. «Anche tu sei carina...»

Terra sobbalzò quando se ne accorse, ci mancò poco che gridasse per la sorpresa. «A-Amalia...» sussurrò guardandola quasi atterrita, toccandosi la guancia consacrata. La tamaraniana ridacchiò per l’ennesima volta e si allontanò di nuovo da lei, chiudendo le palpebre e lasciandosi coccolare dal sole. «Rilassati, volevo solo punzecchiarti un po’.»

«Oh... o-ok...» biascicò l’altra ragazza, non sembrando molto convinta.

Amalia se ne accorse e cancellò il sorriso dalla propria faccia. Forse aveva un po’ esagerato, facendo leva in quel modo sui gusti sessuali di Terra. «Ehi, tutto bene? Ti ho per caso offesa?»

«No, no, è solo che...» Terra abbassò la testa, sembrando quasi afflitta. Amalia sentì le viscere contorcersi, temendo di averla offesa crudelmente, ma poi la bionda sorrise maliziosa e drizzò di colpo la testa, per poi avvicinarsi muovendosi sinuosa e fissarla seducente. «Mi sto innamorando di te...»

Tocco ad Amalia sentire le guancie andare a fuoco. Indietreggiò di scatto, quasi spaventata. «Cosa?!»

La situazione si ribaltò. Questa volta fu Terra a ridere di gusto e ad allontanarsi da lei, per poi stravaccarsi sulla spiaggetta di ghiaia. «Fregata!»

Il cuore della tamaraniana riprese a battere. Dopo un attimo di stupore iniziale, quasi si arrabbiò con Terra. «Cavolo, mi hai fatto venire un infarto!»

La bionda ridacchiò di nuovo. «Così impari a baciarmi a tradimento.»

Amalia storse il naso, poi lasciò perdere tutto con un sospiro. Se l’era meritato, in effetti. Non poteva continuare ad infastidire le persone a suo modo senza poi ricevere pan per focaccia. Sorrise di nuovo, accomodandosi sulla ghiaia come Terra aveva fatto. «Ci avevo quasi creduto...»

«Sono una brava attrice» spiegò Terra.

«Ho notato...»

Le due si guardarono di nuovo, poi risero insieme per l’ennesima volta. Sì, Terra era una forte, aveva gusti sessuali particolari, ma ciò non influiva minimamente sul suo carattere. Era spiritosa, simpatica e gentile, sarebbe stata un’ottima compagna di squadra, nonché amica, Amalia ne era certa.

Le due si avvicinarono e rimasero sdraiate sul letto di pietroline, a guardare le nuvole, ad indicare quelle con le forme più stravaganti e a chiacchierare, quasi come due bambine amiche da sempre. Fu gratificante per entrambe il poter parlare in quel modo con qualcuno. L’alchimia tra le due funzionava alla perfezione, forse era per via del fatto che erano quelle che avevano avuto i maggiori problemi con i Titans e che avevano suscitato l’odio di non poche persone. Incontrare qualcuno che si trovava nella loro stessa condizione fu un ottimo modo per far smettere loro di pensare ai loro brutti momenti e cercare di rilassarsi comportandosi da ragazze normali.

Probabilmente sarebbero rimaste a lungo insieme, godendosi la compagnia l’una dell’altra, ma un trambusto improvviso arrivò dalla strada, costringendole entrambe ad alzare la schiena dal suolo. Si voltarono e videro un gruppo ingente di fongoid dirigersi verso la locanda, dalla quale provenivano suoni dal dubbio significato, occultati dalla ressa generale.

Terra alzò un sopracciglio dorato. «Che succede?»

Amalia scosse la testa. «Non ne ho...» Un barlume di pensiero le illuminò la mente. Red X. Lui era sempre alla locanda. Non ci mise molto a fare due più due. Si alzò di scatto in piedi. «Andiamo a vedere!» Cominciò a correre, non attendendo nemmeno la risposta di Terra, non sapendo nemmeno se la bionda si era messa a seguirla o no.

Voleva sbagliarsi. Voleva con tutto il cuore sbagliarsi, scoprire che ciò che stava sospettando fosse errato, che la causa di tutto quel trambusto non fosse X come credeva.

Anche perché se fosse stato davvero così, se le sue supposizioni si fossero rilevate veritiere, per lui sarebbero stati guai. Guai seri.

 

 

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Capitolo 10
*** Il tempio ***


The Good Left Undone

X

IL TEMPIO

 

Corvina era seduta in camera sua, sul bordo del letto, e fissava il muro bianco talmente assorta nei propri pensieri che sembrava stesse osservando la cosa più interessante di quell’universo.

La Salvatrice. Lei era La Salvatrice. Un nominativo che per diversi giorni l’aveva lasciata con un enorme punto interrogativo in testa e che solamente dopo diverso tempo aveva avuto chiarimenti. Perfino in quel momento, immersa nella comodità della propria stanza, sul letto a baldacchino, circondata da mobilio antico e pregiato quali cassettiere e armadi, continuava a ripensare a quel giorno, quel giorno in cui Canoo le aveva raccontato tutto quanto.

 

***

 

«Vieni con me, te ne prego» la invitò lo sciamano, con tono gentile, ma che mostrava evidenti tracce di imperiosità. Canoo era probabilmente la persona con cui aveva trascorso più tempo, negli ultimi giorni, anche più dello stesso Alpheus. Il re, infatti, era pur sempre il sovrano di quel luogo e aveva le proprie mansioni da svolgere.

Lo sciamano era andata a prelevarla direttamente in camera sua, domandandole di seguirlo. Fino a qualche momento prima, la ragazza era rimasta in preda a pensieri e preoccupazioni, si stava letteralmente distruggendo per capire cosa significasse essere La Salvatrice, perché proprio lei e, soprattutto, quando sarebbe riuscita a parlare in santa pace con i suoi amici, o dare un semplice bacio a Terra...

 Era fuggita dal palazzo diverse volte, con i propri poteri, ma nel villaggio non poteva girare inosservata che i fongoid si accalcavano su di lei, parlando e domandando frasi e raffica, impedendole di concepire il più semplice dei pensieri. Canoo e Alpheus, intuendo che non potevano permetterle di fuggire ancora a lungo, avevano deciso di scoprire le loro carte. Lo sciamano, infatti, mentre uscivano dal palazzo le disse che stava proprio per illustrarle il perché lei fosse La Salvatrice.

La prima cosa che Corvina domandò, fu quella di ricevere dei vestiti un po’ più... non sapeva nemmeno lei come dire, un po’ più consoni al suo stile alquanto riservato, visto che andava in giro praticamente seminuda. Indossava un semplice reggipetto nero, le cui coppe erano agganciate tra loro da un anellino color oro, un semplice paio di quelli che avevano tutta l’aria di essere dei cortissimi slip, sempre di colore nero, coperti davanti e dietro tuttavia da due drappi del medesimo colore appesi ad una cinta. Le sembrava di essere una cavernicola, conciata in quel modo. Quando aveva domandato il perché di quegli indumenti, le avevano semplicemente risposto: "Perché così è sulla parete".

Ora, di qualsiasi parete stessero parlando, Corvina dubitava che fosse una di quelle bianche immacolate del castello. Come se non bastasse, tutte le mattine alcune fongoid, cameriere di Alpheus, le rifacevano il trucco. Ma non era semplice trucco, no, le pitturavano letteralmente la faccia. E la cosa la infastidiva e non poco. La dipingevano di stranissimi simboli, tutti di colori diversi, sembravano le lettere di uno strano alfabeto. Alcuni simboli sembravano delle onde, sia per il modo in cui erano disegnati sia per via del loro colore azzurro, altri sembravano più dei raggi di sole, per via del colore giallo, rosso o arancione. In ogni caso, Corvina si sentiva letteralmente umiliata da simili cose, nonché spaventata. Le ricordavano molto i simboli che le erano apparsi poco prima dell’ascesa di Trigon, anche se questi erano molto meno minacciosi e, da ciò che i fongoid avevano detto, erano atti a scacciare la malasorte, perciò non doveva preoccuparsene. Ed oltretutto, erano "come quelli della parete".

Corvina sospirò. Le sembrava di essere finita in un mondo nel quale lei era una totale estranea. Ah, no, era successo per davvero. Peggio ancora.

Si ritrovarono nel cortile, sotto la luce del sole accecante. Socchiuse gli occhi infastidita, mentre la calda temperatura avvolgeva il suo corpo seminudo come un caldo abbraccio che le infuse un dolce tepore. Il suo sguardo cadde subito sulla postazione per i falò in mezzo al porfido bianco. Fino a quel momento non ci aveva pensato, ma realizzò che era proprio per causa sua che erano giunti fino a lì. Se solo non avessero seguito la nube lasciata da quel fuoco...

Si voltò verso Canoo, perplessa. «Posso domandarti, almeno, perché accendete i falò qui davanti al palazzo?»

«Mh? Oh, sì. Quelli servono per i sacrifici» replicò lui in tutta tranquillità cominciando a camminare usando il proprio scettro per appoggiarsi.

«Cosa? Sacrifici?» Corvina fu costretta a seguirlo, se voleva saperne di più. Il fongoid non era certo un ragazzo, ma procedeva a passo davvero spedito. «Che significa che è per i sacrifici?»

«Capirai» replicò l’alieno senza nemmeno voltarsi.

Corvina ringhiò sommessamente. "Capirai". "Ogni cosa ha suo tempo". "Non ora". Quelle ormai erano le parole che aveva cominciato ad odiare con ogni fibra del suo essere. Ogni volta che poneva una domanda, che fosse a Canoo, ad Alpheus, o a qualsiasi fongoid incontrasse, riceveva per risposta una di quelle tre alternative. Era frustrante.

Scoprì ben presto che Canoo si stava dirigendo dietro il palazzo. La ragazza si accorse per la prima volta di una piccola stradina acanto all’edificio, che conduceva ad una rampa di scale esattamente affacciata sul retro della struttura. «Dove stiamo andando?» domandò perplessa.

«Lo vedrai» dissero insieme. Il fongoid si voltò sorpreso verso di lei e la ragazza scrollò le spalle. «Ormai le vostre risposte le conosco a memoria.»

L’alieno la guardò perplesso per un momento, poi ridacchio sommessamente. «Sei una ragazza molto in gamba. Sì, non mi sorprende affatto che tu sia La Salvatrice.»

Corvina ricacciò in gola le domande a riguardo che automaticamente stavano sorgendo e si concentrò solamente a seguire l’alieno. Raggiunsero le scale dietro il palazzo, le salirono e giunsero in una piazzola ricoperta da erba verde e corta. Si ritrovarono di fronte ad un altro edificio, da sempre sfuggito alla vista della maga. O più che altro, ne vide la facciata, visto che poco oltre ad esso si trovava un’alta parete rocciosa. Sembrava il dorso di una montagna. L’edificio doveva essere stato scavato nella roccia, sembrava molto antico ed emanava un bizzarro alone di mistero e potere che non fu difficile da cogliere per la maga.

«Questo è il tempio del villaggio» spiegò Canoo, guardandolo quasi con aria compiaciuta. «Al suo interno otterrai tutte le spiegazioni che chiedi. Coraggio, seguimi.» Il fongoid avanzò e alla ragazza non toccò altro che andargli dietro.

L’ingresso era costituito da una porta di cemento, situata sulla facciata. Corvina osservò i dettagli di quella costruzione, notò che era davvero un bell’edificio, dal punto di vista architettonico. Sembrava antico, molto antico, lo stile artistico le ricordava molto il gotico, con tutte quelle corte guglie che spiccavano davanti alla parete rocciosa. Canoo si fermò sull’ingresso. La porta era sigillata, sembrava anche solo impossibile pensare di poterla aprire in qualche modo. Eppure, allo sciamano bastò appoggiarci contro la pietra dello scettro, essa si illuminò di azzurro e dopo uno scossone che fece tremare la terra l’ingresso si aprì, scorrendo verso l’alto.

Corvina osservò la scena a bocca aperta. Magia. Quella era senz’altro magia. Quello scettro non era un semplice bastone da passeggio.

«Questo tempio è stato costruito da un’antica razza ormai quasi estinta. Esiste su questo pianeta da eoni, da molto tempo prima l’arrivo di noi fongoid» spiegò Canoo. «I suoi ideatori si chiamavano Zoni. Sono loro, le creature che veneriamo. Loro sono i nostri dei. Coraggio, Salvatrice, vieni.»

Il fongoid avanzò e la maga lo seguì, sempre più sorpresa e ammirata. Giunsero nel corridoio d’ingresso. Era buio, freddo e odorava di chiuso. Si insinuarono al suo interno e pochi metri dopo la porta, questa si richiuse da sola. Corvina trasalì, poi dopo un altro scossone il buio invase il corridoio. Per un momento l’unico rumore che si sentì fu quello del respiro della ragazza, poi Canoo batté lo scettro a terra e diverse decine di torce appese alle pareti si accesero, illuminando la zona di una flebile luce arancione. La maga riuscì a sentire su ogni centimetro della propria pelle la magia che lo sciamano emanò dal proprio strumento per compiere tale gesto. Forse capì perché i suoi poteri non avevano funzionato e non era riuscita a percepire la presenza dei fongoid, il giorno del suo arrivo in quel villaggio; in qualche modo, gli alieni avevano mascherato la loro presenza, forse quelle gemme che portavano al collo emanavano una sorta di barriera magica che contrastava i suoi poteri. Realizzò poi che le pareti, il soffitto e il pavimento erano di roccia completamente levigata, senza alcuna imperfezione. La sua teoria era azzeccata, quel luogo era scavato nella parete di quella montagna. E di certo non con metodi naturali. Chiunque fossero stati questi Zoni, erano molto più avanzati dei fongoid.

Camminarono per quelle che a Corvina parvero delle eternità. Canoo procedeva in rigoroso silenzio, il rumore del suo bastone che picchiettava il terreno mentre ve lo appoggiava era l’unica cosa che non lasciava cadere l’atmosfera nell’oblio. E poi, finalmente, giunsero al termine del corridoio, in un enorme sala, illuminata da altre torce e ricoperta da affreschi. Al fondo della sala, esattamente davanti a loro, si trovava una corta scalinata con in cima un altare, sempre scavato nella roccia, ornato da archi di volta, al cui centro spiccava un piccolo cubo di pietra, sembrava un piedistallo.

«È ora di raccontarti come stanno le cose» proclamò Canoo, avanzando verso l’altare.

Lo disse quasi con tono triste, spento. L’eco che si generò rese molto più nitida la malinconia emanata dalla sua voce. Corvina, osservando quell’ambiente così antico, così potente, così misterioso, osservando tutti quegli affreschi molto simili a disegni primitivi e raffiguranti scene che la inquietavano e non poco, come incendi, genocidi, tempeste, Basilischi Leviathan che aggredivano la popolazione, e notando il tono demoralizzato dello sciamano, realizzò che forse non voleva più essere a conoscenza della realtà. Ma ormai era tardi per i ripensamenti.

«Meglio cominciare dal principio.» Canoo salì sulle scale e giunse all’altare, dinnanzi al piedistallo cubico. «In questo tempio, anni or sono, era custodito un reperto sacro. I primi fongoid giunti su questo pianeta ritennero che fosse un cimelio appartenuto proprio agli Zoni, che per l’appunto sono stati i primi coloni di Quantus. Forse era stata costruita dal capo supremo degli Zoni in persona, il sommo Orvus. La chiamavano "La Reliquia".»

Corvina sgranò gli occhi. La Reliquia. Ebbe un flashback. La scena in cui Galvor accusava lei e i suoi amici, paragonandoli a dei predoni che in passato... avevano rubato proprio quel reperto. Schiuse le labbra sorpresa, cercò di parlare, ma Canoo la anticipò.

«Un oggetto dotato di potere immenso. Uno degli strumenti forse più potenti dell’universo. Non sappiamo se gli Zoni lo hanno abbandonato qui di proposito, o se se lo sono semplicemente dimenticato, ma grazie a quello strumento Quantus era prospero e fertile. Dava vitalità al pianeta. Era il cuore pulsante, del pianeta. Quando i primi fongoid giunsero su Quantus grazie ad un rudimentale velivolo, trovarono un’enorme distesa di praterie e terreni propizi all’agricoltura e all’allevamento. La vita qui era semplice e meravigliosa. Fu semplice per loro piantarvi radici. Forse non lo sai ancora, ma prima di scoprire Quantus, noi fongoid eravamo una razza nomade, che viaggiava di pianeta in pianeta alla ricerca del posto adatto per loro. Non avevamo una vera casa, molti di noi si erano sparpagliati per tutto l’universo. Eravamo separati e, molto probabilmente, prossimi all’estinzione. Ma grazie a questo pianeta le cose sono cambiate e anche noi abbiamo trovato il posto giusto per vivere. Dopo diversi secoli, la nostra popolazione vantava di centinaia di milioni di abitanti. Fino a quando, un giorno, non arrivarono i predoni.

«Un elevato numero di coloro che si definirono brave persone, a bordo di enormi vascelli spaziali. Immagino tu sia già a conoscenza della storia. Giunsero in questo villaggio, che all’epoca era la capitale del pianeta, ingannarono re Alpheus II, fingendo di avere bisogno di aiuto. Entrarono nelle grazie dei fongoid, fino a quando essi non si rivelarono ciò che erano: dei farabutti, degli assassini. Una notte depredarono il villaggio, mieterono centinaia di vittime. I fongoid non sono una popolazione di guerrieri, non lo sono mai stati. Per loro fu semplice sbaragliare le guardie. Rubarono tutto ciò che trovarono di valore, incendiarono i campi, uccisero gli animali... e, ritenendola un oggetto di valore, portarono via la Reliquia.

«Fu il momento più buio di noi fongoid. Accaduto decine di anni fa’, poco prima del decesso di Alpheus II, rimasto impresso nelle nostre menti come un marchio infuocato. Privato del proprio cuore pulsante, il pianeta cominciò a morire. Suppongo abbiate visto com’è diventato Quantus, venendo fino a qui. I campi rigogliosi che un tempo ricoprivano tutta la superficie del pianeta sono svaniti, rimpiazzati da una fitta giungla nella quale è impossibile poter vivere. Poi giunsero coloro che noi definimmo le Bestie, che poi, grazie a dei bestiari, scoprimmo essere i Basilischi Leviathan. Tutt’ora non sappiamo come nacquero, ma accadde. Supponiamo che essi abbiano sempre vissuto su Quantus e che la Reliquia li avesse semplicemente allontanati. E girare in quelle zone divenne ancora più pericoloso. La giungla si infittì, sempre più campi venivano abbandonati, sempre più animali morirono. Una grave carestia colpì Quantus. Giunsero perfino dei soccorsi in nostro aiuto, si chiamavano "Ranger".

«La paura che anche loro fossero impostori era alta, ma le alternative non erano molte. Dei milioni di abitanti che Quantus vantava, tra coloro che morirono e coloro che lo abbandonarono insieme ai Ranger, restarono poche centinaia di migliaia di unità. La situazione, col tempo, non fece altro che peggiorare. E a decine di anni da allora, la giungla ricopre ormai tutto il pianeta, eccetto la radura in cui il nostro villaggio è sorto. I fongoid che vedi tutti i giorni sono i pochi che hanno ancora avuto il coraggio di rimanere, di non abbandonare la propria terra. Per via di un semplice oggetto... guarda cosa è accaduto. Vieni, voglio mostrarti una cosa.»

Canoo smise di parlare e scese dalle scale, dirigendosi verso uno degli affreschi, probabilmente l’unico che Corvina non aveva notato. La maga era rimasta così concentrata su quella storia che aveva dimenticato il mondo intorno a sé. Era sconvolta. Un piccolissimo oggetto come quella Reliquia, aveva garantito prosperità ad un intero pianeta. Senza di esso, era scoppiata un’orribile crisi che aveva messo in ginocchio il popolo di fongoid.

Ma non era quello il punto. Il punto era che, se un oggetto come quello poteva dare prosperità ad un intero pianeta grazie al proprio potere, cosa avrebbe potuto combinare nelle mani sbagliate di un predone? Rabbrividì al solo pensiero.

Giunsero ai piedi dell’affresco. Canoo sorrise di nuovo, quando glielo mostrò. «Osserva bene.»

Corvina obbedì ed ammirò il dipinto. Era inquietante, come gli altri. Una parte, quella alla sua destra, raffigurava una terra bruciata, arida, distrutta, con sdraiati su di essa decine e decine di corpi senza vita. Non sapeva se quei corpi raffigurassero dei fongoid o meno, perché erano senza volti, senza vestiti e senza tratti fisici. Erano... anonimi. Nello sfondo, spiccava una foresta incendiata e un cielo rosso sangue. Poi esaminò la parte sinistra e questa volta sollevò le sopracciglia sorpresa. Il cielo era azzurro, limpido, con perfino raffigurato un arcobaleno. A terra, i prati erano verdi e rigogliosi e tutte quelle persone senza volto erano in piedi, raffigurate in gesti d’esultanza ed ovazione.

E poi, esattamente in centro, c’era un’altra di quelle figure anonime. Era grande praticamente come i due paesaggi, Corvina immaginò che fosse disegnata in prospettiva, per dare l’idea che fosse più vicina allo spettatore. Ma non fu quello a sorprenderla. Fu quando si accorse di com’era fisicamente, che sgranò gli occhi e sentì le gambe tremare.

Era una donna. Era senza volto, senza capelli, con il corpo bianco come quello delle altre figure e ricoperto da strani segni terribilmente famigliari. Ma alla maga fu facile intuire il suo sesso grazie al suo seno nascosto da un reggipetto nero, con un anellino al centro. A coprire il basso ventre aveva un drappo appeso ad una cinta. Anche quei vestiti le infusero un’orribile sensazione di familiarità. E, per finire, ciò che la sconvolse più di ogni altra cosa. La fronte di quella figura, non era completamente bianca. Esattamente al centro di essa... c’era una gemma viola.

Corvina finalmente capì a quale parete si riferivano quando parlavano dei suoi abiti e trucco. Urlò sorpresa, allontanandosi di qualche passo e toccandosi la gemma di Azarath d’istinto. Non era possibile, non poteva essere vero.

La voce dello sciamano si fece risentire, solenne, grave e maledettamente inquietante in quella circostanza: «Quando la crisi cominciò, i fongoid si rifugiarono in questo tempio, per chiedere sostegno agli dei. Videro gli affreschi, videro ciò che era raffigurato in essi e capirono che in qualche modo gli Zoni avevano predetto il futuro. Videro che qualunque razza avrebbe vissuto su Quantus era destinata a scomparire, tra incendi, genocidi e attacchi brutali dei Basilischi Leviathan. Il panico si insinuò nelle viscere di tutti loro, fino a quando non giunsero a questo affresco, raffigurante una donna con una gemma incastonata nel volto, ovata dalla popolazione sottostante.»

Canoo si voltò verso di lei. «La Salvatrice, colei che segna la fine del periodo buio di noi fongoid e ci restituisce le terre fertili. Colei che viene mandata in nostro aiuto dagli Zoni.» Le sorrise. «Sei tu. Il tuo arrivo metterà fine a questo periodo oscuro.»

La maga scosse la testa, negandolo più a sé stessa che allo sciamano. «No, no, non ha alcun senso! Questa storia... ha un sacco di buchi logici! Come facevano gli Zoni a sapere che questo giorno sarebbe arrivato, come hanno fatto a predire il futuro, perché non hanno fatto nulla per impedirlo e si sono semplicemente limitati ad aspettare decine e decine di anni per mandarmi, perché...»

«Tu hai idea del perché il vostro dio terrestre sappia ogni cosa sul vostro pianeta e nonostante abbia il potere per fermare le catastrofi, non lo fa ugualmente?» la interruppe Canoo, con tono gentile.

Corvina si bloccò di colpo, colpita da quelle parole come uno schiaffo. No, non lo sapeva. Non aveva la benché minima idea, del perché Dio, se mai fosse davvero esistito –aveva seri dubbi a riguardo –, non avesse mai fatto nulla per il popolo da lui creato.

Lo sciamano nel frattempo annuì, allargando il sorriso. «Non possiamo sapere le volontà degli dei, né perché facciano o no determinate cose. Le uniche azioni che noi possiamo compiere in risposta è assecondare il loro volere. Se Orvus e gli Zoni hanno predetto il futuro e hanno deciso di farci passare decine di anni nell’oblio per aiutarci, così sia.» Si avvicinò a lei, fissandola con profonda gratitudine. «Il tuo arrivo è stata una manna dal cielo, per la popolazione del villaggio. Noi eravamo gli unici rimasti, circa centomila abitanti, gli unici che avevano ancora avuto il coraggio di sperare che un giorno tu saresti davvero arrivata. Eravamo disperati, quel falò che hai visto, lì bruciavamo ogni mese ciò che più avevamo di valore, per compiacere gli Zoni e farci aiutare da loro in altri modi o accelerare il tuo arrivo. Ma ora non ne abbiamo più alcun bisogno. Tu hai ridato il sorriso alla popolazione, tu hai funto da collante per rimettere insieme ciò che anche tra noi ultimi rimasti si stava sfaldando, grazie a te i bambini hanno ricominciato a ridere, i contadini a lavorare con più impegno e con buonumore la terra. Tu... ci hai ridato la speranza. Senza di te, nel giro di un anno circa Quantus sarebbe divenuto disabitato e i fongoid non avrebbero più avuto un posto da chiamare Casa. Saremmo tornati ad essere nomadi e vagabondi e presto o tardi ci saremmo estinti. Le nostre conoscenze magiche e mediche sarebbero andate perdute per sempre. Ma ora, tu ci aiuterai ad uscire da questo periodo buio. Tu sei stata mandata dagli Zoni.» Canoo si inginocchiò davanti a lei, con aria umile. «Tu sei La Salvatrice.»

«Ma... ma... cosa dovrei fare?» domandò Corvina, sempre più spaesata. Non le sembrava più di avere la testa sulle proprie spalle, talmente era intontita da tutte quelle informazioni.

Canoo sospirò e si rimise in piedi. «Questo non ci è dato saperlo, purtroppo. Non ci sono affreschi a riguardo. Ma non preoccuparti, io e Alpheus ci penseremo personalmente. Scaveremo tra i reperti storici lasciati da Zoni e i nostri antenati fongoid e scopriremo la verità. L’unica cosa che ti domando di fare, è restare qui su Quantus. Nel palazzo. Te ne prego. So molto bene che non è un’idea che ti alletta, ma devo comunque chiedertelo. Ne va della nostra comunità.»

Corvina guardò la maga pensierosa. Tutto quello ancora non le sembrava reale. Erano lontani anni luce dalla Terra, eppure quella raffigurata nell’affresco era la gemma di Azarath, non c’erano dubbi. E poi, finalmente, capì. Azarath era ovunque e in nessun posto. Era un universo parallelo al loro. Situato nell’orbita terrestre, vero, ma pur sempre un altro universo. Un portale per andarvi si poteva aprire ovunque, letteralmente, bastava possedere le giuste competenze e strumenti magici. Era molto improbabile che fosse davvero un’ azarathiana quella raffigurata nella parete... ma non era impossibile.

Ma anche se così non fosse stato, anche se Corvina non fosse stata davvero La Salvatrice, non poteva rifiutare. Canoo la stava letteralmente implorando e la sua presenza, quantomeno, aveva ridato la speranza e la felicità ai fongoid, che stando alle parole dello sciamano era prossimi a spezzarsi definitivamente. La sua presenza fungeva da collante per la popolazione, era motivo di felicità, di vita. Non poteva andarsene. Non prima di scoprire quale fosse il suo ruolo in tutto ciò, ammesso che lei fosse davvero ciò che i fongoid credevano che fosse.

Sorrise. Per la prima volta, fu proprio lei a decidere di aiutare qualcuno a nome di tutti i suoi amici, all’insaputa di Robin. C’era la razza di un intero pianeta, in gioco. Non dovevano combattere contro un supercriminale, ma di certo tutto quello non sarebbe stata una passeggiata. «Resterò» decise infine, guadagnandosi un sorriso sinceramente riconoscente da parte di Canoo. «E aiuterò te e Alpheus a scoprire qual è il mio ruolo. Salverò i fongoid. Te lo prometto.»

 

***

 

La maga sospirò esausta e si abbandonò sul materasso. Per scoprire cosa dovesse fare in quanto Salvatrice, lei e Canoo avevano girato biblioteche, letto libri, almanacchi, testi antichi, ogni cosa. E non avevano trovato niente di niente. Per il ventesimo giorno di fila. Anche se erano ancora ben lungi dal terminare il loro lavoro. La biblioteca reale era enorme, conteneva centinaia di migliaia di volumi, loro probabilmente non ne avevano esaminato nemmeno un decimo. L’unica cosa che Canoo era sicuro che Corvina dovesse fare, era continuare a vestirsi in quel modo e a farsi rifare il trucco, per rispecchiare La Salvatrice raffigurata nell’affresco. La maga dubitava che tale ragionamento fosse sensato, ma aveva comunque preferito obbedire. Anche se si vergognava davvero un sacco davanti ai suoi amici, conciata in quel modo. Per non parlare della faccia che aveva fatto Terra quando l’aveva vista la prima volta.

Terra. Già. Con tutti gli avvenimenti, la disperata ricerca su cosa La Salvatrice dovesse fare, con tutti i pensieri che Corvina aveva in testa, la sua dolce metà aveva cominciato a ricoprire un ruolo quasi marginale. Si vedevano a stento, si parlavano a stento, non avevano trascorso neanche cinque minuti da sole, nell’ultimo mese. Si erano divise. Nonostante tutte le promesse che si erano fatte, erano divise. Quanto avrebbe voluto Corvina raccontare a Terra cosa stesse succedendo, non perché sperava in aiuto da parte sua, ma semplicemente per liberarsi di quel flagello con qualcuno di cui potersi fidare. Era stanca di tenersi quel problema tutto per sé, voleva condividerlo con qualcuno che poi avrebbe potuto consolarla, come Terra. Le mancava. Ma purtroppo il tempo per lei non c’era. Non c’era di giorno, perché doveva impegnarsi nella sua ricerca, e non c’era di notte, perché doveva riposarsi proprio per le ricerche del giorno.

La situazione era molto più critica di quello che sembrava. I prodotti provenienti dai raccolti stavano diminuendo, malgrado le piante dei campi sembrassero sempre rigogliose. Molti animali si stavano ammalando, infatti quasi tutti i prati dedicati ai pascoli erano deserti. E il numero di Basilischi Leviathan nella giungla aumentava. Fino a quel momento, le creature aliene avevano girato alla larga dal villaggio, ma per quanto tempo ancora lo avrebbero fatto, prima di allearsi e andare a fare mattanza di fongoid? Corvina dubitava molto delle parole di Stella a riguardo, che i Basilischi non avevano cattive intenzioni. Erano animali pericolosi, imprevedibili e molto forti. I Titans potevano respingerne uno, due, tre con molta fortuna, ma un esercito? Escluso. 

Sospirò e si alzò dal letto, dirigendosi davanti alla specchiera della camera. Osservò il suo riflesso e si stupì davvero molto dell’aria così stralunata che aveva. I capelli erano scompigliati e leggermente più lunghi di quando ancora era sulla Terra, la parte davanti del carré le sfiorava le spalle. Aveva le occhiaie, il trucco era sbiadito, lasciando degli aloni colorati sul volto che la facevano sembrare quasi più un clown, che una ragazza mandata dagli dei per salvare i fongoid. Dei che, tra l’altro, ancora non aveva avuto modo di scoprirne l’aspetto. Chissà com’erano fatti questi Zoni. Da come venivano descritti sembravano creature davvero mitiche e leggendarie. Così mitiche e leggendarie che l’avevano ficcata in un casino più grosso di tutta Jump City.

Spostò lo sguardo verso la finestra e decise di uscire sul balcone, a prendere una boccata d’aria fresca. La sera si stava avvicinando e lei e Canoo avevano da poco sospeso le loro ricerche, per poi rimandarle al giorno dopo. Uscì all’aria aperta e la inspirò a pieni polmoni. Era pulita, fresca, non sembrava per niente appartenere ad un mondo che stava morendo. Così come il paesaggio sotto di lei. Com’era possibile che simili distese di verde fossero prossime a seccarsi e a venire rimpiazzate da quella fitta giungla che ormai divorava l’intero pianeta?

Ripensò alla Reliquia. Un oggetto di potere di cui nemmeno conosceva l’aspetto, creato dagli Zoni e in grado di donare la vita ad un pianeta che altrimenti sarebbe estinto da eoni. Chissà, magari quello strumento avrebbe potuto fare lo stesso con la Terra, rimetterla in sesto prima che le sue risorse di esaurissero o l’uomo stesso la distruggesse.

Un’altra cosa a cui ripensò automaticamente fu il predone che si era impadronito di quell’oggetto. Sapeva di avere un potere così immenso fra le mani? Aveva domandato a Canoo se sapeva chi fosse quel predone, se ne conosceva l’identità, ma il fongoid non ne aveva idea. Dubitavano che l’identità che aveva detto di avere fosse reale. Corvina aveva pensato che recuperare la Reliquia fosse la soluzione migliore, magari era per quello che lei era La Salvatrice. Doveva recuperare la Reliquia dai predoni. Il problema era che il furto era avvenuto decine di anni prima, forse quel predone di cui neanche conoscevano l’identità era perfino morto in quell’arco di tempo. E l’universo era enorme. Era un’impresa impossibile dal principio. L’unica cosa che potevano fare, era continuare a scavare nella storia e nella cultura di Zoni e fongoid.

Sperando di trovare presto una soluzione.

 

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Capitolo 11
*** I primi problemi ***


The Good Left Undone

XI

I PRIMI PROBLEMI

 

 

Stella forse era l’unica che alla fine dei conti non si sentiva malissimo su Quantus. Aveva tutto ciò che avrebbe potuto chiedere, la gente era gentile, il posto non era male ed era in ottima compagnia.

Tutto sommato era stato un mese tranquillo, privo di guai e caos, ciò che praticamente desiderava di più, dopo la sgradevole avventura sulla nave di Metalhead, la Skullcrusher, definita dal mercenario stesso meravigliosa ma mai quanto lui. Rabbrividì ripensando a quel mostro egoista e sociopatico, ed era sinceramente felice di esserselo tolto dalla propria vita per sempre. E anche la nuova minaccia Slag sembrava molto lontana, quasi inesistente.

Anche se le mancava comunque parecchio la Terra, Jump city soprattutto, anche perché dopo aver trascorso praticamente i momenti migliori della sua vita in quel posto dubitava di voler vivere in altri. Inoltre vedere tutti i suoi amici così angosciati e tesi non la aiutava di certo. Si sentiva quasi in pena per loro. Sapeva anche molto bene cosa dovessero provare nel non poter tornare sul loro pianeta natale. Lei stessa aveva nostalgia di Tamaran, a volte, ma dopotutto era sempre stata lei a dire che la Terra era diventata la sua nuova casa.

Guardò la folla di fongoid passare davanti a lei e sorrise. Da tempo non vedeva una razza di alieni così pacifica. Lei era cresciuta in una razza di guerrieri, ed era cresciuta conoscendone di sempre più spietate, come quella degli agoriani, c’erano stati momenti in cui aveva creduto che ogni specie fosse cattiva, gli stessi terrestri non erano l’esatta definizione di bontà, ma dopo aver conosciuto i fongoid si era ricreduta.

Una figura in mezzo alla folla si differenziò dalle altre, e a Stella non fu difficile riconoscerla. «Robin» disse con un sorriso, vedendo il ragazzo avvicinarsi a lei.

Lui ricambiò il cordiale sorriso e si sedette accanto a lei. «Tutto a posto?»

«Sì, grazie. Tu invece? Eri di nuovo andato a "riflettere"?» domandò lei, ovviamente riferendosi all’abitudine di Robin di sdraiarsi in quel prato.

Il ragazzo per tutta risposta scrollò le spalle. «Sai com’è, mi annoio qui...»

«Dai, qui non è poi così male.»

«Lo so, però... non è questa casa nostra. Insomma, noi viviamo sulla Terra, è quello il luogo a cui apparteniamo, Quantus invece...»

«Le cose si aggiusteranno, vedrai.» Stella cercò di essere di supporto al fidanzato. Non le piaceva vederlo preoccupato e corrucciato, preferiva di gran lunga Robin in modalità più rilassata, più da ragazzo qualsiasi e non da leader sempre e comunque dubbioso su tutto e tutti.

«So anche questo, so che prima o poi riusciremo a farci spiegare da Corvina cosa sta succedendo, e magari anche ad andarcene, però sono comunque preoccupato per Jump City. Sono due mesi ormai che manchiamo da casa, i criminali ormai devono aver cominciato ad approfittarne, ho paura che la polizia non riesca a tenerli a bada da sola. Per non parlare di tutti quei brutti ceffi che...» Robin si bloccò all’improvviso, accorgendosi dello sguardo interrogativo di Stella. Sembrò imbarazzarsi, poi si schiarì la voce. «Scusa, non dovrei asfissiarti con le mie paranoie...»

La tamaraniana ridacchiò, poi lo guardò dritto negli occhi. «Non preoccuparti, lo so che è più forte di te...»

Lui accennò un sorriso, senza distogliere lo sguardo, poi avvicinò una mano e prese quella della ragazza. Stella sentì le goti arrossarsi, poi intrecciò le dita con quelle del fidanzato. Lo osservò meglio. Era senza la maschera, quindi poteva vedere i suoi occhi, ed era anche con indosso abiti normali e non il suo costume, quindi sembrava al cento percento un ragazzo come tanti. Era naturale, ed era ciò che a lei piaceva. Poco prima nei suoi occhi aveva colto un bagliore di stanchezza, di preoccupazione, ma adesso che i loro sguardi erano incrociati quell’alone oscuro era sparito. Era quello l’effetto che lei aveva su di lui, riusciva sempre a rallegrargli la giornata, a restituirgli il buon umore. Quando era con lei, anche se per poco tempo, i suoi tormenti svanivano e non si preoccupava più di Quantus, della Terra ed eccetera. C’erano solo più loro due e basta.

Si avvicinarono. Non dissero nulla, non fecero nulla. Era bastato lo sguardo per permettere loro di intendersi. Socchiusero gli occhi, le labbra furono a pochi centimetri di distanza. E una voce rovinò tutto: «Ehi ragazzi!»

Stella sobbalzò e i due si allontanarono di colpo, poi si voltarono in contemporanea verso la strada, dove BB li osservava con un sorriso beffardo stampato sulla faccia. «Ho interrotto qualcosa?»

«BB...» Robin non sembrò molto felice di vederlo. «Che ci fai qui?»

«Interrompo le coppiette che vogliono limonare.»

Il leader lo fissò con sguardo glaciale, al che il mutaforma sollevò le mani in segno di resa. «Ehi, ehi, scherzavo. Facevo un giro e vi ho trovati qui. E visto che ormai si sta per fare sera, ho pensato che forse sarebbe stato meglio restare insieme un po’ prima di tornare al palazzo per la cena. Ma se volete me ne vado, per me non c’è nessun problema...»

«Resta pure, tranquillo» disse Stella sorridendo di nuovo, come se nulla fosse. Robin mugugnò qualcosa di incomprensibile e il mutaforma ebbe il permesso di restare. Il leader si accasciò contro lo schienale della panchina, il suo momento con Stella andato a farsi benedire. Vedendo la sua espressione dapprima serena a quasi imbronciata, alla tamaraniana per poco non scappò una risatina, ma non appena la folla per strada cominciò ad agitarsi, l’ilarità svanì da dentro di lei. Sentì alcuni schiamazzi provenire dal fondo della strada, si voltò e vide una grossa folla riunirsi fuori dalla locanda.

Robin e BB si accorsero a loro volta di tutto quel trambusto. «Che succede?» domandò il mutaforma, grattandosi la testa.

«Non lo so» rispose Robin, messosi a sedere composto. «Ma possiamo sempre scoprirlo.»

Si alzò dalla panchina e tese la mano a Stella. Lei la afferrò e il ragazzo la aiutò ad alzarsi. «Vuoi andare a vedere?» chiese lei.

Il leader annuì, diventato serio all’improvviso. «Se i fongoid sono così agitati deve essere successo qualcosa di grosso.»

Non faceva una piega. I tre si incamminarono verso la locanda.

 

***

 

Amalia e Terra si precipitarono nel locale, vedendosi quasi costretti a procedere a gomitate per farsi strada fra la calca. E quando finalmente furono dentro, si ritrovarono davanti il triste spettacolo. Un gruppo di cinque fongoid stava venendo allontanato con la forza dal locandiere alcuni altri da niente popò di meno che Red X e Cyborg, entrambi piuttosto malconci. Il primo era pieno di tagli e contusioni, con un ringhio furibondo stampato sul volto. Cercava di dimenarsi dalla presa dei fongoid per poter saltare addosso agli altri cinque, mentre Cyborg sembrava più calmo, ma comunque pesto. Tutt’intorno a loro un brusio sommesso si sollevava, proveniente dalla folla di spettatori, ognuno dei quali probabilmente stava dicendo la sua.

A giudicare dai bicchieri rotti, i tavoli e le sedie spaccate e le ferite di entrambi i fronti, non era molto difficile intuire cosa fosse accaduto. Quando Amalia gridò, Terra sentì la pelle d’oca. «Cosa diavolo sta succedendo?!»

Tutte le attenzioni si spostarono su di lei, la bionda sembrava quasi non esistere veramente da come poco fu calcolata. Le espressioni di Red X e Cyborg mutarono radicalmente. Il primo smise di ringhiare e la fissò ad occhi sgranati, quasi spaventato, mentre il robot apparve più imbarazzato. Fu proprio lui a cercare di rispondere: «Beh... ecco...»

«Questi sette hanno pensato che il mio locale fosse un campo di battaglia, ecco cos’è successo!» esclamò il locandiere, figura di spicco fra tutti i fongoid, quello che più di tutti sembrava imbronciato dall’accaduto.

«Che cosa?!» esclamò Amalia ancora più imbufalita, spostando il suo sguardo incendiario su Red X. «Immagino sia opera tua!»

Il ragazzo trasalì e scosse la testa. «Cosa, no, no, è che... che... quei tizi la mi hanno... ti hanno...»

Era ubriaco come una spugna. Non sembrava in grado di riuscire a mettere due parole in fila e anche le botte che doveva aver preso alla testa non dovevano essere di molto aiuto.

La tamaraniana mai sembrò così infuriata con lui. «Ma cosa diavolo ti è saltato in mente?!»

X non rispose, forse non ne era in grado, forse non sapeva nemmeno cosa dire, fatto sta che si limitò ad abbassare la testa, segno evidente che neanche lui sapeva cos’aveva fatto con esattezza.

«Mi dispiace davvero per il comportamento immaturo del mio ragazzo, io sono costernata...» proseguì lei avvicinandosi al locandiere. «Se vuole posso aiutarla a sistemare questo disastro più tardi, potrei parlare con re Alpheus e...»

Il fongoid liquidò la faccenda con un gesto della mano. Sembrava ancora molto corrucciato, ma probabilmente il fatto che si stesse rivolgendo agli amici della Salvatrice gli imponeva di trattarli con un certo riguardo. «Non serve, davvero. Occupati di lui piuttosto, ha delle brutte ferite.»

Amalia annuì mortificata e afferrò il proprio fidanzato per un braccio, quello umano, poi cominciò a trascinarselo dietro. «Mi dispiace» disse un’ultima volta, mentre si dirigeva all’uscita.

«Sì, davvero, ci dispiace» rimarcò Cyborg, grattandosi dietro la testa. «Io... risarcirei i danni, ma purtroppo non...»

«Non ha importanza figliuolo, non è certo la prima volta che la mia bettola ha visto una rissa. Me la caverò» lo anticipò Bardock, sembrando molto più tranquillo di prima. «Piuttosto, meglio se te ne vai anche tu, prima che quell’idiota di Galvor causi altri problemi» aggiunse a bassa voce, per non farsi udire.

Cyborg annuì. «Sì, ha ragione.» Si voltò e si incamminò, sotto gli sguardi ancora corrucciati dello stesso Galvor e i suoi. Sembravano essersi calmati, ma dalle loro espressioni era ben evidente che un secondo round non sarebbe dispiaciuto a nessuno di loro.

«Stai bene Cyborg?» domandò Terra mentre lo affiancava, uscendo dal locale.

«Me la caverò...» borbottò lui, per poi rendersi effettivamente conto della presenza della bionda. «Tu e Amalia come avete fatto a trovarci?»

«Eravamo al lago, non è stato difficile vedere la ressa che si è formata qua intorno...»

Il robot sospirò e scosse la testa, quasi vergognato. «Che figura...»

Quando uscirono, scoprirono ben presto che per Red X i guai non erano ancora finiti. Era uscito da una rissa con cinque guardie reali per poi affrontare una sfida ben maggiore: la sua fidanzata incavolata nera per le sue azioni.

«Questo succede quando passi tutto il giorno a bere come un alcolista!» stava gridandogli addosso, costringendolo ad incassare la testa fra le spalle. Sembrava trovare molto più interessante il pavimento di lei, visto che non staccava gli occhi dal ciottolato. Una madre che sgrida il proprio figlio, ecco cosa quella scena ricordò a Terra e Cyborg.

«E guarda come ti sei ridotto!» disse ancora, afferrandogli il mento quasi con rabbia, costringendolo ad avvicinare il suo volto al proprio ed esaminando meglio i lividi e i tagli. «Solo perché non vuoi stare su questo pianeta ti sembra il caso di iniziare una rissa in un bar?!»

«Ha cominciato lui...» biascicò il ragazzo continuando a non guardarla.

«Ha cominciato lui? Ha cominciato lui?! Ma dico, ti senti quando parli?! HA COMINCIATO LUI?! Ma cosa sei, un bambino?!» Amalia gli sollevò la testa, costringendolo a guardarla negli occhi. Il ragazzo sembrò voler sprofondare. «Perché ti comporti così? Non vuoi restare qui, ok, ma purtroppo devi farlo! Devi farti andare bene questa cosa, volente o nolente! Che poi, a te che differenza fa vivere qui o sulla Terra? Cos’hai sulla Terra di tanto importante per cui tornare? A te non bastava solo che ci fossi io, insieme a te? Beh io ci sono, sono qui! Maledizione, come pensi che...»

Si interruppe di colpo, rendendosi conto di avere puntati su di sé non pochi sguardi, primi tra tutti quelli sbigottiti di Cyborg e Terra. Le sue guancie si tinsero di un vivace color rosso e ammutolì, lasciando andare il volto di X e facendoglielo di nuovo cadere verso il basso. Sospirò, poi andò verso i due ragazzi, massaggiandosi un braccio imbarazzata, parlando con un tono totalmente opposto a quello di prima. «Meglio che lo riporti al palazzo. Devo... occuparmi di quelle ferite.»

«Non arrabbiarti così con lui, non era in sé, se fosse stato lucido non avrebbe mai fatto quello che ha fatto» disse Cyborg in difesa di Red X.

Quelle parole forse dovevano calmare Amalia, ma la ragazza scosse la testa. «Non... non è così semplice...» Si interruppe di nuovo, il labbro inferiore questa volta le tremò vistosamente, poi mandò giù il nodo alla gola e proseguì: «Le cose tra noi non vanno molto bene, ultimamente, anche se ai vostri occhi può sembrare il contrario...» Guardò Terra ormai prossima a mettersi a piangere. «Non sai cosa darei per essere nella tua situazione anziché nella mia...» E senza dire altro, si voltò e tornò dal ragazzo, per poi cominciare a trascinarselo dietro, diretta al palazzo. Sparirono pochi istanti dopo, mescolandosi nella folla di fongoid che, terminato il caos generato alla locanda, avevano ripreso con le loro mansioni.

Terra e Cyborg la guardarono sorpresi mentre svanivano alle loro visuali, poi il robot si rivolse a Terra: «Scusa, ma cosa intendeva con "essere nella tua situazione"?»

La bionda trasalì. «Ehm... credo... single e spensierata...» sparò la prima cavolata che le passò per la mente. Fu quasi un miracolo che fosse riuscita a trovare qualcosa di sensato, in preda ai propri pensieri com’era.

E Cyborg se la bevve, perché annuì. «Mh... può darsi...»

La ragazza non lo sentì nemmeno, era troppo impegnata a darsi dell’idiota. Fino a pochi minuti prima aveva caricato Amalia di tutti i suoi problemi, aveva piagnucolato come una mocciosa per il fatto che non riusciva più a parlare con Corvina, quando la tamaraniana stessa aveva problemi ben più grossi con il suo ragazzo. Stavano attraversando un brutto momento. In effetti era da quando avevano cominciato a vivere in quel villaggio che X sembrava diverso, più irritante ed intrattabile. Unendo quel suo comportamento al fatto che spesso e volentieri alzava il gomito alla locanda, beh, la sua relazione con Amalia doveva essere scesa davvero a livelli infimi. Considerando poi la gravidanza della tamaraniana... sì, Terra era un’idiota. Avrebbe dovuto parlare di meno e ascoltare di più. Lei non era l’unica con i problemi in quell’universo, doveva metterselo in testa. E i suoi problemi, come se non bastasse, non sembravano niente in confronto a quelli della tamaraniana. Il fatto che le avesse perfino detto che avrebbe voluto trovarsi nella sua situazione anziché nella propria attuale era un segno piuttosto inequivocabile. Doveva parlare con Amalia più tardi, doveva scusarsi con lei per averle vomitato addosso tutte le sue litanie sulla tristezza per la separazione da Corvina, che entrambe sapevano non era niente di grave alla fine dei conti.

Sì, doveva farlo. Ma forse non in quel momento, visto che la sorella di Stella e Red X sarebbero stati piuttosto impegnati, nelle ore successive. Sperò con tutto il cuore che quei due parlassero e riuscissero a fare pace. Vedere una coppia di futuri genitori ridotta così... era una pugnalata al cuore. Com’era possibile, sembravano così affiatati giusto un mese prima! A quanto pare nessun diamante è destinato a brillare per sempre... 

«Ragazzi!» gridò qualcuno alle loro spalle, facendoli voltare. BB, Robin e Stella li raggiunsero di corsa, fermandosi poco lontano da loro. «Cos’è successo qui?» domandò Robin. «Ho visto un mucchio di gente che...»

«Cyborg, ma sei ferito!» esclamò Stella sorpresa, facendo sgranare gli occhi sia a Robin che BB, i quali ancora non se n’erano accorti.

«Red X e Galvor ubriachi si sono picchiati alla locanda, io mi sono ritrovato nel fuoco incrociato...» sospirò Cyborg, scuotendo la testa in parte afflitto e in parte infastidito.

«Red X?! Cosa?!» domandò Robin incredulo.

Cyborg annuì affranto. «Sì. Lo sapete com’è, no? Non gli piace restare qui e oggi lo ha dimostrato apertamente. Aveva alzato un po’ il gomito, perciò non credo che aveva davvero intenzione di picchiarsi con Galvor, ma purtroppo è accaduto.»

«E com’è successo?»

«Si sono stuzzicati a vicenda, poi Galvor ha insultato Amalia, o almeno credo che la sua intenzione fosse quella, ed X ha perso la pazienza.»

BB grugnì di disappunto. «L’ho sempre detto che Galvor era uno stronzo...»

Stella aveva taciuto per tutto il tempo, fissando preoccupata Cyborg, poi unì le mani all’altezza del petto e mormorò: «E adesso lui dov’è?»

«Ci ha pensato Amalia a lui» rispose Terra, con un alone di tristezza nella voce. «Io e lei stavamo parlando in riva al lago, poi abbiamo sentito il trambusto provenire dalla locanda e ci siamo precipitate. Il locandiere aveva appena riportato l’ordine e Amalia ha deciso di portare via X per medicargli le ferite e probabilmente fargli una bella lavata di testa...»

«Non vorrei essere nei suoi panni...» borbottò BB.

«Nessuno lo vorrebbe» convenne Cyborg.

«Tu stai bene almeno?» domandò ancora Robin, incrociando le braccia.

Il robot annuì. «Solo qualche livido, ma non è niente di che. Quello conciato male era X. Non mi stupirei se se ne uscisse con qualche altra cicatrice...»

Robin sospirò esasperato, gettando la testa all’indietro. «Questa situazione sta diventando insostenibile...»

«Spero che Amalia ed X non litighino...» mormorò di nuovo Stella, abbassando la testa preoccupata.

«Non succederà, tranquilla» la rassicurò Terra, che proprio come lei aveva quel tremendo presentimento. Cercò di sorridere ed apparire certa delle proprie parole, ma il suo tono risultò ugualmente titubante. «Insomma, con Amalia incinta non credo che litigheranno per così poco...»

Stella sospirò, annuendo. «Sì... hai ragione.»

Robin le avvolse un braccio intorno alle spalle, per infonderle ulteriore coraggio. «Non preoccuparti Stella, se la caveranno.» Guardò poi Cyborg e Terra. «Galvor dov’è andato adesso?»

Cyborg alzò le spalle. «Non ne ho idea. Era ancora alla locanda quando ce ne siamo andati, ma adesso potrebbe essere ovunque.»

«Mh... ok. Speriamo di non avere più a che fare con lui. Tra l’altro presto o tardi anche Alpheus scoprirà cos’è successo... dovremo spiegarlo anche a lui.»

«Che casino...» brontolò BB puntellando il ciottolato con un piede, per poi guardare Cyborg speranzoso. «Quando ce ne andremo da qui?»

Il robot scosse la testa. «Temo di non saperlo. Finché Corvina non vorrà andarsene, suppongo. Ma purtroppo lei non è l’unico motivo per cui siamo ancora qui. La nave è danneggiata e senza carburante. Con Slag in circolazione, poi, rischiamo ancora di farci trovare da lui. A questo punto, non so se sia più sicuro restare qui o andarcene...»

«Magnifico!» Questa volta BB pestò frustrato la strada. «Di bene in meglio!»

Nessuno ebbe nient’altro da commentare. Le sue parole avevano rispecchiato perfettamente la situazione. Calò il silenzio, ognuno dei presenti rimase a rimuginare, su cose totalmente diverse le une dalle altre. Alla fine, Robin interruppe la pausa meditativa sospirando. «Beh, ora come ora non ci resta che continuare a vivere come se nulla fosse. È quasi sera, torniamo al palazzo. Con Alpheus... sarà quel che sarà.»

I presenti annuirono, come al solito concordando con Robin.

«D’accordo, torniamo al palazzo... muoio di fame...» borbottò BB cominciando ad incamminarsi. Perlomeno qualcuno che cercava di sdrammatizzare c’era.

Terra osservò il ragazzo sorridendo tenuamente, poi spostò lo sguardo quasi automaticamente alla collina del palazzo. Nel giro di poco avrebbe rivisto Corvina, in una delle poche circostanze che glielo permettevano, i pasti. Sospirò afflitta, ripesando al suo discorso idiota con Amalia e ripensando anche al periodo difficile in cui la tamaraniana aveva detto di trovarsi. Sentì una fitta al torace. Le dispiacque molto per lei. Si sentiva ancora molto in colpa per ciò che si erano dette. Doveva scusarsi con lei, doveva farlo eccome. Si ripromise che dopo cena lo avrebbe fatto.

Il gruppo procedette in silenzio. Ma mentre camminavano, si accorsero che qualcosa nell’aria stava cambiando. Alcuni fongoid rimasti fuori dalla locanda li osservarono, ma non come facevano di solito. I loro sguardi erano diventati più freddi, più diffidenti. I ragazzi fecero finta di niente, ma nulla poté impedire loro di sentire quegli occhi gialli puntati su di loro come dei riflettori.

Di una cosa erano certi: Red X l’aveva combinata grossa.

Sperarono che l’accaduto non avesse ripercussioni, o perlomeno non troppe e non troppo gravi. Anche se c’erano davvero molti dubbi a riguardo.

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Rottura ***


The Good Left Undone

XII

ROTTURA

 

«Siediti e non muoverti» ordinò Amalia, costringendo il fidanzato ancora mezzo intontito a sedersi sul bordo del letto di camera sua. Red X, incapace di fare altro, obbedì.

La tamaraniana mugugnando di rabbia andò nel bagno e rovistò in un mobile, dove recuperò garze, cerotti, tamponi e un flacone di una sostanza la cui provenienza era meglio non chiarire, che in teoria doveva fungere come disinfettante. Per fortuna re Alpheus aveva voluto garantirgli ogni qualsivoglia di assistenza, diretta e non, altrimenti Amalia avrebbe dovuto trascinare il ragazzo nell’infermeria del palazzo e li la faccenda sarebbe stata decisamente più imbarazzante.

Quando ritornò in camera da letto trovò X esattamente nella stessa posizione di prima, con le mani appoggiate sulle ginocchia, la testa bassa e lo sguardo smarrito nel nulla. Non sembrava nemmeno essersi reso conto di dove si trovava. Forse la ragazza avrebbe dovuto gettarlo nel lago per svegliarlo come si doveva, prima di riportarlo al palazzo. Sospirò esasperata e gli si parò davanti, posando gli oggetti che teneva fra le mani sul materasso accanto a lui. Afferrò un tampone, che probabilmente non era altro che un batuffolo della pelliccia di qualche animale, ovviamente pulito, e lo imbevette nel disinfettante, poi cominciò a ripulire i tagli del ragazzo.

«Guarda come sei ridotto...» disse con tono apatico, mentre gli afferrava il mento per costringerlo a tenere la testa alta e a facilitarle la pulizia delle ferite. Lo trattò quasi come un bambolotto, mentre lo curava. La ragazza gli muoveva il capo quasi con dei gesti rabbiosi e lui, più che gemere in segno di protesta, non faceva nulla. I suoi occhi erano arrossati, la testa gli ciondolava, il sangue continuava a colare dai tagli. Più lo guardava, più Amalia, anziché provare pena per lui, si arrabbiava. «... sei ubriaco fradicio, ti lasci trattare da me come un pupazzo di pezza, sei ferito, sei... sei un idiota, ecco cosa sei!» Quasi gridò, quando lo disse. Il suo sguardo cadde su un taglio più brutto degli altri, che da circa metà del naso scendeva fino all’altezza del labbro percorrendo una linea verticale. «Qui ti rimarrà un’altra bella cicatrice, lo sai? Sei contento adesso?»

Lui non rispose. Non spostò nemmeno lo sguardo verso di lei. Era assente.

«E guardami quando ti parlo!» esclamò ancora lei, stringendo la presa intorno al mento con molta più forza, facendogli fare una smorfia di dolore. I suoi occhi blu si spostarono su di lei e questa volta non c’era più alcuna traccia degli oceani profondi che alla ragazza piacevano da impazzire. C’erano due iridi qualsiasi, incastonate sopra dei bulbi arrossati, in due occhi appartenenti ad un ragazzo che in quel momento altro non era che l’ombra di sé stesso.

«Ti sembra questo il modo di comportarti? Ubriacarti tutti i giorni a quel maledetto bar e scatenare perfino una rissa? Ma cosa c’è che non va in te?!» proseguì lei, continuando a tamponare le sue ferite quasi con rabbia. «Perché devo ridurmi ad occuparmi di te in questo modo?! A leccare le TUE ferite?»

X la fissò in silenzio, senza aprire bocca. Al che la ragazza si arrabbiò ancora di più. «RISPONDI! Di qualcosa! Qualsiasi cosa! Cosa stavi pensando mentre ti azzuffavi con coloro che ci stanno ospitando, che ci stanno dando vitto e alloggio gratuiti? Che non vuoi vivere su questo pianeta?! Beh, mi dispiace dirtelo, ma siamo qui e qui resteremo fino a nuovo ordine! Perché non te lo vuoi mettere in testa? Perché?! Ma hai la più pallida idea di come mi senta io a vederti ridotto così? È quasi un mese che ogni singolo giorno ti ubriachi in quel posto, UN MESE! E oggi, come se non bastasse, te ne ritorni da la dopo una rissa! UNA RISSA! E io, stupida, che perdo perfino tempo a farti la predica e a curare le tue ferite, quando so perfettamente che domani sarai di nuovo la a procuratene altre! Perché lo fai?» Quando gli porse quest’ultima domanda, il tono della ragazza era quasi demoralizzato.

Il tono demoralizzato di chi aveva perso le speranze. Da quando erano arrivati in quel posto, Red X non aveva fatto altro che comportarsi come un bambino capriccioso. Non voleva vivere in quel villaggio, era chiaro come il sole, ma a differenza degli altri, lui non faceva niente di niente per cercare di farselo comunque andare bene. Si limitava semplicemente ad andare a quella locanda e bere, bere e ancora bere, affogando quelle preoccupazioni in quel veleno liquido che erano gli alcolici. Lui ed Amalia non avevano una discussione normale da praticamente il loro arrivo. Dopo il litigio sulle buone maniere della ragazza, fuori dalla nave, e dopo il litigio sul pericolo che Red X aveva fatto correre a Stella, le loro discussioni si erano semplicemente limitate all’urlarsi in faccia a vicenda o, nella maggior parte dei casi, a rimproveri da parte di Amalia. Vista la situazione, la ragazza avrebbe preferito di gran lunga che Red X continuasse ad assillarla con il bambino come aveva fatto in passato, anziché quello, ma lui non sembrava della stessa opinione.

All’inizio avevano una stanza tutta per loro, proprio come Robin e Stella, ma dopo circa una settimana di litigi avevano entrambi preferito prendersi camere separate. E quello era stato l’inizio del decadimento. Non avevano più fatto l’amore, non si erano nemmeno più baciati, neanche abbracciati. Red X continuava a lamentarsi della loro permanenza forzata su Quantus e lei non faceva altro che rimproverarlo per la sua mania di alzare il gomito. Unendo il tutto alla facile irritabilità di X dopo aver bevuto, beh, era un miracolo che non erano ancora passati alle mani. E tutto ciò, oltre che a far imbestialire Amalia, non faceva altro che ucciderla dentro, letteralmente. Odiava con tutta sé stessa litigare con lui, odiava rimproverarlo, odiava vedere gli sguardi rabbiosi che lui le rivolgeva, ma purtroppo non poteva fare altro. Non avrebbe mai e poi mai potuto perdonarlo per quel suo comportamento infantile. Un comportamento che un futuro padre come lui non avrebbe dovuto tenere nemmeno nei suoi sogni più lontani e impossibili.

«Dov’è il ragazzo che ho amato con ogni fibra del mio essere sulla nave, quello che mentre ero spaventata è venuto a confortarmi, quello con i pensieri profondi, quello che sapeva essere serio quando era il caso e sapeva essere il contrario se le situazioni lo permettevano? Dov’è? Dov’è...?»

«Scusa...» biascicò lui per la prima volta da quando erano lì, distogliendo lo sguardo un’altra volta, incapace di reggerlo ulteriormente.

«Scusa?! SCUSA?! È tutto quello che hai da dire?!» gridò di nuovo Amalia lasciandolo andare e smettendo di curarlo, ritraendosi da lui quasi schifata. «Scusa è quello che mi dici per avermi straziato il cuore in questo modo? È tutto quello che hai da dire per aver trasformato in un inferno la permanenza della futura madre di tuo figlio in questo posto?! SCUSA?!»

«Galvor ti aveva insultata, io non potevo restarmene con le mani in mano...» borbottò ancora lui, fissando le piastrelle del pavimento. Parlava a fatica, non sembrava nemmeno pensare le cose che diceva, probabilmente non aveva recepito nemmeno un quarto delle parole di Amalia.

In ogni caso, ciò non le impedì di serrare la mascella. «Oh, certo, quindi adesso tutto questo l’hai fatto per me! Per il mio onore! Accidenti, non hai idea di come mi senta lusingata! Anzi, sai che ti dico? Ti perdono, perché dopotutto hai distrutto un bar rotolandoti a terra con un branco di ubriachi come te per il mio onore! Sul serio, cosa può chiedere una ragazza di meglio dal proprio fidanzato? Uno premuroso, che mette la felicità della propria amata prima di ogni cosa? Anelli di diamanti? Cene romantiche? Oh, no, certo che no, non c’è niente di meglio che una bella rissa tra zoticoni!»

Red X strinse i pugni. Il tono sarcastico di Amalia non gli era piaciuto per niente. I rimproveri erano un conto, le beffe erano un altro. «Smettila...» rantolò, sempre senza guardarla.

«Io devo smetterla? Ok, sì, hai ragione, non ha senso che continui a parlarti. Dopotutto, sono solamente la ragazza che per prima ha avuto il coraggio di amarti, colei che ti ha letteralmente ridato la vita, colei che in grembo porta il NOSTRO figlio, hai ragione, io non conto un cazzo in questa faccenda, non ho assolutamente voce in capitolo. Sì, hai proprio ragione, è meglio che taccio.»

«Basta...»

«Stai tranquillo, alleverò da sola nostro figlio quando nascerà e la sera prima di mandarlo a dormire sarò lieta di spiegargli come mai papà preferisce andare ad ubriacarsi anziché badare a lui e di come, soprattutto, causa risse in mio onore!»

Il ragazzo serrò la mascella, mentre piantava le unghie nei palmi con talmente tanta forza da farsi male. «Zitta... sta zitta...»

«Un vero peccato che qui non ci siano le prostitute, vero? Immagino che altrimenti tra un bicchiere e l’altro saresti stato ben felice di mettermi un bel paio di corna come quelle dei fongoid, dico ben...»

«TAPPATI LA BOCCA!» urlò lui rialzandosi in piedi con un impeto furioso, che fece indietreggiare non di poco la tamaraniana. «Chi cazzo ti credi di essere per parlarmi così?!»

Lo scatto rabbioso del ragazzo l’aveva ammutolita per un istante, ma dopo aver udito quella domanda la voglia di parlare era tornata più forte che mai. «Chi cazzo mi credo di essere?! CHI CAZZO MI CREDO DI ESSERE?! Sono la futura madre di tuo figlio, brutto idiota! Sono la ragazza che fino ad un mese fa’ dicevi di amare alla follia, ECCO CHI CAZZO SONO! Ti basta come risposta?!»

Insultarlo in quel modo le faceva male, un male lancinante. Ma non poteva, non doveva, restare in silenzio davanti a lui.

«Tu non hai alcun diritto di criticarmi in questo modo! Ho alzato il gomito, qual è il problema?» continuò lui, allargando le braccia esasperato.

«Cos... il problema?! È TUTTO ADESSO che sto dicendo qual è il problema! Ma hai sentito una, e dico, UNA SOLA delle mie parole?! O eri troppo occupato a riflettere su cosa bere la prossima volta che andrai alla locanda?!»

«Ti credi meglio di me a criticarmi in questo modo? Tu che per prima dovresti stare zitta, con tutte le porcherie che hai fatto in passato?!»

«Non menzionare il mio passato» replicò lei ringhiando letteralmente dalla rabbia, puntandogli contro un dito accusatore. «Non osare farlo, non dopo avermi detto tu stesso che potevo metterci una pietra sopra! Non cercare di cambiare soggetto, perché caschi malissimo.»

«Io casco male? Ah sì? E tu che hai distrutto il tuo pianeta e hai cercato di uccidere la tua stessa sorella dove caschi invece?!»

Amalia ammutolì di nuovo. Incrociò lo sguardo di Red X e lesse chiaramente la rabbia nei suoi occhi. Poteva aver parlato in preda ai fumi dell’alcol, poteva non aver davvero pensato quelle cose, ma quelle iridi dicevano tutt’altro. Lo aveva detto. Lo aveva davvero detto. Le aveva rinfacciato il proprio passato come scusa per uscire dai propri problemi. Le aveva sferrato un colpo basso ben più doloroso di un calcio o un pugno vero. Lui non l’aveva mai picchiata, non aveva mai osato alzare un dito su di lei, ma in quel momento fu come se lo avesse appena fatto. Per lei fu impossibile tenere a freno la mano. Un po’ perché voleva negarlo, un po’ perché non voleva che lui vincesse quella discussione in un modo così infimo, un po’ per la sua stessa disperazione, gli sferrò un fortissimo schiaffo, colpendo oltretutto un punto sul suo volto già segnato da un brutto ematoma viola.

Vi fu un rumore orrendo, il ragazzo fu costretto a voltare la testa di profilo dopo l’impatto, la sua guancia si fece già visibilmente arrossata. Abbassò lo sguardo, serrò le labbra e così rimase, per diversi istanti.

Amalia lo osservò con il fiato grosso, gli occhi lucidi, molto prossimi al pianto, e la mano ancora sospesa a mezz’aria. Guardò quel ragazzo che aveva amato con tutta sé stessa, per il quale aveva avuto così tante considerazioni positive che ormai aveva perso il conto, per il quale aveva provato molti sensi di colpa per tutte le volte che lo aveva rimproverato. In quel momento sapeva che, dopo quella loro discussione, dopo il gesto da lei compiuto, nulla sarebbe più stato come prima. Qualcosa si ruppe, nei toraci di entrambi. E non fu bello. Non fu bello per niente.

«Esci da questa stanza... esci...» mormorò lei, quasi implorante, con le prime lacrime che solcavano le sue guancie. «Non voglio più vederti.»

Il ragazzo fissò ancora il pavimento, sbattendo le palpebre, muovendo la mascella infastidito dal dolore bruciante alla guancia, poi drizzò la testa, evitò rigorosamente lo sguardo della ragazza e si diresse alla porta. Amalia si abbracciò il ventre come se si fosse appena ferita o come se stesse cercando di proteggerlo, mentre il suo sguardo si abbassava e la vista le si appannava per via delle lacrime salate.

Red X si fermò sull’ingresso, un istante dopo aver aperto la porta. Fissò il corridoio deserto con sguardo indecifrabile. «Così è finita?» domandò, con tono incolore. Poteva essere triste, arrabbiato o perfino felice, era impossibile capirlo.

Amalia non si voltò neanche. Non rispose nemmeno, rimase con la testa bassa, a morire dentro in silenzio.

Lui grugnì, anche se non aveva ottenuto risposta. «Bene.» Uscì dalla stanza senza nemmeno portarsi dietro l’occorrente per medicare le altre sue ferite e sbatté la porta. L’eco riecheggiò per tutti i corridoi, arrivò dall’altra parte del castello, mentre per Amalia fu qualcosa di ben peggiore. Quel rumore non era un semplice effetto acustico. Era il punto di non ritorno. Aveva chiuso quella porta e con essa un capitolo delle loro vite. Era la fine tra loro due.

Singhiozzò molto più forte, massaggiandosi il ventre, la custodia di ciò che era il frutto dell’amore tra lei e Red X, che da quel giorno in poi altro non sarebbe stato che una cicatrice lasciata dalla loro relazione. Le lacrime scivolarono sul suo volto, le caddero sulle mani, sul ventre, sul pavimento. E poi arrivò la disperazione vera e propria. Aveva il materasso poco distante da lei, ma non riuscì ugualmente a raggiungerlo. Crollò in ginocchio e riversò tutto il suo dolore e la sua sofferenza in un pianto che mai e poi mai si sarebbe aspettata arrivasse in quel modo.

 

***

 

I Titans si accomodarono nella sala da pranzo, anche se presto avrebbero dovuto consumarvi la cena. Una stanza come le altre, molto ampia, con il pavimento ricoperto da lucide piastrelle nere, muri e soffitto verniciati dello stesso colore, lisci e senza imperfezioni. Uno sfavillante lampadario risplendeva sopra le loro teste. Era costituito da un materiale simile al cristallo, sul quale i raggi del sole ormai calante che entravano dalla finestra si riflettevano, illuminando tutta la stanza. Decine di quadri raffiguranti i probabili predecessori di Alpheus li osservavano severi, accanto ad altre tele raffiguranti paesaggi e nature morte o astratte.

Al centro della sala sorgeva un enorme tavolo circondato da decine di sedie con sedili di pelle, morbide e confortevoli. La tovaglia era bianca e immacolata, diverse brocche contenenti acqua fresca e bevande simili al vino erano già disposte su di essa, insieme a due tipi di calici, uno per l’acqua e uno per il vino, le posate erano d’argento ed erano almeno sei per parte, disposte in modo da formare una scala decrescente. Inutile dire che i Titans, BB in particolare, usavano la stessa forchetta e lo stesso coltello per ogni cosa, così come lo stesso calice. Il mutaforma una volta aveva perfino usato la tovaglia per pulirsi le labbra macchiate, ottenendo poi i migliori sguardi omicidi da parte di Robin e Corvina. L’unica che se la cavava egregiamente in quell’ambiente reale era Stella, per ovvi motivi. Neppure Amalia sapeva come comportarsi con tutte quelle posate, o Terra, la quale era scappata dalla propria famiglia reale da tempo immemore e di quella vita non ricordava alcunché. Erano tutti pesci fuor d’acqua, in poche parole.

Parlottarono a bassa voce, del più e del meno. BB e Cyborg erano seduti vicini, come al solito, così come Robin e Stella, che si trovavano accanto a loro. Terra invece era seduta dall’altra parte del tavolo, con un posto vuoto alla sua destra e due alla sua sinistra. Il primo era destinato a Canoo, che sedeva sempre vicino ad Alpheus, il capotavola, mentre gli altri due erano di Amalia e Red X, il quale sedeva vicino a Corvina, l’altra capotavola. La bionda avrebbe voluto con tutta sé stessa sedersi vicino alla maga, ma purtroppo avrebbero entrambe finito con l’attirare l’attenzione e La Salvatrice non voleva.

Passarono diversi minuti prima che un’altra persona li raggiungesse, ovvero la stessa capotavola. Entrò nella sala con passo aggraziato, tenendo lo sguardo alto e facendo di tutto per non incrociare gli occhi dei suoi amici mentre il suo corpo seminudo era in bella mostra. Terra arrossì quando la vide e si costrinse a tenere le iridi incollate alle posate sulla tovaglia. Il suo cuore accelerò i battiti quando la maga si sedette e finalmente salutò i compagni. Ogni volta che sentiva la sua voce le pareva quasi irreale, considerando i momenti lunghi come anni interi che trascorreva senza sentirla. La bionda alzò appena lo sguardo, per poi incrociare proprio gli occhi della maga. Fu solo un’occhiata di sfuggita, le loro iridi si sfiorarono appena, ma bastò ad entrambe per farle fremere.

«Corvina, stai bene?» le domandò Robin, distogliendo la loro attenzione. «Ci sono novità?»

La maga sospirò e scosse la testa. «No, purtroppo no. Ci sto lavorando, ve lo giuro, sto facendo del mio meglio per riuscire a toglierci tutti da questo impiccio, ma ora come ora i risultati sono zero. Mi dispiace, dovrete resistere ancora un po’ di tempo.»

Il leader annuì, mascherando la sua esasperazione. «Ok... se solo ci dicessi cosa dobbiamo fare per aiutarti, noi non esiteremmo a...»

«Non potete fare niente» lo interruppe la maga con tono fermo. «Se volete davvero aiutarmi, dovete solo restarvene in disparte e portare pazienza.»

Robin ammutolì e rinunciò. Corvina era l’unica che riusciva ogni volta ad avere l’ultima parola con lui.

«Canoo ed Alpheus dove sono?» domandò Cyborg.

La maga spostò lo sguardo su di lui. «Non li vedo da un po’. Alpheus è rimasto impegnato tutto il giorno, mentre Canoo è rimasto con me fino a qualche ora fa’, ma poi anche lui se n’è andato. Credo che a cena li vedremo di nuovo... piuttosto, anche qui manca qualcuno. Red X e Amalia?»

Stella trasalì, stringendo con una mano una posata, con l’altra il palmo di Robin. Quella sua reazione sorprese Corvina, che inarcò un sopracciglio. «Che è successo?»

«Problemi alla locanda...» sospirò Cyborg. «X e Galvor hanno avuto un brutto battibecco che è sfociato in una rissa. Io ero presente quando è successo. Ho cercato di intervenire, ma gli amici di Galvor mi hanno trattenuto.»

Corvina ascoltò incredula il racconto. «Ma... perché Galvor e Red X lo hanno fatto?»

Il robot si strinse nelle spalle. «A Galvor non piace la nostra presenza e a Red X non piace Galvor. Metti insieme le cose, aggiungi il fatto che entrambi erano ubriachi, ed eccoti la spiegazione.»

Non appena terminò di parlare, la maga appoggiò la testa allo schienale della sedia e sospirò. La situazione cominciava davvero a farsi problematica. «Almeno voi due state bene?»

Cyborg annuì. «Io abbastanza, era X quello messo male, ma Amalia lo ha preso con sé e lo ha portato al palazzo, probabilmente si starà occupando di lui in questo momento.»

La ragazza si prese il mento, riflettendo. Il fatto che Red X odiasse quel posto era saltato all’occhio di tutti praticamente subito, perciò forse avrebbe fatto meglio a parargli di persona. L’ultima cosa che voleva, erano problemi con i fongoid in città. Non aveva alcuna voglia di mettersi a cercare cosa dovesse fare in quanto Salvatrice e calmare perfino gli animi dei cittadini.

Terra osservò Corvina. Com’era bella, anche quando rifletteva. E si sentì in pena per lei. La maga era quella su cui praticamente tutti stavano facendo riferimento, in quel frangente. Ricopriva un ruolo di vitale importanza per i fongoid, da quello che aveva capito, e allo stesso tempo doveva anche trovare il modo di permettere ai suoi amici di andarsene da quel pianeta e rivedere casa loro. Quanto avrebbe voluto aiutarla, o anche solo consolarla con un abbraccio, ma nulla di tutto ciò le era concesso. Poteva solo guardarla mentre le sue occhiaie peggioravano e i suoi capelli si facevano sempre più incolti. Corvina era esausta, si vedeva da chilometri e chilometri di distanza. E lei non poteva farci nulla.

Rimase così tanto concentrata sulla maga che non si accorse che Robin aveva notato il suo sguardo e aveva inarcato un sopracciglio, rimanendo in silenzio. Non appena Terra si accorse di avere il riflettore del leader puntato su di sé, trasalì e incrociò il suo sguardo. Il ragazzo la osservò con aria interrogativa, lei per tutta risposta abbassò di nuovo gli occhi, incapace di sostenere le iridi azzurre di lui, pregando con tutta sé stessa di non essere arrossita o quell’impiccione avrebbe capito tutto. O peggio, avrebbe potuto fraintendere e credere che fosse arrossita per causa sua.

Non poté rimuginarci più di tanto, perché altri due dei mancanti all’appello entrarono nella sala: Canoo e Alpheus. I ragazzi fecero per alzarsi in segno di rispetto, ma il re li liquidò. Sembrava piuttosto agitato, così come Canoo. «Mi è giunta voce che il capitano delle guardie Galvor e il vostro amico hanno avuto un diverbio alla locanda di Bardock, ebbene, ciò è vero?»

I ragazzi si scambiarono occhiate nervose, ognuno di loro temeva che ad Alpheus la cosa sarebbe piaciuta molto poco. Fu Robin, poi, a rispondere. «Sì, purtroppo sì. Tutti noi siamo terribilmente dispiaciuti e chiediamo scusa a nome suo.»

Alpheus sospirò esausto, sorprendendo tutti i presenti. Non parve arrabbiarsi, semplicemente... tutto ciò sembrò farlo sentire ancora più vecchio e stanco. «No, sono io che devo chiedere venia a nome di Galvor. È sempre stata una guardia leale e un ottimo lavoratore, ma ultimamente sta davvero rischiando di manomettere la sua posizione. Provvederò immediatamente a lui.»

«No, non serve, davvero!» lo fermò Robin, con un gesto della mano.

Ma il re scosse la testa. «Non è la prima volta che Galvor si lamenta di voi, anche se non avete mai fatto nulla di male. Immagino che se il vostro amico ha litigato con lui, è perché è stato provocato, ho ragione?»

Gli sguardi si posarono su Cyborg, l’unico che avrebbe potuto rispondere con certezza. Il robot osservò i presenti, poi sospirò e guardò il re. «Sì, Galvor aveva insultato la sua fidanzata.»

L’anziano fongoid grugnì infastidito, battendo lo scettro a terra. «Come temevo. Non vi preoccupate, mi assicurerò che non vi dia più fastidio. Voi siete nostri ospiti e non meritate simili trattamenti. Gli manderò un richiamo ufficiale. Piuttosto, adesso il vostro amico dov’è? Qui non lo vedo.»

«La sua fidanzata ha pensato a lui. Credo che lo stia aiutando con le sue ferite.»

Il re annuì. «Molto bene, cercherò di parlare anche con lui quando ne avrò modo. Se lo vedete, ditegli che la nostra infermeria è sempre aperta e che se ha bisogno di cure più grandi può benissimo dirigersi lì. E ora scusatemi, ma non posso trattenermi a cena con voi, questa sera. Devo occuparmi immediatamente di questa faccenda. Se Galvor vi infastidirà di nuovo, lo solleverò dal suo incarico.»

Nessuno dei presenti era in vena di discutere la decisione di Alpheus, anche se i motivi per farlo erano molti. Se Galvor si fosse visto sollevare l’incarico da Alpheus per colpa loro si sarebbe sicuramente arrabbiato più di quanto già non fosse e la situazione già grigia non avrebbe fatto altro che peggiorare. L’anziano sovrano si congedò poco dopo e uscì dalla sala. Canoo andò invece a sedersi nella sedia tra Terra e Corvina, anche lui sospirando piuttosto esausto. Si stravaccò letteralmente sulla sedia, incrociando le gambe e cominciando a dondolarsi. «Davvero, scusate Galvor, ma è un idiota. E io non smetterò mai di ripeterlo.»

Un sorriso scappò dalle labbra di alcuni dei presenti. Canoo in assenza di Alpheus e dunque non costretto a comportarsi in maniera regale, spesso e volentieri parlava senza mezzi termini.

«Nessun problema, davvero» rassicurò Cyborg, giocherellando con una posata. «Era ubriaco, dopotutto.»

«Motivo in più per non tenerlo come guardia...» brontolò Canoo, posando entrambe le mani sul proprio grembo. «Ma purtroppo lui è uno dei pochi in grado di far funzionare gli Scettri...»

Quelle parole incuriosirono tutti i presenti. «Gli Scettri?» domandò Robin a nome di tutti.

Lo sciamano annuì e afferrò il proprio bastone, che aveva poco prima appoggiato a terra, lo sollevò e lo mostrò a loro. «Vedete, la gemma che vedete incastonata qui è in realtà uno dei molti reperti storici lasciatici in eredità dalla razza che visse su Quantus prima di noi, gli Zoni. Ognuna di queste pietre possiede un enorme potere, che non tutti sono in grado di utilizzare.» Mentre parlava, strinse più forte la presa intorno al manico e la pietra brillò di una tenue luce azzurra, dopodiché il lampadario si spense completamente, per poi riaccendersi pochi istanti dopo, facendo gemere di sorpresa tutti i ragazzi. «Io sono colui che meglio di tutti riesce a maneggiare questi oggetti, perciò sono divenuto lo sciamano del villaggio anni orsono. Le guardie come Galvor riescono solo a generare sfere di energia da usare come armi, mentre io posso fare molto altro, come avete appena visto» concluse, posando di nuovo a terra il bastone.

«Wow...» borbottò BB. «Ma... credevo che i fongoid non fossero dei guerrieri!»

«Infatti non lo siamo, ma dovremo pur difenderci in qualche modo, no? Dopo gli avvenimenti di diversi anni fa, poi... Dubito che, tuttavia, riusciremmo a vincere un conflitto con altri predoni, ma ci piace pensare di potercela fare, grazie a queste pietre.»

Robin finalmente scoprì come mai quella volta che Galvor gli aveva puntato il bastone, la sua pietra si era illuminata. «Ed è difficile controllare questa energia?» domandò, interessato.

Lo sciamano piegò la testa. «Non tutti ci riescono. Saper usare queste pietre è una capacità che si ha con la nascita e che non si può imparare in alcun modo. O ce l’hai, o non ce l’hai. L’unica cosa che si può fare con essa è perfezionarla, come io ho fatto, ma come potrete ben intuire, prima bisogna possederla. Galvor ha avuto la fortuna di avere ciò, così come tutte le altre guardie e lo stesso Alpheus.»

«Puoi riparare navi con quello?» si intromise Cyborg, anche se la risposta già sospettava di saperla.

Lo sciamano ridacchiò, rispondendo ironico: «Certo, poi posso spegnere il sole e dominare l’universo...»

«C’ho provato!» borbottò il robot, tornando a guardare la forchetta.

«Anche... anche le pietre che hai intorno al collo hanno quel potere?» domandò Terra osservando la collana di cristalli dello sciamano. Le differenze, infatti, erano minime. Tra esse e la pietra dello Scettro cambiavano solo le dimensioni.

Il fongoid fece un cenno di diniego con la testa. «Non proprio. Queste...» Staccò uno dei cristalli e lo diede alla ragazza, che lo prese fra le sue mani e lo osservò rapita. «... sono molto più piccole di quelle degli Scettri, non hanno che un briciolo del loro potere. I fongoid le usano semplicemente come scaccia fantasmi, o per allontanare la mala sorte.»

«Nemmeno se usate tutte insieme?» insisté Terra sollevando gli occhi dalla pietra, suscitando sguardi incuriositi da parte di tutti, anche da Corvina. La maga sorrise di fronte all’interesse della bionda. Adorava la sua espressione incuriosita. Sembrava una bambina.

Canoo, nel frattempo, scosse nuovamente la testa. «Nessuno è mai riuscito a controllare più di un cristallo per volta, nemmeno io. Altrimenti si scaturirebbe un’energia non indifferente ed incontrollabile.»

«Oh...» mormorò Terra, sorpresa e in parte anche delusa. Fece per restituire la pietra, ma lo sciamano la rifiutò, sorridendo. «Tienila pure, tanto di quelle ne ho a bizzeffe.»

La ragazza si illuminò. «Posso davvero? Grazie!» Si mise la pietra in tasca, sorridendo gioiosa.

Lo sciamano addolcì la sua espressione, guardandola, poi si voltò verso il corridoio, quasi adirato. «Allora, questa cena quando arriva? Io ho fame!»

Alcune risatine si sollevarono quando lo videro comportarsi in quel modo.

Diversi fongoid arrivarono poco dopo, quasi come se le parole di Canoo li avessero appena svegliati, portando ogni qualsivoglia di ben di dio sulla tavola e imbandendola come un buffet. Lo sciamano si sfregò le mani compiaciuto, una volta che i camerieri furono lontani, poi ci diede dentro. E nel giro di poco tempo tutti i ragazzi lo imitarono, dimenticandosi completamente delle formalità. Dopotutto, Alpheus non c’era.

Nel giro di poco tempo la conversazione si ravvivò e si cominciò a parlare del più e del meno, diverse risate scapparono alcune volte. Tutti quanti sembrarono ricordarsi solo allora che, dopotutto, erano tra amici e che pertanto divertirsi era lecito. Pure Stella, dapprima angosciata per la sorella e Red X, riuscì a dimenticarsi di quei grigi pensieri e si lasciò andare.

Fece tremendamente bene a tutti loro ridere un po’, anche Corvina riuscì per quel momento a scordarsi delle sue responsabilità. Non rise come gli altri, né fece battute, si limitò a sorridere e a gustarsi l’ottimo cibo preparato dai cuochi reali. E le occhiate tra lei e Terra con successivi rossori non mancarono di certo.

Nessuno di loro avrebbe mai potuto immaginarsi cosa fosse appena successo sopra le loro teste, nella camera di Amalia e Red X e che, mentre loro ridevano e scherzavano, qualcun altro piangeva disperatamente.

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Capitolo 13
*** Notte ***


The Good Left Undone

XIII

NOTTE

 

 

Red X riaprì lentamente gli occhi. Non ricordava nemmeno di essersi addormentato, ma quando realizzò di trovarsi sdraiato su una superficie dura e fredda e di avere perfino un rivolo di bava che scendeva lungo il mento, intuì che doveva essere accaduto. Con un sonoro sbadiglio si mise a sedere, strofinandosi gli occhi con i palmi delle mani. Un mal di testa lancinante lo stava attanagliando, sentiva ancora le palpebre pesanti e le gambe intorpidite. Era distrutto, nonostante avesse appena dormito. Quando allontanò le mani dal volto e aguzzò la vista ancora offuscata dalla stanchezza, realizzò di non trovarsi nemmeno nella sua camera al palazzo reale. Era in strada, in pieno villaggio. Questo spiegava il suo giaciglio così scomodo e i dolori alla schiena, aveva appena dormito su una panchina di pietra.

La sera era calata da molto tempo ormai, era praticamente notte. Il cielo azzurro era svanito, lasciando spazio ad un manto blu scuro e illuminato dalle stelle e dalla luna. Ben tre lune, a dire la verità. Le strade erano deserte, i fongoid erano rientrati nelle loro abitazioni per il pernottamento, in giro non c’era praticamente nessuno. Lui era l’unico e solo in mezzo a quella strada inanimata. Cercò di mettere in ordine i pensieri e di capire perché diavolo si trovasse lì, ma nel tentativo di farlo un'altra fitta di dolore alla testa lo colpì, spingendolo a fare una vistosa smorfia di dolore. Si massaggiò la tempia, con un’espressione sofferente. «Merda... che diavolo ci faccio qui?»

Si alzò a stento in piedi e cominciò a guardarsi intorno, perplesso. Notte, da solo in paese senza sapere come ci fosse arrivato, nessun ricordo delle precedenti ore, mal di testa, dolori dalla dubbia provenienza lungo tutto il corpo... sì, era decisamente in un post-sbronza. Uno di quelli potenti.

Mentre tentava ancora inutilmente di capirci qualcosa in quella situazione, con la mano che usava per massaggiarsi la testa sfiorò una lieve protuberanza. Sorpreso, la toccò meglio ed intuì ben presto, dal fastidio che gli arrecò tastandola, che si trattava di un livido. Uno scorcio di memoria improvviso arrivò in quello stesso istante. La locanda, lui che beveva come al solito, Cyborg e per finire Galvor. Il ragazzo strinse i pugni. Quello stronzo di Galvor. Si erano picchiati alla locanda dopo un breve litigio, entrambi aiutati non di poco dall’alcol che aveva cancellato ogni lume della ragione dei due. La rissa aveva poi proseguito, fino a quando Bardock non li aveva fatti separare. E poi... era arrivata Amalia. Sgranò gli occhi di colpo quando si ricordò dell’arrivo della tamaraniana. «Cazzo...» rantolò, guardando di scatto la collina con in cima il palazzo. Non passò molto prima che ricordasse cos’era accaduto dopo l’arrivo di lei e il loro ritorno ai loro alloggi. Il loro litigio, lo schiaffo che aveva ricevuto e lui che usciva dalla stanza. Ognuno di questi pensieri fu un pugno allo stomaco. Sentì la guancia bruciare per il ceffone ricevuto, nonostante dovessero essere passate diverse ore da quel momento.

Si sbatté la mano sulla fronte. «Cazzo, cazzo, cazzo... CAZZO!» gridò di colpo, girandosi e dando un calcio per la frustrazione alla panchina, per poi pentirsene amaramente subito dopo. Mugugnò di rabbia e dolore e si sedette di nuovo, massaggiandosi il collo del piede. Si abbandonò sul poggia schiena, sospirando esausto. «Che cazzo ho combinato...?»

Aveva litigato bruscamente con Amalia. La sua Amalia. La futura madre di suo figlio. L’aveva abbandonata nella sua stanza, dopo averle rinfacciato gli errori del suo passato. Era ubriaco, non era in sé, ma ormai era tardi. Ormai l’aveva fatto. Rimangiarsi quelle parole non sarebbe mai servito a niente. Era finita tra loro. Dopo due mesi scarsi in cui insieme erano letteralmente rimasti poco niente, giusto un paio di giorni all’inizio e il viaggio nella nave, avevano chiuso.

Si prese il volto tra le mani e gettò la testa all’indietro, soffocando all’ultimo un urlo frustrato che avrebbe sicuramente finito con lo svegliare tutto il villaggio. Si limitò a tormentarsi il volto e i capelli, grugnendo di rabbia. Rabbia rivolta tutta rigorosamente sé stesso e al suo stupidissimo comportamento. Uno stupido. Un colossale idiota, ecco cos’era. Era rimasto così concentrato sul lamentarsi del fatto che non voleva stare in quel villaggio e a bere che si era dimenticato che la cosa più importante che aveva era sempre stata davanti ai suoi occhi e che in qualunque posto fosse mai potuto essere, lei c’era. Non aveva niente sulla Terra per cui tornare, era Amalia l’unica cosa che contava per lui. Perché era stato così cieco? Solo in quel momento se ne rese effettivamente conto. Sebbene di litigi ne avessero avuti molti sulle spalle, quello fu il primo che gli fece aprire davvero gli occhi.

Tuttavia, forse Amalia aveva perfino esagerato. Lui stava cercando di scusarsi con lei, ma non ci riusciva per via della sbronza. Forse lei avrebbe dovuto aspettare che lui si riprendesse, prima di discuterne, ma non era quello il problema più grande. Aveva cominciato a deriderlo e lui, non in sé, l’aveva presa molto sul personale, finendo con il dire la cosa sbagliata senza nemmeno capire che forse avrebbe dovuto scusarsi anziché uscire dalla stanza.

La colpa era di entrambi. Sua, per averla delusa l’ennesima volta ubriacandosi e combinando perfino di peggio, di lei perché aveva esagerato. Aveva perfino detto che lui l’avrebbe tradita, se ne avesse avuto l’occasione. Red X poteva bere, poteva ubriacarsi e non capire assolutamente più niente, ma mai e poi mai l’avrebbe tradita, neanche con i fumi dell’alcol in circolo. Aveva davvero così poca fiducia in lui?

Improvvisamente, ebbe un dubbio. Doveva essere il classico stereotipo di ragazzo che dopo un litigio con la fidanzata tornava da lei strisciando e implorando perdono, oppure era lei a doversi scusare con lui?

Certo, si era ubriacato, certo, l’aveva fatta sentire male, ma mai aveva fatto quelle cose con cattiveria. Da come lei diceva, invece, sembrava che lui fosse un mostro che godeva nel ferirla. Per non parlare poi di come l’aveva deriso dopo che lui aveva detto di aver colpito Galvor solo per lei. Forse era stata una cosa stupida, assolutamente, ma era comunque la verità. A lui non era andato per niente giù il fatto che dalla bocca di quel porco di Galvor fossero usciti insulti a lei rivolti, nonché quello schifoso riferimento alla sua gravidanza. In quel momento Red X aveva perso la testa, molto più di quanto già non aveva fatto per via dell’alcol. Non era in sé, non si sarebbe mai stancato di dirlo. Se fosse stato lucido non avrebbe mai fatto tutto quello. E sì, forse lui non avrebbe mai dovuto bere, ma lei non avrebbe dovuto deriderlo in quel modo per un qualcosa che aveva fatto solo per difenderla. Se lasciava Galvor impunito, cosa avrebbe impedito a tutti gli altri fongoid contrari alla loro presenza di insultare Amalia e il bambino? O di farle anche di peggio?

Red X ringhiò e strinse i pugni. Dio, quanto avrebbe voluto dirle tutte quelle cose in faccia e non pensarle a discussione chiusa. Le avrebbe fatto capire che lui non era per niente un idiota e che teneva a lei molto più di quanto in quel mese non avesse dato a vedere.

Grugnì e si rimise di nuovo in piedi, per poi fissare la collina. Doveva tornare al palazzo. Nemmeno lui sapeva cosa fare con esattezza una volta arrivato la, ma di certo restarsene in quel villaggio come un vagabondo non era la soluzione migliore.

Annuì con convinzione e fece per incamminarsi, quando un parlottare lontano lo costrinse ad interrompersi di colpo. Quelle voci distanti non avevano molte spiegazioni, qualcun altro oltre a lui era in giro di notte, dopo il coprifuoco. Scrollò le spalle. Chiunque fosse, qualunque cosa stesse facendo, non lo riguardava. Lui odiava la gente che ficcava il naso nei suoi affari e di conseguenza non ficcava il naso negli affari degli altri. Tirò dritto, cominciando a camminare sul ciottolato con le mani in tasca, rimuginando sul suo passo successivo, quando vide un paio di ombre spuntare nella strada principale, proiettate dalla luce della luna che si infrangeva su delle figure in movimento in una via secondaria. Arrestò una seconda volta la sua marcia, questa volta irrigidendosi come un chiodo quando riconobbe, in mezzo a quel brusio, la voce di Galvor. Imprecò sotto voce. L’ultima cosa che voleva era incontrarlo di nuovo, di notte poi. Non perché avesse paura di lui, ci mancava solo quello, ma perché temeva che la situazione potesse sfuggire di nuovo di mano. E siccome lui non si sarebbe mai tirato indietro di fronte alla prospettiva di un combattimento, intuì che era meglio sparire da lì prima che lo notassero. L’ultima cosa che voleva era partecipare ad un altro rissone nel cuore della notte, sia per la situazione già precaria con Amalia per quel motivo, sia perché partecipare a due combattimenti nell’arco di una giornata avrebbe fatto incazzare non poco i poveri cittadini. Perciò, non appena vide una delle bancarelle di legno piazzate sul bordo della strada, rigorosamente svuotate dei loro prodotti per la notte, vi si diresse come un razzo e vi si nascose dietro, cosicché Galvor e i suoi passassero senza notarlo.

Probabilmente facevano la ronda notturna, essendo guardie. Il ragazzo si acquattò contro la superficie liscia della bancarella quando sentì le voci farsi molto più vicine ed udì perfino lo scalpiccio dei loro passi sul ciottolato. Rimase immobile, facendo sua la penombra e nascondendosi dentro di essa come in un rifugio sicuro, aiutato anche dai suoi abiti neri che lo aiutarono molto a confondersi dentro di essa. In quella condizione, i fongoid non lo avrebbero notato nemmeno se la bancarella non vi fosse stata. Era invisibile.

L’intenzione di Red X era quella di lasciare che il gruppo di alieni continuasse per la loro strada e, una volta abbastanza lontani e con la situazione sotto controllo, uscire dal nascondiglio e procedere verso il palazzo. Tuttavia, udendo accidentalmente i loro discorsi, sentì parole che lo sorpresero non poco. La loro non era un’allegra discussione tra colleghi di lavoro. Galvor in particolare, il suo tono era incavolato nero, spiccava nettamente nel gruppo in quanto indignazione nella voce.

«... pestato i piedi per l’ultima volta!» stava dicendo, sbattendo a terra il suo scettro, indignato. «Un richiamo da parte di Alpheus! Per colpa loro io, il capo delle guardie reali, ho ottenuto un richiamo da parte del re in persona! Questo è troppo! Me la pagheranno cara! Se quell’ingrato e quella gandz della sua ragazza non vogliono stare qui, bene, so esattamente come farli andare via!»

Il ragazzo nell’ombra serrò la mascella, ma si costrinse a restare immobile. Avrebbe dovuto scoprire cosa "gandz" significasse, prima o poi.

«Ma... non sarà pericoloso?» domandò qualcun altro in mezzo al gruppo, Red X non lo riconobbe. Questo sembrava molto più titubante e quasi spaventato.

«Forse. Ma se ognuno di voi recita bene la sua parte, i danni saranno ridotti al minimo e ci disferemo di quei rozzi terrestri che hanno osato mettere piede nella nostra terra!» replicò Galvor, sempre con rabbia e convinzione. «E comunque, chiunque di voi è liberissimo di andarsene ora, ma gli converrà non fare parola con nessuno di questo piano, o lo scaraventerò tra le fauci del Pozzo!»

Diversi mormorii si sollevarono tra gli altri fongoid. X quasi sperò che quelli lo mandassero al diavolo. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse tramando, ma se gli altri apparivano così insicuri, nonostante il loro odio per il ragazzo in nero e i suoi amici, non doveva essere nulla di buono.

«Io sto con Galvor» decise infine uno di loro, muovendosi nella penombra. «Sono stanco di vedere quei tizi che si aggirano per il nostro villaggio fissandoci dall’alto! La vita per loro è facile, ci pensa re Alpheus a sfamarli, quando fino a qualche mese fa’ la gente moriva di fame!»

Red X inarcò un sopracciglio. Noi li fissiamo dall’alto? Ma quando mai?

«Ottimo Kyron!» esclamò Galvor. «E voi altri? Preferite scacciarli in nome della vostra razza, per la vostra gente, oppure unirvi a tutti quei fessi che gradiscono davvero la loro presenza?»

Altri mormorii, altre persone che riflettevano. E poi, uno dopo l’altro, i fongoid si schierarono con Galvor. Man mano che Red X sentiva i loro consensi, una vistosa smorfia si stampava sul suo volto. Razza di imbecilli che si facevano manipolare in quel modo da un essere senza cervello come quello. Li sentì poco dopo allontanarsi, riprendendo la marcia e continuando a parlottare tra loro, confabulando su chissà quale piano diabolico atto a scacciare i ragazzi dal villaggio. Per un attimo l’ex criminale pensò di uscire allo scoperto e mandare in fumo tutto il loro piano, ma poi si bloccò. Se fosse uscito in quel momento li avrebbe scoperti mentre confabulavano, vero, ma non c’era nulla di concreto a riguardo. Essendo reduce da una sbronza, poi, era difficile che qualcuno lo prendesse sul serio, considerando anche l’ottima reputazione che si era fatto dopo la rissa alla locanda. Vedendoli allontanarsi sempre di più e svanire nella penombra, tuttavia, capì che il tempo stringeva. Doveva sbrigarsi a fare qualcosa e in fretta.

Dopo un lungo momento, sospirò e si alzò in piedi. «Al diavolo.»

Amalia poteva attendere. Qualunque cosa quei bastardi stessero tramando era molto più grossa. Riguardava lui, la tamaraniana, Stella, Robin e tutti gli altri. Da come ne avevano parlato, sembrava esserci l’intera popolazione del villaggio in ballo. X realizzò ben presto che lui e i Titans avevano molti più nemici di quanto potessero immaginare. Non c’era solo Slag in giro per la galassia, c’erano pure le stesse persone che li stavano ospitando. Doveva fare qualcosa e alla svelta. Si allontanò dalla bancarella con passo felpato e con il favore del buio e delle tenebre cominciò a pedinarli, attendendo il momento in cui li avrebbe beccati con le mani nel sacco.

 

***

 

«Qualcosa non va, Stella?»

La ragazza trasalì ed alzò la testa, voltandosi verso di Robin. Il leader la osservava perplesso da diverso tempo ormai. Si era seduta sul bordo del letto non appena erano rientrati nella loro camera e li era rimasta, a fissare il nulla davanti a sé con un’aria decisamente turbata. Non aveva praticamente parlato per tutta la cena, né in quel momento, nemmeno con Robin, perciò lui aveva cominciato ad impensierirsi.

«Mh? No, no, sto bene...» mugugnò la tamaraniana in risposta, per poi sospirare in un modo che tradì completamente le sue emozioni.

Robin inarcò un sopracciglio, poi le si avvicinò e si sedette accanto a lei. «Puoi dirmelo se c’è qualcosa che non va, lo sai.»

Stella sollevò gli occhi ed incrociò quelli del ragazzo, il quale si smarrì in quelle enormi e brillanti pozze color smeraldo. Si pizzicò il labbro inferiore con i denti, poi sospirò una seconda volta. «Sono... preoccupata per mia sorella. Non l’ho più vista da questa mattina e a cena non è venuta... ho paura che... le sia successo qualcosa.»

Il ragazzo storse la bocca e annuì. Dunque era ad Amalia che pensava. Ancora.

«Sono certo che sta bene» disse, cercando di farla smettere di preoccuparsi.                      

«E se invece non fosse così?» domandò Stella, insistendo, rendendo vano lo sforzo di Robin. «Se invece fosse...»

«Stella.» Il leader la interruppe, prendendo le mani della fidanzata fra le sue, per poi sorriderle accomodante. «Tua sorella sa cavarsela da sola, devi stare tranquilla.»

«Ma...»

Il ragazzo la zittì, posandole un indice sulla bocca. «Non ci pensare. Ormai è tardi, sicuramente starà dormendo, oppure se è ancora con Red X puoi benissimo immaginare cosa stia facendo...»

Le guancie di Stella assunsero una vivace tonalità di colore rosso, come i suoi capelli, e la ragazza distolse lo sguardo da lui. «Ehm... beh...»

Robin le prese il mento e la costrinse delicatamente a rialzare la testa. Addolcì il sorriso quando notò il rossore sulle guancie di Stella. «Sei davvero gentile a preoccuparti così per lei, ma non è necessario. Lei sta bene e avrai senz’altro modo di vederla domani. Adesso invece...» Non terminò la frase, mentre le sue braccia si spostavano quasi automaticamente e cominciavano ad avvolgersi attorno al corpo morbido e vellutato di Stella. Strofinarono i fianchi della ragazza e le circondarono lentamente la vita. I palmi percepirono tutto il calore emanato dalla soffice pelle di lei e perfino diversi brividi d’eccitazione. La spinse delicatamente in avanti, avvicinandola a lui. I loro occhi non si separarono nemmeno per un istante, poté benissimo vedere la preoccupazione di Stella tramutarsi dapprima in sorpresa poi in riluttanza.

Il leader appoggiò la fronte contro quella della ragazza e cominciò ad imprimere una lieve pressione, costringendola ad indietreggiare lentamente, fino a quando non si ritrovarono l’uno sdraiato sopra l’altra sul materasso. A quel punto, le loro labbra parvero come calamitate tra loro e si catturarono a vicenda, cominciando la loro classica danza lussuriosa che mai e poi mai li avrebbe stufati.

I mugugni soffocati di Stella fu l’unico dolce e melodioso suono che andò a riempire la stanza. Robin invece rimase in silenzio. Il cuore accelerò i propri battiti, mentre quel dolce momento proseguiva e il fiato umido del naso di Stella soffiava contro il suo volto.

Le sue mani cominciarono ad indugiare verso il basso, senza l’esitazione che le aveva caratterizzate giorni e giorni prima, raggiunsero i glutei e vi affondarono dentro fameliche.

Robin e Stella stavano insieme da praticamente un mese e da un mese dormivano nella stessa stanza. Un rapporto meraviglioso quale era il loro, poco per volta aveva cominciato a diventare monotono per Robin. Monotono e, a conti fatti, sempre meno soddisfacente. I baci che un tempo riuscivano a colmare la sua brama di carne, ora non facevano altro che stuzzicarlo e invogliarlo a proseguire. Voleva andare oltre, era da tanti giorni ormai che lo desiderava. Era un essere umano, dopotutto. Non era colpa sua, erano gli stimoli. Una relazione come quella, con una ragazza stupenda come Stella, non poteva andare avanti a carezze. Di giorno potevano essere due ragazzi come tanti, potevano chiacchierare, tenersi per mano, scambiarsi dolci baci, ma di notte non poteva essere altrettanto.

Non aveva mai fatto pressione a Stella, per questo. Sapeva che era una ragazza pura e innocente, ma sperava che prima o poi potesse capire da sola che lui non voleva amarla solo con la mente, ma anche con il corpo. Ma dopo tanti giorni, passati condividendo lo stesso letto, ciò non era accaduto. E vedere come Stella sembrava avere più a cuore Amalia di lui, non lo aveva aiutato di certo. Era consapevole che ciò era una peculiarità di Stella, lei aveva a cuore praticamente tutto e tutti, figurarsi il sangue del suo sangue – a discapito di tutto ciò che era successo anni prima – però Robin si sentiva comunque leggermente infastidito. Ma quella notte le cose sarebbero cambiate. Si sarebbe fatto coraggio e avrebbe detto alla sua dolce metà che voleva far l’amore con lei. Prima a gesti, poi, se sarebbe servito, anche a parole. Era Stella, era la sua fidanzata, lei lo amava e lui amava lei, non doveva sentirsi a disagio nel fare ciò, era naturale, era ciò che due persone che davvero si amano fanno, proprio come Red X e Amalia. 

Le mani del ragazzo afferrarono un lembo della biancheria della ragazza e cominciarono a cercare di sfilargliela, ma Stella se ne rese conto e lo fermò posando i palmi sulle sue braccia. «Robin...» mormorò flebilmente, separandosi da lui e guardandolo con timidezza. «N-Non so se...»

«Stella.» Robin allontanò le mani e le carezzò dolcemente una guancia. «Ascoltami. Noi... stiamo insieme da un mese e dormiamo nello stesso letto da altrettanto tempo. Io... io ti amo, ti amo davvero, però non possiamo...»

«Robin, no...» Stella sembrò capire cosa lui stesse per dire, anche perché lei sue azioni erano state piuttosto eloquenti. Scivolò lentamente via da sotto di lui e si risedette sul bordo del materasso. «Non... non voglio...»

Il ragazzo la guardò scappare letteralmente da lui e si sentì quasi offeso. «Ma... perché?»

La tamaraniana si strinse nelle spalle e distolse lo sguardo. Scosse la testa, strizzando quasi con forza le palpebre. «Non me la sento... per favore, capiscimi...»

Sembrava quasi come se stesse scacciando via il pensiero dalla propria testa, così facendo. Robin sentì lo stomaco in subbuglio, guardandola. Provò vergogna e sensi di colpa. Ma allo stesso tempo, volle continuare. Ormai che aveva cominciato, tanto valeva che finisse. «Stella... guarda che non c’è niente di male. Noi ci amiamo, e tutte le persone che si amano fanno...»

«No, Robin» asserì Stella con fermezza, riaprendo gli occhi e fissando il pavimento. Si massaggiò le braccia con delicatezza, come se stesse cercando di scaldarsi dopo una folata d’aria fredda, poi scosse ancora la testa a sé stessa. «Non... non sono pronta per questo. È troppo presto, io... devo ancora abituarmi al fatto di non essere più su Tamaran. Se davvero mi ami, dammi un po’ di tempo. Solo un po’...» Spostò di nuovo lo sguardo verso di lui. «Ti prego...»

Quando incrociò di nuovo i suoi occhi, Robin si sentì uno straccio. Non riuscì a reggere lo sguardo e abbassò la testa. Tutti i pensieri di poco prima valsero meno di zero all’improvviso. La sua determinazione sfumò e si sentì un vero verme ad avere insistito in quel modo con lei. Doveva mettersi in testa che Stella non era una ragazza come le altre, lei era particolare, aveva un modo di fare tutto suo, vedeva la vita da una prospettiva totalmente differente rispetto a quella degli altri. Ed era per quello che era speciale, per quello lui la amava. E proprio per quello, decise di lasciar perdere con un sospiro. Tempo. Ciò di cui Stella aveva bisogno. Ciò che lui, molto a malincuore, le avrebbe dato. «Scusa... non volevo... metterti fretta.»

La ragazza si sdraiò sul materasso, appoggiò la testa sul cuscino ed inspirò. «Non importa. Buonanotte, Robin.»

Non sembrava molto convinta e quel saluto aveva tutta l’aria di essere un modo per chiudere la faccenda seduta stante. Robin si mordicchiò l’interno della guancia, rimanendo fermo immobile a guardarla. Trascorsero diversi minuti, prima che lui le si avvicinasse e le accarezzasse un fianco. Sospirò di nuovo, poi si chinò e le baciò una guancia, sperando che così facendo potesse farsi perdonare almeno in parte. «Buonanotte, Stella.»

Dalla tamaraniana non giunse alcuna risposta. Il ragazzo inarcò un sopracciglio, poi si accorse del fiato già pesante di Stella e abbozzò un sorriso. Si era già addormentata. E meno male che voleva andare da Amalia, poco prima. Abbassò le coperte e le rimboccò su di lei. Si passò una mano fra i capelli, con fare esausto, poi fece il giro del letto e si sedette sull’altro lato del materasso. Dopo diversi attimi di incertezza, si sdraiò a sua volta e sperò che il sonno cancellasse dalla sua mente gli avvenimenti dell’ultimo quarto d’ora.

 

***

 

Corvina era esausta, si vedeva a chilometri di distanza. Gli ultimi avvenimenti erano stati come una calamita che aveva attirato tutte le sue energie fuori dal corpo. Si sentiva letteralmente prosciugata. Dopo l’allegra cenetta in compagnia di poco prima e che le aveva permesso di staccare il cervello per un attimo, il peso della realtà le era crollato addosso come un macigno e si era sentita soffocare da esso. Voleva fare solo una cosa: dormire e sperare di dimenticarsi tutto.

Era talmente stremata che nemmeno pensò a Terra e a come doveva sentirsi. Avrebbe voluto passare un po’ di tempo con lei, le sarebbe piaciuto davvero molto, ma sapeva che se volevano andarsene alla svelta da Quantus doveva impiegare ogni momento buono del suo tempo per frugare tra gli antichi reperti dei fongoid insieme a Canoo. Jump City attendeva il ritorno dei propri eroi da tanto tempo ormai. Chissà cosa stavano facendo tutti i criminali mentre avevano la pista libera. Non voleva pensarci. Sperò che fossero i Teen Titans dell’East ad aver avuto la decenza di farlo.

Raggiunse finalmente camera sua e si chiuse la porta alle spalle, sospirando esausta. Cominciò a svestirsi e rimase praticamente in intimo mentre si sdraiava. Spense la candela sul comodino e la stanza piombò nel buio. Si acquattò sotto le coperte e rimase a fissare il soffitto pensierosa. Temeva che con tutti quei pensieri per la mente non si sarebbe mai addormentata. Red X che combinava guai, Terra con cui non riusciva più a passare il tempo, Robin che le stava con il fiato sul collo e le ricerche insieme a Canoo. Troppe cose, troppi problemi, continuando di quel passo avrebbe senz’altro finito con il passare la notte in bianco. E invece, non appena chiuse gli occhi, il suo respiro si fece pesante. E tutti i suoi problemi svanirono come neve al sole.

 

***

 

Stava volando. Volando alta nel cielo, un cielo completamente azzurro e privo di nuvole, alla cui periferia un enorme sole splendeva radioso. Teneva le braccia larghe, come se fossero ali. Si sentiva leggiadra, spensierata. Non percepiva nulla attorno a lei. Non sentiva l’aria che sferzava, non sentiva il rumore della forte corrente che sicuramente ululava attorno a lei, a stento percepiva perfino il suo stesso corpo.

Volava, semplicemente, ignara di tutto, incurante di tutto, senza preoccupazioni, senza pensieri, leggera come l’aria.

Una creatura le apparve accanto. Sbucò dal nulla, un attimo prima non c’era, l’attimo dopo c’era. La osservò. Era piccola, minuta, sembrava gracile ed indifesa ed era quasi buffa da guardare. Sembrava un minuscolo robot. Il corpo era nero, aveva uno strano anello azzurro attaccato al busto, un collare attorno al corto collo e le braccia grigie, con sole tre dita. La testa era enorme. Era rosa, molto larga e aveva due giganteschi occhi completamente azzurri brillanti, privi di pupille o iridi. Non aveva bocca, né naso, solo due bizzarre antenne sopra la testa.

Sorrise guardandola. Volava accanto a lei, anch’essa leggiadra. I loro sguardi si incrociarono. La creatura la salutò con un cenno della mano. Lei distese il sorriso e ricambiò il saluto, poi, lo stesso esserino le fece un altro cenno e la invitò a seguirlo.

Fece per acconsentire a fare ciò, ma con sua enorme sorpresa il suo corpo si mosse autonomamente. La creatura schizzò via nel cielo, a velocità incredibile. Lei non fu da meno. Volarono una accanto all’altra, come proiettili.

Cercò di parlare, di chiederle come si chiamava, o se sapeva la sua lingua, ma le mancava la voce. Cominciò a preoccuparsi.

Finalmente sembrarono arrivare a destinazione. Sgranò gli occhi quando vide apparire davanti a loro un enorme vascello scuro, sgradevolmente familiare.

«Qui si adempierà il tuo destino, Salvatrice.»

Quella voce rimbombò nella sua testa all’improvviso, facendola trasalire. Era quasi un sussurro, neanche, sembrava quasi il sibilare di un serpente. Le parole che aveva detto, poi, la lasciarono atterrita.

Si rese conto solo dopo diverso tempo che la creatura la stava guardando. A quel punto, sgranò gli occhi. Cercò di comunicare con lei, proprio come aveva fatto poco prima. Si concentrò e disse mentalmente. «Sei... sei tu che hai parlato?»

La creatura non rispose. Si voltò invece verso il veliero. «Vieni.»

Entrambe schizzarono in avanti di colpo. Tutto si oscurò all’improvviso. Si ritrovarono poi all’improvviso in un’enorme sala, immersa nella penombra. L’unica fonte di luce presente era quella azzurra fluorescente proveniente da un oggetto piramidale, disposto su un piedistallo. «L’energia vitale scorre qui dentro» disse ancora la creatura nella sua testa, avvicinandosi all’oggetto e cominciando a volteggiarci intorno. «Questa è la soluzione.»

«C-Cosa? Ma che stai dicendo?» domandò ancora, capendoci sempre di meno.

Di nuovo, non ottenne alcuna risposta. L’oggetto svanì, tutto tornò buio, l’unica fonte di luce erano gli occhi luminosi della creatura, che in quell’ambiente ombroso erano più inquietati che rassicuranti. «Non sarà facile» disse ancora. «Lui proverà a fermarti.»

«L-Lui? Lui chi?»

La creatura indicò un punto davanti a lei. Si voltò e vide un’altra figura comparire dal nulla all’improvviso. A causa del buio non riuscì a vederla bene, ma in ogni caso percepì di nuovo un’enorme ondata di energia, questa volta però era energia oscura, buia, nera come la stanza in cui si trovava. Energia malvagia.

I tratti della figura si fecero più nitidi. Vide un corpo da umanoide, slanciato, alto almeno un metro e novanta, con il collo lungo e non molto grosso fisicamente. Degli strani mugugni provenivano da lei, sembrava quasi che stesse sbadigliando, o grugnendo. Nonostante il timore che stava suscitandole, cercò di mettere a fuoco la vista per poterla vedere meglio, ma quella scomparve immediatamente, un attimo prima che la voce della creatura rimbombasse di nuovo nella sua mente. «Per avere successo avrai bisogno dell’aiuto di qualcuno a te caro.»

Non riuscì più a trattenersi. Si voltò verso la creatura, furibonda. «Ma si può sapere che diamine stai dicendo?! Chi è lui, cos’è la soluzione, dove diavolo ci troviamo?! Chi sei tu?!»

La creatura la soppesò ancora per un momento con lo sguardo. «Il momento è sempre più vicino. Dovrai essere pronta.»

«Il momento? Quale momento?!»

«Hai un grosso fardello sulle tue spalle, Salvatrice. Non deluderci.» Con quest’ultima frase, la creatura si ritirò nelle tenebre.

«Ehi! EHI! Dove vai?! Rispondimi! EHI!» gridò lei, questa volta per davvero e non solo con il pensiero, prima che l’oscurità si infittisse ulteriormente e la inghiottisse.

 

***

 

Corvina si svegliò di soprassalto.

 






Creatura nel sogno:

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Capitolo 14
*** Amiche ***


The Good Left Undone

XIV

AMICHE

 

 

Terra avanzò nel corridoio semibuio. La maggior parte delle candele atte ad illuminarlo erano spente, la poca luce che c’era filtrava dalle finestre aperte e dava una sfumatura biancastra a tutto l’ambiente.

Aprì la bocca in un enorme sbadiglio. Era stata una giornata pienotta, nonostante non facesse praticamente mai niente da mattina a sera. Però aveva comunque la testa occupata. Dopo l’allegra cenetta e aver rivisto Corvina in quell’ambiente più felice, desiderava molto andare da lei e riabbracciarla, magari farle una bella sorpresa. La maga era stata la prima a congedarsi dopo il pasto, sicuramente in quel momento era in camera sua a cercare di appisolarsi, magari immersa nei propri pensieri e preoccupazioni...

La bionda sorrise. Sì, doveva proprio farle una bella sorpresa. Chissà che faccia avrebbe fatto quando sarebbe andata a bussare alla sua porta e le avrebbe aperto. Al solo pensiero, si illuminò. Era da così tanto tempo che non passavano un po’ di tempo insieme, quella notte era l’ideale. Entrambe avevano bisogno di scaricare la tensione.

La stanchezza svanì da dentro di lei, lasciando posto all’eccitazione. Forse ciò che stava per fare era la prima cosa sensata che passava per la sua mente dopo giorni e giorni. Ci aveva già provato a prendere da parte Corvina, ma non aveva mai funzionato. Quella volta, però, nulla le avrebbe impedito di fare ciò che voleva. Avrebbe legato la sua dolce metà al letto pur di non farsela scappare, se costretta.

Raggiunse l’ala del palazzo destinata a loro. Era formata da decine e decine di camere per gli ospiti, singole e doppie, sistemate in un lungo corridoio, come sempre ornato da quadri e candele spente per la maggior parte. Puntò subito alla camera della maga. Non sapeva nemmeno cosa avrebbe fatto una volta dopo aver bussato, se prima chiederle di parlare con lei oppure gettarsi subito sulle sue labbra. Questi pensieri andarono poco dopo a farsi benedire, più precisamente quando passò accanto alla camera di Amalia. Arrestò di colpo la camminata, senza nemmeno rendersene conto. Non lo fece volontariamente, fu un gesto istintivo. Un meccanismo era scattato dentro di lei e le aveva fatto ricordare che c’era qualcuno che stava soffrendo e che lei era l’unica ad essere a conoscenza di quel fatto.

Si voltò verso la porta di legno pregiato e si morse un labbro. Quanto lei era giù di morale per via della sua distanza da Corvina, Amalia era andata a consolarla. E lo aveva fatto nonostante tra lei ed X le cose non andassero bene, fatto di cui la bionda era venuta a conoscenza solamente in seguito, per mano della stessa tamaraniana. Amalia che tra l’altro lo aveva rivelato solamente a lei. Forse lo aveva fatto per bilanciare le cose. Terra era l’unica a conoscenza degli screzi tra la sorella di Stella e l’ex rivale di Robin, Komand’r era l’unica a sapere della relazione tra Corvina e la stessa bionda.

Sospirò mentre osservava la soglia della stanza. Non si era certo dimenticata delle scuse che doveva porle di diritto, ma prima avrebbe voluto passare un po’ di tempo con Corvy. Peccato che così facendo si sarebbe comportata da emerita egoista e la Terra egoista oramai era morta e sepolta da anni. Chiunque avrebbe fatto ciò che fece in quel momento. Si avvicinò alla porta e bussò. Lei e Corvina avevano atteso un mese, un altro po’ non sarebbe stato mortale. Prima chiariva la faccenda con Amalia, prima si risentiva in pace con sé stessa e prima riabbracciava Corvy, tra l’altro con molta più serenità.

Passarono diversi istanti, ma la porta non fu aperta. La ragazza inarcò un sopracciglio. Forse Amalia non c’era o forse non aveva sentito. Bussò di nuovo, con più insistenza. Niente. Allora la chiamò perfino, cercando di non alzare troppo la voce. Nessuna risposta. A quel punto, Terra avvicinò un orecchio alla porta, per sentire se dall’interno della stanza proveniva o no qualche rumore. Di nuovo, non giunse altro che silenzio. La bionda fece per arrendersi. Era evidente che Amalia non ci fosse. Ma prima di andarsene definitivamente, fece un’ultima prova. Avvicinò la mano alla maniglia e la abbassò. La porta si aprì con un cigolio sommesso. Prima di irrompere nella stanza, chiamò di nuovo la tamaraniana dallo spiraglio lasciato. Aveva ancora il dubbio che Amalia non l’avesse sentita mentre la porta era chiusa. Ma dopo non aver ricevuto nuovamente risposta, infilò la testa nella stanza, convinta di trovarla vuota. Sussultò quando invece vide la ragazza in questione seduta sul bordo del letto. Le dava le spalle e teneva la testa china verso il basso.

Terra deglutì. «A-Amalia?»

Questa volta, in risposta alla chiamata, arrivò un singhiozzo sommesso. La bionda vide le spalle della tamaraniana sollevarsi in contemporanea con quel verso sofferente. Stava... stava piangendo?

«Amalia.» Terra si fece coraggio ed entrò, muovendosi quasi con timidezza, richiudendosi delicatamente la porta alle spalle. «Ehi, stai bene?»

Finalmente, la tamaraniana mora sembrò accorgersi di lei, perché si volto appena e la osservò con la coda nell’occhio. «I-Io...» Il suo tono di voce era flebile, sembrava la fiamma di una candela che stava per spegnersi. Non finì nemmeno di parlare che si voltò di nuovo, si strinse nelle spalle prendendosi il volto fra le mani e incominciò a piangere, questa volta per davvero.

La bionda la osservò preoccupata, sollevando una mano e portandosela all’altezza del petto. Non aveva la minima idea di come comportarsi, perciò si limitò ad imitare il comportamento che la tamaraniana aveva assunto nei suoi confronti quello stesso giorno. Si avvicinò timidamente a lei e le sedette accanto. Un giglio viola, appassito e con i petali strappati, si trovava a terra, proprio ai piedi della tamaraniana.Interagì con Amalia quasi come se si trattasse di un animale pericoloso. Aveva paura che ogni sua azione potesse ripercuotersi contro di lei. «Che succede? Perché piangi?» domandò infine, sentendosi quasi stupida.

La ragazza separò il volto dalle mani e cercò di asciugare alcune lacrime cadute dagli occhi già arrossati, poi rispose con tono distrutto: «Io ed X... abbiamo... abbiamo litigato... e...» Di nuovo, lasciò la frase a metà e si accasciò con la testa sulla spalla di Terra, facendola trasalire.

Arrossendo vistosamente, Terra avvolse un braccio intorno alle spalle della tamaraniana e cercò di consolarla come meglio poté. Chissà da quanto tempo Amalia era lì a piangere, forse da quando lei ed X erano tornati al palazzo. E lei, Stella, Robin e tutti gli altri non avevano fatto altro che divertirsi, senza preoccuparsi troppo di loro due. Anche perché, dopotutto, nessuno si sarebbe mai aspettato una cosa del genere.

Strinse la ragazza con più dolcezza. Aveva bisogno di sollievo e lei era l’unica che al momento poteva darglielo. Attese diversi istanti, per permetterle di calmarsi un poco, poi con tono gentile le porse la domanda che aveva cominciato ad arrovellarla: «Ma... com’è successo? Ti va di parlarne?»

La situazione si invertì. Prima era toccato ad Amalia ascoltare i problemi di coppia di Terra, ora era il contrario. La tamaraniana si separò da lei, si asciugò di nuovo le lacrime e spiegò con voce tremante l’accaduto. Terra ascoltò meravigliata e quasi inorridita il tutto. Non le sembrava vero che Amalia ed X avessero davvero discusso in quella maniera così accesa. Lo schiaffo finale, poi, fu la batosta decisiva per lei.

«E adesso... lui se n’è andato... ed io... io...» Amalia si prese il volto fra le mani e cominciò a scuotere la testa, senza che se ne capisse il motivo. «... non... non ho idea di cosa debba fare.»

Terra la guardò con aria mesta, poi posò una mano sulla sua gamba. «Mi... mi dispiace...» biascicò, sentendosi di nuovo una stupida. Poteva dire milioni di cose per consolarla, ma non gliene veniva neanche una. Continuava solamente a dire banalità.

Amalia non sembrò nemmeno sentirla. Aveva la testa fra le nuvole, si notava benissimo da come si fosse di nuovo messa a fissare il nulla davanti a sé. Quando parlò di nuovo sembrò quasi in trance: «Fino ad un mese fa’ non avrei mai potuto immaginare che un giorno sarebbe successo questo. Quando eravamo sulla nave, lui era così... apprensivo, premuroso... ultimamente, invece, sembrava il fantasma di sé stesso... non mi sarei mai e poi mai aspettata questo comportamento da lui...»

La bionda si mordicchiò l’interno della guancia, questa volta meditando attentamente sulle parole da dire. Voleva chiederle scusa, ma in quel momento capì che aveva ben altro da fare. Per prima cosa, doveva farla sentire meglio. «Non... non puoi provare a parlare con lui? Non so... cercare di chiarire?»

La tamaraniana fece una smorfia. «E a cosa servirebbe? Lui pretenderebbe delle scuse da me e io farei lo stesso. Finiremmo solamente con il litigare di nuovo. Io non ho alcuna intenzione di scusarmi con lui. Forse ho esagerato quando l’ho rimproverato, ma se lo meritava. Non potevo non arrabbiarmi con lui per come si è comportato ultimamente. E dopo averlo sentito mentre mi sbatteva in faccia gli errori del mio passato...» Un brivido le percorse la schiena e strizzò gli occhi infastidita. «... mi vergogno di esserci andata a letto.»

Terra schiuse le labbra, sbigottita. Quelle erano parole forti, rese tali soprattutto dal fatto che da Red X, Amalia, attendeva un figlio. «Amalia, non credi di esagerare? Non credo ti abbia detto quelle cose con cattiveria...»

«Però le ha dette!» esclamò la tamaraniana, infervorandosi. Terra indietreggiò con la testa e ritrasse la mano, ma lo scatto iracondo di Amalia durò ben poco. La mora infatti abbassò di nuovo la testa e riprese a parlare con tono smorto: «Io gli ho raccontato quelle cose in tutta confidenza, perché di lui mi fidavo ciecamente. Poteva non avere cattive intenzioni, poteva essere ubriaco, poteva essere quello che voleva, ma sbattermi in faccia quelle parole è stata la cosa più meschina che qualcuno mi abbia mai fatto. Voleva solo... sviare l’attenzione da sé stesso su di me. Pur di non farsi accusare ancora, ha deciso di accusare me a sua volta. Io sono stata ferita in passato, e anche piuttosto recentemente, fisicamente e non. Sono stata umiliata, offesa, delusa, ma mai tradita in questo modo. Mi sento come se mi avesse ficcato un coltello nella schiena. E sentirsi così per mano di colui con il quale sto per avere un figlio... non è una bella sensazione. Ha mostrato un lato di sé che non credevo avesse. Ma dopotutto, se era un criminale un motivo c’era.»

La bionda non sapeva più cosa dire. Le poche parole che era riuscita a spicciare avevano valso meno di zero e dubitava seriamente che la sua presenza fosse di conforto per Amalia. Ci voleva Stella in quella situazione, non lei. Lei era un’ incompetente.

«Ma d’altronde...» disse Amalia all’improvviso con un sorriso amaro stampato in faccia, facendo alzare la testa di Terra. «... non potevo certo aspettarmi che la mia vita rimanesse rosa e fiori per sempre. Dopo tutto quello che ho combinato in passato, l’ultima cosa che mi meritavo era quella di poter crescere un figlio in una famiglia felice. Fa molto male dirlo, ma X aveva comunque ragione, io ho fatto cose orribili che mai potrò cambiare. Non posso fare altro che vivere con la consapevolezza di essere un mostro. E dovrò farlo da sola. Non merito qualcuno che mi ami e che mi accompagni. Non merito niente.» Abbassò di nuovo lo sguardo e il sorriso svanì. I suoi occhi si colmarono di nuovo di lacrime e tristezza, mentre avvicinava una mano al ventre e se lo accarezzava, osservandolo con pena il feto in esso racchiuso. «Mi... mi dispiace solo per lui. Dovrà vivere con... con me...»

Le labbra di Terra tremolarono davanti a quella scena. L’amore di una futura madre verso il proprio figlio misto al rammarico, la tristezza e la paura di un’adolescente che era ben conscia di aver commesso crudeltà in passato e che mai e poi mai sarebbe riuscita a dimenticare. Fu una pugnalata al cuore per Terra.

Amalia aveva da insegnare molto più di quanto non si potesse immaginare. Nonostante la sua paura e dolore si preoccupava comunque per quel feto che avrebbe ancora atteso sette mesi per vedere la luce, dimostrando un’umanità che da ben poche persone Terra aveva visto, come i Titans, un’umanità che da una persona con un passato del genere alle spalle non ci si aspetterebbe. Sebbene fossero stati la causa dello schiaffo che aveva rifilato ad X, Amalia riconosceva i propri errori e se ne rammaricava costantemente, senza trovare pace. Non era come Metalhead, cattiva e falsa fino al midollo, era proprio come lei, come Stella, come tutti i Titans: era una brava persona, che in passato era stata accecata dalla rabbia e aveva commesso azioni avventate per le quali lei per prima non riusciva a perdonarsi.

Improvvisamente, le ricordò qualcuno. Le ricordò un’altra persona che aveva commesso grossi errori di cui a stento si era dimenticata e che per molto, molto tempo aveva rimpianto: sé stessa. Terra e Amalia erano molto più simili di quanto avrebbero mai potuto immaginare. Entrambe avevano vissuto in mondi loro avversi, entrambe avevano ricevuto brutte batoste dalla vita ed entrambe avevano cercato di farla pagare alla vita stessa, che Terra fosse stata costretta era comunque un’altra storia. Perché se lo avesse voluto, Terra avrebbe potuto ribellarsi a Slade fin dal primo momento, anziché tradire i Titans. Nessuna delle due era malvagia, la vita le aveva spinte a commettere azioni da tali. Perché, d’altronde, non esistono né il bianco né il nero, solamente grigio.

Anche Terra aveva avuto molti ripensamenti e rimpianti, anche lei si era pentita amaramente di ciò che aveva fatto. Ma era comunque riuscita ad andare avanti.

Si mosse autonomamente. Si girò e abbracciò Amalia, senza nemmeno avvisarla. Fu un gesto che colse di sorpresa entrambe, e che nessuna delle due, dopo diversi momenti di sorpresa, rifiutò. Il corpo di Amalia era soffice come un cuscino e caldo come una fornace, la pelle vellutata, nonostante l’indumento situato sopra di essa, era confortevole al tatto.

Amalia appoggiò la testa sulla spalla della bionda e singhiozzò di nuovo, mentre Terra le dava qualche leggerissima pacca di incoraggiamento alla schiena. «Coraggio Amalia...» le sussurrò all’orecchio, per poi separarsi delicatamente da lei e incrociare i suoi occhi.

Prese le mani di Amalia fra le sue. «Non devi continuare a tormentarti così per ciò che hai fatto. Il fatto che tu abbia litigato con X non significa nulla, non è la vita che cerca di punirti. Ciò che è stato è stato. La vita va avanti e non ti aspetta di certo. Devi buttarti tutto alle spalle, Amalia, e devi cercare di vivere alla giornata, non pensare al resto. Lascia perdere il passato, lascia perdere i se e i ma. Non lasciarti distanziare dalla vita, perché se lo fai per troppo tempo, poi non la raggiungi più.

«Credimi, io le ho vissute sulla mia pelle queste cose, lo so per esperienza. Se c’è una persona che può capirti in parte, quella sono io. Devi credermi» proseguì. «E parla con Red X, quando puoi. Tu lo ami ancora, non negarlo, e so per certo che lui ama ancora te. Questa vostra separazione non farà altro che danneggiarvi entrambi e farvi soffrire ulteriormente. Non avete stretto i denti per un mese intero, quando eri prigioniera di Metalhead, solo per distruggere in questo modo la vostra splendida relazione. State per avere un figlio, dovete essere forti e non lasciarvi abbattere da litigi come questo, perché, te lo garantisco anche se in questo caso non lo so per esperienza, che i litigi non cesseranno mai di arrivare. Sono parte integrante della vita di coppia, è molto più normale litigare che non farlo, perché significa che tenete entrambi l’uno all’altra e che avete motivo di cui discutere. Credimi, se io e Corvina fossimo rimaste insieme per tutto questo mese sicuramente qualche discussione l’avremmo avuta. Fa parte dell’essere umani.»

La tamaraniana rimase in silenzio, ad osservarla quasi sorpresa. La stessa Terra si stupì davvero delle parole che aveva detto, a quanto pare non era poi una frana su tutti i fronti quando si trattava di consolare qualcuno. E poi, dopo un interminabile momento in cui il ronzio del silenzio aveva fatto da padrone, Amalia sorrise e la abbracciò di nuovo. «Grazie Terra. Grazie dal più profondo del cuore. Mi hai appena salvato la vita.»

Terra ridacchiò, mentre la sorella di Stella la stringeva in quella presa d’acciaio che a quanto pare era un marchio di famiglia. Ricambiò il contatto e rispose: «Le amiche servono a questo.»

Amalia sgranò gli occhi e si separò da lei all’istante. «C-Cosa?» domandò incredula. «I-Io... sono... tua... amica?»

«Ma certo che lo sei» replicò Terra sorridendole gentilmente.

Gli occhi di Amalia si inumidirono di nuovo, poi abbracciò di nuovo Terra, questa volta singhiozzando per la commozione. «Tu sei mia amica...» mormorò. Singhiozzò un’altra volta e premette il volto sulla spalla di Terra, la quale le circondò la schiena.

Restarono abbracciate ancora per qualche momento. Terra si compiacque di essere riuscita nella sua impresa. Non aveva chiesto scusa ad Amalia per averla ammorbata con i suoi problemi, in compenso le aveva appena tirato su il morale, il che era una soddisfazione ben maggiore. E da come la mora aveva appena reagito, intuì che probabilmente lei era la prima a dirle di essere sua amica. Motivo in più per riempirla d’orgoglio. Era stata la prima a dire la verità, a guardare Amalia non per quello che aveva fatto ma per la persona che si stava dimostrando di essere, escludendo per ovvi motivi Red X e Stella. Era sua amica e su ciò non avrebbe mai cambiato idea.

Quando si separarono, sul volto di Amalia era dipinta un’espressione nuova, quasi di serenità. «Grazie ancora Terra. Davvero, non so come avrei fatto se non fossi arrivata tu.»

La bionda sentì le guancie colorarsi, poi distolse lo sguardo da lei. «Non dire così... se non ci fossi stata io, sicuramente Stella avrebbe...»

«Stella non deve assolutamente sapere di tutto ciò» la interruppe Amalia, questa volta con tono fermo.

Terra inarcò un sopracciglio. «E come mai?»

La tamaraniana sospirò. «Non voglio che sappia che... ho litigato con X e tutto il resto. Finirebbe solamente per dispiacersi per me e io non voglio che soffra ancora a causa mia. Questa nostra discussione deve restare tra noi, ok? Te ne prego.»

Dopo un attimo di riflessione, la bionda sorrise di nuovo. Sì, Amalia aveva molto da insegnare. «Tranquilla, non dirò nulla» assicurò con un movimento del capo.

Amalia ricambiò il sorriso e non disse altro. Intuendo che quella doveva essere la fine ufficiale della discussione, Terra decise di congedarsi. Aveva ancora una cosa da fare, dopotutto. Si alzò dal letto. «Beh, buona notte Amalia. Direi che ti ho rotto le scatole a sufficienza.»

Si girò, ma la tamaraniana la afferrò per un braccio. «Aspetta!»

Terra si voltò di nuovo verso di lei, incuriosita. «Sì?»

«Ehm... ecco...» Amalia la lasciò andare e distolse lo sguardo da lei. Qualunque cosa stesse per dire, cambiò idea. «Volevo chiederti se... no, niente.»

«Cosa?» domandò la bionda, ma la tamaraniana scosse di nuovo la testa. «Niente, davvero.»

«Ehi, sono tua amica, lo sai, puoi chiedermi cosa vuoi» insisté Terra.

Ma Amalia rimase inamovibile. «Era una stupidaggine, davvero. Vai pure.»

La bionda la soppesò con lo sguardo ancora per qualche momento, cercando di capire cosa frullasse nella mente dell’amica, ma poi decise di lasciar perdete. «D’accordo, ma ricorda che...»

«Dormiresti con me?» domandò Amalia tutto d’un fiato, per poi arrossire vistosamente subito dopo.

La stessa sorte toccò alle guancie di Terra, se le sentì letteralmente andare a fuoco. «C-Cosa?» Sperò di aver sentito male.

Amalia sollevò le mani e spiegò rapidamente: «Intendo dire dormire dormire, non dormire in... quel senso, insomma, sono stati giorni difficili e io, cioè, insomma, poi tu ed X, e... ecco...» Sospirò rumorosamente, poi drizzò la testa e incrociò di nuovo gli occhi della bionda. «Non voglio restare di nuovo da sola, questa notte...» Si morse un labbro e si massaggiò un braccio, imbarazzata come probabilmente mai era stata.

Terra la squadrò, ancora sorpresa. Voleva solo che si fermasse lì per la notte, che dormissero nello stesso letto, niente di più. Peccato che lei volesse con tutta sé stessa andare da Corvina. Ma vedendo l’espressione di Amalia e notando come lei ci tenesse che si fermasse, le fu difficile rifiutare. E poi, anche se probabilmente nemmeno la stessa Amalia lo sapeva, assomigliava terribilmente a Stella con quello sguardo pieno di aspettative. Due occhioni dolci e innocenti incastonati su un volto angelico e gracile. Rifiutarle qualcosa era impossibile. Le due sorelle potevano essere diverse caratterialmente e non, ma dopotutto avevano pur sempre lo stesso sangue e quello sguardo ne era la prova.

«Ok, va bene» convenne. Corvina avrebbe aspettato ancora un po’, non c’era problema. E poi, era da molto tempo che non passava una serata tra amiche.

La tamaraniana sorrise di nuovo, grata e sollevata. «Grazie.»

«Figurati.» Terra sbadigliò. In effetti era stanca morta, avrebbe dormito molto volentieri in quel momento.

Si risedette sul letto e il tempo sembrò volare. Le due chiacchierarono tra loro, un po’ come avevano fatto quello stesso giorno in riva al lago. Parlarono a lungo, del più e del meno, rievocando ricordi belli e brutti e condividendoseli. Più parlavano, più sentivano che il loro rapporto si rafforzava. E realizzarono che se si fossero conosciute anni prima, probabilmente le loro vite non avrebbero viaggiato su livelli tanto bassi come nel loro passato.

La stanchezza arrivò presto, tuttavia, ed entrambe decisero che era meglio chiudere la conversazione. Un buon sonno avrebbe sicuramente giovato a loro due e il mattino successivo avrebbero potuto ricominciare a discutere e, perché no, magari anche chiarire le loro faccende con le rispettive dolci metà.

Amalia si alzò e si diresse verso l’armadio a due ante. «Per caso vuoi una vestaglia da notte? Alcune fongoid me ne hanno date un paio, sono molto comode per dormire.»

«No grazie.» Terra declinò l’offerta, sorridendo grata del pensiero. «Sono comoda così.» Non le andava molto di cambiarsi. Le piacevano i suoi vestiti semplici ed era molto più a proprio agio con essi.

«Va bene.» Amalia aprì l’armadio e scelse una vestaglia color beige pallido, poi cominciò a togliersi il proprio abito bianco.

Non appena Terra la vide fare ciò, arrossì di nuovo. «Ma... ti cambi qui, davanti a me?»

«Beh? Non è niente che tu non abbia mai visto, dopotutto...» ribatté la tamaraniana togliendosi del tutto l’abito e restando con solo l’intimo nero addosso, per poi voltarsi verso di lei e sorriderle. Ridacchiò quando si accorse delle goti arrossate di Terra. «Rilassati, guardandomi non tradirai Corvina...»

La bionda mugugnò qualcosa in risposta, poi distolse lo sguardo da lei. Cercò di non pensare più al suo petto prorompente, le gambe lunghe, i fianchi stretti, le sue generose curve che madre natura le aveva donato, la carne perfettamente omogenea in tutto il corpo e la meravigliosa tinta color ambra della sua pelle. Ma come diavolo aveva fatto Red X a litigare con una simile maestosità? Sgranò gli occhi quando si accorse di cosa stava pensando. Poi realizzò una cosa: Amalia. Lo stava facendo apposta, ci scommetteva quello che voleva. Si era cambiata davanti a lei per punzecchiarla e osservare la sua reazione davanti a quel fisico da urlo. Da brava amica, in poche parole. Terra si corrucciò. Oh, ma gliel’avrebbe fatta pagare, poteva starne certa. Da altrettanto brava amica.

«Ehi, ho finito, puoi alzare la testa.»

Terra obbedì, temendo quasi che la tamaraniana la stesse prendendo in giro, ma non appena la osservò di nuovo poté constatare che si era davvero cambiata. La vestaglia le copriva praticamente tutto il corpo, lasciando solamente un po’ di spazio a spalle e braccia, agli stinchi e ai piedi nudi. La scollatura, invece, lasciava poco spazio alla fantasia, ma la bionda si impose a forza di non guardarla e di non fare commenti a riguardo. Si sedete sull’altro bordo del letto e si tolse scarpe e guanti, mentre Amalia faceva il giro della camera e spegneva tutte le candele con uno spegnimoccolo – un po’ di elettricità non avrebbe affatto guastato, in quel castello –  poi si sdraiò sull’altro lato del materasso, lasciando accesa solamente un’ultima candela sul comodino accanto a lei. Il letto era molto spazioso e c’era posto che avanzava per entrambe.

«Beh... buona notte» disse la mora quando furono entrambe sotto le morbide coperte. Poi si girò su un fianco e la guardò con serietà. «E... grazie anche per esserti fermata qui.»

«Non c’è problema» rispose Terra sorridendole.

Amalia ricambiò il sorriso, poi si voltò verso il comodino e fece per spegnere anche l’ultima candela. Ma prima di fare ciò, si voltò di nuovo e la guardò maliziosa. «Domani mattina ti faresti anche la doccia insieme a me?»

«Muori» sbottò Terra, girandosi dall’altra parte, nascondendole così il rossore sulle proprie guancie e il sorriso idiota che le si era stampato in faccia.

Dalla gola della tamaraniana provenne una risata. Una risata divertita, genuina, chiaro segno che parlare con Terra l’aveva aiutata per davvero. Spense l’ultima candela e finalmente le due conquistarono il tanto agognato riposo.

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Capitolo 15
*** Traditore ***


The Good Left Undone

XV

TRADITORE

 

 

 

Amava la notte. Le tenebre emanate dal cielo nero e scarsamente illuminato erano come una coperta per lui. Il buio era la sua casa. Lui non lo temeva, come invece molte altre persone facevano. Non aveva paura dei mostri che esso celava, dell’ignoto e dell’alone di mistero che emanava. Perché il buio non è necessariamente cattivo. Il contrario. Il buio è alleato. Lui ti protegge, ti nasconde. Se ne sei avvolto, i mostri non possono vederti. Ma tu puoi vedere i mostri. 

I fongoid procedevano a passo spedito, illuminando la loro strada con la luce azzurra emanata dalle pietre incastonate nei loro scettri. Continuavano a confabulare a bassa voce, lo scalpiccio dei loro passi risuonava nell’ambiente attorno a loro con ritmo costante, sembrava scandire il tempo come un metronomo.

E Red X li seguiva. Nascosto nell’ombra, nella sua casa. Di tanto in tanto qualcuno di loro sembrava sentirsi osservato, perché si girava e si guardava intorno facendosi luce con lo scettro, ma nessuno aveva visto anche solo di sfuggita il ragazzo. Red X giocava in casa, nessuno di loro lo avrebbe mai potuto scoprire in quel frangente. Quanti colpi aveva messo a segno con il favore delle tenebre, muovendosi silenzioso come un’ombra e letale come un’arma. In quel momento, si sentiva proprio come se stesse mettendo a segno una rapina: non doveva farsi scoprire, o tutto sarebbe andato in fumo.

Erano ormai ore che procedevano a tentoni nella fitta giungla. Capì che il tempo doveva essere trascorso, perché il cielo scuro cominciò a schiarirsi lentamente. Dovevano essere le quattro del mattino, o giù di lì.

Cominciò a porsi decine di quesiti su dove stessero andando, cosa avessero intenzione di fare e, soprattutto, se l’avrebbero tirata ancora per le lunghe. Stava seriamente cominciando a stancarsi. Ormai gli sembrava di camminare da un’eternità. Voleva che quella faccenda finisse in fretta, così da permettergli di tornarsene nel villaggio. Diverse volte gli parve di riconoscere parti di strada che già aveva percorso con i Titans, ma forse era solo una sua impressione. Dopotutto, quella giungla era tutta uguale.

Non appena arrivarono ad uno spiazzale privo di alberi, tuttavia, il ragazzo si ricredette. Era lo spiazzale in cui erano atterrati un mese prima. La nave era ancora lì, ferma immobile, ricoperta di muschi. Sentì diversi versi d’approvazione provenire dai fongoid ed intuì al volo che quel luogo era il loro obiettivo. Il ragazzo inarcò un sopracciglio, domandandosi quali fossero le loro intenzioni.

Avrebbe voluto avvicinarsi ulteriormente per sentire cosa si stessero dicendo, ma non essendoci alberi per coprirlo nello spiazzale ed essendosi il cielo leggermente rischiarito, dovette scartare quell’idea. L’unica cosa che gli rimase fu quella di attendere la loro successiva mossa. Osservò il gruppo muoversi intorno alla nave e scrutarla con attenzione in ogni suo minimo particolare. Si vedeva lontano un chilometro che quei tizi non avevano mai visto una nave da così vicino. Finché Galvor non puntò il suo scettro contro la nave e scaturì un’onda di energia che si infranse contro il boccaporto posteriore. Il ragazzo sgranò gli occhi.

Come diavolo ha fatto?

La cosa che vide dopo, tuttavia, cancellò dalla sua mente quel quesito. Il boccaporto si aprì, la rampa diagonale si azionò e collegò la nave al terreno. Galvor grugnì soddisfatto, poi fece cenno ai colleghi di seguirlo ed entrò nella nave, seguito uno per uno da tutti gli altri. X si lasciò scappare un verso sorpreso. Se prima era stupito, adesso era quasi meravigliato. Ma si riscosse presto, quando realizzò che tutti i fongoid erano entrati, tranne uno che rimase fuori a fare il palo. La situazione si faceva sempre più strana. Perché stavano entrando? Che diamine stavano tramando?

C’era solo un modo per scoprirlo. Muovendosi furtivamente fra gli alberi, aggirò la nave e l’alieno che faceva la guardia. Una volta sicuro di non essere visto, uscì dal nascondiglio e si avvicinò di soppiatto alla guardia. Non appena gli fu alle spalle, lo assalì avvolgendogli un braccio intorno al collo e stringendo con quanta forza aveva. L’alieno emise un verso strozzato di sorpresa e lo scettro gli scivolò dalle mani. Cercò di lottare e di staccarsi l’arto del ragazzo di dosso, ma l’elemento sorpresa giocò a favore di Red X e il fongoid, che aveva reagito troppo tardi, cedette dopo poco tempo. Roteò gli occhi e si accasciò a peso morto. Il ragazzo lo adagiò al suolo delicatamente, così da non fare rumore, poi accostò l’orecchio al naso dell’alieno per accertarsi delle sue condizioni. Respirava ancora. Meglio, Red X odiava gli amici di Galvor, ma se ne avesse ucciso uno non avrebbe certo fatto una bella figura.

Annuì soddisfatto, poi salì la rampa con passo felpato ed entrò nella nave. Puzzava di chiuso. Era stato all’aria aperta di Quantus per così tanto tempo che non era più abituato agli stretti e soffocanti corridoi di metallo della nave. Avanzò nell’ombra, procedendo a tentoni e cercando di fare il minimo rumore possibile. Man mano che avanzava, le voci dei fongoid e Galvor si facevano sempre più vicine e forti. Provenivano tutte dal fondo del corridoio, ovvero dalla sala comandi.

Il ragazzo sospirò. Quanto gli sarebbe piaciuto decollare con quella nave e tornarsene a casa. E invece era ferma. E probabilmente non sarebbe mai più stato possibile farla ripartire, conciata com’era. Decise di rimuovere quel pensiero dalla sua mente, anche perché non aveva molta voglia di deprimersi in quel momento.

Le voci dei fongoid si fecero sempre più vicine e il ragazzo poté finalmente udire alcuni scorci di conversazioni: «... trovarlo! Tenete bene gli occhi aperti e cercate con attenzione, se lo vedete ditemelo!» Questo era Galvor, senza ombra di dubbio. E stava cercando qualcosa.

Red X affrettò il passo e si avvicinò ulteriormente, fino a quando non udì un’altra voce, che non riconobbe: «Eccolo! Credo sia questo!»

Galvor replicò quasi immediatamente. «Fa un po’ vedere... sì, è questo! Ottimo!»

X inarcò un sopracciglio. Che diamine stavano combinando?

Raggiunse infine l’ingresso della sala, ma non entrò. Rimase acquattato contro la parete, mimetizzato nell’ombra. Da lì, vide alla perfezione il gruppo di fongoid radunati intorno a Galvor. Di fronte ad una consolle. Ognuno di loro gli stava dando le spalle. Il ragazzo aguzzò la vista e cercò di vedere cosa stessero facendo, ma i loro corpi coprivano la visuale. Sbuffò dal naso irritato, ma si costrinse a restarsene fermo. Cercò di affinare ulteriormente l’udito, così da riuscire a vedere almeno con le orecchie, ma l’unico suono che sentì fu quello di un fruscio simile al vento. Il corridoio si illuminò di azzurro all’improvviso e il ragazzo trasalì.

Ma cos...

Qualcosa lo colpì alle spalle, facendogli emettere un urlo di sorpresa misto a dolore. Sentì la schiena andare a fuoco, odore di carne ustionata e della camicia bruciata. Cadde a terra, dentro la sala comandi, grugnendo di dolore. Galvor e i suoi si girarono di scatto e lo videro tutti quanti, dal primo all’ultimo.

Il ragazzo strinse i denti. «Merda...»

Dopo un attimo di stupore iniziale, Galvor sogghignò. «Ma guarda chi si rivede...»

Red X gemette e cercò di sollevarsi in piedi, ignorando il dolore alla schiena, ma si beccò un calcio in piena faccia, che lo fece ribaltare. Un disgustosissimo crack lasciò bene intendere la fine che il suo naso aveva appena fatto. Tossì, e cercò di sollevarsi ancora, solo per poter vedere la guardia che aveva steso entrare nella sala alle sue spalle, brandendo lo scettro e fissandolo con aria furiosa. «La prossima volta che cerchi di uccidere qualcuno, almeno fallo bene!»

X digrignò i denti, ringhiando di rabbia. Quel tipo si era svegliato in tempo zero e l’aveva colpito alle spalle. Non era riuscito a fargli perdere i sensi come si doveva. Si era fregato da solo. E adesso che l’avevano beccato, non gli restava che una cosa da fare: combattere. Cercò nella sua cintura le proprie lame, ma non appena tastò il vuoto sgranò gli occhi. Non aveva né la cintura, né le lame. Tutte le sue armi erano riposte in una stanza sicura al palazzo, dopo che Alpheus aveva chiesto loro di deporle. Era disarmato contro sei fongoid armati di quegli stupidi scettri, aveva il naso grondante di sangue e la schiena mezza ustionata, che gli arrecava sofferenza ad ogni minimo movimento. La guardia che credeva di aver steso gli arrivò alle spalle e lo sollevò per un braccio, mentre un’altra arrivò da dietro di Galvor e lo sollevò per l’altro. Red X cercò di lottare e di liberarsi, ricevendo fitte di dolore alla schiena per ogni sua minima mossa.

Allontanò i due fongoid che lo avevano cercato di bloccare, ma Galvor lo colpì al volto con l’estremità del bastone, proprio sul naso che già era rotto. Il ragazzo vide le stelle, letteralmente. Fu di nuovo immobilizzato ed abbassò la testa gemendo. Non sentiva più la faccia, la schiena bruciava come se stesse vendendo frustata, ed aveva le braccia bloccato. Cercò di colpire con dei calci Galvor e le altre due guardie, ma un altro pugno lo fece desistere. Tossì, sputò uno schifoso grumo di sangue a terra e ansimò quasi senza fiato. Cercò di sollevare ancora la testa, ma si beccò un altro pugno. E poi un altro. E ancora, e ancora.

Galvor lo usò come sacco da boxe, accentuando il suo odioso sorriso ogni volta che un suo pugno andava a segno. Passarono interi minuti, o forse anche ore, poi, finalmente, il fongoid arrestò il pestaggio e le guardie lasciarono andare il ragazzo, che si accasciò al suolo senza più energie. Gemette diverse volte, suscitando l’ilarità del capo delle guardie. «Non fai più il gradasso ora, vero?»

«B-Bastardo...» rantolò X con quanto odio possedesse in corpo.

Una risata schernitrice uscì dalla gola del fongoid. «Hai ancora le forze per insultarmi, eh?» Il suo tono si fece duro all’improvviso ed ogni traccia di divertimento svanì dal suo timbro vocale. «Sollevatelo!»

Altre mani gli si avvinghiarono nuovamente alle braccia e fu issato in piedi, messo di fronte a Galvor e al suo scettro già illuminato di azzurro. Il fongoid glielo puntò. «Vediamo se adesso hai ancora il coraggio di parlare!»

«Credi... di farmi paura, Palla di Neve?» sibilò ancora X, scrutandolo con il suo sguardo incendiario. In quel momento poteva provare odio, rabbia, dolore, tantissimo dolore, rammarico, ma se c’era una cosa che uno come Galvor non avrebbe mai potuto instillare dentro di lui, quella era la paura. Anche se non aveva più la forza per reggersi in piedi, il dolore alla schiena proseguiva come una morsa agonizzante e aveva puntato addosso un altro di quei bastoni, non aveva paura.

Galvor intanto digrignò i denti, spazientito. «Sarà un vero piacere polverizzarti con il mio Scettro, pulcioso terrestre!»

«Che diavolo avete fatto?»

«Cosa?» La luce della gemma si estinse.

Il ragazzo sputò un altro grumo di sangue, poi ripeté la domanda: «Perché siete qui? Che diavolo avete fatto? Cosa cercavate?» Se proprio doveva rimanerci secco, voleva almeno sapere cosa avesse appena cercato di scoprire.

Galvor lo scrutò diffidente, in silenzio, chiaramente intento a valutare se rispondere o meno. Alla fine, sorrise beffardo e rispose: «Semplice. Abbiamo chiamato dei soccorsi con la vostra nave. Abbiamo detto di far parte di un gruppo formato da sei terrestri e due tamaraniane in difficoltà. Nel giro di pochi giorni, qualcuno verrà a prendervi, così voi vi leverete dalle scatole e tutti quanti saranno più felici.»

Red X sgranò gli occhi. «Voi... cosa?!»

«Hai sentito.»

Lo fissò incredulo. Forse avrebbe dovuto essere felice di ciò. Peccato che la realtà era ben diversa. «Ma sei impazzito?!»

«Qual è il problema?» domandò il fongoid con noncuranza. «Non sei felice che qualcuno venga a prendervi? Non era quello che volevi, dopotutto?»

«Sì, cioè, no! Cioè...» Red X non credeva alle proprie orecchie. Era talmente sorpreso che a fatica riusciva a parlare. Alla fine, si concentrò ed espresse la sua opinione in modo chiaro: «Io e i miei amici siamo ricercati da mezzo universo! Chiamando i soccorsi hai lanciato un SOS che raggiungerà tutte le navi nel raggio di milioni di miglia! Ti rendi conto che nel giro di poco tempo qualunque cacciatore di taglie all’ascolto si presenterà qui?! Non verranno a salvarci, ma a catturarci!» Sapeva tutte quelle cose perché era stato Cyborg a spiegarglielo, perciò non appena aveva udito ciò che il capo delle guardie aveva fatto era rimasto quasi scioccato.

«Lo so benissimo, i tuoi amici lo hanno già detto ad Alpheus che eravate inseguiti da dei pirati» replicò Galvor con tutta calma. «Infatti il mio obiettivo era proprio quello, levarvi dai piedi. Che veniate catturati o salvati, non mi riguarda. L’importante è che spariate dal mio pianeta!»

Red X spalancò la bocca. Come poteva fare una cosa del genere? Anche Corvina era ricercata, e lei era la Salvatrice, era importante per i fongoid! Avrebbero lasciato che catturassero anche lei? Ma soprattutto, se fossero davvero arrivati dei cacciatori di taglie su Quantus, cosa avrebbe impedito loro di fare del male anche ai cittadini innocenti? Non appena arrivò alla verità, sgranò gli occhi. Galvor sapeva tutte quelle cose. Sapeva che tutti quanti correvano dei rischi, e nonostante ciò era così ossessionato dal liberarsi dei terrestri che aveva comunque deciso di fare ciò che aveva fatto. Aveva deciso di correre il rischio. Era disposto a tradire la propria gente per liberarsi di loro. La rabbia si riaccese dentro di lui come un incendio e fissò di nuovo con odio quel pazzo in piedi davanti a lui. «Tu... razza di... di...»

Non terminò mai la frase. Un’altra onda di energia uscì dallo scettro del fongoid e lo centrò in pieno, scaraventandolo a terra e facendolo urlare con quanto fiato aveva in corpo. Sentì il proprio corpo come se stesse implodendo su sé stesso, gli parve di scoppiare letteralmente. Crollò al suolo, con il battito cardiaco accelerato e in preda a spasimi e convulsioni. Non sentiva più niente. Non sentiva il sapore del sangue che aveva in bocca, non sentiva l’odore della stessa sostanza vermiglia che colava a fiumi dal naso, faticava perfino a sentire i rumori intorno a sé. Ognuno di essi era offuscato da un interminabile e fastidioso fischio.

Prima di cadere nell’oblio, tuttavia, sentì ancora la voce di Galvor. Le parole risuonarono ovattate, distanti, ma riuscì comunque a captarle: «... e non preoccuparti per la tua fidanzata. Ci prenderemo noi cura di lei.»

Non appena terminò di udire quelle parole, provò ciò che mai credeva avrebbe provato. Provò la paura. La paura che quei porci potessero fare del male ad Amalia, o peggio, la paura di non rivederla mai più.

I successivi istanti furono un mucchio di immagini confuse e sbiadite per lui.

L’ultima cosa che ricordò fu il momento in cui i fongoid lo scaraventarono dentro una pozza formata da un inquietantemente familiare liquido azzurro, brillante e viscoso. Il cielo si era rischiarito sopra di lui, forse era perfino arrivato il mattino.

Poi tutto si spense.

 

***

 

Amalia riaprì gli occhi di scatto. Il ronzio del silenzio fu l’unica cosa che sentì quando la sua mente dapprima assopita si ridestò completamente. Le parve che il peso del mondo stesse gravando su di lei. Le gambe, le braccia, tutto il suo corpo era intorpidito. In un primo momento pensò di aver dormito un’ora scarsa, questo avrebbe spiegato tutta quella stanchezza, invece, non appena vide alcuni spiragli di luce filtrare tra le persiane chiuse, intuì che doveva aver dormito tutta la notte. Sospirò esausta ed esasperata e a fatica si sdraiò sulla schiena, voltandosi verso il soffitto grigio e semi occultato dalla penombra. Si sentiva una pezza stropicciata, nonostante la nottata di sonno. Era come se praticamente non avesse mai dormito. La giornata che stava per arrivare si preannunciava molto più dura di quella dalla quale era reduce.

Un respiro sommesso le fece drizzare le orecchie e voltò appena lo sguardo. Vide Terra sdraiata accanto a lei, con la guancia affondata nel proprio cuscino e un’aria di totale relax dipinta sul volto. Solo in quel momento realizzò che la bionda era rimasta a dormire con lei, quella notte. Sorrise al pensiero di ciò. Ancora di più lo fece quando ricordò che lei era sua amica. L’unica ragazza su cui aveva potuto contare fino a quel momento, negli ultimi due mesi, naturalmente, era Stella. Ma lei era sua sorella.

Nessuno dei Titans era suo amico, a conti fatti. Erano conoscenti, compagni, colleghi, niente di più. C’era Red X, con cui tuttavia aveva avuto i suoi diverbi. Sapere che Terra invece le era vicina, la fece sentire decisamente meglio. Se non ci fosse stata lei, non avrebbe mai avuto modo di poter parlare con qualcuno dei suoi problemi di coppia e nessuno le avrebbe detto di farsi coraggio e non lasciarsi abbattere.

Era quasi riuscita a dimenticarsi del proprio passato e dei suoi sensi di colpa, grazie alle parole di Stella, di Robin e dello stesso Red X. Ma dopo il litigio con quest’ultimo, il suo rammarico era tornato più forte che mai. Se Terra non fosse arrivata, probabilmente non sarebbe più riuscita a liberarsi di lui. Non scherzava affatto quando le aveva detto che le doveva la vita.

Si guardò il ventre nascosto dalla vestaglia e cominciò ad accarezzarlo. Coccolò quel feto al suo interno che probabilmente non si sarebbe accorto di nulla. Ripensò a ciò che aveva detto su suo figlio. Suo figlio, sangue del suo sangue, la vita che custodiva dentro di lei. La paura che nutriva nei suoi confronti, la paura che le stringeva il cuore e che le faceva temere che non sarebbe stata una madre ideale.

Piccolo mio... pensò mentre il suo palmo vellutato strofinava il tessuto morbido della vestaglia.

Un’altra lacrima le rigò una guancia. Tirò su col naso con forza e cercò di calmarsi.

Girò di nuovo la testa verso di Terra. Le labbra le tremarono. Si avvicinò a lei, facendo il più piano possibile per non farsi sentire. «Grazie ancora, Terra. Grazie di cuore» mormorò al suo orecchio, silenziosa come un soffio d’aria.

Non doveva avere paura. Non era sola. Non più. C’erano persone che le volevano bene. C’era un figlio in arrivo. Molte persone l’avrebbero invidiata per la sua situazione. Non era disagiata la sua vita, era lei che l’aveva sempre vista come tale. Un semplice litigio con X non l’avrebbe rovinata. Come Terra aveva detto, litigare fa parte della natura umana. Doveva essere forte e passarci sopra. E come lo stesso Red X aveva detto, non doveva farlo né per lei né per lui, ma per il loro bambino. Aveva bisogno di un padre e di una madre, loro avrebbero ricoperto tale ruolo, nel bene e nel male.

Lo avrebbe cercato e avrebbe parlato con lui. La loro relazione era più forte di un semplice litigio. Non avevano trovato l’anima gemella dopo tanti anni di solitudine e rabbia solo per poi rompere in quel modo. Terra aveva ragione, Amalia amava ancora quel ragazzo e sapeva che se lo avesse perdonato, lui non avrebbe più commesso idiozie. Dopotutto, lei era stata perdonata per azioni ben peggiori, chi era per non dare una seconda chance al suo fidanzato?

Chiuse gli occhi e sospirò di nuovo. Il mattino era giunto, ma non era molto intenzionata ad alzarsi. D’altro canto, Terra dormiva ancora come un ghiro.

La sua presenza le fu di nuovo di conforto. Sorrise. Non era sola.

 

***

 

L’aria era fresca e umida. La rugiada bagnava i fili d’erba dei prati e dei campi. Il sole si stava ancora pigramente sollevando, mentre le ultime stelle si spegnevano. I primi canti degli uccellini cominciarono, sancendo l’inizio di quella nuova giornata.

Una giornata che, BB lo sapeva, si sarebbe rivelata tale e quale alle altre. Si massaggiò le palpebre, infastidito, e sbadigliò. Si era alzato presto, molto più presto degli altri. Non sapeva nemmeno lui perché lo aveva fatto. Forse per cercare di dare un taglio alla monotonia. E anche perché sdraiarsi in mezzo ad un prato fradicio di rugiada e osservare il cielo al mattino presto era la cosa migliore da fare per riuscire a riflettere. Riflettere su colei che gli mandava il cervello in tilt tutte volte che la guardava: Corvina.

Era con molto rammarico che doveva ammettere che la maga sembrava diventare più bella ogni giorno che passava, nonostante la sua aria stanca e trasandata. Era una cosa che gli faceva girare la testa. Lei era bella, ma sembrava che non gliene importasse nulla. Si trascurava, dormiva poco – si vedeva – sembrava quasi che lei stessa volesse apparire più imbruttita davanti agli altri, ottenendo però il risultato opposto. BB stava cominciando seriamente a dubitare di ciò che aveva fatto due mesi prima, quando l’aveva scaricata. L’aveva fatto per il bene di entrambi, continuava a rammendarsi, ma questa giustificazione non era sufficiente a negare ai suoi occhi quanto meravigliosa fosse Corvina.

Come se tutto quello non fosse già sufficiente, perfino Terra gli dava i suoi bei grattacapi. Anche lei era uno schianto, anche lei ogni giorno che passava diveniva più bella.

Erano entrambe incantevoli, due brezze di aria fresca in una giornata afosa. Lui aveva avuto una chance con tutte e due, e le aveva sprecate. Con Terra si era proprio messo il destino di mezzo, a causa di tutto il marasma che era accaduto, tra Slade, eserciti di robot, laghi di lava e così via, e non serviva ripetere cos’era successo con Corvina. Se avesse cercato sul vocabolario la parola "sfigato", sicuramente ci avrebbe trovato sotto la sua foto, pensò con un mezzo sorrisetto stampato in faccia.

Scrutò la volta celeste con attenzione e sospirò flebilmente. Chissà, magari lassù, oltre l’atmosfera, in uno dei milioni di miliardi di pianeti che costituivano la galassia, si trovava una ragazza adatta lui. Una che non avrebbe rischiato di deludere, una che lo avrebbe apprezzato per quello che era.

«Chissà...» borbottò, prima di chiudere gli occhi e sbadigliare sonoramente. Era stata una pessima idea alzarsi presto, riflettendoci meglio. Beh, nulla gli impediva di schiacciare un pisolino lì, in quel prato. Tanto, ormai, si era già bagnato per bene con la rugiada, non aveva più nulla da perdere. Si accomodò come meglio poté in quel giaciglio improvvisato e usò le proprie braccia come cuscino. Sbadigliò una seconda volta e cercò di staccare il cervello una volta per tutte. Tanto, rimuginare sulle ragazze non sarebbe servito a nulla.

Non appena pensò di potersi davvero riappisolare, la terra cominciò a tremare e un baccano assordante minacciò di sfondargli letteralmente i timpani. Quasi urlò per lo spavento, quando riaprì gli occhi di scatto e si mise a sedere. «Ma che diavolo?!»

Il sole era sparito, così come il cielo azzurro. Il prato su cui si trovava, dapprima esposto completamente alla luce del mattino, ora era completamente immerso nell’ombra. A causa delle vibrazioni del terreno, i suoi denti sbattevano talmente forte che temette si potessero rompere. Serrò la mascella e alzò lo sguardo, per capire cosa diavolo avesse oscurato il sole.

Il tremore del terreno cessò all’improvviso, ma il suo cuore cominciò a battere talmente forte che si sentì come se tutto stesse ancora vibrando.

Ben quattro figure erano apparse sopra di lui e nella loro immensa grandezza ricoprivano praticamente tutta la radura in cui il villaggio fongoid era sorto. Non ci mise molto a fare due più due, il baccano e il terremoto erano stati causati dal loro arrivo. Inarcò un sopracciglio, non capendo bene cosa stava succedendo, ed analizzò meglio ciò che si trovava sopra di lui. Quando capì con esattezza con cosa aveva a che fare, senti le gambe diventare burro.

Erano quattro giganteschi velieri neri, ognuno di essi con un drappo nero svolazzante in cima all’albero maestro. Deglutì. Non li aveva mai visti prima, ma i racconti di Cyborg, Robin e gli altri gli furono più che sufficienti per riconoscere quelle navi. Centinaia di quesiti sorsero dentro di lui, mentre il battito cardiaco accelerava e brividi di paura percorrevano tutto il suo corpo. Sentì diverse grida spaventate, e si girò di scatto, verso il villaggio. Qui diversi fongoid, che probabilmente si erano alzati da poco o erano stati attirati dal frastuono di poco prima, erano in strada ed indicavano terrorizzati i quattro mastodontici velivoli. Non ci volle molto tempo prima che la situazione degenerasse e tutti quanti cominciarono a correre come impazziti verso ogni direzione. Il caos che si generò fu qualcosa che raggiunse livelli incalcolabili. Quello fu il momento in cui BB realizzò che doveva levarsi subito dai piedi e tornare al palazzo dai suoi amici.

 

 

 

 

 

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Capitolo 16
*** L'attacco ***


The Good Left Undone

XVI

L'ATTACCO

 

L’atrio del palazzo non era mai stato così zeppo. Centinaia di fongoid si erano ammassati al suo interno, ognuno di loro stava dicendo la sua, un fastidioso brusio era sollevato in aria. Voci venate dalla paura e dalla preoccupazione si mescolavano tra loro, rendendo impossibile riuscire a captare una sola frase di senso compiuto.

In un angolo della sala, nel frattempo, i Titans stavano praticamente facendo a gara con i fongoid a chi si stesse mangiando di più le mani.

«Come hanno fatto a trovarci?!» domandava Cyborg, sempre più ansioso, mentre si premeva le mani sulle tempie e camminava in avanti e in indietro senza avere l’apparente intenzione di fermarsi.

Stella sembrava stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro. Era ancorata al braccio di Robin e nulla avrebbe potuto staccarla. Si era totalmente dimenticata del diverbio avuto con il fidanzato prima di andare a dormire, in quel momento la sua unica preoccupazione erano quelle quattro navi nere.

Terra e Amalia continuavano a lanciarsi occhiate preoccupate. Entrambe erano quasi state scaraventate giù dal letto quando la terra aveva cominciato a tremare. Avevano creduto che fosse tutta opera di un terremoto, ma non appena si erano affacciate dalla finestra e si erano accorte dei quattro velieri, la realtà era stata sbattuta in faccia ad entrambe. E, se avessero potuto scegliere, avrebbero di gran lunga preferito che ci fosse davvero stato un terremoto, anziché quelli.

Robin, dal canto suo, era quello che più di tutti era angosciato. Il peso della responsabilità gravava su di lui, sempre di più con il passare dei secondi. Vedere tutti i suoi amici con quell’aspetto così preoccupato, nonché l’espressione spaventata di Stella, lo agitava. Sentiva le viscere contorcersi dentro di lui. Avrebbe voluto fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma il corpo non sembrava volerlo ascoltare. Avrebbe voluto parlare, cercare di rassicurare i compagni, ma la voce gli mancava. L’unica cosa che riusciva a fare, era restare fermo, a guardare l’atrio pieno di persone affannate e spaventate, con le molteplici guardie che cercavano di mantenere l’ordine nonostante loro in primis fossero preoccupate da quella faccenda.

BB li raggiunse poco dopo, entrando nella sala passando per il portone spalancato, volando veloce come un proiettile. Per poco non si schiantò al suolo quando atterrò e ritornò in forma umana. Inutile dire come anche lui si stesse contorcendo dalla preoccupazione. Solo più Corvina e Red X mancavano all’appello.

La prima sicuramente era sicuramente da qualche parte del palazzo, probabilmente insieme a Canoo. L’assenza del secondo, invece, era un mistero per i giovani eroi. Avevano chiesto ad Amalia, lei naturalmente non aveva alcuna idea. Aveva comunque evitato di parlare del suo litigio con il ragazzo in nero, riteneva che quello non fosse la causa della sua assenza. In quel momento, dovevano tutti essere uniti, ogni cosa detta o fatta precedentemente valeva meno di zero.

«Dai, magari... magari non è Slag, no? Magari sono dei soccorsi...» BB la buttò lì, speranzoso, dopo essersi accorto di come Cyborg sembrava prossimo a mangiarsi le unghie che non aveva.

Nessuno rispose. Il brusio incessante dei fongoid poco distanti da loro fu ciò che impedì alla loro conversazione di immergersi nel silenzio. In compenso, il robot sembrò ritrovare un certo contegno, perché smise di camminare come un pazzo e si fermò, posandosi le mani sui fianchi e fissando il suolo.

«R-Robin?» Il mutaforma non si arrese e guardò il leader, sperando in una delle sue classiche risposte decise e per nulla titubanti. Ma dalla bocca del moro non uscì altro che un fruscio di parole a fatica udibili, a causa del trambusto generale: «Le ho viste con i miei occhi, BB. È inutile fingere, sono quelle. Sono le navi di Slag.»

BB si irrigidì. Cyborg abbassò la testa e Stella gemette spaventata. Le navi di Slag, con la sua flotta di ottocento uomini e decine e decine di quei pericolosi Torpedo. Erano su Quantus, li avevano trovati.

«Ragazzi!»

Il gruppo si voltò, prima che i pensieri negativi distruggessero definitivamente le loro menti, e furono lievemente più sollevati nel vedere Corvina dirigersi verso di loro a grandi falcate. Sfortuna voleva che anche in quel momento critico lei indossasse i suoi bizzarri abiti, con tanto di drappi e pittura facciale, ma non sembrava molto imbarazzata da ciò. Tutt’altro, non esitò minimamente di presentarsi di fronte a loro. «Scusate il mio ritardo, ma Canoo ha cercato di impedirmi di venire. Ha detto che era pericoloso e che per la mia salvaguardia dovevo restare in camera mia. Naturalmente non potevo abbandonarvi, non con Slag sopra le nostre teste, perlomeno.»

Incrociò lo sguardo di Terra. Si guardarono per appena un istante, poi entrambe si costrinsero a fissare il suolo e a frenare l’irresistibile impulso di abbracciarsi davanti a tutti loro. «Che facciamo, Robin?» domandò invece, voltandosi verso di lui.

Il leader esitò. Aveva perso il conto, ormai, di quante volte lo aveva fatto. Si mordicchiò l’interno della guancia, sentendo tutti gli occhi puntati su di sé e avvertendo per la primissima volta in vita sua un senso di inquietudine talmente grande da fargli pensare di poter sprofondare a terra. Aprì bocca per rispondere, ma il brusio intorno a loro si fece dieci volte più intenso, diventando un vero e proprio baccano.

Decine e decine di voci si sollevarono, una più forte dell’altra, con timbri e tonalità completamente diversi tra loro, provenienti da uomini, donne, anziani e forse anche bambini: «È la Salvatrice!», «È lei!», «È qui per scacciare gli intrusi!», «Aiutaci tu!»

Tutti i fongoid si erano accorti di Corvina ed erano voltati verso il gruppo di giovani eroi. Si avvicinavano a loro tenendo le mani dinnanzi vero la maga, come un orda di zombie. Continuavano ad urlare frasi imploranti, quasi come se stessero delirando. In tutti i loro occhi non si riusciva a cogliere un solo barlume di sanità mentale.

Corvina impallidì e indietreggiò. Forse capì cosa volesse dire Canoo quando le aveva detto di non uscire da camera sua. I fongoid le si avvicinarono, ma furono ben presto intercettati da Robin e gli altri, che si pararono di fronte a lei, accerchiandola. Ben presto anche le guardie accorsero ed intimarono ai cittadini di allontanarsi, ma fu solo con l’arrivo tempestivo di Canoo che le persone sembrarono ritrovare un certo contegno. Lo sciamano sembrò sbucare fuori dal nulla, quando si piazzò davanti a Robin e sollevò il bastone, illuminandone la pietra le richiamare l’attenzione di tutti. «Indietro! Indietro! Lasciate in pace la Salvatrice!»

Diverse lamentele si sollevarono in aria, ma il saggio della comunità rimase inamovibile e poco per volta l’ordine, per quanto "ordine" potesse definirsi il trambusto generale di poco prima, si ripristinò.

«Senti un po’...» Canoo si rivolse a Robin e non sembrava per niente felice come la sera precedente. «... queste navi, appartengono per caso ai vostri inseguitori di un mese fa’?!»

Robin sentì come con la bocca piena di sabbia al momento della risposta. Inghiottì il grosso nodo alla gola che gli si era formato e annuì. «Sì, sono loro.»

L’espressione che assunse Canoo lasciò ben intendere che lui avrebbe gradito qualsiasi risposta meno che quella. Chiuse gli occhi e inarcò il collo all’indietro, rivolgendosi al cielo. «Sommo Orvus...» sussurrò, per poi rivolgersi nuovamente al leader dei Titans, questa volta quasi con tono rabbioso. «Ma non avevate detto di averli seminati?!»

«Li avevamo seminati! Chieda a chiunque dei miei amici, loro confermeranno! Abbiamo distanziato le navi di giorni e giorni!»

«E come hanno fatto a trovarvi, allora?!»

«Non lo sappiamo!» esclamò Robin, ormai ai limiti dell’esasperazione. Odiava non sapere cosa stava succedendo attorno a lui, e ricevere ugualmente domande a riguardo. Lo detestava proprio.

Lo sciamano socchiuse gli occhi e lo squadrò con molta attenzione, sembrava quasi che stesse cercando di leggergli nella mente per capire se era sincero o meno. Dopo diversi istanti, grugnì e distolse lo sguardo.  

Robin avrebbe voluto replicare, ma non aveva idea di cosa dire. E comunque, Canoo non sembrava molto in vena di ulteriori chiacchiere. Il leader sospirò, poi si voltò verso di Cyborg. «Sei proprio sicuro di non avere idea di come abbiano fatto a trovarci?»

Il robot incrociò le braccia e scrutò il pavimento, pensieroso. «Beh... l’unica cosa che mi viene in mente è che in qualche modo Slag abbia rintracciato la nostra nave, ma è altamente improbabile, visto che io e Zurkon avevamo disattivato il localizzatore... nessuno poteva rintracciarci, a meno che non lo volessimo noi, mandando un messaggio di richieste di aiuto. Ma questa è una cosa impossibile, nessuno di noi ha mandato un SOS dalla nave...»

Robin annuì. «Sì, hai...» Il resto della frase gli morì in gola, quando sgranò gli occhi e realizzò solo in quel momento una cosa di vitale importanza. Cominciò a tremare senza nemmeno rendersene conto, e fece vagare lo sguardo su tutti i suoi amici, uno per volta, con estrema lentezza. Il respiro si fece pesante e schiuse le labbra. Sembrava in trance. Infine, si soffermò su Amalia. I due si guardarono intensamente negli occhi per diversi secondi. La ragazza resse lo sguardo senza alcuna difficoltà, guardandolo quasi con aria interrogativa, poi, anche lei, sembrò capire e strabuzzò le palpebre. E non solo lei sembrò intuire cosa stesse frullando nella mente del leader. Tutti quanti cominciarono a scambiarsi sguardi, occhiatine, cenni, finché dalla bocca di Robin non uscì una frase che paralizzò Amalia: «Sicura di non sapere dove sia andato Red X?»

Diversi gemiti si sollevarono quando terminò di parlare. La tamaraniana mora ammutolì. Se non ci fosse stato il brusio dei fongoid di sottofondo, probabilmente tra loro sarebbe calato un silenzio opprimente.

«C-Cosa vorresti insinuare?» biascicò lei dopo diverso tempo, sempre sotto gli occhi di tutti, anche se aveva il terrore di sapere la risposta.

Il leader si piantò le unghie nei palmi, ma spiegò comunque con tono calmo: «Red X odiava stare su questo pianeta. Si è spesso lamentato e ha causato problemi dietro problemi. E adesso non è qui. E Slag ci ha trovati, perché qualcuno ha lanciato un SOS dalla nostra nave.»

«Stai dicendo che è stato lui?!» lo interruppe la ragazza, quasi gridando e stringendo i pugni a sua volta.

Robin non smosse di un millimetro. «Sto solo dicendo che io non credo alle coincidenze. E tu?»

La ragazza lo guardò scioccata. Sembrò voler rispondere, ma non lo fece. Fu Cyborg ad intromettersi, l’unico che dopo quella scioccante affermazione aveva trovato il coraggio di parlare: «Robin, aspetta. Hai ragione, anch’io fatico a credere alle coincidenze, però... stai esagerando. Red X, come tutti noi, sapeva che lanciando un SOS avremmo rischiato di farci trovare da qualche malintenzionato. Davvero credi che abbia comunque deciso di farlo? Nonostante il pericolo che correva?»

«Era così ostinato che potrebbe aver deciso di correre il rischio» ribatté Robin, impassibile. «E aver fallito.»

A quelle parole, Amalia si riscosse e cominciò a ringhiare. «Chi diavolo ti credi di essere per accusarlo in questo modo?!» gridò di nuovo, sporgendosi verso di lui e fissandolo con quanto odio avesse in corpo.

«Non mi sto elevando sopra di lui. Sto solo dicendo che i fatti parlano chiaro. Slag ci ha trovati e il tuo ragazzo non è qui insieme a tutti noi altri» disse Robin, per nulla intimidito.

Dopo quell’ultima frase, la tamaraniana mora perse il controllo. «Zitto! ZITTO!!»

Red X poteva anche aver combinato la sua buona dose di fesserie su Quantus, ma non avrebbe mai e poi mai fatto ciò di cui Robin lo accusava. Non avrebbe mai rischiato di mettere in pericolo lei e ciò che custodiva nel suo ventre. E se Robin era così idiota da non capirlo, perché in X non vedeva una persona nuova, ma il solito vecchio criminale che era abituato ad affrontare, allora ci avrebbe pensato Amalia ad aprirgli gli occhi. Strinse la mano a pugno talmente forte da farsi male e questa si illuminò di viola, insieme ad i suoi occhi. «Ti faccio vedere io come Slag ha fatto a trovarci, bastardo!»

«Kom, fermati!» Stella, rimasta aggrappata al braccio del fidanzato fino a quel momento, decise di intromettersi. Non aveva mai visto la sorella così arrabbiata, doveva fermarla e subito. Si parò davanti a Robin, il quale nemmeno in quel momento sembrava intimidito, e la fissò implorante. «Calmati, ti prego...» mormorò tendendo una mano verso di lei.

Amalia vide la sorella frapporsi ed esitò. «Kori...»

Una mano si posò immediatamente dopo sulla sua spalla. Si voltò ed incrociò gli occhi celesti di Terra. «Amalia...» mormorò semplicemente, ma il concetto fu presto chiaro alla tamaraniana. «Terra...» sussurrò, per poi abbassare la mano. La luce si affievolì poco per volta, finché il suo corpo non tornò alla normalità.

Incrociò di nuovo lo sguardo severo di Robin, rimasto fermo ed impassibile dietro di Stella. Amalia si sentì morire sotto quegli occhi. La rabbia sfumò da dentro di lei. Quel sentimento che aveva semplicemente adoperato per celarne un altro, un altro molto più doloroso: la tristezza.

Abbassò la testa, fissò le piastrelle nere e lucide del pavimento, fino a quando esse non apparvero a lei appannate per via delle lacrime che cominciarono a scivolare fuori dai suoi occhi. Singhiozzò, e poi cominciò a piangere. «Non... non è stato X...» biascicò stringendosi nelle spalle, per poi scuotere la testa con convinzione. «Non è stato lui... non è stato lui...»

Stella la abbracciò per consolarla. Le diede diversi colpetti di incoraggiamento alla schiena. «Coraggio Kom... non piangere. Non è ancora detto che sia stato lui.»

«Ha ragione» convenne Terra annuendo dietro loro due e sorprendendo tutti i presenti, per poi fissare Robin con sguardo glaciale. «La devi smettere di puntare sempre il dito contro gli altri. Non puoi accusare Red X in questo modo. Ti rendi  conto di quanto sia grave la situazione? Credi davvero che lui, malgrado tutto il suo odio per questo posto, possa aver fatto una cosa del genere a tutti noi?»

Il leader fece una smorfia. «E allora come avrebbero fatto a trovarci?»

«Non lo so, ma direi che ora come ora non è questo il problema, o sbaglio?» domandò ancora Terra, avvicinandosi ad Amalia e accarezzandola sulla schiena per rassicurarla come faceva anche Stella. «Dobbiamo capire come uscire da questo schifo di situazione, non giocare a "di chi è la colpa". Sei il leader, giusto? Allora pensa ad un modo per proteggere la tua squadra, non ad incasinarla ulteriormente con delle accuse campate all’aria.» Lo disse con tono molto calmo, ma allo stesso tempo deciso. Era andata dritta al nocciolo della questione, non voleva ulteriori giri di parole.

Gli sguardi vagavano da Robin a Terra, la prima dopo tanti anni che trovava da ridire in quel modo al leader dei Titans. Gli occhi azzurri di entrambi non si schiodavano gli uni dagli altri. Nessuno dei due era intenzionato a distogliere lo sguardo, farlo avrebbe significato cedere e darla vinta all’avversario.

Corvina, BB o Cyborg non sapevano cosa dire, la situazione stava sfuggendo di mano. Red X non c’era ed era un possibile traditore del gruppo, Amalia era in lacrime per colpa di tutto ciò, Stella cercava disperatamente di consolarla, Terra e Robin sembravano sul punto di litigare furiosamente. I fongoid intorno a loro erano terrorizzati dalle navi di Slag, Canoo era furibondo. E per finire, quattro immense navi da guerra presidiavano il cielo sopra le loro teste e nessuno aveva idea di che intenzioni avessero i loro piloti.

Corvina volle quasi andare da Terra e domandarle per favore di non gettare benzina sul fuoco con Robin, ma a riportare la calma in tutta la sala non fu né lei né nessun’altro dei suoi amici. Ci pensò una voce tonante che intimò il silenzio a tutti quanti. «Silenzio!»

Solo allora tutti i presenti si accorsero della presenza di Alpheus, il quale stava eretto dinnanzi al trono e sbatteva l’estremità del proprio scettro al suolo per richiamare l’attenzione. Non passò molto prima che il brusio generato dai fongoid si affievolisse. Malgrado la critica situazione, gli alieni riconoscevano ancora l’autorità del loro sovrano.

«Bene» disse il re quando la quiete fu ripristinata. «Vi prego di mantenere la calma. Non sappiamo ancora di chi siano le navi che vediamo sopra il nostro villaggio. Non lasciatevi sopraffare dal panico. Le guardie sono già...»

«Vostra maestà!» gridò qualcuno da in mezzo alla folla, interrompendo il sovrano. Una guardia si fece largo tra la folla, sembrava molto affannata. Quando giunse ai piedi della scalinata, si chinò per riprendere fiato e usò lo scettro come punto di appoggio.

Alpheus lo guardò con aria critica. «Cosa succede?»

Il fongoid ci mise diversi istanti per riprendersi, poi sollevò lo sguardo e disse con un fil di voce: «Sono... sono entrati.»

«Chi?»

«I... i predoni, sire. Si sono calati dalle navi e sono entrati nel villaggio.»

Il re ammutolì. Il sangue gelò nelle vene di tutti i presenti. E il panico si scatenò di nuovo.

 

***

 

Dozzine e dozzine di brutti ceffi presidiavano la via principale. Individui con forma da umanoide, ma per nulla umani. I loro corpi erano interamente rivestiti di metallo lucente. Vestivano con gilè, calzoni, anfibi, bandane e cinture, ma non erano veri e propri abiti, erano semplicemente altri pezzi di metallo che, fusi con i loro corpi, avevano quelle sembianze. Erano robot, non avevano bisogno di veri vestiti, dopotutto. Occhi glaciali, dei più svariati colori, più simili a dei riflettori che ad altro. Azzurri, blu, verdi, rossi, gialli, viola, parecchi ne avevano perfino di due colori diversi. I loro volti erano simili a dei crani privi di capigliatura, assomigliavano a degli scheletri, più che a dei pirati. Brandivano sciabole, pistole, fucili, coltelli e ogni qualsivoglia di arma da taglio. Sparavano colpi in aria, spaccavano finestre, rovesciavano le bancarelle, gridavano, esultavano e cantavano a squarciagola qualche bizzarra canzone. Diverse bottiglie giravano fra le loro mani, se le passavano in continuazione per poterne sorseggiare il contenuto e darsi ulteriore carica per proseguire le razzie che stavano commettendo.

Tutti i fongoid che avevano la sfortuna di trovarsi in strada in quel momento fuggivano terrorizzati, altri venivano colpiti e presi a calci. Nessuno fu ucciso, per fortuna, ma era altamente probabile che presto o tardi ciò sarebbe accaduto. Le guardie che erano state mandate a controllare le strade cercavano di respingerli, ma ne erano intimiditi, si vedeva perfettamente. Esitavano prima di sparare con i loro scettri e spesso e volentieri alzavano le mani e si arrendevano, per poi venire pestati brutalmente, sotto le risate crudeli di tutti loro.

Si stava ripetendo esattamente ciò che anche molti anni prima era accaduto, quando i fongoid erano stati messi in ginocchio la prima volta.

Uno spettacolo sconcertante, quello che si parò dinnanzi agli occhi dei Titans e degli altri fongoid usciti da poco dal palazzo. Erano giunti al limitare del cortile, in cima alla scalinata, dove, dall’alto della collina, era possibile scorgere buona parte del villaggio.

«Sommo Orvus...» sussurrò Canoo, per poi fare uno strano gesto con la mano, una specie di segno della croce.

Diversi piagnucolii si sollevarono tra i fongoid, perfino dei pianti o delle grida disperate atte a chiamare figli o comunque parenti rimasti nel villaggio e che quindi correvano grossi rischi a causa dei pirati. I ragazzi, invece, si trasformarono in delle statue, talmente si irrigidirono davanti a ciò che stavano vedendo.

«No...» mormorò Stella portandosi una mano davanti alla bocca, sentendo gli occhi inumidirsi.

Le risate e le crudeltà continuarono, finché uno dei pirati non si distinse in mezzo alla massa. Era grosso almeno il doppio degli altri, e non perché era in forma, tutt’altro. Aveva una pancia talmente enorme che era quasi impossibile non scorgerla. Teneva in mano uno strano oggetto, simile ad una pistola ma con la canna a forma di cono, stretta a partire dal cane, larga alla bocca da fuoco. Solamente quando quell’individuo parlò fu chiaro che quell’oggetto era in realtà un megafono. «D’accordo, piccole carogne.» La sua voce riecheggiò in tutta la strada e giunse perfettamente anche in cima alla collina, dove fongoid e Titans ebbero modo di sentirla. E la riconobbero all’istante. Falso tono cordiale, enfasi alle vocali, timbro fastidioso. Slag. Colui che parlava era Slag II in persona. Il prode capitano, l’erede di Slag I, il più grande pirata che quell’universo avesse mai potuto ammirare. Nessuno di loro si sarebbe mai aspettato di vederlo dal vivo.

«Non ho voglia di perdere tempo con voi, e immagino che voi non abbiate voglia di vedere il vostro villaggio trasformarsi in una landa desolata dove nemmeno le ortiche avranno il coraggio di crescere, perciò sono qui in vesti ufficiali per proporvi uno scambio. Sì, avete sentito bene piccoli cornuti, uno scambio.

«Qualcuno ha lanciato un messaggio di richieste di aiuto, poche ore fa. Sfortuna vuole che quel messaggio sia giunto a noi. E, sempre sfortuna vuole, pare quel messaggio sia stato mandato da dei terrestri nascosti qui da voi che, coincidenza, circa un mese fa’ stavano fuggendo proprio da noi. Ora, la questione è molto semplice. Noi ci prendiamo questi terrestri e lasciamo in pace il vostro piccolo villaggio. Dopotutto, sono loro che hanno chiesto di andarsene da qui, noi vogliamo solo accontentarli. Dunque, tirate fuori i terrestri e non raderemo al suolo questo buco. Considerando la velocità con cui i miei stanno distruggendo la vostra via maestra... direi che avete dieci minuti di tempo. Vi consiglio di sbrigarvi, prima che comincino ad appiccare incendi a destra e manca. Grazie mille per la pazienza.»

I Titans avevano ascoltato quasi come in trance il discorso del pirata. Se non fu per la domanda che qualcuno gli rivolse, non si sarebbero accorti di nulla. «Li avete chiamati voi?!»

«C-Cosa?» Robin si ridestò solo in quel momento, poi negò con convinzione, non capendo nemmeno chi aveva parlato. «No! Certo che no! Noi non...»

Il resto della frase fu seppellito dal pandemonio che si scatenò. I fongoid cominciarono adì gridare, a protestare e a puntare dita accusatorie contro di lui e il resto della sua squadra. I ragazzi indietreggiarono quasi intimoriti, pure Corvina, La Salvatrice, rimase atterrita. Stella abbracciò di nuovo Robin, mentre tutti gli altri stringevano i denti e si arrovellavano su come uscire da quella pessima situazione. Ma, paradossalmente, fu sempre Canoo ad aiutarli. «Fermi! Fermi! Indietro!»  esclamò parandosi di fronte a Robin. «Non siate affrettati!»

«Canoo ha ragione» convenne Alpheus, affiancandolo e sbattendo a terra lo scettro. «Non possono essere stati i terrestri. I predoni hanno ricevuto il messaggio poche ore fa’, ma in quel momento tutti i nostri ospiti erano al palazzo, e il palazzo viene sigillato dall’interno a notte inoltrata. Nessuno di loro può essere uscito e...»

«Maestà...» rantolò qualcuno, alle spalle di tutti. I presenti si voltarono, anche Alpheus, e videro un’altra guardia salire in cima alle scale quasi trascinandosi per la fatica. Lo riconobbero all’istante, malgrado l’aspetto martoriato. Era Galvor. Il fongoid giunse finalmente in cima alle scale. Non aveva più lo scettro, né il suo copricapo, probabilmente anche lui aveva affrontato i pirati. Quando finalmente fu di fronte a tutti loro, sollevò l’indice e lo puntò contro di Robin. «Sono... sono stati loro! Hanno chiamato i predoni!»

«Ehi! No! Non è vero!» protestò BB, venendo presto seguito a ruota da Terra e Cyborg.

«Silenzio!» tuonò Alpheus, zittendoli, per poi rivolgersi a Galvor, con aria severa. «Spiegati meglio. Come puoi dire una cosa così grave?»

Galvor grugnì di rabbia. «Ieri notte il loro amico vestito di nero non era al palazzo, ma era fuori, nel villaggio. L’ho intravisto per caso, mentre pattugliavo con i miei compagni. Aveva un’aria molto sospetta. Lo abbiamo chiamato per fermarlo e domandargli cosa ci facesse in giro la notte tardi, ma lui è scappato. Lo abbiamo inseguito, ma quello si è infilato nella foresta. Lo abbiamo cercato a lungo, ma non lo abbiamo più trovato. E non potevamo nemmeno allontanarci troppo, o avremmo rischiato di svegliare le Bestie. Io per primo non riesco a credere a ciò che sto dicendo, ma adesso che quel predone ha detto come hanno fatto a giungere qui, non ho più dubbi. Il loro amico è tornato alla loro nave e ha chiamato i soccorsi, attirando così i predoni.»

Diversi versi di sorpresa si sollevarono fra i Titans. E non solo. Sorpresa, delusione, incredulità.

«No...» mormorò Amalia abbassando il capo, trafitta da quella notizia come da una pugnalata. «No... non può averlo fatto... non può...»

«Galvor, ne sei proprio sicuro?» domandò ancora Alpheus. «Ti rendi conto, vero, che questa è un’accusa molto grave?»

La guardia annuì, irrigidendosi come un soldato sull’attenti. «Lo giuro sul mio onore. Può anche domandarlo alle guardie che erano con me ieri sera, loro possono confermare.»

«Sommo Orvus...» sussurrò il re, per poi premersi una mano sulla fronte ed apparire per la prima volta dinnanzi a tutti davvero spiazzato e perfino spaventato.

Perfino Robin, colui che fino a poco prima era il primo ad accusare X, si sentiva davvero umiliato e preso in giro dal ragazzo in nero. Non avrebbe mai potuto credere che sarebbe arrivato a tanto. Osservò Amalia mentre cadeva in ginocchio e cominciava a piangere disperata, continuando a negare con convinzione anche se ormai le prove erano schiaccianti. Oramai non c’erano più dubbi, Red X li aveva traditi. Aveva tradito tutti.

«Avete ancora quattro minuti.» La voce di Slag riapparve sgradevole come una secchiata di acqua ghiacciata.

A quel punto, il caos si generò di nuovo. I fongoid cominciarono ad accanirsi contro i Titans, a gridare loro di andare ad arrendersi e che non volevano che il villaggio venisse distrutto. Gli unici che rimasero in silenzio furono Alpheus e Canoo, gli unici due che ancora avrebbero potuto fare qualcosa per i Titans. Notando come loro due si stessero astenendo dalla discussione, i ragazzi cominciarono davvero a temere il peggio. La domanda sorse spontanea dalla bocca di Cyborg: «Robin, cosa facciamo?»

Il leader si sentì sopraffare. Osservò i pirati mentre saccheggiavano le case degli innocenti, guardo Galvor che dal canto suo lo fissava in maniera truce, vide Terra abbracciare Amalia per confortarla dopo l’appresa notizia del tradimento di X, e poi vide Alpheus allontanarsi da tutti loro a testa bassa, umiliato e sconfitto.

«Robin...» Stella lo chiamò con un fil di voce, il ragazzo si voltò verso di lei ed incrociò il suo sguardo. I suoi meravigliosi occhi smeraldo incastonati in un volto angelico ed innocente. Fu troppo per lui. Il ragazzo abbassò la testa, distogliendo lo sguardo dalla dolce amata. «Io... io...» cominciò a dire, con un tono di voce mai stato così flebile. «Temo... temo che forse dovremo...»

«Lo so io cosa dobbiamo fare» disse Amalia all’improvviso, interrompendolo. La ragazza strinse i pugni e sollevò lo sguardo all’improvviso. Il pianto le era passato, ma aveva lasciato i suoi segni. Le guancie erano ancora rigate dalle lacrime e gli occhi erano arrossati. Ma quando si erse in piedi, Amalia non sembrava mai stata così determinata. Terra si separò da lei, guardandola altrettanto sorpresa.

«Arrendersi non servirà a nulla» cominciò lei, con tono determinato, per poi passarsi una mano sul volto e darsi una rapida ripulita, per apparire più sicura. «Conosco bene i criminali. Questo genere, di criminali. Se vi arrenderete, credete davvero che risparmieranno il villaggio? Una volta avuto ciò che vogliono, nulla impedirà loro di fermarsi. I fongoid sono spaventati da loro, e lo sanno. Se ci arrendiamo, gliela daremo semplicemente vinta. E inoltre, arrenderci significherebbe consegnare anche Corvina, La Salvatrice.»

«No, questo mai!» esclamò Canoo, il quale aveva udito la conversazione. «Non possiamo consegnare La Salvatrice, è fuori discussione!»

Amalia annuì. «E infatti non succederà. Non possiamo arrenderci.»

«E allora cosa suggerisci?» domandò Robin, ma sapeva già dove lei stesse andando a parare.

«Il fuoco va combattuto con il fuoco» disse infatti lei, con determinazione. Strinse una mano a pugno ed essa si illuminò di viola. «Siete eroi, giusto? E io sono nel vostro gruppo, perciò fino a prova contraria, anche io lo sono. Una specie, almeno. Non mi sembra che sia davvero necessario dirvi cosa fare.»

Robin osservò la sorella di Stella. Si mordicchiò l’interno della guancia, pensieroso. Poi, dopo diverso tempo, a fatica represse un sorriso. Il suo era stato un discorso breve, ma avrebbe convinto chiunque. Pure lui ne era impressionato. I ragazzi si guardarono tra loro. Terra, Corvina, Cyborg, BB e Stella. In tutti i loro sguardi comparve il barlume di una scintilla che fino a pochi attimi prima non c’era. Perfino quest’ultima sembrava aver ritrovato un po’ di coraggio.

La tamaraniana mora abbassò la mano, si voltò ed osservò con quando odio avesse in corpo prima Galvor, poi il villaggio e i pirati, ed infine un punto qualsiasi in cui immaginò di vedere il volto di quel ragazzo che tanto aveva amato e che le aveva ridotto il cuore in frantumi. «Combattere. Cacceremo quei bastardi da qui alla vecchia maniera.»








E riappaio anche qui. Sì, insomma, tecnicamente sarei piuttosto avanti con i capitoli con questa storia, quindi non avrei molti problemi a pubblicarla, però... ecco, diciamo che ho avuto un blocco, non me la sentivo proprio di continuare, nonostante fossi già avanti, per l'appunto. Io non so come spiegarlo, ma è così. Chiedo scusa per l'attesa, spero di riuscire a farmi perdonare con i prossimi aggiornamenti (che spero non arrivino troppo tardi a loro volta, anche se cercherò comunque di dedicarmi di più ad Infamous che ad altro). Grazi per la pazienza. Alla prossima!

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Capitolo 17
*** Shamus McGee & Von Walis Caruso ***


The Good Left Undone

XV

SHAMUS MCGEE & VON WALIS CARUSO

 

 

«Dove credete di andare?!» esclamò Galvor, vedendo i ragazzi muoversi verso di lui.

«Dobbiamo fermare i pirati prima che distruggano il villaggio!» rispose Robin, tornato stranamente calmo. Amalia aveva ragione, c’era solo un modo per fermare i pirati, ovvero con le cattive.

«Ve lo scordate!» disse il fongoid, stringendo la presa intorno al bastone. «Dovete arrendervi a loro, solo così il villaggio potrà salvarsi!»

«Se ci arrendiamo, distruggeranno il villaggio comunque» ribatté il ragazzo, mantenendo la calma. «Lasciaci passare, per favor...»

«No!» Galvor sbatté a terra la punta dello scettro. «Se non vi arrendete peggiorerete solo le cose! Il vostro amico ha già commesso un reato gravissimo, voi non potete...»

«Ora mi hai rotto!» Amalia scattò in avanti, furibonda. Afferrò l’alieno per l’orlo dell’uniforme da guardia e lo sollevò come un peso piuma, facendo gridare di sorpresa diverse persone, Galvor incluso. Fisso con quanto odio avesse in corpo l’alieno. «Stammi a sentire, sgorbio, se sei un cagasotto che non vuole combattere mi sta bene, ma non devi metterci i bastoni tra le ruote! Giuro che se fiati ancora ti castro, hai capito?!» 

Il fongoid ammutolì, così come gli amici di Amalia. La tamaraniana lasciò poi la presa sulla guardia, che cadde a terra pesantemente. Gridò furibonda, fu avvolta da un’aura viola, occhi e mani si illuminarono dei medesimi colori, poi si alzò in volo, diretta a grande velocità verso il villaggio.

I Titans rimasero atterriti. Galvor si rialzò, con un’espressione in faccia che era a metà tra la paura e lo stupore. Osservò i ragazzi, aprì bocca ma non uscì un solo fiato. Distolse lo sguardo e si spolverò, poi si incamminò verso di loro e si fece strada tra BB e Cyborg, che si spostarono per lasciarlo passare. Prima di scomparire in mezzo alla folla, si voltò un’ultima volta e rantolò, più imbarazzato che arrabbiato: «Non finisce qui.»

Robin lo guardò svanire in mezzo ai suoi simili, e sospirò. Tra Amalia e Red X non sapeva più dove sbattere la testa. «Ok, Titans» disse, chiamandoli a raccolta. «Io mi occupo di Slag, voi pensate ai pirati. Ricordate che siamo in schiacciante inferiorità numerica, perciò se le cose si mettono male non esitate a ritirarvi. Nascondetevi se necessario e recuperate le forze. Vorrei poter studiare un piano più dettagliato, ma purtroppo non c’è più tempo. Domande?»

I ragazzi si scambiarono degli sguardi, ma nessuno parlò. Robin annuì, soddisfatto. Per fortuna poteva sempre contare su di loro. «D’accordo, allora. Titans...»

«Un momento!» Canoo si intromise, sollevando le mani. «Prima che andiate... potrei parlare un momento con La Salvatrice, in privato?»

Corvina inarcò un sopracciglio. Robin spostò lo sguardo su di lei, altrettanto perplesso. I due si scambiarono una serie di parole mute, poi la maga acconsentì: «Va bene, ma facciamo in fretta. Voi andate pure ragazzi, vi raggiungo il prima possibile.»

Il leader annuì. «Va bene. Titans, andiamo!»

 

***

 

La prima cosa che BB aveva fatto una volta ottenuto il via libera dal leader, era stata quella di precipitarsi come un razzo a casa di Yurik. Il solo pensiero che un bambino come lui fosse in pericolo a causa loro lo aveva fatto scattare come un interruttore. Prima si assicurava che lui stesse bene, poi avrebbe pensato ai pirati.

Mentre volava sotto forma di passerotto, per passare inosservato, poté ammirare da ancora più vicino lo spettacolo sconcertante che si parava proprio sotto di lui. I pirati stavano facendo razzie del villaggio, distruggevano qualunque cosa capitasse loro a tiro e appiccavano anche incendi. Per fortuna non erano proprio dei geni, perché fino a quel momento avevano cercato di appiccarne sulla strada e sulle case di pietra, che naturalmente non prendevano fuoco, ma non sarebbe passato molto prima che arrivassero a dar fuoco ai campi, e a quel punto la situazione sarebbe precipitata.

BB ancora non riusciva a credere che tutto quel disastro avesse avuto origine dall’impulsività e l’impazienza di Red X. Non gli sembrava vero. Lui che per primo era una testa calda, non riusciva a credere a quanto stupida fosse stata l’azione del loro ex nemico.

Finalmente attraversò la città e giunse alla sua destinazione. Vedere il complesso di edifici dove Yurik viveva fu come ricevere una notizia buona e una cattiva: la notizia buona era che non c’erano pirati in circolazione; la cattiva era che al loro posto, intento a distruggere ogni cosa che capitasse a tiro, c’era un gigante, nel vero senso della parola. Il mutaforma si pietrificò quando lo vide. Credeva che Slag fosse grosso, ma questo era almeno il doppio del capitano robot. Arrivava ai tre metri d’altezza come minimo, i suo corpo era costituito da un busto color mattone grosso come una locomotiva, al cui centro si trovava una griglia chiusa, che lo faceva assomigliare ad una fornace su due gambe verdognole. Gambe che più che altro assomigliavano a due piedi un po’ cresciuti, visto che erano lunghe sì e no quaranta centimetri. Come facessero quei due arti minuscoli a reggere un tale mastodontico corpo era un mistero. A partire da due robuste spalliere partivano le braccia grigie scure, una delle quali a forma di cannone, l’altra dotata di una grossa mano con pollice opponibile. La testa era deformata, incassata nel busto e dunque priva di collo, non aveva tratti fisici se non che per gli occhi gialli e la bocca, ed era di colore blu stantio.

Aveva appena finito di fare a pezzi l’ennesimo edificio e troppo tardi BB si rese conto che quello era proprio la casa di Yurik. Non appena la facciata crollò, i fongoid al loro interno gridarono terrorizzati, ma non riuscirono a fare altro perché il colosso li colpì con una poderosa bracciata, mandandoli al tappeto. Rise di gusto, una risata piuttosto macabra che sembrava quasi forzata, poi allungò la mano ed afferrò l’unico fongoid che si era salvato dal precedente attacco, nonché quello troppo basso per essere colpito, ovvero Yurik. Lo afferrò con l’indice e il pollice per le tempie e lo sollevò senza il benché minimo sforzo. Il piccoletto cominciò a gridare e a scalciare per liberarsi, tendendo anche una mano verso i famigliari svenuti e chiamandoli a gran voce.

Il gigante lo sollevò fino all’altezza del proprio volto, poi lo squadrò continuando a ridere in quella strana maniera. «Il pirata grande spreme il minuscolo fongoid!» gracchiò con voce tonante, stringendo la presa attorno al cranio del piccoletto.

«Agh! Lasciami! Lasciami!» gridò Yurik cercando di staccarsi le dita del colosso di dosso e scalciando con molta più insistenza.

Fu il vedere quella scena, il volto del bambino sempre più sofferente e l’udire le sue grida sempre più disperate, che permisero a BB di uscire dallo stato di stupore in cui si trovava e farsi avanti. Non poteva permettere a quel gigante di fare del male a Yurik in quel modo così barbarico e crudele. Il mutaforma scene in picchiata e tornò in forma umana per strada, ad una dozzina di metri di distanza dal gigante. Visto che non si accorse di lui, BB raccolse da terra un frammento di un edificio e glielo lanciò addosso, gridando: «Ehi bestione!»

Il gigante si volto, per poi beccarsi in piena faccia il detrito.  Questo rimbalzò emettendo un tintinnio metallico e cadde a terra. Non gi aveva fatto nemmeno un graffio, ma non era quello che BB sperava. Voleva attirare la sua attenzione e ci era riuscito. «Lascialo andare. È me che cerchi!»

«B...» rantolò Yurik, il tono semi morente che racchiudeva sollievo e felicità.

Il gigante soffiò dalla bocca come un tono imbufalito e lasciò andare il bambino, che cadde a terra gemendo. «Ti pentirai di ciò che hai fatto, terrestre!»

«Credi di farmi paura?» ribatté BB piegando le gambe, pronto a scattare. Di ceffi grandi grossi e brutti ne aveva affrontati a bizzeffe, quel robot gigante non lo spaventava di certo. Per quello che lo riguardava, il cattivo più inquietante che avesse mai affrontato era Slade, ai tempi, prima che svanisse nel nulla. Nemmeno Metalhead lo aveva mai spaventato, tantomeno Edward.

Dal gigante, nel frattempo, provenne un’altra stramba risata. Era sconnessa, era come se ridesse a monosillabi, poco per volta. «Sei molto lontano dalla Terra, umano, qui vigono le regole dello spazio, e le regole sono che creatura grande mangia creatura piccola!»

«Ah sì?» BB si piegò su sé stesso e cominciò a gridare, mentre effettuava una delle sue trasformazioni e i muscoli si ingrossavano dentro di lui a tal punto che gli sembrava stessero lacerando la pelle dall’interno. I denti furono sostituiti da delle zanne, le braccia si accorciarono, le gambe diventarono dieci volte più grosse, una protuberanza spuntò dalla fine della spina dorsale e si allungò fino ad arrivare alla punta acuminata. La sua ombra crebbe, arrivò fino ad oscurare l’intero corpo del gigante. Quando la trasformazione finì, BB era ormai un tirannosauro, più alto del colosso di almeno un metro. Ruggì in segno di sfida, facendo tremare i palazzi e causando diverse frane in quelli che già erano stati distrutti. «Chi è il piccolo adesso?!»

Il colosso sfoderò i denti grigi in una smorfia infastidita, ma non sembrava per nulla intimidito. «Io sono Shamus McGee, uno dei tre luogotenenti della ciurma di Slag, i Grunthor come te li mangio a colazione!» Puntò il cannone ed aprì il fuoco. Tre sfere gigantesche fuoriuscirono dalla bocca di fuoco e precipitarono addosso al T. Rex, ma anziché finirgli addosso caddero a pochi metri di distanza da lui. Erano grigie, con delle strisce gialle che ne circondavano il diametro orizzontalmente e verticalmente, con delle luci rosse piazzate in dei fori in tutti i punti in cui le strisce di incrociavano. Come potessero essere usciti simili congegni dal corpo del colosso, era un mistero. Anziché detonare all’impatto, queste rotolarono per un altro breve tratto, poi cominciarono ad emettere segnali acustici e le luci iniziarono a lampeggiare. Non fu difficile capire cosa sarebbe successo da lì a poco. BB fu costretto a rinunciare alla sua forma da dinosauro per salvarsi, e si trasformò in un volatile per potersi allontanare da lì e al più presto.

Le bombe detonarono. Le esplosioni furono di proporzioni gigantesche, ed erano ben tre. Spazzarono via diversi edifici nei paraggi e l’onda d’urto che si verificò aggredì BB alle spalle, facendolo stridere di dolore. Sentì l’intero corpo andare a fuoco e il dolore gli impedì di continuare a sbattere le ali. Impossibilitato a volare, precipitò a terra cadendo pesantemente. Tornò umano poco dopo, rantolando e gemendo, sotto le risate di Shamus. «Ti ho fatto male, nanerottolo?»

BB si rialzò a stendo, digrignando i denti. Non poteva dargliela vinta. Dopo aver visto cosa quelle bombe erano in grado di fare, doveva sconfiggerlo al più presto. Si maledisse, tuttavia, per la sfortuna avuta. Di tutti i nemici che poteva incontrare, proprio uno dei più forti, uno dei tre luogotenenti. Guardandosi intorno, vedendo gli edifici rasi al suolo, pregò che nessun fongoid fosse rimasto coinvolto. Non vedendo nessun corpo, intuì che dovesse essere andata così. Dove poco prima c’erano le bombe, ora si vedevano tre immensi crateri ancora fumanti.

Il verdolo boccheggiò di dolore e anche di sollievo, per fortuna aveva avuto la decenza di allontanarsi da lì e non sfidare quelle bombe. Nonostante l’immensa resistenza del T. Rex, dubitava che si sarebbe salvato da tali esplosioni. Tornò a guardare il gigante. Quello continuava a ridacchiare come un demente. L’onda d’urto aveva raggiunto anche lui, ma non gli aveva procurato il benché minimo graffio. Cercò tracce di Yurik, e con suo immenso sollievo constatò che il bambino era sparito, forse era riuscito a strisciare via prima che fosse troppo tardi. Meglio, così qualcuno sarebbe riuscito ad uscire vivo da quello scontro. No, BB non doveva pensare quello. Scosse la testa, poi sfidò con lo sguardo Shamus. Poteva sconfiggerlo, ne era certo. Aveva un’arma segreta, dopotutto, anche se sperava con tutto il cuore di non doverla usare.

«Lo sai , vero...» cominciò a dire, ansimando. «... più sono grossi...» Si piegò di scatto e si trasformò di nuovo, questa volta in ghepardo. Avrebbe sfruttato la velocità per colpirlo prima che lanciasse altre bombe. Funzionò. Prima che McGee riuscisse a sparare di nuovo, BB lo aveva già raggiunto e si era trasformato di nuovo, questa volta in triceratopo. «... più fanno rumore quando cadono!»

Sfruttò la velocità accumulata dalla corsa precedente e l’impatto con l’enorme busto di Shamus fu devastante, lo stesso colosso gridò di sorpresa. Sotto la pressione delle proprie corna, il mutaforma sentì il metallo del gigante accartocciarsi. Tuttavia, McGee barcollò soltanto, rimanendo saldamente ancorato a terra. Prima che BB riuscisse ad accorgersene, cominciò una prova di forza tra i due, con Shamus che cercava di spingerlo via con le proprie braccia e lui che premeva la testa sul busto. BB soffiò dal naso e impiegò il triplo delle proprie forze per riuscire ad avere la meglio, ma non sembrava funzionare, nonostante i molti versi di sforzo da parte del colosso.

Dopo quelle che parvero eternità, il mutaforma sentì le zampe staccarsi da terra e sgranò gli occhi.

«Nessuno è più forte di un luogotenente!» esclamò Shamus, per poi sollevarlo tenendolo per il grosso collo, aiutato anche dal braccio-cannone. BB gridò e cominciò a zampettare all’impazzata, ma ormai era tardi. McGee lo sollevò completamente e lo scaraventò contro un altro edificio, gridando con quanta voce avesse in mezzo ai bulloni. Il mutaforma si schiantò contro la facciata, distruggendola. Senza più niente a sorreggerlo, l’edificio gli crollò addosso, seppellendolo. Nonostante fosse  un triceratopo e avesse la pelle dura, fu dannatamente doloroso. Neppure lui seppe come riuscì ad uscire dalle macerie, strisciando come un verme, purtroppo non letteralmente. Non aveva più le forze nemmeno per trasformarsi in un moscerino. A stento si risollevò per una seconda volta, il tutto sotto le ristate ingarbugliate di Shamus. «Il piccolo terrestre non riesce a combattere con il pirata grande e grosso? Povero e piccolo terrestre, lascia che ci pensi io a te! Ti catturerò e ingabbierò, così il capitano sarà felice!»

«Te... te lo puoi scordare...» biascicò BB, ciondolando, mantenendo a stento l’equilibrio. Si sentiva risucchiato da ogni energia, non aveva idea del perché. Forse starsene in panciolle per un mese intero lo aveva rammollito, o forse l’esplosione che lo aveva investito lo aveva danneggiato molto più gravemente di quello che pensava.

I suoni attorno a lui risuonavano lontani, ovattati. Le esplosioni nel villaggio proseguivano, così come i versi dei pirati e il rumore del metallo delle sciabole che tintinnava, ma era quasi come se non ci fossero. L’unica cosa di cui BB era certo, era che si trovava di fronte un tizio molto più tosto di quanto avrebbe mai potuto immaginare. 

Tossì, cercò di levarsi la polvere e i calcinacci di dosso, anche se ogni movimento gli procurava fitte di dolore allarmanti. Quando sollevò lo sguardo vide Shamus muovere le corte gambe ed avvicinarsi a lui, con un’espressione compiaciuta stampata in quel volto scarno. D’impulso, a BB venne di indietreggiare, ma le parole del colosso lo fecero bloccare di nuovo. «Nessuno sfugge alla flotta di Slag. Combattere è inutile. Lascia che ti porti dal capitano, lui sì che si prenderà cura di te!»  

BB gemette. Le cose si mettevano male. Si ricordò dell’avvertimento di Robin, quello a proposito di una possibile ritirata, e in quel momento l’idea lo stuzzicò parecchio. Scappare era la soluzione più sicura che gli restava, a quel punto. La più sicura, non la migliore, né la più agguerrita. Quest’ipotesi svanì nel nulla all’improvviso, tuttavia, quando il mutaforma si rese conto della presenza di altri individui in quella strada ormai semidistrutta. Diversi fongoid, uno più malconcio dell’altro, si erano alzati dalle macerie, o erano usciti dai loro nascondigli, ognuno di loro aveva BB nel proprio campo visivo. Una figura si distinse in mezzo a tutti loro. Quella che, paradossalmente, era la più minuta. Yurik, in braccio alla propria madre, entrambi con dei vistosi tagli. Gli occhi del bambino erano un misto di timore, preoccupazione e anche fiducia, così come quelli della madre e di tutti gli altri. A quel punto, BB capì. Capì che Shamus non si sarebbe fermato se lui fosse scappato e che avrebbe ucciso tutti quei poveri innocenti, Yurik – un semplice bambino –compreso. McGee era uno di quei cattivi privi di scrupoli, senza alcun rimorso e senza la benché minima pietà. Era come Metalhead. Era un mostro. BB era il meno adatto per fermarlo in quel momento, ma era anche l’unico. I fongoid contavano su di lui. I suoi amici, contavano su di lui. Non poteva perdere contro il primo nemico che incontrava durante quell’assedio, per quanto forte questo avesse potuto essere.

Fu proprio con il supporto morale di tutti quei fongoid, che intimò loro: «Scappate da qui, mettetevi al sicuro. Tra poco si scatenerà l’inferno.»

Gli alieni lo squadrarono sempre più riluttanti, poi, poco per volta, si allontanarono di corsa.

«B...» La voce di Yurik arrivò come un soffio di vento, mentre la madre portava lui e sé stessa in salvo. Pochi istanti dopo, BB e Shamus furono di nuovo soli. I loro profili retro illuminati dalla luce naturale del giorno rimasero l’uno parato di fronte all’altro, quello alto tre metri del colosso e quello alto poco più della metà del ragazzo.

«Si scatenerà l’inferno, per te!» gracchiò il pirata, ridacchiando di nuovo e sollevando il cannone.

BB digrignò i denti e strinse i pugni. Sembrava tutto volgere a suo sfavore, ma non era ancora finita. Non doveva arrendersi. Aveva ancora una carta da giocarsi. Aveva ancora il suo asso nella manica, il suo jolly, la sua arma segreta, ciò che volendo gli avrebbe permesso di sconfiggere perfino Robin o Slade. Si rimise in posizione, pregò che la trasformazione non gli succhiasse via le ultime energie e gridò di nuovo. Avrebbe fatto capire a quel bestione di metallo che lui era molto di più di quello che dava a vedere, che lui celava dentro di sé una forza primordiale mostruosa.

Gridò ancora più forte, sentì i muscoli ingrossarsi per la terza volta. E poi una scarica di dolore immensa lo travolse, percorrendo ogni millimetro del suo corpo, straziandolo dall’interno. L’urlo di battaglia di poco prima si tramutò ben presto in un grido disperato, di autentica agonia. Sentì gli occhi schizzare fuori dalle palpebre, ogni centimetro di pelle bruciare e quando tutto finì, si ritrovò accasciato al suolo, impossibilitato a compiere il minimo movimento. Un nauseabondo odore di bruciato giunse alle sue narici e quando intuì che quello proveniva dal suo stesso corpo, avvertì un conato di vomito.

Decine e decine di ombre apparvero nella periferia del suo campo visivo, ognuna dalle forme più bizzarre e stravaganti. All’inizio pensò semplicemente di star ammattendo, ma quando le masse indistinte si rivelarono per ciò che erano, ovvero un enorme gruppo di robot pirati armati di tutto punto, capì che era appena stato vittima di un attacco alle spalle, forse addirittura pre-orchestrato.

Shamus si avvicinò, lo afferrò per il collo e lo sollevò con tutta tranquillità, per poi sfoderare a pochi centimetri dal suo volto un sorriso vittorioso. «Ti avevo avvertito, piccolo insetto, nessuno sfugge alla flotta di Slag!»

BB digrignò i denti. Cercò ancora di dimenarsi, ma Shamus strinse la presa attorno al collo, facendolo gridare di dolore. Non era che un insetto in confronto al gigante di ferro, non si sarebbe mai potuto liberare. La schiena gli bruciava ed era ancora stordito dai colpi di poco prima.

Sentì il fiato mancare a causa della stratta attorno alla gola, poi, poco per volta, la vista si oscurò e le gambe smisero di dimenarsi. Abbassò la testa e gli arti gli si afflosciarono. Si vergognò da morire di quel fallimento, ma non poté commiserarsi più di tanto, perché il buio lo avvolse completamente.

 

***

 

Lo scontro proseguiva. I pirati erano tanti, troppi, ma i Titans stringevano i denti.

Terra, Cyborg e Stella all’inizio non si erano nemmeno accorti che, a furia di spostarsi nel villaggio per respingere tutte le minacce, si erano ritrovati a coprirsi la schiena a vicenda. Ognuno di loro si stava occupando di un gruppo di pirati diverso, finché non si erano incrociati nella stessa via e avevano unito le forze.

I robot erano tosti, dovevano ammetterlo, ma in fin dei conti non erano poi nulla di che. Non erano avversari molto impegnativi, a conti fatti i giovani eroi avevano affrontato di molto peggio, anche piuttosto recentemente. I pirati erano semplici soldati armati, sparavano, cercavano di mettere a segno attacchi con le sciabole, ma alla fin fine non avevano nulla di speciale, la loro strategia era quella di puntare sulla superiorità numerica.

E avrebbe anche funzionato, se solo Terra, Stella e Cyborg non fossero stati dotati degli incredibili poteri e capacità che invece avevano.

Stella era una guerriera tamariana, era forte fisicamente, era resistente, veloce e i suoi dardi avrebbero fritto qualunque cosa, anche le teste metalliche dei pirati.

Cyborg, beh, era un cyborg armato di tutto punto.

Terra invece giocava in casa. Case, panchine, la stessa strada, ogni cosa era costituita o da rocce, o da cemento, o da terra. Per lei ogni cosa era un’arma micidiale. Anche se doveva fare attenzione a ciò che combinava; se avesse distrutto il villaggio solo per fermare i pirati probabilmente avrebbe creato non poco scontento.

Tutto sommato, i tre funzionavano insieme. Svolgevano il loro dovere e lo facevano egregiamente. Sempre più pirati cadevano sotto i loro attacchi, o perché colpiti da un dardo di Stella di troppo, o perché mandati in cortocircuito dai cannoni di Cyborg, o perché distrutti dai proiettili di cemento di Terra.

Non c’erano fongoid in circolazione. Tutti i cittadini del villaggio si stavano spostando poco per volta verso il palazzo, dove le guardie, in teoria, li avrebbero protetti. La reggia di Alpheus era l’edificio più sicuro in quel momento, e gli stessi Titans, combattendo i pirati, li avevano invitati a raggiungerlo e protetti per qualche tratto di strada.

L’ultimo nemico, infine, cadde a terra ricoperto di ammaccature e i riflettori al posto dei suoi occhi si spensero.

Stella, rimasta in aria fino a quel momento per evitare il grosso dei colpi, atterrò dolcemente, poggiando appena i piedi sul suolo. Il bagliore dorato attorno al corpo di Terra si affievolì fino a svanire, mentre Cyborg abbassò il cannone. I tre si raggrupparono e ripresero fiato. Era inutile negare che man mano che lo scontro procedeva la stanchezza aveva cominciato a farsi sentire. Non si sarebbero certo fermati in quel momento, ma nessuno poteva negare che una pausa sarebbe stata più che mai gradita.

La strada era disseminata di corpi di robot pirata sconfitti, era impossibile riuscire a calcolarne il numero esatto, ma di sicuro non erano pochi. E proprio mentre i tre osservavano il loro operato, alcune esplosioni riecheggiarono in lontananza, così come le varie grida di esultanza e canti a squarciagola. I pirati erano ancora ben lungi dall’essere sconfitti.

Cyborg grugnì infastidito. Ne avevano appena stesi un mucchio enorme. E quello non era che una minima parte dell’intera ciurma di Slag. «Ce ne sono ancora. Muoviamoci.»

«Gli altri come se la staranno cavando?» domandò Stella, mentre si preparava a spostarsi nella prossima area, approfittando della breve pausa. Aveva chiesto degli altri, ma era ovvio che la sua preoccupazione maggiore era rivolta a Robin.

«Non lo so, ma spero bene» rispose Terra. «Anche se dubito che avranno problemi. Questi tizi non sono poi così forti...»

«Hai proprio ragione.»

I tre sobbalzarono. Quella voce non apparteneva a nessuno di loro, nemmeno ad uno dei loro amici. Era sconosciuta. Si voltarono verso il luogo di origine di quella frase e videro una figura fuoriuscire da un vicoletto seminascosto fra due edifici ormai prossimi al crollo.

I ragazzi si irrigidirono. Osservarono quell’individuo muoversi, tenendo le mani in tasca e la testa bassa, senza nemmeno guardarli. All’inizio lo presero per un pirata, ma, guardandolo meglio, notarono parecchie differenze tra lui e i robot. Anche perché quello non era affatto un robot. Oltre al classico gilet, i calzoni e gli anfibi, aveva indosso un bizzarro cappello nero stile western, aveva una benda sull’occhio e un machete appeso alla cintura. E sotto tutto ciò, si poteva perfettamente vedere il suo corpo color azzurro e a tratti bianco. Quando arrivò in mezzo alla strada, sollevò finalmente lo sguardo verso di loro e li squadrò da sotto la visiera del cappello. L’enorme pupilla del suo unico occhio color giallo canarino si posò sui tre giovani, e le labbra di schiusero in un sottile sorriso che mostrò i suoi incisivi appuntiti. Aveva il collo molto lungo, che contribuiva a renderlo generosamente alto, e masticava un gambo di qualche pianta. Il naso era grosso, ma schiacciato, simile a quello di un animale e a vederlo così, con quello strano collo lungo, sembrava quasi una tartaruga su due gambe.

«Questi robot pirata sono proprio una vera delusione, per quel che mi riguarda» continuò a dire con la sua voce all’apparenza innocua, mentre incrociava le braccia striate di blu, scoperte dal gilet. Sollevò le spalle, con noncuranza. «Ma, purtroppo, ci si accontenta di quel che si ha.»

«Chi sei?» domandò Cyborg, scrutandolo con molta diffidenza. Quel tipo era una creatura organica al cento percento e da come aveva appena parlato sembrava chiaro che anche lui appartenesse alla ciurma di Slag. Ma che ci faceva un essere vivente in mezzo ad un esercito di macchine?

«Oh, ma come sono maleducato.» L’individuo si tolse il cappello e si inchinò, mostrando loro il proprio capo calvo e le minuscole orecchie a punta. «Il mio nome è Von Walis Caruso e sono uno dei tre luogotenenti della ciurma del buon vecchio Romulus Slag II. Ma dato che detesto il mio secondo nome, potete semplicemente chiamarmi Von Caruso» rispose con tono cortese e formale, nemmeno si stesse rivolgendo ad Alpheus.

Cyborg, Stella e Terra si guardarono tra loro perplessi, ma ancora non agirono.

«Quindi sei uno degli uomini di Slag?» interrogò ancora il titan bionico.

«Acuto» commentò Von Caruso drizzando di nuovo la schiena e rimettendosi in testa il copricapo. «Molto acuto. Immagino che non serva vi dica che sono qui per catturare te e la tua amichetta con i capelli color grano. La tamaraniana può andarsene invece, lei non ci interessa.» Spostò lo sguardo su Stella e sorrise cordiale. «Capito bella signorina? Tu sei libera di andare.»

«Scordatelo.» Kori serrò la mascella e strinse i pugni, rimanendo saldamente ferma accanto ai suoi due amici.

Caruso parve quasi offeso. «Ma come? Rifiuti così il mio gentile invito? Una tamaraniana pregiata come te ha l’opportunità di scappare da dei brutti pirati e non lo fai?»

«Non catturerai i miei amici!» esclamò Stella, sollevando le mani illuminate di verde e mettendosi in posizione, imitando i compagni che già da un pezzo avevano capito che quel tizio non era lì per fare amicizia.

«Peccato» commentò il pirata, per poi sospirare. «Vorrà dire che mi sbarazzerò anche di te.»

«Come pensi di riuscirci?» lo sfidò Cyborg, convertendo il braccio nel cannone e puntandoglielo. «Abbiamo sconfitto cinquanta dei tuoi compari, e tu sei da solo, come pensi di poterci catturare?»

«Oh, ma io non penso di potervi catturare, certo che no...» Von Caruso avvicinò una mano alla benda e la sollevò, scoprendo l’occhio che, con enorme sorpresa dei ragazzi, si rivelò essere privo di alcuna ferita o malformazione. Era sano, completamente, giallo e con la pupilla dilatata proprio come l’altro. Non era guercio come Cyborg, la benda era praticamente inutile. Sorrise di nuovo, un sorriso freddo, che fece assomigliare la sua espressione a quella di una lucertola. «... io so per certo di potervi catturare.»

Prima che loro tre potessero dire o fare qualsiasi cosa, gli occhi di Caruso si illuminarono di luce propria. Una scintillante, sfavillante luce color azzurro elettrico. Aprì la bocca e anche dalla bocca cominciò a fuoriuscire la medesima luce, del medesimo colore. Sembrava quasi che dentro di lui dimorasse uno spettro di quella tonalità, e che in quel momento stesse cercando di uscire. Ma la cosa peggiore era che quella luce azzurra l’avevano già vista, più e più volte.

Era identica a quella emanata dagli scettri dei fongoid.

Caruso cominciò a ridere come un folle, mente la luce da lui emanata si faceva accecante. I tre deglutirono. Si prepararono a combattere, ma fu tutto inutile.

Quegli occhi brillanti come riflettori e la risata glaciale di Von Caruso furono l’ultima cosa che ricordarono.

 

***

 

Corvina seguì Canoo nei meandri del palazzo. Ancora non capiva cosa lui volesse da lei. Avanzavano nei corridoi, con passo moderato, fin troppo per la maga. Canoo se la stava prendendo troppo comoda, la ragazza cominciava a spazientirsi. Considerando ciò che stava succedendo nel villaggio, aveva tutte le ragioni per fallo. Ma lo sciamano sembrava quasi non capirlo, o forse lo ignorava semplicemente.

Le voci provenienti dall’atrio, nel frattempo, si affievolivano sempre di più. Il palazzo era praticamente diventato il rifugio dei fongoid durante l’assalto dei pirati e praticamente tutti si trovavano lì, o stipati nella sala d’ingresso, o nel cortile, o anche dietro lo stesso palazzo, davanti al tempio. Anche le guardie erano rimaste indietro, incaricate di proteggere i civili da qualsiasi pirata che avesse deciso di avvicinarsi. Corvina dubitava che i pirati si sarebbero avvicinati, visto che ciò che cercavano, i suoi amici, erano tutti al villaggio. E dubitava anche molto fortemente che, nell’eventualità in cui un pirata si fosse davvero avvicinato, le guardie sarebbero davvero riuscite a fermarlo.

Più camminava, più sentiva che qualcosa non quadrava. Non solo nell’apparente calma di Canoo, ma in tutta quella situazione in generale. Non lo aveva ammesso davanti agli amici, ma aveva cominciato seriamente a dubitare delle parole di Galvor, sul presunto tradimento di X. C’era qualcosa di sbagliato in tutto quello, glielo aveva suggerito proprio lo stesso Galvor, il tono della sua voce, le sue espressioni facciali. Non sapeva perché, ma quel fongoid non l’aveva convinta. Vero o no, in ogni caso, i suoi problemi erano altri al momento. Doveva sbrigarsi a finire con Canoo e raggiungere i suoi amici. Doveva fermare i pirati e al più presto.

Come se non bastasse, il sogno avuto la notte prima continuava a tormentarla. Continuava a non capirne il significato. Che fosse stata una premonizione? Non lo escludeva. Tutt’altro, il vascello che aveva visto quando era tra le braccia di Morfeo le ricordava sotto troppi aspetti quello di Slag. E anche il manufatto piramidale, sentiva che avrebbe dovuto riuscire a riconoscerlo alla prima occhiata, ma la verità era che non aveva la minima idea di cosa fosse. Se avesse avuto il tempo avrebbe sicuramente cercato risposte in qualche libro dei fongoid, ma purtroppo, in quel momento, il tempo non c’era. 

«Ci siamo.» La voce dello sciamano la riportò alla realtà. Finalmente si erano fermati, il che doveva voler dire che entro poco sarebbe stata libera di andare.

«Cosa devi dirmi?» domandò lei.

Il fongoid si voltò e la squadrò con attenzione. Aveva qualcosa di strano. «Davvero vuoi andare a combattere i pirati?»

«Certo, devo aiutare i miei amici! Perché?»

Canoo sospirò. «Potrebbe essere pericoloso. Se rimanessi ferita? Sei troppo importante per la nostra comunità, non puoi correre simili rischi.»

Corvina non credette alle proprie orecchie. Le sembrava quasi un paradosso, quella scena. «Devo ricordarti che io sono La Salvatrice? Cosa dovrei fare mentre distruggono il tuo villaggio, starmene immobile? Non credo che gli Zoni mi abbiano mandata qui per restarmene in panciolle quando c’è veramente bisogno di aiuto!»

«Sei La Salvatrice, è vero, ma non sei qui per questo» rispose Canoo scuotendo la testa. «Tu hai un altro compito, ne sono sicuro. Non puoi rischiare di farti del male, o peggio, restare uccisa per combattere i predoni. Lascia che siano i tuoi amici ad occuparsene, dopotutto è anche colpa loro se ci troviamo in questa situazione.»

«Prego?» Corvina alzò la voce per la prima volta dopo giorni e giorni, proprio con colui che più di tutti le era sembrato disponibile. «Io faccio parte del loro gruppo, ergo, la colpa è anche mia. E non credere che lascerò davvero che siano loro ad occuparsi di tutto, loro sono miei amici e hanno bisogno di me! Io andrò ad aiutarli, che tu lo voglia o no, sai benissimo che con i miei poteri potrei essere fuori da qui in un lampo!»

Lo sciamano tacque per diversi istanti, senza staccarle gli occhi di dosso, poi sospirò nuovamente. «Allora non credo di avere altra scelta.»

Corvina inarcò un sopracciglio. «Cosa?»

«Mi dispiace.»

Lo scettro di Canoo emanò un forte bagliore azzurro. Corvina sgranò gli occhi per la sorpresa, troppo tardi realizzò che quella era l’unica cosa che non avrebbe mai dovuto fare.

 







Sì, insomma. Buon natale. Credo.


Caruso:




McGee:

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Capitolo 18
*** Shyltia e Slag ***


 

The Good Left Undone

XVIII

SHYLTIA & SLAG II

 

 

«Levatevi di mezzo!»

Amalia sembrava inarrestabile. Dal momento stesso in cui era scesa nel villaggio aveva cominciato a spazzare via, letteralmente, qualunque nemico fosse abbastanza sventurato da capitare in mezzo alla sua scia di distruzione. I suoi occhi e le sue mani non avevano smesso di brillare di viola per nemmeno un istante.

Ovunque guardava, ogni cosa che faceva, qualsiasi nemico che colpiva, lei pensava a Red X. E a come l’avesse tradita. Non tradita nel vero senso della parola, ma quello che aveva fatto forse era anche peggio. Non ci stava rimettendo solo lei in tutto ciò, ci stava rimettendo un’intera comunità, tutti i loro amici, sua sorella, il loro futuro bambino, tutti. Tutti quanti, dal primo all’ultimo, erano stato traditi da Red X, dal suo comportamento egoista, impulsivo e inaccettabile. Più ci pensava, più Amalia si sentiva infuriata. Nonché una stupida. Avrebbe dovuto capirlo fin dal primo momento che dietro quel disastro non poteva esserci altri che lui. Non avrebbe mai dovuto difenderlo e litigare con Robin. Si sentiva violentata dentro, dopo tutti i fatti accaduti.

Fin dal primo loro litigio aveva capito che le cose stavano cambiando. In peggio. E quel che era ancora peggio, era che il declino del loro rapporto era cominciato proprio dal momento in cui i due avevano appreso della gravidanza di Amalia. Quel bambino era stata la causa dei loro screzi iniziali, nonostante all’inizio tutto tra loro sembrasse più roseo che mai. E la batosta decisiva era arrivata dopo l’arrivo su Quantus.

Ma arrivare a mettere in pericolo un intero pianeta, solo per il proprio tornaconto, era qualcosa che nonostante tutto Amalia mai si sarebbe aspettata da Red X.

Ogni cosa era andata in malora. Quel poco di fiducia che erano riusciti ad ottenere dai Titans era spazzata via, probabilmente per sempre, la loro relazione era oramai impossibile da ricucire e anche ogni traccia di riguardo e rispetto che i fongoid avrebbero mai potuto rivolgere loro, oramai erano un ricordo lontano. Se mai fossero riusciti a cacciare i pirati, Amalia dubitava che i loro ospitanti sarebbero rimasti felici di vederli girare per il loro villaggio.

In ogni caso, lei non si sarebbe arresa. Si era prefissata un obiettivo, ovvero battere ogni singolo centimetro di quel villaggio fino a quando non sarebbe riuscita a trovare quell’idiota di Red X, non le importava quanti farabutti avrebbe dovuto abbattere nel frattempo. Non l’avrebbero fermata tanto facilmente.

Dopo aver distrutto l’ennesimo gruppetto di pirati si fermò per riprendere fiato, in un vicoletto seminascosto. Malgrado la sua furia, aveva bisogno di tanto in tanto di fermarsi per cinque minuti. Combattere era anche piuttosto pericoloso e faticoso per lei, considerando ciò che portava dentro. La schiena spesso e volentieri le faceva male nei momenti meno opportuni e sentiva le gambe cedere. Ma si era comunque ripromessa che in qualsiasi modo le cose sarebbero andate, quel feto che racchiudeva nel ventre non sarebbe stato danneggiato, in alcun modo. Avrebbe difeso suo figlio fino a quando non sarebbe collassata per la stanchezza.

Diversi schiamazzi attirarono la sua attenzione. Si voltò, aguzzando l’udito. Cominciò a camminare verso quella direzione, per cercare di capire cosa stava succedendo. Non sembravano grida di battaglia dei pirati, nemmeno urla spaventate dei fongoid.

Attraversò diversi vicoli, fino a che non si sporse da quello che si affacciava sulla strada da dove provenivano gli schiamazzi. Qui un gruppetto di pirati stava venendo aspramente rimproverato da un altro individuo. I robot sembravano quasi voler sprofondare sotto tutti quei richiami. Ma non fu quello a sorprendere Amalia, ma bensì l’individuo stesso.  Non appena lo aveva visto, era rimasta a bocca aperta per lo stupore.

Era un ibrido. Una creatura organica, e non un robot. Il busto da umanoide terminava in una lunga e tremendamente inquietante coda di serpente. Assomigliava quasi ad una sirena... peccato che in realtà non poteva esserlo neanche lontanamente.

La sua pelle viscida era di un color giallo stantio, molto pallido, striata di marrone in diversi punti. Non era molto grosso fisicamente, ma il suo profilo era molto slanciato e se non fosse stato costretto a strisciare probabilmente avrebbe raggiunto ben oltre i due metri di altezza. Dal busto spuntavano le due braccia, le dita delle mani munite di unghie affilate e appuntite come lame. Dal collo spuntava la testa ovale, ornata dalla lingua biforcuta che sporgeva dalle labbra sottili e dagli occhietti color verde oliva. Una cascata di capelli dello stesso colore degli occhi copriva buona parte del viso. Quando apriva bocca per parlare si notavano perfettamente i suoi incisivi lunghi e affilati, due sopra e uno soltanto sotto, tipici delle vipere, e ogni volta che pronunciava la s la storpiava malamente. D’altronde, parlare con quella linguaccia, non doveva essere semplice. Aveva indosso una semplicissima canotta nera, che copriva solamente il busto. E fu proprio concentrandosi su questa cosa che Amalia scoprì la aberrante verità. Era una donna, non un uomo. Anche se avrebbe dovuto capirlo prima, dal timbro della sua voce, decisamente troppo acuto per appartenere ad un uomo.

«Com’è possibile che non siate ancora riusciti a catturare nemmeno un terrestre?!» stava esclamando, furibonda, gesticolando come un’ossessa e incutendo timore nei pirati con quegli artigli appuntiti al posto delle unghie. «Questo villaggio è minuscolo e voi siete in tanti! Cercate, maledizione, trovateli! Non vorrete mica che siano di nuovo Caruso e i suoi a fare bella figura, vero?! Non ho alcuna intenzione di apparire ancora una volta un’incapace per colpa sua e della vostra pigrizia!»

«M-Ma, Shyltia, n-noi...»

Un pirata più coraggioso, e probabilmente anche più stupido, degli altri cercò di discolparsi, ma quella esplose di nuovo, stroncandolo sul nascere. «Ti ho forse dato il permesso di parlare?!»

«N-No...»

«Taci! Dobbiamo semplicemente ringraziare il fatto che Shamus è un idiota totale se ancora non siamo stati retrocessi al suo posto! Dovete cercare quei maledetti terrestri! Trovateli e portatemeli, così potrò consegnarli a Slag e dimostrare a quell’ingrato di Caruso che io valgo molto di più di lui! Giuro che se fallite di nuovo e mi fate fare l’ennesima figuraccia vi faccio rottamare uno per uno! Avete capito?!»

«S-Sì!» Il pirata annuì come un forsennato, poi assieme ai colleghi si allontanò alla svelta da quella pazza schizzata, prima di beccarsi un’altra lavata di testa completamente a caso.

Shyltia li osservò allontanarsi di corsa scuotendo la testa, chiaramente schifata da loro, sibilando rumorosamente di disappunto. La sua lingua rosa pallida frustò l’aria diverse volte, prima di ritrarsi di nuovo nella bocca. Si voltò e strisciò via, borbottando parole ormai incomprensibili.

Amalia vide a sua volta tutti quei pirati allontanarsi, pronti per causare altri guai per il villaggio, e capì di doverli fermare e al più presto. Erano tanti, e c’era anche quella strana donna serpente, ma doveva tentare. Abbassò lo sguardo e guardò la propria mano. La strinse a pugno e si concentrò. Ben presto essa si illuminò di viola. Amalia sorrise e rilassò di nuovo la mano, poi uscì allo scoperto. Non aveva tempo, né voglia, di studiare qualche strategia da adottare contro tutti loro. Avrebbe agito, e basta. Alla peggio, se le cose si fossero messe male, avrebbe optato per la fuga.

«Ehi!»

I pirati si voltarono verso di lei, dal primo all’ultimo. Anche Shyltia lo fece, guardandola dapprima svogliata, poi sorpresa. Amalia sogghignò e nonostante la loro distanza la fissò dritta negli occhi. La donna serpente si voltò del tutto verso di lei, socchiudendo le palpebre. «E tu chi saresti?»

«Una che non può permettervi di continuare a mettere a ferro e fuoco questo posto» replicò la tamaraniana, con tono tranquillo.

«Non sei una terrestre...» borbottò ancora Shyltia, strisciando lentamente verso di lei.

«Accidenti, che vista acuta!»

La piratessa serrò la mascella, guardandola con rabbia. Ma quando Amalia pensò che l’avrebbe attaccata, quella sbuffò sollevando una ciocca di capelli e si fermò, rivolgendo un cenno ai suoi uomini. «Uccidetela.»

I bucanieri non sembravano aspettare altro, perché non appena udirono quell’ordine gridarono di gioia e si gettarono all’attacco. Probabilmente volevano semplicemente sfogare la frustrazione generata da Shyltia su qualcuno che, a detta loro, era più debole ed indifeso. Peccato che Amalia non fosse così.

Un pirata la attaccò con la sciabola, ma lei evitò facilmente il colpo e rispose con un dardo che lo scaraventò a terra. Diversi corsari aprirono il fuoco con i loro fucili e pistole. I laser fischiarono accanto alla tamaraniana, che si alzò in volo per evitarli e rispondere agli attacchi con un’altra pioggia di dardi.

Provò quasi pena per tutti quei poveri robot ai quali frisse i circuiti. Ma uno dietro l’altro crollarono di fronte al loro triste destino. Lo stesso non poté dire quando si accorse della faccia che fece Shyltia quando realizzò cosa fosse appena accaduto. «Che diavolo hai combinato?!» esclamò furibonda, sbracciandosi di nuovo.

Amalia rise di gusto guardando il volto stralunato della piratessa. «Mi sono difesa, qual è il problema?»

Shyltia sibilò di nuovo, questa volta per la rabbia. Il fruscio generato dal movimento della lingua giunse fino alle orecchie di Amalia. Le sue mani formicolarono, una palpebra le tremolò. Sembrava una psicopatica. «Quelli... erano... i miei schiavi...» rantolò, stringendo le mani a pugno, piantandosi con forza le unghie nei palmi.

Il sorriso svanì lentamente dal volto di Amalia, mentre osservava la rabbia di quella creatura ribollire. Poi Shyltia gridò, strabuzzando le palpebre a tal punto da farle uscire parzialmente dalle orbite, spalancò la bocca in maniera disumana, la mascella di lei sembrava sul punto di collassare e staccarsi di netto dalla faccia, i suoi unici tre denti sembrarono scintillare nonostante l’ombra generata dal grosso veliero sulla loro testa. E poi la donna scattò in avanti. La velocità con cui si mosse fu sorprendente, la stessa Amalia questa volta gridò di sorpresa, mentre vedeva la vipera avvicinarsi a velocità allarmante, puntando i suoi tre grossi incisivi e gli artigli delle mani verso di lei.

La tamaraniana si riprese dallo stupore e cercò di colpirla con diversi dardi, ma quella li evitò molto facilmente, grazie alla sua velocità. Amalia cercò di colpirla ripetutamente, senza darle un attimo di tregua, ma ogni volta che sembrava in procinto di centrarla, Shyltia si spostava appena ed evitava il colpo. Sembrava un’anguilla fuor d’acqua, da come dimenava il proprio corpo per evitare gli attacchi.

Si ritrovò molto più vicina alla tamaraniana, la sua mascella spalancata e i suoi artigli più minacciosi che mai. Amalia fece a quel punto per allontanarsi da lei, ma la donna serpente compì un balzo enorme, con il quale cancellò definitivamente ogni centimetro di distanza da lei. Amalia vide quegli artigli ad un palmo dal suo naso ed agì d’istinto. All’ultimo secondo afferrò entrambi i polsi della donna serpente e li bloccò a mezz’aria, a pochi centimetri dal suo volto. La piratessa gridò di rabbia e fece pressione per riuscire ad affondare le unghie nella carne della tamaraniana, ma Komand’r riuscì ad allargarle le braccia oltre le spalle, in modo che non costituissero più una minaccia per il suo viso.

Si ritrovarono faccia a faccia, entrambe grugnendo per la fatica di dover vincere quella contesa.

«Mi divertirò un sacco ad aprirti la gabbia toracica per usarla come sacca per le uova!» sibilò Shyltia, frustando di nuovo l’aria con la lingua.

«Che schifo» sbottò Amalia. «Te lo scordi!»

La donna avvicinò il volto al suo e le grugnì in faccia: «Oh, ti piacerà, vedrai!»

Spalancò ancora di più la mascella, mostrandole una generosa panoramica del suo palato giallastro e nauseabondo. Avvicinò i denti al volto della tamaraniana, mentre la lingua biforcuta e disgustosa come una sanguisuga riprendeva a serpeggiare quasi come se avesse vita propria.

L’alito della piratessa travolse le narici di Amalia, per poco facendola vomitare. Ma non era semplicemente cattivo, era proprio nocivo, nel vero senso della parola. Era dolciastro, aspro e acido, la tamaraniana lo riconobbe all’istante: odore di veleno. Se quegli incisivi l’avessero raggiunta, non avrebbe rivisto la luce del giorno dopo, ne era certa.

Le cose peggiorarono quando Shyltia riuscì a raggiungere con le dita le mani di Amalia, per poi cominciare a graffiargliele. Le sfiorava appena, a causa dei polsi bloccati, ma per la tamaraniana era comunque doloroso. Sentì la pelle delle mani bruciare terribilmente, sembrava quasi che perfino sugli artigli della piratessa fosse cosparso del veleno. La presa attorno ai polsi vacillò, mentre i denti della donna serpente si facevano sempre più vicini.

La lingua di Shyltia le sfiorò appena la guancia e Amalia fu costretta a trattenere un altro conato di vomito quando quella schifezza viscida, ruvida e umida le toccò il suo viso candido. E quella fu l’ultima goccia.

«Non toccarmi con quella porcheria!» gridò, per poi illuminare i propri occhi di viola e sparare uno dei suoi dardi con essi.

Shyltia notò il repentino cambio di colore negli occhi della tamaraniana, ma non reagì in tempo. I dardi la centrarono in pieno volto e la scaraventarono a diversi metri di distanza, facendola gridare con quanto fiato avesse in corpo. Cadde a terra, coprendosi il volto e i capelli bruciacchiati, piagnucolando.

Amalia boccheggiò quando ritornò a contatto con l’aria pulita, non contaminata dall’alito nocivo di Shyltia. Gli occhi le tornarono normali e si massaggiò le mani, ancora sanguinanti a causa delle artigliate della piratessa. Abbassò lo sguardo e soppesò sinceramente sorpresa quella donna serpente. Il modo in cui quella aveva reagito ai suoi attacchi l’aveva colta alla sprovvista. Chiunque fosse, non doveva essere uno scagnozzo di Slag qualsiasi. Era veloce, forte e pericolosa, con quei denti e quegli artigli. E anche resistente, a giudicare come continuava a dimenarsi nonostante i dardi appena ricevuti in pieno viso.

Le dita continuavano a bruciarle terribilmente, scrollò le proprie mani diverse volte per cercare di alleviare il dolore, grugnendo per il fastidioso dolore che esse arrecavano. Di fronte a lei, la vipera allontanò le mani da davanti al volto, sibilando di rabbia e frustrazione. La sua faccia era divenuta una maschera di odio puro e lo sguardo omicida nei suoi occhi e i capelli dapprima ordinati ora completamente arruffati non contribuirono a renderla meno minacciosa. Ma non appena alzò lo sguardo ed incrociò quello severo e per nulla intimidito di Amalia, Shyltia sembrò subire una metamorfosi. Squittì spaventata e si ricoprì il volto con le mani. «No, ti prego!»

La tamaraniana inarcò un sopracciglio. «Cosa?»

«Vuoi davvero fare del male...» La piratessa parlò con voce flebile, molto più acuta e per nulla adatta ad un mostro come lei. Abbassò le mani, mostrandole il volto, in un’espressione che definire patetica sarebbe riduttivo. Probabilmente voleva sembrare dolce ed indifesa, ma l’unico risultato che aveva ottenuto era quello di farla sembrare ancora più meschina. «... ad una povera donna indifesa?»

«Mi prendi in giro?!» sbottò Amalia, quasi incredula. Ma davvero quell’isterica credeva di fregarla con così poco?

L’espressione di Shyltia mutò radicalmente per la terza volta nel giro di poco tempo. «Kakn, con lei non funziona...» sibilò sotto voce, per poi guardarsi intorno freneticamente, alla ricerca disperata di un altro sotterfugio.

Amalia la vide continuare a brontolare e a comportarsi in maniera strana. Serrò la mascella. «Ora ne ho abbastanza di te.»

Gridò di nuovo, mentre l’energia di cui era dotata percorreva tutto il suo corpo, ribollendo dentro di lei e aumentando a dismisura. Un’aura violacea la circondò completamente, gli occhi e le mani riassunsero la medesima sfavillante tonalità, poi partì all’attacco.

Amalia fu ad un metro da lei. Poi, l’inevitabile.

La sua energia svanì nel nulla all’improvviso. Un senso di nausea lancinante la colpì. Quando capì cosa stava accadendo, era ormai tardi.

No, non adesso!, pensò, un attimo prima che il conato di vomito arrivasse. Dopo tutto degenerò. Cadde in ginocchio, tossì, sentì la gola bruciarle, gli occhi riempirsi di lacrime. Riversò tutto il contenuto del suo stomaco sul ciottolato della strada, macchiandosi i vestiti.

Shyltia, dapprima spaventata, la osservò prima stupita, poi scoppiò in una risata glaciale. «Oh-oh, qualcuna qui non è in condizioni di combattere...»

Amalia avrebbe voluto replicare, ma il bambino non sembrava volerle dare pace. Non riusciva proprio a placarsi, era più forte di lei. Mai si sentì così impotente ed umiliata. Non riusciva a vederla, ma poteva percepire senza troppi problemi lo sguardo divertito della sua avversaria. Odiò ogni singolo secondo trascorso in quel momento.

E quando finalmente riuscì a placarsi, non ebbe nemmeno il tempo di ripulirsi le labbra perché Shyltia le sferrò un poderoso pugno dritto in faccia. Amalia cadde su un fianco, gemendo di dolore, avvertendo un dolore bruciante alla guancia colpita. Udì altre risate della piratessa. «Quanto sei patetica!»

«S-Stronza...» ringhiò Amalia guardandola con quanto odio avesse in corpo, cercando di rimettersi in ginocchio. «T-Te la farò pagare... »

«Bogon, che paura!» ribatté la vipera sarcastica, per poi muoversi fulminea e piantarle gli artigli nel collo, penetrandole la carne morbida come se fosse burro.

Amalia avvertì una fitta di dolore lancinante, sentì il fiato mancarle. Boccheggiò di dolore, ma durò poco. Presto il dolore si tramutò in stanchezza, le palpebre le si appesantirono e nel giro di pochi secondi il mondo cominciò a girarle intorno. La mente le si resettò, cominciò a non capire più niente. Le gambe le cedettero, cadde di nuovo a terra.

«Dormi tesoro, dormi...»

La voce di Shyltia giunse alle sue orecchie. Era lontana, distorta, non era la voce acuta di poco prima, era molto più grave, quasi metallica, inquietante eppure stranamente suadente allo stesso tempo.

«Dormi...»

Amalia roteò gli occhi e svenne.

 

***

 

Slag era ancora più grosso visto da vicino. Non appena Robin lo aveva raggiunto, era rimasto sorpreso dalla sua enorme stazza. Era alto almeno due metri e mezzo, circa come Metalhead, ma in compenso era anche largo il doppio dell’ormai deceduto uomo rettile. E non sembrava nemmeno aver bisogno di armi o corazze, visto che lui stesso era una corazza, nonché un’ arma.

Tuttavia, nonostante l’aura minacciosa che emanava, se ne stava a braccia conserte ed immobile, senza alcun colpo ferire.

Robin rimase nascosto in un vicolo, ad osservare meglio la situazione. Slag gli dava le spalle, ed era a non molta distanza da lui, mentre molto più lontano si vedevano i pirati continuare a fare man bassa. Vista la distanza tra lui e i suoi uomini, probabilmente il capitano robot credeva di non aver bisogno del loro aiuto in caso di guai. Ammesso che credesse di poterne avere, vista la sicurezza che ostentava da quel suo volto metallico.

Le mani del ragazzo si strinsero quasi in maniera autonoma attorno all’impugnatura dell’arma che aveva recuperato poco prima, la sciabola di un pirata che aveva abbattuto. Certo, non era la sua fidata asta telescopica, ma a conti fatti quella lama non era nemmeno tanto male. Forse un po’ troppo pesante, ma in assenza di meglio e con pochissimi dei gadget che era abituato ad avere in battaglia, si sarebbe accontentato.

Buttò fuori una boccata d’aria. Pensò a Stella, ad Alpheus, a Canoo, a Corvina, a tutti i suoi amici, e pensò anche a Red X. Pensò a cosa sarebbe successo se l’esito di quello scontro fosse stato a suo favore, e cercò di allontanare il pensiero che invece ad accadere fosse il contrario. Di una cosa era certo, non appena avrebbe rivisto X, avrebbe mulinato quella sciabola.

Uscì allo scoperto. «Slag!»

Il capitano robot si voltò. Non appena i riflettori al posto degli occhi si posarono sul ragazzo, la sua enorme mascella cigolò e la bocca si assottigliò in quello che forse doveva essere un sorriso. «Finalmente ci degnate della vostra presenza!»

Robin strinse l’elsa della sciabola fino a far sbiancare le nocche. Non aveva paura di lui, aveva visto ben di peggio. «Smettila di distruggere il villaggio. Siamo noi quelli che cerchi, i fongoid non centrano niente.»

«Io distruggo quello che voglio, a chi voglio. Sono il capitano Slag! Ma se proprio vuoi salvare questi inutili alieni, puoi sempre arrenderti. Tu e tutti i tuoi amichetti terrestri.»

«Così che voi possiate continuare a distruggere questo posto indisturbati? No grazie.»

«Così mi offendi!» Slag posò la mano sul petto, con fare solenne. «Io sono un pirata con un certo onore, non potrei mai rimangiarmi la parola data!»

«Scusami, ma fatico a crederti» ribatté Robin piegando le gambe, pronto ad attaccare.

«Mh, peccato» borbottò Slag, per poi sollevare l’uncino al posto della mano e puntandoglielo contro. «Vorrà dire che ti sistemerò alla vecchia maniera!»

Il pirata saltò verso di lui. Robin scattò di lato per evitarlo. Compì un balzo a destra, evitando per un pelo l’attacco del capitano robot, che affondò l’uncino a vuoto. Era veloce per la sua stazza, ma non abbastanza per poter colpire uno come Robin.

Il ragazzo partì all’attacco con la sciabola, ma Slag la intercettò con l’uncino. Tentò diversi affondi, ma il pirata li parò tutti quanti.

Cominciò una battaglia all’ultimo affondo tra i due. Stoccate, parate, attacchi. Robin non era un esperto di combattimento con le spade, ma era comunque piuttosto abile. Slag dal canto suo sembrava intoccabile, grazie all’uncino con il quale parava ogni singolo attacco e con cui cercava anche di infierire. Ogni volta che ciò succedeva, Robin si limitava ad evitare il colpo, senza azzardarsi a pararlo. Dubitava di avere la forza per poter contrastare l’attacco di un colosso grosso il doppio di lui.

Evitò l’ennesimo attacco saltando all’indietro. Alzò lo sguardo ed incrociò quello del pirata, che ridacchiò. «Non mi aspettavo cotanta resistenza da un sacchetto di carne...»

«E io non mi aspettavo cotanta agilità da un panzone...»

«Miserabile, come osi insultarmi?! Te ne pentirai!»

Slag ruggì di rabbia e partì di nuovo all’attacco. Robin cambiò strategia. Attese il momento propizio. Vide Slag torreggiare su di lui e abbattere l’uncino. Attese diversi istanti. Vide l’oggetto contundente ad un palmo da lui, poi scattò di nuovo di lato. Il pirata gridò di sorpresa e la sua arma si conficcò nella strada, con un tremendo stridore. Grugnì e cercò di estrarla, ma mentre ci provava Robin rotolò dietro di lui e abbatté la spada con quanta forza aveva sulla sua gamba, per cercare di danneggiarlo, o meglio ancora, azzopparlo.

Non accadde nulla di tutto ciò. Robin sgranò gli occhi quando vide la lama finire in mille pezzi proprio davanti a lui, nel momento in cui colpiva la gamba metallica del pirata. Indietreggiò atterrito, con solo più un moncone rotto in mano. E l’unica arma che aveva era andata.

Il pirata sradicò l’uncino dal suolo, poi si voltò verso di lui. «Davvero pensavi che quello stuzzicadenti mi avrebbe fermato?» domandò, osservando la sciabola distrutta.

Robin serrò la mascella e si disfò del moncone, ringraziando il cielo di non essersi ferito con alcune delle schegge della lama. Doveva pensare in fretta ad un’altra strategia. Slag lo attaccò di nuovo, senza dargli tregua.

Il leader diede il meglio di sé per non venire affettato dal quell’artiglio gigantesco e ultra affilato. La cosa che più gli diede fastidio fu il fatto di essere disarmato. Odiava combattere ad armi impari.

Fu costretto ad allontanarsi, per cercare di guadagnare tempo e magari cercare un’altra arma. Non fu difficile farlo. In mezzo ad alcune macerie notò una sottile macchia marrone. Lo riconobbe subito, era uno degli scettri dei fongoid.

«Dove scappi, terrestre?! Vieni qui e affronta il tuo destino!» gridò Slag, correndo verso di lui, infastidito dal continuo fuggire del ragazzo.

Robin intuì di non avere molte altre scelte. Scattò verso lo scettro alieno, vendendo letteralmente inseguito dal capitano robot.

Lo raggiunse e rotolò a terra per afferrarlo. Non volle nemmeno sapere che fine avesse fatto il suo vecchio proprietario. Sollevò il bastone, molto più leggero e maneggevole della sciabola. Vide Slag catapultarsi verso di lui tenendo alto l’uncino. Fece di nuovo per saltare di lato, ma si bloccò all’improvviso quando sentì una scarica elettrica percorrergli tutto il corpo. La sentì arrivare fino alle mani, poi giunse alle dita, dove sparì dentro al legno del bastone. La gemma incastonata nello scettro si illuminò all’improvviso. Il ragazzo sgranò gli occhi sorpreso, mentre la luce si faceva abbagliante. Poi un’onda di energia si scaturì dalla pietra e si scagliò contro di Slag.

Il pirata, incredulo quanto lui, non evitò l’attacco in tempo. La sfera si schiantò contro la sua spalla, facendolo barcollare all’indietro e gridare di sorpresa. Una nuvoletta di fumo si sollevò dal punto colpito, dove comparve anche una vistosa bruciatura nera sul metallo.

Robin spalancò la bocca, poi tornò a guardare lo scettro. Lo aveva appena attivato. Era appena riuscito a controllare l’energia custodita nella gemma azzurra in esso incastonata.

Slag barcollò ancora per un momento, poi scrollò la testa e fissò con rabbia prima la spalla colpita, poi il ragazzo. «TU fai questo a ME?! Maledetta carogna, che i Pythor posano cibarsi delle tue viscere!»

Il ragazzo non rispose. Rimase atterrito ad osservare lo scettro, con il fiato pesante e con ancora il battito del cuore accelerato. Brividi di eccitazione gli percorrevano il corpo uno dietro l’altro. Ricordò le parole di Canoo riguardo quegli scettri, che solo alcuni avevano l’abilità per usarlo, e che ciò è un qualcosa che si ha dalla nascita. Al leader scappò un tenue sorriso, che andò delineandosi man mano che realizzava davvero cosa avesse appena fatto. Sollevò lo sguardo, incrociò gli occhi di Slag, vide la sua rabbia e allargò ulteriormente il sorriso. Roteò il bastone con la maestria che solo un esperto come lui poteva avere, poi glielo puntò. «Ora ci divertiamo.»

Slag gridò di rabbia e ripartì all’attacco. Robin evitò l’assalto rotolando a terra, poi si rialzò e puntò di nuovo lo scettro. Non sapeva cosa doveva fare con esattezza per padroneggiare quella tecnica, ma non ci mise molto per scoprirlo. Gli bastò concentrarsi su quel pensiero e vide la gemma illuminarsi flebilmente. In qualche modo, quella pietra rispondeva ai suoi pensieri, agli impulsi della sua mente. Più si concentrava, più la luce da lei emanata si faceva intensa.

Venne di nuovo attaccato, Slag non sembrava volergli dare un attimo solo di tregua, ma a lui non importava. Evitò ancora una volta l’uncinata, e questa volta rispose al fuoco. Strinse le mani intorno allo scettro con forza, si concentrò, avvertì di nuovo quella scarica elettrica e scagliò un’altra sfera di energia. Questa si abbatté sul fianco del pirata, facendolo di nuovo urlare per la sorpresa, poi per la rabbia. «Stupido bipede insolente, smettila di colpirmi!»

Attacchi su attacchi da parte sua andarono a vuoto uno dietro l’altro. Robin rotolava, saltava, scattava di lato e schivava, ogni volta contrattaccando con lo scettro. Slag fu colpito alle gambe, alle braccia, alle spalle, ai fianchi, ovunque. Ad ogni colpo subito, la sua rabbia sembrava aumentare a dismisura. Il leader dei titans non si sentiva così in forma da tempo ormai. Si muoveva con maestria incredibile, ogni suo minimo gesto non era altro che la pennellata di un pittore in una splendida opera d’arte. Quello scontro gli ricordò i suoi epici combattimenti con Slade, o con Red X, quelli in cui dava il meglio di sé, combattendo fino allo stremo. Faceva strano pensarlo, ma forse tutto quello era dovuto allo scettro. A quanto pare aveva trovato il rimpiazzo ideale per l’asta.

L’ennesima onda scaturita dalla gemma si schiantò contro il pirata, facendolo di nuovo barcollare e scrollare il capo. «Figlio di un Protopet! Ora mi hai proprio stufato!»

Infilò la mano in uno scompartimento della corazza robotica ed estrasse una fiaschetta nera. Con un grugnito rabbioso avvicinò la bocca al tappo e lo strappò via con i denti, poi ingurgitò tutto il contenuto del recipiente, famelico. Quando finì di bere gettò a terra la bottiglia, poi si ripulì la bocca con il dorso della mano. «Preparati alla mia vendetta!»

Ripartì all’attacco come una furia. Robin sorrise. Slag si stava comportando proprio come voleva lui. Non aveva ancora capito che più cercava di colpirlo, più lui lo danneggiava con lo scettro. Il pirata era troppo grosso e lento per riuscire ad andare a segno con i suoi attacchi, il leader dei titans aveva la situazione in pugno. E di certo le cose non sarebbero cambiate solo perché il robot aveva bevuto chissà cosa da una fiaschetta.

Il pirata tentò un altro affondo con l’uncino, Robin evitò di nuovo il colpo senza la benché minima difficoltà. Gli giunse alle spalle e sollevò lo scettro pronto a sferrare l’attacco decisivo, ma questa volta fu Slag il più veloce; si voltò spalancando le fauci e nel momento stesso in cui i due si ritrovarono uno di fronte all’altro, dalla bocca del pirata fuoriuscì una gigantesca fiammata. Robin sgranò gli occhi, troppo tardi si rese conto di ciò che stava succedendo. La lingua di fuoco lo raggiunse, l’aria si fece incandescente, il cielo si tinse di arancione.

Venne completamente investito. Il resto si smarrì nelle sue disperate urla di dolore.

 

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Capitolo 19
*** Puffy Pants ***


 

 

The Good Left Undone

XIX

PUFFY PANTS

 

 

Era sdraiata in mezzo ad un banco di nebbia. Si mise a sedere, massaggiandosi la schiena dolorante. La testa le faceva un male pazzesco, si sentiva tutta intorpidita. Si guardò intorno, cercando di capire dove si trovasse. Non vedeva niente, solo nebbia e oscurità. Il suo stesso corpo, sembrava sospeso nel vuoto. Il battito cardiaco accelerò. Cominciò a respirare più rumorosamente, ad ansimare senza nemmeno la propria volontà. La testa le stava esplodendo, non ricordava niente, non riusciva a mettere due pensieri diversi l’uno in fila all’altro.

Si rialzò. Faceva freddo, tanto freddo. Tremava come una foglia, nuvolette di condensa uscivano dalla sua bocca ogni volta che respirava. Si strinse nelle spalle e cercò di scaldarsi come meglio poté.

«Che sta succedendo...? Dove sono...?»

«Loro hanno bisogno di te.»

Le scappò un grido quando sentì quelle parole rimbombarle nella mente all’improvviso. Quella voce flebile, bassa, inquietante, che pareva un fruscio di foglie spazzate dal vento. «No, non di nuovo...» mugugnò stremata.

Due fanali azzurri si accesero di fronte a lei, in mezzo alla nebbia, facendola trasalire. Quella luce fredda, inquietante, che non aiutava di certo a rendere più allegro quel posto, la illuminò. Poi, dal buio, emerse di nuovo quella piccola creatura nera. Non appena la vide, indietreggiò d’istinto. Non sapeva perché, ma sentiva che la figura parata di fronte a lei era molto più misteriosa, antica e potente di quanto potesse immaginare. Percepiva un’energia sovraumana provenire da lei, qualcosa che ben pochi tra coloro che aveva incontrato in passato possedeva.

La vocina rimbombò di nuovo: «Loro hanno bisogno di te.»

«L-Loro? C-Chi?»

«Loro hanno bisogno di te.»

«Loro hanno bisogno di te.»

Altre voci, altri fruscii nella sua mente. Una, due, tre, quattro, era impossibile capirlo. Esplosero nella sua mente, una dietro l’altra, ripetendosi all’infinito, sovrapponendosi fra loro. Tutto ciò divenne insopportabile per lei. Sentiva che il suo cervello  non avrebbe retto ancora a lungo. Si premette le mani sulle tempie con forza, gridando esasperata, sperando che così facendo potesse farle tacere, ma non servì. Quelle continuarono, più fastidiose che mai.

Cadde in ginocchio, gridando di nuovo, spaventata.

Altre luci si accesero attorno a lei. altre creature uscirono dalla nebbia, tutte quante osservandola con quegli sguardi glaciali. Erano tante, forse una decina. Troppe. Cominciarono a turbinare intorno a lei, continuando a parlarle telepaticamente, sempre più insistentemente, fino allo stremo.

«Loro hanno bisogno di te» continuavano a dire. Non sembravano capaci di dire altro, fino a che una voce si distinse tra le altre, pronunciando una frase del tutto nuova. «Lui ti aiuterà.»

«C-Cosa? Lui chi?»

Nessuna delle creature le rispose, continuarono a turbinarle intorno, cominciando a pronunciare prima la frase appena detta, poi quella precedente.

Quello fu troppo, sentì il cervello implodere. Premette le mani sulle tempie, si piantò le unghie nella pelle fino a farsi male, poi gridò disperata: «Basta! Basta! Smettetela! Andate via! ANDATE VIA!»

Le creature cominciarono a turbinare con più ferocia, fino a quando diventò impossibile scorgere le loro figure. Solo la luce dei loro occhi rimase, trasformandosi in un cerchio luminoso che la circondava. Le voci continuavano a rimbombare nella sua mente, sempre più forti, sempre più veloci, fino a quando tutto non sembrò scomparire all’improvviso.

 

Corvina riaprì gli occhi e drizzò la testa, gridando disperata. Una fitta di dolore lancinante la colpì alla tempia all’improvviso, costringendola a placarsi e ad accasciare di nuovo il capo. Serrò di nuovo gli occhi, rimase un attimo sdraiata. Aveva il fiatone, il battito cardiaco accelerato ed era madida di sudore. Sentiva il fiato mancarle, ogni boccata d’aria le sembrava quasi vitale. Ci impiegò diverso tempo per riuscire a ricomporsi. Finalmente tornò a respirare regolarmente e sentì il cuore smettere di martellare nel petto. Fece una smorfia e si mise a sedere, tutta intorpidita. Si guardò intorno, massaggiandosi la testa, cercando di capire dove fosse e cosa fosse successo. Riconobbe all’istante le mura di camera sua, il suo letto, lo specchio, la finestra. Guardò poi le sue mani. Tremavano. «Ma... ma cosa...» Il sogno appena avuto le tornò in mente all’improvviso. Deglutì. «Che... che cosa significa?»

La risposta non tardò ad arrivare. Sgranò gli occhi. «I Titans!»

Si voltò verso la finestra. Quelle creature, quelle voci... ora era chiaro. Doveva uscire da lì, doveva trovare i suoi amici e al più presto. Mentre si teletrasportava fuori dalla stanza, ricordò gli ultimi avvenimenti. Primo tra tutti, ciò che Canoo le aveva fatto. Strinse i pugni a quel pensiero. L’aveva stordita e l’aveva sbattuta in camera sua proprio nel momento meno adatto. I pirati erano arrivati, avevano assediato il villaggio, lei avrebbe dovuto essere fuori a combatterli, non trattata come una bimba indifesa.

Non riusciva a crederci. L’unica persona che fino a quel momento sembrava essere davvero disposto ad aiutarla e ad esserle amico, si era rivelato un traditore. Non nel vero senso della parola, il suo era stato un gesto atto a cercare di proteggerla, ma alla maga non andò comunque giu.

Cosa, poi, Canoo avesse in mente quando l’aveva riportata in camera sua, non lo sapeva. Credeva che non sarebbe uscita una volta svegliata? Oppure credeva che non si sarebbe svegliata tanto presto? Di nuovo, non lo sapeva, e in quel momento nemmeno le importava, a dire la verità. Con lo sciamano ci avrebbe ancora discusso, in quel momento però doveva raggiungere i suoi amici e al più presto.

Poi realizzò un’altra cosa. Il sogno avuto. Era stato grazie ad esso che si era svegliata, non c’erano dubbi. Il messaggio lasciato da quelle creature, poi, l’aveva lasciata sinceramente perplessa. Che fosse una premonizione anche quella? Che i suoi amici avessero davvero bisogno di lei? O erano i fongoid coloro a cui si riferivano quelle creature del sogno?

C’era un solo modo per scoprirlo. Si catapultò in volo fino al villaggio. Diverse cappe di fumo si sollevavano da più direzioni, molti edifici erano oramai dei cumuli di macerie e nessun fongoid si vedeva in giro, solo qualche pirata di tanto in tanto. E quello era un pessimo segno.

Notò qualcosa, nella via maestra, poco dopo. Scese a terra e procedette a piedi, nascosta tra i palazzi. Si sporse poi da un vicolo, per osservare meglio quella scena che aveva catturato la sua attenzione.  Sussultò quando realizzò cosa stesse accadendo.

Beast Boy. Stella. Cyborg. Amalia. Robin.

Terra.

Sdraiati a terra, occhi chiusi, nessun segno di vita, ammassati gli uni sugli altri quasi come fossero sacchi della spazzatura. Decine di figure torreggiavano su di loro, guardandoli compiaciuti. Quattro di loro spiccavano fra le altre, in mezzo a quella strada deserta, di quel villaggio oramai semidistrutto.

Corvina schiuse le labbra. Non riuscì a credere a ciò che vide. Li avevano sconfitti. I pirati li avevano davvero sconfitti. L’inferiorità numerica, forse, era stata la causa. Erano loro, dunque. Erano proprio i suoi amici quelli ad avere bisogno di lei, quelli a cui le creature del sogno si riferivano.

Ma... come...?, si domandò, incapace di fare altro. Come avevano fatto i Titans a farsi catturare in quel modo, come avevano fatto le creature a saperlo?

«Terra...» mormorò in preda allo sconforto, quando il suo sguardo cadde proprio sulla bionda. «No...»

Ma la preoccupazione per lamata valse meno di zero all’improvviso, quando vide in che stato era ridotto Robin. Corvina non credette ai suoi occhi. Il suo leader, quello su cui tutti loro riponevano sempre le maggiori speranze, era senza ombra di dubbio quello messo peggio fra tutti. Non c’era un solo centimetro di pelle sul suo corpo che fosse privo di ustioni, o lividi, o ferite di altro genere. Sembrava che lo avessero appena arso vivo.

«No... Robin...»

«Bene, bene, bene!» esclamò uno dei quattro all’improvviso, facendola trasalire. Corvina fu costretta a spostare lo sguardo su di lui. Lo riconobbe all’istante. Quello era Slag, non c’erano dubbi. «Ne abbiamo quattro! I miei complimenti a te, Caruso, tu ne hai presi ben due, tre considerando la tamaraniana!»

«È un piacere ricevere complimenti da lei, capitano» disse quello che doveva essere Caruso, piegando il capo in segno di rispetto. Sembrava l’incrocio tra un felino ed una tartaruga, a vederlo così.

Slag parve ampiamente compiaciuto, udendo tali parole, poi si voltò verso un’altra figura, questa molto più slanciata e formosa di Caruso. Era una donna, il cui busto terminava in una lunga coda verde. In un primo momento Corvina la scambiò per una sirena, ma guardandola meglio capì che invece era tutt’altra cosa. «Tu invece, Shiltya, mi hai un tantino deluso. Nessun terrestre catturato, solo quest’altra tamaraniana. Questa volta anche Shamus ha fatto meglio di te, catturando il terrestre verde. Forse dovrei riconsiderare la tua posizione.»

La donna serpente sbuffò inviperita, frustando l’aria molteplici volte con la lingua biforcuta. Incrociò le braccia e distolse lo sguardo dal capitano, grugnendo contrariata. L’ultima delle quattro figure, un gigante che faceva sembrare lo stesso Slag un nanerottolo, ridacchiò come un ebete.

«In ogni caso...» riprese Slag, richiamando l’attenzione di tutti. «... le tamaraniane non contano. Ci mancano ancora due terrestri. Forse hai ancora l’occasione di rifarti, Shiltya...»

Un’altra risatina si sollevò tra i pirati, mentre la donna intimava il silenzio furibonda, ma Corvina non ci fece nemmeno caso. Era troppo impegnata ad odiare con ogni fibra del suo essere Slag e i suoi. Lo sconforto di poco prima ora si era tramutato in rabbia. Rabbia per ciò che loro avevano fatto ai suoi amici e al villaggio. Si piantò le unghie nei palmi fino a farsi male, pur di non compiere atti impulsivi.

Poi realizzò una cosa. Mancava lei. Era lei quella che i pirati stavano ancora cercando. Lei e l’altro che mancava all’appello, Red X.

Quel pensiero la consolò in parte. I suoi amici erano stati presi, ma lei no. Poteva ancora salvarli, magari sfruttando l’effetto sorpresa. Il sogno avuto si rivelò finalmente per ciò che era, ovvero una vera e propria premonizione. I suoi amici avevano bisogno di lei, lei era l’unica che ancora poteva salvarli. Ma come?

Quel quesito cominciò a tormentarla. Cosa doveva fare, come poteva salvare i Titans dalle grinfie di quell’esercito di nemici?

Se ci fosse stato Red X da qualche parte, forse avrebbe avuto una chance in più, ma così non era. Il ragazzo in nero sembrava svanito nel nulla. Era da sola. Il suo cervello cominciò a macinare pensieri su pensieri, nel tentativo di trovare una soluzione per uscire da quell’impiccio. Doveva studiare un piano, e alla svelta, prima che quei tizi riprendessero a combinare disastri.

Ma per quanto si sforzasse, non sembrava riuscire a trovare uno straccio di idea.

«Bene, datevi una mossa allora!» tuonò di nuovo Slag, nel frattempo. Diverse grida di consenso si sollevarono tra i pirati, e fu quello il segnale che costrinse Corvina a scervellarsi il triplo più veloce.

Osservò con attenzione i suoi nemici riprendere a muoversi.

«Pensa Rachel, pensa...» mormorò per non farsi sentire. «Pens...» Si interruppe all’improvviso. Schiuse le labbra per lo stupore. I pirati si erano fermati, ognuno di loro fissava di fronte a sé con attenzione. Slag, in testa al gruppo assieme ai suoi tre vice, sembrava quello più stupito fra tutti nel vedere quel fongoid apparso praticamente dal nulla di fronte a lui. Un fongoid con lo scettro in mano, la testa alta e l’espressione severa.

«Canoo...» sussurrò Corvina, incredula. «Che stai facendo?»

Lo sciamano teneva il bastone appoggiato a terra come suo solito, osservava per nulla intimidito tutti i pirati parati di fronte a lui. Quegli stessi pirati che avrebbero potuto farlo a pezzi con estrema facilità.

«E tu chi sei, sgorbio?» domandò Slag, osservandolo quasi divertito.

«Il mio nome è Canoo, e sono lo sciamano di questo villaggio» ribatté il fongoid con tono fermo. «E sono qui in veste di messaggero del re per domandarvi di terminare la distruzione di casa nostra.»

Slag tacque per uno, due, tre secondi. Lo osservò per quel breve tratto di tempo, con l’enorme bocca schiusa per lo stupore, poi si voltò verso di Shamus. «Hai sentito anche tu, Shamus? Quel nano ci ha per davvero appena detto cosa dobbiamo fare?»

«No capitano, io ho solo sentito un piccolo insetto che chiedeva di essere ucciso!» disse il colosso, sbattendosi l’enorme braccio/cannone sul petto. 

«Lascia che mi occupi io di lui, capitano» aggiunse Shiltya, sollevando le dita munite di artigli affilati. «Lo squarto dalla testa ai piedi!»

La sicurezza di Canoo sembrò vacillare all’improvviso quando vide il gigante e la donna muoversi verso di lui, ma Slag li fermò. «Calmi, signori miei, calmi. Con la violenza non si va da nessuna parte.»

I due rivolsero un’occhiataccia allo sciamano, poi obbedirono al volere del capitano e tornarono accanto a lui e all’altro vice, il quale sembrava quello più calmo tra tutti. Teneva le braccia conserte e se ne stava in silenzio, serio come una statua.  

«Dimmi dunque, amico mio, perché mai dovremmo andarcene da qui?» domandò quindi Slag a Canoo.

«Perché ciò che cercate non è qui.»

Corvina sgranò gli occhi. Anche i pirati sembrarono sorprendersi. La maga cominciò a capirci sempre di meno. Corrucciò la fronte. «Che intenzioni hai...?»

Slag ci mise diversi secondi per recepire il messaggio, poi rispose: «Prego? Che intendi dire?»

Canoo indicò il gruppo di ragazzi stesi a terra. «Quelli erano gli unici ospiti qui presenti. Non c’è nessun altro terrestre in questo villaggio. Sono loro ciò che cercate, no? I terrestri. Mi spiace dirvelo, ma qui non ce ne sono altri. Li avete già presti tutti.»

«Che cosa? A noi risultava che ci fossero sei terrestri e due tamaraniane! Se è come dici tu, che fine hanno fatto gli altri due?!»

«Andati» ribatté semplicemente Canoo. Il suo volto sembrava una maschera, era impossibile capire che emozioni provasse o cosa stesse pensando. «Sono fuggiti nella foresta settimane fa’. Qualunque tentativo di cercarli è fallito. Se volete trovarli, dovete cercare là. Qui non c’è più niente. Non ha alcun senso continuare a distruggere la nostra casa.»

«Cosa mi dice che il tuo non sia solo un tentativo di proteggere gli ultimi due?» domandò Slag, scettico.

«E che senso avrebbe? Perché dovrei cercare di proteggerne solo due? Erano nostri ospiti, avrei cercato di proteggerli tutti, se avessi potuto. Ma loro hanno agito di testa propria, attaccandovi. Io non posso fare nulla per salvarli, ormai. Siamo troppo deboli per potervi sconfiggere. L’unica cosa che posso fare, e domandarvi almeno di lasciare stare casa nostra.»

«Mhhh...» Il capitano robot si prese il mento e cominciò a riflettere. Anche i suoi sottoposti sembrarono esitare.

Corvina, invece, non aveva alcun bisogno di riflettere. Aveva capito perfettamente il gioco di Canoo. Voleva difendere lei. Era disposto a sacrificare gli altri, ma non lei. Ciò le infuse un moto d’odio nei suoi confronti ancora più alto.

«Tu che ne pensi, Caruso?» chiese Slag al vice, dopo aver rimuginato qualche istante.

Il luogotenente scrollò le spalle, chiudendo l’occhio privo di benda. «Non saprei, capitano.»

«Tu, Shiltya?»

La donna sibilò maliziosa, con un sorrisetto arcigno stampato sul volto. «Nemmeno io saprei rispondere.»

«Shamus?»

«Puffy Pants!» esclamò il colosso, sollevando un pugno con fare vittorioso.

Slag annuì. «Sì, credo tu abbia ragione, Shamus. È impossibile capire se il fongoid dice la verità o meno. Ci serve l’aiuto del nostro esperto.» Il robot si girò e richiamò a gran voce i suoi uomini. «Molto bene, marmaglia! A quanto pare qui abbiamo finito, per il momento! Riportate le chiappe sulle navi, è ora di svegliare Puffy Pants!»

Un boato di giubilo si sollevò tra i robot, i quali cominciarono a battere a terra i piedi e a far cozzare le lame delle sciabole con il metallo dei loro petti. «Puffy Pants! Puffy Pants! Puffy Pants!» cominciarono a gridare, in preda all’esaltazione.

«Puffy Pants?» domandò Corvina, credendo di aver capito male.

«Sei stato fortunato, fongoid!» gridò Slag per farsi sentire fra la calca generata dai suoi uomini. «Per oggi il vostro villaggio è salvo. Da noi

Canoo non rispose, anche lui chiaramente spiazzato dalla stranissima reazione di Slag e soci. Poi i pirati sparirono nel nulla all’improvviso, dissolvendosi in una miriade di scintille rosse.

Quando Corvina se ne accorse, sgranò gli occhi. «NO!»

La ragazza corse fuori dal suo nascondiglio, si precipitò in strada, sorprendendo Canoo con la sua presenza. Ma al fongoid non diede la minima attenzione. Aveva atteso troppo, si era lasciata distrarre dalla discussione tra lo sciamano e il pirata, e se li era lasciati scappare. I suoi amici erano spariti. Erano con loro, probabilmente sulla nave. Li aveva persi.

«Ma che ci fai tu qui?»

La voce di Canoo la fece voltare verso di lui. Osservò con quanto odio avesse in corpo il fongoid, poi riportò l’attenzione ai quattro galeoni spaziali. Non aveva un secondo da perdere con lui, doveva salire la sopra prima che si allontanassero.

«Azarath Mitrion Zint...» Interruppe la formula per teletrasportarsi all’improvviso, quando vide un enorme boccaporto sotto una delle navi spalancarsi e un’enorme ammasso scuro ed indistinto precipitare da esso. Atterrò al suolo con un gigantesco impatto, da far tremare la terra, proprio al fondo della strada. Una nube di fumo e polvere si sollevò attorno al luogo dell’impatto, rendendo impossibile vedere cosa fosse caduto. Poi un poderoso ruggito squarciò l’aria e un’ombra mastodontica si sollevò in mezzo alla nube.

Corvina sentì un brivido percorrerla. Poi dal fumo emerse quella che si guadagnò di diritto il primato di creatura più orrenda e minacciosa che avesse mai visto.

Era simile ad un Basilisco Leviathan, era in grado di fluttuare verticalmente in aria nonostante l’assenza di ali. Era ricoperto da una spessa corazza naturale lungo tutta la schiena, mentre dal busto spuntavano decine di zampe laterali. Terminato il largo busto partiva una lunga coda gialla luminescente, che si assottigliava man mano che arrivava alla punta. La testa sembrava incavata tra due grosse squame simili a spalliere, gli occhi erano gialli come il corpo, orribilmente inquietanti, e la bocca era munita di denti aguzzi e di due enormi tenaglie simili a quelle dei cervi volanti.

Ruggiva, scuoteva la coda con ferocia e muoveva freneticamente le zampette e le tenaglie. Sembrava che qualcosa lo stesse tormentando brutalmente, a tal punto da farlo dimenare in quel modo. Dalla sua bocca uscirono poi delle vere e proprie palle di fuoco, che si scagliarono contro qualsiasi cosa capitò loro a tiro, appiccando diversi incendi. Era completamente fuori controllo. Avrebbe finito con il distruggere tutto il villaggio.

«Q-Quello è Puffy Pants?» sussurrò Corvina, intimorita.

Lo sguardo del serpentone cadde proprio su di lei e Canoo. La maga deglutì quando quei raggelanti bulbi senza iridi si posarono su di lei. La creatura ruggì di nuovo minacciosa, poi partì all’attacco.

 Il suo intento di salvare i propri amici andò a farsi friggere quando vide quella bestia precipitarsi verso di lei. Si alzò in volo e si allontanò alla svelta dalla strada, un attimo prima che la creatura ci sputasse contro altre palle di fuoco. La maga fu costretta a contrattaccare, lanciando tutto quello che poteva. Ma i suoi attacchi magici sembravano non scalfire minimamente la scorza dura del serpentone.

Una sfera azzurra si abbatté sul corpo della bestia, ma anche quella non arrecò alcun danno. Corvina spostò lo sguardo e vide Canoo brandire lo scettro ancora luminoso.

«Che stai facendo? Vattene da qui!» gridò la maga quando intuì il suo intento.

Lo sciamano scosse la testa, serio in volto. «Quello è un Pythor, non posso lasciarti da sola contro di lui!»

«Ti farai ammazzare!»

«Gli Zoni mi proteggeranno!»

Il Pythor ruggì di rabbia e sputò altre palle di fuoco verso di lui. Canoo sgranò gli occhi e cercò di scappare, ma una esplose troppo vicino a lui e lo sbalzò via, facendolo gridare.

«No!» Corvina attaccò la creatura alle spalle, sperando così di distogliere la sua attenzione dal fongoid. Più la colpiva, più sembrava stuzzicarla, anziché ferirla. Il mostro si voltò e ruggì di nuovo, per poi attaccarla con altre palle infuocate.

Canoo era salvo, ma adesso era lei a doversela vedere con lui. Una pioggia di fuoco le cadde addosso. Corvina diede il meglio di sé per riuscire a schivarle tutte, ma una fu più veloce di lei. La maga non riuscì a schivarla in tempo e cercò di proteggersi con il suo scudo, ma la potenza di quella sfera era molto più grande di ciò che pensava, perché l’impatto sulla sua barriera di magia fu devastante. Lo scudo si ruppe e Corvina gridò di dolore, mentre precipitava a terra.

Si era svegliata da poco, era ancora troppo stanca ed intontita per riuscire ad affrontare un simile mostro, inoltre erano ormai giorni che non riusciva a fare una meditazione degna di quel nome. Non era in condizioni di affrontare un simile combattimento.

Vide il Pythor precipitarsi verso di lei. Cercò di alzarsi e di scappare da lì, ma il corpo non sembrava volerle obbedire. La creatura fu ormai a pochi metri da lei. La vide in tutta la sua grandezza. Spalancò le fauci ed un sonoro ruggito risuonò nell’aria.

Ma non era provenuto dal Pythor.

Lo stesso bestione sembrò accorgersene, perché si fermo all’improvviso e cominciò a guardarsi intorno, giusto un attimo prima che un’altra mastodontica figura lo travolgesse, trasformando il tutto in un miscuglio di ringhi, ruggiti, morsi e ululati di dolore.

Corvina riuscì a mettersi in ginocchio, osservando la scena con un misto di incredulità e paura. «Non è possibile...»

Il Pythor aveva appena trovato un nuovo avversario, questa volta uno grosso come lui. Un enorme serpente azzurro, sgradevolmente famigliare.

La maga non riusciva a credere ai propri occhi. Non sapeva cosa dire, nemmeno cosa pensare. Poi, una voce la riscosse da quello stato di trance: «Stai bene Corvina?»

La ragazza si voltò e per la seconda volta nel giro di poco tempo non riuscì a credere a ciò che vide. Un’altra figura era apparsa accanto a lei all’improvviso. Un ragazzo. Un ragazzo vestito di nero, che le sorrise. «Non ti vedo molto in forma...»

«R-Red X?!?!»

Il ragazzo era pesto e macchiato in diversi punti da una sostanza blu fluorescente. Accentuò il sorriso, per poi indicare con un cenno il Pythor e l’altra creatura intenti a combattere. «Ho portato un amico...»

Corvina si voltò di nuovo verso lo scontro ed osservò il serpente azzurro, le sue scaglie, la sua coda da pesce e il suo mastodontico volto. «Crotch...» sussurrò sempre più incredula.

Il Basilisco Leviathan sembrava ancora più grosso e cattivo visto in quella circostanza. Lo scontro tra lui e il Pythor era davvero cruento. Erano sollevati a diversi metri d’altezza e si mordevano a vicenda, ruggivano in segno di sfida e si sferravano frustate con la coda. Ad un certo punto il Pythor scagliò altre sfere di fuoco dalla bocca, ma il Leviathan contrattaccò scagliando anche lui dalla bocca delle sfere elettriche. I due attacchi si neutralizzarono a vicenda, esplodendo in aria, poi le due creature ripresero con il corpo a corpo.

Puffy Pants e Crotch, impegnati in un vero e proprio scontro tra titani.

«Ma... ma come hai fatto?» domandò la maga incredula.

X alzò le spalle. «Io non ho fatto nulla. È stato lui a tirarmi fuori dal lago e...»

Il ragazzo continuò a parlare, Corvina annuì inebetita, ma non lo ascoltava davvero. Era troppo presa dallo scontro che proseguiva. I ruggiti continuavano a lacerare l’aria, erano sempre più diversi, sempre più lancinanti. Poi ricordò una cosa fondamentale. «Aspetta un momento!» Si voltò di nuovo verso il ragazzo, ribollendo di rabbia. «Hai un bel coraggio a ripresentarti così!»

«Cosa?» domandò lui, colpito dal repentino cambiamento del carattere della ragazza.

La maga fece per ribattere, quando un altro fragoroso ruggito la anticipò. Entrambi si voltarono e videro il Pythor piantare con forza i denti nel collo del Leviathan. Il serpente giallo sembrava in vantaggio.

«Dannazione, dobbiamo aiutarlo!» esclamò X cominciando a correre.

«Eh?! E come?!» gridò Corvina di rimando.

Il ragazzo la ignorò. Si chinò su un gruppo di macerie e sollevò un detrito piuttosto appuntito. Lo osservò con attenzione, poi annuì. «Questo andrà bene!»

Brandì il detrito e si diresse verso i due giganti, gridando in segno di sfida.

«X!» urlò ancora la maga.

«Stai indietro!» ribatté lui. «Ci penso io!»

Il Pythor lo vide avvicinarsi e lasciò andare Crotch, poi ruggì e sputò altre sfere di fuoco verso di lui. Red X le schivò una dietro l’altra, saltando di lato, rotolando e accovacciandosi, poi proseguì la sua folle corsa verso la morte. «Tutto qui quello che sai fare?!»

Puffy Pants sembrò capire la provocazione, perché ruggì per l’ennesima volta. Poi partì alla carica. Volò a velocità sorprendente verso il ragazzo, spalancando le fauci. Red X si fermò e rimase immobile, ad attenderla. Strinse la presa attorno allo spuntone di cemento. «Avanti... avanti!»

La creatura lo raggiunse. Il tempo rallentò. Corvina avrebbe voluto intervenire, ma non sentiva più le gambe.

Red X saltò. Il Pythor cercò di morderlo, ma le fauci si chiusero a vuoto. Il ragazzo atterrò sulla sua testa e si aggrappò ad una delle due squame post-occipitali. Puffy Pants ruggì di frustrazione e cercò di dimenarsi per toglierselo di dosso, ma Red X mantenne salda la presa.

«Perché... non stai... un po’...» Il ragazzo gridò in segno di sfida e piantò il detrito in un occhio del Pythor. «... fermo!!»

Lo spuntone penetrò senza la minima difficoltà quello che probabilmente era l’unico punto debole della creatura. Questa ruggì ancora una volta, però di dolore, ed inarcò la schiena. Red X mollò la presa e cadde a terra grugnendo di dolore, poi rotolò lontano dal serpentone.

Il Pythor si dimenò, continuando ad ululare di dolore, cercando di togliersi dall’occhio quel pietrone, poi un altro ruggito lo fece voltare. Crotch tornò alla carica e lo travolse, affondando i denti acuminati nel suo collo, penetrando la corazza. I due precipitarono contro un complesso di edifici e li sfondarono. Furono entrambi sepolti dalle macerie. Una coltre di polvere bianca si sollevò in aria.

Si susseguirono altri guaiti, altri ruggiti e altri versi lancinanti. Poi fu il silenzio.

Corvina sentiva il cuore battere talmente forte che temeva potesse esploderle nel petto. Red X si rialzò in piedi dolorante, poi drizzò lo sguardo verso i detriti, serio in volto.

Trascorsero diversi istanti di nulla, poi il fumo si diradò ed una sola creatura si alzò, ruggendo in segno di trionfo. Corvina riprese a respirare, mentre Red X sorrise. Crotch era il vincitore. Puffy Pants giaceva esanime sotto un lenzuolo di macerie, con una strana sostanza giallognola che colava dall’occhio colpito dal ragazzo e dai punti morsi dal Leviathan. 

Il Basilisco tornò in strada e guardò Red X, ringhiando sommessamente. Il ragazzo allargò il sorriso, poi annuì. «Puoi andare. Siamo pari adesso.»

Crotch continuò a ringhiare, poi piegò la testa e si voltò. Si alzò di nuovo in volo e si allontanò da loro, diretto verso la sua tana.

Corvina osservò la sua imponente figura allontanarsi, ancora atterrita, poi guardò X. Lui si accorse del suo sguardo e il suo sorriso divenne provocatorio. «Non serve che mi ringrazi.»

La maga aprì bocca per parlare, ma le parole le morirono in gola. Un grugnito attirò la sua attenzione. Si voltò e vide Canoo rialzarsi a fatica, aiutandosi con lo scettro. Era un po’ ammaccato, ma vivo. Quando si accorse di Red X, serrò la mascella. «Tu... tu che ci fai qui?!»

Il sorriso vacillò dal volto del ragazzo. «Ancora? Che altro avrei dovuto fare, guardare mentre quel coso vi ammazzava tutti?»

«Canoo!»

Un’altra voce giunse alle loro orecchie. I tre si voltarono e videro un gruppetto di guardie fongoid avvicinarsi.

«Alla buon ora!» sbottò Red X quando li vide.

Quando arrivarono, andarono ad aiutare lo sciamano, domandandogli se stesse bene. Lo sciamano annuì, poi accennò al ragazzo in nero. Le guardie si voltarono verso di lui e sgranarono gli occhi.

«M’beh? Che avete da guardare?» sbottò X, irritato dai loro sguardi.

Corvina rimase immobile, la testa che le ciondolava, mentre le guardie puntavano i loro scettri contro di lui. «Fermo dove sei!» gridò una di loro.

Il ragazzo li guardò atterrito. «Che diavolo significa?!» Si voltò verso la maga in cerca di spiegazioni, ma da lei, di nuovo, non uscì un solo respiro.

Ci pensò un’altra voce a rispondergli. «Significa che sei in arresto!» Le guardie si fecero da parte ed un altro fongoid avanzò in mezzo a loro, osservando X con freddezza.

Quando il ragazzo lo vide storse il naso, piantandosi le unghie nei palmi. «Figlio di puttana...» sibilò a denti stretti.

Galvor avanzò verso di lui, testa alta e sguardo severo. Si fermò a pochi passi di distanza e batté lo scettro a terra, per poi rivolgergli un freddo sorriso, un sorriso di cui solamente loro due seppero l’esistenza. Poi il capo delle guardie tornò serio e gli puntò il bastone.

«Sei in arresto per aver messo in pericolo l’intera comunità!»

«Vorrai scherzare!» gridò X, alterandosi, mentre le guardie lo circondavano. «Corvina, fa qualcosa dannazione!»

«Non permetterti di rivolgerti così alla Salvatrice!» esclamò Canoo, furente.

Lui ti aiuterà!

Quelle parole rimbombarono all’improvviso nella mente della maga, facendola trasalire. Vide cosa stava accadendo, vide le guardie circondare l’unico dei suoi compagni rimasto. E a quel punto agì di impulso. Si fece largo tra le guardie e raggiunse il ragazzo, afferrandolo per un braccio.

Galvor grugnì sorpreso, così come Canoo e le guardie. «Che stai facendo?»

Corvina non rispose. Sussurrò il mantra e teletrasportò sia lei che X lontano da lì, lasciando i fongoid con un pugno di mosche in mano.

 

 

 

 

Puffy Pants:

 

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Capitolo 20
*** Sogno nel cassetto ***


XX

Sogno nel cassetto

 

 

Riaprì lentamente gli occhi. Quanto gli costò caro. Non appena l’oscurità attorno a lui si dissolse, sentì fitte di dolore atroci e lancinanti colpirlo su ogni centimetro di pelle.

Gemette. Tutto quello gli sembrava irreale. Faticava a respirare, ogni volta che il suo petto si alzava o abbassava il dolore lo colpiva selvaggiamente, senza dargli un attimo di tregua.

Una volta desto si ritrovò in un ambiente a lui totalmente sconosciuto. La vista era ancora sfocata e gli impediva di scorgere bene ciò che si trovava accanto a lui, ma vide comunque delle strane pareti grigie illuminati da altrettanto bizzarri lampadari.

Non riusciva a concentrarsi a pieno, a causa del dolore provato. Quel bruciore incessante, il pulsare continuo di ogni suo sprazzo di pelle gli impediva di riuscire a metabolizzare cosa fosse accaduto in precedenza.

«Guardate, si è svegliato!» disse qualcuno all’improvviso.

Quella voce giunse lontana e distorta alle sue orecchie, ma la sentì ugualmente. Spostò lo sguardo e vide una figura mal distinta di fronte a lui. Era grossa e grigia, sembrava una macchia gigantesca.

Non riuscì a tenere a lungo lo sguardo su di essa, perché il dolore tornò a colpirlo come una martellata. Grugnì e strizzò le palpebre, inarcando la testa all’indietro. Era terribile. Dannatamente terribile. Non credeva di essersi mai sentito peggio.

«Ehi! Ehi! Non svenirmi di nuovo! È scortese farlo in presenza di qualcuno, sai?» tornò all’attacco la voce. Udì anche diversi rintocchi metallici, simili a schiocchi di dita, molto vicini alle sue orecchie.

Tossì e riaprì lentamente gli occhi. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, era troppo disorientato. La macchia grigia rientrò nel suo campo visivo. Questa volta cercò di restare concentrato, con lo sguardo fisso su di lei, aspettando che si definisse da sola.

Ci mise un sacco di tempo. Più i secondi passavano, più sentiva il battito cardiaco farsi sempre più forte ed insistente. Sentiva il suo cuore pulsare come se si trovasse dentro la sua testa, anziché nel petto. Poi, finalmente, riuscì a mettere a fuoco.

L’individuo misterioso di fronte a lui si fece più nitido. E non appena riuscì a vederlo meglio, boccheggiò agitato. Quello era Slag.

Gli ultimi avvenimenti gli tornarono in mente, l’uno dietro l’altro, in un turbinio di immagini confuse. Loro due che combattevano, lui che stava vincendo grazie allo scettro fongoid, e poi un’immensa fiammata che lo centrava in pieno, quasi uccidendolo.

E a quel punto realizzò tutto quanto. E si sentì pervadere dallo sconforto.

«So che voi terrestri siete delle mezze calzette, ma santa Polaris, ce ne hai messo di tempo per riprenderti!»

Robin ignorò il tono di scherno del capitano robot. Cercò di muoversi, di saltargli addosso e fargli sparire quell’odioso sorriso, ma, oltre a ricevere fitte di dolore come se piovessero, non riuscì a spostarsi di un solo centimetro. Si accorse solo in quel momento di essere imprigionato, legato con delle strane catene ad una sedia di ferro. Grugnì, cercò di liberarsi in tutti i modi possibili, ma non ottenne alcun risultato. Alla fine, stremato dall’estrema sofferenza causata dal muoversi in quel modo, si bloccò e boccheggiò. Era ferito troppo gravemente per poter compiere simili sforzi senza sentire quel bruciore lancinante.

A quel punto non poté fare altro che fissare impotente Slag, seduto dall’altra parte del tavolo che aveva di fronte. Sembravano ad un colloquio, o due amici al bar, e non due reduci da uno scontro devastante.

Il robot lo osservava divertito, tenendo il mento appoggiato sulla mano di ferro, mentre con quella uncinata dava dei colpetti alla superficie di legno del mobile. «È inutile che ti scaldi tanto. Non hai alcun modo di poterti liberare da quelle catene. E anche se ci riuscissi, di certo non potresti mai sconfiggermi. Né me...» Si dondolò sulla sedia, che scricchiolò pericolosamente, ed indicò le due figure in piedi dietro di lui, che fino a quel momento erano sfuggite alla vista di Robin. «... né a loro.»

Il leader dei Titans rimase stupito da ciò che vide. Erano due esseri organici, come lui, non robot come Slag. Uno era un uomo, o perlomeno doveva esserlo. Aveva la pelle azzurra, il collo lungo e bianco, le braccia striate di blu, come se fossero ricoperti da tatuaggi e aveva indosso i classici abiti da pirata. Aveva anche una benda sull’occhio e un bizzarro copricapo simile a quello dei cowboy.

Teneva le braccia incrociate e lo fissava serio in volto, con il suo unico occhio giallo.

Accanto a lui c’era invece una donna. O, perlomeno, lo era fino alla vita. Il resto del suo corpo si smarriva in una lunga coda giallognola mista al verde. Tutto il corpo era di quel colore, eccetto che per alcune striature marroni sul suo volto. Occhi e capelli invece erano del medesimo colore, ovvero un verdognolo oliva. La sua canotta nera era l’unico indumento che aveva indosso.

A differenza dell’uomo, lei aveva stampato in faccia un tenue sorrisetto, che le dava un’aria molto più maliziosa ed imprevedibile.

«Ti presento due dei miei più cari collaboratori, Von Walis Caruso e Shyltia.»

Alla presentazione di Slag, Caruso si tolse il cappello e si esibì in un inchino, mentre Shyltia sibilò rumorosamente con la sua lingua biforcuta, distendendo il sorriso maligno. «Ma che bel bocconcino che abbiamo qui...»

Lo sguardo della piratessa era davvero eloquente. Robin rabbrividì e fece di tutto per non guardarla.

«Peccato che Shamus sia andato a cercare i tuoi amici, altrimenti ti avrei presentato anche lui. Sento che sareste andati parecchio d’accordo...» proseguì Slag, continuando a dondolarsi tenendo l’uncino piantato nel tavolo.

«Che cosa vuoi?» sbottò il ragazzo, digrignando i denti. «Perché sono qui? Dove sono i miei amici?!»

«Quante domande...» rispose il capitano, continuando a sorridere, per poi farsi serio all’improvviso e sradicare via l’uncino dal tavolo, spaccando un pezzo del legno. «Io odio le domande...»

Il pirata si alzò dalla sedia ergendosi in tutta la sua grandezza, per poi dirigersi verso un punto della stanza.

Robin lo seguì con lo sguardo, arrovellandosi su come riuscire ad uscire da quella situazione. Gli altri due pirati continuavano ad osservarlo, non sembravano affatto intenzionati a lasciarselo sfuggire dai rispettivi campi visivi. Quegli sguardi lo incitarono a darsi un’ulteriore mossa. Ma più pensava, meno idee aveva. Era in trappola, semplicemente.

Fece vagare lo sguardo per la stanza. Vide di nuovo le pareti di ferro, i lampadari simili a neon che illuminavano la zona, e un mucchio di scatoloni, dispenser e armadietti. Decine di carte uscivano da ogni dove. Alcune erano appese al muro, altre straripavano dai contenitori ed altre erano arrotolate e lasciate per terra. Raffiguravano mappe, stelle, pianeti e galassie. Erano carte nautiche, sicuramente.

Slag nel frattempo frugò in uno degli armadi ed estrasse un plico di fogli. Si voltò e tornò dal ragazzo, sventolandoli. «Qui l’unico che fa le domande sono io.»

Sbatté i fogli sul tavolo, di fronte a Robin, poi li sistemò in modo da permetterli di vederli tutti quanti, dal primo all’ultimo. Il leader dei Titans rimase scioccato quando riconobbe il proprio volto e quello dei suoi amici su alcune di quelle carte, conditi da delle scritte in qualche lingua indecifrabile. Ma non era finita lì. C’erano un mucchio di altre facce. Alcune erano ignote al ragazzo, ma diverse altre no. C’erano quella di Slag, quella di Caruso e quella di Shyltia. Ma non solo. Sgranò gli occhi quando tra le immagini riconobbe gente come Metalhead, Edward, il volto mascherato di Sklershock e perfino alcuni alieni calamari presenti all’asta al Parco Marktar. Alcuni avevano delle X rosse disegnate sopra, come gli stessi Metalhead, Edward e Sklershock. Non era difficile capirne il motivo.

«Queste sono solo alcune delle persone con le taglie più alte che queste galassie abbia mai visto. Come vedi ci sono io, ci sono i miei collaboratori, ci sono alcuni agenti del Dominio... e poi ci siete tu e i tuoi amichetti.» Slag si sporse dalla sedia, avvicinandosi a lui e guardandolo freddamente. «Cosa accidenti ha spinto dei terrestri come voi a giungere fino a qui, uccidere uno dei pezzi grossi del Dominio ed essere stati addirittura coinvolti nella distruzione di uno dei punti di riferimenti maggiori di Bogon, ossia il Parco Marktar?»

«Una nostra amica era in pericolo» rispose Robin, facendo una smorfia. Non capì perché Slag fosse interessato alla faccenda, ma poco gli importò. Non sembrava avere intenzioni troppo bellicose e più avrebbero parlato, più tempo avrebbe avuto per studiare un modo per fuggire da lì.

«Ti riferisci ad una delle due tamaraniane?»

Il ragazzo annuì. «Lei e sua sorella erano state rapite da un mercenario alieno. Voleva venderle al Marktar. Metalhead il Juggernaut, lo conosci? C’è il suo volantino proprio qui...»

«Oh, sì...» sussurrò Shyltia, con tono e sguardo sognanti. «Quello sì che era un gran bel...»

«Figlio di un Protopet!» ululò Slag alzandosi di scattò dalla sedia e sferrando un pugno talmente forte sul tavolo da spaccarlo in due come un grissino.

Robin sobbalzò, quando vide il pirata dapprima tranquillo, ora così furente.

«Quando ho cercato di abbordarlo lui ha ucciso centinaia dei miei uomini e distrutto decine dei miei Torpedo con la sua stramaledetta nave! Lui, quel sacco di carne del suo assistente e quel maledetto sintenoide! È stato un oltraggio nei miei confronti!» protestò il pirata.

Il ragazzo deglutì. A dire il vero, appoggiava più Metalhead che Slag in quel racconto. Del resto, l’uomo rettile si era solo difeso. Ma non lo fece comunque notare al robot. Non aveva voglia di finire di nuovo arrosto, magari addirittura per sempre.

Shyltia continuò a giocherellare con una ciocca di capelli, probabilmente fantasticando su Metalhead. Robin pensò all’uomo rettile e alla donna serpente nella stessa stanza... e beh, gli vennero i brividi. E anche un conato di vomito.

Caruso, invece, rimase immobile e assente. Il capitano robot ci impiegò non poco tempo per poter tornare tranquillo. E quando lo fece, raccolse la sedia che si era rovesciata e ci si sedette di nuovo. Il tavolo che lo separava dal ragazzo era distrutto e tutti i fogli con le taglie erano sparsi al suolo, ma il pirata non sembrò darci troppo peso.

Grugnì ancora, poi sbottò: «D’altronde, il fetente con la X rossa disegnata in faccia è lui, e non io...» Un sorrisetto divertito apparve sul suo volto metallico. «Direi che ha pagato a caro prezzo ciò che mi ha fatto...»

Robin volle ancora una volta dissentire, ma si morse la lingua. Il pirata alzò di nuovo lo sguardo e lo fissò attentamente. «E così avete inseguito Metalhead per salvare le tamaraniane. E su Tabora come ci siete finiti?»

Sempre pensando alla fuga, Robin spiegò anche quello. Raccontò dell’attacco che avevano subito e del loro atterraggio di fortuna, e di come da inseguitori erano diventati gli inseguiti dal Dominio. Probabilmente Terra non aveva nemmeno mai avuto intenzione di uccidere Sklershock, quando lo aveva attaccato. Si erano solo difesi da lui, semplicemente.

A racconto concluso, Slag annuì e si alzò ancora una volta dalla sedia, per poi cominciare a camminare per la stanza, tenendo le mani congiunte dietro la schiena. «Mh... beh, sono colpito. Davvero. Per essere solo dei pulciosi terrestri vi siete fatti valere. Avete accumulato una taglia che non è per niente da ridere.»

Si fermò. Osservò un punto imprecisato di fronte a sé. Robin rimase a fissare la sua schiena, ancora occupato con i suoi pensieri.

«Ho deciso di portarti qui nel mio ufficio, semplicemente per dirti che non ce l’ho con te e con i tuoi amici in particolare.» Si voltò, per osservarlo di nuovo. Sembrava davvero serio, quasi dispiaciuto per lui. Di sicuro non aveva più la stessa aria che aveva nel villaggio fongoid, quando avevano combattuto. «Vi ho catturati perché mi serve riscuotere le vostre taglie. Ho bisogno di soldi. Ho quattro navi, centinaia di Torpedo, altrettanti uomini... devi capire che vado incontro a spese non poco ingenti. Carburante, munizioni, armi... Di solito io sono una brava, anzi no, una bravissima... beh, persona. Non farei del male ad una mosca. Non avrei mai voluto bruciarti vivo come ho fatto. Ma, vedi, mi avevi fatto perdere un po’ le staffe, ed io sono un tipo molto irascibile, come avrai ben capito...»

Robin fece una smorfia udendo quelle parole. Cos’era, Slag cercava di discolparsi per averlo catturato? Gli stava chiedendo scusa per averlo arso vivo?!

«Vedi, terrestre, io ho un sogno. Un sogno nel cassetto, come dite voi.» Il pirata raccolse due fogli dal mucchio sparso a terra e tornò a sedersi di fronte a Robin. «Voglio che il mio nome venga scritto nella storia di questo universo. Voglio che chiunque, dal Dominio alle forze dell’ordine, non appena mi sentirà nominare, cominci a tremare come una foglia. Voglio che la mia ciurma diventi la più potente di tutte. Voglio che diventi la più grande, la più temibile, che faccia sembrare l’esercito di mercenari del Dominio una barzelletta! Ecco, da’ un’occhiata.»

Sollevò i due fogli, uno tenendolo con una mano, l’altro infilzandolo con l’uncino. Il primo raffigurava l’immagine di un ragazzino con la pelle grigia, le orecchie appuntite e i capelli rossi. Assomigliava parecchio ad un terrestre. L’altro invece raffigurava un altro umanoide, però molto, molto più anziano. La pelle rosa pallida era ricoperta da rughe. Il naso era piccolo e sottile. Gli occhi erano chiusi e incavati nel volto, orecchie e capelli erano nascosti da quello che sembrava un cappuccio alzato.

«Questi sono i due individui con le taglie più alte sulla testa al momento esistenti» spiegò Slag. Sollevò il foglio con il ragazzino. «Questo è Dewys Fitzfiged. Ha una taglia di cinquecento milioni sulla testa. Questo  cadavere ambulante invece è Lord Price X, il sovrano di Ryckan V, con un miliardo di taglia.»

 Robin strabuzzò gli occhi. Per un istante smise anche di pensare al piano di fuga. Come facevano un ragazzino come lui e uno che come minimo aveva duecento anni ad avere delle taglie così ingenti?

Slag sembrò quasi leggergli nel pensiero. «Questi due sono i leader di due delle organizzazioni più potenti del momento. I ribelli Terrox da una parte e il Dominio dall’altra. Inutile dirti che sono aspramente in guerra tra loro e che la taglia del ragazzino, come la tua, è stata instituita da Price stesso. Mentre il vecchio è cercato da qualsiasi agente di polizia a causa del suo enorme mercato di schiavi.»

Gettò i fogli a terra, per poi grugnire. «Per poter diventare il migliore dei migliori, ho bisogno di farli fuori. Entrambi. Se voglio essere come Darkwater, il più grande pirata di tutti i tempi, colui che hai tempi aveva ben settecento milioni sulla propria testa, devo sgomberare la piazza.

«Molti criminali con taglie ingenti e che avrebbero potuto essere dei problemi sono già morti. Il vice di Darkwater, Calico "Bleck" Jeck, che ai tempi aveva anche lui mezzo miliardo, se n’è andato parecchio tempo fa’. Recentemente è morto Metalhead, che aveva trecento milioni. Quel sacco di carne del suo amico, Edward, che ne aveva centocinquanta. Sklershock, che ne aveva duecento. E tanti, tanti altri.

«Ora come ora, io sono tra quelli con la taglia più alta in assoluto, duecentosettanta milioni. Mentre Caruso, Shyltia e Shamus ce l’hanno attorno ai cento. Se io e la mia ciurma eliminassimo il capo dei ribelli e il vecchio, diventeremmo sicuramente i migliori dei migliori. Per il primo so già come fare. Lo ucciderò senza il minimo problema e con la sua taglia da mezzo miliardo potrò fare enormi cose. Lord Price, invece...  è ancora fuori dalla mia portata. Mi servono soldi, per finanziare una simile impresa. Ed è qui che entrate in gioco voi. Vendendovi al Dominio, spacciandomi come loro amico, avrò modo in primis di scoprire come funzionano i loro sistemi di difesa, e inoltre potrò mettermi da parte una somma niente male. Nulla a confronto con il mezzo miliardo che racimolerò con il moccioso Dewys, ma comunque niente male.

«E quando avrò abbastanza soldi, potrò rifare la mia ciurma, trasformarla in un vero e proprio esercito, con il quale metterò a ferro e fuoco Ryckan e lo raderò al suolo. Da una parte diventerò famoso per aver distrutto una delle più grandi piaghe mai esistite nell’universo, dall’altra... diventerò io stesso una delle piaghe più grandi! L’era della pirateria avrà finalmente inizio! Nell’universo chiunque imparerà a conoscere la vera pericolosità dei pirati! Perfino i Ranger più forti e pericolosi dovranno temermi!»

Robin sgranò gli occhi. Oramai il piano per la fuga era andato a farsi friggere. Era rimasto troppo occupato ad ascoltare le parole di Slag. Era sconvolto. Folle. Ecco cos’era il pirata. Era un pazzo da legare. Credeva che fosse solo l’ennesimo avido bastardo, come Metalhead. Uno che voleva i soldi semplicemente perché erano soldi, non perché aveva un progetto ben preciso per loro. Lui no. Slag aveva un piano. Un piano semplicissimo. Accumulare ricchezze semplicemente per investirle, per migliorare la propria ciurma e per poter, un giorno, diventare il padrone indiscusso dell’universo.

Affrontare criminali e non con taglie ben più alte della sua. Affrontare il Dominio, come se questo non fosse altro che un misero gruppetto di incapaci e non quello che probabilmente era il più potente regime dell’universo.

E quel che era peggio, era che sia Shyltia che Caruso sembravano essere d’accordo con lui. Avevano annuito per tutto il tempo, durante il racconto di Slag. E così avrebbero fatto tutti gli altri pirati, probabilmente.

«Capisci adesso perché vi ho catturati? Se ti può consolare, non consegnerò le due tamaraniane. Credo che... le terrò sulla mia nave. I mozzi sono sempre ben accetti, da queste parti. O se proprio non vogliono restare posso sempre scaricarle in qualche buco nero... tanto loro non patiscono l’assenza di ossigeno.»

E dette quelle parole, scoppiò a ridere. Forse nemmeno lui stesso capì il perché di tale gesto. Di sicuro, Robin non ci trovava nulla di divertente.

Doveva scappare da lì e ritrovare i suoi amici, al più presto. Si dimenò ancora, ottenendo di nuovo zero risultati, solamente fitte di dolore. In compenso, riuscì a muovere la sedia di qualche centimetro. A quel punto sgranò gli occhi. La sedia era di ferro, ma non doveva essere molto pesante. E non era inchiodata a terra. E Slag era parecchio, parecchio irascibile.

Un’idea malsana gli attraversò la mente. Era probabilmente la più folle, e geniale, che avesse mai avuto. Ma non poteva metterla in pratica, non in quel momento, con ben tre avversari riuniti nella stessa stanza insieme a lui. Doveva attendere che sia Caruso, sia Shyltia uscissero. Una volta solo con Slag, non avrebbe più avuto problemi.

Sperando che, nel frattempo, gli altri suoi amici, e Stella, stessero bene.

 

***

 

BB si drizzò a sedere, massaggiandosi la testa. Riusciva ancora a sentire la presa di Shamus sulle sue tempie, talmente gli facevano male. Prima di svenire aveva avuto il terrore che quel colosso senza cervello gli avesse spappolato la nuca. Fortunatamente, così non era stato. In compenso, aveva comunque perso l’incontro. Ed era stato catturato.

Si guardò intorno, facendo una smorfia infastidita. Era in una stanza spoglia, priva di mobilio. Le pareti erano grigie scure, lucide e perfettamente lisce, senza imperfezioni. Scorse una figura seduta, appoggiata al muro di fronte a lui. Teneva un ginocchio alzato, su cui appoggiava il gomito, e la testa rivolta al pavimento. Non ci mise molto a riconoscerlo. «Cyborg?» domandò, preoccupato. Non aveva una bella cera, ed era impossibile capire se era sveglio o no.

Il robot drizzò la testa non appena udì il suo nome. Quando i loro sguardi si incrociarono, l’espressione del titan bionico non cambiò di una virgola. «BB.»

Il mutaforma si massaggiò una tempia, colpita da un’altra fitta di dolore. «Hanno... hanno preso anche te?»

Cyborg non rispose. Non che BB avesse davvero bisogno di una conferma. Prima di lasciar piombare la stanza in un opprimente silenzio, il mutaforma domandò ancora: «Ma... dove siamo?»

Ancora una volta il robot rimase in silenzio. In compenso, accennò con la testa alla sua sinistra. BB spostò lo sguardo e solo allora notò una parete completamente diversa dalle altre. Questa era viola chiaro, trasparente. Permetteva la visione di un corridoio e di una stanza identica alla loro dall’altra parte di esso. Un ronzio fastidioso proveniva da essa. Sfrigolava e di tanto in tanto la luce sfarfallava. Il verdolo non era un genio in certe cose, ma pure lui capì che quello doveva essere una specie di campo elettromagnetico. E a quel punto connesse tutte le informazioni.

«Una cella...» mormorò, abbattuto. Che era stato sconfitto lo aveva capito... ma ritrovarsi in una prigione gli fece comunque un certo, negativo, effetto.

Cyborg annuì. «Non vogliono certo lasciarci fuggire tanto facilmente. Siamo ancora stati fortunati a non essere morti.»

BB rabbrividì udendo quelle parole. Si alzò e si avvicinò alla parete viola, per poi provare a toccarla. Pensò di morire folgorato, ma non appena il suo dito entrò in contatto con il campo magnetico, la luce sfarfallò ancora, ma non accadde altro. Sospirò, poi guardò fuori appoggiandosi con entrambi i palmi. Vide il corridoio e oltre alla cella di fronte a loro, ne vide diverse altre accanto. Dopo di esse, il corridoio svaniva nell’ombra.

«Gli altri dove sono?» chiese ancora.

«Guarda tu stesso.» Cyborg indicò la cella esattamente di fronte alla loro. BB aguzzò la vista. In un primo momento non vide nulla, poi sgranò gli occhi quando notò un’esile figura rannicchiata in un angolo dell’altra stanza. La riconobbe quasi subito. «Stella...» sussurrò.

La ragazza si stava abbracciando le ginocchia e teneva la testa incassata tra le spalle. Di tanto in tanto alcuni scossoni la colpivano alle spalle e alla schiena. Stava piangendo.

Il mutaforma strinse i pugni. Non era giusto. Stella era già stata rapita una volta, non poteva sopportare di esserlo stata di nuovo. Osservò il campo di forza. Dopodiché grido e lo colpì con un pugno, mettendoci quanta più forza possibile. La luce sfarfallò ancora, ma nient’altro accadde.

«Che stai facendo?» domandò Cyborg, con tono di voce quasi irritato.

«Non possiamo restare qui!» esclamò il mutaforma, voltandosi. «Dobbiamo uscire! Subito!»

«Quelle pareti possono attutire qualsiasi tipo di attacco fisico e non. L’unico modo per disattivarle senza avere la chiave è un sovraccarico, o un calo di tensione» rispose calmo il robot.

«E tu come fai a saperlo? Se mi trasformassi in...»

«Lo so, perché è il mio lavoro saperlo. Ricordi?» si indicò. «Mente del gruppo... inventore... colui che con queste cose ci vive... hai presente? Se ti dico che quel campo è indistruttibile, lo è. Nemmeno da tirannosauro potresti scalfirlo.»

Il mutaforma non si arrese. «E allora perché non provi tu ad aprirlo? Se con queste cose ci vivi, non dovresti avere problemi, no? Non saprei... il tuo cannone, per esempio! Non potrebbe funzionare?»

Il cyborg sospirò, questa volta chiaramente abbattuto. «Potrebbe. Ma non posso usarlo.» Guardò l’amico, con espressione mesta. «Ho vissuto su Quantus per un mese. Un mese senza elettricità. La mia batteria si è quasi completamente esaurita. È già un miracolo che il mio scanner non si sia ancora spento. Non posso usare il cannone, non ho più energia per farlo.»

BB abbandonò le braccia lungo i fianchi. Raramente si era sentito così... abbattuto. Cyborg non poteva fare nulla. Non si sforzò nemmeno di provare a convincerlo. Non aveva mai visto l’amico bionico così... buio in volto.

Appoggiò la schiena contro la parete artificiale, e si lasciò cadere lentamente a terra, fino a ritrovarsi seduto. «E allora cosa facciamo?»

«Aspettiamo, BB.» Il robot alzò ancora una volta lo sguardo, osservandolo severo. «E speriamo.»

 

***

 

Terra mugugnò infastidita. Per la decima volta di fila aveva cercato di usare i suoi poteri. E per la decima volta aveva fallito. Oramai non c’erano più dubbi, era troppo lontana dalla terra ferma. E di conseguenza la terra stessa non rispondeva ai comandi della sua padrona.

Questo, dunque, confermò l’altra sua teoria. Si trovavano su una delle navi di Slag, prigioniere.

Quando si era svegliata all’interno di quella cella era andata nel panico. In un primo momento aveva perfino avuto paura di essere diventata claustrofobica all’improvviso. Ci aveva messo diverso tempo per riacquistare la calma. E quando ciò era successo, era andata incontro alla triste realtà. L’avevano presa. Quell’individuo bizzarro, Von Caruso, che si illuminava di blu era l’unica cosa che ricordava.

La testa le faceva male, nonostante non avesse subito traumi di alcun genere. Non sapeva com’era possibile. Forse il pirata l’aveva ipnotizzata in qualche modo.

Ma la sorpresa maggiore era arrivata quando si era accorta di Amalia. La tamaraniana mora era nella sua stessa cella, sdraiata a terra. Il suo respiro era regolare, ma teneva gli occhi sigillati. Forse era svenuta prima di essere catturata e non si era ancora svegliata. E di certo non sarebbe stata la ragazza bionda a destarla. Amalia aveva già avuto il suo bel da fare con le prigioni, avrebbe sicuramente dato di matto una volta scoperto di essere di nuovo dentro una di esse.

La ragazza sospirò, poi si appoggiò alla parete, incrociando le braccia. Doveva pensare. Doveva trovare il modo di uscire da lì, e al più presto. La parete viola di fronte a lei sembrava il portale per un’altra dimensione. Dubitava che sarebbe mai riuscita ad aprirla in qualche modo.

I suoi pensieri giunsero a Corvina. Quanto le mancava. Sperò che almeno lei stesse bene. Aveva sentito alcuni discorsi dei pirati e aveva capito che almeno lei era ancora libera, perciò sperava ardentemente che arrivasse a salvare tutti loro, in qualche modo. Ma soprattutto, dopo tanto tempo rimasta separata da lei, avrebbe tanto, tanto voluto abbracciarla.

Rimase immersa nelle sue riflessioni, osservando la parete viola. E fu proprio osservando quella parete che si accorse di una figura mal distinta presente nella cella oltre il corridoio. Corrucciò la fronte e si avvicinò. Aggirò la tamaraniana ancora sdraiata in mezzo alla stanza e giunse in prossimità della parete. Aguzzò la vista e si rese conto di non essersi sognata nulla. C’era davvero qualcuno nella cella davanti a lei.

Una volta vicina, constatò che chiunque fosse in quella cella, non era uno dei suoi amici. Rimase colpita da ciò che vide. Era difficile vedere bene attraverso i ben due campi magnetici di entrambe le celle, ma non c’erano dubbi. Seduta nella stanza di fronte a lei, appoggiata contro la parete e con la testa bassa, si trovava una ragazza.

Un’aliena, per l’esattezza. Anche se le somiglianze tra lei e una terrestre erano davvero molte. Il viola delle pareti distorceva i colori, ma Terra riuscì comunque a distinguere il colore dei suoi capelli, della sua pelle e dei suoi vestiti. I primi erano castani e lunghi. Ricadevano sulle spalle ed erano coperti in parte da una bandana rossa. La pelle era di una tinta rosa molto pallida e sul viso aveva diverse macchie più scure, mentre le orecchie erano a punta. Gli occhi erano grandi, il colore era difficile da distinguere, ma sembravano anch’essi marroni.

Indossava una specie di tuta, verde sul busto, grigia sulle spalle, marrone sugli avambracci, che arrivava alla cintura grigia metallizzata. I pantaloni erano neri e arrivavano al ginocchio, dove poi cominciava un lungo paio di stivali, sempre marroni.

Sul suolo accanto a lei si dilungava una sottile protuberanza rosa. Terra ci mise diverso tempo per capire che quella doveva essere una coda.

Se non fosse stato per le orecchie e per la coda, l’avrebbe scambiata per una terrestre. I suoi lineamenti erano molto simili a quelli di una ragazza comune, così come il colore della pelle. E, beh, sotto certi punti di vista era anche carina.

A quanto pareva, Terra, Amalia e i loro amici non erano gli unici a cui i pirati erano interessati. Anche quella bizzarra aliena sembrava nella loro stessa situazione.

La bionda sollevò una mano e cercò di attirare la sua attenzione, con diversi cenni. L’aliena ci mise diverso tempo per accorgersi di lei. Sollevò lo sguardo e le due si osservarono. Sembrava parecchio disorientata, ma soprattutto sembrava spaventata.

Terra cercò di sorriderle rassicurante, fece per chiamarla, ma quella si appiattì ulteriormente contro la parete e chiuse gli occhi, distogliendo lo sguardo da lei.

La terrestre abbassò lentamente la mano, afflitta. Guardò ancora per un attimo quella ragazza, poi sospirò e le diede le spalle. Era terrorizzata. Cercare di comunicare con lei in qualche modo non sarebbe servito a niente.

Tornò ad appoggiarsi alla sua parete e sospirò rumorosamente, per poi sedersi pesantemente.

Corvy, ti prego... sbrigati...

 

 





Giusto per precisare, questo è stato l'ultimo capitolo che gli sfortunati che hanno letto questa storia la prima volta sono riusciti ad avere, dopodiché il qui presente idiota ha cancellato tutto. MA, se qualcuno di voi lettori veterani è ancora qui, sappiate che sono assolutamente entusiasta di dirvi che il prossimo capitolo, e anche quelli successivi, sono tutti pronti, pronti per essere pubblicati. Non ho ancora finito la storia, ma sappiate che non mi ci vuole molto per farlo, mi basta semplicemente un finesettimana libero, e sopratutto, la voglia. Tanta, tantissima voglia, ma quella cerco di trovarla. Forse. Sappiate solo che non vi deluderò: il capitolo 21, il capitolo perduto di The Good Left Undone, arriverà, arriverà molto molto presto. Relativamente parlando. Oramai lo avrete capito che "presto" equivale ad "entro il prossimo mese". Comunque arriverà, non preoccupatevi.
Mi spiace davvero per ciò che ho fatto, credetemi, ma questa è la mia occasione per redimermi. Ho pagato le conseguenze delle mie azioni e questa storia un tempo molto molto seguita ora è a malapena calcolata, ma so che quelli che ad essa tenevano davvero sono ancora qui, e di questo non potrò mai ringraziarvi abbastanza. Ai nuovi lettori che invece si sono affezionati ad HoS e Tglu solo di recente, invece, dico solamente grazie per la pazienza e per avermi seguito fino a qui.
Dai, dai, gente, che tra Infamous e Tglu e tutto il resto poco per volta riesco a districarmi. Abbiate fede, amici miei. La fine del tunnel è molto vicina.

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Capitolo 21
*** Infiltrati ***


 

 

XXI

Infiltrati

 

 

 

Si ritrovarono in altro vicolo del villaggio, lontano da Galvor e dal resto dei fongoid.

Red X rimase per un attimo stordito da quel repentino cambio di scenario. Prima era circondato da un branco di alieni incazzati neri con lui per chissà quale motivo, dopo era in quel vicolo semibuio. Corvina, accanto a lui, si appoggiò contro un muro e riprese fiato.

«Corvina, che è successo? Perché i fongoid ce l’hanno con me?» domandò lui. «Cioè, posso capire Galvor e i suoi amichetti, ma Robin e tutti gli altri...»

La maga si incupì, per poi fissarlo con sguardo glaciale. «Mi sorprende che tu non lo sappia, dopo quello che hai fatto!»

«Fatto cosa?» chiese ancora il ragazzo, sempre più perplesso. «Ce l’hai con me per averti salvato la vita? Beh, non c’è di che!»

«Non è per quello!» esclamò Corvina, separandosi dal muro per poi cominciare a puntellarlo sul petto. «I pirati! Come credi che ci abbiano trovati?!»

X fece una smorfia. «Quel bastardo di Galvor ha lanciato un SOS con la nostra nave. Ho provato a fermarlo, ma mi hanno scoperto.»

«C-Cosa?!» Corvina rimase a bocca aperta. «Lui... aveva detto che eri stato tu...»

Toccò ad X essere quello sorpreso. «Davvero? E voi ci avete creduto?!»

«Beh...» La maga esitò. Quella fu una risposta più che chiara per il ragazzo in nero.

«Tsk. Vi credevo più svegli...» sbottò, per poi incrociare le braccia.

«E allora dove sei stato in queste ore? E Crotch? Come hai fatto a portarlo fino a qui?! E come fai a sapere che è stato Galvor?»

«Beh... è un po’ lungo da raccontare...»

Il ragazzo sospirò, poi cominciò a parlare. Raccontò alla maga quello che gli era successo nelle ultime venti ore.

La gita nella giungla, lo scontro sia verbale che fisico con Galvor, i fongoid che lo gettavano nella pozza di Crotch. Tralasciò il litigio con Amalia, di quello non aveva voglia di parlare con nessuno. Voleva solo dimenticarlo e riparare al danno al più presto.

Spiegò che era stato proprio Crotch a tirarlo fuori dalla sua pozza. Si era svegliato in riva al lago, ricoperto da quel liquido schifoso, con il Basilisco Leviathan che vegliava su di lui.

In un primo momento aveva pensato che lo avrebbe divorato, invece, sorprendentemente, Crotch era rimasto mite. Ringhiava verso di lui, ma non sembrava aver mai avuto cattive intenzioni. X era giunto alla conclusione che forse Crotch avesse fatto della sconfitta patita contro i Titans una questione d’onore e che per tanto lo aveva salvato per rimettere le cose in parità. Ma naturalmente non poteva esserne certo. Avrebbe dovuto chiedere a Stella, dato che lei era l’esperta.

Poco dopo, l’arrivo delle navi di Slag avevano allarmato il Basilisco e non appena Puffy Pants aveva cominciato a ruggire, Crotch era impazzito. Forse udire il verso di altre creature faceva temere ai Leviathan che i loro territori potessero essere compromessi.

Così erano entrambi giunti al villaggio. E il resto Corvina già lo sapeva.

Sapere che, comunque, Galvor l’aveva fottuto per l’ennesima volta lo fece traboccare di odio verso di lui. Giurò che gli avrebbe strappato le corna, e poi la lingua, così avrebbe smesso di sparare a zero sugli altri.

La maga, a racconto concluso, sospirò. Sembrava piuttosto imbarazzata. «Scusa... non avrei mai dovuto pensare che tu possa aver davvero fatto ciò, e nemmeno Galvor me l’aveva mai raccontata giusta... ma, vedi, è stato Robin che...»

«Non dire altro» la anticipò X, per poi sorridere amaro. «Ho capito.»

Robin. Che grande amico che era. Sempre pronto ad accusare gli altri solo perché avevano dei precedenti. Non c’era nemmeno da arrabbiarsi con lui, lo conosceva talmente bene che quel suo comportamento non lo sorprese minimamente. Tra lui e Galvor era una bella gara, bisognava ammetterlo.

«Piuttosto... gli altri dove sono?» Rosso cambiò discorso, prima di soffermarsi troppo sull’argomento Robin. «Così almeno spieghiamo anche a loro come stanno le cose per davvero...»

Corvina trasalì all’udire quelle parole. Il ragazzo lo prese come un brutto, molto brutto segno. E la conferma di quel pensiero non tardò ad arrivare.

«I pirati li hanno catturati... volevo fermarli, ma sono arrivata troppo tardi...»

Red X non credette alle proprie orecchie. «No... Amalia...»

«Ma non è troppo tardi» asserì ancora la maga, questa volta con tono più sicuro. «Sicuramente sono sopra una di quelle navi, e sono ancora tutte e quattro ormeggiate qua sopra. Possiamo ancora andare lassù e salvarli!»

«Da soli, contro un esercito?»

«Beh...» La risposta semi pessimistica di Red X fece diminuire di un poco la determinazione della maga, ma ci pensò lo stesso Rosso a rasserenarla, sorridendo. «Ci sto.»

Come già una volta aveva fatto, avrebbe preso a calci in culo chiunque si sarebbe frapposto tra lui e la sua donna. Amalia era incinta, ed era già stata catturata una volta in passato. Non avrebbe permesso che restasse imprigionata un solo secondo di più. Doveva agire, e subito. E, oltretutto, non era solo. C’era Corvina con lui, e a conti fatti era probabilmente il migliore alleato che potesse avere.

Stella, BB o Terra non sarebbero mai stati in grado di tenere il suo ritmo, mentre con Cyborg e Robin non sarebbe mai riuscito a mantenere una solida cooperazione, avrebbero discusso ogni tre per due. Corvina invece era sveglia e stava zitta, due ottime qualità, per quello che lo riguardava.

«Ma prima mi servono le mie armi, e la mia divisa» disse ancora lui, indicandosi i vestiti di flanella ormai sgualciti. «O sarò totalmente inutile.»

«Afferrato.» La maga annuì, poi gli posò una mano sulla spalla. «Ti riporto al castello. Pronto?»

«Andiamo.»

Corvina chiuse gli occhi, mormorò la sua formula, e pochi istanti dopo svanirono da lì.

Ti salverò Amalia. Te lo prometto.

 

***

 

Amalia si rialzò lentamente, tossendo, tormentata da un fastidioso pizzicore al collo. Il punto colpito da Shyltia. Oh, ma quella donna l’avrebbe pagata cara, quella era una promessa che la tamaraniana faceva a sé stessa e che avrebbe mantenuto ad ogni costo.

«Amalia!»

Qualcuno alle sue spalle la chiamò. Si voltò di scatto e vide Terra seduta sul pavimento, appoggiata ad una parete grigia scura, guardarla sorpresa. Sembrava anche sollevata, l’aveva intuito dal suo tono di voce.

«Terra...» rispose lei, riuscendo a sedersi, girata verso la bionda. Il bruciore al collo tornò ad infastidirla e la ragazza si massaggiò, poi si guardò intorno, spaesata. «Dove siamo?»

«Siamo... siamo in prigione...» mormorò la ragazza bionda, costringendo l’aliena ad inarcare un sopracciglio.

«Che diavolo significa?» sbottò, per poi notare la barriera di energia alle sue spalle, oltre la quale poteva notarne benissimo altre di identiche. Sgranò gli occhi. «Oh, no...» Si alzò in piedi, avvicinandosi alla barriera. «Non può essere...»

Ricordi uno più sgradevole dell’altro cominciarono ad insinuarsi nella sua mente, mentre una sensazione di totale impotenza si impadroniva del suo corpo. Non di nuovo. Non di nuovo una dannata cella senza vie di fuga.

«Come diavolo ci sono finita qui?» sussurrò, per poi ripensare agli ultimi avvenimenti. La donna serpente fu il primo ricordo che si palesò. Shyltia. Amalia strinse i pugni ribollendo di rabbia. L’aveva sconfitta solamente per via di quella nausea improvvisa che l’aveva assalita. Quella schifezza strisciante nemmeno aveva idea di aver combattuto con una ragazza incinta. Ma la rabbia che stava provando in quel momento non fu nulla in confronto a ciò che arrivò dopo, quando realizzò che, se si trovavano lì, era perché i pirati li avevano trovati. Gli stessi pirati che erano stati attirati su quel pianeta da Lucas.

A quel punto, Amalia sgranò gli occhi. Cominciò a tremare, letteralmente, mentre digrignava i denti talmente forte da farsi del male alla mascella.

«Bastardo...» sibilò, velenosa, con gli occhi iniettati di sangue. «Ci hai... ci hai rovinati...»

«C-Che hai dett...»

Terra fu interrotta bruscamente dall’urlo strappa timpani di Amalia, la quale gettò il capo all’indietro e riverso al di fuori di sé tutta la collera che aveva in corpo. Aveva trascorso settimane prigioniera di Metalhead, subendo le sue angherie, le sue minacce, le sue provocazioni, aveva trascorso ogni giorno nei rimpianti, nella paura, nel terrore e se c’era una cosa che aveva desiderato quando quell’inferno era finalmente finito, era quella di non dover mai più ritrovarsi prigioniera. E invece... invece... quell’idiota di Rosso li aveva traditi, aveva attirato i pirati su Quantus solamente perché voleva andarsene da lì ed ora Amalia era chiusa in una gabbia, di nuovo.

Ma questa volta, non sarebbe durato a lungo. Sarebbe uscita da lì, a qualsiasi costo. E l’avrebbe fatta pagare cara a chiunque avesse cercato di ostacolarla, fino a quando non sarebbe riuscita a mettere le sue mani su Lucas. A quel punto, solamente dio avrebbe saputo che cosa sarebbe successo.

Si voltò verso la parete metallica alla sua destra e gli si scagliò addosso, sferrandogli un pugno con tutta la forza che aveva in corpo. Serrò la mascella, ignorando il bruciore tremendo sulle sue nocche, poi allontanò la mano dal punto che aveva colpito.

«K-Komi...» sussurrò Terra.

«Tutto questo... non sarebbe successo...» Amalia si voltò verso la ragazza bionda, rivolgendole un’occhiata che la fece sobbalzare. Non era diretta a lei, ma in quel momento era talmente furibonda che probabilmente perfino con Kori si sarebbe comportata in quel modo. «... se non fosse stato per lui...»

«C-Chi?»

«Lucas!» sbraitò la tamaraniana, per poi voltarsi e sferrare un altro pugno contro il muro, questa volta gridando anche per il dolore oltre che per la rabbia. Quella parete era dannatamente dura. Allontanò la mano, con le nocche completamente insanguinate.

«Komi, calmati, ti prego...»

«Perché calmandomi sicuramente riusciremo ad uscire da questa situazione, vero?!»

«Non ci riusciremo nemmeno se ti arrabbi inutilmente!»

A quelle parole, Amalia riuscì a calmarsi momentaneamente. Sì, Terra aveva ragione. Non doveva arrabbiarsi, non con lei, almeno. Lei non ne poteva niente.

«Adesso rilassati. Troveremo una soluzione, se manteniamo la calma.»

«Sì, sì...» Komi si appoggiò alla parete, strofinandosi le tempie. Non poteva vedere Terra intenta a scrutarla, ma riusciva comunque a percepire il suo sguardo preoccupato.

«Guarda la tua mano...» mormorò, sedendosi accanto a lei.

«Sopravvivrò» mugugnò Amalia, passandosi la mano ancora intatta tra i capelli, sospirando rumorosamente.

Il suo sguardo demoralizzato si smarrì contro il campo energetico. Non v’era più rabbia dentro di lei, adesso. Solo più una profonda ed assoluta tristezza. Quasi singhiozzò quando parlò di nuovo: «È che... io porto pur sempre suo figlio in grembo... e... non è giusto che lui non si renda conto dell’importanza di questa cosa...»

«Invece credo che ne sia a conoscenza» rispose Terra.

Komi fece una smorfia. «E tu che ne sai?»

«Perché ho avuto modo di conoscere Lucas, durante il nostro viaggio per salvarvi» rispose la bionda, seria in volto. «E so che, nel profondo, ha un cuore d’oro. Dovrete solo chiarirvi.»

«E come, se siamo chiuse qui?»

«Beh...» Terra esitò. «Non... non riesci ad usare i poteri?»

Amalia sgranò gli occhi. Solamente quando udì quella domanda si rese conto di non avere indosso nessun marchingegno particolare per inibire la sua forza, come invece Metalhead aveva fatto, e non credeva che in quella cella ci fosse alcun gas particolare. L’aliena si rialzò in piedi, osservandosi le mani, le quali si illuminarono non appena si concentrò. A quel punto, con un sorriso determinato, sferrò un raggio di luce verso il campo energetico. Tuttavia, non appena questo svanì in mezzo alla parete viola, senza lasciare alcuna traccia, la speranza si spense immediatamente.

Komi abbassò la mano, storcendo la bocca in un’espressione smorta. «Grandioso...»

Sarebbe stato bello se fosse stato davvero così semplice. Tuttavia, non era intenzionata ad arrendersi. Non così facilmente.

***

 

Red X cadde a terra scompostamente, di fronte a lei. «Ah! Dannazione!» protestò a bassa voce, rimettendosi in piedi, per poi voltarsi verso la maga. «Avvertimi quando ci teletrasportiamo in questo modo!»

«Scusa» borbottò Corvina, per poi guardarsi attorno. Ce l’aveva fatta, erano saliti sulla nave. Non era stato molto difficile, a dire il vero, le era bastato semplicemente usare i suoi poteri. La parte più complessa, però, doveva ancora arrivare.

La ragazza si guardò attorno, cercando di capire meglio come comportarsi. Si trovavano a poppa, dietro a dei grossi dispenser disposti sul fondo della nave, i quali li tenevano nascosti. Attorno a lei, la maga poteva notare tranquillamente le pianure di Quantus stagliate al di sotto del grosso velivolo spaziale. Era bello da guardare, soprattutto considerando che stava calando la sera e le prime stelle stavano iniziando a spuntare; formavano un bell’accostamento con il paesaggio verdeggiante. Peccato che quello non fosse né il luogo, né il momento per perdersi in quelle sciocchezze. Si allontano dal cornicione per sporgersi dai dispenser.

Sgranò gli occhi, realizzando quanto enorme fosse quella nave. Ci sarebbe voluta una vita a perlustrarla tutta. Sul ponte di coperta notò diversi pirati robot intenti a camminare avanti ed indietro, brandendo sciabole e pistole, conferendo loro un’aria ancora meno raccomandabile di quella che già avevano.

Una porta che doveva condurre dal ponte ai piani inferiori della nave catturò l’attenzione di Corvina. Si trovava dall’altra parte del mezzo spaziale, sotto la prua. Se c’era un luogo da cui potevano cominciare, era sicuramente quello. Dovevano solamente arrivare fin là senza farsi scoprire.

«Ok, Rosso. So cosa dobbiamo fare.»

«Dobbiamo entrare là dentro, giusto?»

Corvina sobbalzò, realizzando che per tutto il tempo X era rimasto dietro di lei, ad osservare la stessa porta.

«Non farlo mai più» sussurrò la maga, con ancora i nervi a fior di pelle.

«Scusa» rispose l’ex criminale. Nonostante indossasse la sua vecchia maschera, Corvina immaginò che stesse sorridendo divertito. Il ragazzo poi mise mano alla sua cintura, estraendo alcune delle sue lame.

La Titan inarcò un sopracciglio. «Che stai facendo?»

«Creo un diversivo» replicò lui, scagliandole oltre il cornicione, prima che lei potesse perfino esprimere o meno il proprio consenso. Queste esplosero in aria, sotto l’imbarcazione, causando un baccano di inferno che fece sussultare Corvina. Inutile dire che anche i pirati se ne accorsero.

«Ehi, che diavolo è stato?» domandò uno di loro.

«Non lo so amico, vai a vedere!» rispose un altro.

«Vacci tu!»

«No, vacci tu! Io ho di meglio da fare!»

«Beh, pure io!»

I robot iniziarono a discutere animatamente tra loro, sbraitandosi in faccia chi dovesse andare a controllare.

«Ragazzi, state calmi!» si intromise un terzo.

«E tu che diavolo vuoi?!» protestò il primo, sferrandogli un pugno, ribaltandolo.

«Ma che ti prende?! Quello era mio amico!» esclamò il secondo, aggredendo il primo, mentre il terzo si alzava nuovamente, ululando di rabbia ed unendosi alla mischia, venendo ben presto raggiunto da altri pirati. Nel giro di pochi istanti, il ponte di coperta si era trasformato in un campo di battaglia.

Corvina spalancò la bocca, basita, di fronte a quella scena. Red X, accanto a lei, commentò: «Mh. Non era quello che avevo in mente, ma potrebbe andare. Dai, muoviamoci!»

Per quanto una parte di lei avrebbe voluto continuare ad osservare quello spettacolo ai limiti dell’assurdo, Corvina decise di seguire il ragazzo. Fu abbastanza facile per loro passare inosservati mentre i pirati si massacravano di pugni e sciabolate tra loro. Non brillavano molto di intelligenza, questo era sicuro.

Non appena entrarono nel corridoio metallico oltre la porta, la maga percepì qualcosa con la propria mente. Continuò a sentirla mentre volava accanto ad X, e si faceva sempre più forte man mano che proseguivano. All’inizio aveva creduto che quella fosse la presenza dei suoi amici, ma in quel momento realizzò che, invece, si trattava di qualcosa di totalmente diverso. Qualunque cosa fosse, era troppo potente per essere solo uno dei suoi compagni.

Si fermarono quando si ritrovarono di fronte ad un bivio.

«E ora?» borbottò Rosso, guardando da entrambe le direzioni. «Questi corridoi sono tutti uguali...»

Corvina non rispose subito. Rimase concentrata su quella sensazione che stava percependo, si stava arrovellando per cercare di capire da che cosa provenisse ciò che stava percependo. Anche se un’idea già le era venuta, considerando inoltre la visione che aveva avuto in passato.

Che davvero si trattasse di...

«Ehi.» Rosso schioccò le dita di fronte a lei, facendola trasalire. «Sto parlando con te.»

«A-Ah, scusa...» rispose lei, lievemente imbarazzata. «Penso che dovremmo dividerci, comunque.»

«Era quello che pensavo anch’io» annuì X, per poi voltarsi verso il corridoio di sinistra. «Io vado da questa parte.»

«Perfetto» acconsentì la maga. Ed era davvero perfetto: era dall’altro corridoio che sentiva provenire quella presenza.

Si separarono. Un po’ Corvina si sentì in colpa per aver messo da parte il salvataggio dei suoi amici per quella semplice sensazione che stava provando, ma tutto quello non poteva essere una semplice coincidenza. Doveva andare a fondo a quella faccenda e al più presto. E, in ogni caso, c’era Rosso ad occuparsi dei loro compagni. Erano in buone mani. Forse.

 

***

 

Stella si abbracciò le gambe. Aveva udito quell’urlo terrificante provenire da una delle celle e non le era stato difficile riconoscere il timbro vocale di sua sorella. Quanto avrebbe voluto essere con lei, per confortarla, anche se la verità era che lei per prima aveva bisogno di conforto. Più rimaneva chiusa in quella cella, più osservava quelle pareti, più pensava alla sua prigionia nella nave di Metalhead. E ogni volta che pensava all’uomo rettile, brividi di disgusto e terrore la divoravano dall’interno.

Scosse la testa, cercando di allontanare quei lugubri ricordi, e sospirò. Non doveva dare di matto, non in quel momento. Si domandò dove avessero portato Robin. Ricordava che lo avevano portato via di peso dalla sua cella, strappandolo via dalle sue braccia, mentre lei li implorava piangendo di non fare lui del male. Rabbrividì di nuovo. No, Robin stava bene, doveva stare bene. Non avrebbe accettato la cosa altrimenti.

«Lo senti anche tu questo casino?» borbottò un pirata robot passando in quel momento, accanto ad un suo compagno.

«Proviene dal ponte di coperta» annuì l’altro. «Dici che è scoppiata un’altra rissa?»

«Può darsi...»

«Sai cosa significa...?»

I due si fermarono, per poi guardarsi. Le mascelle dei loro teschi meccanici si stirarono verso l’alto, in due sorrisi quasi spettrali.

«Andiamo!»

«Adesso sì che ci divertiamo!»

I due sgherri corsero verso le scale al fondo del corridoio, bracciando le loro armi. Stella li seguì con lo sguardo, senza parole. Se solo non fosse stata così critica, avrebbe trovato la situazione quasi divertente. Se non altro, i pirati erano degli aguzzini molto più gentili di Metalhead. Anche perché fino a quel momento li avevano quasi del tutto ignorati bellamente. Perfino quando Komi aveva gridato a squarciagola nessuno di loro era intervenuto. Era come se non esistessero nemmeno, per loro. Il che, era positivo.

Di fronte a lei, vide Cyborg e BB, osservare a loro volta il corridoio sorpresi. Quando si accorsero di lei, sorrisero sollevati. Anche lei sorrise e li salutò con un cenno della mano. Per fortuna stavano bene. Se non altro, erano in quella situazione insieme. E, sempre insieme, avrebbero potuto elaborare un piano per uscire.

Si avvicinò al campo magnetico, appoggiando una mano su di esso ed aprì bocca per chiamare il compagno mutaforma, ma diversi rumori provenienti sempre dal fondo del corridoio la costrinsero a rimanere in silenzio. Spostò lo sguardo, verso la porta che dava alle scale. Vide i due pirati di poco prima ruzzolare lungo i gradini, per poi crollare a terra. L’aliena sgranò gli occhi. E quando vide una terza figura sbucare dalla penombra, torreggiando sui due robot, Kori rimase esterrefatta.

 

***

 

Un baccano infernale proveniente da fuori la cabina attirò l’attenzione di tutti i presenti.

«In nome dei Blarg, ma cosa diamine sta succedendo?!» esclamò il capitano Slag, accigliandosi. «Andate a controllare!»

Caruso chinò il capo, mentre Shyltia sibilò di protesta con la lingua biforcuta. I due uscirono dalla stanza, seguiti dallo sguardo altrettanto perplesso di Robin. Il primo ufficiale del robot pirata si affacciò dal cornicione, sporgendosi sul ponte di coperta, per poi sospirare. «Un’altra rissa tra i pirati» borbottò, per poi voltarsi. «Desidera che me ne occupi?»

«Grazie Caruso, mi faresti un gran favore.»

L’essere antropomorfo annuì, poi si gettò oltre il cornicione, sempre sotto gli occhi atterriti del leader dei Titans. Ma con che razza di mentecatti stava avendo a che fare?

Shyltia, rimasta invece in disparte, si voltò verso Slag. «Posso tornarmene nella mia cabina, ora? Tanto Caruso ha tutto sotto controllo...»

«Certo. Ma ricordati che dobbiamo ancora fare una chiacchierata sul tuo rendimento.»

La donna rettile strinse i pugni, anche se cercò di non darlo a vedere. «Ricevuto...» rantolò, facendo guizzare la lingua, dalla quale diverse gocce di un liquido non ben definito schizzarono via. Solamente quando toccarono il pavimento di legno, corrodendolo, Robin si rese conto che si trattava di veleno. Roba con cui era meglio non avere assolutamente a che fare.

Quando la luogotenente di Slag uscì, il pettirosso realizzò che quella era l’occasione che stava aspettando.

«Capitano Slag» asserì, ad alta voce,

«Mh? Che cosa vuoi?» L’enorme robot si voltò verso di lui, scrutandolo piegando il capo.

«Immagino che tu ti creda l’individuo più pericoloso della galassia, dico bene?»

«Naturalmente! Tutti quanti mi temono, da queste parti!»

«E allora come mai non ho mai sentito parlare di te prima d’ora?» proseguì Robin, con un sorrisetto provocatorio. «Forse non sei poi così temuto...»

«Scempiaggini!» sbottò il pirata. «Siete voi terrestri che non siete in grado di tenere le orecchie aperte! Le mie scorribande sono state documentate in qualsiasi olo-radio esistente nel raggio di migliaia e migliaia di cubiti!»

«Credo che tu ti stia confondendo con quelle di Metalhead...»

«Ragazzino, ti consiglio di tacere. Mi stai facendo perdere le staffe, e tu non vuoi vedermi perdere le staffe!»

«Intendi dire come hai fatto poco prima, quando a malapena sei riuscito a distruggere un tavolo? Tsk, perfino mia nonna sarebbe riuscita a fare di meglio! Voglio dire, a malapena sei riuscito a sconfiggere me, un misero terrestre armato di un bastone! E davvero ti credi il più pericoloso criminale di sempre?

«Ti ho detto di tacere!»

«Lord Price trasformerà te ed i tuoi sgherri in delle teiere!»

«TACI!» ululò Slag, colpendolo con l’uncino talmente forte da scaraventarlo contro la parete, più precisamente contro uno degli schedari. Il ragazzo gridò di dolore, la sedia a cui era legato si piegò, le catene si spezzarono, il mobile alle sue spalle fu distrutto. Robin crollò a terra, gemendo, coperto da una pioggia di scartoffie, probabilmente uscite dallo schedario colpito. Tuttavia, non appena percepì le proprie braccia nuovamente libere, un sorriso di trionfo si dipinse sul suo volto. Proprio quello che voleva ottenere.

«Maledizione!» esclamò nel frattempo Slag. «Forse ho esagerato...»

Robin cercò di risollevarsi sui propri gomiti, anche se ogni movimento gli costava una fatica immane, anche a causa del dolore atroce che provava ancora per via delle ustioni.

«Ehi! Cosa credi di fare?» Slag lo raggiunse immediatamente, piantandogli la gamba di legno sulla schiena, costringendolo al suolo e strappandogli un altro verso di dolore. «Stai fermo!» il pirata si guardò attorno, facendo un verso pensieroso. Sollevò la sedia di metallo a cui il ragazzo era legato poco prima, ma era talmente malridotta che non stava nemmeno più in piedi. La gettò di nuovo al suolo, grugnendo di rabbia. «Non ti muovere, cerco qualcos’altro a cui legarti.» Allontanò il piede dal ragazzo, liberandolo.

Robin rimase a terra, ad osservare il pirata con la coda dell’occhio, mentre era intento a girare per il suo ufficio semidistrutto alla ricerca di quello che gli serviva. Adesso che era libero, doveva studiare la mossa successiva.

Una sirena cominciò a trillare all’impazzata all’improvviso, facendogli drizzare il capo di scatto, sorpreso. Perfino Slag smise di fare ciò che stava facendo. «Per tutti i Pythor, si può sapere cosa diamine sta succedendo su questa nave?!» Uscì dall’ufficio, dimenticandosi completamente di Robin, per poi affacciarsi sul ponte di comando come aveva fatto Caruso poco prima. «WALIS!» tuonò. «Che cos’è questo allarme?! Ehi, Walis! Caruso! Ma dove diavolo sei finito?! CARUSO!»

Il leader dei Titans non poté vedere cosa stesse succedendo con i propri occhi, ma non ci mise molto a fare due più due. D’altronde, in una nave con una prigione al proprio interno non potevano esserci molte motivazioni per far partire un allarme.

 

***

 

Quel posto, era davvero un dannato labirinto. Rosso non aveva la più pallida idea di dove andare, ogni corridoio era identico al precedente, le pareti di ferro, le porte grigie, sigillate, ed i neon gialli. Era tutto uguale e gli sembrava di star girando in cerchio. Smise di correre, frustrato, quando si ritrovò di fronte all’ennesimo bivio. Se pensava che tutta quella situazione era colpa di Galvor, allora la rabbia gli ribolliva in corpo come lava bollente. Quell’idiota di un fongoid aveva messo in pericolo tutti quanti, non solo Amalia, non solo il loro bambino, ma anche tutta la popolazione del villaggio, e aveva fatto ricadere la colpa su di lui. Non avrebbe mai potuto perdonarlo. Anzi, X giurò a sé stesso che se fosse uscito da quella nave con la sua ragazza e il resto dei Titans ancora tutti interi, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata andare a cercare Galvor per fargliela pagare cara e con gli interessi.

«D’accordo, Lucas, ragiona, o di questo passo non andremo da nessuna parte.»

La logica gli suggeriva che il luogo in cui si trovavano prigionieri i suoi compagni fosse nei piani più bassi della nave, pertanto doveva scendere ancora di più. E la rampa di scale che vide al fondo di uno dei due corridoi al bivio, faceva esattamente al caso suo. L’ex criminale riprese a correre e cominciò a scendere, per poi ritrovarsi su una rampa di gradini che conducevano ad una porta aperta.

Alcune voci attirarono la sua attenzione e si fermò di scatto, appiattendosi contro la parete dietro di lui.

«Sai cosa significa...?»

«Andiamo!»

Due pirati. X assottigliò le labbra. Vide le loro ombre avvicinarsi alla porta e si ritrasse, per non farsi scoprire. I due robot salirono i gradini di gran leva, quasi come se avessero fretta di arrivare al ponte. Erano così agitati che non si accorsero di Rosso fino a quando lui non sferrò un calcio al primo, facendolo ruzzolare addosso al secondo. I due urlarono per la sorpresa e rotolarono giù per le scale, crollando l’uno addosso all’altro.

Rosso sorrise e scese le scale a sua volta, oltrepassando la porta e scavalcando i due corpi privi di sensi. «Idioti» borbottò, per poi fermarsi di scatto, sgranando gli occhi da sotto la maschera. «Oh... merda...»

«Lucas?!» domandò Amalia, osservandolo da dietro un campo energetico viola.

«Rosso!» trillò Stella, gioiosa.

«Come cavolo hai fatto a salire fin qui?» fece eco BB.

Il ragazzo non rispose, ancora troppo sbigottito da ciò che si trovava di fronte a lui e, soprattutto, dalla vista di Amalia imprigionata in una di quelle celle. Nonostante lui fosse lì, per salvarla, vederla chiusa dentro quel cunicolo di ferro lo faceva infuriare come poche cose al mondo. Nessuno poteva fare quello alla sua donna. Nessuno.

Le lame esplosive apparvero fra le sue dita, mentre si avvicinava al campo energetico della cella di Komand’r. I due si osservarono attraverso la parete violacea.

«Allora ti importa ancora qualcosa di me» borbottò lei, scrutandolo con freddezza.

«Posso spiegare» rispose il ragazzo. «Non è colpa mia se siete qui.»

«Naturalmente» replicò lei, quasi con tono di scherno. «La colpa è di questo pianeta. Ho ragione?»

«No. Mi hanno incastrato.»

«Smettila. Di dire cazzate. Ti prego. Risparmiatelo.»

«Ma è la verit...»

«Potresti semplicemente farci uscire? Chiacchiereremo un’altra volta.»

X piegò il capo. Per quanto detestasse il fatto che Komi pensasse davvero che tutta quella situazione fosse colpa sua, non poteva perdere altro tempo. Doveva tirarli fuori da lì, prima che arrivassero altri pirati. Osservò la centralina dotata di tastierino al di fuori della cella, sicuramente il responsabile del funzionamento di quel campo energetico. Scaraventò una lama contro quello della cella di Amalia, quello della cella di Stella e quello della cella di BB.

«Allontanatevi» ordinò l’ex criminale, pochi secondi prima che queste esplodessero, mandando in corto circuito le barriere viola, che si disattivarono. Ma prima che potesse anche solo sorridere per quel successo, un allarme cominciò a risuonare all’impazzata per quel corridoio e, probabilmente, anche per tutto il resto della nave. La porta dalla quale era provenuto si sigillò in automatico, costringendolo a voltarsi. «Cazzo» imprecò, correndo verso di essa. Cercò di tirarla per il maniglione, ma era tutto inutile, non si sarebbe smossa nemmeno con un carro armato.

«Bel lavoro» commentò Komi, incrociando le braccia alle sue spalle. Rosso serrò la mascella.

«Smettila Amalia» la rimbeccò Terra. «Prenderlo in giro ora non serve a niente.»

Anche Stella li raggiunse, afferrando il maniglione a sua volta e tirando con tutta sé stessa, ma nemmeno la sua forza aliena fu di aiuto. «Dammi una mano Komi» asserì. La sorella maggiore si mise accanto a lei ed entrambe iniziarono a tirare, facendo parecchi versi di sforzo, ma nemmeno insieme ottennero alcun risultato.

«Niente, è bloccata!» esclamò Amalia, adirata, mentre l’allarme continuava a rintronare sopra le loro teste.

«Che facciamo?» domandò BB, arrivando in quel momento.

«Ci tocca l’altra strada» asserì Cyborg, indicando l’altra parte del corridoio, dove non sembravano esserci porte.

«E da quella parte dove si va?» interrogò il mutaforma.

«Non ne ho idea, ma sempre meglio che restare qui ad aspettare che vengano a prenderci.»

Rosso annuì. «Vada per la strada alternativa. Muoviamoci!»

Il gruppo fece per iniziare a spostarsi, ma Terra li fermò prima che potessero fare un solo passo. «Aspettate!» esclamò, ottenendo gli sguardi di tutti puntati su di lei. «E lei? La lasciamo qui?» domandò, indicando un’altra cella, dove solo in quel momento Rosso notò un altro prigioniero. O meglio, prigioniera. Perfino il resto dei ragazzi parve accorgersi di quell’aliena solo in quel momento.

Rosso scagliò una lama anche contro la centralina di quella cella, senza perdersi in altre chiacchiere. Non aveva mai visto prima di allora quella ragazza, ma non l’avrebbe certo abbandonata lì. Quando anche il suo campo di energia saltò, la prigioniera spalancò gli occhi. Osservò il gruppo di ragazzi di fronte a lei, con espressione terrorizzata, e si appiattì ancora di più contro la parete della sua cella, chiudendo gli occhi e voltandosi da un’altra parte, gemendo. Sembrava quasi che stesse per piangere.

«Ma che le prende?» domandò BB, perplesso. «Perché è spaventata? L’abbiamo appena liberata!»

«Io l’ho appena liberata» precisò Red X.

«Ed era il minimo che potessi fare» replicò Amalia.

«Komi, ascoltami...»

«Non azzardarti a chiamarmi così!»

«Smettetela!» esclamò Terra, accigliandosi. «La state spaventando ancora di più!» disse, indicando l’aliena misteriosa, che oramai era diventata un tutt’uno con il muro. Dopodiché la bionda sospirò ed entrò nella cella, avvicinandosi a lei, sollevando le mani in segno di resa. «Ehi» sussurrò, chinandosi di fronte alla prigioniera, cercando di sorriderle confortevole. «Non aver paura.»

La ragazza riaprì uno degli occhi, osservando la geomante. «Non vogliamo farti del male» continuò Terra. «Capito? Noi siamo amici.»

L’aliena continuò a guardarla, sempre con la stessa espressione spaventata, senza rispondere.

«Riesci... riesci a capire la mia lingua?»

Dopo un attimo di esitazione, la prigioniera annuì debolmente.

«Io mi chiamo Tara. Terra per gli amici. E tu? Come ti chiami?»

Le due si guardarono per qualche istante, poi l’aliena cominciò a fare dei gesti con le mani, di cui nessuno di loro comprese il significato. L’unica cosa che ad X fu palese, era che quella tizia non sapeva parlare.

«Sei... sei muta?» domandò ancora Terra. L’aliena smise di gesticolare ed abbassò il capo, annuendo flebilmente.

«Mi dispiace» mormorò la bionda, poggiandole una mano sulla spalla. «Purtroppo non conosciamo il linguaggio dei segni. Ma se vieni con noi saremo lieti di impararlo. Ok?»

L’aliena annuì ancora una volta, al che la bionda allargò il sorriso trionfale. «Forza, in piedi.» Aiutò la prigioniera ad alzarsi, la quale, poi, si fiondò sulla ragazza per stringerla in un abbraccio.

«W-Wow» fece la bionda, sorpresa, per poi ridacchiare. Ricambiò la stretta. «Coraggio, usciamo di qui!»

La prigioniera annuì di nuovo, sorridendo. Le due si separarono, poi Terra si voltò verso i propri compagni, rivolgendo loro un cenno del capo. E, senza perdere altro tempo, cominciarono a correre.

 






Mi piacerebbe dilungarmi qui per parlare di quanto questo capitolo sia importante e del significato che esso rappresenta, visto che questo è il capitolo perduto di questa storia, quello che nessuno ha mai visto, ma... mi sento troppo condizionato da eventi personali accadutomi non molto tempo fa'. La scrittura ha perso il suo sapore, le mie storie hanno perso il loro sapore, nulla di tutto questo ha ancora lo stesso significato, per me. Tuttavia, questo capitolo, e quelli che seguono, sono già pronti, quindi procederò con la pubblicazione, anche se mi sa che ci vorrà ancora un bel po' prima di vedere la conclusione di TGLU. Ammesso e concesso che riesca a scriverla. Mi dispiace, ma credetemi, quello che mi è successo mi ha abbattuto al punto che per poco ho quasi deciso di chiuderla per sempre con questo sito. Ovviamente, lo sapete, io cambio idea di continuo, quindi, per il momento, sono ancora qua. Poi, il tempo guarisce ogni ferita, come immagino saprete. Mi spiace anche per quanto schifo faccia questa nota, le cose che ho scritto non hanno quasi un filo logico, probabilmente solamente io in questo momento sto comprendendo quello che sto scrivendo, ma non mi interessa, io lo dico solo per correttezza nei vostri confronti e per non suonare ipocrita. Come al solito, tenete le dita incrociate ed alta la speranza, io cercherò di fare tutto quello che posso. A presto.

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Capitolo 22
*** I luogotenenti ***


 

XXII

I luogotenenti

 

 

Corvina accelerò, cercando di non pensare al fatto che Red X potesse avere bisogno di lei. Era un tipo sveglio, se la sarebbe cavata. Attraversò quel labirinto di corridoi, scese diverse rampe di scale, addentrandosi sempre di più nei meandri di quella nave, guidata da quella presenza che sembrava quasi la stesse chiamando a gran voce, più avanzava, più la sentiva avvicinarsi, più riusciva a percepirne la vera essenza. E più procedeva, più le sue certezze aumentavano.

Infine, si ritrovò in un’enorme stanza. Una stanza che conteneva probabilmente molto più oro e ricchezze di quante lei avrebbe mai potute vederne in tutta la vita. La maga spalancò la bocca, di fronte a tutto quel ben di dio. Vere e proprie pile di lingotti e monete d’oro, forzieri pieni straripanti di cristalli simili a diamanti, probabilmente il famoso raritanio di cui aveva sentito parlare, e altri quintali di pietre e gioielli preziosi. Quella doveva essere la stanza del bottino. Pareva quasi un hangar, tutto quanto interamente ricoperto da oro, era difficile perfino poterci camminare lì in mezzo, tant’era che era stato creato un sentiero di fortuna per permettere a chi entrava di poter passare da un lato all’altro della stanza senza difficoltà.

Tuttavia, non era dall’altro lato di quello spazio enorme che voleva andare. La presenza che aveva percepito, proveniva proprio da quella stanza. Più precisamente, da un oggetto particolare, disposto su un piedistallo. Non appena Corvina lo vide, sgranò gli occhi. L’artefatto aveva una forma piramidale, anche se a differenza delle vere piramidi, questa aveva solo tre facciate, ed era più stretto alla base ed allungato verticalmente. Sopra ogni facciata, si trovavano tre gemme di colore blu, ognuna delle quali brillava di luce propria. Strisce di colore bianco collegavano le gemme tra loro, mentre il colore dell’artefatto era nero, lucido. La corvina si avvicinò ad esso, meravigliata. Più avanzava, più lo sentiva farsi forte nella sua mente. Cominciò perfino a sentire quelli che parevano dei bisbigli, sempre nella sua mente, e sempre provenienti da quell’artefatto. Sembrava quasi che... stesse cercando di comunicare con lei.

La maga non poteva credere ai propri occhi. Ormai, non aveva più dubbi. Finalmente, riuscì a capire il significato della visione che aveva avuto. Quell’oggetto... quell’oggetto era...

«Trovato quello che cercavi?»

Una voce proveniente dalle sue spalle la fece sobbalzare. Si girò di scatto, con i sensi affinati al massimo, per poi ritrovarsi di fronte un bizzarro individuo antropomorfo dalla pelle blu.

«Spero di non averti spaventata» proseguì lui, per poi abbassare la visiera del proprio cappello, in un cenno di saluto. «Noi due non ci siamo ancora conosciuti, perciò permettimi di presentarmi: il mio nome è Von Walis Caruso. E quella...» Indicò l’artefatto. «... appartiene a me. Ti pregherei di allontanarti.»

A me...? si domandò Corvina, perplessa. Perché aveva parlato al singolare? Credeva che il bottino dei pirati appartenesse a tutti i pirati. Anche se quello, chiaramente, non era un bottino come gli altri.

Perché quella, era la Reliquia. L’artefatto in grado di donare la vita ad un intero pianeta. Ed era sempre stato lì, su quella nave. Proprio come la visione le aveva mostrato. Corvina strinse i pugni, sentendo la rabbia iniziare a pervaderla.

«Hai idea... del valore inestimabile che questo oggetto possiede?» domandò, contenendo a stento le vene di irritazione nella sua voce. «Senza di questo, Quantus rischia di morire!»

«Sì, ne ero a conoscenza» rispose il pirata, con un sorrisetto incurante. «Già all’epoca me ne resi conto. Mi chiamavano ancora... Bleck Jeck.»

«Mai sentito.»

Caruso ridacchiò. «Naturalmente. Per una che non è abituata a viaggiare per la galassia è normale. Ma... credimi, ero piuttosto famoso un tempo. Tuttavia, la fama è un’arma a doppio taglio e individui come Slag, o Darkwater, non l’hanno mai voluto capire. A volte... è meglio volare bassi, mia bella terrestre. È l’unico modo per potersi impadronire del vero potere.» E non appena finì di parlare, tese una mano verso la Reliquia. I suoi occhi si illuminarono di blu, la medesima luce sulle pietre preziose dell’artefatto, e l’oggetto si sollevò in aria autonomamente, per poi fluttuare verso il pirata, che lo afferrò saldamente.

Corvina sgranò gli occhi.

«Cambiando identità, ed entrando a far parte di questa ciurma di scarti metallici, ho imparato molte cose su questo artefatto. Come controllarlo, ad esempio. Permettimi...» Caruso sollevò l’altro braccio, questa volta rivolgendolo verso di lei. «... di farti una dimostrazione!»

Un raggio di luce azzurra accecante si proiettò dal palmo della sua mano, dirigendosi verso la corvina a gran velocità. La Titans si scansò fluttuando da terra, evitandolo per un soffio. Il raggio di luce esplose contro una pila di monete d’oro, facendole schizzare da tutte le parti. Molte rimasero carbonizzate, altre, invece, furono addirittura squagliate, diversi mucchi presero fuoco.

«Ops» osservò Caruso, sempre con quel sorriso divertito. «Credo che quella fosse la paga di Shyltia...»

La maga osservò il pirata, atterrita. Sapeva... sapeva controllare la Reliquia. Quell’oggetto così potente da dare vita ad un intero pianeta, era nelle mani di un pazzo pirata che sapeva sfruttarlo. Come diavolo poteva sperare di avere una possibilità contro qualcuno di simile?!

Un altro raggio di luce la costrinse a scansarsi nuovamente, distogliendola da quei pensieri. Un altro mucchio di monete e gemme preziose andò in fiamme, anche se Caruso non sembrò dargli molto peso.

«Facciamo così, terrestre» cominciò il pirata, scagliandole l’ennesimo raggio. «Io lascio andare te e i tuoi amici, e vi fornisco anche un Torpedo con cui lasciare il pianeta, e tu fingi di non aver mai visto la Reliquia in questa stanza. Che te ne pare? A me sembra un’occasione da cogliere al volo.»

«E tradiresti così i tuoi amici pirati?» domandò lei, con il fiato grosso.

«"Amici".» Caruso ridacchiò. «Questa sì che è bella. Non mi importa assolutamente niente di loro, né di Slag, né di Shyltia, né di nessun altro. L’unico per cui potrei dispiacermi è Shamus, ma solo perché è troppo tardo per riuscire a rendersi conto di essere sfruttato come uno schiavo. Ti consiglio di accettare la mia proposta, anche perché se non lo facessi non sopravvivresti comunque ad oggi.»

«Non posso abbandonare i fongoid» rispose Corvina, evitando l’ennesimo colpo.

«E perché no? Vi hanno tenuti prigionieri sul loro pianeta morente, costringendovi a prendere parte ad una battaglia che non era nemmeno vostra. Tu non devi loro alcun favore.»

Rachel storse le labbra. Caruso aveva ragione, i fongoid li avevano intrappolati lì su Quantus, ed inoltre Canoo le aveva impedito di aiutare i suoi amici quando ne avevano avuto bisogno, addirittura sacrificandoli ai pirati, solamente per poter proteggere lei e, di conseguenza, salvare suo pianeta. Per non parare di quello che aveva fatto Galvor. Per quanto gentili e disponibili i fongoid potessero essere sembrati, in realtà anche loro volevano semplicemente qualcosa da lei.

Tuttavia, lei non poteva abbandonarli. Anche le persone che aveva salvato a Jump City non erano sue care. Lei non aiutava la gente aspettandosi qualcosa in cambio, o perché doveva loro dei favori, o perché le conosceva personalmente, lei lo faceva perché era quello il loro dovere: era una Titan. E in quanto tale, doveva aiutare il prossimo, senza distinzioni. Proprio come avrebbe aiutato i fongoid, sconfiggendo quel pirata e riportando la Reliquia al luogo a cui apparteneva.

«Non ho ancora sentito una risposta. Sì, o no?» proseguì Caruso, sferrandole l’ennesimo attacco.

Corvina evitò pure quello, serrando la mascella. Quel tizio ora le stava facendo davvero perdere la pazienza. «Vuoi una risposta?» domandò, seccata, per poi puntargli una mano a sua volta. «Eccotela qui!»

Caruso scoppiò a ridere. «Ma cosa credi di fare, terrestr...»

Il raggio di luce nera che si liberò dal palmo della corvina fece ammutolire il pirata, che si gettò a terra per evitarlo, con un urlo di sorpreso. Walis si rimise poi in piedi, osservando basito la giovane. «Che razza di terrestre sei, tu?» domandò, facendosi improvvisamente serio.

Entrambe le mani di Corvina si illuminarono di luce nera, mentre i suoi occhi si fecero bianchi come il latte. «Non il genere di terrestre che credi.»

Il pirata osservò l’energia oscura crescere ed avvolgere il corpo della maga come un’aura. «Mh. Forse ti ho sottovalutata.»

Corvina urlò con quanto fiato aveva in corpo, poi congiunse le mani e scagliò un altro raggio di energia verso di lui. Caruso rimase immobile, mentre questo si avvicinava sempre di più. Un attimo prima di venire coperto da esso, sorrise. «Sarà una battaglia interessante.»

 

***

 

«Da che parte?» domandò Terra, quando si ritrovarono di fronte a quella biforcazione che conduceva a ben tre corridoi diversi.

«Bella domanda» replicò Rosso, mettendosi le mani sui fianchi, facendo vagare lo sguardo tra una direzione e l’altra. L’allarme continuava a suonare sulle loro teste, ormai la geocinetica non si ricordava nemmeno più come fosse la vita prima di quel frastuono infernale. L’aliena la tirò improvvisamente per la maglietta, facendola voltare verso di lei. «Cosa c’è?»

Quella cominciò ad indicare con insistenza uno dei tre corridoi, quello che proseguiva dritto. «L’uscita è di lì?» chiese Terra, confusa. «Come fai a... no, non importa. Tanto non potresti comunque rispondere.»

L’aliena nel frattempo scosse la testa, per poi ricominciare a gesticolare. Terra la osservò perplessa. «Ma come, non c’è un’uscita? E allora cosa...»

La ragazza continuò a mimare, ignorandola. Non capiva un accidente di cosa stesse facendo. Muoveva le mani, le alzava e le abbassava, sollevava le dita freneticamente; Terra non conosceva il linguaggio dei segni terrestre, figurarsi quello alieno. Non sarebbe mai riuscita ad interpretare l’aliena di quel passo.

«Sentite, perché non proseguiamo dritti e non lo scopriamo da soli che cosa c’è?» propose BB. «Voglio dire, non mi sembra che ci siano molte alternative...»

«Aspettate, e Robin? Vi siete dimenticati di lui?» Stella incrociò le braccia. «Io non me ne vado finché non lo trovo.»

«E anche Corvina è sulla nave...» borbottò Rosso.

«Corvy?» domandò Terra, sgranando gli occhi. Si rese conto di aver esagerato quando notò gli sguardi stupidi dei suoi compagni posati su di lei. «Ehm...» Si schiarì la voce, pregando di non essere arrossita. «Voglio dire... che ci fa anche lei qui?»

«Come credi che io sia salito, saltando?» rispose Red X. «Mi ha portato lei. Ci siamo divisi per trovarvi. Chissà dove diavolo è finita... non ci siamo neanche accordati su cosa fare se uno di noi vi avesse trovati...»

«E quando pensavi di dircelo?! Stavamo per andarcene senza di lei!» esclamò Amalia, accigliandosi.

«Non sarebbe successo» replicò l’ex criminale, anche lui piuttosto infastidito. «Mi credi davvero così stupido?»

«Mh, non saprei. Vuoi che ti dica la verità?»

«Era una domanda retorica!»

«Anche la mia!»

«Dateci un taglio, tutti e due!» esclamò Cyborg, il quale fino a quel momento era rimasto in disparte. Perfino l’aliena smise di mimare per tapparsi entrambe le orecchie con i palmi delle mani, facendo una smorfia quasi di dolore.

«Ehi.» Il Titan bionico attirò la sua attenzione prendendola per una spalla. Accennò con il capo al corridoio. «Da quella parte, c’è l’hangar della nave, giusto?»

La ragazza annuì, sorridendo entusiasta.

«D’accordo, allora propongo di dividerci. Io, BB e la ragazza andiamo all’hangar e vediamo di recuperare una navicella per scappare, e che magari possa anche aiutarci a tornare sulla Terra quando questa storia sarà finita, mentre voi dovrete andare a cercare Corvina e Robin. Noi vi aspetteremo.»

«Non ce n’è bisogno» disse Amalia, con un sorriso sicuro. «Io e Kori possiamo volare, se troviamo Robin lo porteremo in salvo noi.»

«E Corvina può teletrasportarsi» esordì Terra. «Ma è perfetto! Possiamo lasciare questo posto anche senza navicella!»

«D’accordo allora» annuì il Titan bionico. «Stella e Amalia, trovate Robin. Immagino che l’abbiano portato di sopra, perciò dovrete salire. X e Terra, voi cercate Corvina qui nei piani inferiori. Tutto chiaro?»

Il gruppo espresse il proprio consenso, al che Cyborg sorrise. «Bene. State tranquilli ragazzi, ce la faremo. Prendiamo a calci qualche culo di metallo!»

Terra sorrise, annuendo. Il suo sguardo cadde poi sull’aliena, che osservava Cyborg quasi estasiata. Tra un poco le apparivano perfino dei cuoricini al posto degli occhi. Qualcuna si era presa una bella sbandata, a quanto pareva. La geomante trattenne a stento una risatina di fronte a quella scena, poi si voltò verso Rosso, dandogli un pugno alla spalla. «Andiamo?»

«Sì...» rispose lui, nonostante il suo sguardo fosse ancora inchiodato su Amalia, la quale ormai si era già allontanata volando insieme alla sorella.

«Ti perdonerà, vedrai. Lasciale solo sbollire la rabbia» cercò di consolarlo. Quello non era il momento migliore per far sì che un componente della squadra valido come X si lasciasse demoralizzare da quella faccenda. Inoltre, a Terra spiaceva vedere quei due litigare: Amalia era sua amica, e la geomante rispettava Rosso per quello che aveva fatto per lei, in passato, perciò non voleva che quei due soffrissero l’uno per la mancanza dell’altra.

«Non ne sarei così sicuro» borbottò tuttavia X, per poi voltarsi e dirigersi verso il corridoio destinato a loro due, senza perdersi in ulteriori chiacchiere.

Terra sospirò, poi cominciò a seguirlo. Non dissero più nulla per tutto il tratto che percorsero. Quel silenzio non le dispiacque, anche se la bionda sentiva che più si sarebbero addentrati nei meandri di quella nave, più sarebbe stato difficile uscirne.

Proseguirono per diversi minuti, quando finalmente l’allarme sopra le loro teste si zittì. Il silenzio che si susseguì dopo fu quasi assordante. Rosso drizzò il capo, guardando verso il soffitto. «Ha smesso.»

«Ho notato. Cosa pensi significhi?»

«Non ne ho idea. Forse si spegne da solo dopo un po’. O forse significa che la situazione è sotto controllo.»

«Che intendi dire?»

«Intendo dire...» Rosso si voltò verso di lei, sempre senza smettere di correre. «... che stiamo andando esattamente dove vogliono loro.»

«Wow... macabro» commentò Terra cercando di sdrammatizzare, anche se quelle parole davvero non promettevano niente di nuovo. Inoltre, il fatto che ancora non avessero incrociato alcun pirata da quando erano stati liberati da X non faceva altro che lasciare ancora più perplessa la bionda. Non dovevano abbassare la guardia. Erano liberi, certo, ma erano ancora su quella gigantesca e labirintica nave. Era ancora troppo presto per cantare vittoria.

Questo pensiero non fece che rafforzarsi quando raggiunsero un’enorme stanza diversa da qualsiasi cosa avessero visto fino a quel momento all’interno della nave. Per prima cosa, era talmente grossa da poter contenere almeno una mezza dozzina di Torpedo – se era quello il giusto nome – inoltre era ricoperta da zolle di fango, muschi e pozze di acqua stagnante la cui profondità era difficile da intuire.

«Ma... che razza di posto è questo?» domandò Rosso, un istante prima che la porta da cui erano passati si serrasse alle loro spalle, facendoli sobbalzare. «Oh, merda...» rantolò il ragazzo, cercando di riaprirla inutilmente. «Non mi piace, non mi piace per niente...»

«E fa bene a non piacerti!» annunciò una voce sconosciuta, femminile.

Terra si voltò verso una delle pozze, dalla quale strisciò fuori una figura che la bionda scambiò in un primo momento per una sirena, per poi rendersi conto della realtà dei fatti inorridita.

«A noi non piace quando i nostri prigionieri cercano di scappare» annunciò la nuova arrivata, facendo guizzare la lingua biforcuta al di fuori delle labbra. «Non ho idea di come abbiate fatto ad uscire dalle celle, ma... un momento. Tu non c’eri prima» disse, indicando Red X con la sua mano squamosa. «Sei stato tu a liberare i prigionieri? Ma come hai fatto a salire fin qui? E perché quel costume è così sexy?»

«Sì per la A, mi ha aiutato un’amica per la B, e per la C... preferirei fingere di non aver sentito niente» borbottò Rosso, mentre le lame esplosive apparivano tra le sue dita.

«Mh... sei uno dei due terrestri che mancavano all’appello» osservò ancora la donna rettile, prendendosi il mento, per poi sorridere meschinamente. «Quindi se ti catturò potrò dimostrare a Slag che valgo tanto quanto quel leccapiedi di Caruso... e ovviamente dovrò rinchiudere di nuovo in gabbia anche te, mocciosa.»

«Non sono una mocciosa!» esclamò Terra, stringendo una mano a pugno. Non aveva mai visto quell’essere prima, ma a quel punto non le era difficile immaginare che facesse parte della ciurma di Slag. Ed inoltre, anche se l’aveva appena conosciuta, già la odiava.

«Uh, accidenti, hai perfino il coraggio di negare la realtà! Quasi mi dispiace doverti mangiare la faccia. Quasi.» La donna si ritirò di nuovo nella pozza, ridendo di gusto.

Terra sollevò un sopracciglio. «Ma... ma cosa...»

«Attenta!» gridò Rosso, saltandole addosso e spingendola via, lontana dalla pozza alle sue spalle, dalla quale la donna rettile sbucò fuori, sferzando l’aria esattamente dove un attimo prima si trovava la ragazza bionda.

Notando lo scampato pericolo, la bionda deglutì. «G-Grazie...»

«Non ci sarò sempre per salvarti la pelle» ribatté X, sollevandosi in piedi, il costume sporco di fango. «Devi iniziare a svegliarti un po’.»

Terra sentì le guance pizzicare. Cos’era, le aveva appena fatto la predica? «So badare a me stess...»

«VENITE QUI!» gridò la donna serpente tornando alla carica, sollevando gli artigli delle mani.

Terra e Red X saltarono all’indietro, evitandola una seconda volta, dopodiché il ragazzo le scagliò le proprie lame. Queste esplosero su di lei, scaraventandola via e strappandole un grido di sorpresa misto a dolore. Ma era troppo presto per cantare vittoria, perché quella si rialzò immediatamente, con i capelli arruffati e diverse bruciature sul corpo. Non c’era più alcun sorriso sul suo volto, bensì un’espressione furente. «Oh, quindi volete la guerra» rantolò, stringendo le mani a pugno. «Benissimo, guerra avrete!»

I due giovani si misero in posizione, pronti a riceverla. Terra si concentrò sull’ambiente che la circondava. Quel fango avrebbe potuto fare al caso suo; non era molto, ma era comunque meglio di niente. Avrebbe aiutato Rosso al meglio delle sue capacità.

L’aliena fletté la coda, poi scattò verso di loro a velocità disumana, spalancando le fauci e mostrando i suoi tre incisivi lunghi ed affilati. Ma un secondo prima che potessero rispondere all’attacco, quella si gettò a terra, gridando quasi terrorizzata. Terra sollevò un sopracciglio, perplessa, e anche Rosso parve per un attimo incerto sul da farsi.

«Vi prego... non fatemi del male...» sussurrò, con voce implorante. Una voce totalmente diversa da quella che aveva usato poco prima. Non era più acida, acuta, fastidiosa, ora era calda, melodiosa, soave.

Terra batté le palpebre, confusa, cominciando a sentire la testa girare. Cercò di rimettere a fuoco la vipera, ma quando lo fece, non vide più la sua pelle squamosa e gialla, non vide più gli incisivi appuntiti od i capelli verdi. Non vide più quel ripugnante ibrido tra una donna ed un serpente, vide una donna e basta. Una donna bellissima, con i capelli castani, gli occhi color oro, la pelle rosa ed un’espressione dolce, indifesa, sensuale.

La ragazza bionda rimase immobile, paralizzata, con le labbra dischiuse. La sua mente rifiutava di collaborare con lei. Ma che stava succedendo? Da dove saltava fuori quella donna? Dov’era finita la vipera? Accanto a lei, perfino Rosso sembrava star pensando le stesse cose. Ma non poterono rifletterci a lungo, perché quella si gettò su di loro di scatto, sollevando le mani. Prima che Terra potesse anche solo rendersi conto di cosa stesse succedendo, si ritrovò stesa sul suolo, con un taglio terribilmente doloroso sulla guancia.

Poté udire la donna ridere, ma questa volta, anziché quella voce melodiosa, udì di nuovo quella fredda della vipera. «Troppo facile!»

Terra cercò di risollevarsi, con la guancia che doleva e sanguinava terribilmente. Accanto a lei, perfino Rosso si rimise in ginocchio, la maschera strappata che lasciava scoperto il suo volto altrettanto martoriato. «Ma come diavolo ha fatto...?» rantolò.

«Che... che intendi dire?»

«Quella donna... non è reale. È... è sempre lei. È un’illusione!»

La geocinetica sgranò gli occhi. Tutto quanto le era sembrato così reale... e quella donna così... così bella...

«Taci!» gridò ancora la vipera, frustando il moro con la propria coda, scaraventandolo di nuovo a sul fango.

«R-Rosso...» sussurrò Terra, voltandosi di nuovo verso l’aliena, anche se al suo posto trovò, nuovamente, la donna di poco prima, che le sorrise. «Non ascoltarlo, ti sta mentendo. Io sono davvero qui.»

La bionda scosse la testa, confusa, con le tempie che quasi le facevano male per lo sforzo di concentrarsi e capire che cosa diamine stesse succedendo. Quella esitazione, tuttavia, le costò cara: ricevette un ceffone dritto sulla guancia martoriata, strappandole un grido di dolore e facendola crollare di nuovo a terra. Udì poi un sibilo, ed un istante dopo la sua schiena stava bruciando terribilmente. Sollevò il capo ed urlò nuovamente con tutto il fiato che aveva in corpo, mentre sentiva la propria schiena quasi venire arsa da un tizzone ardente.

«In genere la mia illusione non funziona sulle altre donne» gracchiò l’aliena, frustandola con la coda una seconda volta, strappandole un altro grido. «Ma direi che questa volta sono stata baciata dalla fortuna!»

«T-Terr-AH!» Anche Rosso fu colpito nuovamente, con la risata deliziata della vipera in sottofondo.

«Silenzio, bocconcino.»

La geocinetica cercò di risollevarsi, con le braccia che tremavano a causa del dolore e le lacrime agli occhi. Ancora una volta, di fronte a lei vide quella donna bellissima. Del mostro con cui stavano combattendo, nessuna traccia.

«D-Devi combatterla, Terra. D-Devi... AGH!» Un’altra frustrata costrinse Red X ad interrompersi, prima che anche la stessa bionda ne ricevesse una, sull’altra guancia. Terra crollò ancora una volta, con il sapore metallico del sangue in bocca e la vista appannata, sia dalle lacrime che dal dolore straziante che le divorava la schiena ed il volto.

«Tra l’altro, non mi sono ancora presentata: mi chiamo Shyltia.» La donna prese la bionda per le guance, sollevandole la testa e costringendola a guardarla. Ancora una volta, Terra si smarrì negli stupendi occhi color oro di quella donna stupenda. «E questa qui, è la mia sala giochi. Volete sapere quali sono i miei giochi preferiti?» Leccò la guancia della bionda, facendo passare la sua lingua umida sulla ferita che ancora sanguinava a dirotto. Terra provò un bruciore intenso e gemette, ma, allo stesso tempo, brividi di ogni genere le attraversarono la schiena. «Gli esseri umani» concluse Shyltia, per poi morderle il labbro con forza.

La bionda sgranò gli occhi per il dolore e per la sorpresa. Cercò di dimenarsi, ma più lo faceva, più le labbra le bruciavano. Sembrava quasi che stesse per strappargliele via dal volto. Sentì la saliva dal sapore dolciastro della donna mischiarsi con la sua e le venne un conato di vomito. Quando, finalmente, Shyltia la lasciò andare, Terra cadde esanime, percependo un forte pizzicore al labbro inferiore. Le sembrava quasi che si stesse gonfiando, come se lo avessero appena anestetizzato. Era una sensazione stranissima.

«E una è sistemata» commentò Shyltia, ancora nel suo campo visivo, per poi voltarsi verso Rosso ed inumidirsi le labbra, quasi eccitata. «Ora però tocca alla portata principale...»

Quando Terra cominciò a realizzare cosa stesse davvero accadendo, ormai non riusciva già più a muoversi. Tentò di chiamare Rosso, di avvertirlo, ma dalla sua bocca non uscì altro che un sussurrò impercepibile. Sentiva i propri sensi ridursi sempre di più man mano che passava il tempo, il suo respiro si faceva sempre più profondo ed irregolare e le era sempre più difficile tenere gli occhi aperti. Cercò di resistere, di trovare la forza per rialzarsi e combattere, ma non ci riusciva. Provò e riprovò, fino a quando non si rese conto che, forse, poteva concederselo un momento per riposare. Solo un attimo, pochi minuti, e dopo si sarebbe rialzata di nuovo, più forte che mai.

Chiuse gli occhi, accennando un sorriso. Sì, poteva riposarsi un attimo. 

 

***

 

«Come hai fatto a capire che intendesse che da questa parte ci fosse l’hangar?» domandò BB, mentre correva a fianco di Cyborg e dell’aliena.

«Da qualche parte dovranno pur provenire tutte quelle navicelle che ci hanno scagliato contro la prima volta, no?» replicò Cyborg.

«Beh... non fa una piega» ammise il mutaforma, per poi rivolgersi all’aliena. Non voleva ammetterlo apertamente, ma quella era una delle ragazze più carine che avesse mai visto. «E come facevi a sapere che proprio da questa parte c’era l’hangar?»

Quella lo guardò perplessa. Solo in quel momento BB ricordò che non poteva parlare. Continuava a scordarlo.

«Avrà memorizzato il tragitto» rispose Cyborg al suo posto, ottenendo un cenno di assenso del capo da parte dell’aliena, che sorrise gioiosa. Sembrava felice che qualcuno riuscisse finalmente a capirla. A Beast Boy sarebbe piaciuto moltissimo chiederle anche perché i pirati l’avessero catturata, ma dubitava che sarebbero riusciti a comprendere la risposta, questa volta. E comunque, non avevano tempo per perdersi in chiacchiere.

Finalmente raggiunsero l’hangar al fondo del corridoio. Non appena lo fecero, BB rimase a bocca aperta. Aveva immaginato che fosse grande, ma non così grande. Si trovavano su una passerella sopraelevata, che si affacciava su uno spiazzare grosso come un campo da football ed era pieno zeppo di quelle piccole navi – i Torpedo, se la memoria non lo ingannava – disposti gli uni affianco agli altri ai lati dell’hangar, sopra delle pedane sollevate da terra di almeno quattro metri. Al fondo di quell’enorme spazio, potevano notare un enorme portellone chiuso, in diagonale, sicuramente la rampa da cui le navicelle partivano. In centro, infine, si trovava parcheggiata una nave grossa almeno dieci volte le altre, sembrava un cargo.

«D’accordo» esordì Cyborg, mentre i tre avanzavano per l’hangar. «Cercherò di far partire una di queste navi, dopodiché ci occuperemo di quel portone.»

BB si guardò attorno, perplesso. «Mh. È stato facil...»

«Ehi, voi!» esclamò una voce all’improvviso, facendolo trasalire. Da dietro la nave cargo sbucarono un gruppetto di pirati, capitanati da uno grosso quanto tutti gli altri messi insieme. Quando lo vide, il verdolo spalancò gli occhi. Quello era il luogotenente che lo aveva catturato, Shamus. A quel ricordo, il mutaforma strinse i pugni per la rabbia, sentendo il proprio sangue ribollire nelle vene. Lo aveva sconfitto solamente perché era stato attaccato alle spalle, se non avesse giocato sporco probabilmente non lo avrebbero mai catturato, anzi.

Sono pirati. Cosa ti aspettavi da loro, una stretta di mano e niente colpi sotto la cintura?

«Ma perché non ti tappi mai la bocca?» borbottò Cyborg nel frattempo, mentre il gruppo di robot si avvicinava a loro, bracciando le armi. Il trio si strinse e BB si ritrovò accanto alla ragazza, che gli scoccò a sua volta un’occhiata accusatoria. Il mutaforma si sentì avvampare.

«Che c’è? Andiamo, sarebbe successo anche se non avessi detto niente!»

«Che avete da confabulare? E come avete fatto ad uscire dalle celle?» domandò ancora Shamus, per poi posare lo sguardo su BB. A quel punto, grugnì per la sorpresa. «Ma tu... io ti conosco. Sei il moscerino che ho schiacciato nel villaggio!»

BB serrò la mascella. «Solo perché ti sei fatto aiutare dai tuoi schiavetti!»

«Bada a come parli, se non vuoi che ti sprema la testa come un foruncolo!»

«Chiederai aiuto ai tuoi leccapiedi anche per questo?»

«Ora mi hai stancato. Catturateli!» I pirati si avvicinarono a loro, sollevando le sciabole e sghignazzando.

«Cy, ci penso io a loro. Voi due occupatevi della navicella!»

«Ne sei sicuro, BB?» domandò il robot, tramutando il braccio nel cannone. «Se vuoi posso provare a...»

«No, Cyborg. Non rischiare di scaricarti. La tua vista ci serve.»

Il titan bionico lo osservò perplesso per un breve istante, poi sospirò. «Spero tu sappia quello che stai facendo.»

«Fidati di me» sorrise BB, sicuro di sé.

Cyborg annuì, poi lui e l’aliena si allontanarono di corsa, al che Shamus parve indignarsi. «Che state facendo?! Tornate qui! Prendeteli!»

I pirati fecero per rincorrerli, ma Beast Boy si frappose tra loro. «Oh no. Sono io il vostro avversario!» Si trasformò in un gorilla e saltò addosso ai robot ruggendo furibondo. Questi, colti alla sprovvista, non riuscirono a reagire in tempo. Il primate strappo i loro arti come se fossero di pasta frolla e li colpì uno dietro l’altro mandandoli al tappeto come birilli. Non ci mise molto a sistemare tutti i piccoletti, e quando anche l’ultimo crollò a terra senza braccia, gambe e testa, rimasero solamente più lui e Shamus, interdetto.

«Ma... ma come...»

«Pensi ancora che io sia un insignificante terrestre?!» lo incalzò BB, tornando normale. «Ti farò a pezzi e ti trasformerò in una lattina!»

Shamus grugnì di rabbia. «Quei pirati erano un branco di incapaci! Ti faccio vedere io cos’è un vero pirata della ciurma di Slag!»

Il luogotenente partì alla carica, muovendosi sulle sue gambette minuscole ed aiutato anche dal lungo braccio usato a mo’ di bastone. BB quasi scoppiò a ridere di fronte a quel suo modo ridicolo di spostarsi. Se quel tizio credeva si spaventarlo, si sbagliava di grosso. Saltò all’indietro, evitando un pugno che sfondò il pavimento metallico, poi si tramutò in falco e si fiondò sul volto del luogotenente, piantando i suoi artigli sulla sua testa minuscola e grinzosa, strappandogli dei grugniti infastiditi. «Ehi, scendi subito! Falla finita, pidocchio!» Riuscì a scacciarlo colpendolo con una mano, facendolo cadere a terra e mugugnare di dolore, ma non ci mise molto a rialzarsi e ad evitare di essere calpestato.

«Tutto qui quello che sai fare, moscerino?»

«Ho appena iniziato, lattina!»

All’urlo rabbioso del pirata, BB sorrise. Fargli perdere il controllo era uno scherzo. E il piatto forte doveva ancora arrivare. Si incurvò su sé stesso ed iniziò a gridare per lo sforzo, mentre Shamus rimaneva fermo, attonito, di fronte a lui. Le braccia, le gambe, il busto, l’intero colpo del mutaforma cominciarono ad espandersi. Aveva fallito una volta quella trasformazione, ma ora, senza nessuno che potesse interferire, nulla avrebbe impedito alla Bestia di poter di nuovo prendere vita.

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Capitolo 23
*** Inizia la battaglia ***


 

 

XXIII

Inizia la battaglia 

 

 

 

Amalia era felice di sapere che Rosso stesse bene? Sì. Era felice di rivederlo? No. Una parte di lei ancora non voleva perdonarlo per ciò che aveva fatto, attirando i pirati sul pianeta. Un’altra parte di lei, invece, credeva alle sue parole, credeva al fatto che fosse davvero stato incastrato, perché sapeva che Rosso la amava davvero, non voleva perderla, e che pertanto non avrebbe mai fatto nulla per ferirla. In ogni caso, non poteva pensarci così tanto proprio in quel momento, era il motivo per cui era rimasta con Kori, voleva aiutarla a salvare Robin, certamente, ma voleva anche smettere di pensare al suo fidanzato.

Non riuscendoci, naturalmente. Inoltre, il fatto che Stella non stesse spiccicando una sola parola non aiutava. Salirono una rampa di scale a gran velocità, ritrovandosi di fronte ad un’altra porta chiusa. Solo che questa, in quel caso, non era sigillata. Varcarono la soglia con furore, ignorando completamente il fatto che dall’altra parte potessero esserci dei pirati, cosa che si rivelò veritiera.

Due pirati, stravaccati su delle sedie, sobbalzarono quando le videro entrare.

«Oh... ecco dov’erano le due tamaraniane...» borbottò uno di loro, prima che Amalia gli staccasse la testa con un pugno e Stella si occupasse dell’altro. Sistemato il problema, le due sorelle si guardarono attorno.

«Che posto è questo?» domandò poi Kori, guardandosi attorno. Komi la imitò, facendo caso solo in quel momento all’ambiente che la circondava. Una stanza grigia scusa come le altre, buia, illuminata solo da un paio di monitor appesi alla parete, di fronte alla quale si trovavano le due sedie su cui erano seduti i pirati. I monitor raffiguravano diversi corridoi, le celle della prigione, il ponte di coperta dove decine e decine di pirati si trovavano privi di sensi e, per finire, altre due stanze in particolare. Amalia dischiuse le labbra: quello era un locale di videosorveglianza. E nei due monitor di fronte a lei...

«Robin!» esclamò Stella, notando il giovane sdraiato a terra, il corpo pieno di contusioni, all’interno di quello che pareva un ufficio completamente distrutto. Sembrava stare bene, anche se sicuramente doveva aver passato tempi migliori.

«Che sia l’ufficio di Slag?» domandò ancora Kori, anche se sua sorella era concentrata su tutt’altro. Nell’altro monitor, erano raffigurate tre figure che riconobbe immediatamente: Lucas, Terra e, per finire, quella schifezza vivente di Shyltia. Non appena l’aliena vide la donna rettile frustare sia Rosso che la ragazza bionda con la sua coda, la tamaraniane sgranò gli occhi. La vipera stava dominando, letteralmente i due ragazzi. Amalia non credeva ai propri occhi. Com’era possibile? Li avrebbe uccisi continuando di quel passo! E perfino Stella se ne rese conto.

«Oh, no!» fece, inorridita. «Dobbiamo andare ad aiutarli!»

«No» rispose Komi, ferma, gli occhi fissi sul monitor. «Ci vado da sola. Tu salva Robin. Guarda, quello è Slag» disse, indicando il ponte di coperta, dove il pirata panzone si stava sbracciando da un corrimano. «Quello dietro di lui deve essere il suo ufficio, sicuramente Robin è lì dentro. Devi raggiungere il ponte!»

Stella la guardò, mordendosi un labbro. «Ne sei sicura, Komi?»

«Sì» rispose la maggiore, seria in volto. «Ho un conto in sospeso con quella puttana» ed indicò Shyltia, la quale, nonostante non ci fosse alcun audio, stava chiaramente ridendo di gusto a giudicare dalla sua espressione.

Malgrado la situazione, Stella riuscì a sorridere. «Va bene, Komi... non farle troppo male.»

«Non posso fare promesse» replicò la mora, dandole le spalle. «Buona fortuna Kori.»

«Buona fortuna, Komi... ti voglio bene.»

Amalia ebbe un tuffo al cuore udendo quelle parole. Sentì le labbra tremolare, come al solito colta alla sprovvista dalla dolcezza della sua sorellina. Si voltò di nuovo, sorridendole appena. «Anch’io.»

Le due ragazze si separarono.

 

***

 

Corvina sapeva di non dover cantare vittoria così presto. Infatti, quando il suo raggio di energia svanì, Caruso era ancora di fronte a lei, illeso, sorridente.

«Sono curioso, davvero» cominciò il pirata, incrociando le braccia. «Quali sono le tue origini, bella terrestre?»

La maga serrò la mascella. «Provengo da un satellite della Terra» rispose, senza nemmeno saperne il motivo. «Mio padre era un demone da cui ho ereditato i miei poteri, mia madre, invece, è una donna normalissima.»

«Davvero?» domandò Caruso. «Ne ho viste di cotte e di crude nei miei anni da pirata. Mostri, sirene, alieni, spettri, maledizioni. Ma demoni? Non avrei mai pensato di incontrare la discendente di uno di essi. Mi sento quasi onorato.» Il luogotenente ridacchiò. «Tu pensa l’ironia. Una figlia di un demone che cerca di fare del bene con la sua magia nera, ed un pirata malvagio che utilizza l’energia benefica di questo artefatto per perseguire i suoi scopi egoistici.»

«Ci sono delle ideologie di base sbagliate...» commentò la maga, strappando un altro risolino al suo avversario.

«Indubbiamente. Allora, avanti.» La invitò ad attaccarla di nuovo con un cenno delle mani. «Mostrami la tua forza, mezza demone!»

Corvina cominciò a perdere la pazienza. Odiava quelli come lui, quelli che si fingevano cordiali con lei, con loro, quando poi in realtà non avrebbero esitato un attimo ad ucciderli. Che senso aveva comportarsi in quel modo? Non lo sapeva, ma non aveva importanza: avrebbe cancellato quel sorriso irritante dal suo volto. «Azarath Mitrion Zintos!» La maga gridò il proprio mantra, dopodiché liberò l’energia dai propri palmi, indirizzandola verso Caruso.

A questo, però, basto sollevare una sola mano per proteggersi. La ragazza spalancò gli occhi. «Tutto qui?» domandò Caruso, apparendo quasi deluso. «Mezza demone, dovrai fare molto di più per avere la meglio su di me.»

Dannazione..., pensò la maga. Il potere della Reliquia era nelle sue mani. Poteva davvero fronteggiare un potere così immenso? Il raggio di luce azzurra che le arrivò in piena faccia la costrinse a distogliere la propria mente da quel quesito. Si gettò a terra, evitando per un soffio quel colpo sicuramente mortale.

«Andiamo, mezza demone!» la incalzò Caruso, tempestandola di colpi. «Regalami uno scontro degno di essere definito tale!»

Corvina non aveva nemmeno il tempo per respirare, talmente era impegnata a non farsi uccidere, figurarsi formulare una risposta. Si alzò in volo, per potersi muovere con più rapidità, mentre attorno a lei pile di monete e forzieri ricolmi di tesori esplodevano. Tutto ciò non sarebbe piaciuto per niente a Slag se solo avesse visto cosa diamine stesse accadendo.

«Accidenti, credo proprio che questa settimana le buste paghe dei membri della ciurma verranno alleggerite notevolmente» commentò Walis, ridendo di gusto. A lui non importava niente dei soldi, constatò Corvina. Non gli importava niente né dei soldi, né dei pirati, né di nessun’altro. A lui interessava solamente possedere la Reliquia. E lei doveva strappargliela via, a tutti i costi. Non poteva continuare ad evitare i suoi attacchi senza reagire, o non avrebbe concluso niente. Se voleva salvare Quantus, se voleva tornare finalmente a casa, doveva recuperarla. Doveva sconfiggerlo.

Corvina strinse i pugni e si concentrò, cercando di attingere a tutta la forza che possedeva dentro di sé, una forza molto più grande e molto più spaventosa di quanto si potesse davvero immaginare. Del resto, ini lei scorreva pur sempre il sangue di uno dei demoni più potenti, se non il più potente, di sempre. La Reliquia creava i mondi, Trigon, invece, li distruggeva. Quelle due forze potevano anche opporsi, ma erano pur sempre pari tra loro. Aveva una possibilità. Doveva solo sperare di non lasciare che la sua magia nera diventasse nera per davvero. Doveva salvare quel mondo, non distruggerlo.

La maga gridò con quanto fiato avesse in corpo, mentre l’aura nera che la circondava si faceva più intensa. Scese a terra, per poi rispondere al fuoco.

«Finalmente!» esclamò Walis, per poi scagliare un altro raggio di luce blu a sua volta. I due coni di luce si scortarono tra loro, creato un boato che spazzo via ogni cosa si trovasse abbastanza vicino. Nel giro di pochi istanti, un enorme spiazzale si creò nel punto esatto in cui loro due stavano combattendo, mentre il resto delle monete e dei forzieri fu catapultato ai lati della grande stanza.

«Sì, questo è quello che volevo!» esclamò Caruso, con entrambi gli occhi ora illuminati di blu. Se prima aveva ancora un briciolo di autocontrollo, ora questo era assente. Si era lasciato completamente assuefare dal potere della Reliquia, l’aura che lo avvolgeva era accecante ed il suono della sua risata diventava sempre più isterico man mano che i secondi passavano. Non che Rachel fosse messa tanto meglio, anche i suoi occhi, ora, erano rossi.

E a quel punto, il vero scontro tra bene e male poté cominciare.

 

***

 

Robin annaspò, mentre Slag continuava a sbraitare da fuori l’ufficio, inveendo il nome di Caruso e quello del resto dei pirati senza ottenere alcuna risposta. Si rimise lentamente in piedi, gemendo per ogni minimo sforzo che fece, appoggiandosi alla parete.

«Ehi!» esclamò Slag rientrando nella stanza ed accorgendosi di lui. «Ti avevo detto di restare a terra!» Urlò frustrato e si fiondò su di lui sollevando l’uncino. Robin si scansò gettandosi sul pavimento un istante prima di venire trafitto al volto. L’uncino trapassò la parete di ferro come se fosse fatta di burro, al che il ragazzo deglutì pensando a cosa aveva appena evitato.

Il pirata fece un verso sorpreso, dopodiché cercò di staccarsi dal muro, tuttavia non riuscendoci. Cominciò a tirare l’uncino con forza, grugnendo per la fatica, ma nulla, ogni tentativo di liberarsi fu vano. «Per mille Pythor!» commentò. «Forse ho esagerato... ehi, dove vai?! Torna qui!» ordinò, mentre Robin, di nuovo in piedi, si avviava barcollando verso l’uscita. Il leader dei Titans poté udire alle sue spalle i versi frustrati di Slag mentre cercava di staccare l’uncino dal muro.

Una volta fuori, Robin rimase senza fiato di fronte l’immagine dell’enorme ponte di coperta della nave. Da lassù, il mezzo spaziale sembrava ancora più grande. Robin zoppicò verso il corrimano, aggrappandosi ad esso ed utilizzandolo per rimanere in piedi mentre scendeva una rampa di scale che conduceva al ponte. Non aveva un piano ben preciso, doveva fuggire, ma doveva anche scoprire cosa fosse successo ai suoi amici.

Terminati i gradini, il moro si ritrovò di fronte ad uno spettacolo surreale: attorno all’albero maestro, decine e decine di pirati si trovavano a terra, privi di sensi, alcuni perfino con alcune parti del corpo, quali gambe e braccia, mancanti. Robin rimase a bocca aperta. Erano quelli i risultati della famosa "rissa" di poco prima? Più che una zuffa, quella doveva essere stata una guerra, osservò il ragazzo mentre si avvicinava ai corpi esanimi.

«EHI!» urlò Slag alle sue spalle, facendolo voltare di scatto. Era riuscito a liberarsi e sembrava più incavolato che mai. «Smettila di disobbedirmi, miserabile! Torna qui!» Con un verso adirato, il capitano della nave scavalcò il corrimano con un balzo, fiondandosi sul ponte direttamente dal pianerottolo di fronte al suo ufficio. Tuttavia, non aveva fatto i conti con il suo peso, e con il legno di cui il ponte era composto. Il pirata sfondò il pavimento, ritrovandosi sepolto fino al petto nel legno. «AH! Che mi venga un accidente!» esclamò, rendendosi conto di aver commesso un altro errore di valutazione. «Stupida nave decrepita!»

Se solo la situazione non fosse stata tanto grave, Robin avrebbe perfino riso di fronte a quella scena. Peccato però che non potesse permetterselo. Si voltò, approfittando di quei pochi secondi di tempo guadagnati, per raccogliere una sciabola da terra. Non la prese con l’intenzione di combattere, in quelle condizioni non ci sarebbe mai riuscito, tuttavia non poteva rimanere disarmato.

«Ora mi stai davvero facendo perdere la pazienza!» Slag urlò furibondo, per poi tirarsi fuori con forza dal cratere che aveva creato. «Torna qui, SUBITO!»

Robin non ci provò nemmeno a rispondere di non essere minimamente interessato ad obbedire, allontanandosi il più possibile da lui, anche se le sue condizioni fisiche non gli erano molto d’aiuto. Ma la sua fuga non durò a lungo: Slag gli fu addosso in tempo zero, sollevando ancora una volta l’uncino. Lo abbatté su di lui e il ragazzo fu costretto a voltarsi e a proteggersi con la spada. Riuscì a parare l’attacco, ma il contraccolpo lo spedì a terra, facendolo gemere, e disarmandolo.

Il pirata sollevò la gamba di legno, cercando di infilzarlo al suolo, ma il ragazzo rotolò di lato, evitandolo. Il piede del robot si conficcò nel legno, strappandogli un grido infastidito. Robin si rimise in piedi e cercò di scappare ancora una volta, sempre zoppicando. Slag cercò di raggiungerlo con l’uncino, ma il leader dei Titans si scansò ancora una volta, evitandolo per un soffio.

«Smettila di scappare, codardo!» Il capitano robot tentò diverse altre volte di trafiggerlo, sempre senza successo. Robin serrò la mascella, evitando l’ennesimo attacco. Non poteva continuare in quel modo. Era troppo debole e troppo ferito per poter combattere alla pari con il robot, prima o poi avrebbe sicuramente commesso un passo falso. Tuttavia, non poteva arrendersi, non ora che era finalmente libero.

«Se non ti fermi subito ti arrostisco di nuovo!»

La minaccia di Slag gli fece sgranare gli occhi. Una nuova idea gli attraversò la mente, forse perfino più folle della prima, ma se non altro era l’unico modo per poter avere un qualsivoglia di vantaggio sul suo avversario. Continuò a saltare e a rotolare evitando gli attacchi del robot, fino a quando non si ritrovò di fronte all’albero maestro. «Se fossi bravo ad agire anche solo la metà di quanto lo sei a blaterare, a quest’ora saresti davvero il più grande criminale di sempre!»

La provocazione portò ai risultati sperati: Slag urlò furibondo ancora una volta, per poi sporgersi verso di lui spalancando le fauci. Una lingua di fuoco fuoriuscì dalla sua gola metallica, fiondandosi sul moro a velocità disarmante. Robin si scansò ancora una volta, percependo quel calore devastante sulla pelle, e le fiamme andarono a colpire l’albero maestro che, composto di legno a sua volta, cominciò a bruciare. Non appena il pirata si rese conto di ciò che aveva fatto, spalancò gli occhi. «NO!» urlò, mentre le fiamme divoravano l’albero e scendevano a terra, cominciando ad espandersi anche lungo il ponte. «La mia nave!»

Robin barcollò, allontanandosi il più possibile da Slag e, ora, anche dalle fiamme. Il robot si dimenticò completamente di Robin e cercò di domare l’incendio, calpestando il pavimento di legno, ma era tutto inutile: ormai il fuoco aveva preso. Il suo urlò frustrato fece rabbrividire il ragazzo, che cominciò a credere di aver perfino esagerato, questa volta.

«Miserabile, è tutta colpa tua!» ululò Slag, voltandosi e correndogli incontro a velocità disumana. Robin cercò di evitarlo ancora una volta, ma il pirata, spinto dalla rabbia, fu troppo veloce. Robin fu colpito con il piatto dell’uncino al petto e scaraventato a decine di metri di distanza. Crollò contro il cornicione, la vista che si offuscava a causa del dolore. Vide a stento Slag avvicinarsi a lui con lentezza straziante, circondato dalle fiamme che stavano divorando il ponte. Il nero della notte, il rosso e l’arancione dell’incendio, gli occhi brillanti del robot e la sua figura imponente e scura che si faceva sempre più vicina davano a quel momento un qualcosa di quasi spettrale. Di sicuro, quelli erano il luogo e la compagnia che Robin avrebbe gradito meno di tutti.

Cercò di sollevarsi nuovamente, ma una fitta di dolore che gli attraversò l’intero corpo lo costrinse a rimanere a terra.

«Ora... non scapperai più.» Slag lo raggiunse osservandolo dall’alto con odio. Dopodiché piantò con forza la gamba di legno sul ginocchio del moro. Un orribile crack si udì, seguito immediatamente dopo da uno straziante urlo di dolore. Sarebbe perfino svenuto se solo la mano del pirata non si fosse avvolta attorno al suo collo, sollevandolo da terra.

«Mi hai causato un mucchio di problemi, pulcioso terrestre, e ora la pagherai cara.» Il robot ghignò, apparendo ancora più inquietante. «Nulla mi vieta di consegnarti al Dominio, morto

Robin spalancò gli occhi, mentre la stretta attorno al suo collo si faceva sempre più forte. Tutto quanto cominciò ad offuscarsi attorno a lui. Ma proprio mentre pensava che quegli occhi spettrali sarebbero stati l’ultima cosa che avrebbe mai visto, un urlo sopraggiunse, dal tono di voce che avrebbe potuto riconoscere tra milioni.

«ROBIN!»

 

***

 

Shamus rimase immobile, da babbeo qual era, mentre il ragazzo si trasformava in ciò che avrebbe sicuramente segnato la condanna del grosso robot.

«Pensi davvero che trasformandoti in quella specie di yeti tu possa...»

«Chiudi quella fogna» rantolò BB, prima di ruggire di rabbia e perdere completamente il dono della parola. La Bestia si fiondò sul luogotenente con estrema velocità, colpendolo talmente forte da spedirlo all’indietro, facendolo cadere. Vi fu un boato assordante, il pavimento tremò perfino, mentre Shamus ruzzolava sul suolo gridando per la sorpresa, con un’ammaccatura enorme sullo sportellone che aveva sul petto.

Cyborg osservò la scena meravigliato. Non credeva che avrebbe mai più rivisto BB trasformarsi nella Bestia, ma era successo. E, forse, quella era la cosa migliore che potesse capitare. Doveva solo sperare che il mutaforma mantenesse il controllo.

L’aliena tirò Cyborg per il braccio, riportandolo alla realtà. Giusto, non c’era tempo da perdere.

I due corsero ad un Torpedo, mentre la Bestia e Shamus ingaggiavano un combattimento furioso. Il pirata di era rialzato e non aveva per niente gradito ciò che il mutaforma gli aveva fatto. Il clangore del metallo che veniva colpito dai pugni della Bestia, i versi disumani di quest’ultima e quelli furibondi del luogotenente furono gli unici rumori che si poterono udire per i minuti successivi.

«Dobbiamo riuscire ad aprirla» spiegò Cyborg, una volta di fronte alla piccola navicella, tuttavia grattandosi il capo poco dopo. «Anche se... forse è troppo piccola per tutti noi.» Il ragazzo sospirò. Come avrebbero potuto lasciare il pianeta con un mezzo così piccolo? A stento potevano starci in due, figurarsi in...

L’aliena lo tirò per il braccio una seconda volta, distogliendolo da quei pensieri. «Mh, cosa c’è?» Quella le indicò la navetta da cui era sceso Shamus. Il titan bionico si illuminò. «Ma certo! È geniale!» esclamò, sorridendo all’aliena. «Bel colpo, ragazza!» L’ex prigioniera arrossì, distogliendo lo sguardo da lui, mentre il ragazzo tornava ad osservare il mezzo spaziale. Quella nave faceva perfettamente al caso loro, era praticamente grande come quella che possedevano prima che rimanessero a secco, poteva caricare tutti quanti i ragazzi più chissà quante provviste. Con quella sarebbero potuti ritornare sulla Terra senza problemi. Tuttavia, la nave da sola non era sufficiente.

«Ci servirà anche del carburante, però. Per sicurezza. Tu sapresti dirmi...» Non dovette nemmeno terminare la frase che l’aliena gli indicò un angolo dell’hangar, dove si trovava un cumulo di dispenser neri disposti li uni sopra gli altri.

«Perfetto, andiamo!» Cyborg iniziò a correre, seguito a ruota dalla ragazza. Mentre attraversavano l’hangar, Shamus fu scaraventato di nuovo a terra dalla Bestia, che oramai sembrava in pieno controllo della situazione. Mentre cercava di rialzarsi, mugugnando per lo sforzo, lo sguardo del pirata cadde proprio su loro due. «Ehi, voi due! Cosa pensate di...»

Beast Boy lo interruppe, saltandogli addosso e facendogli sbattere il cranio contro il pavimento. «AH! Maledetto insetto!» tuonò Shamus, per poi sferrargli un pugno sul volto, scaraventandolo via. La Bestia fu scagliata contro un Torpedo, sfondandone la cupola. Il luogotenente si rialzò, ridacchiando come un idiota. «Ti ho fatto male, moscerino?»

La Bestia si rialzò, ringhiando di rabbia, ricoperta da graffi e pezzettini di vetro che si erano conficcati nella sua carne. Ululò di rabbia e si scagliò nuovamente contro il proprio avversario, tempestandolo di pugni, calci, ginocchiate. Shamus dal canto suo cercava di rispondere per le rime, ma era troppo lento ed impacciato. Tuttavia, il mutaforma cominciò ben presto ad accusare la stanchezza per quel combattimento così intenso, fino a quando il pirata non riuscì a connettere con un pugno sul suo addome, scaraventandolo via un’altra volta.

BB si rimise nuovamente in piedi, ringhiando, mentre Shamus gli si avvicinava, sempre continuando a ridacchiare. La Bestia riprovò ad attaccare per prima, ma si fermò di scatto, probabilmente colpita da una fitta di dolore. Quell’esitazione permise al grosso robot di colpirlo una seconda volta, rispedendolo a terra.

Cyborg osservò la scena interdetto. Ma che stava succedendo? Prima la Bestia riusciva a tenere a bada, perfino a dominare il luogotenente, ed ora la situazione si era completamente capovolta. Tuttavia, il ragazzo bionico non ci mise molto a realizzare cosa stava succedendo. Avrebbe spalancato l’occhio se solo avesse potuto. Nonostante il pirata fosse ricoperto da vistose ammaccature, per lui era come se non esistessero. Tutti i danni che BB gli aveva inflitto... erano totalmente inefficaci. Il robot era troppo resistente per poter essere davvero messo alle strette dai rapidi attacchi del mutaforma. Per poterlo fermare non ci volevano mille attacchi di scarsa potenza, ce ne voleva solamente uno ma di potenza enorme e, per quanto la Bestia poteva essere forte, nemmeno lei la possedeva. Ma allora dove trovarla?

Lo sguardo di Cyborg cadde irrimediabilmente sulla navetta di Shamus, e sui grossi cannoni che essi possedeva. A quel punto, non ci mise molto a realizzare cosa dovesse fare. «Andiamo!» disse all’aliena, mentre iniziava a correre. Raggiunsero la nave, dove, fortunatamente, trovarono la rampa per salire ancora abbassata. Corsero dentro, raggiungendo la sala comandi. Qui, Cyborg cominciò ad armeggiare con le consolle, nel tentativo di attivare i cannoni. Il computer di bordo si accese e funzionò tutto correttamente, il problema era che tutto quanto era scritto in una lingua aliena incomprensibile per lui. Il ragazzo soffocò un’imprecazione. Senza Mr. Zurkon a tradurre per lui, non avrebbe potuto fare molto.

«Dannazione!» sbottò. «Ma come faccio a...» Si interruppe, quando notò l’aliena mettersi accanto a lui, per poi iniziare ad armeggiare a sua volta con i comandi con estrema rapidità e precisione. Il ragazzo spalancò la bocca. «Tu... tu sai come funzionano i comandi?»

La ragazza si limitò a rivolgergli un sorriso di sufficienza. Perfino Cyborg sorrise poco dopo. «Ok, ammetto di averti sottovalutata, ragazza. Ben fatto!» Il sorriso svanì dal volto dell’aliena, che distolse lo sguardo, concentrandolo unicamente sulla consolle. Sembrava quasi imbarazzata, ma Cyborg non poté rimuginarci su più di tanto, perché aveva ancora una cosa da fare. «Non possiamo fare fuoco se rischiamo di colpire anche BB. Tu resta qui, io vado ad aiutarlo. Spara al mio segnale, va bene?»

L’aliena annuì, al che Cyborg si affrettò ad uscire e raggiungere il proprio compagno.  La Bestia si stava rialzando a fatica, continuando a ringhiare per la rabbia. Solamente vedendola, il titan bionico si domandò se sarebbe riuscito a farsi capire da lei. Non sembrava molto aperto al dialogo, ad essere sinceri.

«Un altro foruncolo da spremere?» domandò Shamus, accorgendosi anche di lui.

Cyborg serrò la mascella, mentre BB si fiondava nuovamente sul suo avversario, ruggendo. Il pirata si voltò verso il mutaforma, per poi urlare e respingerlo con un colpo del braccio. Dopodiché, si voltò verso il titan, per poi sghignazzare. «Tocca a te!»

«Vieni a prendermi, grassone!» esclamò Cyborg, per poi saltare all’indietro, evitando per un centimetro un pugno che sfondo il pavimentò metallico. «ORA!» urlò.

Un forte ronzio poté udirsi nell’aria all’improvviso. Il pirata si voltò verso il luogo da cui proveniva ed osservò impotente i cannoni della navicella che cominciavano ad illuminarsi. «Uh? Cos...»

Non terminò mai la frase. Due potentissimi raggi di energia furono scaturiti dalle armi, trapassandogli la gabbia toracica da parte a parte e lasciandoli un foro grosso quando il suo boccaporto. Shamus sgranò gli occhi, per poi abbassarli e guardare cosa fosse appena accaduto. Dischiuse le fauci, sbigottito. «Non… non è giusto…» biascicò, prima che i suoi occhi si spegnessero e crollasse a terra privo di vita. Non appena il suo corpo gigantesco toccò il suolo, un boato assordante scosse l’intero hangar.

Cyborg sorrise trionfale, per poi guardare verso la cabina della nave. Sollevò il pollice, rivolto verso l’aliena che sicuramente lo stava guardando, poi si concentro sul suo amico. Corse incontro a lui, trovandolo a terra, di nuovo in forma umana, intento a gracchiare debolmente per il dolore.

«Ehi, Cy…» borbottò, quando lo vide. «A-Abbiamo vinto?»

«Puoi dirlo forte che abbiamo vinto.» Cyborg aiutò BB a rimettersi in piedi, ridacchiando.

«Ahi, ahi, piano amico…» si lamentò il mutaforma, per poi guardare il corpo steso a terra di Shamus. «Però… era un tipo tosto…»

«Nulla che il mio genio non possa fermare» replicò il titan bionico, gonfiando il petto d’orgoglio.

BB spalancò la bocca per replicare, ma non poté fare nulla perché l’aliena corse loro incontro, stritolandoli entrambi in un abbraccio. Il mutaforma divenne paonazzo, dopodiché iniziò a lamentarsi per il dolore al proprio corpo, mentre Cyborg ridacchiò una seconda volta.

«Ben fatto» disse alla ragazza, posandole una mano sulla spalla. Quella sorrise, avvampando lievemente. Dopodiché, il ragazzo si voltò verso la nave. «D’accordo, gente. Chi vuole un passaggio?»

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Capitolo 24
*** Mai lasciar andare ***


 

XXIV

Mai lasciar andare

 

 

Rosso crollò a terra, uno sfregio orribile che gli attraversava la guancia. Di fronte a lui, Shyltia rise ancora una volta. Accanto invece aveva Terra, che giaceva totalmente priva di sensi sul suolo. Non ci provò nemmeno a chiamarla per svegliarla, e non solo perché non aveva più nemmeno la forza per parlare: ormai la sua unica alleata in quella situazione era andata. Doveva cavarsela da solo. Solo, contro quella donna in grado di creare un’illusione talmente forte da impedirgli perfino di combattere. Una passeggiata.

«Sei davvero delizioso senza la maschera, lo sai?» gracchiò lei, dimenando quella maledetta lingua biforcuta.

«E tu… lo sai che la mia bellissima compagna aspetta un bambino da me?» ribatté Lucas, rimettendosi in ginocchio, ogni centimetro di pelle che gli doleva terribilmente. «E quando avrò finito con te… tornerò da lei, la stringerò, la bacerò e le dirò quanto io la ami.» Il ragazzo riuscì a risollevarsi finalmente sulle proprie gambe, dopodiché alzò i pugni. «Ti conviene… finirla con i flirt. Mi spiace deluderti, ma non attaccano.»

«Non preoccuparti, tanto non uscirai vivo da qui per poterla rivedere. Ed è per questo motivo che voglio godermi ogni singolo istante di questo momento. E in ogni caso, non puoi tornare da lei sulla Terra senza una nave.»

«Ma lei non è sulla Terra.»

Shyltia corrucciò la fronte. «Cosa?»

«Lei è…»

«Io sono qui!» urlò una terza voce, proveniente da dietro le spalle dell’aliena. La vipera si voltò, per poi essere colpita in pieno volto da un raggio di energia viola brillante. Crollò a terra, coprendosi il volto ed urlando a squarciagola per il dolore.

Rosso sollevò lo sguardo verso la direzione da cui era provenuto il raggio, per poi schiudere le labbra. Amalia era in piedi, dall’altra parte dell’enorme stanza, con gli occhi ancora illuminati di viola. «È l’ora del secondo round, stronza!»

«Tu?!» sibilò Shyltia. A Lucas parve di capire che quella non fosse la prima volta che si incontravano.

«Ma davvero ti sei fatto ridurre in quello stato da questa oca senza cervello?» domandò Amalia, ignorando completamente la vipera, a Rosso.

Il ragazzo fece una smorfia, mentre l’aliena squittì indignata. «EHI! Bada a come parli!»

«Non startene lì impalato, aiuta Tara» ordinò ancora Komand’r.

«E non ignorarmi!» urlò Shyltia.

«Non potrei nemmeno se volessi, è impossibile non accorgersi della tua dannata vocetta!»

La vipera urlò frustrata ancora una volta, poi piombò addosso alla sua nuova avversaria. Komi, dal canto suo, si sgranchì il collo. «Sì, fatti avanti, coraggio!»

Le due gridarono, poi iniziarono il loro cruento scontro. Uno scontro da cui chiunque avrebbe preferito tenersi alla larga. In genere, il pensiero di due donzelle che combattevano era un qualcosa che faceva scalpitare qualunque individuo dotato di cromosoma Y, ma in quel caso, più che eccitato, Rosso poteva definirsi spaventato. Amalia sembrava un tornado di rabbia, e Shyltia non era affatto da meno.

La vipera cercò di artigliare la tamaraniana, mentre quest’ultima si alzava in volo e rispondeva agli attacchi con i propri, ricoprendo la stanza con una pioggia di raggi di energia, che la donna rettile evitò prontamente nascondendosi in una delle pozze di fanghiglia.

Rosso barcollò fino da Terra, per poi inginocchiarsi accanto a lei ed iniziare a scuoterla. «Terra? Terra! Riprenditi!»

Nessuna risposta. Red X imprecò a denti stretti, poi il suo sguardo cadde su una delle pozze di acqua stagnante. Un’idea gli attraversò la mente.

«Scusa» borbottò, mentre le gettava addosso una generosa dose di quel liquame. La ragazza aprì gli occhi immediatamente, con un gridolino di sorpresa.

«Ma… ma cosa…» cominciò lei, stordita.

«Riprenditi» ordinò Rosso, facendole drizzare il capo.

«Che… che è successo?» domandò la bionda, con voce impastata. Il rumore generato dalla colluttazione tra Amalia e Shyltia la fece voltare di scatto, probabilmente fornendole una risposta molto più esaustiva di quelle che avrebbe potuto dargli Red X.

«Ma… ma che cosa…?»

«Non c’è tempo per le spiegazioni» tagliò corto Rosso. «Io devo aiutare Amalia. Tu devi andare avanti da sola. Cerca Corvina, trovala, e andatavene immediatamente da questa nave maledetta. Noi preoccupatevi per noi due, ce la caveremo.»

Tara, nonostante fosse palesemente ancora confusa, annuì. «Va bene. Ma promettimi una cosa.»

Red X sollevò un sopracciglio. «Cosa?»

Terra si sollevò, per poi osservarlo dritto negli occhi, serissima in volto. «Quando avete finito di rompere culo di quella vipera, fate pace.»

Lucas non aveva la più pallida idea di come la geocinetica potesse sapere di cosa era successo tra lui e Amalia, ma si ritrovò ugualmente ad annuire, con un sorrisetto sul volto. «Contaci.»

I due si scambiarono un cenno, dopodiché la bionda si diresse a grande velocità verso l’uscita della stanza. Rosso la seguì con lo sguardo fino a quando le urla delle due aliene non lo fecero distrarre. Si voltò, tornando ad osservare il combattimento cruento tra loro. Amalia stava radendo al suolo l’intera stanza, e Shyltia non sembrava molto entusiasta di questa cosa.

«Non ti ho morso abbastanza forte, a quanto pare!» urlò la donna rettile, fiondandosi su di lei un’altra volta con la sua incredibile velocità. «Ma è ora di rimediare!»

«Io non credo proprio!» replicò Amalia, afferrandola per il collo un istante prima che entrassero in collisione. Shyltia sgranò gli occhi sorpresa ed emise un verso soffocato.

Senza perdere altro tempo, Komi gli infilò una mano in bocca, per poi strappargli via con forza l’incisivo inferiore, quello del veleno. L’urlo che fece la vipera fu la cosa più agghiacciante che Rosso ebbe mai la sfortuna di sentire. Amalia nel frattempo gettò il dente a terra, per poi sferrare un pugno che la scaraventò dall’altro lato della stanza.

«L’unico modo che hai per battere qualcuno, è quello di imbrogliarli» cominciò Amalia, camminando verso di lei, osservandola quasi disgustata. «Ma quando il tuo patetico trucchetto non funziona, allora perfino una ragazza incinta può batterti.»

Shyltia si rimise sui gomiti, una disgustosa bava verdognola che colava dalla sua bocca. Sembrava perfino che stesse singhiozzando per il dolore, o forse per la paura. In ogni caso, Amalia sembrava averla in pugno. La presenza di Rosso era pure superflua, a quel punto.

«S-Stronza…» sibilò la vipera, voltandosi verso di lei ed osservandola con odio. «Il mio dente…»

«Tranquilla, non ti servirà più dove andrai.» Komand’r sollevò una mano, per poi gridare: «All’inferno!»

Sferrò un altro raggio di luce verso di lei, centrandola in pieno e facendola di nuovo gridare a pieni polmoni. Shyltia stramazzò a terra, gli occhi serrati e la bocca semiaperta ancora ricoperta di sangue e veleno.

Amalia abbassò il braccio, sospirando profondamente. «Sogni d’oro, bastarda.»

Rosso osservò la madre del suo futuro figlio a bocca semiaperta. Komand’r sollevò un sopracciglio. «M’beh? Che hai da guardare? Solo perché sei stato talmente incapace da occuparti di lei da solo, non significa che io non possa…»

Un verso furibondo si sollevò in aria all’improvviso. Amalia si interruppe e si voltò di scatto, per poi sgranare gli occhi, imitata da Lucas, quando vide Shyltia rialzarsi nuovamente, ringhiando come una belva inferocita. «T-Tu…» biasciò, con tono grottesco. Drizzò il capo di scatto, rivelando il proprio volto dilaniato e ricoperto di sangue. «ME LA PAGHERAI!»

«Cazzo…» sussurrò Komi, poco prima di dover evitare un assalto sicuramente letale da parte della vipera. La donna rettile sferzò l’aria con i suoi artigli, urlando a squarciagola. «NON PUOI SCAPPARE!»

Amalia cercò di rispondere agli attacchi con un pugno, ma Shyltia non parve nemmeno sentirlo, perché urlò con ancora più forza e fendette ancora una volta l’aria, questa volta riuscendo a sfiorare il ventre della tamaraniana. Komand’r urlò per la sorpresa e cadde a terra, sporcandosi di fango, mentre tre piccoli graffi apparivano sulla pancia. Non appena se ne rese conto, Rosso sgranò gli occhi.

L’aliena dai capelli mori si portò una mano al ventre, gemendo per il dolore, mentre Shyltia torreggiava su di lei. Sollevò entrambe le mani, pronta a finirla. «TI SCUOIERÒ E MI FARÒ UNO SPUNTINO CON QUELLO SCHIFOSO MEZZOSANGUE CHE TI PORTI DENTRO!»

Rosso non ci vide più. A lui avrebbero potuto fare qualsiasi cosa. Potevano insultarlo, picchiarlo, torturarlo, a lui non avrebbe mai importato un accidente. Ma fare del male ad Amalia di fronte al suo sguardo, fare del male alla persona che amava con ogni fibra del suo essere, minacciarne la vita, minacciare perfino la vita di una creatura innocente, la loro creatura innocente, quello era troppo. Di fronte a lui avrebbe perfino potuto trovarsi un esercito intero: lo avrebbe spazzato via comunque.

Urlò a pieni polmoni e si scagliò su Shyltia. L’aliena si voltò sorpresa, ma non poté fare nulla. Un disgustoso rumore di ossa rotte si sollevò in aria quando il ragazzo affondò il proprio pugno negli zigomi della donna aliena. La vipera crollò a terra, urlando per il dolore. Red X si chinò su di lei, ancora lungi dall’aver finito. Sollevò di nuovo la mano, pronto a finirla, gli occhi iniettati di sangue, lo sguardo spiritato, il respiro pesante.

Amalia e quel bambino erano tutto per lui. Niente e nessuno avrebbero potuto sottrarglieli. Non ricordava l’ultima volta che aveva picchiato così tanto qualcuno, specialmente una donna. Non ricordava di aver mai picchiato una donna e basta. Ma lei, Shyltia, lei non era una donna: era un abominio che non si meritava nemmeno l’ossigeno che respirava.

«A-Aspetta, ti prego…» sussurrò l’aliena, poco prima che Rosso schiantasse nuovamente le sue nocche sul suo volto. Shyltia riaprì lentamente gli occhi, incrociando il suo sguardo. Lucas esitò, quando di fronte a lei riapparve ancora una volta la ragazza bellissima di poco prima. La mano del ragazzo tremò, mentre il pugno si scioglieva lentamente. Ci stava cascando di nuovo, quella maledetta illusione era troppo potente.

Rosso digrignò i denti, mentre la ragazza gli sorrideva in maniera gentile e sollevava lentamente il volto. «Grazie…» bisbigliò, per poi ridacchiare debolmente. «Questa è la tua ricompensa…»

Avvicinò le labbra a quelle di X, che sgranò gli occhi. Cercò di lottare, di allontanarsi da lei, ma non ci riuscì; il suo corpo non voleva rispondere ai comandi.

«Rilassati, andrà tutto bene» mormorò ancora la ragazza, avvolgendo entrambe le mani attorno al collo del giovane in nero. «Vedrai, ti piacerà…»

Red X gemette. Chiuse gli occhi, mentre percepiva il fiato caldo di lei soffiare sul suo volto. La presa calda della ragazza lo stava facendo cedere, sentiva i propri nervi cominciare a sciogliersi lentamente, si sentiva… bene. Si sentiva bene. Non ricordava l’ultima volta in cui si era sentito così…

«Lucas!» Una voce lo chiamò all’improvviso. Il ragazzo sgranò gli occhi, riuscendo a riconoscerla. Era quella di Amalia. Quella della ragazza che amava. Abbassò lo sguardo e ciò che vide non era assolutamente una splendida fanciulla: era un’aliena disgustosa. E le loro labbra stavano per unirsi.

Lucas gridò e si allontanò di scatto dalla vipera, che sibilò furibonda. «COME OSI RESISTERMI?!»

«Ma stai zitta!» gridò Amalia, apparendo dal nulla, e colpendola così forte da spedirla contro la parete della stanza. La donna rettile urlò con quanto fiato aveva in corpo, prima di crollare di nuovo nel fango.

Rosso rimase in ginocchio ed abbassò il capo, con il fiatone. Chiuse e riaprì le palpebre diverse volte, cercando di recuperare fiato e la lucidità mentale.

«Lucas» la voce la chiamò di nuovo. Red X sollevò lo sguardo, per poi accorgersi di Amalia china di fronte a lui.

«Stai… stai bene?»

Quella domanda, con quel tono così… morbido, dolce, preoccupato, quasi non sembrò uscita dalle labbra della tamaraniana, la stessa che fino a quel momento lo aveva trattato con sufficienza. Il ragazzo in nero annuì lentamente. «S-Sì…» Distolse lo sguardo, imbarazzato. Se non fosse stato per lei, Shyltia lo avrebbe ingannato, e probabilmente in quel momento non starebbe nemmeno più respirando.

Ripensò a come l’aveva trattata quando erano nella loro stanza nel palazzo. Ripensò a come si era comportato con lei, alle parole terribili che le aveva detto. E poi, ripensò a quello sguardo apprensivo che malgrado tutto Amalia gli stava rivolgendo. Si sentì il più grosso idiota di quell’intero universo.

Dopo anni ed anni passati a sguazzare nei rifiuti, era riuscito a trovare un diamante, e quel diamante era Amalia. E lui, anziché tenerselo stretto come spesso si era detto, lo aveva lasciato andare, lo aveva perso, temendo perfino di non riuscire più a ritrovarlo. E quando lo aveva ritrovato, erano bastate un paio di settimane trascorse con la luna storta per rischiare di perderlo di nuovo. Strinse i pugni e chinò il capo, sentendo le proprie iridi inumidirsi.

«Mi… mi dispiace…» sussurrò.

«Cosa?» domandò lei, con tono sorpreso. «Ma di che stai…»

«Sono stato uno stronzo…» la anticipò lui, scuotendo il capo. «Per poco non ho… non ho mandato tutto a puttane, come al solito. Ti ho… ti ho trattata da schifo, nonostante tu… tu volessi solamente il meglio per noi. E… e nonostante tutto, sei ancora qui. Io non… io non ti merito. Però… però non ho chiamato io i pirati. Devi credermi.»

«Hai ragione, sei stato uno stronzo.»

Quel tono più duro, quelle parole, lo fecero irrigidire. Ma del resto, come poteva darle torto?

«Ma…» Una mano si posò sulla sua spalla, facendogli sollevare lo sguardo di colpo. Notò il piccolo sorriso apparso sul volto di Komand’r. «… anche io lo sono, a volte.»

Lentamente, Rosso riuscì a trovare la forza di ricambiare quel sorriso. «Significa… che mi perdoni?»

«Solo se tu puoi perdonare me» allargò il sorriso Amalia, per poi prendergli il volto tra le mani, per poi mutare il suo sguardo in uno più provocatorio, uno di quelli che Lucas amava. «E ora chiudi il becco e baciami.»

Lo disse come se lei si aspettasse che fosse lui a fare la prima mossa, ma in realtà fu proprio la tamaraniana a fiondarsi su di lui per prima. Naturalmente, Rosso non si tirò indietro. La sensazione che provò quando percepì le loro labbra riunite dopo così tanto tempo fu indescrivibile. L’unica cosa che percepì, era quanto quei baci gli fossero mancati. Non seppe quanto a lungo rimasero uniti in quel modo, sapeva solo che non voleva più staccarsi.

Un verso orripilante, tuttavia, costrinse entrambi a doverlo fare. I due compagni si voltarono, diretti verso il punto in cui Shyltia era stata scaraventata. La vipera si stava nuovamente alzando, ringhiando sempre più furibonda. «Me la… pagherete… vi ucciderò… vi ucciderò tutti…»

«Ma quando la finirà di rialzarsi?» domandò Amalia, rabbuiandosi.

Rosso sorrise. «Temo che dovremo essere noi a farla smettere.»

I due ragazzi si guardarono tra loro, poi si scambiarono un cenno.

«Sappi che quando avremo finito qui, abbiamo ancora un conto in sospeso. Io, te e la camera da letto.»

«Mi sta bene» annuì Lucas, poco prima che Shyltia si fiondasse su di loro.

Poco prima che si fiondasse sulla sua stessa fine.

 

***

 

Non ricordava di aver mai corso così tanto in vita sua. Era una bugia, la sua intera vita era stata una corsa continua… anche se, all’epoca, non aveva mai avuto qualcuno per cui correre, a differenza di quel momento.

Terra non aveva un secondo da perdere. Anche se più proseguiva, più si trovava costretta a scegliere quale strada prendere, e siccome non aveva la più pallida idea di come orientarsi lì dentro, temeva di starsi inoltrando troppo in quel labirinto dal quale temeva di non riuscire più ad uscire.

Dopo l’ennesima svolta che non la portò da nessuna parte, si abbandonò contro una parete, respirando affannosamente. Non poteva nemmeno usare i suoi poteri, visto che era troppo lontana dal suolo, perciò non poteva nemmeno generare un masso sul quale volare.

Si passò una mano fra i capelli intrisi di sudore, per poi cercare di raccogliere le idee. Procedere alla cieca in quel modo non l’avrebbe portata da nessuna parte. Infastidita, Terra si massaggiò le tempie, per poi infilarsi una mano in tasca, dove qualcosa di appuntito continuava a stuzzicarle la gamba. Non appena, tuttavia, le sue dita si strinsero attorno al cristallo che Canoo le aveva regalato, sgranò gli occhi. Si era totalmente dimenticata di possederlo. Lo tirò fuori, incerta di cosa farsene, ma non appena si rese conto del fioco bagliore proveniente da esso, rimase a bocca aperta. Quando Canoo gliel’aveva regalato, non brillava in quel modo. La ragazza assottigliò le palpebre, non capendo perché mai la pietra avesse deciso di comportarsi così, fino a quando non si rese conto che il brillio non era omogeneo, bensì concentrato perlopiù su un unico punto del cristallo, ossia la sua parte sinistra. Terra spostò lo sguardo verso la stessa direzione, per poi notare un corridoio. Deglutendo, la bionda spostò il cristallo verso di esso, e il bagliore si fece più forte, concentrandosi ora verso la sua punta. Il cervello della geomante si mise lentamente in moto.

Spostò il cristallo un paio di volte, verso gli altri corridoi, ma ogni volta il bagliore rimase concentrato verso quello di sinistra. A quel punto, la giovane abbassò la mano. Non sapeva come, non sapeva perché, ma la gemma sembrava starle indicando quella direzione. Che avesse in qualche modo attivato il suo potere e ora lui le stesse dicendo dove andare? Ne dubitava, ma allora quali altre motivazioni c’erano? Non lo sapeva. L’unica cosa che sapeva, era che quella era l’unica pista che aveva. Non poteva continuare a vagare a casaccio lì dentro, inoltre quanto tempo sarebbe passato prima che un pirata la trovasse? Era troppo lontana dalla terra per usare i suoi poteri, era indifesa. Doveva sbrigarsi. Senza perdersi in ulteriori indugi, annuì a sé stessa, poi corse lungo il corridoio.

Tenne il cristallo sollevato di fronte a sé, seguendo la strada da esso indicata. Ogni volta che arrivava ad una svolta, la gemma si illuminava sempre di più verso la direzione che doveva prendere, quasi fungendo da bussola. Compì diverse svolte con molta rapidità, svolte che fino a pochi minuti prima l’avrebbero costretta a fermarsi e a riflettere su quale prendere. In un certo senso, era quasi soddisfacente potersi muovere con tanta sicurezza in mezzo a quei corridoi. Più proseguiva, più sentiva che quella fosse la strada giusta. Andò avanti a lungo, fino a quando non percepì qualcosa di diverso nell’aria. La sua pelle si accapponò all’improvviso e riuscì a percepire alcuni dei suoi capelli separarsi dagli altri, per poi sollevarsi in aria come sospinti da qualche strana corrente. Terra rallentò, sorpresa. L’aria… era satura di elettricità. Il cristallo tra le sue mani, nel frattempo, cominciò a brillare il doppio più insistentemente. La geomante schiuse le labbra. Non aveva idea di cosa significasse tutto quello, ma non era certo intenzionata a rimanersene immobile: l’unico modo per scoprire cosa la attendesse alla fine di quella lunga corsa, era quello di continuare a correre. E così fece.

Corse, fino a quando, infine, non si ritrovò in una grossa stanza, molto diversa dai corridoi che si era abituata a vedere. E non appena varcò la soglia e vide cosa vi era in essa custodita, la ragazza bionda rimase esterrefatta. Il cristallo, oramai interamente illuminato, le cadde di mano mentre le sue iridi azzurre erano come pietrificate sullo scontro che stava avvenendo di fronte a lei. Due enormi raggi di energia che cozzavano tra loro, generando folate d’aria e scariche elettriche, sicuramente le stesse che stavano riempiendo l’aria. E alle due estremità di essi… il pirata che ricordava di aver visto prima di svenire, Caruso, se non ricordava male, e… Corvina.

Corvy, la sua Corvy.

Non appena si accorse di lei, Terra rimase così concentrata sul suo aspetto che nemmeno fece caso alle pile di oro e gioielli ammassati e sparpagliati per tutta la stanza.

Stavano combattendo in maniera furiosa, e Terra, a causa di tutte le emozioni contrastanti che turbinavano dentro di lei alla vista della sua bella, non riusciva nemmeno a rendersi conto a pieno del fatto che Caruso stesse, in qualche arcano modo, sparando un raggio di luce dalle sue mani.

«Corvy!» urlò lei, d’impulso. La maga si voltò di scatto verso di lei, sgranando gli occhi «Terra?» domandò, sorpresa.

Malgrado non fosse passato molto dall’ultima volta che la vista, malgrado l’aspetto agitato, spossato e sbigottito, la maga era bella come non mai. Tuttavia, l’urlo di dolore che Corvina fece costrinse la geomante a tornare in sé. Il raggio di luce proveniente da Caruso cancellò parzialmente quello della Titans, che probabilmente a causa della distrazione aveva perso la concentrazione sullo scontro. Caruso rise, schernendo la sua avversaria. «Che succede, terrestre? Qualche difficoltà a gestire la mia forza?» Non sembrava essersi accorto della ragazza bionda, tuttavia.

Corvina serrò i denti. «Terra… devi andare via da qui… quel tizio è troppo pericoloso…»

Terra fece vagare lo sguardo da lei al pirata, per poi incupirsi. «Te lo scordi, io non ti abbandono!»

Strinse i pugni, dopodiché spostò lo sguardo in ogni direzione, alla ricerca di qualcosa che potesse esserle d’aiuto. Si accorse solo in quel momento di tutti i tesori di cui la stanza era disseminata, la quantità di oro e pietre preziose presenti là dentro probabilmente sarebbero state sufficienti per poter comprare un pianeta intero, ma lei non era lì per riempirsi le tasche, era lì per salvare la persona che amava. E la grossa sciabola con il manico incastonato di rubini e smeraldi che trovò era proprio quello che faceva al caso suo. Corse ad afferrarla, mentre Corvina gridava nuovamente, sempre più alle strette. Terra non ricordava di averla mai vista così in difficoltà, ma non aveva importanza, perché lei l’avrebbe salvata. Sollevò la spada, che era molto più pesante di quanto avrebbe mai potuto immaginare, grugnendo per lo sforzo.

Si avviò barcollando verso il pirata, con la mascella serrata. Dovette attingere a tutta la sua forza interiore per non farsi sbalzare via dall’energia dei due raggi di luce, così intensa da sembrare vento. Sicuramente Corvina avrebbe voluto che si fermasse, che fuggisse da lì prima che la situazione già in stallo degenerasse del tutto, ma la verità era che Terra non l’avrebbe mai lasciata, non così, non dopo tutto quel tempo, non proprio nel momento in cui, più che mai, sembrava davvero avere bisogno di qualcuno.

Il pirata fu sempre più vicino, e quando parve essere davvero a tiro della sciabola, la bionda sollevò l’arma, non sapendo nemmeno cosa fare con esattezza. Fece per abbatterla su di lui, ma non appena provò a sfiorarlo una scarica elettrica le attraversò il corpo, strappandole un grido di dolore. Venne scaraventata via, praticamente fino al punto in cui aveva cominciato a camminare verso Caruso, la sciabola che schizzava chissà dove in mezzo alla stanza dorata.

Terra si rimise lentamente a sedere, tossendo, per poi rabbrividire quando si rese conto di essere osservata da Caruso. I suoi occhi erano completamente blu brillanti, spiritati, e i denti aguzzi mostrati dal suo sorriso non facevano altro che renderlo ancora più spettrale.

«Ma guarda, abbiamo compagnia! Ci rivediamo, capelli di grano!» Le mani del pirata tremolarono, mentre cominciava lentamente a separarle. Mentre con una continuava a sparare quel raggio di luce verso Corvina, con l’altra si protese in direzione della bionda. «Aspetta, lascia che inviti anche te alla festa!»

La mano cominciò ad illuminarsi di luce propria. Un secondo raggio di luce fuoriuscì da essa, puntando proprio verso di lei. Terra sgranò gli occhi, atterrita. Si alzò in piedi e fece scorrere lo sguardo attorno a sé, alla ricerca di un riparo, ma non c’era nulla attorno a lei che potesse salvarla da un attacco simile. Rimase paralizzata, mentre la luce azzurra si faceva sempre più vicina, accecante. Socchiuse gli occhi e si protesse con le braccia, rimpiangendo di non essere riuscita a fare assolutamente nulla per salvare la sua amata.

«NO!»

Terra riaprì gli occhi, sorpresa da quel grido. Vi fu un’esplosione, seguita da una coltre di fumo che inondò il suo campo visivo. Non appena questa si diradò, realizzò di essere ancora tutta intera, con un po’ di fiatone e la fronte madida di sudore. Di fronte a lei, anche Corvina aveva proteso una mano in sua direzione. La maga si era voltata e la stava scrutando a sua volta, con gli occhi in questo caso bianchi e brillanti come la luce della luna. Una bolla di energia nera ancora ricopriva la geomante, che la osservò stupefatta.

Incrociò lo sguardo della maga, rimanendo senza fiato. Corvina digrignò i denti, furibonda. Per un momento Terra pensò che fosse arrabbiata con lei, ma non ci mise molto a realizzare di starsi sbagliando. La maga si voltò lentamente verso Caruso, scrutandolo con quello sguardo che la geomante conosceva bene, e che mai e poi mai avrebbe voluto fosse lei rivolto.

L’unica cosa che riuscì a pensare prima che Corvina parlasse di nuovo, era a quanto nei guai fosse finito Caruso.

«Tu… hai causato già troppo dolore!» gridò la maga, per poi congiungere nuovamente le mani. «Non farai del male anche alle persone che amo! Non finché ci sarà vita in questo corpo, non finché io avrò anche solo un grammo delle mie forze! Fino a quando questo cuore batterà nel mio petto, io combatterò per proteggere i più deboli, per difendere chi tiene a me, per salvare chi ha bisogno di noi!»

Corvina urlò a dismisura, mentre la luce che fuoriusciva dalle sue mani si faceva più intensa. Caruso grugnì, accorgendosi di essere diventato lui quello in svantaggio, mentre la luce nera cominciava a divorare quella azzurra. Unì anche lui le mani, cercando di rispondere all’attacco. Il suo raggio di energia si ingrandì a sua volta, ma tutto parve inutile.

«Io discenderò anche parzialmente da un demone mostruoso, ma fino a quando userò la forza che mi è stata donata per fare del bene, allora il nostro mondo potrà sempre considerarsi al sicuro dalla feccia come te!»

Caruso digrignò i denti, mentre la luce nera avanzava inesorabile verso di lui, centimetro dopo centimetro, metro dopo metro, spazzando via ogni cosa trovasse sul suo cammino.

«N-No…» mugugnò, scuotendo lentamente il capo. «N-NO!»

«Avanza nelle tenebre…» Corvina ritrasse le mani verso il proprio corpo per un istante, per poi spingerle con forza verso il pirata. «… e PERISCI!»

La luce nera raggiunse il pirata, che sgranò gli occhi. L’oscurità si avvolse attorno alle mani di Caruso, che gridò a perdifiato. «NOOOOOOOO!!!»

L’energia azzurra venne annientata, così come il corpo del pirata, che lasciò il loro mondo con un ultimo, disperato, grido.

Caruso svanì, insieme al raggio nero. Uno strano oggetto piramidale cadde a terra nel punto in cui fino ad un attimo prima si trovava il pirata. Nella stanza, in cui ormai erano presenti solo più Corvina e Terra, calò un silenzio surreale. La geomante osservò la maga, sbalordita. L’altra, dal canto suo, rimase immobile, con lo sguardo puntato a terra, l’unico movimento del suo corpo generato dal fiato grosso.

Terra rimase senza parole, incerta sul da farsi, anche lei ancora troppo scossa da cosa fosse appena successo, fino a quando Corvina non crollò in ginocchio con un gemito. Quello, fu ciò che permise al corpo della bionda di riscuotersi: «Corvy!»

La ragazza corse verso di lei, soccorrendola. Le si inginocchiò accanto, avvolgendole un braccio attorno alle spalle, preoccupata. Quel contatto con il suo corpo seminudo dopo così tanto tempo le provocò un brivido lungo la schiena, ma si sforzò di ignorare gli ormoni per concentrarsi sulle condizioni della compagna. «Corvy, stai bene?»

Corvina non rispose subito. Non la osservò nemmeno per quelle che parvero eternità, ancora troppo affannata, fino a quando, lentamente, non drizzò lo sguardo verso di lei. Non appena la vide in faccia, Terra rimase senza fiato.

«Mi sei mancata…» mormorò la maga, semplicemente, con un sorriso stampato sul volto. Probabilmente il più bel sorriso che le avesse mai rivolto. Diamine, probabilmente il più bello che avesse mai rivolto a qualcuno.

Una lacrima scivolò lungo la guancia di Terra, mentre anche lei sorrideva. «C-Corvy…» sussurrò, un attimo prima che le loro labbra si incontrassero, bramose.

Fu un bacio diverso dal solito. Più vorace, desideroso, affamato, ma allo stesso tempo contraddistinto da quella delicatezza e quella gentilezza che solamente due giovani fanciulle come loro avrebbero potuto inserire in un simile gesto.

A Terra era mancato quel sapore sulle sue labbra, e lo stesso si poteva sicuramente dire per Corvina. Il sapore di lei, della maga, della persona che amava con ogni fibra del suo essere. Le sarebbe piaciuto congelare il tempo in quell’istante, lasciare che quel bacio durasse per sempre, ma purtroppo esistevano limiti che non potevano essere superati. Le due ragazze si separarono, ora entrambe con il fiato grosso. Due sorrisi imbarazzati stampati sui loro volti, accompagnati dal rossore sulle loro guance ed i loro sguardi incollati.

«Ce… ce l’abbiamo fatta…» mormorò infine Terra.

Corvina annuì lentamente. «Sì… sono felice di sapere che stai bene.»

«Anch’io sono felice di stare bene.»

La maga piegò la bocca in un’espressione confusa, mentre Terra ridacchiava flebilmente. Corvina la scrutò per un momento, per poi ridacchiare debolmente a sua volta ed appoggiare la guancia sulla spalla della geomante. «Non cambi mai.»

«Vuoi davvero che lo faccia?» mormorò Terra, stringendola in un forte abbraccio.

Corvina scosse la testa, facendo strusciare la guancia sulla sua clavicola. «No. Non cambiare mai.»

Terra ridacchiò nuovamente. «Farò del mio meglio.»

Rimasero strette ancora per un po’, fino a quando Corvina non fu la prima a sciogliersi dall’abbraccio. Si voltò verso il punto in cui Caruso era scomparso, apparendo piuttosto turbata tutto ad un tratto.

«Tutto ok?» domandò Terra, accorgendosi del suo sguardo.

La maga annuì lentamente, anche se non senza un momento di esitazione. «Sì…» Si rialzò in piedi, di fronte allo sguardo confuso della bionda. Terra la imitò, seguendola fino a quando non raggiunse lo strano oggetto piramidale. Corvina lo raccolse, mentre la bionda sollevava un sopracciglio. «Cos’è quello?»

«Questa è la Reliquia» spiegò la maga, rigirandoselo tra le mani. «Il motivo per cui i fongoid ci hanno trattenuti sul loro pianeta. E il fatto che io lo abbia ritrovato… fa davvero di me la Salvatrice.»

Terra avrebbe voluto che quelle parole rendessero le cose più chiare, ma in realtà non fecero che confonderla ancora di più. Notando la sua espressione smarrita, Corvina abbozzò un altro tenue sorriso. «Lascia che ti spieghi.»

La maga parlò brevemente di cosa Canoo le avesse detto, quando l’aveva scortata all’antico templio dietro al palazzo. Le raccontò delle pitture rupestri, delle visioni degli Zoni, di quanto la Reliquia fosse importante per Quantus. Più parlava, più, finalmente, Terra comprendeva. Ecco perché quel cristallo l’aveva guidata fino a lì, aveva percepito la magia dell’artefatto da cui discendeva. Ed ecco anche perché avevano tenuto Corvina lontana da lei per tutto quel tempo. Ecco che cosa faceva tutto il giorno. Doveva scoprire che cosa fosse successo alla Reliquia. E il fatto che la stringesse tra le mani… chiudeva completamente il cerchio.

Gli Zoni avevano fatto una profezia, una profezia che si era rivelata veritiera. Avevano avuto ragione. Per tutto quel tempo. Corvina era davvero la Salvatrice. Aveva, letteralmente, salvato il pianeta Quantus. Quel pensiero non faceva altro che rendere Terra ancora più fiera di lei di quanto già non lo fosse.

«Quindi… Caruso era uno di quei razziatori già venuti qui in passato. Uno di quelli di cui Alpheus e Galvor ci hanno parlato.»

«Sì. Anche se all’epoca si faceva chiamare con un altro nome.»

«E… ha imparato a sfruttare il suo potere.»

Corvina annuì. «Sì. Ma non credo lo sapesse sfruttare tutto. Non avrei avuto nessuna possibilità, altrimenti.»

«Tu ti sottovaluti troppo, Corvina.» Terra le posò una mano sulla spalla, sorridendo. «Credimi, da sola potresti sbarazzarti di chiunque, non importa quanti, o quanto forti siano.»

«Sì, beh…» La maga abbassò lo sguardo, corrucciata. «… non volevo… cancellarlo in questo modo…»

Quelle parole fecero schiudere le labbra di Terra. Ecco cosa turbava la maga. «Ehi.» La bionda la afferrò per entrambe le spalle, costringendola a guardarla. Corvina si voltò verso di lei, anche se non sembrava molto entusiasta all’idea di farlo, visto che faceva costantemente guizzare lo sguardo dai suoi occhi al suolo.

«Non sei un’assassina, ok?» affermò la geomante, riuscendo infine a catturare le sue iridi. «Quel tizio era stato corrotto dal troppo potere. Era morto da ben prima che ti incontrasse. Chiaro? Tu non hai fatto nulla che lui non avrebbe finito col farsi da solo. E poi…» Terra sorrise, sollevando una mano. «Meglio la vita di un solo criminale e assassino, oppure…» Sollevò l’altra. «… quella di migliaia di innocenti e bisognosi del tuo aiuto?»

Un tenue sorriso illuminò il volto di Corvina, accompagnato da quello molto più ampio di Terra. La maga annuì nuovamente. «Sì, hai ragione. Grazie, Terra.»

«Figurati. È il mio lavoro.»

Corvina ridacchiò, mentre Terra si smarrì sul suo viso meraviglioso. Non aveva mentito, dicendo che quello era il suo lavoro. Far star bene Corvy era lo scopo per cui aveva deciso di continuare a vivere. Ed ogni volta che ci riusciva, con un abbraccio, un bacio, o anche solo le parole, ogni volta che la faceva ridere, o sorridere, per lei era come aver vinto alla lotteria. Lo aveva detto una volta, e lo avrebbe ripetuto: avrebbe continuato a farla ridere, a farla sorridere e a renderla felice per il resto della sua vita.

«E gli altri dove sono?» domandò Corvina, mentre le due ragazze lasciavano la stanza.

«Ci siamo separati non molto tempo fa. Non so di preciso dove siano, ma ci siamo messi d’accordo che avremmo lasciato la nave, in un modo o nell’altro. Dovremmo farlo anche noi.»

«Va bene.»

«E comunque…» proseguì Terra, mettendosi entrambe le mani dietro la testa con falsa aria innocente. «Tecnicamente, anche io ti ho aiutata a recuperare la Reliquia. Quindi in un certo senso sono anche io una specie di Salvatrice, però non ero in nessuna pittura rupestre…»

«Fallo presente agli Zoni, allora» ribatté Corvina, roteando gli occhi con aria divertita.

«Lo farò sicuramente. D’altronde cosa faresti tu, senza di me?»

«Probabilmente vivrei molto più tranquilla…» borbottò la maga, beccandosi un pugnetto sulla spalla da Terra.

«Non sei gentile» protestò la bionda.

Le due ragazze si scambiarono uno sguardo, poi risero nuovamente.

 

 

 

 

 

 

 

Cosa, un nuovo capitolo della storia che nessuno legge? Din din din, esatto! Ehi, dovrò pur finire pure questa storia dimenticata pure da Iddio, prima o poi. Dopo Hero of War e la Mantide, direi che è anche ora. Ho procrastinato abbastanza ultimamente. E dopo questa, esatto, avete intuito bene, tornerò anche sull’altra storia che nessuno legge, Infamous II!!

Devo ammetterlo, scrivere una scena smielata tra Terra e Corvina mi ha fatto uno strano effetto dopo tutto questo tempo, soprattutto perché oramai mi sono autoconvinto che il cuore della bionda appartenga solo ad Amalia (anche se quello di Amalia appartiene anche a Rosso. E a Rosso appartiene quello di Corvina, ma a Corvina appartiene quello di Robin, ma Robin sta con Stella e… accidenti, che casino). Insomma, viva le ship, sì?

E poi scrivere una scena smielata con della musica alternative rock sparata nelle orecchie a tutto volume è un po’ particolare. A tal proposito, nella compilation c’era questa canzoncina qua che, casualmente, casca a pennello con l’argomento principale del capitolo, sia con la relazione tra Amalia e Rosso che quella tra le due fanciulle. Canzone da cui, da bravo pigro quale sono, ho anche preso il titolo per il capitolo. Ve la linko perché sì.

Never Let Her Go

 

E come disse il mio grande amico Mister Torgue, RUMORE DI ESPLOSIONI!

ALLA PROSSIMA!

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Capitolo 25
*** Il Ritorno ***


XXV

Il Ritorno

 

 

Stella volò lungo i corridoi, con il cuore che martellava all’impazzata, quasi volesse fuggire dalla prigionia del suo petto. Se pensava a tutto quello che era successo, dal giorno del suo rapimento, fino a quell’esatto momento, non riusciva davvero a credere di aver impedito a Robin di amarla davvero.

Lo aveva dato per scontato, per tutto quel tempo. Aveva detto di non sentirsi pronta, sicura di sé stessa, convinta che il giorno giusto prima o poi sarebbe arrivato, mai avrebbe pensato, invece, che avrebbe potuto perderlo proprio come in quel momento. Non appena lo aveva visto steso su quel pavimento, il corpo rovinato da tutti quei lividi e abrasioni, si era sentita come se una scheggia di ghiaccio le avesse trafitto il ventre. Non poteva sopportare di vederlo ridotto in quelle condizioni, non dopo tutto quello che aveva fatto per raggiungerla e salvarla. Lui aveva attraversato la galassia, letteralmente, per lei. E lei avrebbe fatto lo stesso per lui, milioni di volte. Raggiungerlo in quell’ufficio e aiutarlo sarebbe stato niente a confronto, ed era quello che era intenzionata a fare.

Non sapeva bene dove andare in mezzo a quel labirinto di corridoi, sapeva solo che doveva salire. Fortunatamente, le pareti non erano dure come quelle delle celle.

Sforacchiò la nave, salendo piano dopo piano, il suo obiettivo ben stampato nella mente. Avrebbe soccorso Robin e avrebbe ridotto Slag in poltiglia. Lui aveva salvato lei, ora lei avrebbe salvato lui.

Infine, raggiunse il ponte della nave, aprendo un ultimo buco nel pavimento della poppa.

La ragazza si sollevò in cielo, occhi e mani rilucenti di verde. Non ci mise molto ad accorgersi della persona che stava cercando. Tuttavia, non appena vide Slag con la mano attorcigliata attorno al suo collo, l’aliena non ci vide più.

«ROBIN!» gridò, fiondandosi su di loro alla velocità della luce.

Slag si voltò, confuso. «Che cos…» Non concluse la frase. Stella lo centrò sull’enorme pancia, urlando a pieni polmoni. Il pirata ululò sconvolto, mentre veniva scaraventato via come un missile. Il robot sfondò la parete sotto alla prua, svanendo nei meandri della sua stessa nave.

Stella, col fiato grosso, si accinse a soccorrere Robin, caduto sulla schiena dopo che la presa su di lui era stata sciolta. La rossa si chinò accanto a lui, chiamandolo per nome, accorgendosi solo in quel momento di quanto gravi fossero davvero le sue condizioni.

«S-Stella…» mormorò lui, riuscendo ad accennare un tenue sorriso. Allungò una mano, appoggiandola sulla guancia morbida di lei. «Stai… stai bene…»

Stella strinse la mano con forza, una lacrima che scivolava dall’occhio. «Robin» mormorò. Malgrado fosse chiaramente lui quello più bisognoso di aiuto, si preoccupava comunque per lei. La amava, la amava veramente. E lei amava lui, con ogni fibra di sé stessa. Si accorse in quel momento anche delle fiamme che avevano cominciato a divorare il ponte della nave, troppo presa dal suo amato per scorgerle prima. Dovevano andarsene da lì, prima che ogni cosa bruciasse.

«Ti porto via da qui, Robin.»

Robin annuì, mentre si rimetteva lentamente a sedere. Sicuramente avrebbe voluto dirle di più, ma il dolore lo impossibilitava a pronunciare più parole del dovuto, cosa di cui lei non poteva biasimarlo. La ragazza accolse il braccio di lui attorno alle proprie spalle e lo aiutò a rimettersi in piedi. Ogni minimo spostamento causava una smorfia od un gemito di dolore al moro, cosa che feriva il cuore di Stella ogni volta di più. Non riusciva a sopportare di vederlo ridotto così. Sperò che i fongoid, o Corvina, potessero aiutarlo.

 Stava per alzarsi in volo, quando un altro urlo la fece pietrificare. I due ragazzi si voltarono, per poi scorgere Slag fuoriuscire dai meandri in cui era stato scaraventato. Sbucò dal cratere, ringhiando, ribollendo di rabbia, e osservò la coppia con i suoi occhi glaciali e privi di vita. La luce delle fiamme che stavano invadendo il ponte si rifletté sul corpo metallico del pirata, facendolo apparire più come un demone meccanico che come un robot.

«Voi… tornate… QUI!!!» tuonò furibondo, per poi correre verso di loro. Stella si alzò in volo, afferrando Robin per il fianco. Il ragazzo gemette, ma si strinse ugualmente con forza a lei. Un attimo prima che l’uncino del pirata si abbattesse su di loro, i due compagni si erano già messi in salvo.

Slag ululò ancora di rabbia e cercò di incenerirli sputando fuoco dalla bocca, ma ormai Stella e Robin erano già troppo lontani.

Mentre le fiamme divoravano il ponte, e molto probabilmente presto anche la nave, il pirata esplose in un ultimo grido furibondo, che divenne man mano più flebile mentre si allontanavano da lui.

«Grazie… Stella…» mormorò Robin. «Mi… mi hai salvato…»

«Non ti avrei mai abbandonato» rispose lei, sorridendogli calorosamente. «Adesso rilassati: ti porto a terra, dove potranno prendersi cura di te.»

«Ma… Slag? Lo lasciamo lì?»

«La tua salute è più importante.»

«Sì, però…»

«Non discutere!» lo ammutolì Stella. Robin la guardò sbigottito per un istante, per poi abbozzare una tiepida risatina. «Va bene, Stella. Ho capito.»

Stella sorrise soddisfatta. Avrebbe voluto stampargli un bacio di consolazione, ma in quel momento non era un gesto molto pratico.

Un rumore di esplosione giunse dalle loro spalle all’improvviso, facendoli trasalire. I due si voltarono, scorgendo diverse lingue di fuoco sollevarsi con forza da sopra il ponte, accompagnati da nubi di fumo nero. La nave cominciò a scendere lentamente di quota, sotto gli sguardi atterriti dei due ragazzi.

Di quel passo, ci avrebbe messo molto a precipitare, ma sotto di essa si trovava ancora il villaggio dei fongoid.

«Oh, no…» mormorò Stella. «Il villaggio è in pericolo!»

Robin annuì. «Dobbiamo… tornare a terra e avvisarli. Bisogna evacuare.»

«Andiamo!»

Senza perdere altro tempo, Stella scese verso terra, dove sperava caldamente di trovare il resto dei suoi amici.

 

***

 

Slag avanzò lungo il ponte barcollando. La botta della tamaraniana gli aveva piegato la gamba di legno, costringendolo a zoppicare. Il fumo che usciva dal ponte in fiamme non era nulla rispetto a quello che sarebbe uscito dalle sue orecchie, se solo le avesse avute. Era furibondo a dire poco. Aveva perso il suo prigioniero, e se la tamaraniana si era liberata, allora era molto probabile che anche gli altri fossero liberi.

Non aveva idea di che fine avessero fatto Caruso, Shyltia e Shamus, e la miriade di corpi dei suoi sgherri privi di sensi sparpagliati per il ponte non aiutava a migliorare il suo umore. Non si prese nemmeno la briga di svegliarli, li avrebbe lasciati tutti alle fiamme, quegli ingrati incapaci.

Di una cosa era sicuro: quei terrestri non l’avrebbero fatta franca. La sua destinazione era una ed una soltanto, in quel momento, la sala macchine.

Avevano portato via la sua ciurma, la sua nave era in fiamme e da solo non sarebbe mai riuscito a caricare tutti i suoi tesori su una navicella di salvataggio. Quei terrestri, con una semplicissima evasione, avevano distrutto tutto il suo impero, l’impero che aveva costruito con anni di sacrifici e di pugnalate alle spalle. Avevano portato via ogni cosa da lui.

Ora lui avrebbe portato via tutto da loro.

 

***

 

 

La felicità che Robin aveva provato quando aveva rivisto Stella probabilmente era seconda solo a quando lei aveva espresso di ricambiare i suoi sentimenti. Quando Slag lo aveva afferrato aveva creduto che la fine fosse arrivata, che non sarebbe mai riuscito a cavarsela anche quella volta, ma si era totalmente sbagliato.

Più che una ragazza, Stella era parsa un angelo. Il suo angelo custode, venuta a salvargli la vita scaraventando via Slag come se fosse stato un pallone da football. Non una cosa molto da angeli, effettivamente, ma se non altro respirava ancora, e quello lo doveva solo a lei.

Pensò che aveva quasi dimenticato quale aspetto avesse la terra, quando loro due vi atterrarono sopra. Stella lasciò andare a Robin, che si inginocchiò per cercare di recuperare dalle ferite.

Il palazzo di Alpheus era di fronte a loro, il loro arrivo non era certamente passato inosservato, e non passò molto prima che venissero raggiunti da due figure familiari.

«Kori!» esclamò Amalia, soffocando Stella in un abbraccio. «Ce l’hai fatta!»

Mentre le due sorelle si ricongiungevano, Rosso sorrise a Robin dall’alto, provocatorio. «Ti sei ridotto così a furia di sparlare alle spalle degli altri?»

Robin fece schioccare la lingua, abbozzando un sorrisetto a sua volta. «Non è colpa mia se sei sparito nel momento in cui i pirati sono arrivati. Se non sei stato tu, allora chi li ha portati qui?»

«Galvor.» Red X incrociò le braccia, con una smorfia. «Lui e i suoi amici lo hanno fatto per liberarsi di noi. Io ho provato a fermarlo, ma mi hanno quasi ucciso.»

«Come hanno fatto?»

«Usando la nave con cui siamo atterrati qui. Hanno mandato un SOS, e dopo, mentre ero neutralizzato, hanno fatto ricadere la colpa su di me.»

Robin scosse lentamente il capo, disgustato dal comportamento del fongoid. Non faticava a credere alla versione di Red X, e da una parte era felice di sapere che Rosso non li aveva traditi per davvero. Dopotutto, amava Amalia, e Amalia e Stella si erano riappacificate. Non avrebbe mai fatto nulla per ferire Amalia e di conseguenza Stella, portando le due a dividersi nuovamente per causa sua.

«Avete avvisato Alpheus di questa cosa?»

«Sì. Per un attimo hanno cercato di arrestarmi, ma siamo riusciti a spiegare la situazione, anche perché se fossi voluto scappare non sarei mai tornato lì. Purtroppo, però, Galvor e i suoi erano già spariti, cosa che è anche servita per scagionarmi.»

«Capisco. E gli altri dove sono?»

«Terra era andata a cercare Corvina, mentre io e Amalia combattevamo con Shyltia.»

«BB e Cyborg sono andati all’hangar, invece» aggiunse Amalia, tornando accanto a Rosso. «Hanno detto che avrebbero cercato una nave.»

Robin si voltò verso il vascello pirata, pensieroso. Sperò che stessero tutti bene, e che soprattutto riuscissero ad uscire da là prima che la nave precipitasse.

«Che diamine è successo lassù? Cos’è tutto quel fumo?» domandò Rosso, sembrando leggergli nel pensiero.

Il leader sospirò pesantemente, per poi rimettersi faticosamente in piedi. «Dobbiamo… avvisare Alpheus. La nave precipiterà, dovremo metterci tutti a distanza di sicurezza.»

«Che cosa?» domandò Amalia, sorpresa. «Ma… come?»

Un rumore assordante impedì a Robin di risponderle. I quattro sollevarono lo sguardo, per poi accorgersi di una grossa navicella scendere lentamente verso di loro. Una parte di Robin pensò che fossero dei pirati scesi per combattere ancora, ma un’altra, quella più ottimista, stava pensando a qualcos’altro. I due ragazzi e le aliene rimasero sull’attenti fino a quando la navicella non fu completamente immobile accanto a loro. Tuttavia, non appena lo sportello laterale si aprì, tutti quanti realizzarono che non c’era nulla di cui preoccuparsi: BB fece capolino da dentro la nave, sorridendo non appena vide i propri amici. «Ehi, ragazzi!»

Il mutaforma scese lungo la passerella metallica, subito seguito da Cyborg e da una strana ragazza aliena che Robin non aveva mai visto prima.

«Ragazzi!» esclamò Stella andando a stritolarli in un abbraccio. «Ce l’avete fatta! Avete una nave!»

«Merito della nostra nuova amica, qui» replicò Cyborg, accennando con un braccio all’aliena, che divenne più rossa dei capelli di Stella.

«Chi è quella?» domandò Robin a Rosso, che scrollò le spalle. «Era anche lei prigioniera di Slag. L’abbiamo liberata e ha deciso di venire con noi. È muta, però. Non abbiamo idea di come si chiami.»

«Mh.» Robin assottigliò le labbra, scrutandola bene in volto. Perché quel viso gli sembrava così familiare?

«Robin, che cavolo ti è capitato?» domandò Cyborg, sorpreso. «Sembra che tu sia finito in una fornace.»

«Non è molto diverso dalla realtà» mugugnò il leader, non particolarmente desideroso di narrare cosa gli fosse accaduto nel dettaglio.

«Che sta succedendo lassù?» domandò nel frattempo BB, cambiando argomento, con lo sguardo puntato verso il vascello di Slag. Anche Cyborg e l’aliena spostarono l’attenzione verso il cielo. Robin sospirò, poi cominciò a spiegare, aiutato anche da Stella quando si interrompeva a causa di alcune fitte di dolore.

«Dobbiamo far evacuare questo posto» concluse Robin. «Prima che quella nave ci crolli addosso.»

«Non credo ce ne sarà bisogno» si aggiunse un’altra voce, molto familiare a tutti loro. Il gruppo di ragazzi si voltò, per poi accorgersi di Corvina e Terra, non molto distanti, intente a raggiungerli.

La maga sorrise, sollevando uno strano oggetto piramidale che stringeva tra le mani. «Qualcuno ha visto Canoo?»

 

***

 

Reazioni miste provennero dai fongoid quanto il gruppo di ragazzi rientrò nel palazzo. Reazioni miste che finivano tutte col trasformarsi in stupore quando si accorgevano dell’oggetto magico che Corvina trasportava con sé. La maga avanzava eretta, con la testa alta, quasi con orgoglio. Non tanto per superbia, quanto più perché doveva restare fedele al suo ruolo di Salvatrice, e soprattutto voleva rendere onore alla Reliquia, un artefatto prezioso, potente ed importante come quello non poteva essere trasportato da una persona qualsiasi. L’intera sala, dapprima popolata dal parlottio del resto dei fongoid era sprofondata nel silenzio al passaggio di Corvina.

Il gruppo procedeva silenzioso, guidato dalla maga, accanto alla quale si trovava Terra, seguite poi da Stella e Robin, Amalia e Rosso e Cyborg, BB e l’aliena, con quest’ultima che non sembrava voler uscire dal nascondiglio dietro la schiena del robot per nulla al mondo.

Infine, si trovarono di fronte a chi stavano cercando. Canoo e Alpheus rimasero esterrefatti.

«La Reliquia…» mormorò lo sciamano, il primo che sembrò riuscire a ritrovare il dono della parola.

La maga riuscì a sorridere, per poi annuire. «Sì. L’ho ritrovata.»

Canoo si avvicinò alla ragazza, porgendo una mano. «Posso?»

«Naturalmente. Questa è vostra, dopotutto.» Corvina consegnò la Reliquia allo sciamano, che la esaminò con estrema attenzione, quasi non riuscisse ancora a crederci. L’artefatto si illuminò di luce propria all’improvviso e con esso tutte le gemme della stanza, da quelle più grosse incastonate nei bastoni delle guardie, a quelle più piccole usate come semplici decorazioni, fecero la medesima cosa. Diversi versi sorpresi si sollevarono nel salone, incluso quello dello stesso sciamano, che riuscì a sorridere entusiasta. «Io… non ho parole, davvero, per… per descrivere quanto ti… vi… sia grato.»

«Allora… suppongo che tu non sia arrabbiato con me per essere salita sulla nave» borbottò Corvina, strappandogli una tenue risata.

«Sei tu che dovresti essere arrabbiata con me, per quello che ti ho fatto… ho agito per proteggere il mio popolo, incurante di quello che tu avresti potuto pensare.» Canoo chinò il capo. «Ti porgo le mie più umili scuse, Salvatrice.»

«Corvina.»

Il fongoid drizzò lo sguardo, osservandola confuso. La maga distese il suo sorriso. «Puoi chiamarmi Corvina. Non sono arrabbiata, non preoccuparti.»

Canoo annuì lentamente. «Va bene, Corvina. Grazie.» Lo sciamano si rivolse al salone, attirando l’attenzione di tutti i fongoid. «A nome di tutti, voglio ringraziarti. Tu e tuoi amici ci avete salvati, e per questo saremo per sempre vostri debitori.»

Alpheus annuì lentamente. «Purtroppo non disponiamo di molto, ma sappiate che qui sarete sempre i benvenuti. Avete scacciato i pirati, e avete trovato la Reliquia.»

«Riguardo i pirati…» si intromise Robin. «… la loro nave sta… perdendo lentamente quota. Finirà per atterrare sul villaggio, e se non ce ne andiamo da qui al più presto, rischiamo tutti quanti di rimetterci la vita.»

Questa volta diversi gemiti spaventati si sollevarono tra la folla. Canoo ed Alpheus si scambiarono uno sguardo che Corvina non riuscì a decifrare, al che la maga decise di intromettersi. «Canoo, non puoi usare il potere della Reliquia per respingere la nave?»

Lo sciamano la scrutò per un istante, chiaramente pensieroso, per poi scuotere il capo. «Io non sono in grado controllare il potere della Reliquia in questo modo. Nessuno lo è. Ma…» Un altro sorriso comparve sul suo muso. «… non sarà necessario. Forza, tu e i tuoi amici, seguitemi al templio.»

Canoo si incamminò verso l’uscita del palazzo senza nemmeno attendere risposta. Corvina si scambiò un’occhiata perplessa prima con Terra, poi con il resto dei suoi amici, infine anche con Alpheus. Il re, ancora una volta, non disse nulla, si limitò a volgerle un cenno del capo, invitandola a seguire lo sciamano. Dopo un attimo di esitazione, Corvina annuì, poi si accinse a raggiungere Canoo, imitata dai suoi compagni.

Guidò i suoi compagni verso il templio, visto che nessuno di loro, probabilmente, era nemmeno a conoscenza di quel luogo segreto.

Raggiunsero Canoo nella sala delle pitture rupestri, dove lo sciamano attendeva appoggiato allo scettro. Quando si accorse di Corvina, le rivolse un cenno del capo. «Io non so controllare la Reliquia, ma non ha importanza, e ora capirete perché.»

Il fongoid ripose l’artefatto sul suo piedistallo, che per la prima volta dopo tutti quegli anni poté riaccogliere l’antica proprietaria di quel giaciglio. Canoo si allontanò a passi all’indietro, osservando la Reliquia che riluceva all’interno della stanza scura. Nulla accadde.

Passò una quantità non ben definita di tempo, in cui i ragazzi continuarono a scambiarsi sguardi confusi, Corvina tra tutti.

«Canoo?» domandò, incerta, in cerca di spiegazioni.

L’espressione dello sciamano mutò radicalmente. Da sicuro e determinato, passò ad essere nervosa. «Io… io non capisco…» Lo sciamano lasciò cadere a terra lo scettro, quasi sconsolato. «Credevo… credevo che se avessimo riportato la Reliquia, gli Zoni…»

La terra tremò all’improvviso, interrompendolo e facendo barcollare tutti loro. Terra gridò e si aggrappò a Corvina per non perdere l’equilibrio, gesto che per poco non le strappò via il reggipetto. Gli sguardi delle due ragazze si incrociarono e la bionda divenne paonazza. «Ehm…»

Se non altro, la sua reazione le fece capire che non era stata lei l’origine di quello scossone.

«Cos’è stato?» domandò BB, guardandosi attorno.

Canoo non rispose, limitandosi a correre verso l’uscita del tempio. Corvina lo seguì con lo sguardo, sempre più basita. Ancora una volta, non le restò altro che seguirlo.

 

***

 

Sopra la nave, Slag, messosi al timone, osservava ridendo sguaiatamente il complesso di abitazioni, pregustandosi il momento in cui avrebbe raso al suolo tutto quanto.

Shamus era nell’hangar, con un foro grosso quanto un boccaporto nel suo petto; Shyltia era nella sua stanza delle torture, con tutte le ossa rotte e il volto ridotto ad una maschera di sangue. Non era morta, ma per lui era come se lo fosse; Caruso era svanito nel nulla.

I corridoi della nave erano disseminati di corpi di pirati distrutti, causati dalla rissa e anche dagli evasi. Il fuoco aveva divorato il ponte, e alcune fiamme erano riuscite ad arrivare al deposito munizioni, causando esplosioni che si erano susseguite lungo tutto l’impianto elettrico del velivolo. I pirati rimasti, accorgendosi di quanto furibondo fosse il capitano, avevano tagliato la corda, alcuni con i Torpedo, altri si erano buttati giù dalla nave, verso la loro morte. Quelli rimasti sugli altri tre vascelli, rimasti in orbita fuori da Quantus, avevano tagliato la corda con essi. La sua flotta, il suo esercito, la sua nave e le sue ricchezze, il suo sogno, era tutto svanito.

E ora, lui avrebbe fatto svanire il misero pianetucolo sotto i suoi piedi. La nave stava scendendo in picchiata, sfruttando quel poco di energia che rimaneva ai motori ormai dilaniati dalle fiamme e dai malfunzionamenti.

Forse non sarebbe passato alla storia come il più grande pirata di tutti i tempi, ma sicuramente si sarebbero ricordati di lui come il pirata che aveva distrutto un pianeta intero. Il campo di asteroidi che sarebbe rimasto di Quantus sarebbe stato battezzato "Il campo di Slag II" in suo onore, ne era certo.

A quel pensiero, una risata ancora più grassa fuoriuscì dalle sue fauci.

«L’INFERNO VI ATTENDE, CANAGLIE! NON FATELO ASPETTARE PIÙ DEL DOVUTO!»

 

 

***

 

 

Di nuovo nel cortile, i ragazzi osservarono il cielo, dove poterono scorgere, impotenti, la nave di Slag puntare verso il villaggio, tuttavia non stava più scendendo lentamente, ma si stava spostando a velocità parecchio sostenuta. Se prima avevano ancora qualche decina di minuti di tempo, ora ne avevano uno scarso per scappare da lì.

«Che cosa facciamo?» domandò Stella, osservando il vascello. Robin, ancora stretto a lei, scosse la testa.

«Posso… posso creare una barriera» mormorò Corvina. «Attorno a noi e il palazzo. Forse…»

La terra tremò nuovamente, costringendola ad interrompersi

«Ma che diavolo…?» sbottò Beast Boy, osservando il suolo. «Di nuovo?»

Un boato si sollevò in aria all’improvviso, facendo sussultare i giovani. Più che un boato, parve un ruggito. Un insieme, di ruggiti, per l’esattezza. La nave si avvicinava sempre di più al villaggio, pronta a distruggerlo, ma ciò che accadde a terra fu molto più sconvolgente: decine, centinaia, forse migliaia di Basilischi Leviathan si sollevarono in cielo dalla foresta, fiondandosi contro il vascello. Si schiantarono contro il velivolo, letteralmente, sbattendoci contro il cranio talmente forte che se non si ruppero la testa all’impatto fu un miracolo. I corpi degli animali si saturarono di elettricità, veri e propri fuochi artificiali azzurri presero vita in cielo, al di sotto della nave, la cui discesa parve subire un brusco rallentamento.

Corvina schiuse le labbra. I Basilischi… stavano rallentando il vascello. Fu come vedere un esercito di insetti attaccare un animale più grosso. Uno solo di loro non avrebbe mai potuto fare nulla, ma tutti insieme…

Un sibilo provenne dalle loro spalle, facendoli voltare. L’ingresso del templio si illuminò di luce azzurra accecante. «Sommo Orvus…» sussurrò Canoo.

Un raggio di energia fuoriuscì dall’antico edificio, sorvolando il cortile e puntando verso la nave. Corvina, sempre più atterrita, assottigliò lo sguardo, riuscendo a scorgere alcune strane figure muoversi dentro quella luce. A quel punto, la maga sgranò gli occhi: quello non era un raggio qualsiasi.

L’energia si abbatté contro la chiglia della nave, dando manforte ai Basilischi, che ruggirono tutti quanti di nuovo all’unisono. Il baccano generato fece uscire dal palazzo diversi fongoid, incluso Alpheus, ciascuno dei quali rimase ad osservare la scena senza parole.

Sbuffi di vapore cominciarono ad uscire dai motori della sala macchine, i barometri sembravano impazziti, erano tutti fratturati, le lancette fuori controllo sopra le zone rosse.

Slag osservò la stanza attorno a sé sbalordito. «Ma che diamine?! Che succede?!» La luce azzurra gli impediva di scorgere cosa stesse accadendo al di fuori della nave, e il baccano generato dai motori offuscava qualsiasi rumore esterno.

La nave si piegò all’improvviso, facendogli perdere l’equilibrio. Il pirata crollò a terra, urlando infastidito. I barometri esplosero, alcuni motori si incendiarono.

«No… no…» sussurrò il pirata, guardando il resto del suo vascello andare in pezzi di fronte ai suoi stessi occhi. «No… NOOOOOOOOO!»

La luce cominciò a ricoprire il vascello, assieme all’elettricità dei Basilischi, fino a farlo svanire del tutto. Il tempo parve fermarsi per un istante. Poi vi fu un’esplosione.

Il cielo divenne arancione, una folata di vento caldo si abbatté sul cortile, costringendo i giovani a coprirsi occhi e volto con le braccia, i capelli che sventolavano all’aria. Una nube di fumo nero ricoprì il punto in cui fino ad un attimo prima si trovava il vascello. I Basilischi si allontanarono, tornando nelle loro tane sparpagliate per la foresta, mentre il raggio di luce, rimasto fisso nel punto in cui si era scontrato con la nave, cominciò a dissolversi lentamente. Man mano che si dissolveva, tre piccole sfere cominciarono a prendere forma al suo interno, che si rivelarono poi essere delle specie di barriere, messe a protezione di tre esserini neri. Non appena Corvina li vide, sgranò gli occhi, e lo stesso fecero Canoo ed Alpheus.

«Ma… cosa sono…?» domandò Terra, tuttavia senza ottenere risposte.

I tre piccoletti sollevarono le braccia e la luce azzurra tornò a coprire il luogo dell’esplosione, avvolgendolo completamente, soffocando il fumo e facendo ritornare il cielo al suo colore originale. Quando abbassarono le braccia, ogni traccia del fumo o dei resti del vascello erano svaniti, quasi come se non fossero mai stati lì.

«O-Ok» ripeté Terra. «Posso sapere, ora, chi sono quei tre?»

«Gli Zoni» sussurrò Canoo, mentre un sorriso prendeva forma sul suo volto. «Sono tornati!»

Le tre creaturine scesero lentamente verso di loro, sotto gli sguardi sbigottiti di tutti. Non appena furono abbastanza vicini, Corvina non ebbe più dubbi: erano loro. Erano le stesse creature che aveva visto in sogno e che l’avevano guidata. Era grazie a loro se aveva scoperto che i suoi compagni erano in pericolo, e sempre grazie a loro aveva scoperto dove si trovava la Reliquia.

I fongoid, guidati da Alpheus, raggiunsero il gruppo di ragazzi, ammaliati dal primo all’ultimo alla vista delle creature tanto particolari, quasi buffe, quanto incredibilmente potenti. In tre avevano annientato la nave e, sicuramente, erano stati loro ad aizzare i Basilischi verso il vascello.

Il popolo di alieni si inchinò di fronte ai tre Zoni, Alpheus e Canoo compresi. Osservandoli, Corvina intuì che sarebbe stato opportuno fare lo stesso, ma uno dei tre, quello al centro, la fermò sollevando una mano. «Resta in piedi, Salvatrice» annunciò con solenne, malgrado il timbro lieve, simile ad un sibilo. «E anche voi. Non dovete renderci omaggio, siamo noi a dovervi ringraziare.»

«Grazie, Salvatrice» annunciò lo Zone di destra, facendosi avanti. «Hai riportato la Reliquia al suo posto.»

«Grazie al suo potere siamo riusciti a manifestarci nuovamente» proseguì quello di sinistra. «Ora possiamo tornare a proteggere questo pianeta, e il suo popolo.»

«Quindi… voi non ve ne siete mai andati…» mormorò la maga, sorpresa.

Quello di mezzo scosse lentamente il capo. «No. Ma l’assenza della Reliquia ci ha indeboliti. Sapevamo dove l’avessero portata, ma non potevamo fare nulla, fuorché avvisarti telepaticamente.»

«E… come sapevate che io fossi la Salvatrice?»

«Noi Zoni sappiamo viaggiare nel tempo. Possiamo vedere il futuro. Abbiamo visto il pianeta in pericolo, e poi abbiamo visto te, e i tuoi amici, arrivare qui. Non ti abbiamo vista recuperare la Reliquia, ma in voi abbiamo visto un gruppo di guerrieri dall’animo nobile, e abbiamo riconosciuto il potere che scorreva dentro le tue vene, Salvatrice. Abbiamo capito che eri tu quella su cui potevamo contare maggiormente. Tu saresti stata l’unica in grado di resistere al potere della Reliquia, e così è stato.»

Lo Zone si abbassò, arrivando faccia a faccia con lei. I suoi occhioni enormi la studiarono brevemente. «Sappiamo che spesso il sangue che scorre nelle tue vene è causa di molte tue turbe, ma non devi temere: tu non sarai mai ciò che temi di essere. Il tuo animo è troppo puro per venire macchiato in questo modo. E ciò che hai fatto per questo pianeta, per tutti noi, ne è la dimostrazione.»

Corvina sorrise. Quelle parole riuscirono a scaldarle il cuore. Era vero, il suo sangue demoniaco, malgrado tutto, continuava a tormentarla, ma lei non avrebbe mai tradito i suoi amici, le persone che si fidavano di lei, e soprattutto Terra. Non avrebbe permesso a suo padre di manifestarsi ancora tramite lei. Spostò lo sguardo verso la ragazza bionda, che le sorrise, appoggiandole una mano sul braccio. Fece lo stesso con i suoi compagni, ciascuno dei quali rivolse lei un cenno del capo.

«E ora, per ringraziarvi per i vostri sforzi.» Lo Zone si sollevò di nuovo in cielo, portandosi accanto ai suoi due compagni. Tutti e tre sollevarono le braccia e la luce azzurra tornò a manifestarsi. Corvina la osservò ammaliata, mentre ricopriva lentamente tutti loro. Gemette sorpresa, ma sapeva che gli Zoni non avrebbero mai fatto del male a loro. Quando la luce svanì, tuttavia, la maga credette che nulla fosse cambiato. Fino a quando non si accorse della navicella rubata da Cyborg e BB, dapprima grigia scura, ora intervallata da molteplici ghirigori color azzurro fluorescente.

«Abbiamo potenziato la vostra nave» spiegò lo Zone. «In un solo giorno di viaggio vi ricondurrà a casa vostra. Potrete partire quando più vi aggrada.»

Casa. Aveva quasi dimenticato il vero significato di quella parola. Casa loro, Jump City. A stento ricordava l’aspetto di quella enorme città. Quanto le era mancata. Quante volte aveva sognato di poterci tornare, in quelle estenuanti settimane. Ma ora era tutto finito. Aveva adempiuto ai suoi doversi, aveva recuperato la Reliquia, riportato gli Zoni e salvato il pianeta. Non c’era più bisogno di lei, di loro, lì. Potevano finalmente tornare a Jump City, città che mai fino a quel momento le era sembrata così vicina. Tutto quello le pareva quasi surreale. Abbassò il capo, genuinamente senza parole. «Io… non so cosa dire. Grazie. Grazie davvero.»

Lo Zone annuì, poi il trio si diresse verso i fongoid, rivolgendosi ad Alpheus in particolare. «Non dovete più temere le Bestie, amici miei. Saranno i guardiani di queste terre, e vi proteggeranno da altri eventuali invasori. Ora Quantus potrà di nuovo rifiorire.»

Il re abbassò il capo, umile come probabilmente mai era stato. «A nome del mio popolo, vi ringrazio.»

«Noi ringraziamo voi per non aver mai perso la speranza.»

Alpheus tornò ad osservare lo Zone. Accanto a lui, Canoo sorrise.

«Bene. È giunto il momento di andare, ma non temete: noi rimarremo per sempre qui, a vegliare su di voi.»

«Arrivederci» asserì lo Zone di destra.

«Arrivederci» fece eco quello di sinistra.

Il re annuì. «Arrivederci.»

Canoo, Corvina ed il resto dei Titans imitarono il saluto, dopodiché il trio si sollevò in cielo, venendo ricoperto di nuovo dalla luce azzurra. Quando questa si diradò, i tre esserini erano già scomparsi.

«Molto bene» annunciò Alpheus, tornando serio come sempre. Parve quasi addirittura più autoriale del solito. Forse perfino troppo. Un atteggiamento che sicuramente cozzava parecchio con la gioia provata da tutti in quel momento.

Almeno fino a quando non sorrise nuovamente. «È tempo di festeggiamenti!»

Un boato di giubilo si sollevò nel cortile.

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Capitolo 26
*** Festeggiamenti ***


XXVI

Festeggiamenti

 

 

Una festa fu organizzata al palazzo. Tavole imbandite ci cibo erano state allestite nell’atrio, dove i fongoid e i ragazzi potevano andare a rifornirsi quando volevano. Camerieri e cuochi andavano avanti ed indietro dalle cucine come dei razzi, cercando di tenere il passo con tutto il cibo che stava venendo consumato in quel momento.

Non c’erano più occhiate diffidenti tra gli alieni e il gruppo di giovani supereroi, solamente riconoscenza, gratitudine e rispetto.

BB sembrava aver trovato il suo posto ideale nella stanza, ossia accanto ad un tavolo imbastito di frutta e verdura. Mentre il mutaforma mangiava, fu assalito da Yurik, che gli saltò letteralmente addosso. Beast Boy per poco non perse l’equilibrio e crollò a terra. La piccola peste venne poi rimproverata dai genitori, sopraggiunti per ringraziare il verdolo per aver salvato tutti loro quando Shamus li aveva aggrediti nel villaggio.

Beast Boy, imbarazzato, si mise una mano dietro la testa e biascicò le classiche frasi di rito sul fatto che non dovevano ringraziarlo e così via.

Quando il mutaforma riuscì a liberarsi della famigliola, si lasciò scappare un lungo sospiro dalla bocca. Sospiro che venne interrotto dall’arrivo di Terra, che gli diede un colpetto al braccio. Il ragazzo si voltò, sorpreso, per poi sorridere tenuamente.

«Bel lavoro con la navicella» cominciò la bionda, leggermente imbarazzata.

«Grazie…» rispose lui, incerto su come comportarsi con esattezza.

Terra si prese un braccio, per poi cominciare a massaggiarselo. «Volevo solo… insomma… chiederti scusa per come mi sono comportata con te le ultime settimane. Avrei… avrei dovuto dirtelo subito che… che tra noi…»

BB la fermò sollevando una mano. «La colpa è solo mia, Terra. Non preoccuparti. Tu stessa me l’avevi detto, le cose cambiano. Avrei dovuto ricordarlo, ma non appena ti ho rivista, io… io me ne sono completamente dimenticato. Non avrei dovuto pensare che le cose tra noi fossero rimaste esattamente identiche dopo tutto quel tempo. Insomma…» Il mutaforma si massaggiò di nuovo dietro al collo. «… all’epoca eravamo solo dei ragazzini. Non c’è da stupirsi se per te quello che c’è stato tra noi fosse solamente qualcosa di passeggero.»

La bionda annuì lentamente, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Sorrise, per poi dare un bacio sulla guancia al compagno. «Grazie, BB. Sono certa che riuscirai a trovare la persona giusta per te, quando saremo di nuovo a casa.»

Beast Boy annuì a sua volta, ricambiando il sorriso. «Spero che anche tu possa trovare qualcuno.»

A quelle parole, Terra parve avvampare leggermente, al che il verdolo sollevò un sopracciglio.

«B-Beh, io…» mugugnò la ragazza, facendo combaciare le punte degli indici, pensierosa. «Ne… ne parliamo un'altra volta, va bene?»

BB aprì bocca per replicare, ma la bionda si era già dileguata in mezzo alla folla. Il mutaforma osservò perplesso il punto in cui lei era scomparsa ancora per poco, per poi ridacchiare flebilmente.

Come se non avesse mai notato, prima di allora, gli sguardi che lei e Corvina si erano scambiate in quelle ultime settimane.

Il verdolo si voltò di nuovo verso il tavolo, sospirando ancora una volta. Afferrò un frutto, rigirandoselo tra le mani. All’inizio aveva pensato che la sua fosse solo paranoia, ma più passava il tempo, più quel pensiero aveva cominciato a solidificarsi nella sua mente. Le due ragazze che aveva amato, si amavano.

Avrebbe mentito dicendo che aveva faticato ad accettare quella cosa, all’inizio. A dire il vero, aveva creduto che avrebbe potuto dare di matto. Col tempo, tuttavia, era riuscito a mandare giù quel boccone, soprattutto grazie al pensiero di sapere che entrambe le ragazze fossero felici. In un certo senso… era proprio stato lui a rendere possibile ciò. Certo, la sua idea di lasciare libera Corvina non si rispecchiava proprio in quello, ma alla fine, forse era meglio che fosse finita così.

Anche se era innegabile il fatto che l’idea di loro due assieme, senza veli, facesse ribollire il sangue di una sua particolare parte del corpo.

«Aaaahh!» BB mugugnò e diede un morso a quella specie di mela, prima che pensieri particolarmente malevoli cominciassero a prendere forma nella sua mente.

 

***

 

«Ho guarito le sue ferite. Presto si rimetterà» annunciò Corvina, alzandosi in piedi, rivolgendosi a Stella.

La rossa, accanto al letto in cui Robin era sdraiato, annuì lentamente, gli occhi incollati sul compagno. Avevano accompagnato nell’infermeria il moro quando la festa era iniziata. Corvina si era offerta di occuparsi delle ferite del leader, e non c’era voluto molto prima che la pelle di lui fosse tornata al suo antico splendore. Robin si era addormentato poco dopo, sicuramente provato dallo scontro con Slag tanto mentalmente quanto fisicamente.

«Ti guardava nello stesso modo quando eri tu quella sdraiata.»

Quelle parole fecero drizzare il capo di Stella. Si voltò verso Corvina, che stava sorridendo debolmente. Un tenue sorriso nacque anche sul volto della tamaraniana. «Ricordo che me l’avevi detto…» Stella accarezzò Robin tra i capelli. «… è rimasto accanto a me per tutto il tempo, quando ero svenuta.»

Corvina annuì, rimanendo in silenzio.

Stella tornò a guardare Robin. Tutto ciò che avevano passato, ancora in quel momento, non le sembrava reale. Non solo nelle ultime settimane, ma praticamente da quando si erano conosciuti la prima volta. Quante avventure avevano vissuto, e quanti nemici avevano affrontato. Alcuni temibili, altri un po’ meno, da chi aspirava a comandare il mondo a chi, invece, voleva direttamente distruggerlo. Chissà quante altre avventure ancora avrebbero atteso tutti loro.

Non lo sapeva, sapeva solamente che sia tra tutte le avventure passate c’era un elemento in comune: Robin era sempre stato con lei. E non riusciva affatto ad immaginarsi un futuro senza di lui.

«Stella» la chiamò Corvina all’improvviso, catturando di nuovo la sua attenzione. La maga pareva pensierosa, incerta. Quando i loro sguardi si incrociarono, la sua amica parve esitare. «Io… vorrei… dirti una cosa…»

«Che cosa?» domandò la tamaraniana.

«Ecco…» Corvina si mordicchiò un labbro. «Comincio col dirlo a te, perché… siamo amiche, e so che tu non mi giudicherai, ma vorrei dirlo a tutti, in futuro, e… vorrei che tu possa aiutarmi.»

«Ma certo, amica Corvina» annuì Stella, sorridendo. «Cosa vorresti dirmi?»

«Beh… io…» La maga sospirò, abbassando il capo. «Vedi, io e… e Terra… sti… stiamo… stiamo insieme.»

Non appena pronunciò quelle parole drizzò di nuovo lo sguardo verso di lei. Stella dischiuse le labbra, mentre la maga sembrava volerle chiedere con lo sguardo di risponderle, di dirle cosa ne pensava di quelle parole. Ma soprattutto, sembrava spaventata da una sua possibile risposta.

Sicuramente, non poteva aspettarsi la reazione che invece Stella le diede. La rossa sorrise quasi maliziosa. «Lo sapevo già, amica Corvina.»

La sorpresa che aveva provato poco prima non era dovuta alla rivelazione in sé, quanto più al fatto che Corvina stessa avesse deciso di aprirsi a lei in quel modo.

«C-Cosa? Come facevi a… a…»

Il sorriso di Stella raddoppiò di misura. «Vi ho viste, quella volta, sulla nave…»

Corvina spalancò la bocca oltre i limiti conosciuti. Fino a quando la sua espressione sorpresa non si tramutò in indignazione. «Lo avevo detto a Terra di non farlo…» mugugnò, infastidita. «Dopo me la paga…»

Stella ridacchiò. «Sono solo felice che anche tu abbia finalmente trovato la tua metà. Mi ha sorpreso sapere che fosse Terra, però… l’importante è che tu sia felice. E poi… siete carine, insieme…»

La maga arrossì. Il che fu tutto dire, visto che Stella mai l’aveva vista con le guance di una tonalità di colore diversa da quel grigio che la caratterizzava. Poi, lentamente, Corvina riuscì a sciogliersi e a sorridere nuovamente. «Grazie, Stella.»

«Non c’è di che.» La tamaraniana congiunse le mani di fronte al ventre. «Grazie a te per aver guarito Robin. Ora però penso che dovresti recuperare un po’ di tempo perso con Terra… insomma, con tutta la storia della Salvatrice… credo che…»

«Ora basta, Stella…» mugugnò Corvina, accigliandosi. «Ho afferrato il concetto…»

Stella ridacchiò nuovamente, e malgrado tutto anche Corvina riuscì a sorridere ancora. La maga si congedò, augurando a Stella che Robin si riprendesse presto, e lasciò la stanza.

La tamaraniana si sedette sul bordo del letto, accanto al compagno, sospirando. Un mugugno proveniente da Robin, tuttavia, la fece girare verso di lui. Lo vide sveglio, con gli occhi aperti, ed un tenue sorriso sul volto. «Corvina… e Terra?» domandò, con la voce leggermente impastata.

L’aliena si chinò su di lui e gli stampò un bacio sulle labbra. «Da quanto eri sveglio?»

«Abbastanza…» mormorò Robin, accarezzandole una guancia. «Quando lo scoprirà, BB darà di matto…»

«Secondo me no» replicò Stella, posando una mano su quella dell’amato. «Secondo me capirà. Però…»

Percorse il petto di Robin con le dita della mano libera, lentamente, per poi mordicchiarsi un labbro. «Non è una cosa che riguarda noi due…»

Robin ridacchiò, poco prima che la tamaraniana gli appioppasse un altro bacio, questo molto più intenso del precedente. Stella lo amava, lo amava per davvero, e mai si sarebbe stancata di ripeterselo. E quando, quello stesso giorno aveva rischiato di perderlo, aveva creduto che sarebbe potuta impazzire. Non poteva immaginare una vita senza di lui. Non voleva una vita senza di lui. Lo amava. E perciò, avrebbe permesso a lui di amarla a sua volta.

Man mano che il bacio proseguiva, Stella allontanò la coperta da sopra il corpo di Robin, infilandosi lentamente nel lettino assieme a lui. La mano della rossa si avviò lentamente verso la vita del moro, che parve rendersi conto di quello che stava accadendo. Si separò dal bacio, sorpreso. «Stella…» mormorò.

La ragazza allargò il suo sorriso dolce. «Sì?»

I loro sguardi si incrociarono, e ciò permise a Robin di capire davvero le sue intenzioni. «Vuoi… vuoi farlo davvero?»

In un istante, le loro labbra si ritrovarono a pochi millimetri di distanza le une dalle altre. «Sì» sussurrò Stella, tutto d’un fiato.

Robin la studiò ancora per un istante, poi sorrise, e le loro labbra poterono unirsi nuovamente.

 

***

 

«Non posso credere che Galvor sia riuscito a svignarsela per davvero…» mugugnò Rosso, seduto su una sedia in disparte, accanto ad Amalia.

La coppietta si era appartata in un angolo dell’atrio, ed aveva partecipato alla festa più da spettatrice che altro. Rosso non era mai stato particolarmente in vena di festeggiamenti, ancora di meno in quel momento, consapevole del fatto che il verme che li aveva quasi fatti ammazzare tutti era a piede libero chissà dove.

«Su, su, coraggio, mio bel tenebroso…» lo consolò la tamaraniana, dandogli qualche pacca sulla schiena, sghignazzando. «Lo sai che mi fai impazzire quando sei così cupo, vero?»

Red X abbozzò un sorrisetto, dopodiché diede un bacio alla futura madre di suo figlio. Se non altro, tra lui e Amalia era di nuovo tutto come prima, il che era meglio di qualsiasi altra cosa. Accarezzò il ventre della ragazza, che era caldo e morbido come sempre.

Corvina e alcune fongoid avevano controllato anche la sua pancia, prima di occuparsi di Robin, e la maga le aveva assicurato che il feto era ancora perfettamente in buona salute, malgrado i graffietti di Shyltia. Pensare al loro bambino, non fece che ricordargli ciò che sempre Galvor aveva detto per provocarlo, e la cosa non aiutò per nulla a tranquillizzarlo.

«Non sai cosa diceva di te alle tue spalle…» sbottò ancora Rosso, tornando serio. «… se ci ripenso, giuro che…»

«Lucas» lo chiamò lei con il suo nome vero, facendolo sussultare. Prese il suo volto tra le mani, cercando di sorridere in maniera più dolce e comprensiva. «Che cosa abbiamo imparato sulle vendette inutili, io e te?»

Red X storse la bocca, per poi sospirare. Lo diceva la parola stessa. «Che… sono inutili.»

«Esatto. Se Galvor è scappato nella foresta non andrà molto lontano in ogni caso. Probabilmente i Basilischi se lo mangeranno, se gli va bene. Se gli va male, sarà costretto a tornare al villaggio, dove troverà ad attenderlo una mandria di fongoid incazzati neri per quello che ha fatto. Direi che non dobbiamo più preoccuparci di lui.»

«E se causasse altri problemi? E se…»

«Santo cielo, Rosso…» Amalia roteò gli occhi. «Sembri Robin…»

Non appena pronunciò quelle parole, Red X rimase a bocca semiaperta. No, non poteva averlo detto davvero. «Che… che cosa?»

Amalia ridacchiò, strofinando il pollice lungo il suo zigomo. «Niente, niente…»

«Davvero? Perché a me è sembrato proprio di sentire…»

La tamaraniana lo zittì stampandogli un altro bacio. Rosso abbozzò un sorriso, mentre lasciava che la compagna lo trasportasse assieme a lei in quel mondo magico che erano le loro effusioni.

Aveva ragione Amalia, Galvor non sarebbe più stato un problema. Non con la Reliquia e gli Zoni di nuovo in giro. E, soprattutto, non lo sarebbe stato per loro, visto che l’indomani sarebbero partiti.

L’indomani si sarebbero trovati a casa loro, sdraiati nel materasso pulcioso, di nuovo in compagnia dei loro coinquilini scarafaggi e con le sirene delle auto della polizia a svegliarli nel cuore della notte.

Non vedeva l’ora. Anche se forse quello non era l’ambiente ideale in cui crescere il loro futuro figlio, ma qualcosa si sarebbero inventati. L’unica cosa che contava davvero in quel momento era che potessero, finalmente, lasciare quel pianeta e, soprattutto, il maledetto spazio per potersene tornare nella sua amata Terra.

«Ti amo» sussurrò Lucas, quando si separarono.

Amalia lo accarezzò. «Anch’io. Che ne dici di… trovare un posto più appartato?» mormorò, strofinando l’indice sul suo petto.

Rosso sorrise. «Penso che sia un’ottima idea.»

 

***

 

Cyborg si chinò sopra il corpo di uno dei pirati distrutti nel villaggio e chiuse le mani attorno al cranio. Grugnì per lo sforzo, poi lo staccò dal resto del corpo, lasciando scoperti alcuni cavi e circuiti bruciacchiati. Il ragazzo esaminò con attenzione il contenuto della testa, valutando se poteva riutilizzare qualcuno di quei pezzi, uno in particolare.

L’aliena misteriosa lo raggiunse in quel momento, mostrandogli una manciata di componenti elettronici che aveva raccolto. Cyborg li esaminò e, con un sorriso, constatò che erano quasi tutti in condizioni piuttosto buone. «Quelli vanno bene. Bel colpo!»

La ragazza ricambiò il sorriso, arrossendo leggermente, e consegnò ciò che aveva trovato al titan.

«Grazie ancora per aver deciso di accompagnarmi» proseguì il cyborg, alzandosi in piedi. «A proposito… come dovrei chiamarti? Insomma, per quanto "ragazza" possa essere accurato, non mi sembra proprio un granché…»

L’aliena si prese il mento, pensierosa, per poi sollevare un indice, come se avesse avuto un’idea. Si accovacciò a terra e cominciò a tracciare alcuni segni con il dito su del terriccio accanto alla strada, tuttavia la sua buona volontà non bastò a rendere quel gesto utile, in quanto scrisse quello che doveva essere il proprio nome tuttavia in una lingua aliena al robot totalmente sconosciuta.

«Mi dispiace, ma non capisco cosa ci sia scritto…» mormorò Cyborg.

«Mh.» L’aliena mugugnò, picchiettandosi la guancia per un breve istante, fino a quando non sembrò avere un’altra idea. Si alzò in piedi e gli fece cenno di seguirlo, poi cominciò a correre. Incuriosito, Cyborg la seguì.

Raggiunsero la nave che avevano sequestrato ai pirati, ancora parcheggiata nel cortile del palazzo, e vi salirono sopra. La ragazza corse fino alla sala comandi, dove si chinò su una consolle. Accanto a lei, Cyborg la osservò assorto mentre digitava alcune parole, sempre a lui incomprensibili, sullo schermo, fino a quando l’aliena non schiacciò qualcos’altro, facendo apparire una specie di elenco sul monitor. Navigò tra le diverse opzioni, fino a quando non sembrò trovare quella che stava cercando. Premette un altro tasto e la parola sullo schermo, dapprima costituita da lettere in quella strana lingua aliena, si tramutò in una molto più semplice da comprendere.

Non appena lesse quel nome sullo schermò, tuttavia, Cyborg rimase esterrefatto.

«K… Kelwa?» domandò, incerto. La ragazza annuì con un sorriso entusiasta.

Il robot schiuse le labbra, reazione che parve stupire la ragazza. Kelwa si rimise a scrivere sullo schermo, ora formulando una domanda:

"Che succede?"

Cyborg la osservò perplesso, spiazzato anche dal metodo di comunicazione che avevano appena trovato, e rispose: «Per caso… conosci un certo Dewys? È un alieno che…» Se solo avesse ancora avuto l’occhio, Cyborg lo avrebbe spalancato. Ma come aveva fatto a non accorgersene prima? Dewys, l’alieno ribelle che aveva visto al Parco Marktar… era praticamente identico alla ragazza che aveva di fronte.

Non appena fece quel nome, infatti, anche Kelwa rimase esterrefatta. Si affrettò a scrivere di nuovo sulla tastiera.

"Lo conosco… è mio fratello. Tu come sai di lui?"

Il robot si passò una mano sopra la testa. Mai in tutta la vita avrebbe pensato di trovarsi in una situazione del genere. L’alieno che aveva messo a ferro e fuoco e distrutto il Parco Marktar assieme ad un esercito di altri alieni infuriati come tori era il fratello della ragazza di fronte a lui. E non solo, si poteva dire che era proprio Kelwa la causa di tutto, visto che lo stesso Dewys aveva parlato di lei, dicendo di volerla vendicare per ciò che le era successo a causa degli schiavisti. Suo fratello aveva creduto che fosse morta, ma, in quel momento, sembrava più viva che mai.

«È una storia lunga…» mugugnò il titan bionico, mentre ripensava a tutto quello che era successo. «Per tagliare corto, diciamo che io e i miei amici ci siamo ritrovati nel Parco Marktar, per salvare la nostra amica e sua sorella, le due tamaraniane. Uno schiavista di nome Metalhead le aveva rapite per venderle.»

Kelwa rimase a bocca aperta.

"METALHEAD IL JUGGERNAUT?!"

«Sì. Sono stati lui e il suo amico a… a farmi questo…» Cyborg si indicò la cicatrice sull’occhio, con un groppo amaro in gola. Quella notte, sembrava fosse arrivata la fine sia per lui che Beast Boy. Se ci ripensava, per certi versi ancora non riusciva a credere di essere ancora vivo.

Sussultò quando Kelwa mise una mano sul suo volto, sfiorando appena la cicatrice. Cyborg provò uno strano brivido lungo il corpo, il poco che ancora poteva percepire simili sensazioni. La piccola mano dell’aliena era molto più calda e soffice di quanto avrebbe mai potuto credere.

Kelwa terminò quel piccolo contatto, poi tornò a scrivere:

"Mi dispiace per quello che ti è successo. Deve essere stato terribile."

Cyborg sospirò. «È la vita che ho deciso di fare, questa. Conoscevo i rischi a cui sarei andato incontro quando ho deciso di affrontare criminali e assassini. Mentirei se dicessi che non ho mai temuto che situazioni del genere avessero potuto verificarsi. Avrò anche perso una delle poche cose che ancora mi rendevano umano…» Cyborg si sfiorò l’occhio chiuso. «… ma non ha importanza. Non conta come siamo fuori, ma come siamo dentro. Sono le azioni che compiamo che ci definiscono, e le emozioni che proviamo a renderci "umani". Sarò anche simile a loro, ma io non ho nulla in comune con i robot spietati che abbiamo incontrato.»

A quelle parole, Kelwa riuscì a sorridere e ad annuire timidamente. Strofinò di nuovo il pollice sul volto di Cyborg, gesto dal quale lui non si oppose, fino a quando l’aliena non decise di separarsi nuovamente per tornare a scrivere.

"E che cosa è successo al Parco Marktar? Ho sentito che è stato distrutto… è vero?"

«Sì» annuì il robot. «Da tuo fratello.»

Ancora una volta, Kelwa parve sconvolta.

«Lui e un gruppo di schiavi si sono ribellati alle guardie. Da come erano organizzati, sembrava quasi che stessero pianificando quel giorno da mesi. Si sono mischiati in mezzo ai prigionieri che sarebbero stati venduti all’asta, e hanno messo a ferro e fuoco il posto. Mentre la battaglia infuriava, Dewys e salito sul palco e ha espresso tutto il suo odio verso lo schiavismo. Infine… ha anche parlato di te.»

"Di me?"

«Ha detto che lo stava facendo per vendicare la… la tua morte.»

Kelwa si coprì la bocca, gli occhi strabuzzati. Osservò per un momento il pavimento, chiaramente pensierosa e combattuta, fino a quando non si morse un labbro e tornò a scrivere:

"Io e lui siamo stati costretti a lavorare in un campo di prigionia per quasi un anno… ci occupavamo di curare una piantagione, assieme ad un gruppo di altri schiavi. Non è stato semplice per noi, ma siamo riusciti a resistere, perché sapevamo che potevamo contare l’uno sull’altra. Un giorno, però, c’è stato un incidente: è scoppiato un incendio, che ha divorato l’intera piantagione e distrutto il campo. Approfittando del caos alcuni schiavi si sono ribellati. Mentre io e Dewys cercavamo di scappare, però, alcune guardie ci hanno braccato, intrappolandoci in mezzo all’incendio. L’unica cosa che ricordo di quel momento, è il muro di fuoco alto due metri che ci divideva. Lui mi ha urlato di scappare, e io l’ho ascoltato. Alcune guardie hanno sparato, ma non sono stata colpita. Sono riuscita a uscire da quell’inferno e a scappare con alcuni schiavi su una navicella rubata, ma di mio fratello non c’era traccia. Per tutto questo tempo… ho temuto che avessero sparato proprio a lui."

Cyborg lesse quelle righe con un misto di emozioni contrastanti dentro di sé. La cosa che più lo sorprendeva, era la tempra che Kelwa aveva dimostrato riuscendo a scrivere così tanto su quell’episodio così spiacevole senza mai fermarsi. Non sapeva cosa pensare del fatto che proprio in quel momento stesse parlando con una persona che aveva vissuto lo schiavismo sulla propria pelle.

L’aliena si sollevò una manica dell’uniforme verde, mostrando un segno sul proprio braccio al ragazzo. Dapprima Cyborg lo scambiò per una cicatrice, ma quando lo vide meglio, realizzò che era molto peggio: era un marchio. Non aveva idea di che simbolo fosse quello impresso sulla sua pelle, ma non ci voleva una mente particolarmente brillante per intuirlo. Kelwa sistemò di nuovo la manica, tornando ad osservare il pavimento con lo sguardo smorto.

«Ehi.» Cyborg la strinse al braccio, riuscendo ad incrociare di nuovo il suo sguardo. «So che per te deve essere stato terribile. Ma ora… è passato. Il Parco Martkar è stato distrutto, e Metalhead e un sacco di quei vermi come lui sono stati uccisi. Il messaggio che tuo fratello ha lanciato è più potente di qualsiasi esercito di mercenari. L’universo intero comincerà a ribellarsi al Dominio. Lo schiavismo non avrà ancora vita lunga, credimi.»

Kelwa rimase ad osservarlo per un breve istante, mordendosi un labbro. Lo abbracciò di getto, singhiozzando sommessamente. Cyborg fece un verso sorpreso, ma non passò molto prima che un tenue sorriso nascesse sul suo volto. Ricambiò la stretta, avvolgendo l’esile corpo di Kelwa tra le sue braccia. Avvertì il calore provenire dal suo corpo, e il suo lieve tremolio. Gli sembrò così fragile, così delicata, non sembrava vero che fosse riuscita a resistere a mesi e mesi di schiavitù. Era molto più tosta di quello che sembrava.

L’aliena affondò il volto nel suo petto e così vi rimase per diversi minuti. Quando infine si separarono, Kelwa si strofinò una mano sotto l’occhio, per poi tornare ad osservarlo. Parve concentrarsi particolarmente sulla cicatrice del robot. L’aliena la studiò brevemente, poi tornò a scrivere:

"Aspetta qui."

Kelwa corse via. Cyborg la seguì con lo sguardo, confuso, ma decise di obbedire. Si appoggiò alla consolle, sospirando. Si guardò attorno, ringraziando di essere riuscito a recuperare quella nave: non solo grazie ad essa sarebbero potuti tornare a casa, ma era anche riuscito ad usarla per ricaricare la propria energia prima che fosse troppo tardi. E poi era riuscito anche, finalmente, a comunicare con Kelwa. Malgrado non potessero parlare alla vecchia maniera, era comunque gradevole per lui riuscire finalmente a comprenderla. Stare con lei, parlarci, lo faceva stare bene. E anche l’abbraccio che si erano scambiati, raramente aveva sentito quel calore provenire dal corpo di qualcuno, e soprattutto quella sensazione di benessere che era nata dentro di lui. L’idea di Kelwa che soffriva lo aveva infastidito terribilmente, ed era stato bellissimo riuscire a farla stare meglio. Dopotutto, era suo compito aiutare il prossimo.

L’aliena tornò in quel momento, stringendo qualcosa tra le mani. Gli sorrise e gli consegnò l’oggetto: una piccola scatola di vetro, contenente un bizzarro gas azzurro.

"Credo che questa sia la scorta di Shyltia, o di Caruso. Si chiama Nanotech" spiegò Kelwa. "Viene utilizzato da militari e forze speciali, ma non è raro trovarlo da contrabbandieri o mercati neri. È in grado di guarire qualsiasi ferita."

Cyborg schiuse le labbra. «Qualsiasi?»

L’aliena annuì. "È un gas composto da miliardi di nanobot. Se inalati, i nanobot raggiungeranno la ferita da sistemare e si comporteranno come cellule organiche, ricostruendo il tessuto danneggiato fino a quando le cellule vere non si rigenereranno e potranno tornare ad occupare il loro posto. Possono aggiustare qualsiasi cosa. Anche un occhio."

Il titan quasi non credeva a ciò che stava leggendo. Osservò attentamente il Nanotech, ammaliato. Quel gas blu… in realtà erano miliardi di creaturine artificiali. Ma non era quella la parte più sorprendente: potevano restituirgli il suo occhio. E forse… non solo quello. Cyborg si strofinò una mano sul petto, osservandolo mesto. Il suo intero corpo… sarebbe potuto tornare quello di un tempo. Sarebbe potuto tornare ad essere un umano a tutti gli effetti. Avrebbero perfino potuto restituire il braccio a Rosso. Era… incredibile. Un motivo per cui si era messo ad esaminare i corpi dei pirati caduti era anche per cercare un nuovo occhio biotico, ma ora… ora non ne aveva più bisogno. Osservò Kelwa, la quale doveva essere completamente ignara di quanto, effettivamente, quel gesto fosse stato importante. Ora fu lui ad abbracciarla per primo. La ragazza avvolse le braccia attorno al suo collo, sospirando compiaciuta.

«Ti ringrazio, Kelwa» affermò il robot.

Kelwa separò lentamente il capo da lui, facendo sì che si trovassero faccia a faccia. Sorrise dolcemente, tornando ad accarezzargli la guancia. I loro sguardi si incrociarono, ed il sorriso svanì lentamente dal volto dell’aliena, lasciando posto ad un’espressione molto diversa. Espressione che Cyborg ricambiò. Un istante dopo, le loro labbra si incontrarono, e i due cominciarono a baciarsi teneramente.

Era da tanto tempo che Cyborg non si sentiva così. Quel bacio, il respiro di Kelwa sul suo volto, i suoi versi bramosi… riuscirono a farlo sentire vivo, in tutti i sensi della parola. Per una volta, Cyborg non si sentì più l’ibrido meccanico che aveva sempre creduto di essere, ma un uomo a tutti gli effetti, e senza Nanotech. Aveva baciato diverse ragazze nel tempo, ma solamente Kelwa riuscì a trasmettere quella sensazione in lui.

Quando si separarono, entrambi sorrisero. Kelwa rimase tra le sue braccia ancora per poco, fino a quando non si sciolse dalla sua stretta.

"Ti farà un po’ male per qualche minuto, ma non appena sarai guarito, non sentirai più nulla."

Cyborg annuì, tornando ad osservare il Nanotech. Non lo avrebbe assunto subito, tuttavia. Lo avrebbe portato a casa con sé e lo avrebbe studiato con più attenzione. «Lo terrò a mente. A proposito… non potresti usarlo anche tu per la tua voce?»

Kelwa scosse la testa. "Io sono nata con questa malformazione. Il Nanotech non può riparare qualcosa che non è rotto. Per parlare ho sempre utilizzato un modulatore di voce artificiale, ma me l’hanno sottratto quando ero una schiava, così ho sempre utilizzato il linguaggio dei segni."

«Capisco… e… cosa è successo dopo la tua fuga? Come sei finita sulla nave di Slag?»

"Io e il resto degli schiavi abbiamo chiesto aiuto ai Ranger Galattici. Loro ci hanno ospitati in uno dei loro rifugi, e con il tempo hanno aiutato gli schiavi che ancora avevano casa e famiglie a raggiungerle. Io però ero orfana, e la mia unica famiglia era Dewys. Non avendo un posto dove andare, mi hanno trovato una sistemazione in un pianeta ai confini della Galassia, una specie di grossa stazione di servizio per le navi di passaggio. Ho lavorato in un locale per diversi mesi, non era un granché, ma se non altro ero libera. Qualche giorno dopo la presunta distruzione del Parco Marktar, però, i pirati di Slag si sono fermati al locale per una sosta, e non appena Caruso mi ha vista ha iniziato a comportarsi in maniera strana… ma non avrei mai pensato che mi avrebbero rapita. Adesso che so che è stato Dewys a distruggere il Parco Marktar, posso intuire perché lo abbiano fatto. Il Dominio pagherebbe miliardi per avere la sua testa. I pirati volevano arrivare a lui tramite me."

Cyborg annuì, chinando leggermente il capo. «Cosa farai ora?» Una parte di lui avrebbe voluto chiederle di venire sulla Terra con loro, ma dubitava che sarebbe successo davvero. A dimostrazione di quel pensiero, Kelwa scrisse:

"Devo cercare Dewys. Deve sapere che in realtà sto bene. E voglio aiutarlo nella sua battaglia."

Lo sguardo determinato dell’aliena fece ben intendere che le sue intenzioni erano proprio quelle. Non era affatto intenzionata a lasciarsi scivolare addosso tutto quello che le era successo. Anche lei voleva vendicarsi del Dominio, era palese. E se quello era il suo desiderio, allora Cyborg avrebbe quantomeno cercato di rendersi utile.

«Beh… se vuoi possiamo accompagnarti in un luogo sicuro, dove potrai mandare un messaggio ai ribelli. Quando verranno a prenderti… potremo salutarci.»

Kelwa annuì, sorridendo lievemente.

"Non mi dimenticherò di te."

«Neanch’io» rispose Cyborg, tuttavia con un groppo alla gola.

Kelwa distese il sorriso, dopodiché si rimise in punta di piedi, per cercare ancora una volta le sue labbra. Cyborg la strinse per i fianchi, sollevandola, portandola alla sua altezza, e si assicurò che quel bacio rimanesse per lungo tempo ben impresso nella sua mente.

 

***

 

«L'hai... l'hai detto a Stella, allora?» mormorò Terra, sedendosi accanto a Corvina.

La maga annuì. «Sì. Ha detto che era felice per noi... e anche che ci aveva viste, quella volta, sulla nave...»

«Oh...» Terra avvampò. «Ehm... b-beh...» La bionda si interruppe, quando la maga afferrò la sua mano.

Terra schiuse le labbra, ma accorgendosi dell'espressione tranquilla della maga, sorrise. Sapere che Stella approvava il loro rapporto riusciva a rincuorarla... doveva solo sperare che fosse lo stesso anche per tutti gli altri. Fece vagare lo sguardo lungo l'atrio, dove solamente pochi fongoid intenti a dare una ripulita erano rimasti. La festa era finita, ormai, e tutti i loro amici si erano ritirati nelle loro stanze. La sera stava calando, quella sarebbe stata la loro ultima notte al palazzo.

«Dovremmo… tornare in camera anche noi… magari puoi fermarti a dormire nella mia... che ne pensi?»

Corvina si voltò verso la geomante, sollevando un sopracciglio. Terra sentì le guance bruciare, ma tenne lo sguardo saldo su di lei.

«Cosa vorresti insinuare, scusa?» sbottò la maga. «Con chi credi di parlare? Io sono la Salvatrice. Sono una figura di rilievo, qui. Secondo te posso abbassarmi a certe volgarità?»

Terra la osservò basita. Tuttavia, intuendo la natura scherzosa delle parole della maga, decise di stare al gioco. Squittì indignata, facendo sventolare i capelli biondi. «Come ti pare. Sei tu quella che ci rimette, qui. Di certo non io.»

La maga ridacchiò sommessamente, scoccandole un bacio sulla guancia, gesto che sorprese non poco Terra. Non c’era praticamente nessuno in vista, ma comunque vedere Corvina compiere quel gesto così all’aperto fu piuttosto sorprendente.

Le due ragazze si scambiarono uno sguardo, ridacchiando entrambe sommessamente. Terra avrebbe voluto baciarla, ma una terza voce fece sobbalzare tutte e due: «Signorine.»

Corvina e Terra si voltarono, trovandosi di fronte Canoo, in compagnia di una fongoid. Lo sciamano sorrise, mentre le due compagne divennero una più rossa dell’altra.

«Non mi avevi detto che la Salvatrice aveva questo tipo di preferenze» mormorò la fongoid, afferrando il braccio di Canoo.

«Non ne ero proprio certo…» ribatté quest’ultimo, per poi chinare il capo, in segno di scuse. «Mi spiace di avervi importunate, ma la mia compagna era ansiosa di conoscerti di persona, Corvina.»

Terra osservò la fongoid, sorpresa. Quindi anche Canoo aveva la sua dolce compagnia. Fino a quel momento la geomante aveva creduto che questo fosse sposato con il proprio credo, o che addirittura avesse una relazione con Alpheus stesso. Quei due erano sempre insieme, del resto…

La fongoid nel frattempo porse la mano verso Corvina, che la strinse. «Lieta di fare la tua conoscenza. Grazie per aver riportato la Reliquia, almeno ora questo zuccone la smetterà di trascurarmi…»

Canoo roteò gli occhi. «Jensa, ti prego…»

La fongoid ridacchiò, e malgrado tutto, anche Corvina sorrise. «È stato un piacere.»

«A proposito… dov’è la regina?» domandò Terra, intromettendosi, mentre pensava proprio allo stesso Alpheus.

Jensa, la fongoid, si incupì a quella domanda, e lo stesso fece Canoo. «La regina Katara è mancata durante il periodo delle carestie» mormorò lo sciamano. «Era gravemente malata, e il duro periodo a cui siamo andati incontro dopo l’arrivo dei predoni non fece altro che peggiorare le sue condizioni.»

«Oh…» mormorò Terra, sorpresa.

«Era nostra amica» fece eco Jensa, chinando il capo. «Era un modello da seguire per tutte noi fongoid. Ma il dolore che il popolo ha provato per la sua scomparsa non deve essere stato nemmeno un decimo di quello che deve aver provato Alpheus.»

Anche Terra abbassò lo sguardo. Ora capiva perché Alpheus era sempre apparso così serio, malgrado la presenza del ben più vivace Canoo.

«Ci dispiace» mormorò Corvina, al che lo sciamano sorrise di nuovo.

«Non dovete dispiacervi di nulla. Ciò che avete fatto non ci avrà restituito i nostri cari caduti, ma ha comunque fatto molto più di quanto pensiate: ci ha donato una speranza. Io ed Alpheus temevamo che saremmo stati gli ultimi sciamani e re della nostra stirpe, ma voi avete impedito che questo si verificasse. Se i fongoid continueranno a prosperare, è solo merito vostro… anche se l’appellativo "ultimo sciamano" non suona poi così male…»

«Certo, peccato che nessuno sarebbe rimasto in vita per poterne narrare la storia» lo rimproverò Jensa. Canoo ridacchiò. «Sì, giusto. Beh…» Chinò ancora il capo, questa volta in segno di rispetto verso Corvina e Terra. «Direi che abbiamo rubato abbastanza del vostro tempo. Ci rivedremo domattina, dove potrò darvi gli ultimi saluti. Per il momento posso solo augurarvi buona notte.»

Jensa annuì. «Buona notte, ragazze.»

«Altrettanto» sorrise Corvina, scambiandosi un altro sguardo con Terra. La geomante sorrise, posando una mano sopra la sua. La maga gemette sorpresa, ma non si sciolse da quel contatto.

«Divertitevi» salutò anche la bionda, spostando un’ultima volta lo sguardo verso i fongoid.

Canoo e Jensa si congedarono, con quest’ultima che, prima di allontanarsi del tutto, borbottò ancora al compagno, strappandogli un risolino: «Che strani i terrestri…»

«Tu vuoi morire prematuramente…» mugugnò la maga, una volta che i due furono sufficientemente distanti.

«Beh, considerando che sono già morta due volte… direi che sono a posto così.»

L’espressione contrariata di Corvina divenne mortificata all’improvviso, quando si rese conto di ciò che aveva appena detto. «S-Scusa… non… non volevo…»

Terra la zittì premendo le labbra sulle sue. Corvina arrossì nuovamente, per quanto possibile. Era inutile, la geomante non si sarebbe mai stancata di provocare la maga, le sue reazioni erano troppo divertenti, e sicuramente non si sarebbe mai stancata dei loro baci. Quando si separarono, Terra sorrise, accarezzandola dolcemente.

«Non sai quanto ti ami, Corvy…»

Corvina abbozzò un sorriso, appoggiando la mano su quella della bionda. «Se mi ami almeno la metà di quanto ti ami io, allora penso di saperlo eccome.»

«Ew. Troppo miele» mugugnò Terra, strappando un risolino alla maga.

«Smettila» sbottò Corvina, cercando nuovamente le sue labbra.

Anche la geomante ridacchiò. Era tutto finito, ed erano di nuovo assieme. Mentre la baciava nuovamente, Terra si fece una promessa: questa volta, non avrebbe permesso più a nulla e nessuno di separarle ancora.

 

 

 

 

 

 

 

 

Beh, che dire ragazzi. Ci sono voluti anni, ma alla fine, eccoci qui. Mi dispiace per tutti gli alti e bassi che vi ho costretti a sopportare, voglio solo che sappiate che sono assolutamente grato a chiunque stia leggendo questa storia. Non posso sapere se siete lettori veterani o meno, ma vi ringrazio in ogni caso. Vi ringrazio per aver avuto pazienza e avermi seguito fino ad oggi, se siete veterani, vi ringrazio invece di avermi dato una possibilità, se siete nuovi. In ogni caso, grazie.

Questo non è l’ultimo capitolo, il prossimo sarà l’ultimo, e a quel punto potremo salutarci come si deve. Grazie, davvero, grazie. Alla prossima!

 

p.s Chiedo scusa per il macello che ho fatto nello scorso capitolo, con quelle ripetizioni assurde all'inizio dei paragrafi e l'errore nel numero del capitolo, durante la scrittura ero un po' incerto e alla fine ho fatto un po' di bricolage fatto male, tra copia, taglia ed incolla vari. Spero possiate perdonarmi... non che a me cambi la vita, tanto so già che mi odiate comunque per avervi fatto aspettare così tanto per far uscire questi capitoli. 



P.p.s Questa è Kelwa. Non mi pare di averla già mostrata in passato. Ringrazio Talwyn Apogee per avermi prestato il suo volto. Grazie Talwyn. So che non esisiti davvero, ma non importa. 

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Capitolo 27
*** Fine ***


XXVII

Fine


 

Quel mattino fu diverso dal solito. Forse era il cielo più limpido che mai, forse era la fresca brezza rinvigorente nell’aria, il sole caldo e splendente... o forse era perché stavano finalmente per andarsene da lì.

Amalia sospirò pesantemente. Dopo tanto tempo passato su Quantus, non le sembrava vero di essere in procinto di partire di nuovo, e i suoi compagni sicuramente dovevano pensare lo stesso.

Un esercito di fongoid era venuto a salutarli, capitanati ovviamente da Alpheus e Canoo. Corvina, in testa al gruppo, continuava a snocciolare saluti al popolo venuto a celebrare la propria salvatrice, per l’imbarazzo della stessa maga e per il divertimento di Terra. Anche Amalia doveva ammetterlo, vedere Corvina imbarazzata era una forza.

Stella teneva Robin per mano, e a giudicare dagli sguardi che si lanciavano e dalle loro risatine, quelle di Kori in particolare, era evidente che la notte prima quei due avessero combinato qualcosa di sconveniente, qualcosa che probabilmente avrebbero ripetuto già quella sera stessa.

Finalmente, la mora avrebbe voluto aggiungere. La sua piccola sorellina minore era cresciuta! Forse era perfino il caso di festeggiare.

Per finire, BB, Cyborg e l’aliena, Kelwa, così si chiamava, erano in disparte, vicino a lei e Rosso. Cyborg teneva le braccia conserte, se ne stava eretto, orgoglioso e determinato, BB invece era ingobbito ed assonnato. Al suo ennesimo sbadiglio, il robot non si fece troppi problemi a sferrargli una pacca sulla schiena, ma non una di quelle amichevoli. Il mutaforma si raddrizzò di colpo, mordendosi un labbro per non mettersi a gridare. Incenerì Cyborg con un’occhiataccia e il titan bionico rispose con un’espressione confusa, strappando una risatina silenziosa a Kelwa.

Komi sospirò, appoggiando la testa sulla spalla di Rosso, che le avvolse un braccio attorno alle spalle. I due si scambiarono un rapido sguardo, sorridendosi, prima che Amalia riportasse l’attenzione sui ragazzi attorno a lei.

Sembrava tutto così… tranquillo. Tutti loro si comportavano esattamente come se quella fosse stata una giornata sulla Terra come le altre, come se nulla di tutto quello che era accaduto nelle ultime settimane fosse davvero successo.

Invece, però, era successo. Ripensare agli avvenimenti passati fece venire un groppo alla gola di Amalia, soprattutto se considerava che, in un certo senso… tutto era partito proprio da lei.

Se lei non fosse tornata sulla Terra in cerca di vendetta, Stella non sarebbe mai stata intossicata e costretta a letto a causa del narcotizzante che aveva dato a Rosso. E con Stella in forma e in grado di combattere, Metalhead ed Edward non si sarebbero trovati di fronte ai Titans divisi e vulnerabili, senza contare il fatto che Red X non li avrebbe nemmeno distratti, quella notte. In poche parole, era stata tutta colpa sua… di nuovo. Anche se lei sembrava essere l’unica a pensarlo, visto che nessuno le aveva detto assolutamente nulla. Forse avevano faticato all’inizio, ma in poco tempo i Titans l’avevano accolta come una di loro, e quella diffidenza con cui l’avevano scrutata per diverso tempo era svanita, rimpiazzata da una cordialità alla quale lei non era quasi più abituata.

Lei sembrava davvero essere l’unica ad incolparsi di quanto successo. E forse avrebbe davvero dovuto smetterla di farlo. Forse… avrebbe dovuto imparare ad accettare quanto accaduto, fare tesoro delle esperienze accumulate, per assicurarsi che queste non si verificassero più. Forse… non tutti i mali venivano davvero per nuocere.

«Ehi.»

La voce di Lucas la riportò alla realtà. Amalia si voltò, sorpresa, incrociando di nuovo lo sguardo del compagno.

«Tutto ok?» le domandò. «Sembri… pensierosa.»

Komand’r lo analizzò con lo sguardo per un istante. Si morse un labbro, ponderando se dirgli o meno la verità, anche se sapeva benissimo cosa lui le avrebbe detto se lei l’avesse fatto. Non doveva preoccuparsi. Il peggio era passato, erano insieme, erano felici, e stavano tutti bene. Aveva fatto pace con Stella, erano di nuovo una famiglia, una famiglia che presto si sarebbe allargata. Il pensiero della sorella che giocava con il nipotino fece nascere un sorriso sul volto della tamaraniana mora, che annuì lentamente. «Va tutto bene, non preoccuparti. È solo che… non mi sembra vero che sia finita.»

«A chi lo dici…» mugugnò Red X, strappandole una risatina, mentre lui la stringeva con più forza.

«Mi mancherà questo posto.»

Lucas ridacchiò. «Questa sì che è bella.»

Amalia fece un’espressione quasi dispiaciuta. «Andiamo, i fongoid avevano bisogno di aiuto, e sono stati gentili con noi. Non essere troppo duro con loro.»

Rosso grugnì. «Non proprio tutti…»

«Ancora pensi a Galvor?» domandò la ragazza, con un sorrisetto. «Accidenti, non pensavo che tra voi fosse scoccata una simile scintilla… avresti potuto dirmelo, avrei ceduto volentieri a lui il mio posto in camera nostra…»

«Ah-ah…» mugugnò il moro, per poi sospirare. «Ok, ho capito… la smetto con questa storia.»

Amalia gli scoccò un bacio sulla guancia. «Bravo il mio ometto!»

Per tutta risposta, Red X fece una smorfietta, strappando un altro risolino alla tamaraniana.

«Sarete sempre i benvenuti, qui» esordì nel frattempo Alpheus, sollevando il tono di voce. «Ormai è come se faceste parte anche voi di questo luogo.»

Corvina chinò il capo. «Ve ne siamo grati. Saremo lieti di tornare a farvi visita, in futuro.»

«Anche no…» borbottò Rosso, facendo ridacchiare sommessamente Amalia ancora una volta. Robin questa volta parve sentirla, perché si voltò verso di loro sollevando un sopracciglio. Non appena lo fece, tuttavia, sia Red X che Komi distolsero lo sguardo da lui, come due bambini colti sul luogo del misfatto dal genitore. Quel gesto, oltre a farla rischiare di ridere ancora, le fece realizzare che il comportamento che Robin aveva appena usato era lo stesso che sicuramente avrebbe riservato a BB, Cyborg, Terra, o addirittura anche a Corvina e Stella, se fossero stati loro quelli a ridacchiare. Quel gesto, per quanto piccolo e fastidioso, per certi versi, significava anche che ormai, loro due, facevano davvero parte in tutto e per tutto della squadra. Amalia non seppe come prendere davvero quella scoperta, ma vedere Stella appoggiare la fronte sulla spalla di Robin, con un sorriso stampato sulle labbra, le fece dimenticare quei pensieri. Sapere di trovarsi a pochi metri di distanza da Kori, consapevole del fatto che ora tra loro fosse di nuovo tutto a posto, era più che sufficiente per lei.

«Arrivederci, allora» salutò nel frattempo Alpheus, con un cenno del capo.

Canoo non fece troppi complimenti, ed abbracciò direttamente Corvina, strappandole uno squittio sorpreso. «Arrivederci…» mugugnò, con uno strano tono di voce. Sembrava quasi che avesse appena pianto, o che stesse per ricominciare di nuovo.

Amalia lo aveva capito che lo sciamano era un po’ sbarellato, ma non così tanto. Non che la cosa lo rendesse antipatico ai suoi occhi, tutt’altro.

«S-Sì… mi mancherai anche tu, Canoo…» mugugnò Corvina, imbarazzata come non mai.

Kelwa strinse le mani e se le appoggio alla guancia, osservandoli deliziata in un gesto volutamente esagerato, atto ad attirare l’attenzione di Cyborg. Osservandola, anche al titan bionico scappò un risolino.

«E arrivederci anche a tutti voi» proseguì Alpheus, rivolgendosi al resto del gruppo. «Anche se abbiamo dedicato più attenzione alla vostra compagna, voglio che sappiate che siamo grati a tutti, dal primo all’ultimo, in egual modo. Dopotutto, siete una famiglia, e dietro il duro lavoro fatto dalla Salvatrice, sappiamo anche che c’è quello di tutti voi. Quando si è in un gruppo, ogni singolo membro di esso è importante. Non si può arrivare ad un livello come il vostro senza un leader carismatico…» Alpheus spostò lo sguardo su Robin, che distese il sorriso. «… senza una mente brillante…» Ora toccò a Cyborg, che parve sorprendersi di trovarsi sotto le luci della ribalta. Kelwa gli diede una pacca sul braccio, costringendolo a massaggiarsi dietro al collo imbarazzato. «… o anche senza… un po’ di maniere forti…» Toccò a Rosso il turno sotto ai riflettori.

Non appena sia il moro che Amalia si resero conto di tutti gli sguardi puntati su di lui, alla tamaraniana dispiacque di non avere una macchina fotografica con cui immortalare l’espressione di Lucas. Sembrava quasi implorare con lo sguardo di essere seppellito vivo, e il terribile sorriso forzato che stava facendo era il punto esclamativo messo al termine di quella richiesta.

«E soprattutto, senza la presenza di qualcuno al nostro fianco che ci sproni e che ci spinga sempre a dare il meglio di tutti noi» non si rivolse a qualcuno di particolare, questa volta, ma era evidente che stesse parlando delle ragazze, Stella, Amalia, perfino Terra e Kelwa. Tutte loro si scambiarono uno sguardo con le persone a cui erano associate, pure la biondina non si fece troppi scrupoli ad osservare Corvina con un’espressione decisamente diversa rispetto a quella che una semplice amica le avrebbe rivolto.

Amalia incrociò lo sguardo di Rosso per l’ennesima volta e gli sorrise, ringraziando sempre per l’ennesima volta di averlo conosciuto. Lui le aveva cambiato la vita, in tutti i sensi, e avrebbe continuato a farlo anche nel futuro che li attendeva. Per quel motivo, lo avrebbe per sempre amato.

«E poi, beh… c’è Beast Boy» concluse Alpheus, dedicando il finale del discorso al membro del gruppo passato più in sordina. Ora gli sguardi caddero tutti sul mutaforma, che spalancò gli occhi. «Ehm…» mugugnò, per poi far schioccare la lingua ed appoggiarsi entrambe le mani dietro al capo con falsa aria di superiorità. «Ovviamente. Cosa farebbe la squadra senza di me, dopotutto?»

Cyborg sghignazzò, regalandogli un’altra pacca sulla schiena, mentre il resto dei presenti ridacchiava a sua volta.

«Vai, BB!» gridò un piccolo fongoid in mezzo alla calca. «Sei il migliore!»

Anche il re sorrise al mutaforma, volgendogli un cenno del capo. «Grazie a tutti voi. La Terra è fortunata ad ospitarvi.»

I ragazzi cominciarono a guardarsi tra loro, colpiti dalle sue parole. Pure Rosso e Amalia vennero considerati dal resto del gruppo, a dimostrazione del fatto che ormai erano davvero un tutt’uno. Facevano parte della squadra, della famiglia. Per una volta, Amalia riuscì a non sentirsi più fuori posto, in mezzo a tutti loro.

«Bene. Vuoi aggiungere altro, Canoo?» continuò Alpheus, riportando l’ordine.

«N-No…» mugugnò lo sciamano, con la voce ancora leggermente incrinata. «Hai già detto tutto tu…»

«Allora credo proprio che sia il caso di smettere di trattenere i nostri ospiti.» Il re chinò il capo in cenno di saluto. «Fate buon viaggio, Teen Titans!»

Corvina sorrise, ricambiando il gesto, imitata dal resto dei propri compagni. Il popolo di fongoid esplose in grida e gesti di saluto, ognuno augurando loro buon ritorno a casa a loro modo.

Il gruppo di ragazzi proseguì verso la navicella nel cortile, ricambiando i saluti, perfino Amalia abbozzò qualche cenno con la mano, rivolto soprattutto verso le fongoid che si erano prese cura di lei.

Quando entrò dentro la navicella, le parve quasi di essere entrata in un’altra dimensione. Una strana sensazione percorse il suo corpo, come spinta nel sangue dal battito cardiaco.

Non si accorse più dei suoi compagni, nemmeno di Lucas, di cosa si stessero dicendo, delle loro espressioni, non si domandò cosa potessero pensare. Mentre Cyborg faceva partire la navicella e sentiva il suolo di Quantus staccarsi da sotto i piedi di tutti loro, strinse la mano di Rosso con più forza, e quella fu l’unica cosa che fece. Osservò lo spettacolo attraverso il parabrezza di fronte a lei, il cielo azzurro decorato da nuvole candide trasformarsi lentamente in quello più scuro ed illuminato dalle stelle nello spazio.

Non si rese conto di essere rimasta con il fiato sospeso fino a quando il bisogno di aria non divenne impellente. Espirò molto più forte di quanto avrebbe voluto, attirando l’attenzione di Rosso su di sé.

«Ti senti bene?»

Con uno sforzo, la ragazza annuì. «Sì, va tutto bene.» Si accarezzò la pancia, ripensando al futuro che la attendeva. Il suo viaggio, la sua avventura lì, nello spazio, in quel pianeta, stava per giungere al termine… ma la sua storia, quella no. La sua storia, quella di Rosso e anche quella della creatura che teneva dentro di sé, tutte e tre sarebbero proseguite e, al pensiero di ciò, un moto di eccitazione si fece largo tra l’angoscia.

Osservò Quantus che si allontanava lentamente dalla loro vista, smarrendosi nei meandri dello spazio, e sorrise. Uno dei sorrisi più grandi e genuini che aveva mai fatto. Quel capitolo era chiuso, ma ora… ora stava per iniziarne un altro, un altro che sicuramente sarebbe stato altrettanto impegnativo, se non di più.

E lei non vedeva l’ora. Baciò il compagno appassionatamente, e le braccia di lui la strinsero con forza, con fare protettivo. Quando le loro labbra si separarono, Amalia lo osservò in quelle iridi profonde come l’oceano, e distese il sorriso. «Va tutto benissimo.»






Ladies and gents, questo capitolo era pronto da un fracco di tempo. Penso di averlo finito un anno fa o giù di lì, ma non ho mai avuto voglia di pubblicarlo, in realtà perché avevo in mente di fare un ritorno a casa più dettagliato, tuttavia... penso che possa andare bene così. Finale aperto, ma non troppo. I nostri eroi sono felici, sono assieme, e TORNERANNO a casa questa volta.

Quindi... sì. Scusate se ci ho messo tanto e scusate se sembro un po' sottotono, ma sarò sincero, scrivere storie sui TT mi ha un po' drenato di ogni energia. Ho iniziato la mia carriera su un'altra sezione e mi sento rinato. Però ero anche stanco di vedere sta storia ferma con un solo capitolo mancante, quindi... niente. Non sarà il finale epico che avreste voluto, penso, e vi chiedo scusa per questo, ma dovevo darci un taglio definitivo, mettere un punto finale, almeno su questa storia. 

Riguardo Infamous 2... gente, sarò onesto con voi, non ho alcun desiderio di riprendere quella storia. Mi dispiace davvero. Potrei cambiare idea, magari tra qualche anno, non lo so, ma al momento Infamous 2 rimane così com'è. Vi chiedo scusa. E di nuovo, chiedo scusa per questo finale un po'... meh. Penso che sia meglio di niente, credo. Non lo so, gente, non lo so. Sono solo felice di aver terminato questa storia.

Quindi... a chiunque leggerà, se siete arrivati fino a qui, vi ringrazio molto. Grazie a chi mi ha seguito dall'inizio, dal lontano 2014 quando scrissi le prime timide storie (brutte come la fame) grazie a chi mi ha seguito durante Hearts of Stars, grazie a chi ha seguito Infamous e grazie a chi ha letto questa storia qua fino alla fine o la leggerà perché incuriosito dal fatto che è apparsa nella prima pagina dopo eoni. 

Niente, grazie a tutti, siete stati una famiglia fantastica nel periodo in cui ho scritto in questa sezione, ma ora è tempo che io emigri da un'altra parte. Queste storie avranno sempre un posto nel mio cuore, tutti voi lo avrete, ma... sapete com'è, il mondo è bello perché vario e ho deciso di variare. Se vorrete leggere altra roba mia, vi consiglio assolutamente la mia storia sul fandom di Percy Jackson, un altro mattone di 44 capitoli da fare impallidire HoS di cui mi sento molto orgoglioso, ma sta a voi, se volete vedere come me la passo, se volete leggere qualcos'altro di mio perché apprezzate me come scrittore e non solo perché scrivevo sui TT, sapete cosa fare. Sennò non ha importanza, pace e amore a tutti voi, grazie ancora per essere arrivati fino a qui, perdonatemi se ci ho messo così tanto e, di nuovo, perdonatemi se il capitolo è sottotono.

Statemi tutti bene, è stato un vero onore scrivere per voi. Ci vediamo... alla prossima, suppongo. Arrivederci a tutti!


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