IN A HEARTBEAT

di Alicat_Barbix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 8 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix
 
PROLOGO
 
John’s POV. Adoro questa stagione. E’ semplicemente liberatoria la sensazione che mi avvolge ogni volta che metto piede fuori da quella topaia, con l’aria fredda che mi avvolge e il cielo plumbeo che incombe minaccioso. E’ durante giornate come queste che mi sento libero di chiudere gli occhi e lasciare che il grigiore spumoso del firmamento mi avvolga, attenuando il grigiore interno, il senso di vuoto. Non so che fare della mia vita, forse non l’ho mai saputo. La strada di tutti gli altri è chiara, nitidamente tracciata dalla loro nascita, mentre io… io sono solo un involucro dentro al quale non c’è vita, dentro cui non arde quella fiamma che anima chiunque incontri per strada. Sono spento, sbiadito, sfiorito.
“Ehilà, John!”
Quasi non odo la voce catarrosa e roca di Warren, il giornalaio da cui di solito acquisto il mio Times quotidiano. Mi volto con aria forse smarrita e quando incontro il suo affabile volto rubicondo mi apro in un sorriso tirato, magari anche falso. Mi capita spesso, ultimamente: con Ella, con mia sorella quando non litighiamo, con i vecchi compagni d’università… E’ sempre più difficile mascherare ciò provo davvero dietro a questa espressione all’apparenza solo un po’ stanca. Succede anche quando mi guardo allo specchio: mi meraviglio di quanto l’aspetto esteriore riesca ad emulare una qualche emozione così distante da quello che invece ti corrode interiormente.
“Salve, Warren.”
“Lo vuole il suo solito quotidiano?” mi domanda allungandomi una copia del Times fresca fresca di editoria.
“Ehm… Sì, grazie, Warren.” biascico accettando il giornale e frugandomi in tasca alla ricerca degli spiccioli necessari per pagarlo, ma lui mi allontana la mano col compenso, borbottando un ma si figuri!
“Ce n’è stato un altro.” borbotta poi.
Interiorizzo quella frase e non ci metto troppo per capire a cosa si riferisce: nella capitale non si parla ormai d’altro che di questo. Suicidi seriali – pare – tutti identici, tutti avvenuti in posti in cui le vittime non avevano ragione di essere, tutti causati dalla stessa, identica pillola. Sfoglio frettolosamente le pagine spesse e imbrattate d’inchiostro fitto e scuro, fino ad arrivare a quella interessata: Jennifer Wilson, 38enne, originaria di Cardiff e una mezza colonna dedicata alla descrizione dello svolgimento delle indagini dirette da un certo ispettore Lestrade. Il quarto suicidio. In fondo alla pagina ci sono anche le foto delle vittime. Li guardo negli occhi, uno a uno, indago in quelle pupille di mero inchiostro, tra quelle rughe d’espressione che solca i loro volti, provo ad ipotizzare che cosa li abbia spinti a compiere un tale gesto, quali siano stati i loro ultimi pensieri prima di spegnersi per loro stessa mano. Si sentivano anche loro vuoti? Vuoti come me? Sorrido nel scoprirmi a pensare alla pistola accuratamente riposta in quel cassetto mangiucchiato dai tarli, diabolicamente attraente, bellissima. Neanche la guerra è stata capace di ammazzarmi. Sul campo di battaglia, tra le eco degli spari e le grida dei miei commilitoni, avevo ripreso a sentirmi vivo, potevo percepire lucidamente il sangue pulsarmi nelle vene, l’adrenalina animare le membra intorpidite da giorni di battaglia e notti di insonnia. Poi, una stupida ferita alla spalla e tutto è sprofondato nei rifiuti.
“Mi chiedo dove abbiano preso quelle pillole.” mormoro sovrappensiero.
“John…” sussurra tra l’allibito e il preoccupato Warren, di cui avevo totalmente dimenticato la presenza. “… Ma che dice?”
Capisco solo troppo tardi la frase sfuggita dalle mie labbra. Merda. Fingo una risata divertita, portandomi la mano libera da questo maledetto bastone allo stomaco per rendere tutto più credibile. “Dovrebbe vedere la sua faccia, Warren!”
“Brutta canaglia di uno Watson, me l’ha fatta! Devo dire che è un ottimo attore.”
Eccome se lo sono. Non faccio altro da quando sono nato. Recitare, mascherare, nascondere, più verbi di sapore differente ma della stessa consistenza.
Ho bisogno di andarmene via da qui. Magari… potrei fare una passeggiata al parco, per schiarirmi un po’ le idee e stare un po’ da solo. Con la coda dell’occhio scorgo un taxi che incede lento, i sedili ancora vuoti.
“Adesso devo andare, Warren. Ah, e grazie per il giornale!” esclamo con gioia forzata prima di alzare l’indice alla macchina in arrivo. Mi infilo dentro come se ne dipendesse la mia vita e tiro un sospiro di sollievo. Il tassista, un buffo ometto avanti con gli anni, si volta e mi chiede con fredda cortesia – tipica di ogni inglese – la mia destinazione. “Hyde Park.”

Sherlock’s POV. Lento. Molto lento, troppo lento, stupidamente lento. Solo un idiota non avrebbe potuto capire. Rache. Dando per scontato che stia per Rachel e non corrisponda ad una stupida minaccia di vendetta in tedesco come quell’idiota – per l’appunto – di Anderson si ostina a sostenere, le opzioni rimaste erano poche. Perché non ci ho pensato subito? Scanso Lestrade, irrotto in casa con la scusa di una perquisizione antidroga – che sciocchezze: non tocco quella roba da dopo… Scaccio quella scomoda immagine che per anni ha minacciato di ricomporsi nel mio Palazzo Mentale dopo averla scansata nell’angolo più buio della mente. Leggo l’indirizzo mail scritto sulla targhetta della valigia della vittima e mi sbrigo a riscriverla sulla barra del nome utente dell’app per le poste elettroniche sul cellulare. Era così ovvio! Ce l’ho sempre avuto sotto gli occhi! Rachel non è un nome, ma una password. E infatti, la casella postale di Jennifer Wilson si apre dopo pochi secondi.
“Possiamo leggere la sua posta, e allora?” biascica Anderson con voce irritata.
“Anderson, non parlare, abbassi il quoziente intellettivo di tutto il vicinato.” Ovvio che non è la sua posta a interessarmi, ma… “Trovato!” esclamo con un sorrisetto vittorioso osservando il nitido puntino rosso su una mappa approssimata di Londra.
“Come diavolo…” borbotta Lestrade sporgendosi sulla mia spalla per osservare meglio, ma io chiudo fuori lui e tutta la sua stupida squadra dalla mia mente, per entrare nelle stanze del mio Palazzo Mentale. L’assassino… Di chi ci fidiamo anche se non lo conosciamo? Chi passa inosservato ovunque vada? Chi caccia in mezzo alla folla?
Ma certo… Ma certo!
Riapro repentinamente gli occhi e studio la cartina. Secondo la mappa, il telefono della vittima si trova presso l’istituto superiore di Roland Kerr. Non ha ragione di trovarsi lì, è una zona isolata… Non ha ragione di trovarsi lì. Scatto in piedi rovesciando la sedia all’indietro.
“Sta per fare una nuova vittima, veloci!”
Lestrade resta per qualche istante a fissarmi con occhi sgranati, quasi paralizzato da quella consapevolezza. Faccio un passo in avanti e lo prendo per le spalle, la stretta sicura e gli occhi infuocati.
“Coraggio, Lestrade, fidati di me, o un altro innocente verrà ammazzato!”
A quelle parole, gli occhi dell’ispettore si riempiono nuovamente di cognizione. “Avanti, gente! Muoversi!”
“Al collegio di Roland Kerr!”

John’s POV. Ci sediamo come farebbero esattamente due amici di vecchia data, come se avessimo intenzione di ordinare qualcosa al bar o scambiare quattro parole, rivangando il passato. Mi fissa estremamente interessato con i suoi occhietti piccoli e vispi, come un pitone pronto a scattare fulmineamente verso la preda, i denti velenosi e le spire del corpo soffocanti. Mi guarda in silenzio e io non so come comportarmi. La pistola ha avuto il suo effetto, inizialmente. Quando sono entrato nel taxi, non credevo davvero che la situazione avrebbe imboccato questa piega, e nonostante tutto, alla vista di quell’arma latrice di morte non ho provato che un piccolo balzo al cuore per lo stupore. Stupore che si è sciolto, lasciando il posto ad una muta confusione nel momento in cui l’autista mi ha costretto ad entrare qui dentro.
Sospiro. “Volevo solo fare una passeggiata.”
Il tassista ridacchia appena e i suoi occhi brillano ancor più. “Ma si guardi. Non le sono rimasti che pochi istanti di vita, eppure trova la forza di scherzare. Non si direbbe spaventato.”
“E lei non si direbbe spaventoso.” ribatto inarcando un sopracciglio, ma poi mi limito a sospirare una seconda volta e ad incrociare le mani davanti a me, lasciando andare il bastone che cade a terra con un tonfo. “Che cosa vuole?”
“Parlare con lei.”
“Perché?”
“Perché così si ucciderà.”
Una risatina amara fuoriesce dalle mie labbra. “Le ho fatto qualcosa in particolare? Non so, le ho forse rubato le caramelle da piccolo o cose del genere?”
Lui sogghigna ma non risponde. La sua mano scivola lentamente nella tasca del maglione grigio – grigio come il cielo e come me – e ne estrae due boccette contenenti due pillole uguali in tutto e per tutto. “Facciamo un gioco.” sentenzia alla fine suscitando il mio interesse. “Su questo tavolo c’è una boccetta buona e una cattiva. Il suo scopo, signor…” “Watson.” “… signor Watson, è quello di scegliere una delle due boccette, sperando di non aver preso quella velenosa.”
“Interessante, sì, ma perché dovrei farlo?”
“Per prima cosa, signor Watson, si ricordi della pistola, e in secondo luogo, non le ho ancora detto la parte migliore: qualunque boccetta lei sceglierà, io prenderò l’altra. Non barerò, ingoieremo la pillola insieme e si vedrà chi è vivo e chi invece è morto.”
Mi sistemo più comodamente sulla sedia, le braccia conserte. Una pillola buona e una cattiva. Le famiglie delle vittime dei quattro suicidi hanno sempre affermato che i loro cari non avevano motivo per togliersi la vita, che i posti in cui i loro corpi sono stati ritrovati non avevano alcuna connessione con loro. Potrebbe essere che… che sia capitato loro quello che sta capitando a me?
“E’ lei il responsabile della morte di Jennifer Wilson e delle altre tre vittime di cui si parla ultimamente?”
“Già… i suicidi… Beh, non posso dire di essere il responsabile, ma comunque, diciamo che mi assumo parte della colpa. Sono stati loro ad ingerire le pillole, io mi sono limitato a fornire loro una scelta.”
“Scelta che ora sta dando a me.”
“Esattamente.”
E’ strano. Non ho paura. Anzi, mi sento stranamente rilassato, quasi appagato. Magari è solo un segno del destino ed è per questo che sono qui: per un disegno più grande. Per tutti questi mesi in congedo dall’Afghanistan, non ho mai osato premere il grilletto della mia pistola: troppo umiliante, il mio orgoglio me l’ha sempre impedito. Ed ora eccomi qui, di fronte alla resa dei conti. Analizzo le singole possibilità con ponderatezza: se scelgo quella cattiva, sono morto, ma se scelgo quella buona… chi mi dice che sono vivo? Insomma, è da tempo che non lo sono, che mi limito a respirare, a soddisfare i bisogni minimi del mio corpo, ma il mio cuore non batte più da tanto. Non ho nulla che ho paura di perdere o una ragione per rimanere attaccato alla mia vita, anzi. Penso che la morte sarebbe un sollievo, il mio finalmente e non un semplice infine. Perciò, perché no? I giornali parleranno di me, le notizie si diffonderanno in fretta, le persone che un tempo ho amato sapranno che sono morto, quelle che mi hanno dimenticato si ricorderanno di me, e fra tutte, magari ci sarà anche…
Sospiro e scuoto la testa. Basta. Non posso andare avanti così. Non sono più John Watson, non lo sono da tempo, non ricordo neanche più quando e se lo sono stato. “Qual è la boccetta cattiva?”
“Prego?”
“La boccetta cattiva. Voglio sapere qual è.”
“In modo da scegliere l’altra? Crede che io sia così stupido?”
Sorrido appena, forse il mio primo, vero sorriso da molto. “Niente affatto, anzi, credo che lei sia abbastanza intelligente e gentile da porgermela, così risparmiamo tempo.”
Lui tace, il viso imperscrutabile. Posso percepire i suoi occhi scavarmi dentro, analizzare ogni singola cellula del mio essere. Un cecchino dalla mira infallibile e dalla mano più ferma di una statua. “E’ il suo cuore il problema, non è vero?”
Uno stiletto di dolore mi trapassa il corpo, conficcandosi in quello che mi sembra un guscio vuoto, un mero petto e niente più. Come può sapere? Non può sapere.
“Non si scomodi a chiedersi come ho fatto a capirlo. So già di essere un genio dotato di un’intelligenza superiore.” sentenzia con un sospiro annoiato, accomodandosi meglio sulla sedia. “Deve far male, eh? Sapere che tutti hanno un cuore vibrante, vivo e lei è completamente svuotato di ogni cosa.”
Stringo i pugni il più forte possibile. Fa male? Fa male. Eccome se fa male. E sono stanco, stanco da morire. Non voglio più chiudermi in me stesso e continuare a fingere: se non posso star bene, se non posso più essere come gli altri, allora tanto vale morire, portare nella tomba il dolore e il mio niente.
“La boccetta.”
Con un fluido movimento della mano, spinge avanti una delle due boccette, un sorriso ferino sulle labbra. “Direi che questa volta non è davvero colpa mia.” osserva ridacchiando mentre afferro l’ampolla e la stappo, esaminando ogni screziatura della bianca pillola che sembra invitarmi suadentemente a porre fine alla mia inutile esistenza. “Qual è il suo nome intero?”
“John Watson.”
“Addio, John Watson. Nonostante io sia un serial killer… bè, spero che lei possa trovare un posto migliore, o che almeno smetta di soffrire.”
Sorrido e mi risparmio di rispondere che non credo in alcuna fottuta vita al di là della morte o in divinità varie. Ho visto troppo con questi occhi stanchi per potermi permettere il lusso e la viltà di sperare nell’esistenza di un’entità superiore.
Mi rovescio la pillola sulla mano, così piccola eppure con un potere così grande… Resto qualche secondo immobile, la mente che richiama i ricordi uno a uno e li accarezza gentilmente. Rivedo la mia famiglia prima dell’inizio di tutti i problemi con mia sorella, rivedo i miei primi amici e le mie prime fidanzate, rivedo il college, rivedo l’Afghanistan, e rivedo… rivedo ricordi che non dovrebbero mai tornare a galla, come al solito i più belli e quelli da cui è più difficile staccarsi alla fine. E infine penso… sì, penso al gelato. A quanto mi piaceva da ragazzo. Sorrido appena a quell’immagine.
Chiudo gli occhi e mi avvicino alle labbra la morte. Addio vita. Addio mondo. Addio cuore che non ho più.
All’improvviso, un fracasso alle mie spalle. Non faccio in tempo a voltarmi che una voce appare luminosa come la luce del sole.
“Si fermi! La sua vita non le appartiene! Le tolga le mani di dosso!”
Spalanco gli occhi. No… Non può essere.
La sua vita non le appartiene.
Com’è possibile? Anni… Sono passati anni.
Le tolga le mani di dosso.
Ma non potrebbe essere altrimenti. Mi volto lentamente, gli occhi che prendono a riempirsi di qualcosa che somiglia così tanto a delle lacrime eppure so che non è possibile visto che io non… E invece sono lì, scottanti, liquide, presenti. Non ricordavo neanche di che cosa sapesse avere il viso rigato dalle lacrime… Non è possibile. Non è possibile. Non è possibile.
Sono voltato. Ce l’ho davanti. Ce l’ho davanti e ancora non ci credo. Non può essere lui. Eppure non è cambiato per niente. E quella frase… quella frase non può averla pronunciata nessun altro.
Mi alzo dalla sedia repentinamente. Sono voltato e le mie labbra articolano il suo tanto desiderato e temuto nome.
“Sherlock…”

SPAZIO AUTRICE
Eccomi qui con una nuova long fic, anche se sarà molto più breve di Cuore Sul Grilletto. Sono secoli che covo questa idea e secoli che ho rimandato perché ero terrorizzata da quello che avrei potuto partorire, poi alla fine mi sono detta ma provaci! Questo prologo è solo un assaggio della storia, nel prossimo capitolo scopriremo un po' come funziona il discorso dei cuori che in questa parte è stato praticamente assente - a parte qualche menzione - e soprattutto com'è possibile che John conosca Sherlock. Lo scoprirete nel prossimo capitolo (omg, mi sento troppo come la voce narrante nelle anticipazioni dei prossimi episodi di una serie tv, lol). Spero di aggiornare regolarmente, ogni lunedì, - sempre che mi ricordi - e mi auguro che questo prologo vi abbia un po' incuriositi. Se avete tempo e piacere, recensite liberamente, senza peli sulla lingua, e vi aspetto lunedì prossimo col prossimo capitolo (che bella ripetizione). Un bacione gigante (cosa sei, una youtuber?) e alla prossima!!!

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 ***


IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix

CAPITOLO 1
 
 
Era immobile sul cornicione del tetto. Una stupida folla si era assiepata ai piedi dell’edificio, bramosa di scorgere quell’evento irripetibile. Le loro grida gli giungevano smorzate, qualcuno sembrava incitarlo a buttarsi, altri invece a scendere di lì. Quando le prime teste dei primi professori si fecero largo in quell’intrico di nuche e volti anonimi, quelli che gli urlavano di gettarsi presero invece a pregarlo di ripensarci. Sorrise tra quelle due profonde cicatrici segnate dalle lacrime: bastardi fino in fondo.
Non farlo.
“Sta’ zitto.” ringhiò alla vocina flebile.
Possiamo aggiustare ogni cosa, basta che scendi di lì.
“Non c’è niente da aggiustare! L’unico rotto, qui, sono io! Io, capisci?”
Non puoi dargliela vinta! Abbiamo ancora così tante cose da fare, tanti giorni da vivere, tante emozioni da provare… Scendi, per favore!
Ma lui scansò quel pigolio in un cantuccio oscuro della sua coscienza. Non intendeva più stare al gioco di quell’esserino che gli abitava il petto e che fino ad allora non aveva fatto altro che tormentarlo con i suoi ideali pieni di amore e di pace, così futili e meschini quando sulla sua pelle erano segnate le umiliazioni subite, le percosse accusate.
Un rumore alle sue spalle lo fece voltare di scatto. La porta d’accesso al tetto si aprì cigolando e nonostante il suo desiderio fosse quello di lasciarsi andare prima di incappare in un qualche ostacolo, rimase fermo, ad attendere chissà cosa. Davanti a lui, fece capolino la figura di un ragazzo dai capelli biondi e il volto corrugato in un’espressione pensosa.
“Kate, sei qui?” chiamò quello affacciandosi con tono scocciato e occhi esasperati, ma quando lo sguardo s’incatenò al suo, s’immobilizzò. “Whoa… Ehi, amico, che stai facendo là sopra?”
“Vattene via.”
Il ragazzo mosse un cauto passo verso di lui, le mani protese in avanti come per calmarlo. “Va tutto bene, è tutto okay.”
“Non è okay.”
“No, no, infatti, hai ragione. E’ quello che è, e beh… quel che è sarà sicuramente una merda se ti trovi là sopra. Ascolta, perché non vieni giù un attimo? Potremmo… non so, scendere assieme e prendere un caffè, parlare. Sfogarsi a volte aiuta…”
“Vattene.”
Il ragazzo sospirò e abbandonò le mani lungo i fianchi. Aveva una strana luce negli occhi, calda, forse anche dolce. “No.”
“Non mi conosci neanche…”
“Esatto, per questo non me ne vado. Senti, non voglio costringerti a fare niente che tu non voglia fare.”
“E allora lasciami in pace.”
Il ragazzo scosse piano la testa. “Non posso. Non riesco ad accettare il fatto di… trovarmi davanti al futuro ragazzo sucida senza averlo conosciuto. Se vuoi buttarti, se davvero sei così disperato da non vedere altra via di scampo, non posso certo impedirtelo.”
Era strano, quel tipo. Era la persona più strana che avesse mai conosciuto. Solitamente, tutti al sol vederlo si scansavano, temendo che anche solo parlandogli sarebbero finiti a loro volta nel mirino di Jackson e dei suoi compari, invece quel ragazzo era lì, salito fin sul tetto per cercare una qualche ragazza di nome Kate e trovatosi davanti uno strambo in bilico tra la vita e la morte da provare a riportare a terra. Davvero singolare.
Sospirò e si voltò di nuovo verso il vuoto, dove i suoi carnefici stavano attendendo impazientemente, con sicuramente un mezzo ghigno in faccia. Perché deluderli?
Per l’amor del cielo, non farlo!
Ma ormai non c’era nulla da non fare. Si sentiva già morto, il suo corpo scomposto a terra, il suo sangue che imbrattava il vialetto per accedere ai dormitori, la sua vita che sciamava via nella durata interminabile di un battito di ciglio.
Prese un respiro profondo. Era pronto. Pronto a farlo. Pronto a lasciarsi alle spalle ogni cosa. Ma c’era qualcosa di scomodo, qualcosa che gli pungeva la schiena e la nuca. Erano gli occhi di quel ragazzo comparso dal nulla e che ancora se ne stava immobile e non aveva provato a sorprenderlo da dietro e a tirarlo via o – al contrario – a spingerlo di sotto.
“Al gelato.”
Si girò appena, confuso. “G-gelato?”
“Io penserei al gelato prima di morire. Adoro il gelato, e nella mia limitata esperienza non conosco amore più vero se non quello che io provo per il gelato e che il gelato prova per me.”
Ridacchiò a quelle parole. Gelato… Poteva essere un’idea.
“A cos’è che invece pensi tu?”
“A niente.”
“Bugia.”
“Vuoi lasciarmi in pace?”
“Ero solo curioso.”
Il ragazzo prese a camminare lentamente verso di lui, con aria quasi rasserenata, scrutando un cielo stranamente limpido e pulito. Si ficcò le mani in tasca e tacque, gli occhi fissi sull’asfalto che ospitava una folla tumultuosa e caotica.
“Brahms.”
“Eh?”
“Penso a Brahms. Horn Trio per pianoforte, violino e corno. Ho sempre sognato di eseguirlo, ma non ho mai trovato un cornista.”
Il ragazzo ridacchiò e alzò timidamente una mano. “Ho fatto due anni di clarinetto, se ti serve. Poi la mia insegnante mi ha cacciato perché mi considerava l’assassino dei suoi timpani e del suo amore per la musica.”
“Dovevi essere davvero terribile.”
Sorrise nell’immaginarsi quel biondino alle prese con un clarinetto e una vecchia megera lì, a premersi le mani sulle orecchie e a chiedere pietà.
“Quando poi mi ha chiesto se sapevo almeno qual era lo strumento che stavo suonando e io le ho risposto il piffero non ci ha visto più e mi ha mando via a calci in culo.”
Risero entrambi. Una risata amara, forse un po’ stonata.
Puoi ancora trovarlo un cornista. Se ti butti, non potrai fare mai più il Trio che tanto adori.
Ed era vero. Quante cose si stava lasciando indietro, oltre alla sofferenza? Sogni, speranze, cose che lui riteneva trasporto ma che in realtà racchiudevano l’essenza di una vita vissuta appieno, il sapore di un frutto gustato fino al nocciolo. E si stava privando di tutto questo. Ma faceva male. Così male da essere disposto anche a rinunciare alle cose belle pur di non dover più lottare contro le cose brutte.
“La tua morte è qualcosa che capita a qualcun altro. La tua vita non ti appartiene. Toglile le mani di dosso.” Si voltò, gli occhi sgranati. Il ragazzo sorrideva e gli porgeva serenamente una mano. “Scendi, avanti, così andiamo a berci questo caffè. Sono anche stato lasciato dalla mia ragazza! Ho bisogno di caffeina, di una bella fetta di torta e di qualcuno con cui lamentarmi su quanto la vita faccia schifo.”
Sorrise. “Qualcuno in mente?”
“No, non ancora, almeno. Ti stai proponendo?”
Quella mano così viva, così vicina, così invitante… Probabilmente, quel ragazzo era solo un idiota qualunque che dopo averlo tirato giù gli avrebbe riso in faccia e se ne sarebbe andato per i fatti suoi o con i suoi amici a prendersi il suo caffè, e lui sarebbe rimasto solo e rotto, come sempre.
E’ un segno! Ci sarà un m0tivo se questo ragazzo è arrivato nel posto giusto, al momento giusto! Prendi quella mano e vivi! Fagliela vedere a quei bastardi!
Sospirò e la sua mano si allacciò a quella del ragazzo, il cui sorriso si allargò ancora di più mentre lo accompagnava gentilmente a terra con un mezzo inchino quasi galante. Ai piedi dell’edificio, la folla di studenti e professori scoppiò in urla di giubilo, forse anche false, ma ormai non contava.
All’improvviso, il braccio del ragazzo gli circondò il collo e lo tirò vicino in una stretta amichevole. “Giornatina facile, insomma. Nella foga del momento non credo che ci siamo presentati. Io sono John.”
“Sherlock.”

John’s POV. “Sherlock…”
Sento le mie stesse labbra allargarsi in un dolce sorriso. Sherlock… Sherlock… Sherlock… Urlo questo nome ancora e ancora, un nome che nel mio petto vuoto rimbalza, rimbomba, riecheggia. Ed è strano, perché voglio piangere per la prima volto dopo tanto, tanto tempo.
Lui mi fissa, gli occhi grandi di meraviglia e le labbra semiaperte. Non è cambiato. Non è cambiato per nulla. Ha sempre gli stessi ricci scuri, lo stesso viso pallido, gli stessi zigomi pronunciati, le stesse iridi dal colore indefinibile.
“John?”
Avevo dimenticato la bellezza del mio nome pronunciato dalle sue labbra. Avevo dimenticato il senso di pudore scatenato da quello sguardo indagatore. Avevo dimenticato Sherlock Holmes. Il mio sorriso sfuma appena nel momento in cui muovo un timido passo verso di lui, una sensazione di sollievo che mi lenisce i muscoli, ma improvvisamente, qualcosa mi tira indietro con brutalità e mi ritrovo premuto contro il corpo del tassista.
“Mi perdoni, dottor Watson, ma ogni omicidio per me è importante, in qualunque modo venga effettuato.”
Con la coda dell’occhio intravedo il luccichio della lama di un coltellino svizzero sfilare a pochi passi dal mio viso. Lo sento tagliarmi la guancia e un fastidioso formicolio mi invade mentre una goccia di sangue fuoriesce dalla ferita.
Improvvisamente, ho paura. Paura di morire. Non voglio morire. Perché? Perché i miei occhi incontrano quelli allarmati di Sherlock, perché in me si sta risvegliando qualcosa che credevo sopito da tanto tempo, perché ora capisco che devo fare ancora tante cose… E Sherlock, Sherlock mi fissa pallido come un lenzuolo.
“Non faccia pazzie!” urla l’uomo accanto a Sherlock, dai corti capelli brizzolati e avvolto in un trench grigio. “Metta giù il coltello!”
“Addio, dottor…”
La frase gli muore sulle labbra nel momento in cui gli torco il braccio armato e mi divincolo violentemente, riuscendo a sbatterlo a terra e a puntargli un gomito sul torace in modo da immobilizzarlo. Il mio corpo intero vibra di adrenalina e, al centro del petto, il cuore batte forsennatamente, mai stato così vivo.
Ciao, John.
Una vocina mi echeggia in testa e d’istinto alzo lo sguardo in direzione di Sherlock che però è sparito. Mi guardo intorno mentre un paio di poliziotti ammanettano il tassista e lo trascinano via. Corro fuori dall’edificio e lo intravedo balzare sul primo taxi disponibile, il fisico magro abbracciato da un lungo cappotto scuro che risalta ancora di più la sua altezza. Mi scopro a fissarlo con nostalgia e… rimpianto?
Prendo a correre verso il taxi che ora si sta mettendo in moto, urlando il nome di Sherlock, ma lui tiene gli occhi dritti di fronte a sé. Non può andarsene… Non ora che l’ho ritrovato… Non ora che ho la possibilità, dopo anni e anni, di potergli parlare e spigarmi…
Ma l’auto sfreccia via, lasciandomi come un idiota sul ciglio della strada, a fissare quella nuca riccioluta fare capolino dal finestrino posteriore. Prego con tutto me stesso che si volti nella mia direzione e mi guardi… Prego con tutto me stesso che un miracolo piova inspiegabilmente dal cielo… Ma tutto è silenzio e piattume. Sherlock è sparito. Di nuovo.
L’uomo dai capelli brizzolati mi si avvicina, si presenta come l’ispettore Greg Lestrade, di Scotland Yard, e mi invita cortesemente a seguirlo in centrale per le solite domande da procedura. Io annuisco, ma i miei occhi restano fissi nel punto in cui l’auto è svanita con Sherlock.
Non arrenderti.
La vocina di poco fa pigola nuovamente e io mi trovo con gli occhi puntati sul mio petto.
Sei tu?
Certo che sono io.
Sorrido appena, mentre la mano destra mi si poggia delicatamente sul punto in cui ora, ne sono certo, un cuore sta battendo, e solo adesso mi rendo conto di non avere con me il bastone. Nella foga degli eventi, devo averlo lasciato dentro al college… Guardo nuovamente la strada. Sherlock Holmes. Sherlock Holmes mi ha ridato la vita…

Ascolto e rispondo distrattamente alle domande dell’ispettore Lestrade. Un tipo gentile e accomodante, devo ammetterlo. Per altro, molto alla mano: entrati nel suo ufficio mi ha offerto uno dei disgustosi – come li ha definiti lui – caffè delle macchinette e si è accomodato sulla sua poltrona incrociando i piedi sulla scrivania. Tra una domanda e l’altra, l’attenzione si sposta su altri argomenti per nulla inerenti al caso, in particolare riguardo al football, sport di cui – abbiamo scoperto – siamo entrambi appassionati.
Ma la mia mente è completamente assente. L’unica cosa a cui riesco a pensare è… Sospiro e mi strofino le palpebre con pollice e indice.
“John? John, se la sente di continuare? Se vuole possiamo anche smettere, tanto il colpevole è stato preso e queste domande sono solo una formalità.”
Scuoto appena la testa e lo esorto a procedere, ma di nuovo mi trovo a ricordare il modo in cui Sherlock ha pronunciato il mio nome, quello in cui mi guardava quando il tassista mi ha afferrato da dietro con il coltello in mano, e quello in cui è sparito, lasciandomi solo con mille domande e mille parole da pronunciare.
“Bene!” esclama dopo un po’ l’ispettore battendo con soddisfazione le mani e scattando in piedi. “Direi che qui abbiamo finito.”
Annuisco e mi alzo a mia volta, stringendogli la mano.
“E’ stato un piacere.”
“Anche per me.” rispondo sorridendo. Faccio per voltarmi e uscire quando una vocetta nella mia testa – o nel mio petto, non so più distinguere – bisbiglia:
Chiediglielo. Potrebbe essere l’unica possibilità di rivederlo.
Ammetto che devo riprendere confidenza con… l’avere attivo un cuore ventiquattr’ore su ventiquattro, ma è estremamente piacevole: è come se non fossi mai da solo. E dire che un tempo non facevo altro che spingerlo in un meandro del mio essere e costringerlo in modalità muta.
“Mi scusi, ispettore, ma volevo chiederle… quell’uomo che era con lei…”
“Sherlock?”
“Sherlock, esatto, sa per caso dove potrei trovarlo?”
Lui mi studia di sottecchi, come se cercasse di dedurre qualcosa. “Lo conosce, vero?”
“E’ solo un vecchio amico che non vedo da…”
“Amico?” esplode Lestrade ingigantendo gli occhi per lo stupore. “Intende amico nel vero senso della parola?”
Sotto quello sguardo inquisitore e incredulo mi faccio piccolo piccolo e mi limito ad annuire, a disagio. “Amico, sì… Andavamo al college insieme, poi per una ragione o per un’altra ci siamo divisi e non l’ho più visto…”
Per una ragione o per un’altra… Complimenti, John, sei davvero un ottimo bugiardo.
“Capisco… Beh, il suo indirizzo attuale è il 221B di Baker Street. Può trovarlo lì.”
Mi appunto l’indirizzo su un foglietto di carta, come se davvero servisse… Dopo averlo salutato con una seconda stretta di mano, sfreccio fuori e mi fiondo sul primo taxi disponibile.
“Baker Street.” comunico col fiato corto sporgendomi verso l’autista anche per controllare che, da qualche parte, non abbia nascosto un coltello, una pistola o una fottuta pillola. “221B Baker Street.”

SPAZIO AUTRICE
Okay, questo capitolo è abbastanza breve, mi dispiace tantoooo. A causa dei flashback che, ve lo dico da subito, saranno presenti all'inizio di ogni capitolo, non posso accorpare più capitoli insieme, quindi potrebbero venire corti. Se terminerò presto la storia, visto che sono in dirittura di arrivo, potrei cominciare a pubblicare anche più spesso, addirittura tutto insieme, non so. Mi spiace anche per l'ora, ma, ad essere sincera, mi ero completamente scordata, poi ho guardato il calendario e mi sono detta "merda, è lunedì" e ho cercato di spicciarmi. Scusate ancora. Ad ogni modo, spero che il capitolo, per quanto breve, vi sia piaciuto e che seguirete attivamente la storia, anche con qualche piccola recensione se volete. Vi auguro una buona serata e un buon proseguimento della serata. 
*kiss* 
Alicat_Barbix

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 ***


IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix
 
CAPITOLO 2

 
Dopo l’incidente sul tetto, Sherlock era rimasto a casa per ben un mese, su ordine di suo fratello maggiore. Durante le lunghe settimane, non vi era stato giorno in cui John non si fosse presentato e non avesse passato almeno un paio di ore con lui a parlare di libri, di fumetti, di film o anche di nulla. Era incredibilmente piacevole limitarsi anche solo a sedere sul bordo del letto, uno accanto all’altro, e ripetere una materia qualunque. John era sveglio, molto sveglio, e gli piaceva studiare. Il suo desiderio era quello di diventare un medico e Sherlock si trovò a pensare che, effettivamente, era estremamente portato per quel lavoro con la sua perizia, la sua dolcezza, la sua pacatezza. A mano a mano che i giorni trascorrevano, i due si conoscevano sempre meglio, scoprivano di avere cose in comune – come la passione per i gialli –, e per entrambi le ore assieme erano come una boccata d’aria dopo un lungo periodo di apnea.
Una sera, John convinse Sherlock a guardare uno di quei film puerili sullo spionaggio. Film che Sherlock cominciò a criticare dai primi due minuti di visione, ma a John non importava, anzi, lo divertiva osservare l’amico divorare con aria rapita le scene che giudicava scontate o surreali. Credeva, ad esempio, che gli agenti fossero dei completi idioti, che non avessero la minima idea di come si conducesse una missione di tale portata o che la storia d’amore fra i due personaggi fosse ovvia e banale.
“Stai rovinando uno dei miei film preferiti.”
“Non è colpa mia se guardi certe cose.”
Dopo un’ora buona, Sherlock avvertì improvvisamente il respiro dell’amico farsi pesante e, quando si volse, lo trovò dolcemente assopito, il volto disteso e le palpebre chiuse sui suoi occhi blu.
“Ma tu guarda… lui mi fa vedere film noiosi e poi si addormenta.” borbottò tornando con gli occhi fissi sul televisore. Ma pochi istanti dopo, si ritrovò con lo sguardo puntato sul viso delicato di John. Non si era nemmeno reso conto di averlo fatto, ma qualcosa nel guardare l’amico dormire lo colmava di uno strano calore.
Sorrise nel constatare quanto John, mentre dormiva, fosse bello, e sapeva fosse un pensiero stupido, che un amico non farebbe mai nei confronti di un altro amico, però non poteva negarlo. E forse fu proprio per questa bellezza che cominciò ad accarezzargli gentilmente le ciocche di capelli biondi che gli ricadevano sulla fronte ampia. Aveva un buon odore. Un odore di fresco e di pulito. Molti ragazzi, a quell’età, puzzavano in una maniera nauseante, ma John profumava di buono.
E’ proprio speciale, eh?
E’ John.
Appunto. C’è nessuno più speciale di lui?
Rifletté su queste parole e si trovò a sorridere tra sé e sé. Esisteva qualcosa o qualcuno più speciale di John, del suo dolce sorriso, del suo modo di aggrottare le sopracciglia, del suo ridere per battute dementi?
Probabilmente no.
 
La mattina del suo ritorno a scuola, Sherlock provò in tutti i modi a muoversi nei momenti di meno affluenza, ancora spaventato dall’idea di incontrare Jackson o uno della banda, ma nonostante tutto non poté evitare di cercare John in mezzo alle teste di tutti gli studenti. Solo in quel momento, si rese conto che John, di certo, aveva molti amici a scuola; amici che vestivano alla moda, simpatici, della squadra di football… E Sherlock sarebbe passato in secondo piano, solo un ombra dietro ad un oceano di figure ridenti e scherzose. A quell’immaginario, il suo cuore si strinse appena, ma cercò, per quanto possibile, di ignorare quella sensazione sgradevole.
“Ehi, tu!” esclamò una voce alle sue spalle mentre una mano gli batteva fraternamente la spalla.
Sherlock sobbalzò e si voltò, terrorizzato dal potersi trovare di fronte un bullo che gli avrebbe ficcato la testa nel WC, ma davanti a lui c’era tutt’altro che lo sguardo truce di Jackson o di uno dei suoi leccapiedi.
“John…”
John prese un respiro profondo, come se fosse senza fiato, ed enfatizzò il tutto portandosi una mano al cuore. “Non sai che fatica ho fatto per trovarti. Ti ho cercato dappertutto, sai?”
“Io… pensavo fossi con qualcuno dei tuoi amici.” bisbigliò Sherlock pentendosi immediatamente della sfumatura lamentosa di cui era impregnata la sua voce.
L’amico lo fissò per svariati istanti senza dire nulla, infine il suo volto si dipinse di stupore vero, sentito. “Altri amici? Scherzi? Sì, beh, ho un gruppo con cui mi trovo bene e con cui passo la maggior parte del tempo a scuola, ma non sono niente in confronto a te.”
Quelle parole provocarono un leggero arrossamento alle gote di Sherlock che distolse lo sguardo imbarazzato.
“Aww, Sherlock, sei arrossito.”
“Sta’ zitto.”
John ridacchiò e gli passò un braccio attorno alle spalle. “Andiamo?”
In silenzio, si diressero assieme verso l’edificio scolastico che si ergeva austero di fronte a loro, ma a pochi passi dall’entrata ormai deserta, vennero fermati da una voce gracchiante e sgradevole.
“Ehi, ragazzi! Guardate chi è risorto dal regno dei morti! Come butta, Holmes?”
I due si voltarono all’unisono in tempo per vedere arrivare un energumeno – che, più che a un ragazzo, somigliava ad un armadio – accerchiato da un capannello di adolescenti brufolosi e fetidi.
“Li conosci?” bisbigliò John.
Sherlock deglutì a vuoto un paio di volte. “Sono i tizi che mi hanno preso di mira dall’inizio dell’anno.”
“No, non ci credo!” esclamò il capobanda fermandosi a poca distanza da loro. “E così ti sei trovato un fidanzatino, strambo. Quindi hai finalmente smesso di tirarti l’uccello visto che hai qualcuno da scoparti.”
Sherlock avvertì il braccio di John irrigidirsi a quelle parole, tanto che si sentì in dovere di tirarlo per la maglietta, cercando di infondergli la calma risoluta che ormai aveva imparato a mantenere con quei tizi.
“Jackson, fai quella cosa, ti prego.” intervenne uno del gruppetto.
Il capobanda si fece avanti, aggiustandosi la felpa lievemente sporca di ketchup, e assunse una posa ritta e irrealmente rigida. “Il mio nome è Frocio Strambo Holmes, posso dedurre chi ti sei fottuto ieri sera, ho una scopa infilata in culo e mi masturbo continuamente per sfogare le mie frustrazioni sessuali.”
Il gruppetto scoppiò a ridere e cominciò ad acclamare Jackson, che si era appena voltato per ricevere gli elogi che gli spettavano. Sherlock avvertì John staccarsi da lui e, a quel punto, non poté che mormorare uno sconsolato John. Non sapeva che cosa di lì a poco sarebbe successo, ma di certo non sarebbe andata a finire bene: John sarebbe stato pestato o si sarebbe cacciato in qualche casino solo per difenderlo, e lui non avrebbe mai potuto perdonarselo. Così si sporse in avanti e gli afferrò un braccio, ma quello si divincolò e camminò spedito verso i bulli.
“Whoa, Jackson, arriva l’altro frocetto.” esclamò uno di loro.
Jackson si voltò con aria spavalda, un sorriso sprezzante sulle labbra e le mani intente a farsi scrocchiare rumorosamente le nocche. Ma John, contro l’aspettativa di tutti, tese una mano verso di lui, sorridendo.
“Non credo che ci siamo ancora presentati, io sono John Watson.”
“Ma che carino. Il frocetto vuole fare amicizia.” lo scimmiottò un ragazzo dalla pelle scura e gli occhietti infossati.
“Scommetto che si è talmente stufato dello strambo che è disposto a ficcargliela lui la testa nel cesso.” concordò Jackson con una risata.
“No, in realtà volevo solo mostrarmi gentile prima di fare questo.” ribatté semplicemente John prima di chiudere le dita della mano a pugno e di sferrare un colpo dritto sul naso del capobanda che, preso in contropiede, nonostante la stazza, si ritrovò per terra, dolorante. Nel gruppetto si diffusero istanti di gelido stupore che sembrò paralizzare tutti, ma quando uno fece per contrattaccare, John, con una presa precisa, lo sbatté a terra, immobilizzandolo col piede. “No, no, no… Direi che non vi conviene. Mio padre era un militare e mi ha insegnato qualche mossa.”
Jackson si rialzò dolorante, una mano al naso che buttava insistentemente sangue. I suoi occhi sprizzavano odio, ma John mantenne con freddezza quello sguardo.
“Se dovessi venire a sapere che girate ancora attorno a Sherlock, potete stare certi che passerò ad illustrarvi le mosse di tecnica avanzata. Sono stato abbastanza chiaro?”
I bulli si scambiarono un’occhiata indecisa e preoccupata, ma la voce del capobanda li riscosse dal loro stato catarsico. “Andiamocene.”
Sherlock li osservò entrare nell’edificio e sparire assieme al suono della campanella che annunciava l’inizio delle lezioni. Una volta soli, si affrettò verso l’amico e gli prese delicatamente la mano per constatare eventuali danni, ma a parte un lieve arrossamento attorno alle nocche non vi era niente su cui soffermarsi.
“Perché l’hai fatto?” sospirò rivolgendogli uno sguardo di rimprovero.
“Perché non sopporto il modo in cui ti trattano.”
“Così non hai risolto niente, John.” replicò Sherlock distogliendo lo sguardo e puntandolo sulle punte delle sue scarpe. “Loro temono te, non me. Cosa succederebbe se tu dovessi andartene o stancarti di me…”
John fece un passo in avanti e gli afferrò il volto con entrambe le mani, uno sguardo dolce dipinto in faccia. “Ho tanti difetti, Sherlock. Ma sono sicuro di una delle mie qualità: non sono un bugiardo, perciò quando ti dico che non ti rimpiazzerò con niente o nessuno, tu devi credermi, hai capito? Se no come pensi che possa funzionare il nostro rapporto senza la fiducia reciproca?”
Il cuore di Sherlock compì una piccola capriola a quelle parole, ma non si lasciò distrarre. “Non mi pare che tu abbia avuto fiducia in me.”
“Sherlock, ma che stai dicendo?”
“Dico che tu non mi hai ritenuto in grado di difendermi. Non sempre la violenza è il mezzo giusto. Ormai ho imparato che il metodo migliore è ignorarli. Io penso che li abbia aggrediti perché hanno insinuato che tu fossi gay.”
Gli occhi di John si spalancarono e un lieve rossore comparve sul suo volto. “Ti sbagli.”
“Mi sbaglio?”
“Sherlock, per favore, io… non volevo in alcun modo peggiorare la tua situazione, è solo che… quando ho sentito il modo in cui quegli stronzi ti parlavano, io… non c’ho visto più. Perdonami.”
L’espressione dura di Sherlock si sciolse a poco a poco in un sorriso luminoso ma posato, com’era solito fare. “No, scusami tu. In fondo, mi hai difeso e non posso che ringraziarti.” Un’ombra di malizia gli offuscò per un attimo gli occhi ridenti. “Per altro, ho trovato fantastico il tuo no, in realtà volevo solo mostrarmi gentile prima di fare questo. E’ stato una delle scene più esilaranti che abbia mai visto.”
John cominciò a ridacchiare serenamente. “Ma vogliamo parlare della faccia che hanno fatto quando gli ho detto di mio padre e dei suoi insegnamenti?”
“Che gran bugiardo.” osservò Sherlock cominciando a ridere a sua volta, contagiato dell’euforia di John.
“Ehi, non potevo certo dire che mio padre è un lavapiatti che nel tempo libero si diverte a seguire lezioni di arti marziali alla televisione!”
“Oh, pagherei per poter vedere come sarebbe andata se l’avessi detto.”
Senza smettere di ridere e di parlottare tra loro, entrarono nella scuola e percorsero entrambi la strada più lunga per procrastinare il più possibile la loro separazione, nonostante il vertiginoso ritardo.
E’ un eroe. Il nostro eroe.
Piantala.
Piantala tu. Sono il tuo cuore, non quello della bidella che avete appena superato.
E allora, se non altro, taci.
Ma neanche lo scomodo pigolio del suo cuore poteva rovinare quella serenità che, tenue, lo avvolgeva mentre lanciava occhiate furtive a John, ancora più radioso del solito. In effetti, John era un eroe. Il suo eroe.
 
Sherlock’s POV. Pizzico per l’ennesima volta la stessa corda che ho pizzicato nel giro dell’ultima mezz’ora. Credevo che la mia mente fosse un hard disk funzionante, che potesse selezionare le informazioni da conservare e quelle invece da infilare nel cestino ed eliminare. Eppure, quel volto, quella voce… si ostinano a non andarsene. Serro gli occhi e gemo di stizza. Perché di tutte le persone che potevano finire sotto il tiro di quel folle, doveva essere proprio lui?
Mi alzo di scatto e imbraccio meccanicamente il violino, l’archetto nella mano sinistra, e comincio ad eseguire pigramente il primo tempo della Primavera di Beethoven. Non mi importa che il suono esca limpido, scarno di sbavature o errori banali, mi importa solo tenere occupata la mia testa che non fa altro che vivere e rivivere quello sguardo, quello Sherlock mormorato con affetto, quella speranza mista a meraviglia nei suoi occhi…
“Accidenti!” impreco calciando il leggio e causando la rovinosa caduta di una pila di spartiti che si sparpagliano per terra.
“Oh cielo…” odo mormorare alle mie spalle e non mi occorre voltarmi per capire che Mrs Hudson sta osservando il disastro da me combinato con rimprovero e preoccupazione. “Ecco, io…”
“Signora Hudson, se ha delle faccende da sbrigare si accomodi, se invece vuole semplicemente starsene lì a biasimarmi può anche andarsene.” le comunico aspramente, mentre mi chino a raccogliere le pagine di una sonata di Mozart, fregandomene di poter ferire quelli che le persone comuni definiscono sentimenti. Aborro i sentimenti. Senza sentimenti sarebbe meglio. Sarebbe più facile. Più gestibile. Vivibile.
“Non si preoccupi caro, non è sempre così…” la sento borbottare.
“Ma di che accidenti sta parlando, si può…”
Mi volto e vorrei non averlo mai fatto. Accanto a Mrs Hudson c’è lui. Lui che mi guarda. Che diavolo ci fa qui? Come ha avuto il mio indirizzo… Oh, Lestrade. Sbuffo sonoramente e corrugo la fronte, assottigliando gli occhi, sperando di imprimermi, così, in volto uno sguardo minaccioso.
“Sherlock caro, questo è il dottor John Watson ed è qui per dare un’occhiata all’appartamento.”
John si fa spuntare un sorriso forzato mentre mi si avvicina per porgermi la mano. Mano che io, però, ignoro: se pensa che me ne starò qui a farmi prendere in giro e a prendere in giro Mrs Hudson, beh, si sbaglia di grosso.
“Sherlock, la prego, non sia…”
“Potrebbe portarci gentilmente una tazza di the?” la interrompo freddamente senza staccare gli occhi da quelli di John.
Lei sospira e si volta, borbottando un: “Solo per stavolta. Sono la sua padrona di casa non la sua governante.”
Quando siamo soli, vengo assalito improvvisamente dai ricordi: alcuni dolci, altri dolorosi, altri ancora inaccettabili. John è immobile di fronte a me, mi guarda, credo di fargli pena, in fondo. Ma io non la voglio la sua pena. Non l’ho mai voluta. Sono stanco di persone che mi commiserano o che mi odiano. E John poteva essere la risoluzione di questa grande e complessa equazione che è la mia vita. Poteva, perché adesso non può più.
“Di’ quello che hai da dire e poi vattene.”
Lo vedo irrigidirsi al suono secco delle mie parole, ma poco importa: ho smesso da tempo di curarmi di come le altre persone si sentono, visto che nessuno si è mai curato di me.
“Ecco, io…” Cerca le parole, si morde il labbro, lascia saettare gli occhi da una parte all’altra della stanza. Rimorso. Puro e semplice. “Volevo chiederti scusa.” sospira infatti stabilizzando finalmente il suo sguardo su di me. “Perdonami per come mi sono comportato anni e anni fa.”
Annuisco lievemente, insofferente a quelle parole. Parole che ho atteso con disperazione e che ho continuato ad attendere per anni, finché non ho capito che la solitudine è tutto ciò che ho e tutto ciò che mi rimarrà. Meglio soli e vuoti, piuttosto che spezzati. “Grazie, adesso puoi andare.”
Mi fissa con sguardo sbigottito e apre e chiude le labbra un paio di volte, incerto su cosa dire. Povero sciocco: non immagina che qualunque cosa uscirà dalla sua bocca sarà completamente inutile. Forse si ricorda uno Sherlock diverso, uno Sherlock che è morto e sepolto dall’alba dei tempi.
“E’ tutto quello che sai dire?”
“Beh, francamente… sì.”
Stringe i pugni e assottiglia lo sguardo. Non è cambiato rispetto a quel John ragazzino che conoscevo: sempre prevedibile e spontaneo e facile da leggere. Sta cercando di contenere la rabbia, lo capisco dal modo in cui i suoi occhi mi guardano, forse in cerca di un qualche aiuto da parte mia.
“Ascolta… Hai tutte le ragioni per avercela con me. So di essere stato uno stronzo e ti assicuro che non c’è stato giorno in cui io non mi sia pentito di come sono andate le cose tra di noi.”
Almeno tu un cuore ce l’hai, penso tra me e me, ma decido di ignorare questa riflessione impregnata di debolezza. Non voglio essere debole. Non devo essere debole. Non più.
“Okay, ho capito, non sono stupido. Quella è la porta.”
Mrs Hudson ritorna con in mano un vassoio su cui ha appoggiato le nostre tazze di the. John si volta rapidamente verso di lei e le sottrae il peso dalle mani.
“Lasci, faccio io.” le dice gentilmente appoggiando il vassoio nel primo posto che non trova occupato dal soqquadro che ormai è signore e padrone qui dentro. “Ah, devo dire che trovo questo appartamento veramente delizioso. Fa un prezzo di favore, ha detto?”
I miei occhi si spalancano a guardarlo. Che sta facendo?
“Beh, sì, Sherlock mi ha aiutato con una delicata situazione familiare e questo è il minimo che posso fare per sdebitarmi.”
“Direi che è perfetto. Ho deciso, lo prendo.”
“Cosa!?” esclamo sporgendomi in avanti. “Non puoi prenderlo!”
“Ah no?” ribatte lui in tono di sfida. “Questo appartamento è disponibile e io non ho una casa in cui stare, perciò direi che è perfetto.”
“Ma è meraviglioso!” cinguetta Mrs Hudson battendo felicemente le mani. “Che bella notizia! E poi sono certa che voi due andrete d’amore e d’accordo.”
“Sì, lo credo anch’io.” concorda John scoccandomi un’occhiata tra il divertito e il competitivo. Non capisco. Non capisco lui, non capisco la situazione, non capisco Mrs Hudson… Che diavolo sta succedendo?
“Ci sono alcune formalità da sbrigare, ma entro domani è libero di trasferirsi, dottor Watson.”
“La ringrazio signora Hudson, non vedo l’ora.”
Mrs Hudson si eclissa nuovamente dalla stanza con la scusa di avvisare Mrs Turner, la padrona della casa vicino, e io e John rimaniamo nuovamente da soli.
“Che credi di fare?” sbotto acidamente.
“Non lo so, tu cosa credi che io stia facendo?”
“Non puoi venire ad abitare qui.”
“Perché no?”
Serro i pugni e avverto il mio viso velarsi di una maschera di rabbia. Non mi succedeva da tanto di provare un’emozione così coinvolgente. Anzi, erano decenni che non mi arrabbiavo in questo modo. Poi arriva lui, John Watson, a rovinarmi la vita per la seconda volta.
“Perché io non voglio averti tra i piedi.”
“Benissimo, allora sei libero di andartene, ma dubito che lo faresti con i prezzi che ormai Londra ha a livello edile.”
E’ una sfida. Lo capisco dal luccichio dei suoi occhi. Si sta divertendo. Ma non è un divertimento sadico, no… E’ un qualcosa di puro, come se non gli capitasse da tempo.
“Se speri che questo cambi le cose, beh ti sbagli di grosso.”
Un sorriso spavaldo gl’increspa le labbra. “Lo vedremo, Holmes, lo vedremo…”

SPAZIO AUTRICE
Bentrovati a chiunque abbia avuto la forza di arrivare fino a questo secondo capitolo. Ringrazio per la fiducia chiunque stia continuando a leggere questa storia e ringrazio tutti quelli che hanno rensito o inserito la fanfiction in una delle raccolte, grazie mille a tutti, ragazzi, siete fantastici!!! Ad ogni modo, ancora una volta mi scuso per la brevità del capitolo, ma prometto che dal prossimo andranno pian piano allungandosi. Come promesso nello scorso capitolo, per questa settimana pubblicherò anche Giovedì mattina, visto che fino ad ora sono stati piuttosto corti, e invece dalla prossima settimana si faranno più sostanziosi e ricchi di cosucce interessanti... 
Comunque, in questo capitolo abbiamo assistito alla nascita dell'amicizia fra i nostri due piccioncini nella loro adolescenza, MA a quanto pare al giorno d'oggi c'è qualche problemino fra questi due e Sherlock sembra davvero molto arrabbiato. Nel corso della storia si delineerà sempre meglio questo aspetto e, ovviamente, continuerà la sequenza passato/presente. 
Piccole anticipazioni per il prossimo capitolo, una sessione di studio riserverà delle piccole sorprese al nostro Sherlock adolescente, mentre il nostro John adulto prenderà un importante decisione per riavvicinarsi al suo vecchio amico d'infanzia. 
Spero che abbiate gradito la storia, recensite se avete tempo e voglia, e io vi aspetto Giovedì mattina con il terzo capitolo. 
*kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 3 ***


 
IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix
CAPITOLO 3
 
 
Mr Clarke si aggirava minaccioso per la classe, distribuendo ai legittimi proprietari i test di chimica corretti, sulla maggior parte dei quali campeggiavano correzioni più rosse del rosso stesso. Sherlock sedeva compostamente al suo posto mentre John, a fianco a lui, teneva le mani giunte e pregava in una misera D-. Quando il professore arrivò anche da loro, la verifica di John svolazzò tristemente sul banco, mostrando la sua rovinosa F+ agli occhi del poveretto che non poté far altro che sospirare: “Sto migliorando. L’altra volta era una F-.” Dopo aver preso atto del suo disastroso rendimento in quella materia, si sporse appena dalla parte di Sherlock per vedere il voto. “E a te com’è andata, Sherlock?”
“Piuttosto bene, direi.” borbottò lui esibendo la sua A+ con indifferenza.
Sul volto di John sfumò tutta la curiosità, che venne rimpiazzata da un’espressione di finto ribrezzo, e per tutta risposta sbuffò. “Direi che abbiamo chiuso, Sherlock. La nostra amicizia non può andare avanti con la tua A+ e la mia misera F+.”
Sherlock si voltò, gli occhi spalancati. “Cosa? Perché?”
John lo fissò per qualche secondo, sbalordito per quell’ingenuo trasporto, e non poté fare a meno di aprirsi in un sorriso. “Ehi, scherzavo, idiota. Ovvio che non voglio rompere con te.” Rifletté per un momento sulle sue parole e le trovò abbastanza equivoche e fraintendibili, ma scacciò quel pensiero e allungò mestamente le braccia sul banco. “Non posso continuare così…” osservò con un sospiro. “… di questo passo fallirò i test per entrare a medicina solo per colpa di chimica. Ma come fai a prendere voti così alti?”
“Beh, ecco… E’ un po’ come un’esecuzione musicale: chiudo gli occhi, aspetto la concentrazione necessaria e lascio fluire le note.”
“Forse è per questo che la mia insegnante mi ha accusato di essere la morte dei suoi timpani. E’ tutta colpa della chimica.”
Sherlock ridacchiò e poggiò la guancia sul palmo della mano per osservare meglio l’altro. John era così… fantastico. Era divertente e allegro e aveva l’incredibile capacità di vedere il lato positivo delle cose anche in situazioni difficili come quella. Sherlock sapeva quanto John desiderasse entrare in quell’università: ogni volta che ne parlavano, i suoi occhi si accendevano di entusiasmo e aspettative, e poi sorrideva spesso e sospirava e…
Scacciò dalla testa quei pensieri. Da quando prestava tanto interesse ad un’altra persona?
“Ho deciso.” esclamò infine John, facendolo sussultare appena. “Mi serve il tuo aiuto.”
“Il mio aiuto?”
“Sì, per studiare. Ti prego, Sherlock! Sei l’unico che può salvarmi.” lo implorò avvicinandosi pericolosamente a lui e dipingendosi la faccia con un’espressione di supplica che più che pena suscitava divertimento. “Ti prego, ti prego, ti prego!”
“E va bene, va bene!” si arrese Sherlock alzando gli occhi al cielo nello stesso tempo in cui la campanella trillava segnando la pausa pranzo.
John scattò in piedi e gli passò un braccio attorno alle spalle, stringendolo amichevolmente. “Grazie, amico, sei fantastico! Adesso vado da Mary, che mi aspetta. Ci vediamo in biblioteca dopo le lezioni pomeridiane?”
“Okay, sì.” rispose Sherlock ingoiando a fatica – per qualche strana ragione – il nome della ragazza di John.
“Perfetto! A dopo!”
Guardò la figura di John eclissarsi dall’aula e si trovò solo. Solo con una strana sensazione allo stomaco.
Geloso?
Sta’ zitto.
Guarda che puoi anche ammetterlo.
Ho detto che devi stare zitto. E’ solo un amico, niente più.
E detto questo, si alzò in piedi e uscì a sua volta dalla classe mentre fuori il cielo gorgogliava minacciosamente. Solo un amico si ripeté mentre deviò verso il laboratorio di chimica, temendo che nella mensa avesse potuto incontrare i due piccioncini intenti a mangiarsi reciprocamente. Quell’immagine nella sua testa gli provocò una stiletta di dolore all’altezza del petto. Era passato un anno da quando lui e John erano diventati amici, e mai gli era capitato di sentirsi così…
Che mi sta succedendo?
Ti stai innamorando, Sherlock. bisbigliò di rimando il suo cuore e stavolta Sherlock non poté che sorridere sprezzantemente: innamorarsi… com’era stupido il suo cuore! L’amore era per le persone comuni e lui non era comune. Però, se ci pensava bene… John non era una persona comune. Poteva, dunque, innamorarsi? Poteva accadere sul serio? A lui? A Sherlock Holmes?
 
“Uffa!” sbuffò John abbandonandosi contro lo scomodo schienale della sedia della biblioteca. “E’ inutile, non capisco!”
“E’ più semplice di quello che sembra.”
“Certo, tu sei un fottuto genio!”
La biblioteca era vuota, visto che quel pomeriggio si sarebbero tenuti i provini per entrare a far parte della squadra delle cheerleader, e fuori scrosciava una pioggia furiosa. Un tuono gorgogliò in lontananza, e Sherlock si avvicinò impercettibilmente a John, i loro avambracci che si toccavano appena.
“Non è difficile. E’ praticamente tutto scritto nella formula.” continuò a spiegare contrassegnando le sue parole col dito che scorreva sugli ordinati appunti che aveva preso durante le ultime lezioni.
“Forse ho solo bisogno di mettere gli occhiali.” sospirò allora John stiracchiando le braccia in alto e gemendo appena. “Possiamo fare un pausa?”
Sherlock gli rifilò un’occhiata tra lo stupito e il severo. “Abbiamo fatto pausa appena un quarto d’ora fa, John.”
“Potremmo andare alle macchinette e prendere qualcosa da sgranocchiare. A pancia piena si ragiona meglio.”
Sherlock sospirò e alzò gli occhi al cielo, ma prima che potesse dare una risposta, un tuono squassò il silenzio e un istante dopo si ritrovarono immersi nel buio. La paura stese le sue grinfie su Sherlock che lanciò un mezzo urlo e cadde dalla sedia, scosso dai brividi. John, preso in contropiede, si piegò su di lui e prese a scuoterlo delicatamente.
“Sherlock? Ehi, Sherlock?”
Ma Sherlock tremava furiosamente, i denti che emettevano un suono ritmato e secco, le mani che erano percorse da tremiti indomabili. “La luce…”
“Sherlock, è solo un temporale…”
“La luce.” ripeté però lui, stavolta più con tono di preghiera.
“Okay, okay, adesso mi invento qualcosa.”
Sherlock sentì John alzarsi in piedi ed allontanarsi, i passi che echeggiavano sempre più lontani. Quando intorno a lui non vi fu altro che il silenzio, si riscosse appena e si guardò intorno, cercando nell’oscurità.
“John?” sussurrò, quasi un gemito. Non arrivando alcuna risposta, si aggrappò alle gambe della sedia come ultimo appiglio, e lasciò fluire tutta la sua voce in un unico fiato. “JOHN?!”
“Ehi, ehi, calmati!”
Quella voce calda e vicina, che sapeva di sicurezza, lo abbracciò tiepidamente, e il suo petto venne animato da un dolce e beato gorgoglio. Qualcosa luccicò nelle tenebre e dopo poco nel suo campo visivo comparve il volto di John rischiarato dalla fiammella di una candela.
“John…” piagnucolò Sherlock avvicinandosi a lui e cercando con la mano qualsiasi cosa di concreto che gli confermasse che fosse davvero lì.
“Eccomi…” rispose pacatamente John accarezzandogli i capelli con dolcezza. “Va tutto bene. Hai visto che ho portato la luce?”
Sherlock si limitò ad annuire ma un istante dopo un nuovo tuono sovrastò ogni pensiero o altro rumore e lo fecero gemere e rannicchiare ancora di più su se stesso. I tremiti lo scuotevano indomabili e gli sembrava che non ci fosse abbastanza aria che potesse riempirgli i polmoni… Ad un tratto, qualcosa di morbido gli circondò confortante il corpo e lo premette a qualcosa di altrettanto morbido.
“Ssh…” udì bisbigliare sul suo orecchio. “E’ tutto apposto. Va tutto bene.”
Le sue mani si strinsero ad una felpa soffice e che profumava di familiare… L’odore di John s’insinuò rassicurante nelle sue narici e Sherlock strofinò il naso tra quei capelli corti, lindi e freschi. La fiamma della candela rischiarava caldamente l’ambiente intorno a loro e dopo un po’, il suo fiato ritornò regolare così come il battito cardiaco. Quando fu certo che l’attacco di panico fosse completamente svanito, si scostò appena dalle braccia dell’altro e prese un respiro profondo.
“Scusa, io…”
“Hai avuto un attacco di panico.” lo interruppe John studiandolo con occhio clinico. “Scatenato da cosa?”
Sherlock abbassò lo sguardo e sperò che l’ambiente semibuio occultasse il lieve rossore che gli imporporava le guance. “Giura che non scoppi a ridere.”
“Giuro.”
“C-credo… che sia stato il temporale.”
John sgranò gli occhi. “Il temporale?” ripeté sbattendo le palpebre lievemente stupito.
“Quando ero bambino… mia sorella, Eurus, per farmi uno scherzo mi ha chiuso in un pozzo vicino casa. Poi, però, è scoppiato un temporale e… il pozzo si riempiva sempre più e io non riuscivo a rimanere a galla e ho davvero temuto di…” Le sue parole vennero inghiottite da un silenzio allusivo. “Fortunatamente, un cacciatore stava tornando dalla sua battuta di caccia e ha sentito le mie grida, così ha chiamato i soccorsi.”
“Mio Dio…” mormorò John passandosi una mano sul volto. “Scusa se te lo dico, ma tua sorella ha qualche rotella fuori posto.”
“Non sai quanto.”
Calò qualche istante di silenzio durante cui nessuno dei due osò parlare. Fuori si era alzato un vento imperioso che ruggiva minacciosamente e s’infrangeva violentemente contro le portefinestre della biblioteca.
“Torniamo a studiare?” chiese Sherlock in un bisbiglio.
“Con il buio pesto, una candela e tu che sobbalzi ad ogni tuono? No, grazie, facciamo qualcos’altro.”
“Ad esempio?”
John scrollò le spalle, ma nei suoi occhi sfilò un barlume luminoso che Sherlock non seppe come interpretare. “Non so, ma ci sono tante cose che si possono fare da soli in un luogo buio e a lume di candela.”
Gli occhi di Sherlock si spalancarono. John lo fissava… John lo fissava con un interesse che mai gli aveva visto in volto. Improvvisamente, gli parve che la gola fosse diventata più arida di un deserto e che il cuore avesse cominciato a galoppare come un cavallo imbizzarrito.
Può solo intendere quella cosa.
Tutto d’un tratto, si rese conto di essere terribilmente vicino al viso dell’altro e di poter ancora percepire l’odore della sua nuca. Si passò inconsapevolmente la lingua sulle labbra e i suoi occhi s’incatenarono irreparabilmente con quelli di John – John che non smetteva di fissarlo.
“Hai… hai qualche idea?”
“Una o due, sì…” rispose l’altro mentre un mezzo sorriso gli si disegnava sulle labbra così… Sherlock si scoprì a fissarle e si forzò a distogliere lo sguardo e a puntarlo nuovamente nei suoi occhi. “Che ne dici, se…” Ma non terminò la frase.
“Se?”
“Se ci raccontiamo le storie dell’orrore?” esclamò infine John con gli occhi che gli brillavano. Sherlock rimase basito ad osservarlo, intento a mordicchiarsi nervosamente il labbro inferiore.
“Sul serio, John… Le storie dell’orrore?”
John rise e, sebbene Sherlock fosse sicuro che intendesse davvero quello, scosse la testa. “Scherzo, scherzo… Che ne dici se invece mi parli un po’ di te?”
Quella richiesta lo lasciò stupefatto. “Perché?”
“Perché è un anno che siamo amici e mentre tu sai tutto di me e della mia famiglia, io non so niente di te.”
Sherlock ridacchiò e si ravviò i capelli con la mano. “Così non vale. Io ho dedotto.”
“Sì, va beh, fa lo stesso.”
Di nuovo, un tuono, stavolta unito ad un lampo, ruggì a poca distanza da loro e Sherlock si allungò istintivamente verso John, la mano che si serrò attorno alla sua. Quando si rese conto di aver dimostrato di nuovo la sua debolezza e la sua vulnerabilità proprio alla persona che cercava continuamente di impressionare, si ritrasse, masticando con tono imbarazzato qualche parola di scuse.
“Ti fa proprio tanta paura, eh?”
“E’ che… da quel giorno io… non riesco a rimanere in luoghi bui durante un temporale… da solo.”
Sussultò quando avvertì la mano di John rincorrere la sua e avvolgerla dolcemente con le sue dita. Il suo cuore prese a battere furiosamente mentre veniva tirato in avanti, verso l’altro, con delicatezza e riguardo, come se fosse un oggetto di cristallo in procinto di cadere.
“Ma tu non sei solo. Ci sono io qui con te.”
Sherlock non rispose e rimase a contemplare il viso sereno di John, le labbra schiuse e gli occhi che brillavano appena al riflesso della fiammella della candela. La sua pelle, sotto quella di John, scottava e per altro la sua mente non riusciva a pensare con logica e razionalità.
Bacialo.
La ragione gli urlava di non farlo, di non lasciarsi andare a stupidi sentimentalismi, ma il suo cuore… il suo cuore era un vulcano in piena eruzione ed era… bello.
Bacialo, ora o mai più.
E Sherlock stava quasi per sporgersi e catturare le labbra dell’altro con le sue, ma lo squillo di un telefono si propagò senza preavviso per la stanza, facendolo sussultare. John prese a frugarsi nelle tasche e ne estrasse il telefonino mal ridotto che era appartenuto prima a sua sorella e poi a lui.
“Mary?”
Il cuore di Sherlock venne percosso da un colpo di martello che gli provocò un dolore cupo e sanguinante.
“Sono in biblioteca con Sherlock… Ah, anche in palestra è saltata la luce… Cosa?” Gli occhi di John si illuminarono appena mentre un sorrisetto gagliardo gl’increspava le labbra. “Ah, capisco… Mi piacerebbe, mi piacerebbe tantissimo, ma sono bloccato qui con Sherlock e non so se posso lasciarlo così… Ho capito, ho capito, aspetta un secondo.” Abbassò il telefonino e rifilò all’amico uno sguardo penetrante. “Mary è in palestra e… beh, sai la storia delle cose che si possono fare da soli, in luoghi bui, a lume di candela? Bene, è venuta in mente anche a lei.”
“Oh.” fu tutto quello che Sherlock riuscì a sussurrare.
Adesso sì che intende quello…
“Okay, va bene, non c’è problema.”
“Sicuro? Non voglio lasciarti da solo…”
“Le proprie paure vanno affrontate prima o poi, John. Non preoccuparti, davvero, chiamerò mio fratello e gli chiederò… sì, insomma, gli chiederò se può darmi un passaggio di ritorno dall’università.”
John lo fissò con aria dispiaciuta ma al contempo esaltata. “Sicuro, sicuro?” L’amico si limitò ad annuire e così John si riattaccò al telefono con un sorriso smagliante. “Dammi due minuti e sono lì.”
Detto questo, chiuse la comunicazione, raccattò i propri libri e si chinò nuovamente su Sherlock. “Grazie, sei un vero amico. Quando comincerai a trascurarmi per stare con la tua ragazza, ricordami quanto mi sei stato accanto in momenti come questo, okay?” Gli sferrò una debole pacca sulla spalla e lo salutò con un sorriso caloroso e un Ciao su di giri, infine sparì.
Io ti avevo detto di baciarlo finché potevi…
Credi che sarebbe cambiato qualcosa? Lui non è così… non è come me.
Però potevi almeno provarci.
Non rovinerò la nostra amicizia soltanto perché non riesco a contenere i miei impulsi, okay?
Sei davvero antipatico quando soffri, sai?
Era vero. Era antipatico. E soffriva. Tanto. E lui non voleva soffrire. Non per John. Non per l’unica persona con cui avesse mai davvero instaurato qualcosa di buono e solido come l’amicizia. Avrebbe represso… qualunque cosa provasse nei suoi confronti. E l’avrebbe fatto perché John era un suo amico. Niente più, niente meno.
 
John’s POV. Cinque settimane. Sono trascorse cinque settimane e ancora non sono riuscito a parlare con Sherlock come vorrei. Raramente è a casa e, quando lo è, fa tutto per evitarmi, inchiavandosi nella sua stanza o recludendosi in quello che chiama Palazzo Mentale. A quanto pare, è un consulente investigativo, professione di cui non ho mai sentito nulla in proposito, ha un blog che si chiama Science of Deduction, adora i biscotti di Mrs Hudson, riesce a non mangiare per giorni interi, e non pare – al momento – coinvolto in alcun tipo di relazione. Tutto questo mi sarebbe piaciuto scoprirlo parlando con lui come facevamo una volta, ascoltando la sua voce baritonale di fronte ad una tazza di the fumante, rincorrendolo per uno dei suoi casi stravaganti che pare essere in grado di risolvere in poche ore… E invece, è tutta farina del sacco di persone che Sherlock – quello nuovo – lo conoscono, come Mrs Hudson, l’ispettore Lestrade, una certa poliziotta di nome Donovan… Persone che lo conoscono come, un tempo, lo conoscevo io. E, nonostante non lo voglia, non riesco a fare a meno di provare una punta di gelosia nei loro confronti, perché Sherlock con loro parla, si rapporta, esce… Da quando sono qui non fa altro che rispondermi a monosillabi solo in casi strettamente necessari. Fa male. Fa male perché so che è colpa mia, ma anche perché non so come rimediare, visto che non me ne dà modo.
Stamattina mi sono svegliato più demotivato del solito. Ho sognato Sherlock che, di punto in bianco, decideva di andarsene dal 221B e se ne andava a vivere con qualcun altro. Un amico. Un partner. Qualcuno di importante. Di più importante di me. Mi trascino fuori dal letto spossatamente e mi butto addosso i primi vestiti che mi capitano a portata di mano.
Dovresti metterti qualcosa di meglio. Come pensi di riconquistare la sua fiducia vestito come il barbone che elemosina di fronte casa?
Ignoro deliberatamente la vocetta e nemmeno spendo tempo a studiare il risultato – sicuramente disastroso – allo specchio, così mi avvio mestamente al piano di sotto da dove provengono due voci maschili. Una è innegabilmente quella di Sherlock, e l’altra…
“Greg!” esclamo scorgendo la sua figura in piedi al centro del salotto.
“Ah, John, buongiorno. Non volevo disturbarti.”
“No, tranquillo, ero sveglio da un po’.” mento mentre mi dirigo in cucina ignorando completamente il mio coinquilino, seduto sulla sua poltrona. Io e Greg siamo usciti un paio di volte dal caso del tassista e posso dire che siamo diventati quasi amici. “Allora, problemi con un caso?” chiedo mentre metto sul fuoco il bollitore, tanto per fare un po’ di conversazione.
“Direi di sì e uno importante, per altro. Uno degli agenti dei servizi segreti che stasera avrebbe dovuto partecipare ad una missione è stato investito da un autobus e adesso è ricoverato in ospedale con sette vertebre incrinate e due costole rotte.” mi risponde lui pacatamente. “Sono qui su commissione di un rappresentate del governo.”
“Vorrai dire dal Governo.” interviene la voce di Sherlock, facendomi leggermente sussultare: è da tanto che non lo sento parlare a così poca distanza da me. “Ancora devo capire perché mio fratello faccia tanto riferimento su di te.”
“S-siamo amici, ecco tutto!” balbetta di rimando Lestrade i cui occhi s’illuminano vedendomi arrivare con un vassoio carico di biscotti e tazze di the. Con tutta probabilità, l’ho appena salvato da una conversazione scomoda e per questo mi sento sollevato: so com’è essere interrogati da Sherlock, ha quella mania di non lasciarti respirare finché non ha ottenuto quello che vuole sapere, è davvero frustrante… o almeno, è quello che faceva lo Sherlock che conoscevo io.
Mi avvicino al mio gradevole coinquilino e gli allungò una tazza di the. “Vuoi?”
Lui neanche mi risponde. Si alza dalla poltrona e, raggirandomi con passo veloce, raggiunge Lestrade. Poggio in malo modo la tazza, lasciando che la ceramica sbatta violentemente contro il tavolino. Sì, sono frustrato e sì, ho tutta l’intenzione di farglielo pesare. Ma com’era immaginabile, lui neanche mi degna di uno sguardo.
“Non si può chiedere ad un altro agente? O al limite ad uno dei vostri?”
Lestrade scuote appena la testa mentre sorseggia rumorosamente il suo the. “Non credo sia possibile. Pare che abbiano l’elenco di ogni spia e di ogni poliziotto di Scotland Yard. Sarebbe rischioso. Per altro, non abbiamo tempo per addestrare nuove reclute.”
Sherlock sospira profondamente mentre congiunge i polpastrelli sotto il mento, altro gesto che mi giunge nuovo. Quante cose mi sono perso di lui? Tutte quelle cose per cui c’è bisogno di un amico accanto: il primo bacio, la prima volta, la prima delusione d’amore, il primo fallimento ad un esame, i primi ostacoli della vita… Vorrei poter tornare indietro e recuperare tutto il tempo perduto.
“Ci vorrebbe qualcuno che gli Smith ancora non conoscono, che sia addestrato militarmente, che sia capace di sparare…”
Improvvisamente, un’idea mi balena in testa. “Potrei farlo io.”
Gli occhi di Sherlock e Lestrade si posano simultaneamente su di me, ma mentre lo sguardo di Greg è speranzoso, quello di Sherlock è affilato e sospettoso. 
“D’accordo, di certo gli Smith non ti conoscono, ma per l’addestramento…”
“Sono un medico militare. Sono stato addestrato in un’accademia e ho combattuto in Afghanistan. Per altro, mi permetto di sottolineare che vanto una mira, se non infallibile, assai precisa.” spiego gonfiando leggermente il petto d’orgoglio.
“Sei l’uomo che fa per noi!” esclama l’ispettore con euforia. “Tu, Sherlock, che dici?”
M’irrigidisco lievemente nell’incontrare lo sguardo gelido di Sherlock. Non capisco se non si fidi o se, peggio, mi odi a tal punto da compromettere una missione del Governo pur di continuare a mantenere le distanze. Infine, sospira sconfitto. “Suppongo che non abbiamo molte alternative.”
Un senso di gioia mi pervade le membra. Era da tanto che non mi sentivo così… vivo. Finalmente posso essere utile, finalmente posso prendermi la rivincita dopo quella pallottola in Afghanistan. Mi sento come un bambino alla sua prima comunione: eccitato, febbrile, desideroso di iniziare.
“Credo, però, di aver bisogno di alcune delucidazioni riguardo a cosa consista il mio compito.” osservo costringendomi a tornare lucido e presente a me stesso.
“Hai ragione.” Lestrade si siede sul divano e io mi accomodo accanto a lui. “Cominciamo dalle cose semplici: l’obbiettivo della missione è intrufolarsi in casa degli Smith e perquisirla di nascosto alla ricerca di prove incriminanti.”
“Chi sono questi Smith?”
“Sono una delle famiglie più potenti di Londra e pare tengano le mani in affari loschi, dallo spaccio alla prostituzione ad omicidi su commissione.”
“E quindi per incastrarli avete bisogno di una prova?”
Lestrade scoppia a ridere e mi guarda come se fossi un idiota. “Oh, John, non puoi neanche immaginare… ne abbiamo raccolto di prove contro di loro, ma il potere e il denaro hanno giocato a favore loro. Sono stati sottoposti a diversi processi da cui, però, sono sempre usciti puliti.”
“E quindi che cosa state cercando, esattamente?”
“Grazie a delle fonti del Governo, pare che tengano nascosta da qualche parte una cartella con tutti i loro lavoretti.”
“Siete sicuri che siano così stupidi da tenere le prove che potrebbero farli sbattere al fresco?”
Una risatina mi induce a spostare lo sguardo dal volto di Greg a quello di Sherlock, nuovamente seduto sulla sua poltrona. “Siamo sicuri che siano abbastanza intelligenti d’averlo fatto.”
“Non ne capisco il senso.” continuo imperterrito, una sensazione di adrenalina che mi pervade quando mi rendo conto che sto parlando con lui. Civilmente.
“Certo che no, gli idioti raramente capiscono.” risponde acidamente lui incrociando le gambe. “E’ tutto un gioco di potere con altre famiglie europee, come Cosa Nostra, tanto per citarne una. Quella cartella è la prova tangibile del potere che gli Smith stanno esercitando a Londra ma anche altrove.”
Annuisco piano, cominciando a capire: effettivamente, tenendo tali prove al sicuro, in un luogo che ritengono intoccabile, non hanno da preoccuparsi che possano essere incastrati. “Quindi la mia missione è quella di intrufolarmi in casa degli Smith, cercare la cartella e appropriarmene, dico bene?”
“No.” risponde seccamente Sherlock. “La tua missione è quella di guardarmi le spalle mentre io cerco la cartella.”
Oh. Una missione con Sherlock.
E’ la tua occasione! Potresti finalmente avere l’occasione di recuperare il vostro rapporto.
In effetti, è esattamente quella l’idea. Sorrido soddisfatto mentre mi sfrego impazientemente le mani sui jeans. “Perfetto, quando si comincia?”
Sherlock scrocia le gambe e si alza, infilando una mano nella tasca della sua vestaglia per poi tirarla fuori con qualcosa che mi porge. Prendo il pezzo di carta che mi sta tendendo e comincio a scorrere le righe con gli occhi:
Gentile Sig. Adams,
è con gioia che la invito a prendere parte al mio sessantesimo compleanno, auspicandomi che possa essere un’occasione per conoscerci meglio e parlare di affari. L’invito è ovviamente aperto anche al suo partner, così che si crei una di quelle atmosfere familiari che io e i miei parenti tanto ricerchiamo.
Cordiali saluti,
William Smith
“L’invito era destinato a Richard Adams, il responsabile di un’importante concessionaria, e al suo compagno Harry Lewis. Gli uomini del fratello di Sherlock hanno provveduto a renderli non reperibili per questa sera e al posto loro andrete voi due.”
Compagno? Fantastico, quindi oltre a dover recitare dovrò anche interpretare la parte del fidanzato di Sherlock! Davvero, davvero splendido.
“Obbiezioni?” mi chiede Greg alzandosi in piedi e afferrando il trench che si era sfilato dopo la tazza di the caldo.
“No, no…” mento, visibilmente colpevole della mia menzogna, ma lui non sembra rendersene conto e mi porge amichevolmente una mano che io mi affretto a stringere.
“Ci risentiamo questa sera per telefono. Se hai delle domande, sentiti libero di chiedere a Sherlock, io devo scappare in centrale. Intanto, mi raccomando di non esporvi troppo se non è strettamente necessario e… beh, di non finire nei guai.”
“Ci proveremo, Gavin, non sei nostra madre.”
“Greg.” lo corregge lui incrociando per un attimo le braccia con occhi torvi, ma alla fine si salutano con un cordiale cenno del capo e sparisce.
Una volta soli, la pesantezza dell’aria sembra quasi palpabile. Vorrei dire qualcosa, approfittare di quello spiraglio che questo opportunità mi sta concedendo, ma non mi viene in mente niente. Sherlock afferra il suo telefono e comincia a muovere frettolosamente le dita sulla tastiera. Rimango per qualche istante a fissarlo e noto un lieve sorriso che gli increspa le labbra. Sembra preso dalla conversazione. Molto preso. Mi chiedo chi possa essere la persona con cui si sta scrivendo.
Mi schiarisco nervosamente la gola e m’impongo di dire la prima cosa che mi viene in mente. “Quindi… l’agente che ha avuto l’incidente avrebbe dovuto essere il tuo partner.”
“Però, sei arguto.”
“E… beh, come trovava tutta questa situazione?”
“Non aveva problemi in merito, anzi, è stato lui a insistere. Credo si sia fatto un’idea sbagliata.”
Assottiglio lo sguardo, cercando di osservarlo meglio. “In merito a cosa?”
Sherlock sospira e finalmente distoglie gli occhi dal cellulare per puntarli su di me. “Credo che abbia frainteso la nostra storia.”
“Oh…” mormoro soltanto lasciando le labbra stupidamente aperte ad articolare una O muta. “Storia?”
Lui sbuffa e si concentra nuovamente sul cellulare. “Sì, storia, relazione, chiamala come ti pare.”
“T-tu hai avuto una relazione?”
E vorrei non averlo mai detto. Gli occhi di Sherlock si sollevano nuovamente su di me, ma stavolta sono gelidi, paragonabili ai ghiacciai dei Poli, mi spaventerebbero, quasi, se non lo conoscessi da vent’anni. “Esatto, e non è stata l’unica. Certo, niente di serio, erano solo… a scopo ricreativo. Cos’è, pensavi forse che non sarei stato capace di provare certe cose dopo quello che è successo?”
Mi mordo nervosamente il labbro inferiore e distolgo lo sguardo. “N-non era quello che intendevo.”
“E allora ti conviene tacere. Così non si rischiano malintesi.”
Mi fa male il modo in cui mi sbatte la porta in faccia – metaforicamente ma anche realisticamente parlando visto che si alza e si chiude in camera sua, lasciandomi solo con una punta di dolore all’altezza del petto.
Non volevo.
Lasciatelo dire, sei un vero disastro.
E so che ha ragione. So perfettamente che ha ragione, perché sono un coglione. Un grandissimo, perfetto coglione. Proprio adesso che Sherlock stava cominciando ad aprirsi un po’ di più… ho rovinato tutto. Che idiota.
Sospiro e osservo il mio riflesso nel the ormai freddo rimanente nella mia tazza. Vedo un volto triste e perso. Un volto che grida aiuto. Un volto che non desidera altro che tutto torni come prima, come un tempo.

SPAZIO AUTRICE
Eccoci qui al terzo capitolo! Grazie mille per seguire questa storia! Sarò breve perché il mio computer si sta per scaricare e per motivi che ora non vi spiegherò non posso caricarlo. Quindi non commenterò e vi do appuntamento a Lunedì sera con il quarto capitolo dove, piccolo assaggino, ne vedremo delle belle in entrambe le epoche. Grazie ancora per il sostegno di chi recensisce e di chi ha inserito la storia in una cartella ma anche di chi si limita a leggere in silenzio. 
*kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 4 ***


IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix
 
CAPITOLO 4
 
Il cerchio era completo e per l’ampio salone si propagavano le risatine acute delle ragazze e quelle grasse dei ragazzi. In mezzo a loro, una bottiglia roteava impazzita ogni due minuti, sancendo turni, segreti svelati o obblighi imbarazzanti.
Sherlock se ne stava seduto a gambe incrociate tra Susie e Steve, terribilmente a disagio, e in eterna preghiera che il suo turno non arrivasse mai. Steven gli allungò una lattina di birra e lui la prese con incertezza, studiando i volti rubicondi e le pupille dilatate del gruppo. I suoi occhi caddero su John, il cui braccio era stritolato da una Mary mezza ubriaca. Assottigliò lo sguardo, ricercando nell’amico le tracce dell’alcol e si rese conto con un sospiro di sollievo che anche lui era in sé, nonostante avesse bevucchiato un sorso o due. Sorrideva, John. Sorrideva e i suoi occhi si muovevano continuamente dalla bottiglia al centro ai due prescelti. Sherlock avvertì un profondo calore all’altezza del petto, cosa che ormai era all’ordine del giorno quando c’era John nei paraggi.
Io te l’avevo detto, Sherlock. mormorò una vocina nel suo orecchio, anche quella sempre più insistente e asfissiante.
Si attaccò alla lattina e buttò giù in un sorso solo la birra rimanente per soffocare il suo stesso cuore, così scomodo e debole. Neanche si accorse che gli occhi di tutti erano puntati su di lui e lo divoravano sogghignando, e solo quando il suo nome venne pronunciato dalla bocca della maggior parte dei presenti, si riscosse.
“Cosa?”
“E’ il tuo turno, strambo.” gli rispose Mary guadagnandosi un’occhiata infuocata da parte di John.
Sherlock abbassò gli occhi sulla bottiglia che puntava dritta verso di lui e una sensazione di panico lo assalì. Arricciò le labbra e fissò con apprensione quello stramaledetto tappo che lo indicava quasi ridendo.
“Obbligo o verità, Sherlock?” urlò una voce e lui si trovò a setacciare i volti ostili in cerca di uno amico, e quando incontrò lo sguardo di John il suo petto venne sommerso da un’emozione oscura e dolce al tempo stesso. Gli occhi dell’amico sprizzavano curiosità, ma appena si accorsero del panico che imperava sul viso dell’altro, si addolcirono e un sorriso comprensivo gli si affacciò sulle labbra.
“O-obbligo.” balbettò Sherlock cercando di asciugarsi i palmi sudati sui pantaloni.
Rebeccah batté le mani felice, agitandosi scompostamente sul posto. “Ce l’ho! Ce l’ho! Ti obbligo a baciare…” Gli occhi famelici della ragazza si spostarono per la stanza, in cerca del secondo sventurato. “…John.”
Sherlock s’irrigidì immediatamente non appena quel nome venne associato al suo. Baciarlo? Baciare John? Perché proprio John?
Ammettilo che non vedi l’ora.
Zitto. ringhiò interiormente, sperando che il suo patetico cuore tacesse una volta per tutte.
“Ehi, ehi, ehi!” esplose improvvisamente Mary stringendo ancora di più la presa attorno al braccio del ragazzo. “Non facciamo scherzi, stronzi. John è mio!”
“Eddai, Mary, è un gioco.” sospirò John alzandosi in piedi e camminando verso Sherlock, seduto dalla parte opposta del cerchio.
Sherlock deglutì a vuoto un paio di volte mentre guardava l’amico inginocchiarsi di fronte a lui, un sorriso enigmatico sulle labbra.
“Via il dente, via il dolore.” mormorò John accostando lentamente la bocca alla sua, in quello che si rivelò essere un mero sfregamento, a malapena percepibile. Il cuore di Sherlock sobbalzò e per qualche istante lui rimase paralizzato, gli occhi sgranati fissi sul volto dell’amico così vicino al suo.
Quando si staccarono, la vocetta petulante di Rebeccah percorse la stanza. “No, no, no!” esclamò fischiando con disapprovazione. “Un bacio vero, Tre continenti. Almeno quindici secondi!”
“Sì!” urlarono in coro gli altri membri del gruppetto, a parte Mary che cercava inutilmente di opporsi.
John alzò gli occhi al cielo, ma quando incontrò lo sguardo di Sherlock si rese conto che era pallido come un lenzuolo. “Sentite… possiamo andare un attimo di là? Per… ehm… per prepararci?”
“Ma sì, perché no? Almeno date spettacolo!” concordò Oliver alzando la lattina di birra a mo’ di brindisi.
Senza attendere la risposta degli altri, John afferrò Sherlock per il polso e lo trascinò in cucina. Il moro osservò l’amico, che aveva preso a misurare la stanza a grandi passi, un’aria pensosa in volto.
Non vuole.
In fondo è un obbligo, non può rifiutarsi.
Sì, ma non voglio baciarlo contro il suo volere.
“Posso chiedere di farlo con qualcun altro, se non te la senti…”
“No.” esclamò con slancio John interrompendo improvvisamente il suo imperterrito su e giù. Sherlock rimase interdetto dal trasporto dimostrato dall’amico e si interrogò sulla ragione scatenante.
E se fosse geloso?
Non essere assurdo.
“Voglio dire…” biascicò John, probabilmente rendendosi conto della foga con cui aveva risposto, e prese a grattarsi nervosamente la nuca. “… meglio te che Steve o Oliver o chiunque altro, no?”
Sherlock si limitò ad annuire e calò un profondo e imbarazzante silenzio durante cui i loro sguardi si evitavano e le punte dei loro piedi dondolavano appena avanti e indietro.
“Senti, Sherlock… questo, sì insomma, questo è il tuo primo bacio?”
Un violento rossore colorò le gote di Sherlock che assentì con un cenno del capo.
“Capisco, allora forse… ecco, non credo tu sia proprio ferrato in materia.”
“Per niente.”
“Bene, non è difficile, basta che… che segui me.” Per un attimo l’imbarazzo sul viso di John sembrò sfumare, cacciato indietro da un dolce sorriso. “Considerala come una prova, almeno quando avrai la tua prima fidanzata sarai già esperto.” Un sospiro spezzò la sua aria rilassata. “Mi dispiace solo che non sia con qualcuno di speciale…”
A quelle parole, l’angolo destro della bocca di Sherlock guizzò verso l’alto: John non poteva sapere, non poteva nemmeno immaginare che quella persona speciale era proprio lui. “Non fa niente, non è colpa tua.”
“Ehi, piccioncini! Avete intenzione di smuovere i vostri culi e portarli qui?” gridò la voce di Rebeccah nel salotto.
“Arriviamo!” rispose John prima di voltarsi un’ultima volta verso Sherlock, uno sguardo rassicurante in volto. “Segui me.”
Tornarono nella stanza dove si trovavano i loro amici a passo incerto e con gli occhi ostinatamente fissi a terra.
“Bene, abbiamo già pronto il timer: quindici secondi, okay?”
I due annuirono mentre si sedevano vicini, molto vicini. Sherlock respirava piano, così tanto che sembrava immerso in uno stato di totale apnea, e la gamba di John, a contatto con la sua, gli provocava un batticuore impazzito.
“Bacio! Bacio! Bacio!” cominciarono a gridare tutti.
“Pronto?” sussurrò John accostando la fronte alla sua.
Sherlock si limitò ad annuire e deglutì un paio di volte. Osservò John chiudere gli occhi e avvicinarsi pericolosamente a lui, le labbra schiuse. Dentro di sé, non poteva negarlo, non desiderava altro da tanto tempo. Quando John fu abbastanza vicino, azzerò completamente la distanza che li separava e le loro labbra si incontrarono come tasselli di un puzzle che coincidono inevitabilmente. Seguì un clik, probabilmente lo scoccare dell’inizio dei quindici secondi, ma a lui non poteva importare di meno. Lasciò che prima le labbra e poi la lingua di John lo guidassero in una danza muta e dai passi armoniosi e sospirò lievemente.
Lo stiamo facendo… Lo stiamo baciando, Sherlock!
E’ solo un obbligo. si ricordò interiormente come se cercasse di porre dei paletti a quell’euforia levitante, ma non riuscì ad evitare che la sua mano si avvicinasse impercettibilmente a quella di John, a pochi centimetri di distanza, e le dita gli sfiorarono lievemente le nocche.
I pugni di John si aprirono e inseguirono le dita di Sherlock, giocherellandoci appena mentre le loro labbra trovavano meccanicamente strada l’una contro l’altra. Era bello baciare John. Era come gustare la torta più buona del mondo… Anzi, era meglio. John sapeva di fresco e di casa. Si chiese come sarebbe stato prenderlo per la vita e stringerlo a sé, durante quel contatto, respirare la sua pelle, il suo odore, la sua essenza… Ma i pensieri erano appannati dal piacere, dalla felicità, da quel bacio umido e fresco al tempo stesso, ristoratore.
Così, quando una musichetta insulsa annunciò la fine dell’obbligo e lui fu costretto ad avvertire la presa sulla bocca di John venir meno, venne pervaso da un senso di vuoto. Aveva il fiato corto e le gote lievemente arrossate. Nemmeno fece caso all’applauso che seguì la loro separazione e al ritorno di John dalla sua fidanzata. Fidanzata. Chi voleva prendere in giro? Non aveva alcuna possibilità con lui.
Sospirò e si riaccomodò al suo posto, accanto a Steve che gli rifilò una sonora pacca sulla schiena. I suoi occhi saettarono in direzione di John, il cui viso era circondato dalle mani aggraziate di Mary. Lo vide ridacchiare quando lei prese a passare sulle sue labbra le dita, quasi a voler cancellare la scia rimasta di quelle di Sherlock. Ma quando i due cominciarono a baciarsi con slancio e passione, distolse lo sguardo e si alzò in piedi, borbottando un vado in bagno.
Una volta solo, Sherlock si richiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò con un sospiro. Passione, felicità, dolore… un insieme di emozioni a cui non riusciva a dar freno lo circondò. Aveva baciato John. Ma John aveva baciato Mary non appena si erano separati.
Sono innamorato?
Temo di sì, Sherlock…
Ma perché? Perché proprio a me? Non l’ho chiesto!
Non c’è una ragione, Sherlock, e non c’è neanche rimedio…
Sospirò amaramente e chiuse gli occhi, che avevano cominciato a pizzicare appena. Tirò su col naso e si passò una mano sul volto. Dietro di lui, una bussata.
“Un momento.” rispose cercando di contenere il tremolio alla voce.
“Sherlock? Sherlock, sono io, John… Va tutto bene?”
Se andava tutto bene? No, non andava tutto bene. Perché Sherlock stava male, perché soffriva come un cane a vedere quella biondina avere ciò che lui non avrebbe mai potuto avere, perché odiava se stesso per essersi lasciato coinvolgere e perché odiava anche John che l’aveva indotto ad amarlo.
“Sto bene.”
“Sei sicuro?”
“Sì, torna pure da Mary.”
Non vi fu risposta. Dopo alcuni secondi di silenzio e immobilità, udì i passi di John allontanarsi sempre di più, verso gli altri e verso… verso Mary. Sherlock si lasciò cadere a terra, seduto, e affondò il viso contro le cosce. Non permise alle lacrime di fluire fuori dai suoi occhi, ma ciò che non riuscì a fermare fu la lenta sofferenza che gli straziava il cuore.
Mi dispiace, Sherlock.
Senza di te sarebbe tutto più facile.
Passerà.
Non ci credo. Non potrà mai passare un dolore così.
 
 
Sherlock’s POV. La corsa in taxi è silenziosa come mi ero augurato. Fortunatamente John, dopo stamattina, deve aver recepito il messaggio. Quando l’auto si ferma mi trovo costretto a voltarmi verso di lui per ripassare il piano.
“Allora, noi ci intrufoliamo, recitiamo la nostra parte, stiamo un po’ alla festa per non destare sospetti, poi io comincio a cercare mentre tu tieni d’occhio gli Smith e mi copri nel caso in cui dovessero fare qualche domanda. Chiaro?”
John si limita ad annuire con sguardo scuro. Probabilmente la conversazione di stamattina deve averlo davvero provato, ma poco male, almeno imparerà a girarmi alla larga e, se sarò fortunato, entro un paio di settimane rinuncerà al suo progetto di riallacciare i rapporti e se ne andrà per sempre. Fa parte del passato. E il passato non dovrebbe mai ritornare, dovrebbe rimanere segregato in un meandro della storia di ognuno. Intoccabile.
Scendiamo dal taxi e ci dirigiamo in silenzio verso l’immensa villa degli Smith, circondata da un giardino lussureggiante e illuminato da lampioni dal design fine e raffinato. Stile vittoriano. Ammetto che, in fatto di gusti, se ne intendono.
All’ingresso, degli uomini in uniforme ci chiedono cortesemente l’invito e io glielo porgo, scorgendo per un attimo l’aria ansiosa di John, come se tema che possano accorgersi dell’inganno. Ma come previsto, i due ci salutano con voce pacata e ci invitano gentilmente ad accomodarci all’interno della villa.
“Okay, quindi ora che si fa?” bisbiglia John.
“Salutiamo il padrone di casa, ovvio.”
Seguiamo il flusso di persone fino ad arrivare ad un ampio salone in stile rinascimentale, con sfarzosi lampadari e un meraviglioso pavimento in marmo. L’ambiente è ripartito in tre navate da un sistema di imponenti colonne: quella al centro, la più grande, per ospitare le danze e la piccola orchestra, e quelle laterali per le lunghe tavolate con bevande e stuzzichini.
“Si trattano bene.”
“Con un’attività come la loro possono permetterselo. E non mi sto riferendo alla produzione di elettrodomestici.” rispondo io con un mezzo sorriso che contagia anche lui.
Al centro, scorgiamo un capannello di persone che accerchia un uomo dai capelli bianchi e il volto sorridente e affabile, sulla sessantina, palesemente amante dei gatti e grande estimatore di opere d’arte classiche, quattro figli, sei nipoti, ha il vizio di fumare ma a seguito di una diagnosi di cancro ai polmoni sta cercando di disintossicarsi usando le sigarette elettroniche. Limpido come l’acqua.
“E’ lui?”
“Certo che è lui.”
“Andiamo?”
Prima di incamminarci, però, gli porgo il braccio e lui mi fissa per qualche istante interdetto. “Fidanzati, ricordi?”
“Giusto…” borbotta mentre mi stringe il braccio e ci avviamo verso il festeggiato, appena staccatosi dalla torma di invitati che lo circondava poco fa.
“Signor Smith?” domando cortesemente avvicinandolo. Lui, per tutta risposta, mi sorride e osserva prima me e poi John con aria incuriosita. “Adams.” mi presento porgendogli la mano destra. “Richard Adams.”
“Oh, signor Adams! Che piacere conoscerla, finalmente!” esclama lui stringendomi calorosamente la mano.
“Non posso non dire altrettanto, signore. E’ un vero onore incontrare una persona del suo calibro.”
“Ma la smetta o rischia di farmi arrossire!” I suoi occhi si spostano da me a John, ancora rimasto fuori dal dialogo. “E lei deve essere il suo compagno, dico bene?”
John mi lascia il braccio per stringere a sua volta la mano di Smith. “Harry Lewis, lieto di conoscerla.”
“Salve, signor Lewis, è un piacere soprattutto per me. Devo confessarle, signor Lewis, che temevo non avrei avuto occasione di conoscerla.”
“Ah no? E perché mai?” chiede John simulando un perfetto sguardo incuriosito.
Smith mi poggia una mano sulla spalla con fare quasi paterno. “Io e il suo compagno abbiamo comunicato solo per lettera o e-mail, eppure sono stato in grado di fiutare la sua timidezza. Credevo che non sareste venuti assieme.”
John mi rifila un mezzo sorriso. “Ah, signore, non può neanche immaginare quanto difficile possa essere Richard alle volte.”
“Ma non mi dica!”
“No, davvero. E’ incredibilmente suscettibile e non appena combino qualcosa di sbagliato o lo ferisco in qualche modo, non mi rivolge la parola per settimane intere. Pensi che una volta, è arrivato portando con sé una sacchetta di biscotti cucinati da lui, ma quando gli ho detto – nella maniera più diplomatica possibile – che non erano buoni, ha cominciato a farmi trovare quei maledetti biscotti dappertutto.”
Ricordo quella volta. Erano passati pochi mesi dal nostro incontro e avevo deciso di fare qualcosa di carino per lui anche per sdebitarmi di tutto quello che aveva compiuto per me, così ho chiesto aiuto alla governante per cucinare dei biscotti al cioccolato, visto che sapevo fossero i suoi preferiti. Ma poiché lui aveva espresso il suo modesto parere, e cioè che facevano schifo, avevo iniziato a sostituire la sua merenda con quei biscotti e la cosa andò avanti per settimane. Mi trovo a sorridere nel ripensare a… Scaccio quel pensiero dalla testa e afferro saldamente la mano di John nel tentativo di trascinarlo via ed evitare qualche altra umiliazione.
“Direi che abbiamo disturbato il signor Smith anche troppo…”
“Ah no, signor Adams! Proprio ora che stavo cominciando a divertirmi! La prego, signor Lewis, mi racconti qualche altro aneddoto riguardo al suo compagno.”
John non deve neanche pensarci su. “Non me lo deve ripetere una seconda volta, signore. Un pomeriggio abbiamo giocato ad uno dei suoi giochi da tavolo preferiti – probabilmente lo era perché vinceva sempre lui – e, a dispetto delle volte passate, non so come, ho vinto io. Lui, per ripicca, ha preso e buttato nella spazzatura il gioco e il giorno dopo è arrivato con uno identico ma nuovo. Diceva che ormai era difettato e che fosse colpa del gioco se non aveva vinto.”
Smith scoppia a ridere, assieme a John, mentre avverto un calore rovente percorrermi il viso.
“Direi che può bastare, caro.” dico io sottolineando l’ultima parola e sperando che ottenga l’effetto sortito, ma John, senza smettere di ridacchiare, mi passa un braccio attorno alla vita e mi stringe delicatamente a sé.
“Te la sei presa, Richard?” mi chiede con tono divertito ma dolce. E diavolo, se è bravo a fingere. Sembra completamente un’altra persona e adesso sono io quello a disagio per questa rovente vicinanza con lui.
“Suvvia, signor Adams, si scherza! Ma ditemi, se non sono indiscreto, come vi siete conosciuti?”
John fa per rispondere, ma si blocca a metà e mi guarda incuriosito. “Perché non lo racconti tu, tesoro?”
A quelle parole, deglutisco appena e il più silenziosamente possibile. Non so cosa mi stia prendendo, ma vedere John sotto queste nuove spoglie mi infonde una sensazione così… suggestiva e familiare… Come se non fossero passati vent’anni, come se tra di noi non fosse successo niente, come se il nostro rapporto fosse ancora tale da ridere e scherzare tranquillamente.
“Ecco… In quel periodo la concessionaria era in crisi e pareva sull’orlo della rovina. Per altro, non erano esattamente quelli che si dicono giorni felici per me, anche al di fuori del campo lavorativo. Così, una mattina, mi sono svegliato e mi sono diretto quasi senza rendermene conto sul tetto del mio ufficio. E mi sarei buttato di sotto se non fosse arrivato Harry.” Gli lancio un’occhiata furtiva e faccio scivolare la mano sulla sua, ancora poggiata sulla mia vita. “Mi ha salvato e… mi ha regalato una nuova vita che non avrei mai sperato di avere.”
“Se è per questo, anche tu mi hai salvato.” Per un attimo, lo vedo in quella mensa, di fronte il tassista, col veleno in mano e gli occhi vuoti. In effetti, il nostro è sempre stato un salvarsi la vita reciprocamente. E dire che c’erano davvero tutti i propositi per creare qualcosa di buono, ma… il tempo e il destino – chiamiamolo così – hanno fatto il loro corso e niente può esser più come prima.
“Pensate di sposarvi?”
La voce di Smith mi riscuote e mi ritrovo con gli occhi puntati su di lui. “Ah, beh… ecco, noi… ci abbiamo pensato, sì, ma non siamo ancora giunti ad una conclusione…”
“Già, Richard è talmente pieno di impegni che per organizzare la cerimonia e tutto ci sarebbe da faticare, ma sto ancora provando a convincerlo.”
Fingo un sorriso imbarazzato quando l’unica cosa che vorrei fare è afferrare John, sbatterlo contro il muro e prenderlo a pugni. Fortunatamente, sopraggiungono dei nuovi invitati, desiderosi di ricevere l’accoglienza del padrone di casa e così noi ci eclissiamo salutando Smith cordialmente. Una volta lontani dal suo occhio e dal suo orecchio, ghermisco il polso di John e lo trascino in un luogo appartato. Alla fine di una delle tavole, lo costringo al muro, cercando il più possibile di far sembrare quella scena il più romantica e passionale possibile per eventuali occhi indiscreti.
“Che diavolo pensi di fare?” sussurro in un suo orecchio.
Le mani di John si chiudono attorno alla mia vita e cerca di scansarmi ma riesco a rimanere immobile puntando le punte dei piedi a terra. “Che diavolo pensi di fare tu?”
“Credi davvero che questi mezzucci funzionino con me?”
“Ma quali mezzucci? Sherlock, non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando.”
Finalmente mi scanso leggermente, quel tanto che mi consente di guardare John torvamente. “Il tuo rivangare il passato e quanto altro… Credi davvero che sia così stupido e ingenuo da abboccare?”
John si sporge in avanti, la fronte aggrottata e una profonda ruga tra gli occhi. “Credi fosse un mezzo per raggirarti? Beh, stavolta la tua suprema intelligenza ha sbagliato. Volevi che fossi credibile? Ho semplicemente riadattato la nostra storia a questi due sconosciuti che stiamo fingendo di essere. Problemi?”
Restiamo immobili per alcuni istanti, i nostri visi a poca distanza l’uno dall’altro, infine mi riscuoto e mi scanso, liberandolo dal vicolo cieco in cui l’ho costretto. Si aggiusta appena la giacca nera e la camicia linda, lanciandomi sguardi furtivi.
“Io vado a fare un giro per la sala così prendo confidenza con questo posto.”
E detto questo, mi lascio inghiottire dalla folla di invitati che si muovono per la stanza, lasciandolo in un angolino del buffet. Mi rendo conto solo dopo svariati minuti che in realtà il mio non è affatto un giro di avanscoperta, ma un mero sfogo: sto camminando in tondo, con i pugni serrati e la mascella digrignata. Quel tipo mi farà uscire di testa, prima o poi. O magari c’è già riuscito.
Prendo un respiro profondo, ricercando la calma necessaria per affrontare la mia missione, infine, comincio a studiare veramente l’ambiente intorno a me, prendendo visione delle stanze di accesso pubblico, di eventuali vie di fuga, di possibili ostacoli… Mi avvicino ad un’armatura lucida e splendente. Un po’ troppo. Le altre a cui sono passato accanto erano pulite, sì, ma non così ricercatamente. Mi avvicino e la esamino con attenzione, assottigliando lo sguardo. C’è qualcosa in questa armatura che non mi convince. Mi pare scontata l’idea di un qualche passaggio segreto, però avrebbe anche senso: se fosse davvero un accesso, sarebbe impossibile da imboccare. Cos’è meglio nascosto di qualcosa in piena vista?
Improvvisamente, una mano si serra sulla mia spalla e io sussulto, voltandomi bruscamente. La paura di trovarmi di fronte uno degli Smith o una loro guardia del corpo svanisce non appena incontro il volto di John.
“Ehi, tesoro, mi stavi cercando?” mi chiede con voce stranamente alta di volume. I suoi occhi si stringono appena e mi comunicano tutto quello che c’è da sapere. Sposto appena lo sguardo dietro a lui e intravedo la figura di un uomo intento ad osservarci con aria preoccupata e minacciosa.
“In questo momento volevo darmi una sistemata perché volevo chiederti di…” Ad un tratto, l’inizio di un valzer mi viene in aiuto e i miei occhi si accendono. “… di ballare.”
“Ma guarda, abbiamo fatto lo stesso pensiero.”
Ci prendiamo per mano e ci confondiamo tra gli altri invitati che hanno preso ad ondeggiare maldestramente per la stanza privi di grazia alcuna. Se c’è una cosa che odio più delle persone stupide, sono le persone stupide, incapaci di ballare, ma che nonostante tutto vogliono mettersi in mostra. Circondo la vita di John con un braccio e lo stringo a me. Il suo corpo, contro il mio, s’irrigidisce appena e io inarco un sopracciglio.
“N-niente.”
“Sai ballare?”
“Non proprio, no…”
Sospiro amareggiato. “Segui me.”
E senza aspettare risposta, lo trascino con me per la pista, cercando di evitare – per quanto possibile – i suoi pestoni. Mentre fluttuiamo relativamente aggraziati per il salone, lancio frenetiche occhiate intorno a me, alla ricerca dell’uomo che mi squadrava poco fa, ma sembra sparito. James Smith, figlio di William Smith, un pericoloso sicario, pare, uno dei pochi della famiglia che non ha problemi a sporcarsi le mani. Il valzer continua, la nostra danza prosegue, e i miei occhi continuano a scattare per la stanza. Finalmente, scorgo una porta lontana e mezzo occultata da un tendaggio rosso, attorno a cui non pascola alcun invitato e non sorvegliata.
“Sherlock…”
Mugugno appena senza prestare in realtà la minima attenzione a John.
“Sherlock, potresti allentare la stretta?”
A quelle parole, abbasso lo sguardo su di lui e mi rendo conto che i nostri nasi sono a contatto e che il suo corpo è praticamente schiacciato contro il mio. Il panico mi assale improvvisamente e mi blocco sul posto, al centro del salone. Negli occhi di John, riesco a intravedere il mio riflesso. Lui mi fissa con apprensione e smarrimento.
“S-Sherlock? Va tutto bene?”
Lo spingo via brutalmente e mi volto, muovendomi come meglio riesco tra i corpi parzialmente leggiadri e danzanti che pullulano per la stanza. Sento la voce di John, dietro di me, urlare il nome di Richard, mentre a sua volta si fa largo tra la folla. Appena raggiungo una delle navate laterali, le sue dita si serrano attorno al mio polso e mi tirano verso di lui, obbligandomi a guardarlo.
“Per l’amor del cielo, mi spieghi che ti prende?” sibila avvicinandosi il più possibile a me per non farsi sentire da altri. “Ho capito, non mi sopporti a tal punto che anche solo toccarmi ti fa salire la nausea, ma almeno per stasera, che ne va della sicurezza della Nazione, potresti mettere da parte il tuo rancore?”
Rancore? E’ davvero rancore? No, c’è qualcosa di più… E’ che, l’essere talmente vicino a lui da poterlo quasi baciare sporgendomi appena appena in avanti, mi ha ricordato il passato… Lo Sherlock piccolo e illuso che seguiva John come un cagnolino obbediente. Lo Sherlock che in cuor suo covava tante speranze. Lo Sherlock che alla fine è rimasto scottato inevitabilmente.
Serro gli occhi e allontano ogni immagine lontana. “Io entro, tu controlla la situazione e bada a che nessuno degli Smith o dei suoi collaboratori lasci la stanza con fare sospetto. Se succede, avvisami con un sms, intesi?”
“O-okay…” risponde John con aria visibilmente confusa probabilmente a causa del repentino cambio d’argomento. Faccio per sgattaiolare verso la porta individuata poco fa, ma la sua presa mi tira nuovamente indietro. “Sta’ attento.”
Mi limito ad annuire e lui mi lascia andare. Prima di sparire dietro alla porta, mi volto un’ultima volta e lo vedo con gli occhi fissi su di me e qualcosa, non so cosa, mi si smuove all’altezza del petto. Ma dura un istante, poi tutto finisce quando mi richiudo la porta alle spalle.
 
SPAZIO AUTRICE
Eccomi qua col quarto capitolo! Ne abbiamo visto delle belle, eh? Scusate per il classico, forse anche ormai banale, obbligo o verità, ma mi sono sentita in dovere di inserirlo così, perché mi andava e perché a quei due serviva un piccolo incentivo. La domanda è, avrà fatto bene quel bacio? O andrà soltanto a complicare le cose? Lo scopriremo solo più tardi. Per quanto riguarda il presente, i nostri protagonisti si sono infiltrati nella famigerata villa degli Smith, ma che cosa troveranno ad attenderli? Anche questo, solo il tempo potrà dirlo. Siamo esattamente a metà storia, visto che questa ff è composta da otto capitolo, ma troppe ne devono ancora succedere. 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, sentitevi liberi di farmi sapere che cosa ne pensate e noi ci vediamo lunedì prossimo col quinto capitolo. Buona settimana!!
*kiss*
Alicat_Barbix. 
 
 

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 5 ***


IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix
 
CAPITOLO 5
 
La notte stendeva il suo manto di sposa nera sul cielo. Sherlock se ne stava disteso sul letto, al buio, il torso nudo, gli occhi persi a contemplare il soffitto. E la sua testa… la sua testa era ormai un meccanismo confuso e malfunzionante, un sistema di ingranaggi arrugginiti e rotti. Faticava a stare al passo dei suoi pensieri, ma soprattutto faticava a stare al passo dei suoi sogni. Ogni sera, chiudeva gli occhi e i sogni lo venivano a trovare con ferocia, beandolo nel sonno, ma percuotendolo nella veglia.
Ad una non data ora della notte, vi fu una lieve bussata alla porta e si chiese chi potesse essere: non i suoi genitori – erano fuori per un convegno di lavoro – non suo fratello – era uscito per andare chissà dove con chissà chi – le opzioni restavano assai poche.
“Avanti.” rispose piano e la porta si aprì con un cigolio, rivelando il volto stanco di Margaret, una delle domestiche.
“Signorino, è permesso? Mi spiace disturbarla, ma c’è una visita per lei…”
“Chi?”
“Sherlock?”
Quella voce sembrò illuminare repentinamente l’ambiente scuro e scacciare ogni altra cosa. Scattò in piedi, congedò la cameriera e invitò l’ospite ad entrare. La sagoma di John fece capolino nella stanza buia e, nonostante le tenebre, Sherlock capì subito che qualcosa non andava.
“Aspetta, accendo la luce…”
“No, al buio va bene…” lo bloccò l’amico in un sussurro.
“Okay…”
Sherlock si sedette sul bordo del letto, in volto uno sguardo confuso. John se ne stava immobile in mezzo alla stanza, il capo chino e gli occhi fissi sulle punte dei piedi. “Perdonami se ti ho disturbato così tardi…”
“Ma figurati, non è niente… E’ successo qualcosa di… grave?”
Un sospiro aleggiò per la stanza. “Io e Mary ci siamo lasciati.”
“Oh.” fu tutto quello che le labbra di Sherlock riuscirono ad articolare. Si tese in avanti e, presa la mano di John, lo accompagnò delicatamente a prendere posto sul letto, accanto a lui, ma poi si rese conto che non aveva la più pallida idea di cosa dire o fare in una situazione simile. Per altro, era crudele a dirsi, ma lui era felice. Felice che quella strega avesse finalmente allentato definitivamente la presa sul suo amico, che John smettesse di andare in giro a baciare qualcun altro, che il suo cuore venisse finalmente alleggerito di un peso enorme. Ma si sentì meschino, perché John era lì, accanto a lui, sconsolato e cercava il suo aiuto. “John, senti… forse hai sbagliato a venire qui. Non fraintendermi, mi fa piacere, ma non credo di essere la persona giusta. Per altro, non so neanche cosa dire o come comportarmi in un momento del genere… magari se parlassi con Steve o Oliver…”
“Sono venuto da te, non da loro.” lo interruppe l’amico, prima di affondare la testa contro la sua spalla.
Sherlock rimase per qualche istante paralizzato da quell’improvviso slancio d’affetto dell’altro, ma infine, si sciolse lentamente e gli circondò le spalle con un braccio. Rimasero in silenzio per diversi attimi, finché lui non trovò il coraggio di parlare: “Che è successo?”
“Mi tradiva.”
Quelle parole vennero inghiottite da un silenzio meditabondo. Sherlock assorbì quella rivelazione, la rielaborò, cercò di farla sua. Mary. Tradiva. John. Come si poteva tradire John? John era tutto ciò che si poteva mai desiderare, John era perfetto, John era speciale. John era John. E quella biondina da quattro soldi era stata così stupida da perderlo.
“Come l’hai scoperto?”
Un sorriso triste apparve sulle labbra di John, appena screpolate dal freddo. “Oggi era il suo compleanno. Volevo farle una sorpresa, così sono andato a casa sua, ma la madre mi ha detto che era uscita con un ragazzo, un amico di famiglia, pare, e che erano andati in discoteca. Così ci sono andato anch’io e… l’ho trovata con la lingua ficcata nella bocca di un venticinquenne.”
Sherlock sospirò e prese a frugare tra i cassetti della sua mente, alla ricerca della voce Cose da dire ad un amico che si è appena lasciato con la fidanzata, ma nel campo generale dell’amore non era largamente fornito di esperienze o conoscenze.
Che devo fare? domandò quindi, rivolgendosi a quel cuore dispettoso che si faceva vivo solo nei momenti più scomodi.
Rimanergli vicino.
Sì, ma che devo dirgli?
Niente. Certe volte un abbraccio è più che sufficiente in questi casi, credimi.
Fu per questo che, inconsapevolmente, strinse di più la presa attorno al corpo dell’amico. Il respiro di John si fece per un momento più pesante, ma poi ritornò regolare e la sua mano si allacciò a quella dell’altro non impegnata nel circondargli le spalle. Il cuore di Sherlock sobbalzò e, nonostante provasse l’irrefrenabile desiderio di fuggire a quel contatto così bello eppure così doloroso, rimase immobile.
“Avanti, dillo.”
“Che cosa?”
John si strofinò appena contro la spalla dell’amico. “Ho bisogno di qualcosa come te l’avevo detto che l’amore è uno svantaggio o qualcosa del genere… Insomma, ho bisogno del tuo cinismo.”
Sherlock ridacchiò amaramente: se solo John avesse saputo… “L’amore è un qualcosa di inutile, che fa star male…”
“Concordo.”
“… ma allo stesso tempo riesce a regalarti gioie che non avresti mai creduto di trovare.”
John alzò la testa e nel buio cercò gli occhi di Sherlock. “E questa da dove l’hai tirata fuori, si può sapere?” Fortunatamente il buio, per quanto non assoluto, era tale da garantire alle guance di Sherlock di arrossarsi senza però essere scoperto dall’altro.
John si staccò definitivamente e si buttò all’indietro sbuffando, il corpo prestante che affondava nel comodo materasso del letto, e dopo un paio di secondi il corpo dell’amico fu accanto al suo. “Cazzo, se fa male… vedere la persona che ti piace con qualcun altro...”
“Posso immaginare.”
“E ho solo diciassette anni. Pensa se fosse successo a trenta o quarant’anni. A parte l’importanza del nostro rapporto, ci sarebbe quasi sicuramente stata di mezzo un’intera famiglia, magari dei bambini, chi lo sa… Non riesco a credere che sia stata così meschina da tradirmi e avere il coraggio di buttarsi tra le mie braccia ogni volta che stavamo insieme.” Si passò una mano in volto. “Il problema è che… sto così di merda che avrei preferito non scoprire niente.”
“Non dire così.” lo rimbeccò Sherlock girandosi su un fianco, verso di lui. “Se stasera non avessi scoperto niente, a quest’ora Mary ti starebbe tradendo a tua insaputa e avrebbe continuato per chissà quanto… Magari avresti finito per amarla davvero e una volta venuta a galla la faccenda, saresti stato ancora peggio.”
“Ottima osservazione, Holmes. Visto? Avevo proprio bisogno di te e della tua freddezza.”
Quelle parole, in qualche modo, lo ferirono, perché lui voleva essere tutt’altro che freddo. Voleva essere in grado di stargli accanto nel miglior modo possibile, di confortarlo nel miglior modo possibile, di essere suo amico nel miglior modo possibile. Il problema erano i suoi veri sentimenti, che non facevano altro che ostacolare tutti i suoi buoni propositi: come faceva a non essere freddo? Avrebbe così tanto desiderato lasciarsi andare, piegarsi su di lui e baciarlo, prendergli una mano e portarsela al petto dove il suo piccolo cuore impazziva, ma non poteva. Perché avrebbe rovinato tutto. E non voleva perderlo… non voleva perdere il suo unico amico.
“Ho deciso: non voglio innamorarmi mai più.”
Sherlock venne brutalmente risvegliato dai suoi pensieri. “Cosa?”
“Non riesco a sopportare l’idea di star di nuovo così male per amare qualcuno.”
“Quindi tu… l’amavi?”
John ridacchiò. “No, certo che no… Lei, insomma, mi piaceva e diciamo che ci sapeva fare in molti campi del nostro rapporto, ma parlare d’amore mi sembra esagerato, soprattutto alla nostra età.”
Ah sì, cretino che non sei altro? bisbigliò indispettito il cuore di Sherlock, che stavolta neanche perse tempo a zittirlo, perché aveva ragione: cosa ne sapeva John dell’amore? Erano ormai mesi e mesi che Sherlock lo amava. E John veniva a dire che l’amore non esisteva?
“Dici così solo perché la ferita è fresca.” borbottò.
“E invece no. Vada per rapporti da una settimana, senza impegni, ma rifiuterò ogni altra prospettiva di relazione. E tu mi aiuterai.”
“Io?”
“Esatto. Se dovessi, per qualche strana ragione, invaghirmi pesantemente di qualcuno, tu dovrai fermarmi. Intesi?”
Sherlock capì che l’amico gli stava porgendo una mano per sugellare quella promessa ridicola. Era troppo chiaro, per lui, la storia del al cuore non si comanda, o non si sarebbe mai trovato in una situazione del genere. Ma non poteva certo rifiutarsi, non nella notte in cui John aveva appena rotto con la sua ragazza e aveva bisogno di lui come amico e non di lui come un povero innamorato. Così, gli strinse la mano e promise.
“Bene, adesso direi che è il momento di accendere la luce.” esclamò John alzandosi a sedere e allungandosi verso la lampada da scrivania sul comodino accanto al letto. Solo quando le sue dita premettero l’interruttore, Sherlock realizzò con orrore che non indossava alcuna maglia.
La luce inondò la stanza e lo costrinse a serrare gli occhi per qualche istante, infastidito, ma quando li riaprì, quello che vide lo lasciò senza parole: John lo stava fissando. Gli stava fissando il torace, la pelle, il cuore… Erano vicini, terribilmente vicini, Sherlock si sentì esposto e nudo non nel senso vero della parola, ma nel senso astratto del termine: temeva che il suo cuore potesse far capolino da dietro la sua pelle perlacea con la scritta John, ti amo. John era girato su un fianco, il peso spostato sull’avambraccio puntato contro il materasso e i suoi occhi scavavano in quel fisico. La sua mano si mosse da sola e prese a ripassare la forma del petto dell’amico. Un brivido percorse la schiena di Sherlock, che non riuscì a fare a meno di rimanere immobile, gli occhi fissi sul volto assorto dell’altro.
“Sei dimagrito…” osservò con amarezza John. “Va tutto bene? Non te lo chiedo mai. Parlo sempre di me e… non ti chiedo mai come stai.”
“Sto bene.” mentì Sherlock mentre la sua mano si posava su quella di John, fermando il suo incessante su e giù sul suo petto.
Le dita di John si aprirono appena, lasciando che s’intrecciassero a quelle dell’amico. “E’ che a volte sei strano. Mi sembra quasi che… che tu sia lontano.”
Sherlock spalancò gli occhi e si levò a sedere di scatto. “Non pensarlo neanche per scherzo!”
John si ritrasse appena, un sorrisetto imbarazzato sulle labbra. “Ehi, ehi, non mi mangiare… Dico solo che in certi momenti ho l’impressione che tu voglia tenermi lontano.”
Il pugno libero dell’altro si strinse alle coperte, con rabbia, frustrazione, sofferenza… “Non essere assurdo. Non potrei mai tenerti lontano.”
“Wow, suona quasi romantico.” rise John. Sherlock avvertì una cinta di spine avvolgergli il cuore e percepì vividamente la mano dell’altro scivolare via dalla sua. “Ad ogni modo, hai qualcosa di forte da bere? Ho bisogno di dimenticare quella stronza.”
Sherlock non rispose e rimase con le sue mani vuote allacciate in grembo. Ora come non mai, si sentiva solo. Solo senza John. Solo senza amore. Solo.
 
John’s POV. Mi guardo attorno e avverto un peso al petto. Un’ora e mezzo. Sherlock è dentro da un’ora e mezzo e non ho la più pallida idea di che cosa stia facendo. E poi… poi c’è questa sensazione, questa terribile sensazione che gli sia successo qualcosa, che qualcuno l’abbia scoperto e… Scaccio quel pensiero e mi concentro sugli Smith e sui loro uomini. Il numero non è variato da quando Sherlock ha lasciato la stanza. William sembra ormai più ubriaco di mia sorella Harriet.
Ogni cosa è rimasta immutata, l’atmosfera è sempre più ovattata e allegra, i balli sempre più scatenati e irruenti… Ma Sherlock non c’è. E questo basta per infrangere ogni certezza.
“Signor Lewis!” urla una voce alle mie spalle, facendomi sobbalzare. Mi volto e incontro il volto pulito e sbarbato di un giovane uomo di bell’aspetto e dallo sguardo magnetico. Riesco ad indentificarlo in pochi secondi: James Smith, il figlio minore di William Smith. “Mi scusi, non mi sono ancora presentato: James Smith, piacere.”
“Signor Smith, piacere mio.” rispondo stringendogli la mano ma non presentandomi a mia volta visto che è lampante il fatto che mi conosca già.
“Niente formalità! Siamo praticamente coetanei! Chiamiamoci per nome e diamoci del tu, avanti!”
“Come vuole… vuoi, James.”
James mi sorride calorosamente e mi allunga uno dei due bicchieri che tiene in mano, ma io rifiuto con un gesto cortese ma secco. L’ultima cosa di cui ho bisogno è ubriacarmi con Sherlock disperso chissà dove.
“Pensavo… ma dov’è il signor Adams?”
“Si è dileguato poco fa per andare al bagno. Volevi parlargli?” mento cercando di sembrare il più naturale possibile.
“No, no, va bene così. In realtà, volevo fare due chiacchiere con te, se non ti dispiace.”
Gli rivolgo un’occhiata incerta, ma comunque annuisco e lo seguo obbedientemente mentre mi offre di passeggiare un po’ per la stanza, senza mai, però, perdere di vista il mio compito.
“Tu e il signor Adams formate davvero una bella coppia. E devo ammettere che è più affascinante di quanto mi sarei mai aspettato.” Annuisco seccamente, ma non mi sbilancio a rispondere, come se tema che dalle mie labbra possano uscire parole taglienti come quelle che mi rivolge Sherlock. “Senti, non sono esattamente il tipo di uomo che si perde in chiacchiere e gira intorno a determinati argomenti. Perciò, quanto vuoi?”
Mi fermo e lo guardo confuso. “Come, scusa?”
“Quanto vuoi per rompere con lui? Tanto è per i soldi che state insieme, vero?”
“Scusa, ma credo di non aver ancora capito.” ripeto serrando appena i pugni appena scivolati nelle tasche dei pantaloni.
James sospira, come un insegnante che deve rispiegare per l’ennesima volta un concetto ad un bambino disattento. “Mio padre vuole che anche io, come i miei fratelli e sorelle, mi sposi, ma a differenza loro non voglio accontentarmi di legami d’affari. E’ vero, il signor Adams ha tutte le qualità per diventare un imprenditore senza eguali, ma quando stasera l’ho visto ho capito che potrebbe anche essere l’ultima ruota del carro della società e che il mio desiderio non muterebbe.” Incatena il mio sguardo al suo, l’ombra di un sorriso sulle labbra. “Perciò glielo ripeto: quanto vuole perché mi prenda Richard?”
Ridacchio per qualche secondo. E’ assurdo, davvero assurdo! Come si fa a credere che l’amore possa essere comprato col denaro? “Perdonami, James, ma credo che tu abbia frainteso le cose. Io e Richard non stiamo insieme per… vantaggi di alcun tipo. Perciò non voglio assolutamente niente da te.”
“Oh, Harry, ogni cosa ha il suo prezzo.”
“E’ vero, ma forse non mi sono spiegato abbastanza bene: Richard non è in vendita.” rispondo scandendo le ultime parole. E c’è quasi rabbia nella mia voce, rabbia vera, come se davvero stessimo parlando del mio fidanzato, cosa che Sherlock non è.
Non sarai mica geloso, Johnny?
“Quindi mi stai dicendo che lo ami a tal punto da rifiutare – vediamo… – un assegno di nove milioni di sterline?”
Inarco le sopracciglia e il mio viso per un attimo si vela di stupore: Sherlock ha fatto davvero colpo se quest’uomo è disposto a sborsare una cifra del genere. Mi trovo a sorridere nel constatare che io ho Sherlock senza neanche aver tirato fuori dal portafoglio un penny.
Piccolo dettaglio: Sherlock non è tuo.
Intendevo come compagnia generica, idiota.
Ma c’è qualcosa di fasullo nella mia risposta, qualcosa che per il momento mi rifiuto di ponderare. “James, mi spiace, ma l’amore non può essere comprato. Questa è la versione gentile e romantica della mia risposta; quella un pochino più autoritaria e, se vogliamo, intimidatoria è questa.” Faccio un passo avanti in modo da ritrovarmi spaventosamente vicino a lui, gli occhi ridotti a due fessure minacciose. “Giù le mani da Richard, non è assolutamente in vendita. E’ già occupato.” Mi allontano nuovamente e, sfoggiando un sorriso radioso, gli poggiò amichevolmente una mano sulla spalla. “Bene, credo che sia tutto risolto. Ah, se vuoi un consiglio, prova quel tipo laggiù: sembra il classico uomo che farebbe di tutto pur di racimolare un qualcosa.”
Non gli lascio neanche il tempo di rispondere: mi stacco e mi allontano nuovamente dalla navata principale, così brulicante di vita e di gioia. Un’oscura inquietudine ha ormai cominciato a stringermi il cuore nella sua morsa d’ombra: dove diavolo è Sherlock?
So che eravamo rimasti d’accordo che non mi sarei dovuto muovere dalla stanza prima che lui fosse tornato, ma non posso più aspettare, perciò mi accosto alla porticina dietro a cui è sparito Sherlock e, dopo essermi assicurato dell’assenza di occhi indiscreti, scivolo furtivamente all’interno della misteriosa stanza.
Mi ritrovo in un corridoio lungo e avvolto dalle tenebre. Lancio rapide occhiate a destra e a sinistra, la mano scivola sulla pistola e la estraggo con lentezza. Mi sembra quasi di essere ritornato in Afghanistan, a portare a termine missioni di logoramento in cui un piede poggiato male poteva significare l’esplosione di una mina. Con passo furtivo, comincio ad ispezionare l’ambiante e, con mia immensa sorpresa, lo trovo completamente vuoto. Non ha senso: gli Smith si sentono davvero così sicuri di loro da lasciare sguarnita una zona della casa? O magari sono semplicemente lontano anni luce dal posto giusto. All’improvviso, una voce cattura la mia attenzione e mi costringe a premermi contro il muro.
“Sì, Raoul. Sì, qui è tutto sotto controllo, è ancora privo di sensi. Che cosa? Il compagno? Ma sei sicuro che stia venendo qui? Non potrebbe essere andato al bagno? D’accordo, terrò gli occhi aperti.”
Merda. Che cosa significa? Privo di sensi? Sta parlando di Sherlock? Dannazione, hanno notato la mia assenza dalla sala. Mi muovo il più silenziosamente possibile verso il luogo di provenienza della voce, ma improvvisamente, una figura con una torcia mi sbuca davanti; fortunatamente si volta nella direzione inversa a quella in cui sono io, dandomi le spalle. Ne approfitto e con uno scatto mi pianto dietro di lui, la pistola puntata contro la sua nuca. Sobbalza a contatto con la pistola, ma si pietrifica non appena realizza ogni cosa.
“Prova a muoverti, parlare o anche solo pensare a come svignartela e sei morto, chiaro?” lo ammonisco con voce cupa e posso quasi percepire il suo terrore. “Molto bene, cominciamo con una domanda facile: dov’è Richard Adams?”
“E’… in una di quelle stanze.” bisbiglia a fil di voce indicandomi il corridoio da cui è appena sbucato.
“Bene, adesso portami da lui.”
Lo incalzo spingendolo con la canna della pistola e lui si affretta a camminare, le mani che gli tremano. Noto che, appesa alla cintura, ha una pistola, perciò prima che possa anche solo rendersene conto gliela sfilo e la getto dietro di me. Lo sento deglutire a forza, ma non si interrompe e continua a camminare rapidamente. “E’-è qui dentro.”
Ma non ho bisogno delle sue parole per scorgere a terra il corpo abbandonato di Sherlock. Senza riflettere, afferro il tizio e lo trascino dentro, scaraventandolo a terra, il più lontano possibile dall’ingresso, mentre io mi chiudo la porta alle spalle, chiudendola a chiave, e mi inginocchio su Sherlock.
“Ehi? Ehi, Sherlock? Mi senti?”
Ma lui non risponde. Ha gli occhi chiusi, il respiro pesante, e i suoi ricci sono lievemente incrostati di sangue. Mi volto rabbiosamente verso l’uomo degli Smith. “Che gli hai fatto, eh?”
“Io… l’ho drogato.”
“Con cosa?”
“Ketamina.”
“A che dosaggio?” Non mi risponde e si preme con occhi impauriti al muro. “A CHE DOSAGGIO?”
“15-17,5 mg/kg…”
Spalanco gli occhi. “Hai la più pallida idea di… Con quella dose si stendono i cavalli non gli esseri umani!”
Senza smettere di tenere sotto tiro il tizio, afferrò il corpo freddo di Sherlock e lo avvolgo con la mia giacca, sperando che con quel poco tessuto possa riscaldarsi appena un poco.
“Quanto fa?”
“Un quarto d’ora circa…”
Dannazione. Fra poco cominceranno le allucinazioni e i deliri… Merda. Non ora. “L’hai perquisito?”
“S-sì…”
“E non hai trovato niente? Una cartellina, per esempio.” Mentre parlo, cerco frettolosamente il numero salvato dell’ispettore Lestrade e mi porto il telefono all’orecchio.
“No, non aveva niente…”
“Lestrade? Abbiamo un problema. Sherlock è stato drogato, siamo ancora dentro e non abbiamo la cartella.”
“Okay, resta calmo. Uscite di lì subito, anche senza la cartella, ma uscite. Vi mando subito una macchina.”
Butto giù in fretta e mi carico Sherlock sulla schiena, la pistola ostinatamente puntata contro l’insulso individuo di fronte a me. Mi chiedo come sia riuscito a sopraffare Sherlock, con quella faccia terrorizzata che si ritrova.
“Avanti, alzati.” lo esorto ringhiando. “Quante altre guardie sorvegliano questo posto?”
“Nessuna.” risponde semplicemente lui alzandosi.
“Nessuna?”
“No.” Un ghigno gli deforma il volto. “Vi stavamo aspettando…”
Alle mie spalle, echeggia uno sparo e la serratura salta. Sto per voltarmi ma con la coda dell’occhio intravedo l’ometto saltarmi addosso. Senza riflettere, lascio che l’arma gli spari un proiettile preciso dritto in fronte. Si accascia a terra senza un lamento e io mi affretto verso la finestra di fronte a me. Nella stanza, irrompono una decina di uomini armati, con giubbetti antiproiettile e passamontagna. Faccio appena in tempo a lanciarmi all’esterno, frantumando la finestra, che un proiettile mi fischia a un soffio dal viso. Cado a terra, nell’ampio giardino, il corpo assopito di Sherlock su di me. Rotolando di fianco, riesco a portarmi sopra di lui e me lo trascino appresso il più velocemente possibile. Non mi volto, so anche troppo bene che sono vicini. Le loro armi sputano colpi a poca distanza da me, ma un dolore alla gamba mi costringe a terra. Stringo i denti e, schermando il corpo di Sherlock col mio, incomincio a sparare a raffica. Due o tre di loro gemono, altri due crollano esanimi come ciuffi di paglia al vento, ma non ho tempo per constatare i danni che io provocato loro e che loro hanno provocato a me. I miei occhi si concentrano invece sul corpo di Sherlock, temendo che possa trovare il foro di un proiettile da qualche parte, ma fortunatamente sta bene, sta perfettamente bene. Mi alzo urlando di dolore per la ferita alla gamba e continuo a sparare finché la pistola ha carica. In lontananza, odo la frenata brusca di una macchina e scorgo le lucette rosse e blu della polizia chiamarmi verso di loro. Corro. Corro con tutto il fiato e la forza che in corpo. Corro proteggendo Sherlock come meglio riesco. Corro percependo la gamba e il braccio bruciare orribilmente. Udendo gli spari, due agenti della polizia escono frettolosamente dall’auto e cominciano a sparare a raffica sui nostri inseguitori. Neanche mi rendo conto se sono arrivato o meno. Un paio di braccia mi avvolgono e mi trascinano dentro l’auto. Qualcuno cerca di strattonarmi via il corpo di Sherlock, ma io lo stringo a me, scuotendo la testa, forse blatero qualcosa senza senso. Intorno a me, voci, spari, sterzate. Con forza immensa, riapro gli occhi da quello che credevo essere un sonno irrimandabile e li punto su Sherlock. Sta bene, mi dico. Starà bene. E questa consapevolezza mi alleggerisce il cuore e mi culla tra le sue braccia mentre il buio mi avvolge.
 
Sherlock’s POV. La prima cosa che avverto è un senso di nausea e un mal di testa trapanante. Apro a fatica gli occhi e intorno a me scorgo un’unica cosa: bianco. Bianco il soffitto. Bianche le lenzuola. Bianca la flebo attaccato al mio braccio. Bianco il viso di Lestrade, seduto accanto a me, ancora non resosi conto del mio risveglio. Mi trovo in ospedale, questo è chiaro, ma non riesco a ricordare niente.
“Lestrade.” mormoro non riconoscendo quasi la mia voce.
Appena mi sente, il suo volto si illumina e scatta in piedi. “Sherlock! Per l’amor di Dio, finalmente!”
“Che è successo?” chiedo massaggiandomi la tempia con le dita.
Lui sospira e si risiede. “Tu e John eravate a casa degli Smith per recuperare quella cartella, ma a quanto pare sapevano del vostro arrivo e così si erano preparati a dovere. Ti hanno teso un’imboscata e sei stato drogato pesantemente…”
“John?” La mia voce è improvvisamente acuta, spezzata dalla preoccupazione.
“Gli hanno sparato alla gamba ed è stato colpito di striscio al braccio. Fortunatamente l’arteria non è stata colpita, ma ha reso tutto difficile, sai? Ha dormicchiato in macchina ma arrivati in ospedale, si ostinava a non lasciarti. Voleva aspettare finché non ti fossi svegliato.”
Sgrano appena gli occhi. John ha davvero fatto questo per me? Una sensazione di malessere mi avvolge, ma non ha niente a che vedere con la fisicità. John ha chiesto ai medici di rimandare le cure per stare con me… Mi passo una mano sul volto e cerco di levarmi a sedere, ma le braccia mi cedono rovinosamente.
“Sherlock, cosa diavolo…”
“Portami da lui.”
“Sta dormendo, è sotto anestetici…”
“Portami da lui.” ripeto nuovamente, dipingendomi in volto uno sguardo risoluto, uno sguardo che Lestrade conosce molto bene. Sospira e mi aiuta a sistemarmi sulla sedia a rotelle appena consegnata da un’infermiera brunetta.
L’ospedale è stranamente tranquillo, fatta eccezione per qualche infermiere e uno o due dottori impegnati nelle visite. Lestrade mi conduce rapidamente fino al reparto e alla camera di John. Dorme. Il volto disteso, gli occhi serenamente chiusi. Non è cambiato dal John ragazzino che si addormentava sulla mia spalla durante film che lui stesso proponeva. Faccio scorrere le ruote con le mie stesse mani, allontanandomi dall’ispettore.
“Immagino che tu abbia molto di cui occuparti ora che bisogna progettare una nuova infrazione dagli Smith.”
“No, non esattamente. Donovan si sta occupando di tutto, mi sono preso il giorno apposta per stare qui in ospedale e…”
“Magari hai questioni personali da trattare con tua moglie o con chi ti pare.”
“Non che io sappia…”
“Cristo, Lestrade, ti dispiacerebbe lasciarci soli?” sbotto alla fine voltandomi e rivolgendogli uno sguardo eloquente. Lui si schiarisce la gola e rimane per qualche istante imbambolato, ma alla fine si volta, borbottando un certo, scusa ed esce.
Quando rimango finalmente solo con John, sospiro di sollievo e mi avvicino ancora di più al letto. Resto in silenzio mentre arriccio le labbra in cerca di qualcosa da dire o da fare, ma l’unica cosa su cui riesco a concentrarmi è questo calore al petto che provo guardandolo. Assomiglia così maledettamente a ciò che sentivo da ragazzo, ma non può essere successo di nuovo, vero? Insomma, ora è tutto diverso, non ho più diciassette anni, non provo più niente del tipo, perciò non può essere.
Sospiro e ripenso alle parole di Lestrade su come John si sia ostinato a rimanermi accanto piuttosto che lasciarsi operare. Per quanto ne sapeva, poteva anche star morendo, eppure si è intestardito per non lasciarmi. Sorrido mentre gli prendo tentennante la mano. “John Watson… sei un idiota.” sussurro scuotendo appena la testa e carezzandogli la pelle liscia col pollice. “Più cerco di spingerti via e più tu ti attacchi come una cozza.” Mi prendo qualche istante per ponderare le parole successive, ma è come se non ce ne sia bisogno, come se ogni frase venga da sé in un moto di liberazione. “Per un uomo che non fa altro che tenerti a distanza e ripudiarti, tu hai rischiato la tua vita piena di prospettive meravigliose, salvando quella di un pazzo che è ancora bloccato a vent’anni fa…” Lo guardo e mi sembra come se un fuoco rovente mi corroda l’anima. “La verità… la verità, John, è che io non ce la faccio a guardare avanti, ad accettare il tuo perdono. Io non riesco a dimenticare, la ferita che mi hai inflitto da ragazzo è ancora troppo aperta e sanguinante. Prima credevo fosse diventata una semplice cicatrice, poi tu sei tornato e mi sono reso conto che è ancora lì, viva e dolorosa.” Gli stringo più forte la mano e ci poggio sopra la testa. “Perdonami per trattarti come ti tratto… Probabilmente non hai sentito una parola di quello che ho detto, ma neanche mi importa. Perdonami anche per come ti tratterò, perché tu significavi troppo per te e ho il terrore che significhi troppo ancora oggi, ma non voglio soffrire nuovamente. Sono stanco di soffrire. Perciò continuerò ad essere lo stronzo di sempre… così, magari, riuscirò ad allontanarti una volta per tutte.”
Gli deposito un bacio sul dorso della mano, prima di lasciarglielo e di uscire dalla stanza con manovre stentate e difficoltose. Appena esco, Lestrade mi corre incontro e mi chiede se ho bisogno che mi spinga, ma io non rispondo e tiro avanti.
Sono stanco di soffrire. E John è l’unica persona in grado di farlo. Chiudo gli occhi e spero che, da qualche parte dentro di me, il cuore spezzato di tanti e tanti anni fa continui a rimanere silente e ostile di fronte a lui.

SPAZIO AUTRICE
Scusate se pubblico oggi, ma sono tornata stanotte da una gita fuori e quindi non ho potuto pubblicare. Scusate tanto! Ad ogni modo, in questo capitolo abbiamo assistito ad una svolta importante nella vita di Sherlock adolescente, che ha appena scoperto che - forse - ora che non c'è Mary a rubargli John potrebbe avere una possibilità con lui. Ma sarà davvero così? Passando al presente, qualcuno sta diventato un po' geloso, eh? E guarda guarda se non è il nostro John Watson!!! Ad ogni modo, a quanto pare Sherlock sta cominciando ad abbassare un po' troppo la guardia... Non è che presto riceverà una brutta sorpresa da se stesso?

Lunedì prossimo pubblicherò quello che, ritengo, essere il mio capitolo preferito... Non vi svelo altro. Appuntamento a lunedì prossimo, allora!!!

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 6 ***


IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix
 
CAPITOLO 6
 
Le settimane che seguirono quella notte, per Sherlock, furono strazianti. Osservava impotente John uscire con le prime ragazze che gli facevano gli occhi dolci e si vestivano in maniera provocante esponendo i loro fisici generosamente rotondeggianti ai suoi occhi. Le sere, era quasi diventata abitudine per loro riunirsi in camera di John, nonostante Sherlock alloggiasse fuori dalla residenza collegiale. Quasi ogni giorno, trascorrevano un paio di ore assieme in quella cameretta angusta e durante quel tempo interminabile, John si sfogava, raccontava delle sue conquiste, dava persino un voto da uno a dieci alle capacità di qualcuna a letto. E Sherlock era lì, ad ascoltare, a consigliare, a soffrire. John era bello, eccome se era bello. Era il ragazzo più bello che avesse mai visto, ma non solo: era intelligente, gentile, carismatico, simpatico… E Dio, se lo amava. Il suo cuore, ormai, non faceva che blaterare su quanto magnifico fosse il loro Johnny, su quanto fortunati fossero ad averlo come loro amico, su quanto straordinario fosse poter essere il centro della sua giornata e lui della loro. Sherlock si era ormai abituato a quel continuo chiacchiericcio che gli sommergeva la testa nei momenti di stallo, quando aspettava il suo amico a fine allenamenti o quando sedeva sul letto di questo mentre l’altro si faceva una doccia. Era confortante, lo faceva sentire meno solo e – a volte – sapeva anche consigliarlo con giudizio. Si chiedeva, in certe occasioni, che cosa dicesse mai il cuore di John. Se fosse petulante come il suo, se fosse arrabbiato per la poca serietà che adottava nelle relazioni, se sperasse anche lui che fra loro nascesse qualcosa di più. Ma ovviamente quell’ultima ipotesi veniva sempre scartata poco dopo la sua nascita.
Irene Adler. Una bella ragazza, forse una delle più desiderate da tutta la scuola, sia fra maschi che fra femmine. Era libera, indomabile, schietta e opportunista. E ultimo, ma non per importanza, erano settimane che corteggiava spudoratamente Sherlock. Aveva iniziato a frequentare i suoi stessi corsi, a sederglisi vicino in mensa, a salutarlo all’entrata e all’uscita da scuola… Irene Adler era, inspiegabilmente, interessata a lui, ma inizialmente Sherlock non aveva dato peso a quel ridicolo e imbarazzante corteggiamento da lei avanzato. Poi, però, le battutine di John cominciarono a ronzargli nelle orecchie, i suoi commenti maliziosi presero a tormentarlo la notte, e i suoi sguardi allusivi quando passava lei lo colmavano di rabbia.
Così, un venerdì mattina qualunque, quando Irene lo salutò come al solito, la fermò e le propose un appuntamento per quel sabato. Lei, ovviamente, accettò. Il suo cuore era combattuto: da un lato apprezzava lo sforzo, il desiderio di mettersi in gioco, di voltare pagina da quel posto di blocco in cui si era impantanato quando aveva conosciuto quel biondino meraviglioso. D’altro canto, però, John rimaneva radicato in lui, ogni volta che lo vedeva gli mancava il fiato per alcuni secondi, quando si sfioravano aveva difficoltà a trattenersi dall’afferrarlo e confessargli la verità, quando gli parlava di una ragazza qualunque sentiva i pugni formicolare e la voglia di picchiarlo montare.
Attese quella sera per raccontare a John i suoi piani. Attese che l’amico si chiudesse la porta della sua camera alle spalle. Attese che si fosse seduto sul suo letto a gambe incrociate, un asciugamano a tamponargli i capelli bagnati. Attese che avesse terminato di parlargli di Jane, una delle cheerleader con cui quel pomeriggio aveva fatto sesso. Attese perfino che buttasse giù qualche sorso di birra. Infine, lentamente, accennò alla questione.
“Hai presente Irene Adler?”
“Quella figa che ci prova spudoratamente con te e che tu ancora non ti sei portato a letto? Come no!”
Sherlock arricciò le labbra e dubitò di disporre del coraggio necessario per proseguire. “Sì, lei… Ecco, le ho chiesto di uscire.” Le sue parole sprofondarono nel silenzio. “Domani.” John lo fissava con occhi sgranati, la lattina di birra sospesa a pochi centimetri dalle labbra. “A Covent Garden.” continuò per riempire il silenzio dell’altro. “Ci sarà una manifestazione di artisti di strada e pensavo che come idea avrebbe potuto essere…”
“Volevo andarci con te.” lo interruppe John, con occhi bassi. “Avevo sentito di questa manifestazione da Sebastian e… ecco, credevo ti sarebbe piaciuto andarci.”
Sherlock si mordicchiò nervosamente il labbro, maledicendosi di quella totale mancanza di tempismo. Poteva ancora annullare l’appuntamento, tanto il numero della Adler lo aveva, era ancora in tempo, un sms e sarebbe stato libero di partecipare assieme a John a quell’evento che aspettava trepidante da quando ne aveva saputo lo svolgersi.
No, non pensarci neanche.
Perché? E’ John quello con cui vorrei andarci, non quella… quella.
Non puoi farti mettere i piedi in testa così, Sherlock! Avevi dei programmi? Rispettali! Non puoi sempre permettere a John di scombinare i tuoi piani.
Ma io voglio andarci con lui!
Sherlock, la verità è che devi smetterla di vivere nel tuo mondo fatato fatto di tanti John che ti amano. Forse dovresti… dovresti provare a voltare pagina.
Non eri tu quello che sosteneva che dovessi lottare per lui?
Ma un guerriero valoroso sa riconoscere la sconfitta quando la vede.
John non mi ha ancora rifiutato.
E allora diglielo. Digli quello che provi e togliti per sempre il pensiero. Magari mi sbaglio, magari è solo un vigliacco che ha bisogno che sia tu a fare il primo passo. E se, nella peggiore delle ipotesi, dovesse rifiutarti, almeno avrai avuto una conferma e avrai la forza di rimettere a posto la tua vita dai frammenti che un suo no potrebbe lasciarti.
A volte il suo cuore era semplicemente troppo complicato e logorroico. Sherlock non aveva alcuna intenzione di rischiare di rovinare la loro amicizia. John era troppo importante per lui, non poteva permettersi di perderlo per una sciocca cotta adolescenziale, anche se sapeva perfettamente che di questo non si trattava.
“Mi spiace, sarebbe stato bello…”
“Già… va beh, non importa. Sono felice che tu abbia finalmente deciso di-”
“Non so come baciarla.” confessò Sherlock puntando addosso all’amico uno sguardo intenso. Non che avesse la minima intenzione di baciare Irene, ovvio, ma quelle parole gli erano uscite istintive, incontrollabili. Capitava quando il suo cuore prendeva il sopravvento e compiva decisioni senza prima avvertirlo. E si ritrovava puntualmente col fare la figura dell’idiota.
“Cosa… Vuoi davvero… Posso sapere da dove nasce tutto questo improvviso interesse? Insomma, fino a ieri sembravi sopportarla a stento e adesso, tutto d’un tratto, vieni qui e mi dici che l’hai invitata ad un appuntamento e che vuoi baciarla. Cos’è, adesso vorrai anche chiedermi qualcosa su come mettere un preservativo?”
Sherlock si sentì avvampare fino alla radice dei capelli. Era raro che John parlasse così apertamente, le sue parole e il suo tono erano sempre misurati e dotati del tipico freddo garbo inglese. Eppure, quella sera, sembrava diverso, quasi infastidito da qualcosa, atteggiamento che fino a poco prima Sherlock non aveva nemmeno notato.
“V-voglio solo sapere per… per previdenza, ecco. Così se la situazione dovesse capitare, saprei cosa fare o cosa non fare.”
John sospirò rumorosamente e alzò gli occhi al cielo, infine gli fece cenno di sedersi sul letto accanto a lui. Sherlock abbandonò con riluttanza la sedia alla scrivania e prese posto vicino all’amico. “E’ davvero così importante per te?”
“Importantissimo.”
Eccolo, di nuovo il suo cuore. Era davvero frustrante quando decideva per lui. Sherlock aveva bisogno di riflettere, di ponderare, di far passare ogni cosa per la sua testa prima che per il suo cuore, ma ormai quell’esserino maledetto aveva preso il controllo. Soprattutto se si trattava di John.
“Okay, allora faremo un corso accelerato, anche se queste sono cose che impari con un po’ di esperienza.” Il biondino prese un respiro profondo prima di ricominciare a parlare. “Allora, per prima cosa si deve creare l’atmosfera e un contatto fisico che anticipi il bacio. Ad esempio, state ridendo per chissà quale aneddoto divertente, tu mentre ridi ti avvicini a lei e le tocchi appena una mano. Un gesto semplice, un banale sfregamento, niente di più. Sarà lei, quando l’effetto delle risa sarà finito, a rendersi conto di quel muto invito. E poi è importante il contatto visivo. Dopo averla toccata, non devi mai interrompere il contatto visivo, per nessuna ragione, a meno che tu non voglia essere provocante e fissarle le labbra di proposito, ma non è esattamente il tipico comportamento da te. Fin qui tutto chiaro?” Sherlock annuì. “Perfetto. Ora, sempre mantenendo il contatto visivo, approfondisci il contatto che hai appena accennato prima. Se le hai sfiorato la mano, prendigliela, se le hai toccato il ginocchio, accarezzaglielo, cose così. Aspetta finché la tensione non giungerà l’apice e poi sporgiti appena in avanti, poco poco. Se vedi che lei non si scansa, allora prosegui fino ad arrivare alla distanza limite.”
“Qual è la distanza limite?”
“Fa’ conto che tra i vostri nasi devono esserci un paio di centimetri.”
“E poi?”
“Poi è il suo turno. Se è quello che vuole – cosa che ci auguriamo – si avvicinerà e a questo punto dipende dal tipo che ti ritrovi di fronte. Conoscendo la Adler ti salterà addosso e ti sbranerà la faccia, ma con le ragazze più timide sarai tu ad azzerare la distanza che vi separa, il così detto punto del non ritorno. Hai capito?”
“Più o meno, sì.”
“Bene, allora facciamo una prova.”
“Una cosa?”
“Una prova. Io e te. Ci siamo già baciati e poi il bacio è qualcosa di istintivo, non è strettamente necessario provarlo. E’ già abbastanza irreale programmare la situazione.”
Sherlock annuì, ma dentro, il cuore cavalcava impazzito su quelle parole. Una prova. Lui e John. La prova di un bacio vero. O forse era finto? Non lo sapeva più nemmeno lui.
“Okay, crea la situazione.” lo incoraggiò John, strappandolo dai suoi pensieri.
“Sì, giusto, certo, dunque…” Cercò di raccogliere le idee, di intavolare una discussione interessante, di rendere il tutto il più vero possibile. “Sai, quando ero piccolo avevo un cane, nonostante l’allergia di mio padre.” Estrasse il cellulare e lo aprì sulla galleria, lì dove erano tenute le poche foto. Una di queste ritraeva un setter irlandese dal lucente pelo rossiccio. Aveva scattato una foto ad una di quelle immagini custodite in uno di quei vecchi album di famiglia che gli era capitato tra le mani così, senza che l’avesse cercato. Mostrò anche a John lo schermo del cellulare e continuò imperterrito, completamente dimentico del reale obbiettivo che avrebbe dovuto tenere a mente: “Si chiamava Barbarossa. Lo amavo profondamente, per me era tutto. Un giorno abbiamo scoperto una grave malattia all’intestino e per amor suo fummo costretti a sopprimerlo.”
“E’ terribile.”
“Barbarossa fu il mio primo, vero amico. Il nostro rapporto andava oltre il semplice legame fra animale e padrone. Era molto di più. E credevo, forse scioccamente, che sarebbe durato per sempre.”
John sospirò profondamente. “Ci sono poche cose che durano per sempre.”
Sherlock distolse lo sguardo dallo schermo del telefono e lo posò sull’amico, ancora concentrato sulla fotografia. Quant’era bello. Come poteva qualcuno essere così bello? Così perfetto. “E io voglio che tu sia una di queste.”
A quelle parole, a malapena udibili, John si volse con espressione sconcertata. I loro visi si trovarono vicini, estremamente vicini e nella testa di Sherlock si scatenò il panico e la confusione. Qual era la distanza limite? Il punto di non ritorno? Cosa doveva fare dopo aver creato l’atmosfera? Rimase a fissarlo intensamente, mentre qualche sprazzo della conversazione di prima gli tornava in mente.
Bravo, mantieni il contatto visivo.
Non ho bisogno del tuo aiuto.
Gli occhi di John erano così dolci e così limpidi, una distesa tersa come il cielo d’estate che Londra scorgeva di rado. E lasciarsi guardare da lui, così vicini, così uniti, era una delle cose migliori che potessero esserci.
Ora toccalo.
Sherlock assentì mentalmente, ma proprio mentre era sul punto di farlo, la mano di John si mosse verso di lui e gli scostò dagli occhi il ricciolo che, come al solito, gli ricadeva pesante tra gli occhi. “Non dovevo essere io a fare una cosa del genere?” sussurrò allora a fil di voce, terrorizzato dall’idea di interrompere la magia.
“E’ uguale, Sherlock, non si tratta di una formula chimica, è solo un bacio.” Ma anche lui stava mormorando e dal suo sguardo non sembrava affatto intenzionato a fermare quel meraviglioso teatrino.
Avvicinati a lui fino a due centimetri dal suo naso.
Sherlock seguì le istruzioni cinguettate dal suo cuore felice. Si accostò al viso dell’altro, fino ad arrivare a pochissima distanza dal suo naso, forse si era spinto troppo oltre. Si chiese che cosa sarebbe successo adesso, se John si sarebbe scansato, se lo avrebbe allontanato, se avrebbe fatto un’uscita del tipo fortuna che non sono frocio.
“Va bene questa distanza?”
“Forse sei un po’ troppo vicino, ma può andare.” rispose in un farfuglio John, i cui occhi, subito dopo, scivolarono in direzione delle labbra dell’altro. Allora, si avvicinò a sua volta, sempre di più, finché Sherlock non avvertì il suo fiato caldo penetrargli nelle labbra appena schiuse per l’emozione.
Il punto di non ritorno.
“Il punto di non ritorno.” disse anche l’amico. “Ora devi scegliere: bacia o voltati.”
E Sherlock rimase immobile a contemplare il viso spaventosamente vicino dell’altro. Voleva baciarlo, però aveva paura di quello che sarebbe potuto succedere dopo. Ma in fondo, non gliene fregava più un cazzo di niente. Aveva aspettato, sofferto, passato notti insonni. Ora meritava un fottuto bacio, anche se falso. Meritava John Watson e l’avrebbe preso.
Si sporse in avanti con impeto, incontrando le labbra di John per la seconda volta in vita sua e per la seconda volta era solo una finzione, una farsa. Ma a Sherlock non importava, inebriato com’era dal calore di quel contatto così bello e terrificante al contempo. John schiuse le labbra e catturò la sua lingua in una morsa possessiva, prima di esplorargli la bocca con curiosità e bramosia. Sherlock lo lasciò fare, lasciò che fosse lui a condurre i giochi, a mantenerlo sulla retta via, a fare di lui ciò che voleva, perché gli apparteneva completamente, corpo e anima. Non seppe come fu possibile ritrovarsi disteso sopra di lui, le labbra fuse assieme e le gambe scompostamente intrecciate fra loro. Non si rese neanche conto della mani dell’amico che s’infilarono sotto la sua felpa, accarezzandogli lascivamente la schiena e i fianchi, facendolo rabbrividire. Né, tantomeno, si accorse che le sue labbra, da quella splendida bocca, si erano spostate al collo per assaggiare quella pelle che nei suoi sogni proibiti aveva già percorso con i denti e la lingua. Improvvisamente, John si inarcò con un sospirò verso l’altro, strofinando il proprio bacino bollente con quello di Sherlock che, da parte sua, gemette, un rantolo roco, prima di accogliere nuovamente la lingua del biondo nella sua bocca.
“John-” sussultò quando avvertì le mani dell’amico serrarsi sulla carne morbida delle sue natiche e per un attimo si chiese se non fosse solo l’ennesimo sogno che l’avrebbe fatto risvegliare completamente madido di sudore e non solo, bisognoso di una doccia immediata e di una distrazione grazie a cui sedare i suoi impulsi. Quante notti John lo aveva baciato così? Quante notti i suoi occhi si erano spalancati nel buio vuoto della sua camera proprio mentre si apprestavano ad andare oltre?
“John…” ripeté, allora, di nuovo, mentre l’altro gli mordeva il collo con un ringhio basso, quasi cavernoso, e succhiava la sua pelle, lasciandovi un inconfondibile macchia rosea. Avvertì il desiderio cocente farsi strada in lui mentre le sue mani cercarono di tirare via la maglietta dell’amico per approfondire quel contatto, per farsi del male, per avere la prova di quella dimensione distorta, rischiando di interrompere ogni cosa.
“Sherlock-” gemette allora John inarcando la testa all’indietro e accogliendolo tra le sue braccia in un abbraccio possessivo mentre quello continuava a baciargli il collo, leccandogli il pomo d’Adamo.
Bastò un attimo perché tutto quello andasse in frantumi. Ci fu una bussata alla porta che fece trasalire entrambi. Si fermarono, con i vestiti in disordine, l’uno sopra all’altro, ansanti, le labbra umide e violacee. Si guardarono confusi, stralunati, ma quello che Sherlock lesse negli occhi di John fu una tortura pura e semplice: c’era orrore, in quello sguardo, e paura e rabbia. Quegli occhi lo incolpavano. Capì che l’illusione era terminata, che la realtà si stava progressivamente riappropriando dell’egemonia che le spettava, perciò capì anche che sarebbe stata questione di tempo prima che John lo sbattesse fuori dalla sua camera. Così, si affrettò ad alzarsi, cercando di sistemarsi i vestiti e i capelli mentre sprofondava quasi alla cieca sulla sedia. John scattò in piedi a sua volta, sistemandosi i capelli e gli abiti, e si affrettò ad aprire.
“John?”
“Steve. Problemi?”
“No… Tu, piuttosto, ti ho forse colto in flagrante, tre continenti?”
“Io… No, macché. Stavo ripassando.”
“Con quel rossore alle guance e il fiato corto, Johnny? Mi credi scemo?”
“Steve-”
“Tranquillo, non ti farò nessuna domanda né mi sporgerò per scoprire l’attuale scopa-amica dell’illustre Watson. Ero venuto semplicemente per avvisarti che io e i ragazzi stiamo guardando un film in camera di Oliver.”
“Che film?”
“007.”
“Sono dei vostri. Dammi solo… due minuti. Due minuti e sono da voi.”
Quando la porta si richiuse, calò un greve silenzio. Sherlock fissò la schiena dell’amico, ancora scossa da alcuni ansiti, e attese.
“John…” mormorò alla fine con voce colpevole, anche se non aveva fatto niente di male, e se invece l’avesse fatto, beh, non era stato lui quello a ficcare la lingua nella bocca dell’altro.
“Devi andartene.”
Avrebbe voluto replicare. Forse avrebbe anche dovuto. Ma la paura lo assalì, la paura di dover rivelare la verità celata, i sentimenti repressi, la sessualità occultata. Era successo anche troppo per quella sera e l’intero weekend lontani l’uno dall’altro avrebbe messo ogni cosa al suo posto. Forse.
“O-okay.”
Aprì la finestra e si preparò, come ogni sera, a saltare giù nel cortile. Si volse nuovamente verso di John e lo scoprì osservarlo intensamente, ma quando i loro sguardi s’incontrarono, l’amico lo distolse, puntandolo sul pallone da rugby accanto alle pantofole.
“Buonanotte, John.”
E saltò.
 
John’s POV. Due biglietti per la Nuova Zelanda. Se solo una spesa da Tesco e una litigata con la cassa automatica portassero tutte le volte a dei risvolti così piacevolmente inaspettati! E’ ormai passato un altro mese dal mio trasferimento e mi sorprende come in soli trenta giorni possano accadere così tante cose: Lestrade, con l’aiuto di Sherlock, naturalmente, è riuscito a cogliere gli Smith con le mani nella marmellata, o forse è meglio dire con le mani in un furgone che trasportava quindici chili di droga; ho cominciato a lavorare in un ambulatorio, conoscendo la mia attuale fidanzata, Sarah, una dottoressa niente male che però nel mio cuore provoca più sbuffi che altro; e da ultimo, ma non per importanza, al contrario, Sherlock ha cominciato ad atteggiarsi più civilmente nei miei confronti, permettendomi persino di seguirlo nei casi e di postarli nel mio blog. Non abbiamo più parlato dei fatti successi a casa Smith e, da un lato, è stato meglio così. So che Sherlock mi è riconoscente per averlo tratto in salvo, me lo dimostra rivolgendomi più risposte monosillabiche che insulti secchi, e questo mi basta.
Mi rigiro tra le mani la vincita, ancora sbalordito. I miei pensieri corrono a Sarah e al suo desiderio di prendersi qualche giorno di ferie e di andare da qualche parte fuori il continente per respirare aria nuova e rigenerarsi. Potrebbe essere l’occasione buona per stare un po’ soli, senza casi né Sherlock, e chiarirci.
No.
Perché no?
Perché sai che non è lei la persona con cui vorresti andare.
Ti sbagli.
John, dannazione… Invita Sherlock. Passereste cinque giorni lontano da Londra e dal vostro passato. Solo tu e lui. Sono certo che, alla fine, il vostro rapporto potrebbe finalmente aggiustarsi.
O andare a rotoli. Pensaci, e se facessi o dicessi una cazzata? Ora stiamo bene, le acque sono calme, perché rischiare di incasinare tutto?
Cosa vuoi che incasini una vacanza? A meno che tu non progetti di provare a fare qualcosa di più…
Non è quello che ho detto.
Ma è quello che vorresti. Andiamo, John, sul serio stiamo ancora a parlarne? Dovresti averla imparata la lezione rispetto a venticinque anni fa, no?
Io… Ho imparato la lezione, sì, ma devo ancora capire che cos’è voglio davvero.
Da Sherlock?
In generale. La mia vita non ruota attorno a Sherlock.
Oh, John, non immagini neanche quanto ti sbagli…
“Sono a casa!”
Sussulto all’udire la voce baritonale di Sherlock provenire dall’ingresso al piano di sotto.
Eccolo. Tieniti pronto, John, mi raccomando. Di solito non saluta mai, magari è di buon umore. Potrebbe essere l’occasione giusta per proporglielo.
Ma io non…
“Sono a casa, mi hai sentito?”
Sobbalzo per la seconda volta trovandomi il viso di Sherlock a pochi centimetri dal mio, intento a fissarmi incuriosito.
“Ti eri incantato?”
“No, no… Sto bene. Ero… perso nei miei pensieri.”
“Dunque direi che ti ho salvato.” Lo osservo mentre si sfila il Belstaff con la sua solita grazia divina e lo appende accanto alla porta. Ammirarlo in ogni gesto che fa è ormai diventata un’abitudine a cui, recentemente, mi sono totalmente assuefatto. “Che c’è per cena? Ho fame.”
“F-fame? Sherlock Holmes ha fame?” esclamo sgranando gli occhi e lasciandomi sfuggire una risatina divertita. “Questa mi è nuova.”
“E’ stata una giornata faticosa.” si giustifica lui con una smorfia.
“Eri con Lestrade?”
“No, con uno dei suoi poliziotti.”
Le mie labbra si aprono a sussurrare un Oh che però rimane muto, schiacciato in profondità. Era con un poliziotto. Non può… non può intendere… “Capisco.” mormoro solo voltandomi verso la cucina per andare a rimediare qualcosa da mangiare, ma improvvisamente mi trovo di nuovo con gli occhi fissi su di lui. “E che cosa stavate facendo di bello?” Solo dopo che la domanda è stata formulata, mi rendo conto di aver perso, per pochi secondi, il controllo del mio corpo.
Sei impazzito?
Al contrario, cerco di fare quello sano di mente visto che tu non ci arrivi, zuccone.
“Non credo vorresti davvero saperlo.”
“Hai ragione, in effetti non… Anzi, no, voglio saperlo.”
Vuoi startene al tuo posto, dannazione!?
Non quando si tratta di Sherlock.
Perché ci tieni così tanto a farmi…
A farti cosa, John?
A farmi…
Avanti, dillo.
A farmi del male, cazzo!
“Sesso, John. Stavamo facendo sesso. E’ una risposta che può soddisfarti?”
Avverto qualcosa, all’altezza del petto, pungere dolorosamente e subito dopo è quasi come udire un gemito appena appena pigolato. Sherlock stava facendo sesso con qualcuno. Con una persona. Un’altra persona. Stringo i pugni fino a far sbiancare le nocche. Conosco bene questa sensazione. L’ho provata tanto tempo fa, in una cameretta al college, dopo un sms laconico da parte del mio migliore amico.
Io e Irene stiamo insieme, adesso.
E adesso, di nuovo questo dolore. Non posso essere geloso di Sherlock Holmes. Non di lui. Perché, fra tutti, proprio di lui?
Soddisfatto, adesso?
Mi risponde solo il silenzio. Sinistro e corposo.
Ehi? Sei lì?
Attendo quella vocina, quella note cristalline che a volte trovo fastidiose. Silenzio. Vuoto. Il terrore mi assale con una morsa bruciante e mi ritrovo a trattenere il respiro, una mano al petto.
No… Non di nuovo… Ti prego, non di nuovo… Non andartene, ho bisogno di te, cazzo!
John?
Un sollievo prorompente mi riempie i polmoni, assieme ad una boccata d’aria. Sospiro profondamente, stringo le dita sulla camicia, come per cercare conferme, per assicurarmi che non sia solo la mia immaginazione o un’effimera illusione.
Ci sei ancora?
Sì, John… Certo che ci sono ancora. Non potrei mai abbandonarti.
In passato lo hai fatto.
In passato mi hai ripudiato.
Promettimi che non te ne andrai. Per favore.
Te lo prometto, John. Finché mi vorrai, lotterò con te e per te.
Perché non rispondevi?
Perché fa male, John… Fa tanto male… E mantenere il contatto empatico con te è difficile quando…
Quando?
Quando si crea una ferita.
Mi ritrovo a sbattere convulsamente le palpebre per dissipare la leggerissima nube di lacrime che mi appanna gli occhi. Il terrore, ancora, è qui, lo sento, la sua orma è impressa vivida in me. Ricordo ancora quel mattino, quella sveglia alle sei e cinquanta come al solito, quelle tende che ho aperto per lasciar filtrare la luce del sole, quella pigra routine mattiniera che si è spezzata quando mi sono reso conto del vuoto, dell’abbandono, della voragine… Anche allora chiamavo, piangevo, addirittura. Ero un ragazzo sciocco, solo, impaurito e con la testa infarcita di tutte quelle lezioni che la società imprimeva su noi giovani.
Prendo un respiro profondo e faccio correre lo sguardo fino alla figura di Sherlock, in piedi di fronte alla finestra, col violino in mano. Vorrebbe suonare qualcosa, ma ha la testa da un’altra parte – ormai ho imparato a conoscerlo. Sorrido a questo pensiero. Una volta, sapevo tutto di lui. Era un libro aperto, mentre ora… Ora sono io quello facile da leggere e lui quello protetto da una serie inespugnabile di porte sprangate.
Chiediglielo, John.
E’ una supplica quella che mi rivolge il mio cuore. E’ provato, stanco, ferito, eppure ancora non si arrende. E’ irrimediabilmente attratto da quell’uomo dai folti ricci corvini e lo sguardo impenetrabile, gelido. Ed è più facile pensare che sia il mio cuore quello ad desiderare Sherlock più di ogni altra cosa. Forse, non sono così diverso dal ragazzino di tanti anni fa.
“Cambiando completamente discorso” incomincio guadagnandomi l’attenzione del mio coinquilino. “Ho vinto, tramite chissà quale buono sconto, due biglietti per andare in Nuova Zelanda cinque giorni. Mi chiedevo se…”
“Come va con Shailene?”
“Chi?”
“La tua fidanzata, quella dell’ambulatorio.”
“Si chiama Sarah. Comunque, non mi lamento, ma perché-”
“Sono sicuro che muore dalla voglia di farsi una vacanza col suo fidanzato.”
“Ne sono certo anche io, ma vedi-”
“Tra l’altro dicono che passare dei giorni fuori sia l’ideale per risolvere conflitti o per rafforzare un rapporto.”
“Sì, anche questo è vero, però-”
“E non dimenticare che le notti in vacanza sono perfette per il sesso, cosa molto importante per una cop-”
“IO VOGLIO ANDARCI CON TE!” sbotto alla fine, esasperato dal fiume di parole che mi ha riversato contro. Lui inarca un sopracciglio e mi guarda in silenzio per un po’, così prendo il coraggio e proseguo: “Ho pensato che sarebbe una buona occasione per prenderci una boccata d’aria. Sono ormai passati quasi quattro mesi e mi farebbe davvero piacere trascorrere cinque giorni in tua compagnia lontano da qui.”
Lontano dalle mie cazzate e dalle sue ferite.
Sherlock continua a fissarmi, il violino ancora in mano. Infine, si volta e si prepara per intonare qualcosa. “Mi spiace, sono occupato.” E comincia a suonare un orecchiabile motivetto che giuro di aver sentito da qualche parte, forse in uno di quei biglietti di compleanno musicali che vanno tanto ultimamente.
“Occupato?” ripeto aggrottando la fronte. “Non stai facendo niente dalla mattina alla sera, ogni volta che torno ti trovo disteso sul divano a ripetere che ti annoi perché Lestrade non ha un caso da affidarti da quello degli Smith, passi il tuo tempo a poltrire perché non sei dell’umore adatto per suonare, e infine sei andato a letto con un poliziotto di Scotland Yard solo per convincerlo a trovarti un fottuto caso, mi sbaglio?”
Sherlock interrompe la sua esecuzione e si volta lentamente, in un modo tale che devo mantenere i nervi saldi per non permettere a qualche brivido di percorrermi la schiena. “Che hai detto?” mi chiede con tono basso, quasi minaccioso.
“Ho detto, anzi, ti ho pregato di venire con me.” rispondo abbandonando le braccia lungo i fianchi e assumendo l’espressione più disperata che riesco ad imprimermi in faccia. “E ho detto anche, a parole mie, che ho capito che il vero motivo per cui non vuoi venire non è perché sei impegnato, ma perché ci sarei io.” E so che la sola idea di stare solo con me ti disgusta. Ma questo è un pensiero che tengo per me, troppo è l’orgoglio che ancora mi frena dallo spogliarmi completamente di fronte a lui. “Sherlock, io ci voglio provare, okay? Te l’ho detto mille volte ma continuerò a ripeterlo finché non ne sarai convinto anche tu: io sono cambiato e voglio che tutto torni come prima.”
Una risata sprezzante lascia le labbra di Sherlock. “Come, scusa? Ma ti senti? La verità, John, è che io non voglio che torni tutto come prima, perché io prima ho finito solo per ridicolizzarmi e per soffrire. Quindi la mia risposta è no, ma grazie dell’invito.”
“Sherlock…”
“Ho detto di no, John. Credevo fosse un concetto abbastanza elementare anche per un cervello dalle dimensioni ridotte come il tuo.”
E quando la musica si diffonde nuovamente, ripartendo dall’esatto punto in cui si era interrotta, capisco che la conversazione è conclusa.
 
Sherlock’s POV. L’appartamento è silenzioso, avvolto da un’irreale quiete. Niente rumore dei tasti del portatile, niente gorgoglio della caffettiera, niente passi sulle scale di legno. John è partito poco fa per l’aeroporto, probabilmente prima passerà a prendere Sarah – non è il tipo che lascia un’appartenente del gentil sesso sola in balia della folla degli aeroporti. Ventidue ore di aereo… Chissà se mi chiamerà, una volta atterrato, per dirmi che sta bene… Chissà se sarò io, a un certo punto, a non resistere più e ad alzare la cornetta solo per sentire la sua voce metallica proveniente dall’altra parte del mondo. La verità è che ho fatto così tanta fatica a rifiutare il suo invito. Così tanta fatica… E’ stato solo il buon senso a trattenermi qui, a Baker Street. Passare cinque giorni lontano da Londra, da solo con John, con l’illusione che venticinque anni fa non sia accaduto niente… sarebbe stato pericoloso, troppo.
“Sherlock, caro, ti senti bene?”
La signora Hudson, sbucata da chissà dove, mi osserva preoccupata.
“Sì, sto bene, grazie.”
“John sarà in aeroporto fra poco. Mi spiace per quel tuo caso, Sherlock.”
Inarco entrambe le sopracciglia. “Quale caso?”
“John mi ha detto che non sei potuto andare per un caso molto difficile che avevi in sospeso. Sarebbe stato bello, per voi due, passare un po’ di tempo da soli.”
“Perché è quello che dite tutti?” sospiro io scuotendo la testa. “Comunque sia, John se la passerà meglio senza di me e in compagnia di Sarah.”
“Oh, cielo! Ma davvero non lo sai?”
“Che cosa?”
“John e Sarah si sono lasciati da poco, quando la poverina ha scoperto che lui sarebbe partito senza di lei.”
Sbatto ripetutamente le palpebre. “Dev’esserci un errore… Con chi partirà, allora, John?”
“Con nessuno, caro. Andrà da solo. Quando gli ho chiesto perché non avesse voluto invitare la fidanzata, mi ha risposto che sarebbe partito da solo o con te. Che caro ragazzo.”
Mi passo una mano sul volto, allibito, mentre la voce della signora Hudson continua a petulare qualcosa dalla cucina dove, probabilmente, ha trovato i pollici che questo pomeriggio andrò ad analizzare. Casualmente, i miei occhi incontrano il mobiletto su cui è appoggiato Billy, il mio teschio, e su di esso scorgo un pezzo di carta che ieri sera non c’era. So di cosa si tratta ancora prima di avvicinarmi e averlo in mano. Il secondo biglietto. Dannato Watson.
Mi fiondo in camera e recupero la valigia da sopra l’armadio, vi ficco dentro il minimo indispensabile, e mi affretto a salutare la signora Hudson e a scendere in strada per fermare un taxi.
“Ma Sherlock, e quel caso?”
“Era uno vecchio, signora Hudson! Molto, molto vecchio. E’ tempo di smettere di rimuginarci sopra, non crede?”
E mi infilo nel taxi.
 
Il gate per Sidney chiude fra cinque minuti. Corro come se stessi inseguendo un serial killer, eccitato, col corpo tremante di adrenalina. Voglio raggiungere John. Lo voglio disperatamente. Voglio trascorrere cinque giorni in sua compagnia. Voglio ricominciare a fidarmi di lui. Voglio dargli la possibilità di essere mio amico.
“Scusi!? Aspetti, per favore!” grido al tizio del gate che proprio ora stava per alzarsi e comunicare che tutti i passeggeri erano a bordo. “Perdoni il mio ritardo, ma ho avuto un contrattempo. Questo è il mio biglietto, il mio amico è già sull’aereo.”
L’uomo osserva il biglietto incuriosito mentre gli consegno anche la mia carta d’identità. “Lei è davvero Sherlock Holmes? L’investigatore privato?”
“Consulente investigativo, a dire il vero, ma sì, sono io.”
“E parte con il dottor Watson? Adoro il suo blog, amo leggerlo e vorrei avere il piacere di vederlo di persona.”
“Beh, forse se l’è perso. Come le ho già detto, è già sull’aereo.” replico io con voce che tradisce tutta la mia fretta.
“Mi perdoni, signor Holmes, ma me lo ricorderei se avessi avuto fra le mani la carta d’identità del dottor Watson, non crede?”
Il panico mi assale. John non è qui. John. Non. E’. Qui. E se… se gli fosse successo qualcosa? Se qualcuno avesse attentato alla sua vita per arrivare a me? Abbiamo ricevuto molte lettere minatorie in questo periodo, perché non potrebbe? John… John… John… Il suo nome mi echeggia in testa, mi perseguita, mi tortura. Penso al suo sorriso, alle sue premure, ai suoi strenui tentativi di rimanermi accanto nonostante io l’abbia sempre allontanato. Non c’è più il ragazzino di venticinque anni fa che mi ha fatto soffrire. Non c’è più quel John Watson. C’è l’uomo che si è infilato nella mia vita con sfrontatezza, senza neanche chiedermelo. C’è l’uomo che mi ha ribadito di essere cambiato e di odiarsi per il male inflittomi per settimane. C’è l’uomo che ha partecipato ad un’operazione delicata per conto del Governo solo per guardarmi le spalle. C’è l’uomo che, anche se ferito, ha resistito fino a quando non ha avuto la conferma di avermi salvato.
John.
Improvvisamente, un tocco gentile, ma deciso alla spalla. Mi volto di scatto, convinto di trovarmi di fronte il sequestratore di John, magari il suo assassino. Ma mai, mai mi sarei aspettato di scrutare il suo viso sereno.
“Eccoti, finalmente! Nell’attesa sono andato a prendere un caffè. Tu e i tuoi soliti casi… siete sempre così complicati. Oh, scusi, ecco il mio biglietto.”
Lo osservo porgere il proprio biglietto al ragazzo del gate e arrossire per i numerosi complimenti di quest’ultimo riguardo al blog. Lo osservo respirare, vivere. E lo seguo nel corridoio per le piste degli aerei, contemplando la sua nuca, i suoi capelli, la sua schiena, il suo incedere militare… Ho creduto di averlo perso. Di aver perso tutto questo. E ora che ne prendo consapevolezza, la rabbia mi attanaglia e lascio che sia lei a guidare ogni mio movimento.
Gli afferro un braccio e lo sbatto contro il muro, come ho fatto alla festa degli Smith, la stessa notte in cui lui mi ha salvato la vita. Lui mi guarda, ma non ha paura. E’ solo stupito, forse curioso di sapere dove, stavolta, il mio temperamento imprevedibile e focoso mi porterà. Ci porterà.
“Tu… razza di idiota! Hai idea dello spavento che mi hai fatto prendere?? Credevo che qualcuno ti avesse rapito, credevo che qualcuno ti avesse fatto del male per colpa mia, credevo che tu fossi… Dannazione! Sei solo uno stupido, John Watson. Sei solo uno-”
Ma non riesco a portare a compimento la frase che mi ritrovo circondato dalle sue braccia forti, premuto contro il suo copro caldo. Mi accarezza i capelli amorevolmente, sussurrandomi parole di conforto all’orecchio, che al momento non m’importa di ascoltare. E’ bello stare tra le sue braccia. Quando ero piccolo, lo adoravo… E lo adoro tutt’ora. E nonostante qualcosa, in me, si agiti, decido di respingere per un attimo le paure e le insicurezze e lasciare che il calore del suo abbraccio mi culli un altro po’.
“Non ti lascerò, Sherlock. Non più. Non ora che ti ho finalmente ritrovato.”
E ci credo, in questa promessa, in questo giuramento così fragile. Mi lascerà, prima o poi. Non so come, non so quando, ma in un modo o nell’altro mi abbandonerà e allora dovrò, nuovamente, raccogliere i pezzi di me che John Watson mi ha lasciato, portando con sé gli altri. Sarò un’ombra di me stesso. Ma ora non conta. Ora è qui. E’ reale. Ed è meravigliosamente vero.
“Dovremmo andare. Abbiamo già ritardato abbastanza.” borbotto allontanandomi appena da lui.
“Sì, hai ragione.”
Mentre ci incamminiamo, vicini come non lo siamo mai stati in questi mesi, capisco e non so se arrabbiarmi ancora di più o se bearmi al pensiero. “Sapevi che sarei venuto.”
“Certo che lo sapevo.”
“Come?”
“Per quanto tu voglia negarlo, ti conosco, Sherlock. E non sei poi così cambiato da quel ragazzino che conoscevo.”
E forse, forse non c’è ragione più vera.

SPAZIO AUTRICE
Ciao a tutti e bentrovati! Sto ricevendo un mucchio di soddisfazioni con questa storia che non credevo avrei mai raccolto. Grazie mille a tutti voi che avete aggiunto la storia in una cartella, recensito e letto! Vi adoro, davvero!

Ora, passiamo a delle cose più serie: la prima cosa che ci tengo a precisare è che ho dovuto inserire Irene perché la adoro e le attenzioni che riserva a Sherlock non sono davvero romantiche, quindi non mi linciate per aver rovinato questo personagio meraviglioso. Anche nella mia storia è una a cui piace giocare, in particolar modo con qualcuno di interessante come il nostro Sherl. Poi, il bacio... Dio, quanto ci ho messo! Non riuscivo davvero a buttarla giù, questa scena e spero che alla fine il risultato sia decente, boh. Però, ragazzi, ammetto che questo capitolo lo adoro perché il bacio è una cosa che ho voluto inserire e che nell'immaginarmelo all'interno della storia mi è piaciuto subito, poi il presente... cioè, Sherlock che corre all'aeroporto per partire con John il quale sapeva perfettamente che sarebbe venuto... E poi si abbracciano e io sarà che sono un po' flaffosa, ma amo gli abbracci. E... niente, ho finito.

Fatemi sapere quello che ne pensate, spero che continuerete a seguire questa ff perché siamo quasi alla fine... Mancano due capitoli al gran finale... Curiosi?

 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 7 ***


IN A HEARTBEAT

by Alicat_Barbix
 
CAPITOLO 7
 
Che le cose, fra loro, fossero divenute tese, non era di certo una sorpresa. La loro vita cercava di proseguire, di fare il santissimo volta pagina, eppure arrancava, trascinandosi dietro i pesanti eventi di quella fatidica sera. Era Sherlock quello ad aver notato la netta frattura che quel bacio aveva creato: John era diventato più schivo e fuggente, passavano molto meno tempo assieme e nelle loro rare uscite, il biondino si trascinava sempre appresso la sua ragazza o un suo amico della squadra di football. Era distante, così distante, John. Sherlock sentiva che gli stava inesorabilmente scivolando di mano. La sua risata, il suo sorriso, i suoi abbracci fraterni… tutto stava lievemente sbiadendo, dietro immagini di nuove conoscenze, nuovi appuntamenti, nuove svolte. Lo guardava di lontano, cercando i suoi occhi indaco, sperando in una sua reazione, ma gli ingranaggi che un tempo funzionavano perfettamente, sembravano rotti, fermi per sempre. Lo amava in silenzio, Sherlock. Lo amava anche mentre lasciava che Irene lo baciasse di fronte a lui. Lo amava anche mentre osservava una nuova ragazza comparirgli di fianco. Lo amava anche mentre lui si allontanava lentamente. Era una marcia funebre quella che i piedi di Sherlock, ormai, compivano. La lapide di fronte a cui sarebbe giunto, era quella che segnava la fine della loro amicizia. Sapeva che sarebbe successo, prima o poi. In cuor suo, lo aveva sempre temuto, che i suoi sentimenti per John li avrebbero portati alla rottura definitiva. A volte saliva ancora sul tetto della scuola e guardava giù, chiedendosi se John sarebbe arrivato ancora e l’avrebbe salvato una seconda volta. Una seconda volta? Quante volte lo aveva già salvato? Quante volte gli era stato accanto nonostante tutti gli intimassero di fare il contrario? Ormai aveva smesso di struggersi per lui, nella speranza che quello li avrebbe riportati assieme. E ancora aspettava, Sherlock, incurante del passare dei giorni e delle stagioni. Aspettava il ritorno di John. Perché John tornava sempre.
Vennero, infine, le vacanze estive e con esse la solita, grande festa a casa di Sebastian Moran. Tutta la scuola era invitata, sportivi e pantofolai, intellettuali e somari, strambi e non. L’idea di andarci solo per sorbirsi un’intera serata di caos con persone idiote e per guardare impotente John Watson fra le braccia della sua fidanzata lo tormentava, ma Irene lo trascinò contro il suo volere, senza ammettere repliche. Era diventata una presenza costante, nella sua vita, quella della Adler. E in fondo, in fondo, non gli dispiaceva più di tanto. Di certo non la amava, il suo orientamento sessuale glielo impediva, ma la rispettava profondamente e doveva ammettere che era l’unica ragazza verso cui avrebbe mai potuto serbare affetto, un affetto somigliante all’amore, ma non così forte. Lei era l’unica a sapere di John. Era stato costretto a confessarglielo quando lei gli aveva proposto di fare sesso e allora si era trovato obbligato a rivelarle tutto. Contro le aspettative, non se n’era andata, non era fuggita di fronte a quell’idiota dalle idee confuse, ma era rimasta e gli era stata accanto come meglio poteva, continuando ad essere la sua quasi fidanzata.
La casa di Moran era mastodontica e detto da Sherlock, il cui fratello era un eminente esponente del Governo, era significativo. La piscina, da sola, misurava come la sala da ballo in casa dello zio Rudy, il giardino era immenso, la villa gigante. Sherlock, con al braccio Irene, si avventurò in quel covo di vipere che lo attendeva, tenendosi stretto alla ragazza, l’unica che potesse inspirargli un minimo di serenità. Per tutto l’ambiente, risuonava sparata la musica, e gli studenti ballavano, l’odore di alcol e sudore impregnava l’aria.
“Mi vai a prendere qualcosa da bere?” gli chiese Irene cercando di superare il volume della musica e Sherlock si limitò a farsi largo nella calca urlante e in fibrillazione.
Quando arrivò al piano bar, però, si immobilizzò. John se ne stava appoggiato lì, con le spalle rivolte alla discoteca improvvisata, probabilmente in attesa di una bevanda. Sherlock deglutì un paio di volte a quella visione. Accanto a lui, comparve il suo cuore, come quelli che aveva imparato a disegnare quando era piccolissimo. Il fatto che i bambini associassero automaticamente alla parola cuore quella determinata immagine era stato spiegato da vari scienziati in diversi modi, ma probabilmente nessuno avrebbe mai avuto la risposta certa. Il suo cuore lo fissava, ora, e gli indicava John con cipiglio severo.
No.
Sì, invece.
Non voglio perderlo definitivamente e se dargli il suo tempo è quello che lo riporterà da me, allora aspetterò che sia pronto.
Cazzate, Sherlock. Solo cazzate. Dici così solo per proteggerti, perché quello che senti è ormai fuori dal tuo controllo. Il fatto che tu riesca anche a vedermi, oltre che sentirmi, ne è la dimostrazione. Hai varcato l’ultima fase, Sherlock, ormai non puoi più sottrarti ai tuoi sentimenti.
Lo dici come se fosse un ricatto! Come se avessi scelta! Guardami! Sono disperato. Sono ad una stramaledetta festa a fianco di una ragazza che non amo, sono vicino al mio migliore amico, di cui sono innamorato chissà da quando, e non riesco nemmeno salutarlo perché ho paura di incasinare le cose, sono in presenza del mio dannatissimo cuore che ormai mi sta dicendo che sono spacciato e che non posso più evitare quello che ho sempre sperato di evitare! Lo vedi? Sono rotto. Non so più chi sono o quello che sento, né tantomeno quello che voglio.
Lo sai, invece. Sei Sherlock Holmes, una delle menti più brillanti della Gran Bretagna nonostante la giovane età, non sei più soltanto innamorato, tu ami e la persona che ami e che desideri è John Watson.
Continuò a fissare quella sottospecie di angelo custode con aria smarrita e terrorizzata. Quelle verità gli erano state sputate in faccia, lo avevano schiaffeggiato e ora sentiva la loro impronta sulla pelle.
Non posso.
Bene, allora lo farò io.
Il suo cuore schizzò in direzione di John e Sherlock, senza neanche pensarci, scattò in avanti a sua volta, terrorizzato dal pensiero di quello che avrebbe potuto fare quell’esserino. Nel tentativo di afferrarlo, perse l’equilibrio e si ritrovò a cadere rovinosamente verso il suolo, imprecando. Serrò gli occhi e si preparò al dolore, all’umiliazione, allo sguardo imbarazzato dell’amico. Una presa salda lo trattenne, una stretta calda lo confortò. Il cuore perse un battito. Lentamente, aprì gli occhi, le gote imporporate, l’emozione bruciante. Dopotutto, magari sbagliava a credere che con John non sarebbe stato più lo stesso. E quella era la dimostrazione, giusto?
Ma, come in un orrendo incubo, Sherlock realizzò troppo tardi quello che stava accadendo. Il corpo che lo stringeva rassicurante, non era quello di John, bensì quello di Andrew, una delle peggiori checche della scuola.
“Va tutto bene? Ti sei fatto male?”
Sherlock si affrettò a scuotere convulsamente la testa e a rimettersi sui propri piedi. Il suo sguardo corse al bancone, dove John si era voltato e lo guardava con aria… ferita? Ma durò un attimo, perché la sua nuca bionda si girò nuovamente verso il barman che gli aveva appena porto i suoi drink. Gli occhi indaco gli lanciarono una breve occhiata, ma poi si posarono ostinatamente sulla punta delle sue scarpe, mentre si allontanava. Senza pensarci due volte, Sherlock si liberò della presa di Andrew e corse dietro al ragazzo che, tempo prima, era stato il suo migliore amico e la persona che amava con tutto se stesso. “John!” urlò sgomitando per raggiungerlo. “John, aspetta!”
John si volse, uno sguardo stupito dipinto in volto. “Sherlock.”
Sherlock lo raggiunse con il fiatone e lo guardò con disperazione. “John, ti prego, aspetta.”
“Sono qui, Sherlock. Qualsiasi cosa mi debba dire, vuota il sacco in fretta perché ho Juliet che mi aspetta.”
“Io…”
Avanti, parla.
“John, volevo chiederti…”
Dai, per l’amor del cielo!
“Ti va di fare quattro passi con me, più tardi? Se non hai già altri programmi, ovviamente.” John lo guardò dubbioso, ma alla fine si limitò ad un cenno d’assenso col capo. “Perfetto, quando…”
“Anche subito. Dammi giusto il tempo di portare questo a Juliet e ti raggiungo fuori.”
E detto questo, si allontanò. Sherlock lo osservò sparire tra la folla e se lo immaginò raggiungere la sua fidanzata, baciarla e depositarle in mano il drink da lei richiesto, per poi tornare sui suoi passi, da lui. Era così bello sapere di poter condividere qualche minuto da solo con lui, come i vecchi tempi.
Sgattaiolò di fuori, dimenticandosi perfino di avvisare Irene, e si sedette sui gradoni che conducevano all’ingresso della sala. Non trascorse troppo tempo perché i passi di John – che ormai avrebbe distinto ovunque – risuonassero alle sue spalle. “Eccomi.”
Sherlock si volse e si prese qualche attimo per ammirare l’amico: vestiva con un’elegante camicia azzurrina che ricadeva morbidamente su dei pantaloni beige, su una spalla, sorretta dalla mano, pendeva la giacca dello stesso colore di questi ultimi. E il tocco finale, erano i suoi capelli pettinati all’indietro e tenuti fermi con una punta di gel. Era più bello di quanto se lo ricordava.
“Terra chiama Sherlock.”
“Eh?”
“Ho detto: andiamo?”
“Sì, certo.”
Si alzò goffamente e lo invitò a seguirlo mentre si addentrava nel vasto giardino di casa Moran. Camminarono fianco a fianco per un po’, in totale silenzio, ma non era affatto pesante, né imbarazzante, solo… di riflessione. Era proprio in silenzi come quello, che Sherlock riprendeva a sperare, che sentiva che niente era davvero cambiato, che John era ancora suo nel senso più puro del termine.
“Volevi parlarmi di qualcosa in particolare?” chiese dopo un po’ John.
“No, volevo solo passare un po’ del tempo assieme. In quest’ultimo periodo siamo stati così impegnati…” glissò Sherlock, nonostante una parte di lui avrebbe voluto urlare perché tu sei improvvisamente cambiato.
“Sì, beh, adesso anche tu hai una ragazza, quindi è normale che ci siamo persi un po’ di vista.”
Persi un po’ di vista? Sul serio, John? Fatti sentire, Sherlock!
“Io non ho fatto niente per distanziarmi da te.” replicò infatti lui, pentendosi, però, subito dopo.
“Che vuoi dire?”
“Ma niente, John, è che ultimamente sei strano, sembra che stare con me ti metta a disagio…”
“La verità, Sherlock, è che non sono abituato ad essere assalito per un bacio dai miei amici.”
Gli occhi di Sherlock si ingrandirono appena per la sorpresa. L’aveva davvero detto? O forse aveva capito male, se l’era immaginato? Magari… magari non intendeva esprimersi con quelle esatte parole, magari si era solo sbagliato nella scelta dei termini… Ma lo sguardo dipinto sul volto di John era significativo ed estremamente doloroso.
“E’ per quel bacio? Era solo una prova… E poi anche tu hai risposto, mi sembra.”
“Sì, ma io non ti sono salito addosso e non ti ho fatto un succhiotto.”
“Mi pare che non fossi troppo contrario.”
“Che non fossi… Ti rendi conto di quello che stai dicendo, Sherlock? Prima mi baci così e poi mi scrivi un messaggio dicendomi che ti sei messo con la Adler.”
“Credo di non seguirti più, mi spiace. Il problema è che io ti abbia baciato o che mi sia messo con Irene?”
John distolse lo sguardo, i pugni serrati lungo i fianchi. Non l’aveva mai visto così sconvolto, Sherlock, in quei due anni che avevano trascorso insieme. Era combattuto, confuso, sconvolto, così piccolo e innocente.
“John…” mormorò avvicinandoglisi e prendendolo delicatamente per le spalle, contatto che fece sussultare l’altro ma che non lo allontanò. “Non devi mentire con me, sai che puoi dirmi tutto.”
Gli occhi del biondino luccicarono appena a causa di un paio di lacrime che minacciavano di uscire. “Non c’è niente che devo dirti, Sherlock, perché non lo so nemmeno io che cosa dovrei o… vorrei dirti. Non ci sto capendo più niente, so solo che andare avanti standoti così vicino sta diventando una tortura, perché dopo quel bacio non so più chi sei o… come sei.”
“Intendi che non sai se sia etero o gay? John, io…” Cercò le parole giuste, quelle che non lo avrebbero spaventato, quello che non lo avrebbero fatto scappare. “… non farei mai qualcosa che possa metterti a disagio.”
“Ma lo hai fatto!” irruppe improvvisamente l’amico. “Lo hai fatto e non parlo solo di quel bacio, ma dal tuo modo in generale di rapportarti con me. Lo stai facendo anche adesso, lo vedi? Mi guardi e io mi chiedo che cosa mai ti frulli in testa, che cosa vedi quando mi guardi. Lo capisci che non ce la faccio più a vivere così?”
“Che cosa vedo quando ti guardo?” gli fece eco Sherlock, lanciando un rapido sguardo al suo cuore che, alle spalle di John, sospirava stupidamente felice. “Vedo un ragazzo meraviglioso, intelligente, simpatico, a volte insicuro nonostante cerchi di mostrarsi sempre forte e pratico in ogni situazione. Vedo il ragazzo che mi ha tirato giù dal tetto e che mi ha portato a bere quel caffè disgustoso al caramello da Starbucks. Vedo il ragazzo che mi è stato accanto per due anni, difendendomi e sopportandomi nonostante il giudizio di tutti gli altri. Vedo il ragazzo che ho sempre visto, quello che ho sempre avuto a cuore, quello che, contro ogni logica, ormai amo.”
John sgranò gli occhi e lo osservò ammutolito per qualche istante. Sherlock osservò il suo cuore che aveva l’aspetto di un ubriaco, tanta era l’euforia che lo dominava. Volteggiava liberamente tra le fronde degli alberi, volando a destra e a sinistra, per poi ritornare dal biondino e contemplarlo con trepidazione. Sherlock aveva spesso sentito parlare delle fasi dell’amore: prima il tuo cuore è solo qualcosa che hai in te, che poi si risveglia nei momenti di difficoltà e di incertezza; quando incontri una persona da cui sei attratto, il cuore comincia ad essere sempre più presente e a darti sempre più consigli, rispecchiando i tuoi veri desideri, quelli forse anche a te sconosciuti; nel momento in cui l’attrazione per una persona sfocia nell’innamoramento, il cuore può costringerti a fare o dire cose di cui neanche ti rendi conto, in modo da restare vicino a colui di cui sei innamorato; infine, l’ultimo stadio, è l’amore, quello in cui il tuo cuore ti obbliga a fare una scelta, prendendo forma e palesandosi ai tuoi occhi come una specie di spiritello guida. Ecco a che cosa l’avevano portato gli atti di bullismo di Jefferson e dei suoi. Ad amare John Watson.
“John, ti prego, di’ qualcosa.” lo pregò Sherlock avvicinandosi ulteriormente a lui e facendo scivolare le proprie mani in quelle dell’altro. “Non devi dirmi che provi lo stesso, ma solo che… non te ne andrai dalla mia vita. Sei troppo importante perché io possa perderti. Tu… tu dammi il tempo e ti prometto che passerà e che sarà come all’inizio.”
“Io non voglio che tu cambi.” sussurrò allora John rispondendo alla stretta. “Ho solo bisogno di… di tempo per elaborare e capire anche io come… proseguire.”
“Vuoi dire che non sparirai?”
“Io… Sherlock, sei mio amico, perciò…”
Si guardarono per alcuni istanti, solo il fruscio del vento a smuovere le fronde degli alberi. Il calore emanato dalla pelle di John era così bello e rassicurante che Sherlock sarebbe potuto rimanere in quella posizione per sempre, semplicemente tenendogli la mano. Poi, si concentrò più attentamente su quel viso, su quegli occhi, su quelle labbra, e Dio come non poteva più controllarsi, ormai. Si piegò lievemente, quel tanto che bastava per lanciare un segnale all’altro, perché quello che aveva detto era vero: non avrebbe mai fatto qualcosa che potesse metterlo a disagio. John schiuse appena le labbra e trattenne il respiro mentre lui continuava la sua progressiva discesa verso la sua bocca. Si incontrarono dolcemente, si sfiorarono appena, alla luce della luna piena, e Sherlock fu così felice che finalmente quella non era solo una mera finzione, ma la realtà. Strinse più saldamente la presa sulle mani di John e depositò un nuovo bacio a fior di labbra sulla bocca dell’amico. Il suo cuore sospirò e si rintanò nuovamente nel suo petto, al sicuro, sereno.
Improvvisamente, il frusciò di passi sull’erba li fece sussultare e allontanare come se fossero stati dei ladri.
“Ma guarda, guarda chi c’è. La mia coppia di frocetti preferita. Ciao, Sherly, è da un po’ che non ci vediamo.”
“Jackson.” ringhiò di rimando Sherlock parandosi istintivamente di fronte a John, investito di un nuovo coraggio che non aveva mai avuto.
“Avevo capito che foste solo buoni amici.”
“Lo siamo, infatti!” si affrettò a rispondere John allontanandosi dal corpo di Sherlock. “Non siamo… Non sono gay.”
“Da quando i buoni amici si baciano come due fidanzatini vergini? Aspetta, ma tu non sei fidanzato, Watson? Ma sì, tu sei quello che si fa quasi ogni ragazza che gli capita a tiro! La tua reputazione ne risentirebbe parecchio se venisse fuori che oltre a infilarlo ti piace anche fartelo infilare.”
Il viso di John assunse una colorazione fiammante. “N-non è come sembra. Possiamo spiegare…”
“John.” lo interruppe Sherlock rivolgendogli un’occhiata significativa.
“No, Sherlock, sei tu che mi hai ficcato in questa cazzo di situazione, quindi, se non altro, chiudi il becco.” La durezza nella sua voce provocò in lui un’incrinatura. John tremava di rabbia e di paura, era davvero terrorizzato all’idea che Jackson e i suoi raccontassero a tutti del loro bacio. “Io non sono gay e non lo stavo baciando, è lui che mi ha colto di sorpresa.”
Sherlock sgranò appena gli occhi. “John…”
“Ah, che Sherly fosse la peggiore checca della scuola era risaputo. Nonostante abbia provato a nasconderlo uscendo con la Adler.” Jackson si avvicinò a John, schivando completamente Sherlock. “Ma tu, Johnny, tu sei assolutamente insospettabile…”
“Non sono gay.” ripeté il biondino stringendo ancora di più i pugni.
“Sei sicuro?”
“Sì.”
“Allora proclamalo pubblicamente.” esclamò infine Jackson. “Entra al party e urla a tutto il mondo che Frocio Strambo Holmes ha provato a baciarti. Altrimenti potrei entrare io al party e dire che vi ho visto baciarvi. A te la scelta, Johnny. E non ti servirà il tuo paparino militare, stavolta.” Si volse verso i suoi compari, un sorriso vittorioso sulle labbra. “Ti aspettiamo con ansia dentro. Hai dieci minuti.” E detto questo, scomparvero tra gli alberi del giardino.
Sherlock rivolse un’occhiata allucinata in direzione di John. “Che significa quello che hai detto?”
“E’ la verità, Sherlock. Non sono gay e, di nuovo, non sono stato io a baciarti. Quello che intendevo dire era che forse, forse avrei potuto dimenticare la tua… condizione e continuare come se niente fosse, ecco quello che intendevo.” Si passò una mano sul viso e pestò ripetutamente a terra, ringhiando di frustrazione. “Se lo scopre la scuola… Che razza di figura ci farò, eh!? Ci hai pensato mentre provavi a ficcarmi la lingua in bocca? O ti fregava soltanto di dare soddisfazione al tuo spirito ninfomane!?”
“John…”
“Abbiamo chiuso, Sherlock.” decretò infine con voce dura. “E adesso scusami, ma ho un annuncio pubblico da fare.”
“Non puoi… non puoi farlo sul serio.”
“E invece sì, Sherlock. Posso. Sei stato tu a rovinare tutto, non far ricadere la colpa su di me.”
Sherlock osservò la schiena di John allontanarsi verso la casa di Moran e avvertì un dolore lancinante all’altezza del petto. Si portò una mano lì dove stava il cuore e crollò a terra, scosso da fitte lancinanti.
Che succede?
Succede che hai il cuore incrinato, Sherlock.
Avrebbe voluto chiedere ulteriori chiarimenti, ma una nuova scarica di dolore lo animò da capo a piedi e si trovò a mordersi la lingua per non strillare di dolore. Si trascinò in strada e fermò un taxi, cadendo pesantemente sul sedile posteriore. Comunicò all’autista l’indirizzo di suo fratello e si stese sofferente sui sedili di pelle, ignorando le domande del tassista. Stava male. Non si era mai sentito così. Stava piangendo. Rivedeva John, avvertiva il tocco leggero delle sue labbra, udiva i suoi ringhi rabbiosi, osservava la sua figura allontanarsi. A quell’ora, tutti avrebbero saputo che Frocio Strambo Holmes aveva una cotta per il suo migliore amico. Si rannicchiò su se stesso e singhiozzò sommessamente, sperando che con le lacrime quel dolore incontenibile si sarebbe, appena, affievolito.
 
John’s POV. I giorni volano quasi senza che io me ne accorga. La Nuova Zelanda è meravigliosa e il nostro hotel si affaccia sul mare. Ogni mattina, al mio risveglio, una gradevole aria di mare sbuffa attraverso le tende della grande portafinestra che dà sul terrazzo. Sherlock è spensierato, finalmente incline a parlare più spesso, mangia addirittura regolarmente, sebbene poco. L’aria salmastra gli fa bene, il suo colorito pallido è appena poco più abbronzato e il suo sorriso è più luminoso, meno malizioso. Tra l’altro, ha ormai acquisito l’odore di iodio: ogni volta che ci troviamo vicini, posso sentirne il profumo tra i suoi ricci spumosi e un sorriso dolce mi coglie sempre impreparato quando mi trovo ad annusare con tale trasporto il mio coinquilino. Le nostre camere sono adiacenti, la mattina ci svegliamo di buon’ora – o forse io mi sveglio, visto che non sono sicuro dorma la notte – facciamo colazione assieme e poi andiamo in spiaggia, dove lui se ne sta rintanato sotto l’ombrellone per paura di scottarsi a causa del suo incarnato delicato. Un giorno, sono persino riuscito a trascinarlo in acqua, prendendolo di peso e tuffandomi assieme a lui da uno scoglio. Quando è riemerso, sono, ovviamente, partiti gli insulti e gli anatemi nei miei confronti, ma tutto quello a cui riuscivo a pensare in quel momento era a quanto fosse bello con i ricci pesanti d’acqua che gli ricadevano dispettosi sugli occhi appena arrossati dal sale. Poi ha cominciato a schizzarmi e a cercare di affondarmi col suo peso che non è neanche paragonabile al mio, abituato all’addestramento militare. Ma quando mi ha preso per i fianchi e mi ha tirato sottacqua, ho creduto di morire davvero, per l’emozione, l’incredulità, la gioia. Avvolto dall’abbraccio del mare, mi sono ritrovato a fissarlo con gli occhi appena sgranati, a contemplare il suo aspetto angelico e sereno, quello che ormai ritenevo morto e sepolto dopo la nostra separazione, tanti anni fa. E anche lui mi guardava, i suoi occhi erano dolci, l’ombra di un sorriso gli piegava le labbra e avrei voluto tirarlo a me e baciarlo, chiedergli perdono ancora una volta, e maledirmi ancora una volta per aver rinunciato, tanto tempo fa, a lui, atterrito da quello che la gente avrebbe potuto pensare di me, di come mi avrebbero giudicato tutti. La magia finì quando entrambi dovemmo risalire per riprendere fiato, ma forse non era davvero così finita, perché Sherlock rideva, la testa rovesciata all’indietro per inspirare più aria. Ed era bello, il mio Sherlock.
Questa è l’ultima sera. Domani saliremo sull’aereo diretto a Londra e riprenderemo la nostra vita. Mi chiedo se questo clima leggero e spensierato continuerà anche tra le mura del 221B, mi chiedo se Sherlock riprenderà a proteggersi chiudendosi dietro una maschera di fredda indifferenza, mi chiedo se riuscirò a sopportare questa voglia di stargli accanto nonostante la lontananza. Era così pure per lui? Quando eravamo ragazzi, anche lui doveva trattenere l’impulso di prendermi per mano, abbracciarmi, baciarmi? Anche lui aveva paura di rovinare tutto solo osando un po’ di più? La sera della festa di Moran mi ritorna in mente, mi schiaffeggia: non era lui ad avermi baciato, ero io quello ad averlo fatto, perché anche io lo amavo, probabilmente non nel modo in cui lui amava me. Il mio sentimento era troppo debole a causa di tutti quei pregiudizi con cui la società mi aveva infarcito la testa. Sherlock era pronto a rischiare, io no. Io avevo cercato di soffocare quello che provavo, quello che cresceva in me ogni giorno, quel cuore chiacchierone, quel cuore che mi portava a fare cose che non volevo, come rispondere al bacio di Sherlock, quella notte, e infilargli le mani sotto la camicia per avere di più di un semplice gioco di lingua. Quando poi si era palesato ai miei occhi, non ero più riuscito ad accettarlo. Lo avevo scacciato, oppresso, gli avevo chiesto di sparire, ero così frustrato e disperato da quello che sentivo che, un giorno come un altro, mi risvegliai e il mio cuore, semplicemente, non c’era più. Tutto perché non volevo espormi per stare con la persona che amavo.
Mando giù l’ennesimo bicchiere di Martini per soffocare quei ricordi bui. Mi volto verso il posto al bancone accanto al mio, ma lo trovo vuoto, e quando sento applausi e gridi rapiti lancio un’occhiata alla pista da ballo del Resort in cui alberghiamo. Sherlock sta ballando al ritmo di musica, muovendo il suo corpo magro, alzando le braccia in alto e ancheggiando. Chi osserva da fuori, lo ammira, chi danza a sua volta lo invidia o cerca di avvicinarglisi. Scorgo un paio di ragazze scuotere i sederi contro di lui, mentre la sua risata muta, che non riesco a udire per la musica, si diffonde. Sbatto il bicchiere di Martini con violenza e mi alzo, facendomi spazio tra la calca urlante e sudata, i miei occhi fissi su quella testa riccioluta.
Sherlock… Sherlock… Sherlock…
Adesso è un tipo strambo, abbronzato, muscoloso a ballare vicino a lui. Muove i suoi lunghi capelli castani in modo che solletichino il viso di Sherlock. Serro le mani in due pugni rabbiosi. Non lascerò che nessuno me lo porti via. Quando vedo il tipo in questione prendergli i fianchi, pesto il piede a terra e con un ultima sgomitata arrivo nel punto dove si trovano loro. Mi avvicino a Sherlock, che nel frattempo ha allacciato le mani dietro al collo dello sconosciuto, gli prendo un polso e lo tiro verso di me con fare possessivo.
“Spiacente bello. Lui è già impegnato.”
Il tizio mi rifila un’occhiata torva, ma alla fine se ne va, cercando qualche altra preda da catturare. Sherlock è troppo ubriaco per connettere, infatti appena mi volto nella sua direzione, lo trovo che ha ripreso a ballare, nonostante lo stia ancora tenendo per un polso.
“Dai, John! Buttati!” urla per sovrastare la musica.
“Io… Non sono esattamente portato per-”
Ma Sherlock mi tira a sé, prendendomi entrambe le mani e incoraggiandomi a seguirlo nel suo ballo caotico ma bellissimo. Ha gli occhi dolcemente chiusi e le labbra aperte in un sorriso rilassato e terribilmente brillo. Lui danza senza neanche sapere che diavolo di tortura mi infligge permettendomi di stargli così vicino. Forse avrei dovuto lasciare che se lo prendesse quel tizio, perché tanto so che non potrò mai averlo: la mia occasione l’ho sprecata tanto tempo fa, entrando in quella sala da ballo e urlando a tutti che Frocio Strambo Holmes voleva scoparmi invece che John Tre Continenti era innamorato del suo migliore amico. E lo è ancora.
Sherlock, improvvisamente, mi si avvicina, azzerando quasi totalmente la distanza, il suo corpo sudato e snello premuto contro il mio e si piega su di me, articolando poche, flebili parole in un sussurro.
“Andiamo in camera mia?”
Il suo tono basso, ansante, mi rabbrividire di piacere e devo impormi di staccarmi da lui per mantenere il controllo sul mio corpo. Prendo un respiro profondo, attendo istruzioni dal mio cuore, cerco di contenere l’effetto incontrollabile delle sue parole, ma non faccio in tempo a raccogliere le idee che la sua mano si serra attorno alla mia e mi trascina via dalla pista da ballo, correndo verso la hall e poi sulle scale, fino ad arrivare alla sua camera. Non appena la porta si apre, mi tira dentro, dove l’oscurità è spezzata dalla pallida luce della luna che filtra attraverso la portafinestra.
“Sherlock, noi non-”
Ma lui mi zittisce con un bacio appassionato, rabbioso, mi morde il labbra inferiore e mi obbliga a schiudere le labbra, lasciando che la sua lingua si intrecci con la mia e cominci a giocarci come due serpenti. Per pochi istanti di lucidità penso che non andrà a finire bene, che Sherlock è ubriaco e io anche, che domani ci sveglieremo e ci pentiremo di quello che avremo fatto, che la nostra amicizia, di nuovo, verrà rovinata da sentimenti infidi e indurabili, ma poi subentra l’adrenalina, l’eccitazione, la voglia di fare l’amore con Sherlock, la paura che questa sia l’ultima occasione per averlo. E così lo sollevo di peso, lui intreccia le gambe attorno al mio bacino, facendomi sospirare tra i suoi capelli mentre lo accompagno fino al suo grande letto. Mi stendo sopra di lui, baciandogli il collo, ma poi, come impaurito, ritorno alle labbra e mi limito ad esplorargli la bocca. La verità è che ho paura. Paura di lasciarmi andare, paura di ferirlo, paura di perderlo. Sherlock, dal conto suo, mi spinge contro di sé e sussurra il mio nome con tono roco e quasi implorante, baciandomi il collo e mordendomi la pelle. Fatico a mantenere le briglie della passione, ma non so come comportarmi. Fare l’amore con lui è quanto di più bello io abbia mai sognato, ma mi sembra così sbagliato farlo da ubriachi con tutti i trascorsi ancora non totalmente chiariti e con così tante parole da rivelarci a vicenda. Chiudo gli occhi. Glielo dirò. Domani gli dirò quello che provo. Forse si spaventerà, rimarrà confuso… ma sono certo che il destino, cosa a cui mai ho creduto, deve essere intervenuto apposta. Dopo tutti questi anni, tutte le difficoltà, come possiamo ritrovarci abbracciati insieme su questo letto, senza che voglia dire qualcosa?
Gli sbottono la camicia e cominciò a passargli la lingua sulla pelle chiara, gioco col suo capezzolo e lui si inarca sotto di me, afferrandomi per la maglietta e tirandomi contro di sé per baciarmi e far aderire i nostri bacini caldi. Sherlock si sfila via i pantaloni e intreccia nuovamente le gambe attorno al mio corpo baciandomi con trasporto e voracità. Non ho mai desiderato nessuno come desidero lui. Ci spogliamo a vicenda, eliminando le barriere che tengono le nostri pelli separate. Quando mi accosto a lui per fonderci assieme, mi chiedo se è davvero quello che il vero Sherlock vuole. Mi chiedo se voglia davvero fare l’amore con me, se davvero voglia essere lui quello a ricevere il mio corpo, se davvero voglia me.
“Scopami.” mi sussurra con disperazione e allora cedo.
Quando i nostri corpi si uniscono lascio finalmente volar via ogni pensiero e mi godo il piacere, la gioia, l’amore. Chiudo gli occhi accogliendo i suoi gemiti nelle mie labbra e infine, esausto, giunto ormai al culmine mi scanso e lo abbraccio.
“John?”
“Sì?”
“Io… voglio ricominciare ad amarti.” Il mio cuore perde un battito. “Voglio farlo davvero, ma ho troppa paura… Non farmi del male, John. Non farmene più.”
Gli bacio la tempio sudata, sorridendo. “Mai più, Sherlock. Te lo prometto.”
E bastano pochi secondi perché si addormenti, ancora nudo, tra le mie braccia. E vorrei che fosse sempre così. Sempre io e lui contro il resto del mondo.
 
Sherlock’s POV. Mi sveglio gemendo di dolore. Il mio intero corpo è intorpidito, scosso da piccole scariche elettriche. Avverto un fastidio insolito nella zona in cui a volte ho ospitato tracce di altri corpi, ma non amo troppo fare quello passivo, soprattutto da ubriaco. Mi passo una mano tra i capelli, cercando di recuperare qualche brandello dei miei ricordi, ma è tutto nero, confuso. Mi guardo intorno, chiedendomi con chi mai io abbia passato la notte e, soprattutto, a chi ho concesso di possedermi. Mi guardo intorno, scorgendo sul pavimento i vestiti che indossavo la scorsa notte. In bagno, l’acqua della doccia tace improvvisamente. A quanto pare il mio visitatore non si è fatto problemi a fare come se fosse a casa sua. Mi alzo, ancora svestito, e mi preparo ad accoglierlo con lo sguardo freddo e la porta della mia camera aperta. Lancio uno sguardo all’orologio, controllando che non sia tardi, ma con mio sollievo mi rendo conto che sono nei tempi. Mi chiedo se John abbia già preparato tutto, perfettino com’è. John. Il suo pensiero è luminoso, chiaro, per qualche ragione doloroso. Chissà cos’avrà fatto stanotte, lui. Magari è stato con qualche tipa del resort o magari si è semplicemente allontanato stufo del chiasso e della gente. Per qualche ragione, spero nella seconda. Mi avrà visto allontanarmi con… chissà chi? E se così fosse, cos’avrà pensato…
Scaccio quelle domande dalla mia mente, dicendomi che non mi deve importare di quello che John pensa. In mio soccorso, giunge il mio misterioso ospite che apre il più silenziosamente possibile la porta del bagno. E’ una sciocchezza, ma mi fa sorridere appena la premura con cui sta facendo questo, probabilmente crede che stia ancora dormendo e non vuole svegliarmi. Incrocio le braccia al petto, preparandomi ad affrontarlo con tutta l’arroganza che ormai ho imparato a sfruttare, ma appena la porta si apre completamente, rivelando quella figura, ogni sicurezza crolla.
Capelli biondi umidi di doccia, occhi indaco, naso all’insù, postura militare. Davanti ai miei occhi sbigottiti, compare la sagoma di John, intento a tamponarsi i capelli con un asciugamano, avvolto solo dall’accappatoio che il resort ha fornito a entrambi.
“Oh, sei sveglio.” esclama con trasporto mentre un sorriso luminoso gli rischiara il viso. “Scusa, non volevo svegliarti…”
Il suo tono diminuisce d’intensità nel momento in cui i suoi occhi si abbassano dal mio viso per scorrere sul mio corpo nudo, soffermandosi un secondo di troppo sulla mia intimità. Di riflesso, balzo indietro e strappo violentemente il lenzuolo via dal letto, avvolgendomici dentro.
“Che significa?” sputo improvvisamente sulla difensiva cercando di distogliere la sua attenzione dal rossore che avvampa sulle mie guance, in testa un’unica frase: John mi ha visto come non mi avrebbe mai dovuto vedere. “Che ci fai qui?” Poi un’idea mi balena in mente.
“Oh, ecco… La doccia della mia stanza era fuori uso quindi stamattina sono sgattaiolato in camera tua e me la sono fatta qui.”
I miei occhi si ristringono appena, scrutandolo dubbiosi. “Sul serio?”
“No, anche se chiunque avrebbe potuto farlo visto che, nella foga, hai lasciato la porta della camera schiavata.”
“Che vuoi dire con nella foga? I-io… cosa sai esattamente della notte scorsa?” Vedo i denti di John mordicchiarsi nervosamente il labbro inferiore, ma non c’è imbarazzo o pentimento nelle sue iridi, quanto un curioso divertimento. “No…”
“Sì.”
“No… Non-non può essere, sono stato… Cristo!” comincio a imprecare, ma dopo poco John mi raggiunge, prendendomi per le spalle e avvicinandosi timidamente a me.
“Ascolta, lo so che avrai tante domande e tanti dubbi su quanto è accaduto, ma adesso fatti una bella doccia e prepara le valigie. Una volta a casa potremmo parlarne meglio.”
Parlarne meglio? Di che cosa vuoi parlare esattamente, John? Di una mera scopata da ubriachi?”
Il suo sguardo rimane rilassato mentre mi sorride bonariamente. All’improvviso, si sfila l’accappatoio di fronte a me ed incomincia a vestirsi tranquillamente, senza dar peso alla mia espressione sconcertata.
“C-che diavolo stai facendo?”
“Andiamo, Sherlock, direi che dopo ieri notte abbiamo più o meno le idee chiare su come siamo fatti senza vestiti, no?”
“I-io… Eravamo ubriachi.” replico distogliendo lo sguardo.
“Un po’, ma credo che da un lato un pizzico di coraggio liquido servisse.”
Scoppio a ridere, puntando nuovamente i miei occhi su di lui, che ora mi guarda inarcando un sopracciglio. “Scherzi? Mi stai parlando come… Che cosa credi succederà dopo stanotte, John?”
Lui scrolla le spalle e si infila la maglietta con i fiori di ribes che ha comprato dal venditore ambulante in spiaggia due giorni fa e che ha indossato per l’ultima serata. “Non lo so, per questo dovremo parlare, prima o poi. Chiarirci e capire da dove iniziare.”
“Iniziare cosa?”
“Una relazione, Sherlock.”
Scuoto la testa con un sorriso incredulo. “Oh, John. Sei davvero incredibile. Credi che quello che è successo tra noi significhi qualcosa?”
“Siamo stati insieme, Sherlock, stanotte.”
“Con quante ragazze te la spassavi al college, John, senza che i tuoi rapporti significassero qualcosa?”
Il suo viso si adombra e si ferma in mezzo alla stanza, gli occhi puntati su di me. “Credi davvero che andrei a letto col primo essere umano che mi capiti a tiro?”
“Non lo so, John, dimmelo tu.”
“Cristo, Sherlock, solo perché in passato ho commesso degli errori non vuol dire che non sia cambiato in vent’anni! Credevo fossimo ormai chiari su questo punto.”
“Oh, fantastico, quindi mi stai dicendo che…”
“Che non vado a letto col primo essere che respira solo per qualche bicchierino di troppo!”
“Beh, io sì!” sbotto di rimando e lui tace, fissandomi con orrore. “Io sì, John, lo faccio. Non so come siano andate le cose ieri sera, ma non ha significato assolutamente niente per me. Potevi esserci tu come poteva esserci il ballerino di flamenco che si è esibito l’altra notte.”
“Non puoi dire seriamente.”
“Ne sei certo?”
John stringe i pugni, un’aria di impotenza dipinta sul suo viso. “Hai detto una cosa, ieri notte, Sherlock. Hai detto… hai detto…”
“Che cosa, John? Ti ascolto.”
“Hai detto che vuoi amarmi di nuovo e mi hai chiesto di non farti più del male.”
Sgrano gli occhi e stavolta sono io quello preso in contropiede. Ho detto davvero questo? Cazzo, mi sono davvero spinto fino a questo punto? L’ebbrezza mi ha davvero dato la forza e la stupidità per confessargli questo?
“Tutti diciamo cose del genere a quelli che ci stanno facendo un pompino o peggio. Ripeto, non significa niente quello che c’è stato ieri notte né tantomeno quello che ti ho detto.” John si abbandona sulla poltrona di fronte al letto, le mani sul viso. Come può importargli tanto? Mi fa rabbia vedere quanto dolore gli sto infliggendo, perché avrei voluto che tutto questo me lo dicesse anni fa, prima di mandare in pezzi il mio cuore e rovinarmi per tutta la vita. La sola idea che fra noi possa nascere qualcosa è impensabile e stupida. E’ troppo tardi, il passato è passato, il presente è oggi. Niente cambia.
Mi alzo, sempre avvolto dal lenzuolo e mi dirigo verso la porta, aprendola e mostrandogliela con un ampio gesto del braccio. “Ci vediamo, John. Non ti dispiace partire col volo successivo, vero? Preferirei arrivare per primo a Baker Street e preparare tutto.”
“Preparare cosa?” mi chiede con voce sconfitta mentre si alza e mi si avvicina.
“Le valigie con le mie cose. Lascerò il 221B non appena sarò tornato.”
Il suo sguardo mi implora di ripensarci, di riconsiderare questo piano che di certo considera folle. “Sherlock, ti prego, non mandiamo tutto a puttane una seconda volta.”
“Mi spiace, John, ma stavolta non sono io il responsabile. Non sono io a volere di più. E ora, se vuoi scusarmi, devo sbrigarmi a prendere il mio volo. Mycroft farà in modo di cambiare i dati del tuo biglietto in modo da farlo valere per il volo di mezzogiorno anziché per quello delle dieci. Ah, e non penso ci rivedremo. Ti auguro tante belle cose.” Sono freddo, così freddo che mi faccio schifo da solo, così freddo che il volto di John è ferito, sanguinante, posso scorgere l’ombra di una lacrima al lato del suo occhio destro. Ma la freddezza è la mia unica arma, l’unica cosa su cui, ora come ora, posso contare.
“Sherlock.” mormora ancora John, ma non gli lascio tempo di continuare, sarebbe troppo doloroso. Lo spingo fuori dalla stanza con un movimento deciso e mi chiudo dentro, inchiavandomi a doppia mandata, così come avrei voluto essere in grado di fare con ciò che resta del mio cuore. Eppure lui è riuscito, ancora una volta, ad entrare, a stanziarsi, a comandare. Solo ora capisco che finché vivrò accanto a lui non sarò mai in grado di avere pieno controllo su me stesso, perché sarei un burattino nelle sue mani. Lui, su di me, può tutto, così come poteva tutto quando avevamo diciotto anni.
Appoggio la nuca all’anta della porta e mi sento morire al pensiero di lasciarmi tutto alle spalle: Baker Street, Mrs Hudson, Speedy. E John. Che cosa potremmo mai costruire insieme? Siamo due orologi rotti che insieme non riescono a farne uno buono. Farebbe solo male. Il passato tornerebbe a galla, perché ritorna sempre, e allora ho paura di poter riprendere ad odiarlo o farlo allontanare di nuovo. Meglio così. Meglio ognuno per la sua strada. Lui è bello, meraviglioso, troverà qualcun altro a cui affidare il suo cuore. Io morirò da solo come è giusto e come voglio. Lontano da John Watson e dal suo cuore.
Sher… lock.
Spalanco gli occhi e mi guardo intorno, allarmato. Potrei giurare di averlo sentito. Una vocina flebile, ma c’era… C’era, ne sono sicuro… C’era, vero? Mi porto una mano al petto, attendo, cerco nuove note cristalline, ma è solo il silenzio a regnare.
Mi accascio a terra, la testa tra le mani, e vorrei piangere, vorrei non aver perso la capacità di versare lacrime, vorrei avere la parte più umana del mio cuore che mi consenta di lasciarmi andare, ma non posso. Sono vuoto. Uno sarcofago senza mummia. Affondo il viso contro le gambe e ringhio di disperazione, mordendo il lenzuolo finché non sento i miei denti stridere e un sapore acre e dolciastro insieme in bocca. Sangue.
Non ho ricordi della notte condivisa con John. Non ho ricordi dei suoi baci, del suo calore. Non ho ricordi del suo corpo nel mio, dei suoi sussurri. Non ho ricordi di quell’amore che John Watson è convinto abbiamo condiviso quella notte. Ridacchio amaramente, perché, come al solito, ho rovinato tutto. La colpa è mia, stavolta. Sono io quello che ora ha paura e retrocede. Sono io quello a farlo soffrire e a farmi soffrire. E nell’amarezza di questo mattino di Giugno, penso che almeno, se separati, avrei voluto portare con me un qualche cosa di lui, di noi nel mio Palazzo Mentale. Non ho ricordi, nemmeno frammenti. Non ho un cuore. Sono vuoto. Solo e vuoto.

SPAZIO AUTRICE
Mamma mia che capitolo... Poi, se la gente mi dice che sono sadica, ha perfettamente ragione, perché naturalmente non posso lasciarli in santa pace per un po'. Dunque, in questo capitolo doppia sofferenza vs una gioia, se vogliamo ritenerla tale, visto che in realtà, a quanto pare, non li condurrà all'happy ending. Però, dai, almeno un po' di soddisfazione l'hanno avuta loro ma l'avete avuta anche voi dopo tutti questi capitoli di amore non corrisposto, iniziale odio, frecciatine... Mi sto rendendo conto di quanto doloroso possa rivelarsi leggere qualcosa scritto da me.

Ad ogni modo, penultimo capitolo di questa mini long-fic che spero stiate apprezzando (siete in tantissimi a leggere, vi ringrazio davvero di cuore) e un grazie speciale anche a chi recensisce perché... cioè, è troppo bello leggere quello che pensate e mi fate sentire special!! Lov u all.

Anyway, lunedì ultimissimo capitolo... Che cosa ci riserverà il futuro nessuno può dirlo, anche se gli incidenti in aereo potrebbero essere sempre dietro l'angolo... NO, SCHERZO, SCHERZO, NESSUN INCIDENTE. O almeno, in teoria... Basta col terrorismo letterario! Vi auguro una buona settimana - fra poco ricomincia la scuola e io mi voglio sparare o anche sparare contro un muro - e godetevi questi splendidi giorni di settembre!!! Alla prossima settimana!

*kiss*
Alicay_Barbix

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 8 ***


IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix
 
CAPITOLO 8
 
Sherlock sanguinava. Non nel vero senso della parola, ovviamente. Ma dentro, sentiva che una profonda e turpe ferita gli dilaniava il cuore. La notte era ormai solito svegliarsi in un bagno di sudore, con le lacrime agli occhi e un dolore lancinante al petto. Nei momenti di profonda solitudine, quando era il silenzio il solo, vero padrone, poteva sentirlo piangere, il suo cuore. Non credeva sarebbe stato così. Non credeva avrebbe fatto così male. Aveva smesso di mangiare, di dormire, di uscire nonostante le vacanze estive. Era diventato l’ombra di se stesso. Gli occhi di Mycroft lo guardavano pietosi, pietosi, mentre si spegneva lentamente. Perché Sherlock era così che si sentiva: spento. L’unico barlume di luce che avesse mai illuminato la sua intera esistenza, era stato proprio quel sorriso, quello splendido sorriso candido e quei ciuffi di capelli che parevano essere fatti di raggi solari. Ogni volta che pensava a lui – il suo nome era ormai diventato un taboo – si dava del cretino per essere ancora in grado di fare il poeta. Lui se n’era andato. E non era giusto. Non era giusto che l’avesse lasciato solo, che l’avesse tradito, che ora fosse Sherlock a soffrire così tanto. Non era giusto perché le ricerche degli esperti, a proposito dei cuori, sostenevano che la percentuale di amori veri in età adolescenziale fossero così bassi da poterli considerare una vera e propria rarità. E Sherlock c’era cascato. Proprio lui che si era sempre guardato bene dal provare emozioni. Lui si era innamorato, anzi no, lui aveva amato. E amava tutt’ora.
In una tersa mattinata di agosto, alla fine di lunghi e strazianti mesi di vacanze estive, Sherlock tornò in quella scuola che aveva assistito allo sbocciare del suo amore. Era tremendamente stanco, gli pareva di essere diventato un vecchio ingobbito dai rimorsi di una vita intera, capiva di essere come una di quelle ombre proiettate sull’asfalto – l’attimo prima c’era e quello dopo, chissà. Nel cortile, un capannello di studenti formicolava confusamente, senza schemi o ordine, muovendosi come zombie privi di volontà proprie. E Sherlock, fra quegli zombie, col suo squarcio interiore, spiccava come una farfalla bianca sulla parete di una ciminiera industriale. Furono in molti a voltarsi, a trattenere il fiato, ad emettere versi di sorpresa, e un’immobilità unanime si tese al suo passaggio. Sapeva che cosa sarebbe successo. Ne aveva la certezza. Certezza che andò a consolidarsi nel sentire il terreno, sotto i suoi piedi, tremare lievemente all’arrivo di tizi dal passo quasi marziale.
“Frocio strambo Holmes! Pensavo non avresti fatto più vedere la tua faccia da checca dopo le vacanze!” esclamò fintamente entusiasta la voce di Jackson e Sherlock non dovette neanche alzare gli occhi per avere la conferma che fosse lui con la sua banda. Senza degnar loro di alcuna attenzione, proseguì il suo calvario col capo chino, ma quando fu ad un soffio dal superarli, la presa di Jackson lo tirò brutalmente indietro, facendolo cadere rovinosamente a terra. Un coro di risate animò il cortile, mentre la maggior parte degli studenti lo accerchiavano, come a voler celare quello spiacevole incontro a occhi indiscreti. “Che fai, frocetto? Non mi saluti?”
Sherlock si rialzò, riaggiustandosi i vestiti, e cercò una seconda volta di evitare l’inevitabile, ma ovviamente, si ritrovò ancora a terra, stavolta oppresso dal peso di uno dei tirapiedi di Jackson che col piede lo schiacciava al suolo. “Che ne è delle tue brillanti deduzioni, frocetto?”
“Sì, deduci chi mi sono scopato ieri sera!”
“Di sicuro non era un maschio!”
“Dio, che schifo, Roger!”
“Ma guardatelo, il frocetto non ci degna della sua attenzione!”
“Gioca a fare il lord, lui!”
“Ma come cazzo si veste? Sembra mio padre!”
“Tuo padre fa il gestore di un bordello, Tim!”
“Appunto, fa soldi, lui!”
“Allora, frocetto, nessuna deduzione?”
“Dov’è il tuo principe azzurro, strambo?”
Voci. Grida. Versi. Erano animali. Solo e soltanto stupidi animali privi di cervello dotati di istinti primitivi come quello di dimostrare inutilmente la loro superiorità fisica. Sherlock se ne stava lì, immobile, gli occhi persi tra la folla senza realmente vederne i volti. Che gli importava? C’era differenza? Dio, avrebbe voluto così tanto tornare su quel tetto… Voleva sentire il vento ululare fra i suoi capelli, le urla di una scuola intera raggiungerlo ovattate ed insignificanti. Voleva essere padrone della sua vita.
Sherlock, no.
Ma quella vocina era così flebile e spezzata, appena un rantolo di sangue. Le uniche volte in cui Sherlock ascoltava il suo cuore, ormai, erano quelle in cui piangeva e, di conseguenza, piangeva anche lui. C’era stato persino un periodo in cui si era, forse stupidamente, detto che sarebbe passato, che la pace e la serenità sarebbero ritornate, che gli eventi accaduti, prima o poi, gli sarebbero parsi privi di importanza… E invece, eccolo lì, sconfitto, umiliato. Ma non gliene importava niente. Potevano sfotterlo quanto volevano, potevano picchiarlo, ficcargli la testa nel cesso, riempire il suo armadietto di carta igienica, ormai non contavano più nulla.
Cercò di scansare quel piede, ma un pugno improvviso gli colpì la faccia e un crack sonoro gli giunse alle orecchie. Naso fratturato. Sangue. Amen. Di nuovo, si divincolò da quella presa con stoica placidità, senza disperazione o paura, ma rassegnazione. Un nuovo colpo. E poi un altro. Dolore alle costole, alle gambe, alle parti basse. Dopo alcuni secondi si contorceva a terra come un riccio investito da una macchina, gli occhi che si muovevano impazziti intorno a sé, in cerca di una fottuta via di fuga perché l’unica cosa che voleva era andare avanti con la sua vita di merda e sparire da quella stupida di quegli individui.
Fu allora che accadde. Fu allora che lo vide. Un volto fra tanti. Un volto che a differenza degli altri, non era ottenebrato dal suo subconscio, no. Era chiaro. Cristallino. Luminoso. Era John. John che ora lo fissava con occhi sgranati e labbra semiaperte. Com’era cambiato, John. Era pallido, aveva messo su parecchi chili e anche lui pareva essere solo l’ombra di quel ragazzino folle e divertente.
“John.” articolarono mutamente le sue labbra, mentre in petto il suo cuore accelerava i battiti, la ferita sembrava fare male di meno e di più al tempo stesso, ormai solo un dolore fra tanti altri che gli scuotevano il corpo. E John lo vide. John vide quel nome pronunciato. John, di fronte a quel nome, scappò.
E fu come essere risucchiati da una voragine. Sherlock si rese conto troppo tardi di quello che stava accadendo. Sempre troppo tardi. Il suo cuore si palesò di fronte ai suoi occhi e, a quanto pareva dalla sorpresa che paralizzò tutti gli altri studenti, anche a quelli degli astanti. Quello, aleggiando come un uccello dalle ali ferite, si muoveva a zig zag, sofferente, sanguinante. Probabilmente, fu la visione peggiore che un uomo avrebbe mai potuto scorgere. Il capannello si divise per lasciar passare quell’esserino, persino Jackson e la sua banda si ritirarono, come atterriti da quell’apparizione.
Sherlock cercò di levarsi in piedi, strisciò per alcuni metri, ma quando vide il suo cuore aumentare di velocità, diretto verso l’ingresso della scuola, riuscì ad alzarsi e a trascinarsi in quella direzione. Piangeva. Gli occhi gli bruciavano e il suo intero corpo inviava continue scariche di dolore a causa delle percosse accusate. Nessuno provò a fermarlo, ma ebbe l’impressione di avere l’attenzione di tutti addosso. Non poteva permettere che quel cuoricino ingenuo raggiungesse la sua destinazione. Doveva riprenderselo.
Ultima fase. Il cuore è ormai impregnato d’amore e non può più essere contenuto. Gli occhi di chiunque sono in grado di scorgerlo. Il suo segreto è ormai noto a tutti. L’amore è inarrestabile così come il cuore che cerca sollievo nella persona per cui batte.
Ma il suo cuore era tanto folle quanto debole. Non avrebbe retto alla vista di John. Lui non avrebbe retto. Così si mise a correre, nonostante la sofferenza e i lividi e il sangue. Corse su per i gradini che conducevano dentro il college, arrivò nella hall, il suo cuore ormai vicino e là, fermo di fronte alla bacheca dei trofei scolastici, vide John. John accanto ad una ragazza dai capelli biondi. John accanto a Mary. La stessa stronza che lo aveva tradito. La stessa stronza per cui John aveva smesso di credere nell’amore. A fianco a lui.
“No…” mormorò in un singhiozzo a malapena trattenuto. “Fermati…” implorò senza più forze a quel cuore che ormai si tendeva verso John. “NO!” urlò, infine, con tutto il fiato che aveva in corpo e scattando verso quello, la mano protesa per acchiappare quell’insulso cuore che troppi problemi gli aveva arrecato.
Quando le sue dita si chiusero sull’esserino, cercò di tirarlo indietro per proteggerlo, ma quello era già aggrappato alla felpa di un John confuso e terrorizzato alla vista dell’ormai vecchio amico. “Sherlock?”
Sherlock ingoiò un groppo di lacrime e riprese a tirare con forza, mugolando in tono sconfitto: “Ridammelo.”
Ma il suo cuore era ormai testardo nella presa, caparbio nel pigolare poche parole. “Amami, John.”
E John, a quelle parole, si paralizzò sul posto. Sherlock lo osservò ricercare in se stesso la risposta a quella preghiera e dentro di sé quasi supplicò che rispondesse di sì, che lo accettasse, che lo amasse. L’illusione, di nuovo, lo dominò.
“John…” sussurrò senza energie, crollando in ginocchio, il sapore di sangue in bocca. “John…”
Ma quello, come risvegliato da un sogno ad occhi aperti, rispose. Bastò un passo, un piccolissimo passo all’indietro e le pressioni esterne al cuore furono così forti che una crepa si disegnò sulla sua superficie rossastra. Un secondo crack sferzò il silenzio, quella mattina. Non un osso, non un vaso. Un cuore.
Sherlock osservò impotente ciò che rimaneva della creaturina che gli aveva abitato il cuore fino ad allora giacere inerme fra le sue mani. Tremante se l’avvicinò al petto, singhiozzando, e infine si alzò, uno sguardo carico di odio a deturpargli il volto.
John s’irrigidì sotto quegli occhi che urlavano vendetta e sangue e, forse, capì. “Sherlock…” mugugnò allora, provando a fare un passo avanti, ma proprio in quel momento un tonfo leggero ma perfettamente udibile attirò la sua attenzione. La seconda metà del cuore di Sherlock era lì, abbandonata ai suoi piedi, silente e immobile. Si chinò su quel frammento che pareva quasi un pezzo di vetro e lo raccolse fra le sue mani, gli occhi improvvisamente traboccanti di lacrime. Alzò lo sguardo sul moro che, ancora, lo fissava con disprezzo e dolore. “Mi dispiace.” ebbe solo la forza di dire.
Sherlock scoppiò a ridere con amarezza e svilimento, gli occhi che sanguinavano di lacrime copiose e le mani che stringevano un frammento di cuore ormai spento e perduto per sempre. Corse via. Si volse e partì. Superò tutti quelli che avevano appena assistito alla sua fine, quelli che l’avevano perseguitato, quelli che lo avevano odiato, quelli che lo avevano compatito in silenzio per paura. Via. Tutti loro. Scappò lontano. Attraversò il cortile a grandi falcate, finché le gambe non gli cedettero e si ritrovò disteso per terra, il corpo scosso da affannosi singulti e le mani con ciò che rimaneva del suo cuore strette al petto.
Non seppe quando avvenne il cambiamento. Percepì il dolore scemare lentamente via dal suo corpo. Non seppe nemmeno come. Parti di sé che non fece in tempo ad identificare scivolarono via da lui. Fu come sentire l’acqua di una doccia scorrere lungo il suo corpo, per poi ricadere al suolo. Dopo un paio di minuti, Sherlock Holmes si ergeva statuario e terribile nella sua bellezza in mezzo al giardino. I suoi occhi erano due feritoie che avevano esaurito ogni lacrima. Non sentiva niente. E non è un’iperbole. Davvero non sentiva niente. Era come essere in modalità sordina.
“Mycroft?” sussurrò con voce fredda, distaccata al telefono su cui aveva appena composto il numero del fratello. “Manda una macchina a prendermi. Non tornerò più in questo gabbia di decerebrati.”
Il suo cuore, nel frattempo, l’aveva fatto scivolare con noncuranza nella tasca dei suoi pantaloni, come un mazzo di chiavi. Ricordava a malapena quello ch’era capitato. Ma la cicatrice del dolore era lì, ferma e presente. L’odio verso quel bastardo di John Watson anche. Ma l’indifferenza… l’indifferenza batteva ogni altra cosa. Si sentiva forte. Si sentiva se stesso. Si sentiva, finalmente, libero del suo difetto chimico.
 
John’s POV. Sono passate due settimane da quando Baker Street è avvolta dal silenzio. Sherlock è scomparso. Sono andato così tante volte a Scotland Yard, a fare appello a Greg, ma pare che anche lui non lo senta da giorni interi e, a detta sua, nemmeno Mycroft ha la più pallida idea di dove il minore si trovi. Probabilmente è una bugia. Mycroft è bravo a mentire, lo è sempre stato. Greg no, quindi è probabile che Mr Governo sappia perfettamente dove io possa cercare. La signora Hudson non fa che sospirare alla vista della poltrona nera orfana del suo padrone. E i suoi sospiri si accentuano ancora di più quando i suoi occhi si posano su di me.
“Sei così sciupato, John caro.” mi ripete quasi ogni mattina e so che è vero. Vorrei solo avere il coraggio e la forza di alzarmi in piedi e contemplare il mio riflesso allo specchio, ma ho troppa paura di vedermi sbattuta in faccia l’immagine del me stesso di tanti e tanti anni fa.
E’ proprio in un 221B vuoto e oscurato dalla penombra del mattino prestissimo, che ripenso a quel giorno, a quel fantasma ricoperto di calci, a quel cuore spuntato all’improvviso che mi si è attaccato addosso, a quel frammento solitario e triste che ho fissato per giorni interi. Quella mattina fu l’ultima volta che vidi Sherlock di persona, ma di certo non l’ultima che lo vidi, perché il suo cuore, da allora, è sempre stato con me, riposto in una scatola di cartone, al sicuro dal mondo e, principalmente, da me stesso. L’ho portata all’accademia militare, l’ho portata al Barts, l’ho portata in Afghanistan e l’ho anche qui, a Baker Street, nascosta sotto i miei vestiti peggiori.
Non so come sono arrivato di fronte al mio armadio, so solo che ora sto stringendo quella scatola. Non la apro da quando vi ho messo quel frammento e mi sono ripromesso di non farlo. Ma ora… ora che sono certo dei sentimenti che provo per l’uomo che possiede questo cuore, non posso più tenerlo chiuso in una scatola. Tolgo il coperchio. Tengo gli occhi chiusi per alcuni momenti. Infine… E’ qui, sotto il mio sguardo triste e nostalgico, riposa in silenzio, forse morto. Tanto tempo fa, mi chiese di amarlo. Forse non è molto, ma… oggi lo amo. Lo prendo in mano con cura e me lo porto alle labbra, depositandoci un bacio dolce e nostalgico. Dio, quanto fa male…
Improvvisamente, un dolore lancinante al petto. Mi trovo in ginocchio, boccheggiante, le labbra aperte in un grido muto. Tremo da quanto è forte la scossa che mi pervade, serro gli occhi per trattenere le lacrime. Faccio appena in tempo a rialzare le palpebre, che scorgo il mio stesso cuore volare via dalla finestra. Mi rialzò in piedi a fatica, il cuore di Sherlock nuovamente nella scatola. Che cazzo sta succedendo?
Corro in strada e scruto il cielo, in cerca di una traccia, e infine lo vedo, volare via sulla cresta del vento. Le gambe si muovono da sole mentre mi fiondo per le strade del centro di Londra come un ragazzino sprovveduto, evitando pedoni e rischiando di finire sotto una macchina. Tutto quello a cui riesco a pensare è corri, anche se a volte tale pensiero è sostituito da imprecazioni disperate. No, dannazione, no!
Quando sbuco a Manchester Street lo scorgo entrare in una finestra aperta da cui proviene una struggente melodia pronunciata dalle corde di un violino. Dio, no… Una vecchietta sta uscendo in questo momento dal blocco di appartamenti, così mi affretto verso l’ingresso, urlandole di non chiudere e la scanso con quanta delicatezza riesco a recuperare nella foga. Merda… merda, merda, merda… Non lo deve sapere. Non può sapere. Non voglio che sappia.
Sfreccio su per le scale, seguendo la melodia del violino che continua a cantare, indisturbata, e una volta che arrivo alla porta giusta la percuoto con bussate brusche e disperate.
Fa’ che non l’abbia visto. Fa’ che non l’abbia visto. Fa’ che non l’abbia visto.
Non devo aspettare molto prima che la porta si apra, rivelando quella figura che tanto amo. Mi osserva prima con sorpresa, poi, però, lo stupore si scioglie in indifferenza. “Che cosa vuoi?” sibila con acidità.
“Spostati.” rispondo con secchezza allungando l’occhio all’interno, alla ricerca del mio cuore.
“Perché?”
“Devo riprendermi una cosa.”
Sherlock inarca un sopracciglio. “Non mi sembra di averti preso nulla da Baker Street.”
“C’è una cosa che mi hai preso, invece. Fammi passare.”
“Ho detto che non puoi. Ho un ospite.”
Mi imprimo in volto un’espressione carica di ironico stupore. “Ah sì? Una delle tue relazioni da una botta e via? Dev’essere una cosa seria se hai cominciato a dedicargli dei brani col violino. Se vuoi di’ al tuo amichetto di vestirsi e che ci metterò mezzo secondo.”
Lo sguardo di Sherlock si assottiglia, infine, scoppia, brillando di luce propria. “Oh. Si tratta del tuo cuore, non è così? E’ venuto qui.”
“Non sono affari che ti riguardano, Sherlock.”
“Direi che lo sono, dal momento che il tuo prezioso e inaccessibile cuore è a casa mia.”
Scoppio a ridere, scuotendo la testa. “Hai perso ogni diretto di fare dell’ironia sui miei sentimenti quando te ne sei altamente fregato due settimane fa. E ora spostati e fammi riprendere ciò che è mio.”
“Solo se tu ridai a me ciò che è mio.”
M’irrigidisco appena a queste parole. Non pensavo avrebbe ritirato fuori la questione. Sono mesi che conviviamo eppure non mi ha mai posto alcuna domanda a proposito del suo cuore. E ora pretende che dopo tutti questi anni io glielo ridia? “No.”
“No?”
“Non ti appartiene più, Sherlock.” sibilo con rabbia e veleno, preoccupandomi solo del senso di malessere che provo nel ripensare al modo in cui se n’è andato e mi ha abbandonato in quel resort, solo.
“Se è per questo, direi che neanche il tuo cuore ti appartiene più.”
Faccio per ribattere quando i miei occhi captano un movimento alle sue spalle e allora lo vedo, il mio cuore innamorato che assiste alla nostra discussione con tristezza. Devo preservarlo. Devo riuscire in ciò che Sherlock, anni fa, ha fallito. Non permetterò al mio cuore di spezzarsi. Non per colpa di errori che ho commesso da ragazzo e per cui mi sono pentito già largamente.
Avanzo, incurante del suo corpo che blocca l’intero uscio, e cerco di superarlo, allontanandolo con una spallata, ma lui mi anticipa e, in una frazione di secondo, mi ritrovo contro la parete, Sherlock schiacciato contro di me per bloccarmi.
“Lasciami andare.”
“Solo se prima lo fai tu.”
In questo momento, mi rendo conto che gli sto stringendo i fianchi, probabilmente un movimento istintivo dettato dall’addestramento militare per allontanarlo, ma qualcosa, in petto, mi opprime. Osservo le mie mani serrate sulla sua figura, osservo i suoi occhi immensamente calmi, osservo le sue labbra vicine alle mie.
“Lasciami andare, John, e io farò altrettanto.” riprende lui con voce così calda e grave da farmi rabbrividire per l’emozione.
“Non posso.”
“Perché?”
Sorrido mestamente. “C’ho provato per vent’anni a lasciarti andare, Sherlock. Oggi non è un giorno diverso dagli altri.”
I suoi occhi tradiscono una luce di dolcezza mista ad una punta di timore, ma non si stacca. “E allora, se non altro, ridammi il mio frammento di cuore e io ti permetterò di prenderti il tuo.”
“Non posso.”
“Perché?”
“Perché il mio cuore non mi appartiene più.” sussurro con voce tremante a causa dell’ondata di amarezza che mi pervade. “Non è più mio, capisci? E’ tuo, Sherlock. Lo sarebbe stato anche vent’anni fa se non avessi avuto troppa paura di quello che gli altri avrebbero potuto pensare. Sherlock, lo capisci che non siamo più padroni di niente? Lo capisci che siamo solo due pedine mosse da due dei peggiori scacchisti che esistono, a quanto pare?”
Sherlock sorride debolmente alle mie parole e lo vedo deglutire. “E chi sarebbero?”
“I nostri cuori, Sherlock.” rispondo in un mormorio, avvicinandomi appena al suo viso, le fronti a contatto, i nasi a sfiorarsi, le bocche a cercarsi. “Ti amo, Sherlock.” E lo bacio, libero di ogni pensiero che finora mi ha tenuto incatenato al suolo, libero da stupide preoccupazioni, libero da inutili convenzioni sociali, libero dal passato, libero dagli errori… Solo io e Sherlock. E so che mi scanserà e che riprenderà ad odiarmi una volta rientrato in casa, ma ora non importa. “Ti amo, cazzo.” sussurro ancora sulle sue labbra, mordicchiandogli quello inferiore per introdurmi nella sua bocca e baciarlo meglio, con più passione di quanta non ne stia già usando. Vorrei che mi concedesse solo questo. Solo un bacio. Poi potrò anche strisciarmene nuovamente a Baker Street, senza cuore e dignità. Solo un bacio.
Ma Sherlock mi ghermisce il volto e mi spinge ancora di più contro di sé, aprendo la bocca e inondando la mia con il suo caldo sapore e la sua saliva, la lingua che si intreccia alla mia in un bacio disperato, mentre entrambi respiriamo scompostamente la stessa aria calda e consumata. Le sue mani scivolano alle mie natiche e spingendomi contro in muro mi incoraggia ad aggrapparmi a lui, così gli circondo la vita con le gambe e, sorretto dai suoi palmi, continuo a baciarlo con foga, spostandomi poi alla mascella e poi ancora al collo, strappandogli un gemito arrochito. A quel punto, con la sola forza delle braccia, mi porta nel suo appartamento, richiudendo la porta con un calcio e mi deposita sul divano inginocchiandosi su di me e sbottonandomi la camicia. Quando le sue labbra mi mordicchiano il capezzolo, mi lascio sfuggire un mugolio strozzato che Sherlock si affretta a raccogliere nella sua bocca famelica che non sembra avere intenzione di darmi tregua.
In un frangente, ogni cosa viene sconvolta. Si scansa, gemendo di dolore, una mano al petto e crolla sul pavimento, i denti digrignati.
“Sherlock? Ehi? Che ti succede? Sherlock?” farfuglio confusamente accorrendo verso di lui e prendendogli delicatamente il viso, uno sguardo apprensivo sul viso. “Sherlock?” Poi, da sotto la camicia bianca, scorgo un brillio tenue, appena visibile, che pian piano diventa sempre più nitido e deciso. Quelle di Sherlock, ora, sono urla raccapriccianti e il suo corpo viene scosso da tremiti incontrollabili.
“John… John… Cristo, John, fa male.” geme afferrandomi per la giacca e annaspando in cerca di aria. “Il… il cuore. Il mio cuore, John… Lo sento.”
A quelle parole sgrano gli occhi, ma non ho tempo di elaborare ciò che ha appena detto, perché dalla finestra irrompe improvvisamente una scheggia impazzita. Quella scheggia. L’altra metà del cuore di Sherlock. Sul suo petto, si palesa di colpo ciò che ha conservato da quella mattina, il brillio ora è una luce quasi accecante che sembra richiamare a sé ciò che gli spetta.
“John… Non vedo niente… Che succede?”
Ma mi rendo conto che non vi sarebbe discorso per descrivere quello a cui sto assistendo. Il cuore di Sherlock, come due frammenti di vetro che coincidono perfettamente, si ricuce assieme, e la luce rosa divampa attorno a noi, inonda ogni cosa, costringendomi a serrare le palpebre mentre un vento imperioso anima l’appartamento, scuote le tende, sparge gli spartiti.
Quando tutto questo cessa, io e Sherlock riapriamo gli occhi contemporaneamente e tratteniamo il fiato. Sul suo petto, fluttua serenamente il suo cuore animato da una tenue luce rossastra. Non c’è più la spaccatura, e neanche la ferita, nemmeno l’ombra di una cicatrice.
“Sherlock… il tuo cuore…”
Lui mi sorride con sollievo, radioso come un bambino. “Anche il tuo…”
Quando abbasso lo sguardo su di me, mi rendo conto che il mio cuore galleggia placidamente di fronte a me, anch’esso contornato da un’aura rossastra. Io e Sherlock ci scambiamo un’occhiata sognante, ma improvvisamente una vocina ci fa sobbalzare entrambi.
Sherlock, se tu lo vuoi sarò tuo per sempre, abiterò in te come se fossi il tuo stesso cuore, ti porterò la luce nelle tenebre e il calore nel gelo. Sarò sempre con te, in te, ovunque andrai. Sarò John. E sarò per sempre al tuo fianco. Mi amerai, Sherlock?
Riconosco immediatamente il pigolio deciso ed impertinente del mio cuore e mi trovo a sorridere con imbarazzo a quelle parole, pieno di pudore. Cerco gli occhi di Sherlock e al contempo vorrei sfuggirne, ma un calore inaspettato alla mano mi fa sussultare. Le sue dita mi accarezzano delicatamente e il suo sorriso è quanto di più bello e dolce io abbia mai visto.
“Sì, ti amerò per sempre.”
John, non ho intenzione di ripetere quell’inutile giuramento. Sarà come ha già precisato il tuo cuore, perciò non ribadirò l’ovvio. La domanda devo comunque portela, anche se, tempo addietro, l’ho già fatta, in un certo senso.
Una stilettata mi colpisce il petto al ricordo di quella mattina di maggio e mi trovo a scuotere convulsamente il capo di fronte all’espressione mesta di Sherlock. “Quella volta non conta. Non più. E’ cambiato tutto.”
Bene, allora… mi amerai, John?
E allora annuisco freneticamente, mentre un sorriso esplode sulle labbra di Sherlock. Osservo i nostri cuori scambiarsi e, silenziosamente, saluto il mio che si rifugia nel suo petto e do il benvenuto al suo che entra nel mio. Solo adesso ritorniamo a baciarci, stavolta con delicatezza, sfiorandoci e accarezzandoci pieni di premure.
“Ti amo, John.” soffia tra un bacio e l’altro.
“Dillo di nuovo.”
“Ti amo, John Watson, ti ho amato da quando ero un ragazzino e nonostante tutto ho continuato a farlo senza neanche saperlo. Ti amo e sono pronto ad amarti fino alla fine dei miei giorni.”
Scoppio a ridere di sollievo mentre lui ricade a terra supino e io continuo a baciarlo con dolcezza e amore. “Non ti abbandonerò mai più, Sherlock, e non ti negherò più il mio amore. Morirei, piuttosto che farti soffrire.”
Improvvisamente, però, mi stacco dalle sue labbra e lo guardo con confusione.
“Ma in casa… Voglio dire, il tuo ospite…”
“Oh, no, non c’è nessuno. Era una scusa per farti ingelosire.” mi risponde seraficamente lui, un debole ed imbarazzato sorriso a stirargli le labbra. “Mi dispiace, non volevo fare lo stronzo… I-io…”
Ma non gli permetto di continuare. Riprendo a baciarlo con trasporto, ridendo dentro di me per questo Sherlock che ora ho ritrovato, così simile a quel ragazzino eppure così perfettamente uomo. Ci siamo fatti tanto del male, abbiamo finito per torturarci reciprocamente, ma il nostro amore, ne sono certo, dura da una vita intera. Il suo cuore è in me, lo sento battere, lo sento sussurrarmi ti amo, e sono certo che per lui è lo stesso. Non ho mai sentito niente di simile a proposito dei cuori. Dicono che la sinfonia perfetta è ardua da trovare, ma che quando due cuori sono in armonia tra loro allora riescono a sintonizzarsi costantemente, ovunque e sempre, ma dello scambio fra cuori…
Che cosa siamo, io e te, Sherlock Holmes? Eravamo solo due ragazzini inconsapevoli, imperfetti, e ora siamo diventati due uomini ancora più imperfetti, ma ci amiamo. Ti amerò per sempre, Sherlock Holmes. Ti ribadirò il mio amore ogni giorno della mia vita, anche a costo di diventare melenso e puerile. Nella mia imperfezione ti prometto che proverò a diventare perfetto, solo per te, per meritarmi il tuo amore, il tuo cuore. E io ti chiedo di custodire i miei sentimenti, il mio cuore, perché è sempre stato tuo, Sherlock, sempre, sin da quando ti ho visto in bilico su quel tetto. Non ho mai creduto nel destino, di certo nemmeno tu, ma ti giuro che quando ti ho scorto… ho avuto la certezza che sarei stato legato a te indissolubilmente. Per questo ti ho trascinato via dalla morte. Per egoismo. Per paura. Perché sapevo, in un istante di folle fantasia, che senza di te la mia vita non avrebbe avuto senso. Il mio cuore era tuo già da allora.
Ti amo, Sherlock.
Ti amo, John.

SPAZIO AUTRICE
Bene. Allora. Boh. Ammazza, che loquacità, eh. No, sul serio, non ho idea di cosa dire. Cioè, aver concluso questa long-fic, la mia seconda - tra l'altro - dopo Cuore sul grilletto, mi provoca un senso di vuoto incredibile. Comunque, forse non dovrei dirlo, soprattutto conoscendo la costanza della mia voglia di scrivere *eheheheh*, ma ho già le mani su una nuova long-fic che, se devo essere sincera, è molto particolare (parliamo sempre di una AU) e che PROBABILMENTE pubblicherò già da questo Sabato - la verità è che non c'ho voglia di combattere con quella brutta cosa chiamata rientro a scuola e quindi preferisco darmi una smossa. 

Ad ogni modo, ciancio alle bande - era così?. Vi invito a guardare il video d'animazione da cui ho preso in parte spunto, perché, mi spiace dirlo, se non l'avete ancora visto siete delle persone orribili (vi lascio il link: https://www.youtube.com/watch?v=2REkk9SCRn0). G-U-A-R-D-A-T-E-L-O!!!! 

Lasciate pure una recensione, se avete tempo, se no cavoli miei che vivrò nell'eterna ignoranza dei vostri pensieri peggiori verso di me e il mio lavoro *sigh* e un'ultima cosa.... COME DIAVOLO SI CARICANO IMMAGINI?? Ho provato a fare il mondo per riuscirci ma puntualmente non ce l'ho mai fatta. Quindi, se un'anima pia volesse dare un aiuto piccino piccino a questa decerebrata, ve ne sarei davvero grata.

E... Va beh, direi che ho finito. Spero che abbiate apprezzato la storia e che continuerete a seguirmi numerosi come siete stati (grazie davvero, ve ne sono immensamente grata) e vi auguro tutto il bene del mondo fino alla prossima - poi vi augurerò tutto il male del mondo. UN BACIONE GIGANTE, CIAUUU!!!

​Alicat_Barbix

 

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