A Monster

di Cress Morlet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alive, Alone ***
Capitolo 2: *** Cold Symphony ***



Capitolo 1
*** Alive, Alone ***


Alive, Alone Salve a tutti! Un immenso grazie a chiunque vorrà leggere questa mia mini-long a cui tengo molto e che mi è entrata nel cuore, momento dopo momento.
Avviso preventivamente che ci sono importanti Spoilers, infatti il mio testo si colloca idealmente dopo le vicende (traumatiche è dire poco) di Avengers Infinity War. Per chi ha visto il film sa benissimo cosa accade proprio nei primi dieci minuti.
Orbene la mia storia è completamente un'opera di fantasia e non vuole in alcun modo cercare di spiegare o immaginare eventi futuri del MCU e mi scuso se ci saranno delle imprecisioni. Io non ho mai letto i fumetti quindi ho sicuramente una visione personale e limitata del Mondo Marvel ma ho rivisto tutti i film prima di scrivere questa mini-long quindi spero, almeno su questo versante, di essere il più precisa possibile. I miei più sentiti ringraziamenti a Jill Butler, per avermi dato la forza di pubblicare. Sei un tesoro immenso.
Spero davvero possa piacervi!





                                                                                                        A MONSTER

There is no Thor without Loki
-Tom Hiddleston


Ever since I could remember,
Everything inside of me,
Just wanted to fit in
I was never one for pretenders,
Everything I tried to be,
Just wouldn't settle in
Monster, Imagine Dragons





“Loki. Loki, sono io. Torna a casa.”
No. No, sto bene.
Tra l’intricato velo nero e il buio più profondo dell’esistenza umana, nella disperazione più dolce dei sentimenti freddi.
Al ghiaccio, solo, con la pelle livida e tesa fino a non poter più tremare.
Morto.
Sto bene qui.
“Loki.”
Morto.
“Loki”
Si poteva morire con la neve negli occhi? Solo con un cielo squarciato e caduto a terra.
Allora sì. Allora si moriva con i fiocchi di neve tra i denti, cantando l’oscurità più indecente.
“Sono io, ti prego.”
Lasciami. Lasciami, vattene via, lasciami qui.
“Ti prego torna a casa.”
No.
“Ti scongiuro. Ti scongiuro.”
Abbandonami. Sto bene qui.
In eterno su una lastra di ghiaccio, in bilico su un precipizio, sotterrato da pezzi di stelle cadenti, con il collo ancora piegato in una maniera innaturale.
Non sento nulla.
“Loki, sono io e sono qui, non mi muovo. Sono qui. Sono qui, sono qui, sono qui... Ti prego.”
Non c’è odio. Alla fine ci sono solo i rimpianti e poi il nulla, l’assenza.
Lampi dissacranti sulle sue guance blu, dolore per i suoi occhi ancora aperti.
Sta nevicando. Ecco perché ho neve in bocca.
“Loki”
Ho freddo.
“Torna a casa.”
E dove è casa? Dove si trova?
“Ti sto aspettando, non mi allontanerò. Mai più.”
Le promesse erano il peggior veleno, quello a cui non si era mai abituato e a cui non era immune.
Si cade una volta, si cade un’altra volta, si cade senza toccare terra e non si smette mai di avere paura.
Anche dopo mille volte, avrà ancora paura del vuoto e di quello che era stato, di quello che è.
Morto.
“Loki... torna.”
Mi sento solo.
“Torna da me.”


                                                                                                   *****



Non amava l’oro.
Non gli era mai particolarmente piaciuto.
Forse un tempo, molto lontano, lo aveva tollerato e apprezzato, senza neppure volerlo.
Sì, non ricordava come e quando, doveva essere successo anche questo.
Ma poi, un anno dopo l’altro, aveva ripreso ad odiarlo.
Una follia, perché ad Asgard tutto era un susseguirsi di gioielli dorati, polvere magica e trionfi. Un tripudio di infelicità ornata di giallo, con venature attorcigliate alle colonne e ai mosaici del suo palazzo, di ogni casa, perfino delle strade più povere e disagiate.
Era stata una tortura, lunga e dolorosa, aprire ogni giorno gli occhi e trovare l’oro perfino sui suoi vestiti, sul suo capo, in tutte le ombre con bordature colorate.
Un male cieco inflitto a lui, per tutti i secondi della sua vita ingloriosa.
Gli era sempre parso uno scherzo di pessimo gusto comprendere come persino il trono non fosse niente di diverso, solo una sedia dorata.
Ma lui era il Re.
Quindi quello era, forse, un male necessario. Ottenere ciò che si brama con una tale disperazione doveva comportare necessariamente un sacrificio di felicità, fosse anche la sua.
Che tutti si inginocchiassero, si prostrassero alla sua grandezza, al suo potere.
Il Re di Asgard, seduto sul trono dorato, nella stanza più immensa, con l’oro che copriva anche le fughe tra le mattonelle del pavimento a mosaico.
Così sia, sia questa la volontà suprema.
Sofferenza nella grandezza e dolore nel momento più acuto del piacere, echi di disperazione in tutti i suoi sorrisi.
Convivere, nei secoli dei secoli, con il colore che gli avrebbe sempre ricordato lui, lo splendore onnipotente incapace di rendersi conto di che cosa si dimenticava negli angoli neri, nel buio creato da se stesso.
Più luce c’è, più oscurità tornerà.
Alla fine mi hai mai visto? Ero lì, mi hai visto?
L’aveva attraversata a piedi lui, l’ombra cieca, l’aveva vista e provata nelle vene, fin dentro le ossa piegate dal freddo e levigate dalle antenne degli insetti.
Lui era morto in quel posto.
Perché allora era su un letto?
“Loki.”
Una mano gli accarezzò il braccio per poi spostarsi sul volto e racchiudere la guancia in un modo calmo e misurato. Gli sfiorò lo zigomo e lui quasi non lo percepì, per quanto era gentile.
“È ora di svegliarsi.”
Lo vedeva già, quel colore maledetto, e dietro le sue palpebre abbassate percepiva la sua limpidezza, con un senso di fastidio estenuante.
C’era un indugiare nascosto in sentimenti che a lui non interessavano, che amava distruggere con un’azione spregevole e crudele. Doveva essere impazzito, ancora di più e sempre in maniera peggiore, altrimenti non c’era motivo per cui non muoversi e pensare solo a cose confuse, idee dimenticate un secondo dopo essere esplose nella sua mente.
“Anche quando eri un bambino facevi così. Stringevi le palpebre per non svegliarti e per far credere a tutti che dormivi profondamente. Io lo sapevo e non dicevo nulla a nostra madre.”
Vissuto da sempre come una bestia affamata alla ricerca di qualcosa, qualcosa di profondo mai trovato, in ginocchio nelle stanze dimenticate del suo palazzo, la fronte premuta sulle ginocchia per soffocare i singhiozzi.
Certi ricordi era meglio lasciarli in catene, erano lì solo per alimentare il suo odio, per darsi la forza di possedere quel sogno metà dorato e metà nero.
Non sapeva neppure lui cosa lo rendesse così smanioso e insoddisfatto, cosa fosse, cosa cercasse e sperasse di ottenere.
Era una bestia, un animale cresciuto in cattività, un orfano abbandonato.
Un buon Re, magnifico e venerato.
Morto.
“Ma ora è tardi. Il sole è già alto.”
L’oro avrebbe brillato come non mai e lui avrebbe ricominciato a provare un senso di nausea, veloce a percorrergli lo stomaco, capace di scorticarlo da dentro.
Tutta la sua intera esistenza era stata marchiata dal male e dal dolore, ogni secondo un chiodo su cui camminare a piedi scalzi.
Mai, non aveva mai conosciuto cosa fosse la pace.

Thor spostò la mano verso la sua mandibola, scese piano a toccargli il mento e poi le ossa della gola, indugiando al livello della giugulare.
Gli bruciarono i palmi e un pensiero solo si fece largo tra gli altri, una certezza che gli strinse la pancia talmente forte da dare un sapore acido alla saliva, un fastidio tra i denti e la lingua attaccata al palato.
Era vivo.
Cominciò a tossire e gli sembrò che i polmoni fossero contratti, fossero stretti in un pugno, in un modo tale da impedirgli di respirare. Aprì gli occhi e cercò confusamente un appiglio, scostò il lenzuolo ma non riuscì a sollevare il petto, pesante e duro.
Non riusciva a far niente che non fosse cercare aria, aria, un respiro.
Gli occhi diversi di suo fratello cercarono i suoi e poi le sue mani gli circondarono il volto, bloccandolo, mentre lo pregava per qualcosa di cui lui non riusciva a distinguere le parole.
Era solo un ronzio fastidioso, uno spillo nel timpano.
Aiutami.
Prese aria dalla bocca aperta ma vide dei lampi viola dinanzi alle sue pupille e percepì di nuovo quel sapore acido e nauseante risalirgli la gola.
Aria, aveva bisogno di aria.
Si aggrappò alle braccia di Thor e strattonò la manica del suo abito, tentò di rispondergli ma ricominciò a tossire e sputare, ispirò altra aria e ancora gli uscirono dei rantoli soffocati.
Aria.
“Loki, guardami. Concentrati e guarda me.”
Thor scosse le sue spalle e non lo lasciò andare, veloce gli allontanò i capelli dal viso e dalle labbra, posò un palmo sulla sua fronte e l’altro sul cuore, come a contare i battiti, per accettarsi fosse tutto vero.
Perché lui era un morto che aveva bisogno di aria.
“Respira. Respira pianissimo.”
Passò una mano fra i suoi capelli neri e poi la riportò sulla fronte, quasi massaggiandogli le tempie.
I morti non respirano.
“C-cosa...”
“Respira.”
Avvicinò il volto al suo, adagiato su un cuscino e distorto dagli sforzi di non vomitare, e lo costrinse a guardare solo la sua espressione preoccupata.
Perché erano a quel punto? Perché non poteva... aria, aveva bisogno di aria. Aria.
Loki inspirò dal naso e lentamente cominciò a lasciare dei respiri, fiato contro la barba bionda dell’altro Re, contro le sue labbra e il mento.
Continuò a stringere forte i gomiti di Thor, senza accorgersi delle mani che tremavano incontrollabili insieme al suo corpo.
“Respira insieme a me. Va tutto bene, andrà tutto benissimo.”
Bugiardo, da quando hai iniziato a mentire così sfacciatamente? E ancora così male, ti sei esercitato ben poco.
Stupido figlio di Odino, troppo nobile e giusto.
Stupido e basta. Stupido.
“Thor”, sussurrò, e socchiuse per un momento gli occhi, non comprendendo cosa ci fosse nello sguardo dell’uomo che aveva tanto odiato, se fosse sollievo o qualcosa di diverso, di estraneo a entrambi.
Perché i morti non possono parlare.
Inspirò ed espirò, alleviando il dolore al petto e la stretta allo stomaco.
“Thor, che cosa hai fatto?”, domandò, e lo sforzo gli strappò una smorfia e lo costrinse a rannicchiarsi contro l’ampio torace del fratello.
Stupido, perché sono qui? Dove sono?
“Sei tornato a casa. Questo è l’importante.”
A quale prezzo?
Meraviglioso e splendente oro della mia vita, adesso che cosa mi hai fatto?
L’odio più profondo io l’ho imparato da te.
“Thor”, mormorò, e il suo tono era urgente, agitato.
“Conserva le forze e riposa. Abbiamo tempo, fratello.”
E da quando i morti hanno il tempo dei vivi?
Alzò il viso e respirò male, troppo forte, quasi fosse una bestia ferita, e per sbaglio gli graffiò la pelle dell’avambraccio, nel tentativo di non cadere o scivolare.
Le gambe tremarono ancora e lui vide le sue coperte dorate fasciargli il corpo, il pavimento luminoso, le pareti brillanti.
Il suo incubo era ovunque, fino a sovrastarlo con carne e sangue.
Specchi sul fondo della sala e una finestra immensa, ogni cosa riflessa nell’altra, in un gioco studiato.
C’era davvero il sole alto nel cielo.
“Il Sole sta morendo”, disse, e una certezza lo piegò fino a spezzarlo e accartocciarlo.
Vogliono ucciderlo e un crimine del genere è perverso, crudele e inimmaginabile persino per un mostro come lui.
Fratello, vogliono uccidere il Sole.
La vista si appannò e si accorse tardi di alcune lacrime lungo le sue guance, di gocce cadute leggere tra loro due.
Un respiro fu più difficile, più graffiante, e poi il petto si rilassò insieme ai nervi delle sue dita bianche.
Spostò lo sguardo rapidamente per tutta la stanza e un pensiero si spezzò in più parti nella sua mente, disgregando la sua lucidità.
La finestra era troppo grande, gli specchi gli restituivano un’immagine sfalsata, impossibile, e poi il cielo... il cielo era bellissimo.
Ti darò tutto ma ti prego salva il Sole, salva il Sole, salva il Sole. Sta morendo.
Capì tardi che i singhiozzi erano suoi e il formicolio alla nuca un messaggio di avvertimento, un segnale da ricordare.
C’era il male vicino a loro, perché le stelle muoiono mangiandosi lentamente e qualcuno vuole ucciderle tutte, a qualsiasi costo.
Il Sole sta morendo.
I singhiozzi erano lamenti e le spalle sussultavano a scatti mentre un dolore alla fronte gli impediva di capire quale fosse la realtà, cosa esistesse davvero.
La luce lo accarezzò e a lui sembrò volesse donargli un ultimo sprazzo di vita.
Non era morto? Perché era vivo?
“Il Sole.”
Quale mostro?
“Loki, ascoltami.”
Quale mostro ucciderebbe il Sole?
“Il Sole sta morendo”, biascicò, mordendosi la lingua.
Thor gli fece posare la testa sulla sua spalla e lo abbracciò, lo rinchiuse tra il suo addome e il materasso senza permettergli di muoversi, di vedere la stanza sempre più luminosa con le ombre rannicchiate ai quattro angoli.
Fa troppo male. Salvalo, salva il Sole.
Era come essere fuori dal proprio corpo e allo stesso tempo troppo dentro. Sentiva tutto e all’improvviso non sentiva niente.
Non era abituato, non dopo la morte, a tutte quelle emozioni e sensazioni, a quell’equilibrio precario che era la vita di ogni uomo.
E aveva ancora paura di morire, dopotutto.
Quanto era patetico.
“Il Sole morirà.”
Singhiozzò contro il collo di suo fratello e il capo cominciò a ciondolare senza forze mentre lui ripeteva, come una cantilena, sempre le stesse parole.
Provò a nascondersi dalla luce ma l’oro sembrava volerlo seguire, vendicandosi e tormentandolo.
Con la voce pastosa continuò a parlare, gli disse cose che non comprendeva e non ricordava, prendeva poco fiato e muoveva le labbra così vicine al suo orecchio da poter trascinare ogni sillaba delle sue frasi folli.
Perché lui era lì? Perché era vivo?
Il Sole sta morendo, salva il Sole.
E chissà perché a lui interessava tanto della salvezza di una stella già morta e agonizzante.
È una stella dorata, salvala.

Thor continuò a proteggerlo, con le braccia intorno alle sue spalle e le mani tra le scapole sporgenti, il mento tra i suoi capelli. Loki gli strattonò la maglia rossa, percorrendogli tutta la schiena.
Che sensazione strana.
“Il Sole morirà ancora”, disse, e assaggiò le sue lacrime.
Avrebbe dovuto odiarlo, quell’oro regale, avrebbe dovuto desiderare la sua morte.
Dove sono? Che cosa è successo?
Avrebbe dovuto fregarsene.
Sono vivo?
Ma gli ricordava qualcosa.
Morire non era il mio solo diritto?
Qualcosa di bello.
“Non permetterò a nessuno di far del male al Sole”, gli promise Thor, fronte contro fronte.
E il buio lo accolse come una benedizione.


                                                                                                   *****


Non... non capisco.
La luce soffice delle candele illuminava fiocamente la stanza e gli angoli avevano le sembianze di buchi neri, profondi, da cui sarebbero potuti sgusciare i suoi peggiori incubi, figure disumane con zanne e artigli macchiati di liquido scuro e denso.
Non gli piaceva, lo nauseava, quel nero poco chiaro, appena rischiarato da sottili lingue gialle, perché gli ricordava l’oscurità avvolgente delle tombe scavate nei sotterranei del palazzo.
Gli oggetti apparivano talmente impalpabili da avere la consistenza di un sogno, di un incubo lontano e distorto dalla febbre. L’aria stessa strisciava gonfia e lattiginosa, come graffiata da gusci di noci rovinate.
Un’atmosfera lugubre e decadente pesava sul suo capo, un odore di bruciato si alzava verso l’alto, stordendo i suoi pensieri e le sue palpebre stanche.
Ogni cosa assomigliava ad una veglia funebre antica e l’idea lo divertiva e disgustava al contempo.
Represse un sorriso storto, mangiucchiandosi le labbra, e deglutì piano pensando di poter acquietare la sua ansia.
I suoi respiri lenti seguivano il ritmo dettato dal dito indice che ticchettava contro l’unghia del pollice. Le braccia erano rigidamente stese lungo il corpo mentre le gambe, ferme e troppo pesanti, erano attraversate da un bruciore doloroso ai muscoli e ai tendini.
Non andava bene, no, non andava affatto bene.
Eppure qualsiasi male e fastidio sarebbero stati sempre preferibili all’assenza, al vuoto, al mero niente da cui era tornato.
Sano e salvo, finalmente a casa. No?
Agitato, una goccia fredda di sudore gli strinse la nuca, avvolgendogli il mento come una sciarpa di ghiaccio.
L’angoscia gli attanagliò lo stomaco con un violento calcio e una sensazione sgradevole camminò su tutto il suo corpo.
Certo, lui lo sapeva.
Lo aveva scoperto da bambino e aveva accettato il compromesso della vita, si era piegato al dazio ed era sceso a compromessi con la realtà dei fatti, come ogni dio e sovrano esistente.
Sei vivo solo se soffri.
E quindi lui aveva vissuto più di chiunque altro, non era così?
Almeno, in quel modo, la sofferenza avrebbe avuto un senso.
Tutto quello che aveva patito e le bugie in cui aveva vissuto rigirandosi tra esse come un corpo nudo tra le lenzuola, allora tutto avrebbe avuto un suo fine ultimo.
No?

Gettò lo sguardo verso destra e riuscì solo a intuire il buio oltre le finestre, la notte nera calata a togliere colore al cielo.
Del pulviscolo pioveva e danzava fra le pozze di ombre chiare, si depositava lento sulle superfici di legno intarsiato con linee decorative.
Le fiamme delle candele si prostravano sulla cera, in un inchino ironico alle sue pupille offese dalla luce, a causa della prolungata oscurità. Un cieco orrore da cui nessuno sarebbe dovuto tornare, se non più folle di prima.
Lui si era svegliato da poco o forse no, non era vero, forse osservava ogni angolo di quella stanza da ore, procrastinando il momento della lucidità, del capire perché aveva ricominciato a respirare e pensare.
Non si chiedeva da dove derivasse quella paura, il terrore morboso di alzarsi e parlare con qualcuno che, di grazia, avesse il buon senso di riferirgli la verità.
Quanti secondi esistono nella fine eterna? Ci sono i secondi?
La sedia posta vicino al suo letto era vuota e nessun rumore disturbava quella calma innaturale, anche i suoi respiri erano silenziosi, a volte trattenuti.
Non c’era nessuno oltre lui, non sotto quel soffitto decorato con le immagini trionfanti delle prime campagne militari di Asgard.
Suo fratello alla guida di un immenso esercito, le mani sporche di sangue e lo sguardo spietato in nome della pace.
Risplendeva tra i suoi fulmini, brillava da solo pur tra migliaia di altri uomini valorosi, aveva l’aspetto di un Sole risorto dopo centinaia di anni di prigionia.
Un’illusione appagante.
Ancora l’oro, di nuovo l’oro, sempre l’oro.
Cosa era successo prima? Quanto tempo era trascorso?
Le finestre erano chiuse e refoli di vento filtravano dalle fessure sottili, le tende verdi coprivano i vetri e strisciavano fino a toccare il pavimento.
Non vedeva altro se non pochi mobili, una specchiera in penombra, le immense porte di legno scuro con i battenti di ferro.
Vivo e solo.
Nulla di diverso dal solito, quindi.
Abbandonato, da quando aveva modo di ricordare, in un’estenuante solitudine di anni e anni, costretto a vedere solo se stesso nel riflesso di ogni specchio.
Un pugnale seghettato, piantato costantemente al centro della sua schiena, tra le vertebre, a imperitura memoria che i primi a tradire sono sempre i familiari più devoti.
Lui, solo, lo era stato dalla culla. Ad ogni pianto senza un abbraccio, ad ogni ferita senza cura, ad ogni desiderio espresso mai realizzato.
Ogni giorno aveva osservato se stesso in uno specchio, ore perdute della sua giovinezza, e tutte le volte aveva trovato solo i suoi lineamenti più induriti, affilati. Malvagi e cattivi nel momento esatto in cui aveva deciso di seppellire qualsiasi buon sentimento.
Solo, da sempre e per sempre.
Solo, con la sua rabbia di orfano non voluto e destinato alla morte.
Solo e basta.
Il figlio bastardo lasciato su una roccia di ghiaccio.
E nel suo tormentarsi aveva ignorato l’esistenza di alcuni istanti, brevi e quasi impossibili, in cui chiudendo gli occhi aveva visto il suo volto sorridergli.
Combatterò per sempre al tuo fianco, Loki.

Una rabbia improvvisa, un capriccio infantile, lo animò scorrendo nelle vene.
Lui poteva essere vivo ma il ragazzino infelice e desideroso di essere guardato, apprezzato, lo aveva ucciso e fatto a pezzi da tempo e con le sue mani.
Io e te insieme, non è meraviglioso?
Con le braccia si fece forza, strinse il materasso e il lenzuolo nei pugni, digrignò i denti soffocando diverse maledizioni ma sollevò il petto e si mise seduto, la schiena contro la testiera.
Non ho un desiderio più grande di questo, Loki.
Un coltello nel suo addome avrebbe fatto meno male, perché non gli avrebbe spezzato il fiato in quel modo, chiudendogli la gola secca e contraendogli i muscoli del viso.
Lo aveva sempre colpito a tradimento, una spirale infinita di ferite mai curate, aperte dal sale e dall’aria.
Non ci separeremo mai, Loki.
Vivo, solo e in difficoltà. Davvero nulla di nuovo, una replica amareggiante di tutta la sua vita.
Gettò le coperte di lato e scoprì i suoi abiti aderenti blu, i pantaloni fascianti che lo coprivano fino alle caviglie e le maniche larghe della maglia che rendevano goffi i suoi movimenti.
Voleva alzarsi e trovare un rifugio vicino, correre veloce e mettere tutta la distanza possibile tra lui e il suo ingestibile fardello.
Ovunque ma non lì, non più.
Perché sotto pelle, tra le macerie nascoste del passato, c’erano ancora le sue parole e le sue frasi capaci di tagliare via ogni superflua resistenza.
Mi fido solo di te, fratello.
Toccò le sue gambe e si rese conto che erano pesanti solo perché addormentate, un sottile pungere di spilli lungo tutta la sua carne.
Una nuova fitta al costato gli fece tremare i polsi, lo costrinse a serrare la mandibola mentre allontanava alcuni cuscini, quelli posti ai lati del letto affinché lui non cadesse.
Non era il momento di stracciare i veli patetici degli anni passati, di svelare alcuni segreti che aveva preferito mantenere anche con se stesso, pur di non impazzire del tutto.
Doveva agire e, se necessario, fuggire.
Doveva ritrovarsi distante da quella camera e poi dalla città, pianeta, qualsiasi cosa fosse quel mondo su cui lui ora aveva posato i piedi.

Si diede schiaffi alle cosce e premette i talloni contro il pavimento, imprecò contro le ginocchia che si rifiutavano di rimanere piegate e afferrò il bordo del materasso, arrossandosi i palmi nel tentativo di alzarsi e reggersi sulle sue gambe.
Provò una volta, un’altra, un’altra ancora ma ricadde sempre sul posto, con i capelli sudati che si attaccavano alle tempie.
“Maledizione.”
Un pugno contro il femore, poi di nuovo uno schiaffo.
“Maledizione. Maledizione!”
Neanche fosse una bambola di pezza scucita in tanti batuffoli di cotone.
Si passò rabbioso una mano tra i capelli e forzò i muscoli al limite, sentendo degli strappi al livello di ogni giuntura.
Si morse le labbra e deglutì sangue, respirò con affanno, stanco, e quando scivolò a terra rise perché, cercando di aggrapparsi al comodino, lo aveva trascinato a terra con sé e gli oggetti lì sopra si erano rotti, in piccole schegge di vetro riflettenti solo una parte del suo volto.
“Maledizione”, ripeté, e rise con la bocca chiusa, la lingua tra i denti.
Sono fiero di te, Loki.
Davvero, Thor? Sei sempre stato fiero di me? Sempre?
Accucciato sul pavimento, come una bestia, un mostro ferito a morte.
La vita nella sofferenza, l’unica realtà che aveva conosciuto meglio di qualsiasi altro derelitto nell’universo.
Nulla di nuovo per il Principe Bastardo, il mancato Re.
Tutto sempre uguale.
Quanti secondi esistono nella morte?

Si mosse a tentoni e si ferì i palmi per sbaglio ma all’ultimo trattenne un lamento, sentendo dei rumori provenire dal corridoio adiacente alla sua stanza: un ordine imperioso e delle chiavi girate nella toppa, ingranaggi scattati in uno schiocco di dita.
Mai, fratello, mai.
La porta si aprì e dei passi lo raggiunsero velocemente, il rimbombo delle scarpe sul pavimento fu come il rintocco di una campana lanciata contro le pareti di un campanile. Il passo militare di un soldato tornato dal fronte, di nuovo a casa.
Lui conosceva quei passi.
Non ti abbandonerò mai, fratello.
Loki guardò tra le fughe delle mattonelle e sorrise aspirando la polvere, gli stivali del Re sotto il suo naso.
Tossì, trattenendo dei rantoli sottili, e poggiò le rotule a terra, spostandosi con i gomiti.
“Sono in ginocchio ai vostri piedi. Altezza.”
Sollevò gli occhi e non abbassò lo sguardo, nonostante Thor lo osservasse incredulo.
Non era poi cambiato molto, no.
Era solo più stanco, con le occhiaie viola a contornare i suoi tratti e le rughe vicino agli angoli delle labbra.
“Vostra Grazia, desidera altro?”
Parlò aspro e l’amarezza delle sue parole la gustò sotto la lingua e sul palato, infischiandosene del sapore pungente.
Lo guardò e non poté trattenersi dal sorridergli più sfacciatamente.
Oh, l’aveva promesso.
Ed era suo fratello quello che manteneva ogni giuramento, a qualsiasi costo, anche massacrando parti del suo onore e di amor proprio, l’eroe disposto a morire in nome della parola data.
Lui era lo spergiuro, il menzognere, l’uomo che faceva promesse solo per non mantenerne nessuna, con il gusto sadico di vedere la tristezza negli occhi della persona tradita.
Era la loro natura ciò che li aveva fatti arrivare a quel punto, fermi lì a fissarsi.
L’uno in piedi e l’altro steso sul pavimento, a vedere chi per primo avrebbe abbassato le armi.

“Vostra Grazia, desidera di più? Per esempio la mia imperitura... fedeltà?”
E alla fine suo fratello aveva davvero attraversato l’Inferno pur di salvarlo.

Strisciò sulle ginocchia e premette di nuovo le mani sui cocci di vetro, la pelle livida e un pizzicore pungolante sotto le unghie.
Ogni promessa è un debito da pagare con gocce di sangue, lacrime, sudore sporco.
Loki schiuse le labbra per dire qualcosa di dissacrante ma Thor cadde pesantemente dinanzi a lui e si chinò a stringerlo fra le braccia, piegate intorno alla sua schiena in una presa ferrea, disperata.
Non li voleva i suoi abbracci, non se ne faceva niente, ora non servivano più.
Cercò di allontanarsi, colpendo le sue spalle e il petto, scostandosi dalle sue carezze -invadenti, attente.
Con il naso affondato nella curva del suo collo sentì Thor respirargli nell’orecchio, a fatica.
Una strana consapevolezza gli ruppe le costole, gli sciolse la lingua in una domanda.
“Hai pianto?”
Trasalì quando il fratello gli afferrò il mento e lì si accostò con le labbra, silenzioso.
“Hai pianto?” ripeté.
Un gelo fin dentro le sue ossa lo costrinse a poggiare un fianco quasi per terra, scivolando all’indietro sulle mattonelle a mosaico. Tirò la sua maglietta e poi anche la pelle e la barba mentre la tensione del suo corpo vicino gli fece piegare il volto, arrossato per lo sforzo.
“Ho pianto. Come tutte le altre volte”, gli rispose Thor, a bassa voce.
Una bellissima disperazione sulle sue labbra.
“Quale onore” lo schernì, girando il viso verso la specchiera.
I dolori più dolci li aveva sempre provati contro il suo petto.
L’equilibrio perfetto sul ciglio di un abisso infinito, l’essenza del suo cuore maledetto.
Aveva vissuto così, ogni momento di ogni giorno di tutta la sua vita.
Il mostro solo e disperato, cresciuto a pane senza sale e illusioni magnifiche.

Scalciò e tentò di sgusciare via dal suo tocco, di aggrapparsi al tessuto del tappeto verde poco distante da lui, di nascondersi perché era troppo debole.
Aveva poche forze e nessuna volontà di resistere a lungo, non con quella sensazione di dite congelate avvolte intorno alla sua nuca.
“Sei solo stanco e sei confuso.”
“Smettila di toccarmi!”
Sbatté i pugni e le ossa scricchiolarono dopo aver colpito il terreno duro mentre i capelli gli coprivano le guance incavate, rosse nello sforzo di non balbettare.
“Non toccarmi e dimmi cosa hai fatto al mio viso. Cosa hai fatto a me.”
Non esiste fine al male che sei capace di infliggermi. Puoi solo continuare, vero?
Thor non si scompose e rafforzò la presa nell’incavo morbido tra le sue braccia e il petto, lo aiutò a sollevarsi da terra nonostante lui continuasse a dimenarsi e a maledirlo.
Si ritrovò seduto tra le lenzuola arrotolate, le ginocchia scontratesi contro l’angolo del materasso, i polpacci rigidi e i muscoli esausti.
Loki gli lanciò contro tutti i cuscini, quei guanciali sgualciti gettati prima ai piedi del letto, e con rabbia gli fermò i polsi, affondando le unghie nella pelle calda.
“Come hai fatto? Questa è l’opera di un disperato e, fidati, io so riconoscere la disperazione. A chi ti sei venduto?”
Lo guardò negli occhi e vide che il grande Re lo stava osservando in una maniera infinitamente triste.
Aveva gli occhi ancora rossi per il pianto.
“A chi mi hai venduto?”, insistette, adirato.
Ma suo fratello continuò a guardarlo e dietro il suo sguardo c’era qualcos’altro, qualcosa di più pericoloso.
Un mostro lo stava divorando dall’interno, consumandolo un pezzo alla volta, lentamente.
Simile a una stella senza punte, simile a un pensiero abbracciato al suo tallone destro.
Cosa ti ha ferito più di me?

Thor si avvicinò, attento a non toccargli il viso, ma dei fili invisibili li incatenavano, li univano ancora. Come era sempre stato.
Che cosa mi hai fatto?
“Mi sei mancato, Loki.”
Con un pollice il Re sfiorò da lontano la sua guancia e lui si ritrasse, mordendo le labbra fino a spaccarle.
“Cosa è successo?”
“Lo rifarei, lo rifarei mille volte.”
E diceva il vero: lui non era pentito.
Fu un ennesimo schiaffo contro un volto già offeso, qualcosa che non si sarebbe mai aspettato da un uomo tanto buono e giusto.
Un pugnale più affilato che riapriva ferite di cui erano rimaste solo cicatrici bianche.
“Vostra Altezza allora dimostra un desiderio di vendetta mai appagato. Un odio profondo, un appetito mostruoso.”
Gli lasciò il polso e un senso di oppressione gli avvolse la testa, inducendolo a chiudere gli occhi.
Ma vedeva il suo volto, ancora, anche con le ciglia abbassate.
“Ora dovrei ringraziarti, dunque? Pretende questo l’etichetta?”
“Devi calmarti, Loki.”
“Io ero morto”, sibilò, a denti stretti.
Sentì la sua mano accarezzargli l’orecchio e lì rimanere, immersa tra i suoi capelli.
Come una nuova prigione, un luogo di disperazione da cui sarebbe stato difficile fuggire.
Il pollice sulla sua guancia era un piacere sottile di cui non aveva mai dimenticato il sapore, una morte oscura che aveva ripudiato strappandosi il cuore dal petto, scavando a mani nude.
Neppure le ceneri erano rimaste di quel bambino sofferente, non c’era più niente.
“Te lo prometto, fratello. Andrà tutto bene.”
Le sue dita, di nuovo, si spostarono a sfiorare le ossa della sua gola, nel punto esatto in cui avrebbe dovuto esserci qualcosa di rotto.
Lui manteneva sempre le promesse.
“Sei un folle, Thor. Sei un folle.”





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Capitolo 2
*** Cold Symphony ***


Cold Symphony Note di introduzione.
Ciao a tutti. Eccoci qui, al secondo capitolo. Io sono basita perchè non credevo sarei mai riuscita a finirlo e perchè allo stesso tempo questo capitolo mi ha prosciugato. Spero la lettura possa essere piacevole nonostante tutto, lo spero con il cuore il mano. Volevo solo dire che io ho un profondo e totale rispetto per questi personaggi, in particolar modo per Loki, e che ho provato con tutte le mie forze a non snaturarli e a dar loro onore e giustizia. Purtroppo credo di aver miseramente fallito e di questo mi dispiace, mi dispiace molto. Li lascio a voi, con la speranza che questa storia vi possa piacere nonostante i suoi innumerevoli difetti.
Un grazie a chi leggerà.
Un immenso grazie e abbraccio a Jill Shitsuji, Victoria Buchanan, Mari Lace e Miryel, per ascoltare i miei deliri quotidiani e sopportarmi, supportarmi. Siete delle meraviglie.
Grazie ad un mio amico che ormai è lontano.






And... there is no Loki without Thor
-Tom Hiddleston

If I told you what I was,
Would you turn your back on me?
And If I seem dangerous,
Would you be scared?
I get the feeling just because,
Everything I touch isn't dark enough
If this problem lies in me
Monster, Imagine Dragons


Esistono delle realtà, verità sottili e sussurrate alle orecchie degli uomini, capaci di spezzare la vita con dolcezza, lentamente.
Con amore.
Si narrano piano, per non turbare l’innocenza degli infanti, e si rivelano con un sorriso, per rendere dolce anche la morte.
Lui, a raccontare storie, non era mai stato bravo, come non era mai stato abile a capire quando qualcosa iniziava e quando finiva, dove trovare i limiti dei punti e dei silenzi.
Una parola avrebbe potuto riassumere la crepa della sua vita, il nodo sciolto che aveva fatto cadere le linee di un gioco secolare.
Ghiaccio.
Ghiaccio tra le sue mani e nel suo cuore.
Spine di acqua solidificata in grado di viaggiare nelle sue vene e di tagliare i suoi nervi.
Il gelo era semplice nella sua crudeltà, era un fenomeno naturale efficiente a spaccare i vasi capillari di un essere vivente e a lasciare segni evidenti del suo passaggio, come macchie blu e viola, larghe e disomogenee.
Segni premonitori di morte.
Arterie ristrette, alta pressione e sangue viscoso erano un deterioramento, uno sfaldarsi un pezzo di pelle alla volta.
Non era necessario studiare i suoi effetti e i suoi traumi consequenziali su un volume medico o su un’enciclopedia tecnica, non ad Asgard, perché bastava cercare un banale libro di favole antiche da cantare e narrare ai bambini.
Lo sapevano tutti i padri e le madri, lo avevano imparato da piccoli grazie ai loro genitori, e conoscevano l’importanza di raccontare ai loro figli, come favola della buonanotte, la cattiveria e la mostruosità dei Giganti di Ghiaccio.
I mostri crudeli che rapiscono i neonati, li mangiano, gli abomini della natura capaci di massacrare intere specie, i mostri rei di aver tentato di vincere contro il nobile popolo asgardiano.
I Giganti di Ghiaccio non erano anime buone e nessuno poteva illudersi del contrario, nessuno avrebbe mai contradetto le favole lette dalla propria amorevole madre, a voce bassa e con passione.
A letto, al caldo, sotto le coperte, al sicuro, ad ascoltare gli orribili crimini di una stirpe maledetta, fredda e senza cuore.
Lui lo sapeva meglio di chiunque altro.
Da uccidere tutti, una carneficina e un orrore di urla, pianti e preghiere. Un’intera specie da estirpare, sangue eterno tra i palmi e i capelli, negli occhi e sui vestiti.
Morte ai Giganti di Ghiacci, stirpe corrotta, e lunga vita ad Asgard.
E vissero tutti felici e contenti.


Loki sollevò le palpebre e si costrinse a non mostrare alcun segno di debolezza, a non distruggere la stanza e a non fare altro se non osservare l’immagine che lo specchio gli restituiva, respirando piano e mantenendo un atteggiamento algido e distaccato.
Il suo viso era diviso.
Non in una perfetta metà, non in maniera simmetrica. Era piuttosto una maschera di cui si erano persi dei pezzi.
Nessuna illusione, nessuna finzione: lui era davvero così orribile.
Il lato destro era il volto di sempre, l’aspetto che aveva scelto di continuare ad indossare, la pelle bianca e i tratti di un nobile asgardiano.
Una piccola bugia, un inganno a cui anche lui aveva voluto soccombere, spinto dall’abitudine e da un mai irrisolto desiderio di appartenenza.
Il lato sinistro, invece, era ciò che aveva celato al mondo e ai suoi ricordi, ai suoi incubi notturni.
Il Gigante di Ghiaccio, il neonato piangente in un Tempio.
Poche volte, -mai-, si era osservato allo specchio con il suo reale aspetto.
Aveva preferito rinnegare, celare l’abominio non rivelato, non detto spontaneamente.
La sua guancia sinistra era blu e attraversata da delle linee bianche, l’occhio sinistro era rosso e gli conferiva un’aria spaventosa, obbrobriosa.
Un mostro.
“Dovrebbe alzare il mento e dirmi-“
“Deve subito andarsene da questa stanza o giuro di ucciderla, non importa come. Dovessi impiegarci cento anni, lo farò comunque.”
Distolse l’attenzione dallo specchio posto dinanzi a sé e riservò il suo disgusto all’ingombrante figura del Guaritore che si trovava in piedi, vicino alla sua sedia.
Era stato convocato personalmente dal Re ed era accorso in piena notte nella grande stanza dorata, in maniera efficiente e servile, quasi stucchevole.
Aveva domandato, con un inchino, come poteva servire il suo Signore, come poteva aiutare.
Vecchio, grasso, tedioso come una vipera in seno: l’immagine perfetta di un cortigiano, pronto a tutto pur di scalare i ripidi gradini delle classi sociali.
Aveva reso un supplizio le ore successive, con i suoi quesiti e il suo annuire e il pensare e ripensare, indovinare, il suo credere di sapere e poi no, ogni cosa da riconsiderare.
Perché forse era meglio fare così, forse era meglio non muoversi, forse era meglio sforzarsi, forse, forse, forse.
Forse era meglio rimanere morto.
Tante parole vomitate e nessuna spiegazione, tante supposizioni fantasiose e nessuna certezza a cui rifarsi.
Ora era quasi mezzogiorno e la lunga tortura non pareva voler giungere al termine, proseguiva senza interruzioni sotto l’attento sguardo di Thor.
“Vorrei solo accertarmi dello stato della sua salute, Signore. È importante.”
Loki strinse con forza le mani intorno al bordo del legno e gli indirizzò un’altra occhiata velenosa, una smorfia di rabbia esasperata dal suo nuovo volto.
Un piccolo effetto collaterale.
“Riprenderà a camminare prestissimo, basterà solo esercitarsi” continuò, stoico, quell’omuncolo insignificante, futuro pasto di formiche e insetti sporchi.
Bile di esasperazione grattò la sua gola e un fastidioso senso di impotenza artigliò le sue costole fino a sfondarle.
“Lei desidera ardentemente essere trucidato. Un Guaritore masochista non l’avevo mai incontrato, di solito sono sadici.”
Delle mani posate pesantemente sulle sue spalle lo bloccarono, lo fecero così velocemente da non lasciargli neppure il tempo di iniziare a pensare a tutti i modi in cui poter torturare quel patetico medico.
Adesso ti ricordi di intervenire? Mi onori troppo.
Suo fratello doveva essersi allontanato dalla finestra su cui ore prima si era appoggiato, la schiena curva e le braccia conserte ad osservare in silenzio quel teatrino grottesco, e ora aveva deciso di trattenerlo dal compiere un omicidio.
Sempre molto premuroso, con gli altri.
“La ringraziamo per i suoi servigi. Mio fratello adesso è stanco, ha bisogno di riposare.”
Lui tentò di sgusciare via e Thor strinse più forte le sue spalle, schiarendosi la voce con un colpo di tosse.
Sempre molto gentile, con gli altri.
Un insistente pungere di lame gli colpì la nuca, a tradimento, e consumò la sua scarsa pazienza e diplomazia.
Cosa credi? Pensi io sia diverso, che la morte mi abbia cambiato?
“Non parlare per me” sibilò, lentamente.
Parlare con me è più difficile. Giusto?
Chiedere a me, guardare me.
Per te è troppo difficile.
“Le siamo infinitamente grati” proseguì suo fratello, sordo alle sue parole, e allentando piano la presa vicino al suo collo.
Sordo anche ai suoi pensieri, cieco dinanzi a qualsiasi verità, così avvolto nel suo vestito di fede e ideali, -buoni, giusti, magnifici e splendenti-, da non immaginare quanto male potesse infliggere con la sua caritatevole compassione.
Sempre molto, molto stupido.
Dovrei provare gratitudine? È il tuo prezzo?
Riprenditi i tuoi grandi propositi e cuciti un mantello con cui strozzarti. Ti dispiace, fratello?
“Andatevene entrambi. Adesso.”
Loki non si mosse dalla sua scomoda sedia e nel riflesso dello specchio vide Thor annuire, sorridere al Guaritore e poi, con un semplice cenno, congedarlo dalle stanze reali.
Il tratto nobile e regale di ordinare con semplici movimenti, in silenzio, era qualcosa che non gli era mai appartenuto.
Aveva sempre dovuto urlare per farsi notare, fare rumore per essere ascoltato.
Dopo un’intera vita di bugie stese e confuse nel silenzio, nelle omissioni quotidiane, aveva capito di aver bisogno di urla e chiasso, di qualcosa capace di riempire la sua esistenza crollata a pezzi quando gli anni del passato si erano rivelati per quello che erano.
Semplice, stupida, normalissima polvere.
Quindi, adesso basta.
Che fuggissero da lui, corressero lontani, sparissero in mille coriandoli di cenere.
Voleva riflettere da solo.
Era stanco, esausto di condividere la sua aria con altre persone, che se ne andassero via tutti, basta, -per grazia e carità, basta-, lui aveva tollerato la presenza altrui per troppo tempo, troppe ore di niente.
Solo, aveva bisogno di rimanere da solo e del buio, non di quel cielo tanto azzurro.
Odiava le ore del mattino, le ore di Sole, odiava l’oro luminoso intorno a loro.
Odiava ogni cosa capace di ricordargli il passato.
Dovrei provare amore? Dovrei davvero, Thor?
Eppure credevo di essere io, tra noi due, l’illuso.


Con le dita si toccò la gola e si massaggiò il collo, seguendo lentamente il percorso delle ossa fino al mento, e da lì proseguì a sfiorarsi le labbra, distratto.
Le tende erano state tirate e la luce filtrava appesantita dalla polvere del vetro delle finestre, illuminava la camera con pozze di chiari raggi sul pavimento e con una striscia stesa lungo il muro frontale al letto.
Durante la notte appena trascorsa non aveva notato gli affreschi sulle pareti, le immagini di fiori e piante rigogliose, di alti alberi con le foglie dorate e i nomi dei soldati scritti su ognuna di esse con inchiostro rosso e sbavature di nero.
Tutta la stanza era istoriata, le figure dipinte parevano rincorrersi, le une vicino alle altre, ammassate in quadrati e cerchi aperti, in un grande ovale intrecciato alle linee spesse e doppie, bordate con nuove decorazioni floreali.
Un racconto di morti splendenti e sacrifici eroici, una storia a cui non aveva potuto prestare attenzione perché, fino a poche ore prima, il nero della notte appena trascorsa, come una cappa asfissiante, l’aveva coperta fino agli angoli.
Ma ora il Sole era alto nel cielo e, per un momento, questo pensiero indurì i suoi lineamenti, rendendo inguardabile il lato sinistro del suo viso, mentre una strana nostalgia gli fece socchiudere gli occhi.
Si accorse tardi che il grande Re non si era allontanato dallo schienale della sua sedia, anche se il vecchio incapace e viscido aveva già imboccato la strada verso l’immensa porta di legno scuro.
Sì.
Suo fratello era capace di essere molto, molto stupido.
Uno stupido sentimentale.
“Anche tu devi andare via.”
Stese le braccia sul tavolo, tormentandosi i palmi delle mani.
“Loki-“
“Vattene.”
Spostò indietro la sedia e si voltò verso il letto, considerando come poterlo raggiungere senza dover strisciare su mattonelle e tappeti.
Non voleva nessuno, voleva essere solo.
Il suo corpo si ribellava e il suo animo era assediato da sensazioni ambigue, da pensieri folli e idee che solo la mente di un povero pazzo poteva concepire e mormorare in punto di morte.
E lui?
Quanto tempo lui aveva dormito tra quelle coltri, in bilico tra la morte e la vita? Da quanto tempo lui esisteva?
Quando si esisteva?
Portò una mano al colletto dell’abito e ci giocherellò, gli occhi chiusi e il respiro affannato.
C’era rabbia nelle sue vene, serpeggiava lenta mangiando se stessa, piena di risentimento e disperazione, bianca e limpida, quasi fosse lo stesso rancore di anni prima.
Lui si sentiva perso, di nuovo.
“Vuoi sederti sul letto?”
“Cosa devo fare per farti lasciare questa stanza? Cosa devo fare di più?”
Lo guardò e nel sorridere vide se stesso da fuori, si vide chiaramente, con le linee bianche ingrossate sulla guancia sinistra e l’occhio quasi senza pupilla.
Il mostro delle favole.
“Devo ripetertelo ancora? Pregarlo o scongiurarlo? Se urlassi e chiamassi le guardie loro accorerebbero oppure hanno ricevuto l’ordine di obbedire solo a te?”
Si alzò, a fatica, e si aggrappò al mobile più vicino trattenendo un sospiro tra i denti, la lingua contro il palato in uno schiocco secco.
“Vattene, Thor. Vattene via.”
Lasciami riposare in pace, in eterno.
Lasciami rinchiuso in questa torre d’avorio.
“Ti comporti sempre come un bambino capriccioso.”
Non poteva inciampare e non doveva cadere, non adesso.
Loki sollevò lo sguardo da terra e tese le labbra in un sorriso più aperto, più brutto.
Una smorfia di compiacimento, il ghigno di chi ha sempre avuto l’ultima parola in ogni litigio, perché capace di pronunciare frasi crudelmente precise.
Tra le poche cose in cui si era sempre dimostrato eccelso, ma che grande onore, c’era l’arte della parola e la certezza di saper fare del male in ogni scontro verbale, di poter vincere con un solo e letale affondo.
Durante le gare, le giostre e le battaglie del passato aveva potuto dimenticare pugnali o altre armi ma mai, sarebbe stato impossibile, aveva perso il cuore freddo e assassino.
Qualsiasi cosa pur di fare del male e di farsi del male, perché nel suo masochismo glorioso era sempre stato maniacale.
Un’incomprensibile malessere gli graffiò la gola e lui sbatté le palpebre e strinse la cassettiera su cui si era posato prima, non cedendo di un passo.
“E tu rimani uno zotico anche se indossi gli abiti di un Re”, disse, e non cadde in ginocchio nonostante il dolore alle ossa.
E non cadde in ginocchio nonostante la sensazione, pura e magnifica, della punta della lama scivolata a fondo tra le vertebre.
Non cadde in ginocchio, non si gettò implorante ai suoi piedi, anche se lo tormentava l’assurdo desiderio di chiedergli scusa, -scusa, mi dispiace, perdono-, perché era arrabbiato e voleva fare del male e lo faceva sempre a lui.
Prima o poi te ne andrai, dovrai andartene. C’è un limite al male che si può fare sempre alla stessa persona e noi lo abbiamo superato da molto tempo.

Ma lui non piegò le ginocchia e non fece altro, se non ridere a denti stretti.
“È appagante essere Re? Perché mi sembra tu sia distrutto. Oserei dire infelice.”
Thor lo raggiunse in due falcate e gli strinse le guance con il pollice e l’indice, alzandogli il viso.
Allora lui rise ancora, piegando la bocca in una smorfia di finto rispetto e stupore.
Suo fratello gli fece male ma non si lamentò, non uscì un sospiro da lui, neppure quando un bruciore insistente gli pizzicò tutta la base della schiena e lo costrinse a rafforzare ancora di più la presa della mano sulla cassettiera.
“Noto che anche le tue rudi maniere da contadino sono rimaste le stesse, Thor.”
Respirò rumorosamente e digrignò i denti, con il volto imprigionato dalle sue dita calde e ricoperte di cicatrici.
E nel tuo sguardo cosa c’è? Cosa c’è ancora, cosa vuoi?
“Non mi sembra vero che tu sia qui. Ho paura sia un altro sogno.”
Thor aveva parlato a voce bassa senza lasciarlo andare, gli occhi attenti a scrutarlo. Allora Loki strinse a pugno il palmo dell’altra mano e batté le nocche contro il suo petto, nel tentativo di allontanarlo.
Vattene, vattene.
“Per questo mi tocchi così tanto, Thor? Non è abbastanza?”
Sparisci.
“Sei reale. Non mi sembra ancora possibile.”
Ma suo fratello ancora non lo ascoltava e continuava a parlare lentamente, rivolgendosi solo a se stesso in un mormorio sottile.
Colpì un’altra volta il suo sterno protetto dal completo rosso e poi si fermò, come se avesse inflitto quei colpi a se stesso e i suoi polmoni si fossero raggomitolati e accartocciati tra le sbarre delle costole.
Non si impara mai a cadere.
Il palmo della mano con cui lo aveva colpito era diventato blu e ora la pelle bianca cercava di riaffiorare.
Lui non imparava mai.
“Cosa ti aspettavi? Cosa credevi di ottenere con questo? È una follia peggiore della mia”, lo accusò, mostrandogli il braccio.
Non ottenne risposta e dunque, adirato, gli afferrò il polso cercando di liberarsi le guance. Non serrò le palpebre e continuò a fissarlo, ancora in piedi e accasciato contro il mobile e il muro, senza cadere al suo cospetto.
Thor non perdeva la presa sul suo viso, lo stringeva come se volesse lasciargli dei lividi e l’impronta delle dita.
Cosa c’è nel tuo sguardo affranto adesso? Delusione?
“Loki, vorrei solo aiutarti.”
Speranza?
“Ma io non ho bisogno di te”, gli sussurrò in risposta, contro la pelle del palmo e contro le vene scure.
Lasciò la sua mano e lo osservò, per godersi il colore nero delle sue pupille restringersi sempre di più e il chiaro azzurro dei suoi occhi spegnersi nello stesso modo in cui lo fanno le giovani stelle morenti.
Il suo cuore non perse un battito, continuò imperterrito.
Lui non provò nulla.
“Sai sempre dove fa male. Lo sai con una precisione spaventosa.”
Quando Thor gli lasciò il volto, velocemente e senza rendersene conto, con il pollice gli tracciò il profilo del mento e gli sfiorò le labbra.
Certe cose, lui, non aveva mai smesso di notarle.
Lo vide fare due passi indietro e portarsi una mano davanti agli occhi stanchi, altri due passi e un sospiro lungo e affaticato, ancora di un passo lontano e ora entrambe le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Thor si ritrovò perfettamente colpito da un raggio dorato, immerso in una pozzanghera di luce al centro della stanza, vicino allo specchio che rifletteva ovunque la sua immagine e sotto le raffigurazioni a mosaico delle guerre compiute. Sembrava bruciare tra i mobili, i tappeti e gli arazzi, sembrava una stella tra lingue di fuoco.
Ma guarda, guarda un po’, come il Sole illumina questa stanza. Lo vedi?
“Sapevo che avrei dovuto pagare a caro prezzo il mio desiderio e che avrei dovuto convivere con il tuo odio. Ma non importa, va bene così. L’alternativa era peggiore.”
Thor si bloccò e lo scrutò, bloccato al centro della stanza, fermo ad una distanza incalcolabile, come se qualcuno avesse creato una voragine tra i loro piedi e le loro intenzioni.
Quel vuoto, indistinguibile a occhio nudo, lo aveva realizzato lui stesso grazie all’indifferenza di chi lo aveva sempre circondato, lo aveva scavato con una furia cieca, con epitaffi ripetuti in maniera cantilenante.
Il legittimo erede al Trono.
Il magnifico figlio di Odino.
Il prediletto, l’amato, il Principe dorato.
Quale spreco concedere tutto ad una sola persona, incartare doni preziosi e consegnarli ad un arrogante, sconsiderato, imprudente uomo.
Si era dato tutto a chi non meritava niente.
Non si era dato niente a chi meritava tutto.
“Loki. Io voglio davvero aiutarti.”
La voce di Thor lo risvegliò dai suoi pensieri e gli ghiacciò l’anima mentre le schegge del mobile gli tagliuzzavano la pelle della mano e le gambe, pesanti e rigide, gli dolevano.
Una fredda carezza di ghiaccio gli fece alzare il braccio e puntare il dito verso la porta.
Un gesto dignitoso compiuto seguendo una volontà implacabile.
La sua carne tremò e delle gocce di sudore colarono sulle sue ciglia, offuscandogli la vista, le ossa stridettero tra loro e il cuore rimbombò nelle sue orecchie come un tamburo.
E la sua mano... la sua mano era blu.
Vedere quel colore gli provocò un dolore inimmaginabile.
“Allora vattene. Vattene via, allontanati da qui. Sparisci per sempre dalla mia vista e non parlarmi più, mai più. Pensami morto, credimi morto, e vattene via, vattene via da questa stanza. Liberami da te, dalla tua presenza e dalle tue parole. Separa definitivamente le nostre vite!”
La camera era completamente illuminata e lui non si era neppure accorto, non fino a quel momento, di occupare uno dei pochi angoli rimasti in ombra.
Era stato un caso ritrovarsi lì, cadere di nuovo proprio nell’ombra lasciata dalla figura di suo fratello, era stato naturale.
Perché ognuno ritorna sempre al luogo a cui appartiene.
Quindi, alla fine, io... cosa dovrei provare?
“Considerami morto e sepolto, Thor. Io sono morto.”
                                                                                                        *******
Odiava il tempo, il tempo odiava lui.
Non esisteva alcuna altra possibile spiegazione.

“Il Re chiede-“
“Andatevene.”

Il rumore sordo del legno contro le ginocchia lo stava imparando cadendo, momento dopo momento.
È tutto nelle ossa e nella carne.
Si può imparare, un pezzo alla volta.
Ma il tempo continuava a tormentarlo.

“Il Re chiede-“
“Sparite.”

Poteva imparare a convivere con la paura, ma non a lasciarla andare.
Ricominciava a sentire, riconosceva se stesso, solo rimanendo fermo sull’orlo di un abisso.
I mostri nascono sempre da altri mostri.
E il tempo lo imprigionava.

“Il Re supplica-“
“No.”

Era un folle oppure davvero tutti i giorni erano identici?
Scorrevano uguali, si snocciolavano l’uno dopo l’altro, con lentezza, e le giornate fluivano placide.
Lui si annoiava, terribilmente.

“Il Re prega-“
“Lasciatemi solo.”

L’alba non arrivava mai troppo presto.

                                                                                                       *******

Nuova Asgard.
Quanta banalità e poca invettiva, quanta ipocrisia.
Persino uno zotico ignorante avrebbe potuto fare di meglio.
Persino un analfabeta sarebbe stato in grado di scegliere un nome più rappresentativo, pieno di gloria, ricco di significato, bello e incastonato nella mente di chiunque.
Un nome splendente, capace di brillare oltre la loro chiusa cerchia, oltre il semplice spettro dei Nove Regni.
Ma suo fratello no, invece.
A lui mancava una visione di insieme più ampia, non possedeva il concetto stesso di regnare né alcun desiderio di elevarsi, di vera iniziativa. Peccava di falsa presunzione, di orgoglio.
Non riusciva a immaginare nulla di magnificamente incomparabile e potente, neanche un nome da cui Asgard avrebbe dovuto raccattare le sue ceneri e crescere, progredire, irrobustirsi in un perfetto dorato Impero.
Thor aveva sempre avuto il cuore di un Re, non la mente.
Gli era scomodo il trono, era infelice tra gli obblighi reali nello stesso modo in cui ogni comandante si illude di poter vivere in pace e non in guerra.
Eppure... il popolo lo amava. Il popolo amava Thor, sinceramente.


Loki si sedette e sbatté la fronte contro il vetro della finestra, ricominciando a guardare le formiche di uomini che passeggiavano nei giardini, sull’erba curata che si poteva osservare dalla vetrata della sua camera.
Posò una mano vicino al viso e piegò le dita come a voler stringere qualcosa di lontano, un riflesso inconscio di cui si accorse appena.
Dei soldati si allenavano, dame passeggiavano, sguattere camminavano raso raso ai muri più nascosti e bui, uomini di corte si inchinavano dinanzi alle donne nubili che intendevano corteggiare.
Thor discuteva con un manipolo di uomini in toga rossa, con il volto rivolto verso il basso e la fronte aggrottata, incedendo lento e senza gesticolare.
Ecco la corte di Nuova Asgard, in un parco curato del grande palazzo, in un’imprecisata ora pomeridiana, ecco il centro del nuovo infinito potere, lì, proprio dinanzi ai suoi occhi.
E lui, invece?
Lui era in una stanza con ciotole piene di bacche rosse e mensole ricolme di libri.
Gli ricordava l’immagine sbiadita della sua vita in prigione, nei sotterranei, e così riusciva a rivedere se stesso, isolato dal resto del mondo e rinchiuso in una gabbia con le grate belle e preziose, un gioco per gli occhi.
Grate letali se solo uno avesse avuto l’ardire di avvicinarsi.


Fece una smorfia e graffiò il vetro con le unghie, in maniera distratta.
Le lame dei raggi di Sole gli rilassarono i tratti del volto fino a quando non intravide, nel vetro limpido, il suo riflesso distrutto, ancora diviso a metà.
La pelle della sua guancia sinistra era ruvida come petali di rosa viola incastrati in grossi granelli di sale, il blu rimaneva vivido e le linee bianche ben tracciate.
Il suo viso era sfregiato e la verità rivelata perché lui non possedeva più la forza necessaria a mascherare la sua natura.
Perdeva la ragione alla vista di quelle macchie di un blu innaturale, imperituro ricordo e marchio della sua stirpe, maledetta da intere generazioni e da innocenti morti urlando, affogati nel loro stesso sangue.

Morte ai Giganti di Ghiaccio.
Morte ai Giganti di Ghiaccio.
Morte ai Giganti di Ghiaccio.

Che lui fosse sempre stato un mostro, sia fuori che dentro, lo sapeva da tempo e non si era mai fatto illusioni al riguardo.
Ma ora... non aveva il controllo.
La sua magia c’era ancora, la sentiva crepitare tra i polpastrelli e le vene del dorso delle mani, ma non era abbastanza, non era come prima.
Esisteva, leggera e sottile, quasi fosse una melodia di corde pizzicate dal vento.
Sembrava irraggiungibile.

Le unghie contro il vetro fecero un rumore spiacevole nello stesso istante in cui gli parve di vedere Thor schiudere le labbra in una risata aperta.
Chiuse la mano e la lasciò scivolare al suo fianco. Le sue dita erano pallide e fin troppo bianche.
Si sporse leggermente e afferrò una ciotola di bacche rosse, agguantandone una manciata e portandosene due alla bocca. Le assaporava con calma e si sporcava le labbra, così un sapore dolce gli invadeva il palato e poi, un piccolo morso alla volta, un gusto amarognolo strisciava ai lati della sua lingua e scendeva giù per la gola.
La prigionia aveva lo stesso sapore, odore e consistenza di una bacca estiva, lo stesso agrodolce piacevole dolore.
Mangiò un’altra bacca e un’altra e un’altra ancora, fino a quando non rovesciò la tazza e non la sbatté contro la panchina imbottita su cui era seduto.
La magia era sua e neppure la morte poteva strappargliela dalle vene.
Prese tra le dita una bacca e un pezzo di ceramica, li osservò e se li rigirò, ispirando a denti stretti e concentrandosi su tutte le altre bacche e i pezzi di ceramica sparsi intorno a lui, e poi spostò di nuovo lo sguardo su quelli che erano posati sulla sua mano.
Sorrise di sbieco e sentì quei due oggetti bruciargli il palmo, pizzicandolo come leggeri spilli legati tra di loro.
Cosa dovrei provare?
Lasciò cadere la bacca e strofinò sulle labbra il pezzo di ceramica, mangiando e masticando il frutto che ora aveva delle sembianze diverse, modificate, ingannevoli.
In quel momento toccare le bacche rosse avrebbe significato tagliarsi e macchiarsi con il proprio sangue.
Un’agrodolce conquista.

Si voltò verso la finestra e si rese conto che, tra la schiera dei cortigiani, mancava un uomo in toga rossa, uno dei tanti sempre al seguito di suo fratello, costantemente tra i piedi e pronto a voler esaudire qualsiasi richiesta del proprio Re.
Lui sapeva cosa stava per accadere, di nuovo.
Socchiuse le palpebre e vagò ad osservare le alte guglie del palazzo e il paesaggio, i colori ambrati stesi sul chiaro cielo azzurro e il Sole inginocchiato verso la linea dell’orizzonte.
Nel fango lui ci era sempre vissuto e il Sole non era mai riuscito a raggiungerlo.
Fu un pensiero improvviso che lo costrinse a posare la mano vicino al viso e a respirare grave, appannando il vetro.
Era tutto troppo uguale al passato.
Cosa dovrei provare, adesso? Non questa arrendevole apatia, questa insoddisfazione costante.
Cosa dovrei provare? Gratitudine?
Le porte si aprirono e lui se ne accorse a causa degli spifferi d’aria e delle altre strisce di luce gettate sul pavimento.
Neppure si diede la pena di guardare chi fosse, lo sapeva già.
Quel cortigiano doveva aver imparato a sopportare ogni cosa pur di ottenere più potere e considerazione, tanto da essere disposto a ripetere una tale quotidiana pantomima solo per non negare alcun favore al Re di Nuova Asgard.
Sapeva già anche lui cosa sarebbe accaduto, la stessa scena che si ripeteva ogni giorno.
Presto il messo sarebbe ritornato nell’immenso parco al di sotto della sua vetrata, tra gli alti funzionari in toga, e avrebbe bisbigliato due frasi veloci all’orecchio di Thor, rimanendo poi lì, al suo fianco, sempre pronto a correre attraverso i passaggi pietrosi dell’intero palazzo, anche a costo di consumare le suole delle proprie scarpe.
“La mia risposta non cambia. Potete andarvene.”
Thor sedeva su una panca di marmo, ancora in quel giardino, e continuava a conversare attorniato dai suoi fedeli soldati, dai sudditi e dalle nobildonne che si erano alla fine avvicinate, vincendo ogni falsa ritrosia.
Ognuno pareva muoversi in base alle sue mosse, alla sua postura, ai suoi gesti scattanti, come se fossero dei semplici satelliti.
“Il Re mi ha ordinato di riferivi nuovamente la sua richiesta, la stessa che vi porge da più di un mese. Chiede se può visitare le vostre stanze, se potete gradire la sua compagnia e le sue parole. Un vostro semplice cenno, il vostro permesso, chiede solo questo.”
Loki non distolse lo sguardo dall’esterno e picchiettò un dito contro la finestra.
Due soldati si stavano inchinando al cospetto di due dame e un uomo anziano claudicava verso la panchina di marmo più vicina, con un libro sotto braccio e l’orecchio già rivolto all’aneddoto che Thor stava narrando alla sua cerchia di cortigiani.
“Il Re afferma di essere tremendamente rammaricato. Vorrebbe essere certo del miglioramento del vostro stato di salute. Chiede di potervi incontrare, anche solo per pochi minuti.”
Suo fratello finì di raccontare e tutti risero insieme a lui, le mani dinanzi alla bocca e gli zigomi alti, le guance rosse.
Rammaricato.
Sì, era davvero rammaricato.
Si vedeva chiaramente.
Immagino il peso e il tormento della tua vita, il dolore che provi, il malessere che offusca ogni tua possibile serenità, pace.
Ti immagino così, Thor, ti immagino rammaricato.
Io sono tornato in vita, per un tuo capriccio, e non sono soddisfatto.
Ma tu lo sai, vero? Perché io, soddisfatto, non lo sono mai stato, è contro la mia natura.
Quindi, dimmi, cosa dovrei provare?
Sono in catene, come le belve, in catene, come i mostri.
“Riferisci al tuo Re che io sono morto. Riferisci al tuo Re che i morti non devono essere disturbati”, disse, senza scomporsi.
È interessante.
Tu non sei stanco. Tu non rinunci mai a donarmi nuove occasioni, nuovi modi, per ferirti.
Eppure lo sai, lo sai bene, che sono in grado di farmi del male, di morire, pur di fare del male a te.
In cosa speri? In cosa riponi la tua fiducia? Dove è la tua fede?
È una idea, Thor, è un’ombra, un fantasma.
Non esiste alcun legame tra di noi, non c’è mai stato, non c’è più.
Tu non sei mio fratello.
Quindi rinuncia, lascia andare il passato che mai potrà tornare.
Lascia andare, Thor, lascia che finisca.
Non ho mai capito cosa fosse la soddisfazione e, nonostante tutto, non la troverò in te.
Il solo guardarti mi fa male agli occhi.
Respirare la tua stessa aria mi provoca nausea.
Ricordare la tua voce mi spezza le costole e strappa via i polmoni.
Io non ti voglio vicino.
Lo vedi, mio Re, dove ti hanno portato i tuoi buoni sentimenti e la tua gentile pietà?
Dimmi, Altezza, tu ora riesci a vedermi?
Puoi sostenere la mia vista o volgerai il capo dall’altra parte?
Il tuo furore è inutile così come vane sono state le mie urla.
Lo sai, vero? I bambini piangono per attirare l’attenzione mentre gli adulti gridano frasi taglienti.
E poi ci sei tu, con il tuo cuore caldo.
Tu, proprio tu, che sei riuscito a diventare un mostro, persino più terribile di me, e lo hai fatto in silenzio.
La bellezza lancinante del tuo sacrificio è una ferita aperta su cui ti piace scavare agitato, a fondo, con le punte delle dita, senza curarti della disperazione di nessuno.
Ti ricordi cosa ti piaceva sempre fare, da bambino, dopo avermi salvato da un danno che io avevo creato da solo?
Oh, alla fine rimani sempre lo stolto Thor che non si accorge di quanto qualcuno brami il suo sguardo.


Sentì la porta chiudersi alle sue spalle e si sistemò più distante dalla finestra, aspettando paziente di godersi la solita scena.
Da lì poté vedere, che splendida e incantevole visione, l’uomo con l’abito rosso rifare il suo ingresso nel rigoglioso giardino e accostarsi al Re, riportando poche e concise parole, forse appena sussurrate.
Te lo ricordi?
Appena Thor sollevò il capo verso la sua finestra, un movimento spontaneo che lo tradì, lui percepì degli spilloni conficcarsi nelle pupille, a eterno monito della sua follia.
Te lo ricordi?
Suo fratello si alzò dalla panchina, di slancio, e si mosse incurante degli altri, poche falcate, fino a fermarsi all’improvviso con il mento verso l’alto e i pugni talmente stretti da irrigidire le braccia.
Mi toccavi sempre il collo.
Loki si allontanò dalla vetrata, girò su se stesso e gli diede le spalle raggiungendo l’altro lato della stanza.
Continuò a sentire il suo sguardo sulla pelle anche quando sfiorò la porta, domandandosi come e dove scappare.
Del legno e poche guardie sparse in quell’ala del palazzo non sarebbero riusciti a fermarlo, almeno di quello era certo.
Gli serviva soltanto un’illusione.
Quindi mi hai salvato per questo?
Perché hanno rotto il collo che tanto amavi?
                                                                                                   *******

Si poteva sentire un canto, all’alba, una melodia bassa di un’eco di note scordate, suonate nel momento esatto in cui le ombre assumevano dei contorni chiari.
C’era sempre, poco prima del sorgere del Sole, quel lamento dolcemente straziante che filtrava tra le fessure delle torri più alte e che poi rimbombava sopra ogni soffitto, cadendo pesantemente sui pavimenti e disperdendosi tra le fughe delle piastrelle.
Il vento strisciava negli spiragli e assumeva un suono differente, più musicale, e lui rimaneva fermo, ogni volta, ad ascoltare quella litania che pareva mormorare una profezia.
Poi tutto si interrompeva, all’improvviso, e lasciava ciascun animo insoddisfatto.
Quella sinfonia doveva esistere a causa di un errore di costruzione.
Sì, un errore di costruzione.
Certe cose, anche se belle, rimanevano comunque un errore.

                                                                                                    *******

Vagava da ore, da una sala all’altra, macinando infinite distanze e percorrendo cunicoli stretti e claustrofobici, le cui pareti tendevano a incurvarsi su loro stesse.
Aveva scovato camere non curate, prive di decorazioni e avvolte da grigio pulviscolo e aveva esplorato biblioteche, salotti e banchetti, alla ricerca di passaggi segreti e corridoi nascosti nell’incastro di pietre e librerie.
Si era aggirato come uno spettro silenzioso, rimirando tutto e non sfiorando nulla, e si era confuso nel buio della notte tra le ombre oblique degli oggetti dimenticati su tavoli o scaffali.
Aveva camminato, seguendo l’istinto addomesticato da un attento ragionamento, e anche adesso si accaniva contro le sue gambe che supplicavano pietà e gli chiedevano la grazia di poter riposare.
Ma lui non si fermava e proseguiva un passo dopo l’altro a ritmo sostenuto, sforzando i suoi muscoli ad ubbidire solo al suo volere, a tendersi e piegarsi secondo il desiderio della sua indole caparbia.
Bastava solo esercitarsi, giusto?
Bastava solo sforzarsi fino a far sanguinare le giunture, non era così?
Troppo tardi si rese conto di essere ritornato nella zona attigua ai suoi appartamenti, nella guglia più alta di quella regale dimora, come se avesse girato in tondo, ritornando all’entrata del crudele labirinto.
Si massaggiò la fronte, frustrato, e maledì la porta della sua stanza, un’imponente porta di legno con gli intarsi dorati e le venature verdi, che si ergeva di fronte a lui, quasi volesse schernirlo.
Avrebbe potuto scappare eppure era ancora lì.
Inclinò il capo verso destra e poi verso il basso, sogghignando, e abbassò le palpebre sbocconcellando la verità tra la lingua e i denti.
Non poteva andarsene, non ancora.

Dei rumori di passi lo insospettirono e delle chiacchiere, risate strozzate, gli diedero la conferma.
Loki appoggiò le spalle contro una parete e allontanò da sé la luce della luna, immobile, mentre due guardie passarono accanto a lui senza rendersene conto.
Aspettò fino a quando non li vide imboccare le scale del piano inferiore e fino a quando una melodia straziante non iniziò a spirare, impercettibilmente, tra le scanalature delle pareti.
L’alba era vicina.
Uno, due, tre...
Ritornò al centro del corridoio, le ginocchia stanche e imploranti, e fissò inespressivo la grande porta alla sua sinistra.
Nonostante tutto, io torno sempre qui.
Avanzò, quasi fosse al patibolo, e i suoi stivali sfiorarono il legno, i polpastrelli i battenti.
Me ne andrò quando saprò.
Rientrò nella propria camera e, ancora prima di richiudere la porta dietro di sé, seppe di non essere solo.
Inclinò il polso e con il pollice sfiorò i polpastrelli delle altre dita, ritrovandosi nella mano destra un pugnale di ghiaccio affilato. Avrebbe presto dovuto procurarsi dei veri pugnali, perché non amava ricorrere a quel trucco, non gli era mai piaciuto.
Morte ai Giganti di Ghiaccio.
Loki si girò di scatto e si fermò con il braccio a mezz’aria.
Oh.
Che stupido, stupido sentimentale.
Suo fratello era lì.
Seduto su una sedia spostata sotto la finestra più piccola della stanza, il capo basso e tra i palmi un bicchiere accostato alle labbra.
Quando Thor si voltò a guardarlo, dentro di lui qualcosa si smorzò in una piega innaturale e un sospiro gli uscì dalle labbra, dandogli l’impressione che si trattasse di sollievo e che lo strano grumo in gola si sarebbe sciolto solo con il tempo.
Aveva camminato tanto e lo aveva fatto invano.
Che spreco.
“Cosa fai qui?”, gli domandò, avanzando circospetto.
Suo fratello lo osservò e gli sorrise, indicandogli le costellazioni sparpagliate sopra le loro teste.
“Ascolto la musica. Le stelle cantano, lo sapevi? E il cielo è il loro strumento.”
Colpo basso, Thor.
Meschino citare proprio una storia conosciuta da entrambi, ascoltata milioni di volte, ripetuta sempre con le stesse parole, frasi, pause e sospiri.
Una delle tante favole materne raccontate in alcune umide sere di primavera, una fiaba capace ancora di conservare il sapore della loro prima infanzia.
I ricordi cominciarono a sopraffarlo e lui riconobbe la trappola, le molle e gli ingranaggi arrugginiti di quel meccanismo pronto a schiacciarlo e a soffocarlo in una morsa più pericolosa di una mano intorno alla gola.
“Lo diceva sempre nostra madre”, mormorò Loki, piano.
Un’improvvisa fredda ustione gli attraversò la schiena, marciando tra gli spazi delle sue ossa, e una spiacevole sensazione di ghiaccio gli contorse l’addome come viscere annodate alle costole e ai muscoli.
Pensieroso, si accostò alle cere disposte sul tavolo, in parte consumate, e le riaccese gettando il pugnale accanto alle loro basi metalliche.
Morte ai Giganti di Ghiaccio.
Aveva freddo e sapeva che, se avesse arrotolato le sue maniche, avrebbe ritrovato le sue braccia di un colore più scuro.
Morte ai Giganti di Ghiaccio.
“Cosa ci fai qui?”
Accese altre candele e le posò su un comodino, nonostante l’alba fosse prossima e il cielo fosse attraversato da linee e sprazzi meno oscuri.
Ma lui aveva freddo.
“Dovevo vederti.”
La voce di Thor gli sembrò impastata e le sue parole poco controllate, quasi biascicate.
Gli occhi corsero a riosservare la figura del fratello e il dettaglio importante del bicchiere stretto in mano.
La camera era in penombra, le tende accostate, e sul ripiano di pietra della finestra si trovava un fiasco di vino, in bilico.
“Hai bevuto molto?”
Thor abbassò le palpebre e abbandonò la nuca contro la sedia.
“Mi manchi.”
Un crudo dolore gli offuscò i sensi e la rabbia diramò via le fitte ragnatele in cui stava precipitando.
Tu vuoi qualcosa da me, io ti servo. Ma per quale fine?
Sotto pelle si annidò una sensazione strana, un’emozione instabile, che lui decise doveva essere estirpata all’istante e senza tentennamenti.
“Devi aver bevuto davvero tanto. Ti ci vogliono molti bicchieri prima di iniziare a delirare. Più del solito, intendo”, constatò, calmo, e poi volse lo sguardo verso il profilo del fiasco vuoto.
“Ho bevuto poco. O meglio, la giusta quantità che serve per allentare i nervi.”
Stupido.
L’effimera maledizione della vulnerabilità di suo fratello, mostrata senza vergogna, le consonanti arrotondate dal vino e la postura riposata, gambe aperte e braccia stese con noncuranza, lo avvinghiarono scavando una crepa tra i suoi incubi, tracciando una strada di mattoni dorati nel suo desolato menefreghismo.
Essergli indifferente non era mai stato facile e lo era ancora meno in quel momento, ora che si presentava da lui in quel modo, così indifeso da poter essere distrutto da un sospiro tremante.
Sentimentale.
Gli sfilò la coppa dalle mani e bevve l’ultimo sorso rimasto.
“Thor, non mi troverai sul fondo di un bicchiere di vino.”
Eppure più dolorosa era la consapevolezza della sua incapacità di colpirlo con un affondo letale.
Quando posò via il bicchiere, Thor lo trattenne per un braccio, affondando le dita nel tessuto verde della sua manica, e staccò le spalle dallo schienale per sporgersi verso il suo viso.
“Non dormi, non è così? I servi mi dicono che ogni mattina le lenzuola sono sgualcite ma i cuscini non sono toccati.”
Loki si strattonò dalla sua presa e l’altro lo liberò continuando a parlare.
“Hai distrutto questa stanza. Tre volte.”
“Non mi convinceva l’arredamento. Cose che capitano.”
“Perché non dormi?”
Perché dormire è come morire.
“Concedi qualche domanda anche a me, Thor. Sii gentile. Come ti sei procurato questo nuovo occhio?”
“Mi è stato regalato da un... coniglio. Chiamiamolo così.”
Suo fratello abbozzò un sorriso, più una smorfia, e lui fece un passo indietro e sgonfiò il petto, lasciando andare l’aria che non si era accorto di trattenere.
La situazione era un delirio senza fine.
“Avevo detto di non volerti incontrare. Il tuo uomo di fiducia non ti ha riferito bene?”
La fredda sinfonia di ogni alba si levò acuta, soffiando tra le immagini e i ghirigori a mosaico, e portò con sé le prime luci e un’umida foschia all’orizzonte.
Il cielo era lattiginoso e il profilo della luna si stagliava indifferente, svanendo appena appena.
Pallidi raggi di Sole cominciarono a sgranchirsi verso l’alto, camminando superbi contro i contorni sbiaditi delle stelle. Avidamente studiò l’immagine di quel nuovo paesaggio, dell’alba violetta, delle lontanissime foreste, confine di Nuova Asgard, e delle alte montagne rocciose.
Almeno aveva scelto un bel luogo come Nuovo Regno.
“No, ti avrà riferito giusto. Ma le mie parole sono sempre state vento per te, figlio di Odino. Il tuo volere è l’unico principio che segui fedelmente.”
Si allontanò e si diresse alla libreria sistemata sul lato destro dell’altra finestra e lì si fermò, a indicare i libri e a passare l’indice sui dorsi colorati dei vari tomi.
Uno dopo l’altro, come scrigni segreti posti in bella vista, rivelarono i loro titoli e sottotitoli.
Il palmo si scurì, di nuovo, e allora lui chiuse la mano a pugno, le nocche sporgenti, e la portò dietro la schiena.
“È questo invece sarebbe l’assurdo metodo che hai scelto per darmi delle risposte? Libri?”
Libri sulle pietre dell’Infinito, resoconti sui viaggi nel Tempo, manuali di Magia.
Quello che avrebbe dovuto sapere, il come e il quando, ma non quello che voleva sapere.
“Nei libri sarà scritto dettagliatamente tutto quello che hai fatto ma non il perché. Ed io questo voglio sapere, il perché. Quindi, dimmelo, perché mi hai riportato in vita?”
Perché lui era vivo?
“Perché sono qui?”
Non per pietà né per altri sciocchi sentimenti lui non aveva cacciato Thor dalla sua stanza.
No, non per un’improvvisa e falsa umanità, non sarebbe mai stato così, e solo suo fratello poteva ancora illudersi del contrario.
Lui voleva solamente sapere.
Lui aveva bisogno di sapere.


Il Grande Re si sollevò dalla sedia, ma che grande e grandissimo onore, e lo raggiunse fermandosi a pochi passi di distanza e stropicciandosi il volto con le mani aperte.
Cosa ti ha distrutto più di me?
“Non si può affrontare lo stesso lutto più volte. È disumano.”
Suo fratello si interruppe un momento, forse tentando di non strascicare le vocali, e incrociò le braccia dinanzi al petto.
“Era la terza volta che piangevo la tua morte e nessuno può tollerare un dolore tale da... Ma poi ho capito.”
Balbettava, cercava le parole, cambiava le frasi e seguiva ragionamenti senza alcun filo logico.
Un disastro annunciato.
“Ho capito che certi legami non si possono spezzare e che il nostro è uno di quelli.”
Sembrava in affanno, si affrettava a continuare prima di essere fermato o forse prima di ripensarci, prima di mordersi la lingua e di riflettere, riflettere almeno una volta nella sua vita.
“Tutti avevano riavuto la loro parte di universo. Perché io no?”
La sua faccia era stravolta, le occhiaie violacee e più accentuate, la fronte aggrottata e le labbra screpolate.
Aveva un’espressione esasperata e impaziente mentre si stringeva il petto, quasi un abbraccio, quasi una richiesta di essere consolato.
Lì, toccato con grazia dal chiaro cielo mattutino, lì, tra le note del canto, la sua figura gli ricordò il perché non ci si doveva mai fidare dei familiari più devoti.
“Mi mancavi troppo, Loki.”
La melodia si spense, all’improvviso, e un rumoroso silenzio calò, come foglie secche, in mezzo a loro.
Mosse una mano e la luce delle candele si piegò e spense, ruotò il polso e il fiasco di vino crollò a terra insieme alla coppa.
Si vedeva allo specchio e, già lo sapeva, quando usava la sua magia le linee bianche sulla parte blu del suo volto diventavano tratti esasperati, aperti, troppo evidenti.
Conficcò le unghie quasi vicino alle vene dei polsi e caddero i mobili, si rovesciarono le sedie.
“E il grande Re mi ha resuscitato dalla tomba per questo quindi? Perché gli mancavo tanto?”
“Troppo”, venne corretto, di getto, “Loki, io ero troppo stanco di accettare una vita senza di te. Ho sperato, così intensamente, di-“
Inganni.
“No. Non fare il sentimentale. Ti si addice ma non fino a questo punto. Dì la verità.”
La fiducia, tra di loro, non poteva esistere.
I loro patti si basavano su altro: vendetta, rancore, morte.
Non sui sentimenti.
“Dimmi il vero motivo.”
Nessuno faceva niente per niente, neppure il buono, giusto e nobile eroe lì in piedi di fronte a lui.
Nessuno.
Thor non abbassò lo sguardo e gli rispose, la voce rotta e un sospiro stanco.
“Perché sei mio fratello.”

Il rancore piegò i suoi progetti e i suoi piani, distrusse lo specchio esploso in miliardi di schegge con un rumore acuto e fece cadere tutti i tomi spaginandoli.
Se suo fratello viveva di illusioni allora lui gliene avrebbe regalata un’altra.
Marciando, si avvicinò alla panchina imbottita della grande finestra e afferrò un pezzo di ceramica, uno dei pezzi che aveva cambiato e che in realtà non era niente altro che una bacca che non gli avrebbe fatto alcun male.
Tirò su la manica e mostrò il braccio bianco a suo fratello, quel patetico arrogante che si compiaceva a chiamarlo fratello, e pose il coccio di ceramica, -la bacca-, contro la propria pelle.
Non siamo fratelli, anche il succo di una bacca può dimostrartelo.
Tagliò la vena con una precisione spaventosa, seguendo tutta la linea dell’avambraccio, a fondo e con forza, ricalcandola con quel pezzo di ceramica -la bacca, la bacca, la bacca- ora sporco di sangue, -succo, semplice succo.
Ti puoi illudere, Thor, ma, come vedi, il nostro sangue è diverso.
“Lo vedi? Lo vedi, sì? Non sono tuo fratello, non lo sono. E, adesso, dimmi perché sono di nuovo vivo, dimmelo.”
Il braccio cominciò a dolergli e la vista ad appannarsi ma lui non ci fece caso, -freddo, aveva freddo-, e continuò imperterrito.
Che male può mai fare una bacca?
“Tu sei come Odino. C’è un motivo dietro tutto questo, dietro le tue patetiche premure e la tua tardiva preoccupazione. Io sono qui per un tuo scopo. Dimmi quale è.”
Ma in un quel dolore c’era una differenza sottile.
“Loki.”
L’avambraccio bruciava, il polso tremava e il freddo lo colpì come una scarica elettrica lungo i vasi capillari aperti.
Abbassò il capo e vide il sangue gocciolare, imbrattare il suo braccio, la mano, il palmo, tutte le dita, e colare a terra formando una pozza rossa.
“Loki, che cosa hai fatto?”
Lui rialzò la testa e osservò gli altri cocci di ceramica e le poche bacche rimaste.
Non si deve vivere troppo di illusioni.
“Pensavo fosse una bacca.”
Si ritrovò in ginocchio, ma non toccò il pavimento perché delle mani sollevarono il suo capo e trattennero il suo petto.
Una voce chiese aiuto, urlò, disturbò il suo sonno.
E la neve cominciò a cadere.
                                                                                                             *******
La morte è assenza, negazione, pace. Un freddo ristoro in cui spegnersi.
Ed è semplice rispetto al caos delle probabilità, del vivere, del sentire.
È una sinfonia spezzata che incide note e chiavi su righi sbiaditi di pergamene logore.
Vorace e insaziabile amante.
Poteva essere tutto, poteva essere niente.
Ma se avessero chiesto a lui, che la morte l’aveva vissuta in ogni modo possibile, avrebbe risposto che in realtà, la morte, era noiosa e basta.
I pensieri scompaiono, l’anima si dissolve e il corpo cade, cade, cade ancora.
È tutto nero, è tutto finito.
E lui no, non lo accettava.
La morte non era fatta per una mente come la sua.


                                                                                                              *******

“Svegliati. Svegliati perché voglio ucciderti e tu devi essere cosciente mentre lo faccio.”
Le dita calde di suo fratello divorarono la sua guancia fredda, simili a belve assassine ed egoiste. Percepiva i suoi calli contro lo zigomo, contro la pelle ruvida.
Lottare, in quel momento, avrebbe significato strisciare su crateri di cenere affamati e ributtarsi nel vuoto lasciato da una stella implosa.
Scappare non era possibile, né poteva pulire la propria coscienza correndo a nascondersi nel groviglio dei propri pensieri scheggiati. Voragini lo attorniavano e su ponti rotti lui ricercava l’equilibrio.
E avrebbe voluto fare un passo avanti, cadere e gridare di essere stanco, infinitamente stanco.
“Non stringere le palpebre. So bene che mi stai ascoltando.”
Quando Thor gli sfiorò il mento e l’angolo delle labbra, un nuovo canto dell’alba cominciò ad arrampicarsi lungo le colonne e le volte di ogni stanza.
Aveva perso un giorno, aveva perso un altro giorno.
Alcune immagini, sogni, gli invasero la mente cancellando la realtà e tormentandolo con smania e angoscia.
Il fotogramma sbiadito di suo fratello, di suo fratello in lacrime, -lui che striscia, si dispera, grida-, perché non accetta la sua morte e si aggrappa, pianti e urla dolorose, al suo corpo freddo steso a terra, immobile in un modo innaturale, gettato sul pavimento con il volto bianco privo di vita.
Avrebbe voluto altro.
Sentire la sua pelle sotto le dita, avere il potere inebriante di poter portare via le sue lacrime e sostituire quel sapore salato con le sue labbra umide in un eccitante sogno proibito di cui si era nutrito, in solitudine e in ginocchio, sui gradini della follia della sua mente malata.
Far scorrere i propri polpastrelli sulle labbra di lui e poi mordersi le dita con i denti per provare ad essere in grado di rubare un po’ del suo calore e tenerlo per sé, anche solo toccandolo, sfiorandolo.
Mai, non aveva potuto farlo mai.
Aveva seppellito tutto in un luogo così distante da averlo dimenticato, da averlo perso sotto la neve.
Il gelo aveva bruciato brandelli della sua carne, uno alla volta, e aveva intorpidito i suoi muscoli scorrendo nelle vene al posto del sangue. E lui sapeva, lo aveva sempre saputo, che il ghiaccio non avrebbe più potuto strapparlo via dal proprio corpo, neppure volendo.
Cenere alla cenere, polvere alla polvere.
Neve alla neve.
“Apri gli occhi, Loki. Adesso!”
Ferirsi i palmi, graffiarseli, per quanto forte avrebbe osato stringere la sua barba bionda e i suoi capelli, morire bruciato per i suoi occhi azzurri pieni di lacrime.
Passare le unghie sulla sua mandibola e poi sul collo e le spalle, fino a logorare i tendini, scorticare i nervi.
Sarebbe stata una guerra atroce e sofferente, sarebbe stata una vittoria conquistata con la corruzione, pagando un debito infinito.
Neve alla neve.
L’unico modo per divenire immortale nel tuo cuore era morire per te, proprio dinanzi ai tuoi occhi.
Pensi che sia amore? No, non lo è.
È ossessione.

Alzò il braccio fasciato, dove spille di fuoco cucivano i fili delle sue vene, e afferrò alla cieca la divisa di Thor, aggrappandosi forte a lui, all’altezza del petto.
Possedere il suo cuore e averlo tra le dita, anche solo per un secondo, schiacciarlo con una tale forza da avere le mani per sempre macchiate di rosso.
Ma il suo calore no, quello non sarebbe riuscito a prenderlo.
In un delirio estenuante gli avrebbe persino promesso che non si sarebbe fermato mai, che avrebbe continuato fino alla propria devastazione.
“Ti dispiacerebbe lasciarmi dormire, lasciarmi riposare?”, tossì e perse la presa facendo ricadere il polso tra le lenzuola.
Affaticato, non riuscì a continuare perché un senso di vertigini lo colpì allo stomaco, spingendolo a rigettare bile.
Sbatté più volte le ciglia e notò che il buio della notte era appena rischiarato dalle poche candele accese, tanto da lasciare intravedere solo delle forme tremolanti.
La luce fioca ammorbidiva i tratti degli oggetti e li rendeva irreali, cosicché anche i mobili avevano una consistenza opaca e inconsistente.
Cercò di sforzarsi ma il sudore gli imperlava la fronte e bagnava la base dei suoi capelli e della nuca. Infastidito, volse il capo verso sinistra, verso la voce che lo aveva svegliato.
Scorse il volto adirato di suo fratello e il suo strano sguardo accusatore, la mandibola dura e i denti stretti, il sottile passaggio della cicatrice dall’occhio destro fino al sopracciglio spezzato.
Quel momento era una mancata illusione.
“La tua follia ti ucciderà, Loki.”
Doveva essere seduto vicino a lui, nell’oscurità più maledetta della notte, tanto vicino da inglobarlo con la sua ombra e da togliergli il calore delle fiammelle sulla cera.
Avrebbe dovuto sporgersi per capirlo, avrebbe dovuto poggiarsi sui gomiti e poi allungare le braccia dinanzi a sé, fino a trovare il suo fianco e colpirlo con la lama di un pugnale.
Stava sognando?
“E la tua follia invece? La tua follia ci porterà alla distruzione. Figlio di Odino.”
Stanco, si inumidì le labbra e osservò i pochi colori che riusciva a intuire con le tende chiuse e l’aria immobile, tesa.
Le tenebre stavano martoriando con denti e zanne aguzze le macchie dorate, impedendo a lui di vedere, e un assurdo odore di pioggia lo stordì.
Un’attesa spasmodica rendeva inquiete le loro parole, inebriandoli.
Thor era agitato, il suo sguardo seguiva i movimenti delle lingue delle candele e vagava distratto, forse alla ricerca delle frasi giuste da rivolgergli senza turbare il silenzio che li avvolgeva.
“Non sono migliore di te, Loki. Sono stato tremendamente egoista e ho fatto delle scelte di cui non vado fiero.”
Lo ascoltò mormorare quella confessione e subito dopo decise di non credergli, di riflettere su altro. Di dimenticare e di ridere dentro di sé, di tacere e poi di schernirlo, a voce bassa e con attenzione.
Avrebbe voluto chiedergli se anche lui sentiva quell’impossibile profumo di pioggia, se anche lui notava l’assenza di colori intorno a loro, le immagini svanire e le pareti crollare.
Non c’era niente, ad eccezione di alcuni spessi strati di cera colata a terra e lungo i comodini, non c’era altro.
Fremendo, a tentoni, cercò con il braccio sano di raggiungere il collo di suo fratello e di trascinarlo con lui a fondo, di farlo affogare con gentilezza.
È un sogno?
“Ti piaceva, un tempo. Ti piaceva toccarmi il collo”, gli disse, facendo sembrare un urlo quelle che erano state delle parole sussurrate.
Inspirò e altre scariche di oscure immagini vinsero la sua ragione, mandando in frantumi ogni suo piano.
A nessuno dei due interessava porre un argine a quella situazione e ciò lo ubriacò, gli fece provare un’euforia incontrollabile.
Arrivò a toccargli i tratti del profilo e distinse un assordante strappo squarciare la sua mente e lacerare il suo sorriso compiaciuto.
Piangi ancora?
Suo fratello si lasciò sfiorare e poi gli allontanò la mano, provocandogli un fastidioso pungolo all’orgoglio.
Stavano superando un limite da cui non sarebbero mai tornati indietro, almeno non in quella vita.
Ricordava i milioni di passi che aveva compiuto pur di ritrovarsi ad una distanza incalcolabile dai suoi occhi e dai suoi gesti, la profonda discesa che aveva imboccato pur di non biasimare se stesso notte e giorno.
Aveva camminato tanto e, alla fine, il valore della sua fuga era risultato identico a quello di alcune poche bolle di inchiostro gocciolate su una pergamena: uno spreco.
Accettarlo non gli fece provare nulla.

Quando il Re parlò, con le sue parole inghiottì tutto il resto.
“Ti ricordi cosa è successo dopo la fuga da Asgard?”, chiese Thor, e lui non vide più bene il suo volto.
È un incubo?
“Ti ricordi l’ultima notte sulla nave?”, continuò, e usò un tono di voce che Loki non conosceva o che non aveva mai ascoltato, non da suo fratello.
Le spalle di Thor erano il confine di quella stanza, l’orizzonte oltre il quale non avrebbe trovato nulla, l’ostacolo impossibile da superare senza prima perdere un braccio, come dazio, staccandoselo a morsi se necessario o se richiesto.
“Ti avevo detto che ti avrei abbracciato. Ricordi cosa hai detto?“
Ci diamo un bacio?
“Ricordo cosa ti ho chiesto.”
La sua ultima notte.
L’ultimo desiderio di un condannato a morte.
Era stato il loro, -il suo-, primo bacio.
Un solo bacio, solo quello.
Prima di lui non c’era stato nessuno.
Prima di lui c’era stato sempre, -solo-, lui.
“Oh. Oh, adesso capisco. È per questo allora? È stato così bello che hai dovuto farmi tornare in vita? Bacio così bene?”
Sapeva, con una lucidità che aveva la forma di una condanna, di star facendo del male a entrambi e di non riuscire a fermarsi.
Non è amore.
“Ti è piaciuto così tanto? Tanto da mettere sottosopra l’intero universo per averne un altro?”
Trattene a stento una risata di gola, sollevò il braccio ferito e spalancò gli occhi avvicinandosi lento a sfiorargli uno zigomo.
Non è amore.
“Davvero bacio così bene, Thor? Sì?”
Suo fratello gli afferrò il braccio e strinse, strinse, gli torturò la pelle con le unghie e mostrò i denti trattenendosi dal rispondergli o dal compiere qualsiasi altra follia, perché troppo impegnato a combattere una guerra contro se stesso che era in procinto di perdere.
Lo vide, sconfitto, inginocchiarsi nel fango.
Loki osservò il modo in cui gli stringeva l’avambraccio e lo sfidò, girando appena la mano e allargando le dita, mentre un’altra risata aperta gli sfuggì e una fitta alla nuca gli avvolse il collo.
Ma se fosse amore, tu lo sai vero?
“Vuoi riaprirmi la ferita?”
Thor gli lasciò il polso con noncuranza, con uno sguardo mostruoso che non gli fece accorgere del sangue versato e delle bende sporche.
C’era una rassegnazione che li incastrò entrambi a metà strada.
Sì, lo sai. Tu lo sai che nessuno ti amerebbe più di me.
“No. Te ne creo di nuove.”
Suo fratello salì a cavalcioni sui suoi fianchi e lui vide stelle disgregarsi dinanzi ai suoi occhi, distruggersi in miliardi di pezzi e svanire, lasciando una fredda, vuota, cicatrice ambrata.
Tentò di allontanarlo, cercò di scostarsi colpendogli il petto e sollevò il volto nonostante le vertigini e il tremore delle spalle. Gli graffiò il collo e sentì la sua carne sotto le unghie, il sangue sui polpastrelli.
Nessuno mai.
“Stupido, cosa stai facendo?”
Thor gli bloccò il viso con entrambe le mani e si avvicinò al suo mento, tremando.
Nessuno mai ti amerebbe più di me.
“Mi faccio male.”
Sentire quella pelle calda sulla sua, tanto fredda, gli provocò uno spasmo in gola che venne ovattato da quelle labbra crudeli premute frettolosamente sulle sue.
La pelle morbida, il guizzo nervoso dei muscoli, il calore del suo respiro.
Troppo.
I pezzi scomposti della sua lucidità si persero non appena Thor gli strattonò il colletto della divisa e sospirò appagato contro la sua bocca.
Quel suono gli fece muovere freneticamente le mani e fece nascere in lui una maledetta esigenza di afferrare tutto, di frugare tra le pieghe dei suoi vestiti, di contenere i suoi battiti tra i palmi e di fare male, di lasciargli lividi e ustioni.
Pioggia sul suo viso e sulle sue palpebre chiuse, sale sulle sue ciglia, denti a mordere la sua lingua.
La loro pelle nuda a contatto.
Nessuno ti amerebbe più di me.
E tu non puoi farci nulla.
Ebbe freddo e uno dei suoi ultimi pensieri coerenti fu che le stelle quella notte dovevano essere scappate via, lontane da loro.
Non esiste più nulla ed è meglio così.

Perché lui respirava.
Lui stava... respirando.




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