Battesimo del fuoco

di Iryael
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** | Prologo | Attesa ***
Capitolo 2: *** | Capitolo 01 | Cadetti ***
Capitolo 3: *** | Capitolo 02 | Rumori nella notte ***
Capitolo 4: *** | Capitolo 03 | Triangolare il punto zero ***
Capitolo 5: *** | Capitolo 04 | La squadra migliore ***
Capitolo 6: *** | Capitolo 05 | Senza fiato ***



Capitolo 1
*** | Prologo | Attesa ***


[ Prologo ]
Attesa
5 Maggio 5402-PF
Galassia Solana, spazio siderale
 
La K.S. Amynedd stazionava dietro una delle lune di Marcadia. Motori spenti, radar inattivi, personale minimo in plancia. Erano lì da qualche giorno, in attesa di qualcosa che – per i più – era un mistero. Le uniche certezze erano che Indigo Blackeye era a bordo e che tutti, capitano compreso, per quel viaggio riferivano direttamente a lui.
Inous Fug era il capitano della nave. Conosceva il suo equipaggio meglio della famiglia e oltre queste aveva un’ulteriore certezza: l’attesa li stava sfiancando. I suoi sottoposti avevano facce sempre più cupe e risposte sempre più secche. Non aveva alcun dubbio nel valutarla una pessima combinazione.
Tuttavia, nonostante ne disapprovasse l’atteggiamento, li comprendeva anche: quel quadrante era il cuore della Flotta Stellare Unita e la sua era una nave carica di Razziatori. Era come stare fermi in un campo minato e sperare che non ci fossero mine a ricerca.
«Sta’ calmo.»
Il kerwaniano abbassò lo sguardo sull’intercom. Il monitor nel bracciolo gli mostrò un volto umano. Fug strinse impercettibilmente le labbra. Eccolo lì il Grande Capo, con la chioma color indaco e l’occhio cibernetico animato da un’inquietante pupilla a reticolo di mirino.
«Questa rotta è poco battuta e la nave è marchiata come un cargo. Se anche si facesse vivo qualcuno i loro sistemi vedrebbero i vostri come offline. Non c’è nulla da temere.»
Il capitano deglutì. L’altro era troppo fiducioso. Per esperienza poteva dire che la fortuna era capricciosa, e loro la stavano sfidando un po’ troppo. Ciò nonostante rispose affermativamente. L’umano sullo schermo annuì compiaciuto e si allontanò, evidentemente attratto da qualcos’altro. Fug tornò a guardare oltre lo schermo principale, lì dove la luna marcadiana mostrava tutti i suoi crateri.
Spero che quella comunicazione arrivi presto. Non ce la faccio più a stare qui.
* * * * * *
Primo ponte alloggi, stanza 101
 
Indigo si allontanò dal piccolo intercom. Non voleva che Fug lo vedesse contrariato; la cosa gli avrebbe procurato solo grane. Però era così che si sentiva. Quell’insicurezza sul viso del capitano era fastidiosa, ma allo stesso tempo era un segnale che non poteva sottovalutare.
Era tutto perfettamente calcolato. Il luogo era poco trafficato, l’equipaggio aveva credenziali da spedizionieri e, come ulteriore prudenza, lui aveva smesso di visitare il ponte di comando alcune ore prima che si fermassero. Eppure Marcadia era il cuore pulsante della Flotta, forse il posto più pattugliato dopo i Palazzi delle Galassie. Un solo errore e sarebbero precipitati nella situazione peggiore.
L’inquietudine dell’azzardo c’era, la sentiva anche lui. Strisciava sul fondo dello stomaco, metteva in dubbio le sicurezze, suggeriva presagi ovunque. Intuì che il capitano ne stava venendo soggiogato, e questo lo fece riflettere. Aveva creduto che un individuo con vent’anni d’esperienza avrebbe saputo gestire due giorni d’attesa, per quanto il posto fosse infausto. Di fronte a quella reazione, ora, non poteva fare a meno di chiedersi: era l’esperienza a renderlo così nervoso oppure si trattava di debolezza caratteriale?
Quale che fosse la risposta, avrebbe dovuto provvedere. Nel frattempo, per non logorare la situazione, si sarebbe mostrato un po’ più prudente.
 
«Computer, mostra le mappe.»
Lo disse senza pensare. Non aveva un reale bisogno di ricontrollare quei dettagli, ma era un buon modo per concentrarsi su qualcos’altro.
Il proiettore sul tavolo diede vita a una semisfera di schermate lucenti. L’umano si ritrovò circondato da una serie di planimetrie: su tutte, unico tratto comune, c’era la scritta “Accademia della Flotta Stellare Unita – Capital City, Marcadia”.
Non servivano tutte. Indigo tenne visibili solo i piani dispari e si concentrò sui vani che aveva contrassegnato. Sgabuzzini, bagni, depositi. Tutti bersagli insospettabili, ponderati per mesi, ora accettandoli ora scartandoli.
Se il piano fosse andato in porto avrebbe inferto alla Flotta una ferita che non sarebbe mai guarita del tutto. In cinquemila anni di storia non c’erano cronache di un tentativo del genere. Sarebbe stato il primo, il più temerario e anche il più spettacolare degli attentati ai vigilantes delle Galassie Unite.
Un brivido risalì la schiena. Eccitazione: la portata delle conseguenze del piano – del suo piano – lo rendeva impaziente.
 
«BIP BIP BIP!»
 
L’attenzione saettò al chatter sulla scrivania.
«Chiudi mappe.» ordinò. La stanza tornò normale nel momento esatto in cui afferrò il congegno.
L’icona sul display fece scendere su di lui una cappa di calma gelida. L’esito di quella mossa – e con essa il destino del piano – era lì, dentro quella bustina fatta di pixel. Umettò le labbra con un movimento veloce, e l’aprì con un tocco secco.
 
Contatto avvenuto. Posizione presa. Identità: Iridel Karpitch.
 
Le labbra si arcuarono per la soddisfazione, l’euforia tornò a scorrergli nelle vene. L’infiltrazione era avvenuta con successo; il piano proseguiva. Ora che Shape aveva preso posto tra le fila nemiche, il conto alla rovescia era iniziato. C’erano gli ultimi accordi da prendere, questioni logistiche da sistemare, attenzioni da distogliere.
Tornò all’intercom e si mise di nuovo in comunicazione con il ponte di comando. «Capitano è ora. Torniamo a Kartheen.»
Finse di non notare il sospiro di sollievo del suo subalterno e chiuse la comunicazione.
Un mese, Shape. Hai un mese a partire da adesso. – pensò, mentre la Amynedd riprendeva la marcia, scivolando nel vuoto come un cargo qualunque.

 

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Capitolo 2
*** | Capitolo 01 | Cadetti ***


[ 01 ]
Cadetti
29 giorni dopo, 3 giugno 5402–PF
Accademia della Flotta di Capital City (Marcadia)
Campus, dormitorio ovest
 
Reshan entrò in camera mentre la lancetta lunga scattava a segnare le 14:30. Slacciò il colletto della divisa e materializzò dalla polsiera il memo delle cose da fare. Si disse che la voce di Patologia III poteva cancellarla e che il tema di Diritto necessitava solo di un ultimo controllo. Lingue, però, gli avrebbe preso un mucchio di tempo. Lui e il Quinto Ceppo erano cognitivamente incompatibili; ne aveva preso atto molto tempo prima.
Prima di tutto avrebbe dovuto occuparsi dell’unica voce assente sul memo: il dossier Blackeye. O all’istruttrice Donno avrebbe presentato solo fatti a metà, e come minimo si sarebbe visto revocare le credenziali della piattaforma.
Sì, quella è la priorità; Lingue la studierò dopo. Magari chiederò aiuto a Nirmun. No, senza magari: da solo ci metterei il doppio del tempo. Okay, suona come un piano. Va bene, mi rinfresco il viso e comincio.
Mentre si asciugava la faccia incrociò il suo sguardo allo specchio. Lo faceva spesso; gli piaceva il punto d’azzurro delle sue iridi. Peccato solo che i geni l’avessero appaiato a un vello rosso vivo: tanto visibile quanto improbabile, almeno su uno xarthar pipistrello.
Okay Reshan, basta futilità. La signora Donno non sente scuse. Piuttosto... – rimise a posto l’asciugamano e tornò a scrutare il vuoto in camera – Sul serio Lys non c’è?
Era quanto meno curioso: di solito il venerdì, al rientro, lo trovava alla VG. Però, date le circostanze, sarebbe stato perfetto se il suo compagno di stanza fosse stato fuori. Lo sarebbe stato ancora di più se ci fosse rimasto a lungo, perché il dossier Blackeye era un segreto fra lui e l’istruttrice. Perciò controllò minuziosamente in ogni dove: scoprì uno dopo l’altro tutti i nascondigli e, quando infine si convinse d’essere solo, si mise al computer.
 
La piattaforma della Flotta lo accolse con la sua home page blu e argento, austera secondo ogni cliché militare. Se l’era chiesto, qualche volta, perché la grafica trasmettesse un tale senso di ostilità. Aveva raggiunto due ipotesi plausibili: o il designer era nuovo del mestiere o si era sentito pesantemente sottopagato.
Senza indugiare oltre accedette all’archivio dei rapporti e filtrò l’enorme massa di dati attraverso le parole “Razziatori” e “Blackeye”.
Più di trecento rapporti in tre giorni. Però! È quasi il record! – Con un gesto entusiasta materializzò la sua banca dati personale. – Oggi avrò un mucchio di cose da leggere.
* * * * * *
Un paio d’ore più tardi
Dormitorio ovest, secondo piano
 
Era metà pomeriggio e nella mente di Jack Steel figurava un’unica parola: tragedia.
La stanza era in completo disordine. Non era così, di solito, ma quella volta era semplicemente un casino. La sua carriera da ingegnere della Flotta – e probabilmente anche la sua vita – erano condannate a una fine atroce se il faldone non fosse riemerso.
Con lui, nella stanza che sembrava implosa, non c’era il suo coinquilino. Il pusillanime aveva intuito una tempesta e si era defilato alla svelta, lasciandolo col suo boia: Linda Jork, compagna di corso e – nello specifico – di lavoro. Ritta davanti a lui, mani strette sui fianchi, sembrava seriamente intenzionata a fargli del male.
«Fammi capire meglio» sillabò, voce acuta e tono tagliente. «Fra tre settimane c’è la consegna e tu hai perso il progetto?»
Il colletto si fece troppo stretto. Il giovane cazar sentì la bocca asciutta. «Non lo trovo» ammise sottovoce.
E la coscienza gli fece eco cantando: Trageediaaa!
«Sei un idiota! Ti rendi conto che non abbiamo digitalizzato nulla per evitare che ce lo clonassero?» trillò lei, calcando appositamente sul nulla. «E adesso tutti i calcoli, le relazioni... è andato tutto!»
«È... aspetta» era pronto ad accampare una scusa quando ricordò. «Ieri ho svolto qualche esercizio con Yale. Sai, il pilota che..–»
Non ebbe bisogno di spiegare oltre, lo lesse nella sua espressione. Così tornò al discorso precedente. «Il faldone era fuori, in mezzo al resto. Magari l’ha preso e non me ne sono accorto.» O almeno prego che sia così.
La kerwaniana spostò le mani dai fianchi a una posizione incrociata sul petto. «E dove sta Yale?» domandò, imperiosa.
Per un istante nei suoi occhi brillò una luce strana, quasi come fosse divertita. Jack immaginò che alla sua egocentrica collega piacesse vederlo mortificato. Indicò l’armadio con un debole cenno di mento, sentendosi bastonato due volte. «La stanza di fianco.»
Linda lo trascinò senza mezze misure. Bussò, e oltre allo schiocco delle nocche sul legno, i braccialetti al polso tintinnarono. Collane e orecchini non erano vietati, per la gioia di molte ragazze, ma alle mani erano concessi solo le polsiere fornite con la divisa. Jack glielo avrebbe ricordato se il suo cruccio non fosse stato così pressante.
Perdere il progetto. L’intero progetto. Mesi di lavoro di Meccanica degli Armamenti. A tre settimane dalla consegna. Solo il cielo sapeva cosa sarebbe successo se non fosse riapparso.
 
La porta fece clack. Tutte le sue speranze si concentrarono sull’uscio... salvo poi dissolversi all’istante. Sulla soglia non c’era il lombax, ma lo xarthar suo coinquilino. Vello rosso e livrea grigia: non avrebbe potuto scambiarli nemmeno volendo.
Sentendosi a un passo dalla fossa, il giovane cazar gemette.
«Jure!» esclamò invece Linda, sorpresa, cambiando umore in un battito di ciglia. «Non pensavo dormissi qui!»
«E invece...» rispose lui, mostrando un sorriso di cortesia. «Posso esservi d’aiuto?»
Jack riassunse la situazione in poco più di due frasi, inserendo una supplica nel tono. Reshan, come sperava, fece mente locale, ma alla fine scosse la testa. «Se l’ha preso lui ce l’ha ancora nella polsiera. Mi dispiace.»
L’espressione del vicino si fece terrea. La voce tenorile della coscienza diede fiato alle corde: TRAGEEDIAAA!
Lo xarthar intuì la dimensione del suo guaio e si affrettò ad aggiungere: «Però fra mezz’ora dovrebbe tornare. Se volete lo spedisco da voi.»
Le labbra sottili di Jack si allargarono in un sorriso scornato. Disse «Sì grazie» nello stesso momento in cui Linda rispose «No grazie.»
Reshan li guardò con aria interrogativa.
«È una faccenda nostra, ce la dobbiamo sbrigare noi. Torneremo.» decretò la kerwaniana. «Comunque... apprezzo l’offerta.» aggiunse, addolcendo il tono.
«Nessuna offesa. Mi dispiace solo che Ulysses la butterà sul ridere e non vi chiederà scusa, se davvero ha il vostro progetto.» replicò, prima che le grandi orecchie ogivali fossero scosse da un leggero fremito. Jack se ne accorse, e questo lo portò nuovamente a coagulare le speranze intorno all’arrivo del pilota. Ancora una volta fu deluso.
«C’è un’ispettrice.» informò lo xarthar, rivolgendosi a Linda. «Sarebbe meglio se togliessi i braccialetti. Sono graziosi, ma ti costerebbero un’ammonizione.»
«Ah! Hai ragione!» la giovane portò una mano fra i riccioli voluminosi, mentre le guance assumevano una sfumatura rosata. «Sarebbe un richiamo formale, stavolta...» mentre l’ultimo di essi si smaterializzava nella polsiera, un lampo di vivacità si fece strada nelle sue iridi scure. «Posso offrirti un caffè per sdebitarmi?»
Le orecchie dello xarthar scattarono impercettibilmente, stavolta verso la stanza. «Con piacere. Facciamo domani?»
Linda cinguettò un assenso felice. Nello stesso momento la silhouette robotica di un’ispettrice fece capolino dietro l’angolo. I due ingegneri tornarono nella stanza di fianco, decidendo di passare quella mezz’ora a cercare di nuovo il faldone col progetto.
* * * * * *
Reshan chiuse la porta e pensò allarmato al dossier aperto sullo schermo. Doveva chiuderlo subito. Il passo dell’ispettrice in corridoio poteva essere un caso, ma certi rumorini in camera gli facevano credere il contrario. Lo scorrere della finestra, il fruscio leggero di una zip: li conosceva troppo bene per ignorare cosa stava per succedere.
Guardò il suo letto; guardò le coperte grigie che cadevano ordinate fino a terra. Pensò al sacco a pelo che celavano e dalla sua bocca uscì un semplice: «Sei qui, vero?»
Non ricevette risposta. Il tacchettio in corridoio si fece più deciso. Lo xarthar tornò al computer ma non si sedette. Fece appena in tempo a coprire il tutto con il tema di Diritto, prima che dalla porta arrivassero colpi di nocche. Meglio aprire, prima che la proprietaria dei tacchi invocasse il regolamento e forzasse la porta.
 
Stavolta, venti centimetri più in basso, trovò lo sguardo ramato di un’androide in tailleur verde. Come immaginava. Salutò con garbo mentre l’occhio corse in automatico alla sigla stampata come un badge sul petto metallico.
13-Tl. Thallia. Uhoh.
L’ispettrice gli rivolse un sorriso affettato. «Salve allievo Jure. Riesce a indovinare perché sono qui?»
Domanda retorica. Erano tre anni che quella scena accadeva con regolarità, e c’era una sola invariabile risposta a quella domanda: Ulysses Yale.
Le sue spalle calarono impercettibilmente, e quando parlò il suo tono espresse un misto di rassegnazione e fastidio.
«Cos’ha fatto stavolta?»
«Mi faccia entrare.» tagliò corto lei.
Quando la robot lo scansò per avanzare nella stanza il pipistrello non poté fare a meno di deglutire. Era sicuro che l’amico fosse in camera, anche se prima non gli aveva risposto. Ciò che non poteva sapere era se Thallia avrebbe seguito o meno il protocollo ispettivo: questo, come ogni volta, gli causò un senso di allarme. Se l’avesse bypassato e avesse guardato sotto il suo letto sarebbero stati guai per entrambi. Il sacco proteggeva da tutti i filtri possibili meno che dalla vista comune.
«Apra il suo armadio, prego» l’interruppe Thallia, raggiungendo con poche falcate il guardaroba del lombax. Lo xarthar si limitò ad obbedire: imitò il suo gesto e mise in mostra la scarsa gamma di abiti in suo possesso. Sgarrare non sarebbe stato saggio; non dopo che un allievo era stato scoperto a foderare le ante dell’armadio con un isolante forte. Cosa ci volesse fare era un mistero, ma da allora le contromisure si erano irrigidite.
Thallia si portò al centro della stanza. La sua testa si sollevò di qualche centimetro; poi, lentamente, roteò di 360 gradi. Reshan provò un moto di sollievo. Scansionava la stanza, riconobbe. Seguiva il protocollo.
«Si sente teso, allievo?» domandò l’ispettrice. «I sui valori biometrici lo indicano. Se lo desidera sa che sono aperta alle confidenze.»
Confidenze. Un modo galante per chiamare le confessioni.
«È normale stress.» mentì lui. «Siamo alla fine dell’ultimo anno e i professori tirano tutti i fili tutti insieme.» Poi, con una calcolata nota di sarcasmo, aggiunse: «Forse potrei anche dormire, se la giornata fosse di trenta ore.»
«Normale stress, capisco.» ripeté la robot, vagliando la risposta. «Immagino che il suo coinquilino le dia da fare, oltretutto.»
Ecco che ricominciava. Quando Thallia ispezionava la camera per causa di Ulysses, conduceva con lui una sorta di battaglia navale per sondare se, quanto e come fosse coinvolto nelle trasgressioni del lombax.
«Non è a me che dà da fare.» replicò con naturalezza. «Parli con il nostro vicino: è lui quello tribolato.»
«E in che modo?»
Lo xarthar riassunse ciò che il cazar gli aveva detto. Thallia alzò gli occhi al cielo e scosse appena la testa.
«Tipico dell’allievo Yale. Troppa leggerezza.»
Il suo tentativo era chiaramente fallito. Era il momento giusto per una tattica più diretta. «Il suo coinquilino è fuggito da una punizione di gruppo. Dovrebbe essere a pulire i poligoni, invece ha eluso la sorveglianza.»
«Di nuovo???»
Non riuscì a mantenersi compassato. Non ci riuscì proprio. La sera prima aveva speso venti minuti a chiedergli un’ultima settimana priva di “attività extra”. Lo aveva praticamente pregato. Solo a pensarci si accese per l’irritazione.
«Potrei sapere cos’è successo di preciso?»
«Oh, un dispetto tra allievi che è degenerato. Nulla che non sia routine in un branco dove tutti si sentono maschi alfa.»
Un dispetto... degenerato? – immaginò senza sforzo il coinvolgimento diretto del suo coinquilino. Fu carburante per l’irritazione.
La robot richiuse l’armadio e raggiunse la porta del bagno. Da lì ricontrollò l’alloggio, ma l’unica macchia di colori caldi aveva la sagoma del pipistrello. Reimpostò la visione senza filtri e si avvicinò alla porta.
«Le auguro una buona giornata, allievo Jure. E se dovesse vedere l’allievo Yale...»
«Chiederò asilo a Xartha, non abbia timore.»
L’ispettrice si fermò sull’uscio. «Prego?»
«Violerò una dozzina di trattati sul traffico d’organi. E poi traslocherò su Xartha.»
Un sorrisino comparve sul volto di Thallia. «Niente estradizione per gli xarthar. Scelta intelligente.»
«La ringrazio.»
«Saprò dove venire a trovarla, allora.»
«Sarà mia premura offrirle una tazza d’olio bollente. Buona giornata anche a lei, ispettrice.»
 
Una volta rimasto solo, nella stanza scese una quieta immobilità. Durò pochi secondi; il tempo necessario perché la robot si allontanasse.
«Esci fuori. Subito
Silenzio.
Puntò le iridi color cielo sulle coperte, che scendevano ordinatamente dal fianco del letto. Una cortina grigia che nascondeva il più speciale dei nascondigli che avevano architettato.
«Ulysses Yale, ingrato degenere, sto parlando con te.»
Silenzio.
Era strano che l’amico non gli rispondesse... e che non l’avesse fatto neanche prima. Non poteva essere una questione di rumore: essendo telepate, avrebbe potuto comunicare senza curarsene. Che si fosse sbagliato? Che si fosse ingannato, e che quelli sentiti fossero solo rumori di un campus nei suoi ultimi giorni di studio?
Meglio controllare. Ma prima, per sicurezza, diede un giro di chiave alla porta.
Quando avevano sistemato i mobili, all’inizio dell’anno, lo xarthar aveva chiesto che nell’angolo della stanza non ci fosse il letto, ma il comodino. L’aveva fatto passare per un capriccio e nessuno ci aveva dato peso. In realtà il piccolo corridoio fra muro e letto era un punto cieco per chi non si sporgesse appositamente a guardare, cosa piuttosto utile quando si trattava di tirare Ulysses fuori dal sacco. Come in quel momento.
Il pipistrello allungò un braccio sotto la rete. Non dovette sforzarsi per raggiungere la maniglia laterale del sacco a pelo.
«Sono io» annunciò, tirando con forza la striscia di stoffa. Dalle coperte emerse metà di un bozzolo di tela grigia, opaca e ruvida al tatto. Più o meno all’altezza del petto c’era ricamato il logo delle industrie KiJu e, sotto, la scritta PROTOTIPO. Da come pesava era evidente che fosse pieno. Lo aprì con impazienza.
Ed eccolo: Ulysses Yale, a occhi chiusi e bocca spalancata, che apparentemente dormiva. Il gel stava cedendo e ciocche nere cadevano in disordine sul vello grigio, appena davanti le grandi orecchie da lombax.
Reshan gli scoccò uno sguardo sconcertato.
Non ci credo.
Lanciò un’occhiata intorno: al letto sfatto del lombax, alla mobilia, alla scrivania col computer acceso. Tornò a fissare l’amico. Nella mente si affacciarono le parole di Thallia: un dispetto tra allievi che è degenerato.
Li conosceva bene, lui, i dispetti di Ulysses. E se lui era davvero coinvolto in prima persona e se quello era il risultato...
Materializzò all’istante lo scanner medico. Le dita corsero velocemente sui filtri. La sua espressione si mantenne concentrata finché comparvero i risultati. Semi coscienza dovuta a lieve commozione cerebrale. Contusioni di varia gravità sugli arti superiori e inferiori.
Il suo lato di medico subentrò a quello di amico. Tirò il sacco completamente fuori dall’ombra del letto e trasferì il lombax sul materasso con l’ausilio di un raggio trattore. Poi raggiunse il bagno e ne tornò indietro con un hypospray dal contenuto color topazio.
Cercò subito Ulysses con lo sguardo, come aspettandosi che non fosse più lì. Non sarebbe stata certo la prima volta! Ma il lombax giaceva esattamente come l’aveva lasciato, con la maglietta che si muoveva impercettibilmente a ogni respiro.
Ti hanno proprio messo fuori gioco, eh?
Lo xarthar gli tastò il collo con due dita e, trovato il punto giusto, sparò il contenuto della siringa.
L’amico rientrò al posto del medico, portando con sé tutte le sue incertezze. Il manuale dice che la sostanza deve agire per almeno un’ora. Se lo lascio riposare secondo i suoi tempi dovrebbe essere a posto. Dovrebbe. Lo controllerò di tanto in tanto per sicurezza.
Parzialmente convinto se ne tornò al computer, dove la piattaforma digitale della Flotta lo attendeva. Aveva letto più di metà dei rapporti trovati, ma non aveva trovato nulla di rilevante. Come sempre la maggior parte erano rapporti di falsi avvistamenti. Come sempre, almeno nell’ultimo mese, Indigo Blackeye era uscito dai radar.
E questo potrebbe essere un dato in sé. Un dato dalle prospettive terrificanti, ma un dato. Se non trovo altro, al prossimo incontro con la signora Donno lo farò presente.
Sempre meno convinto di tutte le faccende in corso, riprese a leggere.
* * * * * *
Tre ore dopo, 19:40 circa
Dormitorio ovest, secondo piano
 
Sentiva la mente leggera, quasi che non ci fosse. Meno male; prima di chiudere gli occhi era così pesante...
La schiena e le spalle erano indolenzite. I lividi erano sicuri; magari avrebbe guardato se nella cassetta medica c’era il belletto. Però n’era valsa la pena. Insomma: arrivare a uno scontro diretto con la Donno non era mica roba da tutti i giorni!
Ridacchiò tra sé, e la stanza gli rese l’eco della sua voce arrochita. Solo allora si accorse di essere a letto e non più nel sacco.
Inorridito, si tirò velocemente a sedere.
«Re?» chiamò. Non ottenne risposta. Sentì come se l’avessero schizzato con l’acqua gelida. Thallia era passata di sicuro. Se lui era lì era perché l’aveva scoperto? Aveva scoperto che Reshan era suo complice?
Allargò la mente con prudenza, fino a coprire la stanza. Era solo. Non era un buon segno. Però la sveglia proiettava sul soffitto ch’era ora di cena.
Sarà in mensa – si rincuorò, pensando di raggiungerlo e spiegargli cos’era successo. Non ci voleva un genio per immaginare che l’improvvisata gli avesse scombussolato i programmi. Però se gli racconto della figura di merda di Genedo come minimo se la ghigna abbastanza da dimenticarsi di me!
Allargò di nuovo la mente, stavolta oltre i limiti della stanza. Puntò direttamente al piano terra, lì dove i due dormitori si univano in un basamento comune. La mensa si apriva proprio lì, con il suo enorme ambiente soppalcato e gremito di gente. Ulysses si trovò dinnanzi a un ribollire di impronte mentali piene di soddisfazione, indifferenza e irritazione in tutte le loro sfumature. Abituato a simili percezioni, spinse la sua mente proprio nel centro di quel marasma. Identificò quasi subito Linda Jork, e subito un sorriso malizioso prese campo sulle sue labbra.
Chissà se oggi ha avuto fortuna. Scommetto che Re le ha fatto notare i braccialetti. Spero che abbia notato anche lei! Mondo infame! C’è chi venderebbe la nonna per andarci a letto, e lui non si è accorto che lo punta da mesi! Bah!
Lasciò Linda alle sue chiacchiere e sgusciò abilmente fra pensieri e ricordi, alla ricerca dell’impronta mentale che in quel momento gli serviva. Di Reshan, però, non c’era traccia. Poco male: c’era un altro posto in cui controllare, prima di temere il peggio.
Si concentrò e spinse la propria percezione verso sud, verso l’edificio che l’amico apprezzava di più: la biblioteca. Della sua storia e delle sue glorie ne aveva sentito parlare un milione di volte, ma non gli era mai interessata un granché... salvo per certi testi davvero utili ma davvero introvabili. Testi sulle più celebri tecniche di volo e sulle capigliature più strane della storia (anche se avrebbe spergiurato di non aver mai visto quei titoli in vita sua).
Una volta in biblioteca la sua ricerca proseguì senza più alcun metodo, secondo un procedimento frettoloso che lo portò a saltare senza logica da un piano all’altro. Desiderava solo scovare il suo amico, avere conferma di averla scampata con Thallia e fiondarsi fisicamente in mensa.
Lo trovò nella sala dedicata alle lingue e ai dialetti. Qualunque cosa lo xarthar stesse leggendo o facendo lo assorbiva completamente: approfittando di ciò Ulysses si tuffò fra i suoi pensieri.
Dunque, i fatti di oggi...
Non fu una ricerca particolarmente lunga. Confermò che Thallia non li avesse scoperti. Scoprì che la visita di Linda e Jack si era conclusa come lui e Linda avevano pianificato. Vide che la sua defezione – e la conseguente visita di Thallia – l’avevano irritato fino a farlo meditare contro di lui. Ma vide anche che, nonostante avesse minacciato di venderlo organo per organo, quando aveva aperto il sacco si era preoccupato per le sue condizioni.
Tutto normale, insomma. Non restava che restituire il faldone a Jack e fare quattro chiacchiere con Linda. L’obiettivo di incontrarsi a tu per tu l’aveva raggiunto, no? Ora c’era da programmare il passo successivo. Una conversazione brillante, magari un confronto tecnico: qualcosa che li facesse sentire come se fossero in un mondo che appartenesse solo a loro, così da renderli complici. Dopotutto lei era ingegnere e lui biomeccanico!
Facile, no?

 

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Capitolo 3
*** | Capitolo 02 | Rumori nella notte ***


[ 02 ]
Rumori nella notte
Sempre 3 giugno 5402-PF, ore 22:57
Accademia della Flotta di Capital City (Marcadia)
 
La biblioteca, di notte, sembrava un luminoso cristallo puntuto. Non che Ulysses avesse mai fatto particolamente caso all’estetica dell’edificio, però era conscio che fosse sempre aperta. Aveva già recuperato Reshan dalle sue sale a orari assurdi; quindi non trovò strano di fiondarsi a cercare suddetto amico all’alba delle ventitré.
Sarebbe potuto andare prima, forse, ma non aveva resistito alla tentazione di cenare al tavolo di Linda. Aveva saputo così l’altra versione della visita, e udire di prima mano tutte quelle risatine piene di speranze lo aveva caricato come una molla. Si era sentito orgoglioso della sua idea e si era gettato a capofitto nella pianificazione della mossa successiva. Era andata per le lunghe, ma aveva raccolto un sacco di entusiasmo dalla kerwaniana. Ora doveva solo imbeccare Reshan sulle cose giuste da dire.
E solo è un eufemismo; ma io sono io e ce la farò di certo.
Uscì baldanzosamente dalla piattaforma ascensore ed entrò nella grande sala al sesto piano. Gli scaffali erano come muri: alti, profondi e robusti. Per andare a colpo sicuro allargò la mente e si concentrò sull’impronta mentale di Reshan.
«Beccato!» disse tra sé dopo qualche istante, sorridendo con aria soddisfatta.
Scivolò tra gli scaffali lungo tutto il piano, fermandosi di quando in quando ai tavoli per salutare amici o conoscenti. Infine, proprio quand’era a pochi passi dalla meta, la risata divertita di Nirmun Tetraciel, arrivò alle sue orecchie... e, subito dopo, il gemito esasperato di Reshan: «Oh, ti prego! Mi sento già abbastanza incapace da solo!»
Ulysses si bloccò. La Tetraciel era lì. Nirmun Tetraciel era lì. Con Reshan. E rideva di lui. Adorabilmente.
L’istinto del pettegolezzo lo travolse come una sirena suonata nelle orecchie. Poteva essere una novità inaspettata... e una svolta tremenda! Se era ciò che sembrava – e lui ne era abbastanza convinto – sarebbe stato tagliato fuori dalla vita sociale sia della sua partner che del suo migliore amico.
Inconcepibile!
Doveva capire se si era appena fatto un viaggio mentale. Doveva assolutamente, tempestivamente, tassativamente valutare la situazione! E senza farsi scoprire!
Fissò con attenzione lo scaffale alla sua sinistra, unico divisorio fra lui e la presunta coppia. Ne percorse quasi l’intera lunghezza in punta di piedi: lui pipistrello, lei coniglio, i suoi bersagli erano dotati di due degli uditi più fini tra gli xarthar.
«Eddai Jure! Mica è così difficile!» rise ancora lei.
«Non è difficile, è illogico! Sono un mucchio di regole contraddittorie!»
«Ah ah ah! Ma sì che c’è una logica! È solo che il Quinto Ceppo è versatile, quindi dipende dal caso. Aspetta, vediamo se così ti entra...»
Mentre Nirmun elencava esempi Ulysses, che aveva trovato la fessura giusta attraverso cui spiare, sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. Fu come se, all’istante, negli strati più bassi della sua mente si fosse rotto un idrante di sollievo e preoccupazione.
Si girò di scatto e trovò davanti la faccia disperata di Jack Steel. Se non altro, grazie al suo movimento repentino, la mano lasciò la sua spalla e l’idrante mentale sembrò richiudersi.
«Oh, ciao Jack.» E addio missione stealth. «Ti vedo stanco. Tutto okay?»
«Il faldone col progetto sul vecchio cannone a ioni. Non lo trovo da nessuna parte. Non è che ieri l’hai preso tu?»
L’ingegnere emanava un incredibile ammontare d’ansia. Era una vera fortuna che non stesse più avendo un contatto fisico, altrimenti sarebbe stato impossibile rispondere in maniera comprensibile.
Ulysses mostrò un sorriso candido. Sì che l’aveva preso lui; era stata una mossa pianificata con Linda. Ma questo Jack non doveva saperlo.
«Parli di quel mostro pieno di fogli foglietti e post-it? Me lo sono trovato nella polsiera e mi stavo giusto chiedendo di chi fosse.»
Jack si sentì letteralmente liquefare. Il progetto era lì. Non era andato perso. C’era. Andava solo recuperato.
Istupidito dal sollievo mugolò un debole «Mi serve.»
«Ce l’ho in camera; dopo te lo porto.»
«No!» si accorse di aver urlato e abbassò subito il volume. «No, “dopo” sarà irrimediabilmente tardi. Domani c’è la revisione e devo ancora lavorarci! Ogni minuto è essenziale!»
«Ma...»
«È tutto il giorno che ti rincorro! Prima sei a lezione, poi ti senti male, ora lo so che hai appuntamento con Jure, ma quel coso mi serve adesso
Ulysses lanciò un’occhiata di traverso alle figure al di là dei libri. Appuntamento con chi socio?
Però la disperazione dell’ingegnere era tangibile, e lui poteva ritardare ancora un po’. Fece per dargli una pacca sulla spalla, ma all’ultimo si fermò. Meglio evitare il contatto fisico ancora per un po’.
«Dai, andiamo.» e s’incamminò con il cazar. «Sul serio: non capisco come sia finito nella mia polsiera...»
 
Dietro la scaffalatura, al tavolo cui era seduto, Reshan si sentì intimamente soddisfatto.
«Costerà a Jack una notte in bianco, ma almeno riavrà in tempo il suo materiale.» commentò a voce bassa. Nirmun, seduta vicino a lui, lo guardò con aria perplessa.
«Era per questo che prima ti sei fiondato a parlare con quell’ingegnere?»
L’altro annuì. La soldata ghignò: «E io che credevo che volessi scappare!»
«Dopo che mi hai gentilmente concesso il tuo aiuto? Sarebbe rude!» rimbeccò lui, punto nell’animo. «Era affinché Ulysses sistemasse i suoi guai.»
«Yale che fa casini? Com’è che non mi stupisco?» replicò sarcasticamente. Poi, stufa di parlare di Lingue, chiuse il libro davanti a lei e si appoggiò col gomito sul tavolo. «Che ha combinato?»
Il pipistrello posò la matita. «Hai presente il cazar di prima? Jack Steel, del terzo anno... forse lo conosci come Cricchetto?» La coniglia scosse la testa. Vuoto assoluto. «Fa nulla. Il punto è che Ulysses gli ha fregato del materiale. Si tratta di un lavoro di coppia, e quando Jork – la sua collega – si è accorta che non ce l’aveva più...»
Nirmun aggrottò le sopracciglia. «Linda Jork? La kerwaniana? Terzo anno, naso schiacciato e ricci a cespuglio?»
«Lei.»
«Oh, povero. Conosco le sfuriate di quella pazza.» Passò distrattamente una mano sulle lunghe orecchie. Reshan si chiese se ne fosse mai stata bersaglio. Nirmun, solo a ripensare a quella voce stridula, si sentì vicina al giovane ingegnere. «Yale è un idiota. Quel poveraccio avrà visto i sorci verdi per colpa sua.»
Il medico annuì ancora, ripensando a dopo che aveva messo Ulysses a letto. Il muro fra le due camere non era stato sufficiente a contenere la voce della kerwaniana, e il modo in cui aveva strigliato il povero Jack era stato impressionante. Nirmun aveva sicuramente ragione sui sorci verdi.
«Dovrebbe almeno scusarsi.» concluse lei.
«Sono d’accordo. Ma sappiamo entrambi che non lo farà. Già solo perché restituisse il materiale c’è voluta una trappola. Per fargli chiedere scusa cosa servirebbe?»
La soldata alzò gli occhi al soffitto per qualche istante, visibilmente pensierosa. «Una catastrofe, magari..?» buttò lì, prima di tornare al suo tono deciso. «Comunque stasera chiudiamo qui. I casi più comuni te li ho fatti tutti e il prof non è così perfido. Dovresti essere coperto.»
Appena finito si alzò e cominciò a smaterializzare le sue cose nella polsiera. «Oh, e fammi sapere, okay? Se quel murha non si scusa giuro che domani lo striglio io.»
Reshan ridacchiò. «Sissignora, sarà mia premura.» Poi, in un flash, ricordò che Soldati e Piloti l’indomani avrebbero avuto in comune solo Difesa, e allora sentì l’obbligo di farsi il memo: Rinnovare le scorte di medicinali e impastare un barattolo di belletto.
* * * * * *
Dopo aver restituito il materiale Ulysses tornò in biblioteca. Attraversò le sale a passo allegro, con la coda che fendeva ritmicamente l’aria.
«Reshan Jure, cercavo proprio te!» esclamò baldanzoso, raggiungendo il tavolino spiato in precedenza. Lo xarthar era concentrato su una traduzione e gli fece un gesto di saluto piuttosto distratto. Il pilota si sedette sullo sgabello e, ignorando il lavoro dell’amico, cominciò a raccontare di come Jack fosse nervoso. Dall’innesco della trappola non era passato molto, ma con la sua parlantina il lombax lo fece sembrare come se fossero stati giorni.
«...che poi ti volevo chiedere: cosa galassia t’è venuto in mente di dire che avevo appuntamento con te? Cricchetto l’avrà detto a tutti e ora mi prenderanno per omo! Il mio futuro è compromesso!»
Il medico manco alzò gli occhi dalla sua traduzione. «Magari sei bisex.»
«Ma con te proprio no! Che schifo!»
Secondi di silenzio rotto solo dal rumore di penna su carta. Il passaggio da tradurre era particolarmente ostico e non gli permise di distribuire altrove l’attenzione. Poi, passata la frase terribile, alzò la testa e – mano sul petto – mimò un’espressione affranta. «Addirittura “che schifo”? Mi spezzi il cuore.»
«È ciò che meriti per aver messo Cricchetto sulla mia strada.» sentenziò il lombax, prima di sfoderare un ghigno furbetto. «Non mentire. Cricchetto non sta mai in biblioteca dopo le dieci la sera.»
Reshan si sistemò meglio sullo sgabello. Ulysses aveva unito i puntini, proprio come sperava.
«Sì, è stato un escamotage.» ammise tranquillamente. «Così ti ho dato l’opportunità di sistemare senza ripercussioni il casino che hai combinato. Se guardassi un palmo più in là dell’apparenza noteresti che ti ho fatto un favore. Vogliamo parlare piuttosto della tua comparsa in camera di oggi?»
«E perché no? Volevi vendermi a bei pezzi!»
La bocca del pipistrello si aprì e richiuse in rapida sequenza; la risposta soppressa sul nascere. Se lo sapeva allora aveva già frugato nella sua mente. Non c’era bisogno di girare intorno all’argomento.
«Hai anche il coraggio di biasimarmi?» sfidò. «T’avevo chiesto di stare buono per l’ultima settimana – ché lo sai che l’ultima settimana per noi è un casino – e tu cosa fai?»
Contò uno. «Metti Steel nei guai.» Contò due. «Evadi dalla punizione e mi porti Thallia alla porta.» Contò tre. «Scali otto metri di grondaia con l’equilibrio parzialmente compromesso e ti fai trovare semicosciente nel sacco. Perciò sì, mi sono stizzito.»
A predominare nel tono contenuto dello xarthar c’era il rimprovero. Poi, prima che l’altro rispondesse, aggiunse: «Ti rendi conto almeno un po’ del rischio che hai corso?»
«Uh, quello. Che vuoi che fosse.» e sventolò una mano con aria indolente. Il mondo aveva ballato come un metronomo mentre si arrampicava sulla grondaia, ma non era certo un dettaglio così importante.
«Neanche un po’, Lys? Sul serio?»
«Arrivare a ingaggiare uno scontro con la Donno: quello è un rischio! E uscirne vivo è a dir poco epico!»
«So già tutto.» tagliò corto Reshan, bloccando sul nascere quella che prometteva di essere una lunga narrazione diversiva. «Ti sei scusato con Steel, almeno?»
Sguardo accusatorio. Per sostenerlo Ulysses mostrò la sua faccia innocente più convinta. «Dovevo? È stato un incidente!»
Il pipistrello si fece scettico. «Ma davvero? E da quando tu, che declami la tua brillantezza dalla mattina alla sera, ti appropri senza cognizione di faldoni alti dieci centimetri?»
Ulysses, per tenere la copertura al piano elaborato con Linda, si affrettò a ribadire che lui era del tutto innocente. Lo xarthar gli rispose con uno sbuffo.
Allora tirò fuori il tono da vittima. «Ehi, dammi almeno il beneficio del dubbio! Una distrazione può capitare a chiunque!»
* * * * * *
Alla fine della serata, quando tutti i brani furono completamente tradotti, i due uscirono dalla biblioteca. Reshan si sentiva soddisfatto, soprattutto per aver coinvolto il perfetto e brillante Ulysses Yale nella sua lotta con quel mostro grammaticale del quinto ceppo. Il pilota per questo era un po’ meno contento dell’amico, ma in fondo sapeva di essersela cavata con poco. E poi era anche riuscito a impiantare un paio di suggerimenti nella mente dello xarthar: questo da solo valeva tutta la sudata sull’ultimo brano.
Attraversarono il giardino con calma, diretti ai dormitori. Durante il tragitto Ulysses monopolizzò il discorso, trascinandolo sulle gesta eroiche compiute nella simulazione di combattimento avuta quel pomeriggio, prima che i fatti degenerassero e lui marinasse la punizione così ingiustamente subita.
 
Il giardino era l’elemento di raccordo di tutti gli edifici del complesso. A nord c’era la zona residenziale, con le torri speculari e il basso corpo che le univa. Ad est, alle loro spalle, c’era la biblioteca, con la facciata in vetro nervata da archi in acciaio. Ad ovest c’erano i poligoni di tiro, gli hangar e un paio di altri edifici più bassi. Al centro esatto, infine, svettava l’Accademia vera e propria, con la sua pianta cruciforme.
Stavano aggirando quest’ultima quando la discussione fu bruscamente troncata da un rumore di fondo, tanto improvviso quanto anomalo, che li fece voltare verso l’angolo dell’edificio.
«Hai sentito?» mormorò Ulysses.
«Già. Qualcosa di metallico è caduto. Qualcuno sta imprecando.» rispose Reshan, guardandosi intorno con attenzione. L’amico lo fissò a occhi sgranati.
«Addirittura le imprecazioni senti?»
«Non ho le orecchie così grosse solo per farmi prendere in giro. E poi a quest’ora i suoni...»
Si bloccò. Per un secondo netto il corpo, l’espressione e i pensieri rimasero congelati. Poi, abbassando il tono di voce ad un fruscio a malapena udibile, ordinò: «Switcha
Il tono allarmato con cui espresse quell’unica parola fece sì che il lombax aprisse un canale telepatico senza fare altre domande.
«Andiamo via. Questo non è un allievo.»
«Magari è una matricola che s’è persa.»
Reshan lo afferrò per un braccio. Successe come con Jack: Ulysses si trovò di nuovo a provare un’emozione non sua. Solo che lo xarthar non stava provando ansia, ma paura. Desiderava fuggire, mettersi al riparo.
«Via dalle luci. Facciamo il giro lungo.» disse trascinandolo dentro un’aiuola. Il contatto terminò lì, e con esso le emozioni clandestine.
Mentre si allontanavano, nascosti dalle fronde di una fila di palme, il lombax chiuse il canale telepatico con lo xarthar ed espanse le sue percezioni alla ricerca di chiccheffose fuori a quell’ora. Dopo alcuni secondi tornò indietro, scornato. Non era arrivato molto lontano prima che la sua abilità si disperdesse. Significava che l’individuo aveva un antipaticissimo emettitore di onde tachys.
Vorrà dire che frugherò nella memoria di Re.
* * * * * *
“Indigo mi ucciderebbe se mandassi a puttane il piano... Per fortuna che non è esplosa. Non che se fosse esplosa sarebbe andata diversamente... Fai vedere... no, è solo ammaccata. La aggiungerò alle altre. E per fortuna che è abbastanza tardi che non circola nessuno. Sai che palle gestire i cadaveri.”
 
“Però la prossima volta ci faccio venire Indigo qui, e che diamine! Non ho più l’età per questi lavori di fatica; non ce l’ho proprio più.”
 
“Bah, spero che dopodomani ‘sta roba funzioni. Indigo è bravo coi congegni, ma ‘sta roba per me è troppo naïf.”
* * * * * *
Raggiunsero il dormitorio a passo svelto, nascosti all’ombra delle palme. La robot all’ingresso, adocchiatili, chiese loro se avessero visto un fantasma. I due, per la fretta, a momenti non risposero nemmeno. Borbottarono qualcosa di sconnesso e tirarono su per le scale.
In camera non si sentirono molto più tranquilli. Reshan prese a fare avanti e indietro mentre Ulysses, l’ultimo a entrare, rimase appiattito contro la porta.
«L’hai sentito anche tu, vero?» domandò lo xarthar, fermandosi al terzo passaggio davanti alla scrivania. «Cioè, hai letto..- »
«No. Usava un emettitore tachys; ho letto i tuoi ricordi.»
Attimo di silenzio. Poi il lombax riprese: «Se penso facevamo tutto quel casino mi sento male.»
«Siamo stati fortunati.»
«E anche qualcosa di più, mondo infame. Pensa se ci avesse sentito prima lui...»
Reshan non rispose. Non volle pensarci, e per non farlo si gettò a capofitto su quel nome, Indigo. Era curioso come riuscisse a metterlo in allerta tanto efficacemente. Infatti era stato quello a fargli scattare l’allarme. Se la voce se non l’avesse citato, non avrebbe dato peso al suo gracchiare. E chicchefosse l’aveva citato ben due volte.
«Chi poteva essere?» domandò Ulysses.
Il medico si fermò di nuovo, e stavolta si lasciò cadere seduto sul letto. «Non ne ho idea.» La voce si era riferita ad un certo Indigo e quel nome lo tormentava da quando l’aveva udito. Poteva essere quell’Indigo quanto un perfetto sconosciuto.
«Ha parlato di esplosioni.» ricordò. «Non credo che fosse una metafora. E poi ha parlato di non avere più l’età. Di sicuro non è trentenne né adolescente.»
«Quello potevo dirlo anch’io. Nessuno che ha quella voce gracchiante fuma da meno di vent’anni. Minimo minimo gliene do quaranta.» stabilì il lombax. «E poi ha detto che dopodomani è un grande giorno.»
«C’è qualche evento, che tu sappia? Qualche riunione, magari?»
«Boh, magari c’è un meeting di cervelli. Però di solito ci sono i volantini.»
Scossi ma curiosi, cominciarono a costruire congetture. Alla fine, però, andarono a letto senza aver cavato un ragno dal buco.
* * * * * *
Shape, intanto, appoggiato alla balaustra che orlava il tetto dell’edificio centrale, si godeva una sigaretta. Dietro di sé il generatore della barriera ronzava tranquillo.
Era stata l’ennesima nottata di lavoro infame. Materializzare le bombole, caricarle con l’energia del generatore e smaterializzarle nuovamente. Quegli affari, vuoti, pesavano più di venti chili. Quanto pesassero da pieni non voleva manco saperlo. Gli bastava sapere che al momento della detonazione sarebbe stato in un posto sicuro.
Finì di tirare il tabacco, poi dalla polsiera materializzò un porta cicche e vi fece sparire ciò che restava.
«Dov’è che vanno queste?» mormorò, schiacciando un pulsantino sulla scatolina metallica. Il congegno, quasi come se l’avesse interrogato, proiettò una serie di riproduzioni 3D del complesso accademico. Quasi tutti gli edifici erano in verde. L’unico in giallo era proprio quello cruciforme. Shape vide che mancavano due piani al completamento dell’opera. Era nei tempi, pensò con soddisfazione.
Mise via il porta cicche e si concentrò. I fianchi dritti si arcuarono, il ventre si appiattì, la figura si slanciò. Dove, fino a poco prima, c’era stato un kerwaniano di mezz’età, in quel momento c’era una giovane lombax. Rapida, l’alunna nota come Iridel Karpitch materializzò una divisa del corso Soldati e si cambiò. Era ora di rientrare nel dormitorio.
«Goditi la pace, Capital City. Dopodomani ballerai al ritmo delle bombe.»

Ho aggiornato la guida aggiungendo il gergo lyssiano. Lo trovate nella Parte VI.
Grazie per la lettura!
 
Alla prossima!

 

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Capitolo 4
*** | Capitolo 03 | Triangolare il punto zero ***


[ 03 ]
Triangolare il punto zero
L’indomani, 4 Giugno 5402-PF, ore 8:00
 
C’era una routine ben precisa al mattino, messa a punto nei tre anni di convivenza. Il primo a usufruire del bagno era Reshan, che dei due era quello meno affezionato al letto. Così mentre lui si sistemava il lombax aveva il tempo di riconnettersi al mondo e, datisi il cambio, mentre Ulysses cantava la propria bellezza allo specchio, lo xarthar poteva vestirsi in tutta calma.
In quella particolare fase della giornata commenti, frecciatine e pettegolezzi erano un obbligo. O, come sosteneva il lombax: il prezzo da pagare per convivere con tanta figaggine.
«...così, per ripicca, la cara piccola Lilian Jensen si è portata a letto Genedo e ha sbattuto la sua notte infuocata in faccia al fratello.» stava dicendo – per l’appunto – dall’interno del bagno. «Accidenti, mi è sfuggita una ciocca...ma dov’è il barattolo nuovo di gel? Re, l’hai spostato tu?»
«Guarda sul terzo ripiano.» rispose lo xarthar, mentre chiudeva i pantaloni.
«Eccolo! Ciocca ribelle, adesso t’insegno io a rovinare l’acconciatura perfetta!»
Reshan roteò gli occhi.
«Ma ti stavo dicendo! Jensen non l’ha presa bene proprio per niente! E così è andato a chiedere spiegazioni al suo ragazzo e..–»
Lo xarthar, passato nel frattempo alle scarpe, alzò di scatto la testa.
«Perché, stanno insieme?»
«Certo! Da tre settimane! Non te l’ho detto? Sono stati epici: pensa che si sono dichiarati amore eterno mentre la Donno gli sparava addosso!»
Reshan ridacchiò. «Amore forse, ma eterno...»
«Oh sì, guarda, non gli do più di due giorni ancora, e sai che io me ne intendo. Ecco là, pronto per uscire! Chiudi gli occhi, che la mia vista potrebbe ispirarti pensieri sconci!»
«Eh! Ti piacerebbe!»
Dall’altra parte della porta giunse la risata a cuore aperto del lombax. «E allora chiudili perché tanta bellezza ti potrebbe accecare, checca!»
«Ma esci e falla finita!»
La porta del bagno si aprì lentamente, lasciando fuoriuscire un leggero velo di vapore. Dopodiché, in boxer, il lombax uscì cantando una marcia trionfale, facendo sfoggio del suo bellissimo vello grigio, venato sulla schiena da simmetriche quanto premonitrici striature nere che ricordavano vagamente delle ali.
Zampettò a ritmo fino all’armadio, prima di mandare tutto all’aria e mettersi a rufolare al suo interno.
«Senti...» cominciò lo xarthar, a quel punto.
«Lo so che ora vorresti saltarmi addosso perché la mia figaggine ti ha scatenato l’ormone, ma ti ricordo che sono etero.» rispose, la testa ancora infilata nell’armadio. «E ricordo che lo sei anche tu.»
Uscì dal mobile con una divisa pulita e l’espressione indagatrice. «O sei diventato bisex e non me l’hai detto?» aggiunse. «Perché, nel caso, ho un paio di nominativi da evitare come la peste.»
«No, non ho cambiato orientamento.»
Era abituato a quelle finte accuse. All’inizio gli causavano un abbondante imbarazzo – del quale Ulysses trovava sempre il modo di ridere – ma ultimamente non gli suscitavano più alcuna reazione. Passava semplicemente oltre. «Volevo avvisarti che andrò a controllare.»
Ulysses registrò l’informazione con leggerezza. C’era una macchia che non gli piaceva sull’orlo dei pantaloni.
«Controllare cosa?» domandò distrattamente, decidendo che li avrebbe indossati lo stesso.
«Il giardino. Per il fatto di stanotte.»
Il lombax si fermò, le orecchie dritte e l’espressione subito più buia.
«Ma sei partito di testa?! E se fosse ancora lì?»
Reshan scosse il capo. «Sono passate sei ore e più di metà campus è in piedi. Le probabilità che sia ancora lì sono nulle.»
L’altro indossò alla svelta la divisa, i movimenti secchi e la coda che esprimeva ampia contrarietà.
«In più domani deve succedere qualcosa. Qualcosa per cui quel tale non voleva testimoni.» insisté lo xarthar. «Stanotte mi sono spaventato e ti ho trascinato via. Invece avremmo dovuto denunciare la sua presenza. Adesso, per farlo, serve qualcosa di più credibile del ricordo di una voce che chiama Indigo.»
Era vero, – riconobbe Ulysses – c’erano le parole che il pipistrello aveva origliato. Quelle da sole bastavano a far capire che non fosse tutto uno scherzo... però erano parole che solo loro avevano sentito. Ci voleva qualcosa di tangibile da presentare alle ispettrici.
«Benissimo! Allora vengo con te!» decise. «Almeno, se ci sarà qualcuno, lo percepirò molto prima dei tuoi padiglioni auricolari. E intanto finisco di raccontarti di Jensen e Genedo...»
Reshan alzò appena gli angoli della bocca, grato per la sua scelta.
* * * * * *
Dopo colazione uscirono dal complesso dei dormitori. A quell’ora la migrazione verso le classi, i campi d’addestramento e i poligoni era in pieno svolgimento, quindi fu inevitabile unirsi alla fiumana di cadetti. In mezzo al marasma generale Ulysses finì il suo racconto e, come se fosse la naturale prosecuzione, aggiunse con noncuranza: «Non c’è nessuno. Ho controllato.»
Il discorso scorse talmente liscio che il pipistrello avvertì il bisogno di chiedergli di cosa parlasse. Poi, arrivatoci con un attimo di ritardo, replicò: «Sicuro?»
«Socio io sono la sicurezza in persona, dovresti saperlo. Oh, ma quello è Gregé!»
Reshan non fece in tempo ad aprire bocca che il lombax scattò in direzione di un altro allievo pilota, deciso ad arpionarlo con la sua parlantina.
 
Giunto nei pressi dell’aiuola della sera prima lo xarthar si staccò dalla calca e si addentrò sull’erba tosata. Le fronde delle palme gli solleticarono le orecchie mentre, indeciso su cosa cercare, aguzzava la vista. C’era stato un tonfo e un rumore metallico, quindi era caduto qualcosa in lega. Magari qualcosa di pesante, considerò, ricordando come si era lamentato il tipo. Forse con un po’ di fortuna avrebbe potuto individuare la sua impronta sull’erba.
Ulysses lo raggiunse dopo un paio di minuti. Lo trovò inginocchiato mentre tastava una zolla al margine del marciapiede.
«Non mi dirai che hai già scoperto tutto lo scopribile!» apostrofò allegramente.
«...Non lo so. Temo di sì, però.» rispose l’altro, pensoso.
Ulysses portò le mani alle guance. «Non mi dire! È un’impronta di scarponcino numero 44! Con un buco sotto la suola sinistra!»
Il pipistrello si girò di scatto, completamente colto alla sprovvista. «Ma che vai dicendo?»
«Oh, andiamo! Era una citazione famosissima! Ma che razza d’infanzia hai avuto?» Poi, subito dopo: «No, guarda, lascia stare. Che hai trovato?»
Anche se punto dal commento dell’amico, lo xarthar passò oltre e si rimise in piedi. «Guarda qui.» e allungò la mano aperta verso l’amico. Al centro c’era un pezzo d’ottone lungo pochi centimetri. Ulysses lo prese per esaminarlo meglio. A prima vista era un pezzo di tubo con una fascia più spessa al centro. Quando lo ruotò, però, si accorse che l’interno era occluso.
«Che cos’è?»
«È una valvola di non ritorno.»
Il lombax studiò ancora una volta l’oggetto. Di sicuro non poteva essere finito in quel posto infrattato dopo essere caduto dalla tasca di un allievo. «Quindi il tizio era davvero qui.» concluse.
«Ma se era qui perché non ci sono le sue impronte sull’erba?» Lo xarthar indicò l’aiuola fra loro e il viale. L’erba marcadiana, alta fino alle caviglie, era spezzata solo in concomitanza dei loro passi. «Se quell’individuo fosse stato qui, e quello che portava fosse caduto qui, allora gli steli in questa zona dovrebbero essere tutti chini. Invece no.»
Ulysses si chiuse nelle spalle. «Era un esper volante, magari?»
Reshan chiuse gli occhi e provò ad immaginarsi la scena. Un esper volante che levitava poco distante dal muro dell’edificio centrale portando qualcosa di pesante che, in quel punto specifico, doveva essergli caduto e aver perso la valvola. Era plausibile.
Ma non poteva trattarsi di qualcuno fisicamente in grado di volare? – si chiese. Provò a immaginare anche questo scenario e concluse che fosse plausibile in egual misura.
Riaprì gli occhi. «Sull’esper non sono convinto, ma può essere che volasse. Piuttosto: le valvole di non ritorno di solito sono all’interno dei macchinari, che io sappia. Qualche idea di un oggetto che ne monti all’esterno?»
«Nups. Neanche una.» rispose, e rese la valvola all’amico. La campana che segnava l’inizio delle lezioni scelse quel momento per suonare i suoi rintocchi.
«Be’, ci penseremo.» replicò lo xarthar, infilando il pezzo d’ottone in tasca. «Meglio andare adesso.»
«Yup. Sai che risate se Thallia ci becca nascosti qui.»
Tornarono sul selciato e si accodarono ai ritardatari che raggiungevano le aule. Nessuno fece caso a loro né all’erba piegata dai loro passi.
* * * * * *
L’Accademia di Capital City era stata la prima ad essere edificata dopo la creazione della Flotta Stellare Unita, per questo era considerata la più importante. Il suo direttore, da che mondo era mondo, doveva essere l’emblema della Flotta: buono, inflessibile, pronto all’azione, in perpetuo contatto con gli studenti, gli insegnanti e il mondo militare. Oltre che un gran cervello, quindi, avrebbe dovuto mostrare anche un fisico prestante, viste le qualità che avrebbe dovuto possedere.
Ma del direttor Ciott, al secolo Yan Lluìs, non si poteva certo dire che rispondesse a quello stereotipo. Cazar bassino il cui pelo s’ingrigiva per via dell’età, aveva due grandi occhi color nocciola riquadrati dagli occhiali, la riga in testa e una pancia prominente. Amava definire la sua nomina come una sorpresa, perché non era mai accaduto che un insegnante di Storia Militare scavalcasse un insegnante di Difesa e diventasse direttore, ma era risaputo che avesse provato a farsi nominare ogni volta che si era presentata la questione “nuovo direttore”. Per la legge delle probabilità prima o poi ci sarebbe dovuto riuscire... e ciò era avvenuto l’anno precedente.
Ad un anno dal suo insediamento non era cambiato un granché: non girava molto per l’Accademia, sempre fuori per questo o quell’incontro, e quando era presente stava nel suo ufficio a sbrigare pratiche o, tutt’al più, ad ammirare il panorama dalla finestra.
 
Era metà mattina quando bussarono alla porta del lussuoso ufficio. Il cazar, che stava ammirando il panorama con la mente rivolta ai ricordi, si voltò e guardò la porta con sufficienza.
«Avanti.»
L’uscio scorse sulle guide e Claire, la sua segretaria robotica, entrò. I suoi bulbi oculari brillavano di un denso color nocciola, mentre con una mano riportava i lunghi boccoli neri dietro le spalle.
«Direttore, ci sarebbe da sistemare la questione delle eccellenze...» esordì, materializzando una cartellina sottile. «Al Comando Centrale vorrebbero sapere con anticipo dove gli allievi gradirebbero prestare servizio.»
Il direttore annuì.
«Esaminerò i casi singolarmente. Mi lasci la documentazione sulla scrivania.» replicò, senza che la sua voce salisse o scendesse di tono, quasi ovattata. «Inoltre...»
«Sì?»
«La signora Donno dovrebbe averti chiesto di revisionare il software delle squadre speciali.»
«Si è giustificata adducendo una carenza di fondi, se è questo che desidera sapere.» replicò lei. Ma non era quello che il cazar desiderava sapere, non dopo le terribili urla che l’umana gli aveva rovesciato addosso durante la discussione sui fondi.
«In verità vorrei sapere come procede il lavoro.»
«Oh, quello.» rispose. «Ho revisionato con successo la squadra Lantha. Delle Aktia, invece, ho completato otto soggetti su quattordici.»
«Allora preferirei che tu continuassi con l’incarico. L’ufficio può fare a meno di te per qualche ora.»
«Come desidera, direttore.» asserì in tono compìto. Dopodiché appoggiò la cartellina sulla scrivania e se ne andò, leggera come al suo arrivo. Il cazar si concesse qualche secondo per riprendere i fili dei ricordi prima di avvicinarsi alla scrivania.
Bene, ecco cosa farò oggi. – si disse sorridendo.
* * * * * *
Circa le 11:00
Ospedale accademico
 
Reshan uscì dal reparto ortopedico. Sentiva di essersela guadagnata, la sua pausa. Il professore di Chirurgia era sempre stato molto esigente, ma con l’avvicinarsi del diploma aveva portato gli standard a livelli di perfezionismo malato. Il terzo grado cui l’aveva sottoposto era stato spossante. Ogni paziente affidatogli era stato obbligato a chiedere una serie di spiegazioni e l’insegnante aveva seguito con interesse predatorio lo svolgersi di ogni conversazione.
Aveva bisogno di quella pausa. Se l’era guadagnata e – si disse – non l’avrebbe trascorsa davanti a una macchinetta che elargiva caffè bruciato. Perciò andò alle scale e scese, diretto al giardino. O almeno: questa fu la sua ferma intenzione fino al pian terreno.
Scale e ascensori erano fianco a fianco, e davanti a questi ultimi trovò Nirmun e Ulysses che reggevano a spalla un nabla con la testa reclinata sul petto. Due paia di occhi fucsia lo fissarono con aria stupita e la pausa slittò in automatico.
«Lascia.» disse, affiancandosi alla coniglia. «Ti sostituisco io.»
Lei raccolse volentieri la proposta e cercò di agevolare il più possibile il passaggio del peso morto del compagno.
«Cos’è successo?» domandò l’allievo medico, una volta che il braccio del nabla fu saldamente appoggiato alle sue spalle. C’erano ancora i quindici centimetri di dislivello fra lui e il lombax, ma li ridusse piegandosi in avanti.
 «Sono stata io.» ammise Nirmun, sgranchendo la spalla gravata con veloci movimenti circolari. «Stavamo riprovando il programma di Tecniche di Combattimento, ma non mi sono trattenuta abbastanza.»
«Sempre detto che sei violenta.» intervenne Ulysses.
«Sono abituata a picchiare te e la tua testa dura. Vai a sapere che S’luc sarebbe svenuto per un calcio...»
«Dev’essere stato un gran bel calcio.» osservò Reshan. «Posso sapere dove?»
Temeva che, fra tutte le zone sensibili, Nirmun avesse colpito la più classica. Invece la coniglia lo sorprese, un po’ per la zona e un po’ per l’orgoglio ben udibile quando rispose: «Nei denti.»
Dall’altra parte del malcapitato, il pipistrello udì l’amico sbuffare con aria soddisfatta. Poi la voce divertita del lombax si fece strada fra i suoi pensieri: «Sempre detto che sono l’unico capace di batterla!»
 
Dopo aver lasciato il nabla in odontostomatologia, i tre tornarono sui loro passi. Notando che Reshan usciva con loro Ulysses decise di investigare.
«Sei in pausa?»
Il pipistrello confermò.
«E la fai da solo?»
Reshan pensò che stesse cercando di farsi invitare e la cosa gli strappò un mezzo sorriso. «Volete unirvi? Offro io.»
Ulysses negò e allo stesso tempo Nirmun accettò. La cosa portò all’allievo medico un forte senso di déjà-vu.
«Che c’è Yale, ora ti fai desiderare?» provocò la coniglia.
«Naah, non ne ho bisogno. È solo che il caffè non mi va.»
«A me invece va eccome.» e si rivolse al pipistrello: «Io ci sto.»
L’altro le rivolse un sorriso di cortesia. «Perfetto; allora andiamo.»
* * * * * *
«Miseria ladra, Tetraciel, sto cercando di fargli notare la Jork! Dovevi rifiutare!»
«E io che ne sapevo?!»
«Dovevi capirlo! Ho mai rifiutato un invito senza motivo?»
«”Non ho voglia di caffè” non è “senza motivo”. E comunque a me qualcosa da bere va. E non è detto che la Jork ci sia.»
«E tu pensi che non abbia controllato? Soldatina sbadata, non sono mica telepate per nulla!»
«Oh, fantastico! Quindi che ti aspetti da me? “Scusa ma ho cambiato idea”?»
«Non ci provare! Re mi sgamerebbe in tempo zero... e tutto il mio piano andrebbe in fumo! No, passeremo al piano B.»
«Avevi un piano B e hai fatto tutta ‘sta scenata?»
«Eee...L’ho pensato adesso.»
«Sei ridicolo, pilotucolo. Una primadonna!»
«L’ho DOVUTO pensare adesso perché ti sei è messa di traverso nel piano A!»
«Ma fammi il favore!»
«No! No, Tetraciel, dico sul serio. A ‘sta cosa ci tengo. Quindi adesso andiamo con lui, la facciamo iniziare a quattro e leviamo le tende immediatamente dopo il caffè. E magari intercettiamo quel disgraziato di Steel, che è decisamente troppo vicino. Adesso avviso la Jork. Ricordati di essere credibile quando ce ne andremo.»
«”La Donno ci ha dato i minuti contati” non è abbastanza credibile?»
 
Ripensarono al volto adirato dell’istruttrice. Ripensarono ai luoghi comuni che circolavano sulla sua ferocia. Decisero che la scusa, nel caso, avrebbe retto a prescindere.
Anche se non stavano facendo lezione con l’umana.
«Sai Tetraciel, a volte la tua propensione al Male mi stupisce.»
* * * * * *
La caffetteria era un grosso chiosco in mezzo al giardino. Tutt’intorno c’era una selva di tavolini e sgabelli e si vociferava che il gestore avesse ampiamente sforato lo spazio messogli a disposizione. Ma quella era solo una delle molte voci che giravano all’interno dell’Accademia.
Linda Jork era seduta ad uno di quei tavolini. Elegantemente avvolta dalla divisa gialla e antracite, puntava il dito contro il noto faldone, parlando al contempo con un cazar vestito degli stessi colori. Parlavano di calcoli, di materiali e di cose dai nomi così minacciosi che un profano poteva scambiarli per insulti.
«Ehilààà!!!»
La voce di Ulysses li distrasse dalla conversazione. Alzato il capo, videro arrivare il pilota con un enorme sorriso in volto. Il lombax adocchiò i fogli sparsi sul tavolino e si adagiò con noncuranza su una sedia. «Ultimi ritocchi?»
«Puoi dirlo forte...» biascicò il cazar, prima di coprire con la mano uno sbadiglio di proporzioni epiche.
«Mondo infame, Cricchetto, che occhiaie!» esclamò ancora Ulysses. «Davvero brutte. Non ci farai una bella figura alla presentazione del progetto.»
«È solo una revisione.» fece presente la kerwaniana. «Dovrebbe andare se parlerò io al suo posto. Ma se una cosa del genere fosse successa fra una settimana...»
«Non succederà.» si affrettò a promettere Jack. «La presentazione sarà perfetta.»
«Ehi, ho un’idea!» il lombax si girò e sbracciò in direzione del bancone, chiamando Reshan con la telepatia. Non gli disse il perché, ma solo di raggiungerlo al tavolo degli ingegneri. Qualche minuto dopo Reshan e Nirmun li raggiunsero, ciascuno con il proprio bicchiere di carta in mano.
Era rimasta un’unica sedia libera e il medico, con un cenno, lasciò che ad occuparla fosse la coniglia. Nirmun accolse la gentilezza con un sorrisone e ne approfittò. Linda, tuttavia, non accolse quella cortesia con la stessa felicità. Squadrò Nirmun con sguardo disgustato: il vello così sciattamente bruno; la chioma color mattone che in quella coda mezza sfatta era semplicemente orribile; il seno così sminuito dalla brassière... Buon cielo, gli abiti alonati di sudore! Ew! Con che coraggio una mangiacarote concia così si era seduta di fianco a lei?
Nessuno, però, prestò attenzione a quelle occhiate caustiche. La scena fu subito monopolizzata da Ulysses, che espose il problema sciorinando una mitragliata di parole sotto lo sguardo sconcertato di Jack.
«Puoi fare qualcosa per Cricchetto?» concluse rivolto a Reshan, prima di riprendere fiato.
Il pipistrello guardò direttamente il cazar. Adocchiò gli occhi arrossati e le borse che li adornavano. «Credo di sì.» disse, sorridendo gentilmente. «Però di turno al secondo ambulatorio c’è la professoressa Amheit, che è un’eccellente oftalmologa. Ti rimetterà in sesto molto più velocemente di me.»
Nirmun e Ulysses accolsero il suggerimento come un assist. Uno imprevisto, ma che facilitava il piano B emerso durante la chiacchierata telepatica.
«Magari ce lo accompagniamo noi.» propose il lombax.
Jack squadrò gli abiti indosso a Ulysses e Nirmun. Canottiera, pantaloncini e sudore dicevano tutto quel che c’era da sapere sulla lezione che frequentavano.
«Non avete Difesa?» domandò. «Sicuri che potete perdere altro tempo?»
«Nah, siamo con Mori, non ti preoccupare.» rispose Nirmun. «E in teoria abbiamo lasciato la lezione per portare in ospedale un murha dalla testa molle, quindi...»
«Quindi vieni con noi, che tanto siamo così bravi che possiamo perdere tempo per portare un amico a farsi vedere.» concluse Ulysses.
«Ragazzi vi ringrazio, però ci sono ancora un mucchio di dettagli di cui devo parlare a Linda...» obiettò il cazar.
«Ma se sbadigli una volta per frase.» lo rimbeccò l’interessata. «Vai a farti vedere, cammina. E già che sei riposati un po’. Tanto la nostra revisione è fissata per le cinque.»
 
Non ci volle molto altro prima che i tre lasciassero il tavolino e si allontanassero. Ulysses stava raccontando un altro dei suoi gossip ai due accompagnatori, e l’ultima cosa che si udì da loro fu l’esclamazione sorpresa di Jack: «Ma chi, Rini? Ma dici davvero?»
Linda, il collo torto in direzione dell’improbabile trio che si allontanava, provò un moto di soddisfazione. «Yale è un demonio quando si tratta di chiacchiere...»
«Puoi dirlo forte.» confermò lo xarthar con una nota di divertimento nella voce.
La kerwaniana tornò con lo sguardo su di lui. Era la sua occasione, si disse. E chiuse il faldone.
* * * * * *
Ore 13:30
 
Reshan e Ulysses si rividero in mensa, dopo le lezioni del mattino.
Entrarono a poca distanza uno dall’altro nella grande sala illuminata, quasi brillante per il bianco degli arredi, e senza dire una parola si sedettero al margine di un tavolino. Non si dissero una parola neanche quando si trattò di ordinare il pranzo, entrambi persi nei propri pensieri.
Fu Ulysses a rompere il silenzio.
«Allora?»
Reshan gli rivolse un’occhiata confusa. «Cosa?»
«Com’è andata la pausa?»
«Mi ha fatto riflettere.»
Le spalle del lombax caddero. «Come “riflettere”?»
Allargò la mente all’istante e arpionò quella della kerwaniana non appena la individuò. «Ma che mi combini??? Avevi l’occasione perfetta!»
Dall’altra parte nessuna risposta. Solo un vago senso di quiete e felicità. Ma sulla felicità non avrebbe saputo dire con certezza.
«...Jork? Linda?» e si alzò in piedi, cercando con lo sguardo nella direzione in cui aveva percepito la mente dell’allieva.
«Qualcosa non va?» domandò Reshan. Ulysses si rese conto di quanto il suo comportamento dovesse apparire strano, così si risedette al volo.
«Ma no, figurati...» si affrettò a rassicurare. «È solo che... riflettere? Era un caffè.»
«Sì, ma durante la conversazione mi ha spiegato alcune nozioni interessanti sulla propagazione del suono. Certo: dal suo punto di vista erano intese verso la deflagrazione dei colpi del cannone a ioni, ma io non ho potuto fare a meno di applicarle al rumore di ieri sera...»
Il lombax si schiaffò una mano in faccia. «No ma sul serio?» mormorò a se stesso. Si rifiutava di credere che l’inettitudine sociale di Reshan raggiungesse quella vetta.
L’interessato, intanto, lo fissava chiedendosi cosa lo spingesse a comportarsi in modo tanto astruso.
«Lys?»
«Hn.» rispose, mogio. «Dicevi del suono?»
Lo xarthar lo fissò ancora per un istante, poi scosse la testa. «Immagino tu abbia altro per le mani. Lasciamo perdere.»
«Cos..? No! Ma che dici?»
«Avanti, non fai che comportarti come un pazzo. Da chi stai scappando?»
«Io non scappo, socio. Mai.»
«Ah no? Allora quella di ieri era un’allucinazione.» concluse il pipistrello, prima di enumerare: «E anche quella della settimana scorsa, quella di due settimane fa, di un mese fa...»
«Mondo infame! Stai messo proprio male!» il pilota stette al gioco con un sorriso birbo. «Posso chiedere a Faydwig se conosce un analista bravo. Tanto lui ne ha girati diversi.»
«Preferirei sapere da chi non ti stai nascondendo.»
«Da nessuno, dico sul serio. E sono interessato a quella cosa del suono, però potrei scappare da te se cominci a parlare di leggi fisiche.»
Reshan, sebbene non particolarmente convinto, abbandonò le domande sul comportamento dell’amico e materializzò un piccolo palmare. «Niente teoria, promesso.» asserì poggiando lo strumento sul tavolo. Ulysses riconobbe uno degli analizzatori sempre in mano agli allievi delle classi ingegneristiche.
«Tempo fa Jork ha programmato la triangolazione di una fonte sonora per capire da dove fosse rintracciabile il rumore di un cannone a ioni.» spiegò lo xarthar. «Mi sono fatto spiegare il funzionamento del programma e ne ho ricalibrato i parametri per farci un’idea più precisa di dove fosse il tipo di ieri sera.»
Fu il turno del lombax di farsi perplesso. «Ma lo sappiamo già. Ci hai anche trovato quell’aggeggio.»
«Sì, è vero, l’ho trovato in un posto insolito. Ma l’assenza di segni sull’erba mi fa pensare di aver cercato nel posto sbagliato. Quella valvola potrebbe essere irrilevante.»
«Bah, per me ne abbiamo già a sufficienza per parlarne alle ispettrici. Piuttosto,» e scosse la coda con rinnovato interesse. «Quando devi restituire quel coso?»
«Jork mi farà sapere dopo la revisione.»
La mente di Ulysses partì per la tangente. Alla fine i due avevano parlato di qualcosa in comune, come previsto. (Il sorriso gli comparve in faccia.) E si sarebbero rivisti con la scusa di restituire il congegno. (Il sorriso si allargò vistosamente.)
Quindi non è come sembrava! Non ha mandato tutto alle ortiche!
Si portò le mani alle guance, completamente perso nel filone delle possibilità. Reshan assistette alla metamorfosi con un’espressione sempre più inquieta. «Lys..? Quel sorriso mette i brividi.»
Il lombax tornò presente al volo, con una nuova luce di entusiasmo negli occhi. «Brividi? Ma no, dai. Ero solo sovrappensiero.» lo blandì. «E – hey! – mi è appena venuto in mente: com’è che la Tetraciel ha saputo che non ho chiesto scusa a Cricchetto?»
«Gliel’ho riferito io.» rispose l’altro, pacato. «Una risposta cortese per una domanda lecita.»
«In caffetteria?» non gli diede il tempo di rispondere. «Di sicuro in caffetteria. Non può essere che in caffetteria. Lo sapevo che non potevo lasciarli soli, mondo infame!» e tornò a rivolgersi al medico. «Hai rovinato la mia giornata, lo sai?»
«Ma figurati.»
«Ci puoi scommettere! Oggi pomeriggio abbiamo supplenza e faremo Difesa coi Soldati. La Donno si è fatta assassina e la Tetraciel infierirà per colpa tua. Sono un povero pilota sfortunato.»
«Maleducato sarebbe un termine più adatto.»
Il lombax gli scoccò un’occhiataccia.
«Pungi pungi, tanto sono io che me la vedo con la Tetraciel. Traditore.»
«Guarda che nessuno ti pugnala. Io e Nirmun vorremmo solo che tu capissi quanto sia stato ingiusto il tuo comportamento verso Jack.»
Mentre il pilota lamentava una risposta scontenta, alle sue spalle Reshan vide avvicinarsi l’allieva in questione. Coi capelli sciolti e il tailleur da cadetta faceva tutta un’altra figura rispetto al completo sportivo.
«Qualche problema, Yale?» tuonò alle sue spalle. Ulysses sobbalzò, e vederlo abbassare le orecchie la riempì di soddisfazione. Il pilota, prima di voltarsi, sperò con tutto sé stesso che non si fosse accorta del sobbalzo, ma le sue speranze s’infransero contro il sorriso che la coniglia aveva stampato in faccia.
«Toh, parli del diavolo e spuntano le orecchie!» disse, fingendo indifferenza.
«E nel tuo caso pure la coda!» replicò lei. «Guarda: manco a me piace l’idea di passare il resto della giornata con un idiota che incasina le teste altrui, ma dobbiamo organizzarci.» rispose, prima di salutare Reshan con un cenno della mano. Il pipistrello rispose con un cenno uguale. Nirmun riportò l’attenzione sul suo collega e, col tono serio, rivelò: «Oggi la Donno ci farà simulare una battaglia terra-aria.»
L’atteggiamento di Ulysses cambiò di colpo, facendosi estremamente attento. Rita Donno era un’istruttrice che aveva del generale vecchio stampo. Le mancava soltanto un sigaro all’angolo della bocca e poi sarebbe stata l’immagine del suo stereotipo. Il suo campo d’azione preferito erano le simulazioni, ma ciò che la rendeva famosa – ancor più del suo atteggiamento brusco – era l’abitudine di sparare addosso agli allievi.
E battaglia terra-aria prevedeva esattamente quello, ma in versione esponenziale.
Il lombax deglutì.
«Ne sei certa?» volle sapere.
Lei annuì. «Parole testuali: l’ho sentita mentre parlava col direttore.» replicò con sicurezza. Il lombax si lasciò andare sulla sedia ed incrociò le braccia al petto, palesemente scontento.
«Sarà un inferno...» commentò.
«Puoi dirlo forte. E mi sa che oggi è anche più nervosa del solito, quindi conviene preparare del ghiaccio in camera. Più del solito, intendo.»
A quelle parole rivolse un’occhiata eloquente a Reshan, che annuì. «Provvedo io, tranquilla.»
«Grazie. E dici alla Daari di prendermi la solita roba? Io non la trovo da nessuna parte.»
«Sì, certo.» rispose, imponendosi di non chiedere cosa fosse la solita roba.
«Paura di farti male, Tetraciel?» s’intromise Ulysses, gli occhi socchiusi e l’espressione furbetta.
Lei gli rimandò lo stesso ghigno. «Pensa per te. Non sono io che le prendo tutti i giorni da una mangiacarote.»
E, girate le spalle, se ne andò.
Reshan la guardò riunirsi ai suoi compagni di corso, mentre Ulysses brontolava: «Solo perché mi è uscito una volta al secondo anno. Mondo infame che permalosa...»
L’analizzatore scelse quel momento per mettersi a fischiare, attirando l’attenzione del pipistrello. Ulysses fece per chiedergli dei risultati, quando si rese conto che l’amico si era irrigidito, come se avesse visto un fantasma.
«Ah no, mondo infame, conosco quello sguardo...» borbottò, serpeggiando la coda con una certa agitazione. «Re, qualsiasi cosa tu stia pensando, fermati. No. Basta. Stop. L’ultima volta che hai combinato un’idea e quella faccia è successo un casino.»
Ma Reshan non lo ascoltava.
Ci furono alcuni secondi di silenzio prima che lo xarthar si alzasse in fretta da tavola, lasciando il pasto a metà.
«Scusa, devo controllare una cosa.» disse prima di correre via, lasciando Ulysses che lo fissava a metà tra lo sconcertato e il disperato.
«Sigh. È entrato in modalità “mina vagante”.» gemette, una volta che se ne fu andato. «Meglio preparare ghiaccio doppio, stasera.»
 
Uscito dalla mensa, Reshan spiegò le ali e spiccò il volo.
L’analizzatore, pur calcolando sulla base di dati incompleti, aveva individuato una zona di ricerca: alle coordinate del mattino, ma per un vistoso intervallo di quota. Appena l’aveva letto era scattato qualcosa, come se un pezzo del puzzle fosse andato al suo posto.
Non era in giardino – si disse, sbattendo le grandi ali diafane per prendere quota. Era sul tetto! La ferraglia è caduta sulle mattonelle del tetto e la valvola dev’essere volata di sotto; ecco perché stamani non c’erano segni di caduta... e il tetto è interdetto a tutti, sarebbe un nascondiglio sicuro!
Atterrò sull’ultimo solaio con la convinzione d’individuare subito il qualcosa ch’era mancato quella mattina. Invece sul tetto non c’era niente, a parte il generatore della barriera che proteggeva la scuola. La struttura – simile ad un gigantesco bulbo – sparava in cielo un fascio d’energia che, raggiunta una certa quota, si apriva radialmente originando una cupola. Semplice, efficace e altamente fastidioso.
Non si aspettava che il generatore producesse un ronzio così tremendo per le sue orecchie. Gli lanciò un’occhiata insofferente, e con quella si accorse che dalla bocca della canna metallica non usciva alcun fascio d’energia.
La macchina lavorava a vuoto.
Che sia fuori uso di nuovo? – si chiese, perplesso. – Eppure l’hanno rimesso in funzione ieri...
Si avvicinò di qualche passo, sebbene il rumore gli trapanasse i timpani. Mentre lo sguardo saettava alla ricerca di dettagli, un lieve venticello lo investì, provocandogli un piacere inatteso che gli lasciò addosso un senso di inquietudine. Non c’era vento, all’Accademia, se la barriera era in funzione.
Aguzzando la vista, si accorse che non c’era nemmeno il campo di forza che proteggeva il generatore.
L’inquietudine si acuì, e per riflesso lo xarthar spiegò un poco le ali. Qualsiasi cosa stesse succedendo, se riguardava il generatore era meglio che non si facesse trovare sul tetto.
Non si accorse della figura alle sue spalle che si avvicinò, cauta, brandendo un’onnichiave rinforzata. Sentì solo un colpo forte alla nuca e crollò a terra, svenuto.

Sì, Ulysses ha fatto davvero una citazione. Chapeau a chiunque ne riconosca l’origine! =D
 
Detto questo, però, finiscono i toni allegri. Infatti vi devo chiedere scusa.
Come avrete notato nel dicembre 2017 ho aggiornato le date della saga adattandole a quelle della timeline stabilita da Mamma Insomniac. Mi sembrava giusto e ritengo ancora oggi che sarebbe una soluzione appropriata. Tuttavia, per me che scrivo, è sorto un problema: non riesco a scollarmi dal vecchio sistema di datazione.
Il vecchio sistema, che si ambientava a cavallo fra 1900 e 2000, è radicato in me da quasi quindici anni. Mi sono abituata a ragionare in funzione di due secoli differenti; mentre la timeline ufficiale mi costringe a ragionare all'interno dello stesso secolo. Per me è dispersivo. Mi perdo; non ho vergogna di ammetterlo.
Credevo di fare bene quando ho scelto di adattarmi alla linea ufficiale, ma ho finito per complicarmi la vita. Per questo motivo ho deciso di cambiare un’ultima volta le date.
Non tornerò al sistema con gli anni duemila, ma sposterò avanti tutto in modo che gli avvenimenti si svolgano a cavallo fra il 5300 e il 5400. In questo modo ambienterò gli eventi in un futuro leggermente più remoto di quello previsto dalla Insomniac e manterrò l'impostazione di ragionamento che ho tenuto per tanto tempo. È il compromesso migliore che sono riuscita a pensare.
 
Siccome immagino che il tutto sia diventato confusionario per voi, soprattutto per chi mi segue da più tempo, ho deciso di istituire una pagina nella Guida che contenga una timeline della Saga. Ovviamente, se qualcosa non tornasse, resto a vostra disposizione.
Spero vogliate perdonarmi, ma proprio non ce la faccio a proseguire con questo sistema.
 
Iryael

 

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Capitolo 5
*** | Capitolo 04 | La squadra migliore ***


[ 04 ]
La squadra migliore
Sempre 4 Giugno 5402-PF,
ore 13:55
 
Ci voleva tutta perché Reshan passasse dalla modalità “bravo ragazzo/studente modello” alla “mina vagante”; quando accadeva, però, i danni collaterali erano imprevedibili. Ulysses lo sapeva bene: la prima volta che l’aveva visto era stato lui a portarcelo. Era successo alla fine del primo anno, dopo mesi di dispetti per i quali aveva dato fondo a tutto il suo genio malvagio. E il danno collaterale era stato l’essere messo in camera proprio con lo xarthar.
Poi in altri tre anni di corso era successo solo una volta, ma con un doppio danno collaterale. Il primo: durante la fase “mina vagante” c’era stato un incidente in uno dei laboratori e le Ispettrici lo avevano dichiarato inagibile per diverse settimane. Il secondo: Thallia si era convinta che il responsabile fosse Ulysses, e per tutto il mese successivo gli era stata addosso come un mastino.
Se ci ripensava – se ripensava a tutto quel rigore, alle critiche aspre, al guinzaglio che si era sentito addosso – avvertiva la smania di fermarlo. Non poteva assolutamente permettergli di fare alcunché con la faccia da mina vagante!
Trangugiò il resto del pranzo e schizzò fuori, dove si guardò velocemente intorno. Troppo tardi. Allora allargò la mente per richiamarlo, e per fare prima la espanse subito alla distanza massima. Avvertì Nirmun e alcune sue compagne di corso, percepì Jack e Linda, captò Gregé col referente di classe e beccò i fratelli Jensen assieme a Genedo, ma di Reshan niente. Lo xarthar era diventato invisibile al suo radar telepatico.
Preso in contropiede, il lombax abbassò le orecchie. Conosceva esattamente le cause del silenzio completo, e tutte gli parevano equamente improbabili.
Kaputt fisico? Lo escludo a prescindere.
Che fosse fuori dalla sua portata? Allora dev’essere volato a uno dei campi addestramento. Ma da solo e senza lezione in vista? Non ci credo manco se lo vedo. E poi i rumori di stanotte erano molto più vicini.
Rimaneva solo che fosse nei pressi di un emettitore di onde tachys. Ecco, questa ha senso.
C’erano molti ambienti dov’erano installati degli emettitori, e gran parte si trovava nell’edificio cruciforme. Non gli era rimasta che la ricerca alla vecchia maniera, ma almeno aveva un punto di partenza. Quel vello dal terribile rosso acceso si sarebbe rivelato utile per una volta, no?
* * * * * *
Aggirò il grande edificio centrale e raggiunse l’angolo che avevano ispezionato quella mattina. Mentre si avvicinava le parole si accumulavano sulla lingua: non ci provare, questa volta andiamo dritti da Thallia! So che i misteri ti piacciono ma se volevi una settimana tranquilla la faccia da mina vagante la devi fare in un altro momento!
Ecco, sì, questa qui mi piace. Bisogna che gliela dica così, secca in faccia!
Ma, oltrepassando l’ultima fronda di palma, divenne evidente che lì non c’era alcuna faccia su cui sbattere la frase. Deluso, lanciò una seconda ricerca. Di nuovo niente. La coda, di riflesso, spazzò l’aria con un movimento brusco.
A quel punto portò le mani sui fianchi e si costrinse a rimanere concentrato.
E se fosse tornato all’ospedale? Anche là ci sono zone tachys.
Sbuffando per la prospettiva noiosa, si guardò intorno un’ultima volta; quasi aspettandosi che Reshan comparisse da dietro un velo invisibile. Magari quello di cui gli aveva parlato dopo essere tornato dal magazzino dei prototipi col Sacco. Se fosse stato lui al posto di Reshan avrebbe sfruttato tutto quello su cui fosse riuscito a mettere le mani. Ma Reshan era Reshan e le regole le seguiva alla lettera, per cui niente velo invisibile. Meglio passare oltre, si disse uscendo dall’aiuola.
Alzò lo sguardo verso nord-est, dove in lontananza sorgeva l’edificio ospedaliero. L’idea di attraversare di corsa tutto il complesso non lo affascinava per nulla. Ma che alternative aveva?
Aspetta, aspetta un attimo. E se mi fossi fatto tutto un palco di seghe mentali? E se voleva controllare qualcosa sul lavoro? Sì, ma la faccia da Mina Vagante allora?
Ah, che palle! Quando lo trovo gliene dico quattro!
Promessosi quello, prese a correre.
* * * * * *
Entrò nel reparto di ortopedia solo dopo aver ripreso una respirazione normale. Tirò dritto al bancone in mezzo al corridoio e vi trovò una robot-segretaria dai vividi occhi verdi.
«Buongiorno!» esordì, appoggiandosi al ripiano.
«Buongiorno allievo. Come posso aiutarti?»
«Sto cercando Reshan Jure. Non so la matricola ma è un allievo medico del quarto anno. Ha già preso servizio?»
La robot digitò qualcosa al terminale del bancone e scosse la testa. «Non ancora.»
Il lombax schioccò la lingua, ora seccato. Non è neanche qui... ma dov’è finito?
«Se dovessi trovarlo potresti riferirgli che anche la signora Donno è venuta a cercarlo?»
Le orecchie dell’allievo tentennarono leggermente. «La Donno?» domandò stranito.
«È passata circa quindici minuti fa.» confermò l’androide. «Ha parlato di un mancato rapporto.»
Il ragazzo non riuscì a nascondere lo stupore. Fare rapporto all’istruttrice? Reshan?
«Va...va bene. Arrivederci.»
Aveva preso appuntamento per parlargli di ieri sera? Ma allora ha trovato qualcosa!
Eh! Però allora dovrei raggiungerlo con la telepatia. Perché non ci riesco?
 
Fu con quella domanda che tornò al pian terreno. Dribblò un gruppo di persone e, subito dopo, una voce familiare lo raggiunse: «Ohi, Yale!»
Il lombax tornò subito coi piedi per terra. Ferma a due passi da lui, Nirmun lo guardava con aria incuriosita.
«Sei venuto anche tu per S’luc?» domandò, gioviale.
«No.» A dire il vero si era scordato del nabla. «Hai mica visto Reshan?»
«A tavola, prima, con te.»
Ulysses si passò una mano dietro la nuca. Intuendo che qualcosa non andava, la xarthar si affrettò a chiedere: «Che è successo?»
«Ha detto che controllava una cosa ed è sparito. Non lo trovo da nessuna parte.»
Nirmun alzò un sopracciglio.
«La telepatia no, eh?»
A quella domanda Ulysses alzò le mani al cielo.
«Galassia, come ho fatto a non pensarci prima!» esclamò, sarcastico. Poi guardò Nirmun e abbandonò l’ironia: «Certo che l’ho usata; è proprio perché non lo trovo con quella che sto girando per l’Accademia. Però... è strano... sai che aveva un appuntamento con la Donno e non si è presentato?»
Quello accese una lampadina nella mente della xarthar, e tutti i suoi lineamenti si aprirono.
«Ah, è vero... Vedrai che è dalla prof. Magari era solo in ritardo.»
«Non gli ho mai visto fare un minuto di ritardo da quando lo conosco.» rimbeccò. «La Donno, poi, è passata a cercarlo qui.»
Nirmun inarcò le sopracciglia, sorpresa. «È venuta lei di persona?»
L’altro fece spallucce. «Così dice la robo-infermiera.»
La coniglia spostò lo sguardo su una barella in fondo al corridoio, pensando tutt’altro. «Allora a maggior ragione direi che tutto il problema stava nel ritardo. Ha controllato quel qualcosa e ha fatto tardi. La prof è venuta qui e non l’ha trovato, poi è tornata indietro e l’ha trovato al suo ufficio, che ti ricordo è zona tachys. E intanto tu ti preoccupi per niente.»
Ah, se solo avesse saputo della Mina Vagante... ma quello era meglio non dirlo in giro. Meglio per la sua copertura che tutti lo credessero il solito bravo ragazzo onesto senza speranza. Piuttosto c’era un’altra cosa che lo pungolava. «Perché sei così convinta che sia dalla Donno?»
«Non lo sai? Si vedono tutte le settimane.»
Le orecchie di Ulysses sobbalzarono; gli occhi si spalancarono. «Tutte le settimane???»
La ragazza ridacchiò; un suono leggero e pieno di soddisfazione. «Finalmente so qualcosa che non sai!»
Il lombax l’afferrò per un braccio. «Dettagli! Ora! Subito!»
Nirmun percepì tutto il suo vantaggio e decise di fargliela sudare un po’. Si distaccò da lui con espressione sorniona e incrociò le braccia. «Eh, magari con un “per favore”...»
«Non c’è tempo per quello!»
«Ah, allora puoi chiedere all’ispettrice Yttria.»
«Gah!»
Come sempre bastò il suono di quel titolo, ispettrice, perché gli venissero le fascicolazioni alle mani. Che poi che diamine c’entrava un’ispettrice?
«Oppure posso bypassare la bocca e chiederlo direttamente alla tua memoria.» propose. «Se non l’ho ancora fatto è perché sono una brava persona. Come la mettiamo?»
«No, Yale, non l’hai fatto – e non lo farai nemmeno – perché sai che sennò ti ridurrei a un cumulo di ossa rotte.» lo corresse lei. «Aspetto le paroline magiche. In alternativa c’è Yttria. O l’ignoranza.»
Capitolò. Ma, per non darle ulteriori soddisfazioni, trasmise le due parole per telepatia. Nirmun, contenta del risultato, gli rivolse un sorriso radioso e spiegò: «Hai presente che l’altra settimana è venuto a portarci quell’impiastro curativo fuori dai poligoni? Yttria, l’ispettrice del nostro piano, ci ha visti parlare. Quella sera mi ha chiesto se lo conosco, perché era curiosa di sapere come mai tutti i venerdì si vede con la Donno.»
«Ah, tutti i venerdì!»
Conosceva a menadito il programma del venerdì del suo socio, e incontrare Rita Donno era un particolare che non figurava da nessuna parte. Era oltraggioso che non glielo avesse confidato!
«Sono tutti incontri brevi. Quindici-venti minuti, poi Jure se ne va.»
«Il tempo di fare rapporto.» rifletté il lombax, ricordandosi dell’esatta parola utilizzata dalla robot infermiera. Ma rapporto su cosa? Tutte le settimane è roba seria!
Nirmun gli poggiò una mano sulla spalla. «Dai, andiamo a lezione. Di certo non è andato a farsi ammazzare!»
* * * * * *
Un’ora dopo (15:15)
 
Rita Donno, l’umana più terribile dell’Accademia, osservava con un ghigno i suoi allievi che correvano. Agghindati nelle loro tute, i piloti si distinguevano dai soldati per le tenute arancioni, che per gli altri erano nere. Alle braccia di tutti, la polsiera di tela miniaturizzante, il clou del corredo.
Ordinati, i soldati correvano come un unico serpente affiancati dai piloti. In testa, a comandare i movimenti di quell’unico corpo compatto, c’erano Nirmun Tetraciel e Ulysses Yale.
Giunti in fondo al loro ultimo giro di riscaldamento, i due in testa sporsero il braccio esterno all’infuori, il segnale per indicare il cambio d’andatura per riequilibrare il fiato.
Senza dire una parola, obbedienti, le colonne rallentarono progressivamente fino a camminare a passo marziale, e quando i due capofila alzarono il pugno chiuso, il segnale che l’esercizio era terminato, Rita Donno si avvicinò loro.
«Braccia! Piegamenti!» gridò. E gli allievi ubbidirono, rapidi e precisi.
Mentre svolgevano l’esercizio, in fila davanti a lei, lei fece avanti e indietro due volte. Soddisfatta di ciò che aveva visto, si fermò al centro esatto, a gambe divaricate e mani dietro la schiena.
«Allievi! Ai poligoni! Squadre di due, tiri di precisione!»
Non appena terminarono l’esercizio, i cadetti si alzarono e si avviarono ai piani interrati sotto l’arena. Prima di tutto rientrarono nello stabile; poi presero la direzione opposta a quella degli spogliatoi. Ben presto si ritrovarono a scendere una lunghissima serie di gradini bassi, bordati con strisce di luci d’emergenza.
«Ci fa preparare...» mormorò Ulysses, scendendo le scale. «Pensavo ci mandasse subito al campo.»
«Questo significa che l’esercitazione dura più di tre ore.» rispose Nirmun.
«Ammesso e non concesso che tu abbia sentito bene.»
La xarthar lo guardò di sbieco.
«Guarda che non ho le orecchie così grosse solo per farmi prendere in giro!» sbottò, secca. Ulysses ebbe l’impressione di aver già sentito quella frase, e poco dopo si ricordò che a pronunciarla era stato Reshan.
«Cos’è, un motto di voi xarthar?» chiese ironicamente. «Me l’ha detto anche Re ieri sera, con le stesse parole.»
«È perfettamente inutile parlare di certe cose a uno come te. Sei di mente troppo limitata.»
«Mente limitata io? Fatti un giro coi miei fratelli e poi ne riparliamo, Tetraciel.»
Arrivarono in fondo senza dirsi più nulla. Nirmun lanciò un paio di occhiate al suo compagno di squadra: teneva la fronte leggermente corrugata, cosa che non faceva mai. Anche l’andatura si era fatta più rigida.
Svoltarono in un corridoio secondario, che si immetteva in una delle enormi sale attrezzate con i bersagli, e anche lì la xarthar ne approfittò per osservare come l’altro fosse inquieto. Una volta dentro gli allievi si disposero a coppie; una per bersaglio. L’istruttrice controllò che fossero tutti a posto, poi inserì il codice di autorizzazione a sbloccare le polsiere. Entro breve ogni allievo impugnò la propria arma ed effettuò i controlli prima di cominciare a sparare. Nella corsia dov’erano Nirmun e Ulysses il primo a salire in pedana fu il lombax: richiamò una viper, alzò il braccio, prese brevemente la mira e premette il grilletto: il proiettile laser lasciò la canna, e l’ormai consueto contraccolpo vibrò fino alla spalla.
A cinquanta metri di distanza, sul bersaglio olografico, dei cerchi concentrici sul petto brillò il più piccolo. Centro perfetto, dieci punti.
«Ancora preoccupato?» chiese, di punto in bianco, quando Ulysses le lasciò il posto.
«Non sono preoccupato.»
«Balle... e di solito le racconti meglio di così.» cantilenò lei, scoccandogli un’occhiataccia. Ripeté i gesti del lombax nella corsia di tiro: centro perfetto anche per lei. «Sai com’è, dopo devo salire sulla Comet con te... vorrei sapere in anticipo se farmi sostituire con qualcun altro.» replicò non appena si scambiarono ancora. Ulysses non rispose fino allo scambio successivo.
«Se non ti fidi del migliore, allora di chi ti fidi?»
«Di quello che a me sembra migliore.» rimbeccò aspramente. «Non voglio schiantarmi al suolo perché tu hai la testa sulle nuvole.»
Dopo dieci tiri il bersaglio fu spostato a settantacinque metri dai tiratori, e quella volta le figure olografiche cominciarono a cambiare razza ad ogni colpo.
«La Donno è qui, ma quell’idiota è ancora introvabile.» borbottò Ulysses, dopo aver centrato il suo primo bersaglio.
«Jure?» chiese Nirmun, prima di salire sulla pedana. Il lombax attese che tornasse per rispondere.
«È come se avesse chiuso del tutto la men–»
«ALLIEVI!»
L’urlo dell’istruttrice li colse di sorpresa, facendoli sobbalzare. Si voltarono immediatamente, gridando all’unisono: «Sissignora!»
Rita Donno li guardò con aria torva.
«Cosa sono queste chiacchiere?! L’unico rumore che si deve sentire è quello delle pistole!»
«Sissignora!» risposero, di nuovo, in coro. L’istruttrice passò lo sguardo da uno all’altra, quindi se ne andò con la stessa silenziosità con cui era arrivata.
Nirmun e Ulysses si scambiarono un’occhiata.
«Ti spiego dopo.» disse solamente lui. La xarthar annuì, e ripresero a svuotare i caricatori sui bersagli.
 
A esercizio terminato, per ogni corsia si attivò un oloschermo con sopra segnati i punteggi di ciascun allievo. Nella loro corsia, Ulysses e Nirmun attesero con i nasi all’aria. Dapprima si formò la scritta Punteggi totali delle sessioni di tiro, poi le foto degli allievi si svelarono ruotando su se stesse, infine seguirono i nomi e i punteggi.
 
Tetraciel Nirmun: p.ti totali 394/400
Sessione 1; distanza bersaglio: 50 m – p.ti 100/100
Sessione 2; distanza bersaglio: 75 m – p.ti 98/100
Sessione 3; distanza bersaglio: 100 m – p.ti 98/100
Sessione 4; distanza bersaglio: 150 m – p.ti 98/100
 
Yale Ulysses: p.ti totali 392/400
Sessione 1; distanza bersaglio: 50 m – p.ti 100/100
Sessione 2; distanza bersaglio: 75 m – p.ti 100/100
Sessione 3; distanza bersaglio: 100 m – p.ti 98/100
Sessione 4; distanza bersaglio: 150 m – p.ti 94/100
 
«Ah, diavolo!» commentò il lombax. «Per due schifosissimi punti!»
Nirmun non riuscì a trattenere un sorriso da orecchio ad orecchio.
«E anche oggi segno una vittoria!» disse, tutta contenta. «Rassegnati, Yale, non azzererai mai il divario!»
«Guarda che sono otto punti, non ottomila.» le ricordò Ulysses. «Posso recuperarli quando voglio.»
«Ceeerto. Lo hai detto anche l’altra volta, se non ricordo male...»
«Dopo averti battuto di ben dieci punti Tetraciel, come sicuramente ricorderai.» ribatté in tono amabile. «Piuttosto, che sono quegli errori nei settantacinque e nei cento? Hai bisogno di occhiali?»
«Distrazioni.» replicò secca, alzando velocemente le spalle. «E i tuoi nei centocinquanta?»
«Distrazioni.» rispose lui di rimando.
«Bene, le tue distrazioni ti costano otto punti da recuperare e...»
Nirmun non finì la frase, interrotta da un commento di uno degli allievi che si erano allenati nelle corsie di fianco.
«Stragalassia! Ma cosa mangiate voi?» gridò meravigliato quello, indicando l’oloschermo. Aveva intenzione di vantarsi del suo 310, ma al confronto era un punteggio orribile.
Il lombax e la xarthar si voltarono di scatto, guardandolo con una faccia che diceva chiaramente: e tu che vuoi?
«Siete sopra i 390! Come fate per avere un mirino al posto degli occhi?»
«Che domande!» rispose Ulysses di getto, con un’espressione seria. «Maciniamo le ottiche dei fluxer e ci facciamo un frullato!»
Nirmun, che stava per assentire, gli lanciò un’occhiata allibita e subito dopo gli rifilò un sonoro coppino.
«Ma che dici?! Sei scemo?!» sbraitò. Ulysses si portò una mano sotto la nuca, là dove sentiva bruciare, e prese a massaggiare delicatamente la zona.
«Tu sei scema!» sbottò a denti stretti. «Come ti salta in mente di–?!»
«Lo sanno tutti che bisogna fare frullato dei mirini di armi a gittata più lunga!»
A quella frase il lombax spalancò gli occhi, stupito. Lo stupore però lasciò quasi subito il posto all’irritazione.
Calò il silenzio. Nirmun e Ulysses rimasero a fissarsi per qualche secondo, lei sorridente e lui contrariato. L’allievo che aveva osato porre la domanda, imbarazzato per quella risposta impossibile, dopo un attimo si ritirò discretamente con un nervoso: «Ah, be’, se dite così...»
A quel punto la xarthar si accertò che l’altro fosse davvero sparito oltre il divisorio di corsia, prima di rivolgersi al pilota.
«Scusa, spero di non averti fatto troppo male...»
«Se volevi sfondarmi il cranio eri sulla strada buona.» replicò lui, continuando a massaggiare la cute.
«Ma dai! Con la tua testaccia dura?» ribatté, agitando la mano dall’alto verso il basso senza alcun senso di colpa. «Piuttosto, secondo te se l’è bevuta?»
«Chi, quello? Tetraciel, una storia del genere non regge nemmeno se la racconta Re. Tutt’al più ci ha presi per pazzi.»
«Be’, così non ci interrompe più.» ragionò la xarthar, sorridendo. «Come stavo dicendo: le tue distrazioni ti costano otto punti da recuperare e–»
«ALLIEVI!»
Di nuovo i due sobbalzarono. Di nuovo si trovarono di fronte la Donno.
Due richiami in una lezione. Stavolta ci massacra, pensò Ulysses.
Ma l’umana, contro il pronostico, gli rifilò una semplice occhiataccia.
«Agli hangar, adesso.» grugnì, prima di voltare le spalle ai due e andarsene.
Gli allievi preferirono non irritarla oltre e si affrettarono a seguirla. Tuttavia, mentre si dirigevano al campo, il lombax aprì la mente in direzione di Nirmun.
«Hai ragione a dire che sono preoccupato.»
La xarthar percepì un microscopico ago passarle attraverso la testa, e come ogni volta mostrò una smorfia. Per quanto si fosse sforzata, non era ancora abituata a quel genere di dialogo.
Fu questione di pochi attimi, prima che la sensazione disagevole svanisse. Subito dopo gli scoccò un’occhiata incuriosita. Il lombax non ammetteva mai una debolezza, soprattutto con lei. Cavargliele dai denti era parte del loro rapporto. Per questo l’ammissione spontanea la incuriosì.
Ulysses ignorò in toto la sua reazione, preso dal non far passare l’inquietudine nel flusso della conversazione.
«Ricordi come funziona la telepatia?»
«So solo che la usi per le chiacchiere e per trovare la gente.»
«Bene. La prima cosa da sapere è che un telepate non può leggere involontariamente il pensiero altrui, tranne che in due casi: quando è l’oggetto di quel pensiero e quando è talmente intenso da non riuscire a evitarlo. Basta anche una delle due perché ti legga senza volere.»
«Interessante. Ma perché mi racconti queste cose? Potrei usarle contro di te, un giorno.»
«Perché così la pianti di dire a tutti che sono un ficcanaso rompiscatole!»
Nirmun decise di non dare corda alle sue lamentele autocommiserative. «L’altra cosa?»
«L’altra cosa è che la chiusura totale della mente è difficile per un telepate, e per un non-telepate è quasi impossibile. Per fare un esempio: io riesco a chiudere un buon 60 percento della mente, ma sono un telepate e sono indiscutibilmente bravo. Per raggiungere il mio livello di adesso a te ci vorrebbero quaranta o cinquant’anni.»
«Come fai a dirlo con certezza? E se fossi un genio della chiusura mentale?» obiettò lei.
«Non esistono geni di questo tipo!»
«Okay, quindi?»
«Finché la mente rimane minimamente aperta ed è nel mio raggio d’azione ho la possibilità di rintracciarla, ma quando è completamente chiusa è come se la persona sparisse dal mio radar...»
«E Jure l’ha fatto, giusto?»
«Già. Ho provato a rintracciarlo da quando è arrivata la Donno alla fine della corsa, ma Re è rimasto comunque impossibile da rintracciare. Rimangono quattro alternative: lontananza, onde tachys, svenimento e morte.»
«Uh galassia. Una peggio dell’altra.»
«Inoltre c’è che stanotte siamo usciti dalla biblioteca e abbiamo sentito un rumore sospetto. Vicino all’accademia c’era qualcuno, ma non era né allievo né insegnante. Parlava di esplosioni, cadaveri, e qualcosa che deve funzionare dopodomani.»
La xarthar si fece seria. «A quel punto cos’avete fatto?»
«Re è diventato nervoso e mi ha trascinato nel dormitorio facendo il giro largo. Io non ho sentito quelle frasi e mi sono fidato di lui.»
«È stata una buona decisione. Ma tu perché non hai investigato?»
«Aveva un emettitore tachys.»
«Ah.»
«Stamani siamo tornati a cercare qualche traccia, ma non abbiamo trovato un granché. Solo una valvola di non ritorno. Per me la questione era da considerarsi chiusa, ma per Re no. A pranzo è scappato dicendo che doveva controllare una cosa. E poco dopo ne ho perso le tracce.»
«Ho capito. Vorrà dire che ti aiuterò a cercarlo a fine lezione.»
Stavolta Nirmun percepì sincero stupore. Gli lanciò un’occhiata di sottecchi e si stupì a sua volta di come non lasciasse trapelare nulla nell’espressione. Così rintuzzò: «Di’, pensi sul serio di evadere dopo due richiami?»
A quelle parole la mascella del lombax s’irrigidì per la paura.
«Ah...be’...no.»
«Dobbiamo chiudere presto l’esercitazione, allora. Fa’ del tuo meglio, pilota.»
«E tu falli secchi, soldato.» concluse Ulysses, terminando così il discorso e quella particolare frase di rito che usavano dirsi prima di darsi alle esercitazioni.
Poco lontano si vedevano i cancelli degli hangar, e dietro di loro le figure familiari delle Comet. Quando l’ebbero raggiunte, gli allievi serrarono i ranghi in attesa delle istruzioni dalla Donno, istruzioni che non tardarono ad arrivare.
«Ascoltatemi bene, allievi! Oggi simuleremo una battaglia terra-aria. Vi dividerete in due squadre di egual numero, entrambe formate da una divisione di terra e una d’aria. Una volta prese le Comet vi dirigerete nel campo d’addestramento a nord dei dormitori. Lì sono state predisposte cinque basi per ogni gruppo: coloro che alla fine della lezione avranno sotto il loro controllo il maggior numero di basi saranno proclamati vincitori! Caricate le munizioni stordenti di classe A! Che le Comet montino proiettili ad antimateria!»
A quelle parole Ulysses e Nirmun si scambiarono un’occhiata perplessa, e non furono i soli. Non avevano mai caricato proiettili di quel tipo. Per le armi di piccolo calibro, dopo le munizioni stordenti di classe A c’erano solo le munizioni vere. Inoltre, colpire una Comet con un proiettile ad antimateria significava disattivare all’istante tutti i sistemi principali.
«Che diavolo sono quelle facce?!» gridò l’istruttrice. «Fuori le palle, allievi! Il tempo dei giochi è finito, e fuori di qui vi aspettano campi ben più duri di quello che ho fatto allestire!»
Uno dei soldati, un cazar dal pelo biondo di nome Atrèl Skyreas, chiese la parola. Il gesto attirò qualche sguardo tra gli allievi, perché il cazar non era noto per la loquacità. L’istruttrice, invece, lo fissò come un ostacolo da incenerire.
«Siamo allievi dell’ultimo anno, e fino ad ora non abbiamo mai fatto una cosa del genere a questi livelli. Quindi vorrei sapere: quali saranno le posizioni dei due istruttori?»
Rita Donno incurvò appena un angolo della bocca. Un gesto che, per lei, si poteva considerare un sorriso.
«Domanda intelligente, te lo concedo.» rispose. «La risposta è semplice: noi due cercheremo di abbattere quanti più di voi ci riesce.»
Di nuovo gli allievi sgranarono gli occhi.
«Indistintamente?» chiese ancora Atrèl.
«Certo.» rispose l’umana, rivelando un sorriso feroce. «Indistintamente

 

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Capitolo 6
*** | Capitolo 05 | Senza fiato ***


[ 05 ]
Senza fiato
Sempre 4 giugno 5402-PF, ore 15:30
Accademia, edificio centrale, quinto piano
 
L’ascensore scampanellò nel silenzio. Le ante, dopo un primo scatto e un attimo di incertezza, si aprirono.
«...E menomale! Col puzzo che c’è qui si sviene!» disse Linda, uscendo in corridoio. Con un gesto d’abitudine la kerwaniana cacciò dietro la schiena la folta massa di ricci.
«Il prof ci ha avvisati che è un ascensore poco usato.» le ricordò Jack, spingendo fuori un enorme carrello.
«Ciò non toglie che un profumatore farebbe grandi cose per quel buco.»
Il cazar alzò gli occhi al soffitto. Gliel’aveva sentito dire in così tanti frangenti che non importava più su quale nave avrebbero lavorato; era certo che lei avesse la faccia per deturparla con la scusa di migliorarla.
I due allievi proseguirono fino in fondo, svoltarono e proseguirono fino alla porta contrassegnata come “Magazzino 5/Delta”.
«Dovremmo esserci.» commentò la kerwaniana. Il cazar richiamò il pezzo di carta su cui aveva annotato il nome del magazzino e confermò. Poi le dettò il codice per aprire la porta. Le dita della ragazza danzarono sul tastierino e il battente, alla pressione del tasto invio, scivolò docile lungo la guida.
«Ah!» Dopo un primo momento di sorpresa Linda poggiò le mani sui fianchi. «Per che diamine pagano gli inservienti, me lo spiegano?»
Jack abbandonò il carrello e infilò il naso oltre l’uscio. Era tutto ammonticchiato a casaccio, in bilico, fuori posto. Sconfortato, emise un gemito.
«Dai, facciamoci strada.» disse, cercando di incoraggiare se stesso. «Prima troviamo il tripartitore e prima ce ne andiamo.»
«Io non ce le metto le mani in questo schifo! Come minimo ci sono le blatte!»
Un cambio di idee repentino; anche quello era tipico di Linda. Ci conviveva dal primo giorno d’Accademia, e l’esperienza gli aveva insegnato come reagire. In quel caso materializzò e le porse un paio di guanti in lattice.
«Non ho mai visto blatte qui; ma se ti fa sentire meglio...»
La kerwaniana li fissò con sdegno. «Scherzi, vero? Rovinano la pelle.»
Attimo di silenzio, poi Jack grugnì una sillaba di sconforto. Normalmente avrebbe riposto con pazienza, argomentando fino al dettaglio come la sua affermazione fosse infondata. Ma la pazienza era figlia del sonno e lui aveva dormito tre ore. Per quanto la dottoressa Amheit gli avesse restituito un aspetto sano, non aveva la materia prima per discutere coi capricci della kerwaniana.
«Non ci provare. Non fai queste storie quando si tratta di morchia o di plasma – e quelli sì che sono dannosi.» Le afferrò una mano e la costrinse a prendere i guanti. «Perciò non dire altro. Non farò il lavoro sporco da solo. Insieme o nessuno, e questo è quanto.»
La kerwaniana gli rispose con un’occhiataccia carica di irritazione. Come osava?! Poi però si disse che la causa del suo nervosismo era la carenza di sonno, che non avrebbe patito se non ci fosse stata la fola del faldone; che non sarebbe esistita se lei non avesse pianificato con Yale ai suoi danni.
Pur detestando l’idea, in silenzio, indossò i guanti.
* * * * * *
I due dovettero lavorare di buona lena. All’inizio si disposero come una catena di montaggio: Jack, sprezzando la polvere e l’irritazione, si piazzò nella stanza a passare le scatole alla compagna; Linda, in corridoio, le ammonticchiò contro il muro. Poco a poco s’inoltrarono nella stanza, e quando la catena non fu più sufficiente si alternarono per portare fuori ognuno qualche scatola. In corridoio, il muro vicino alla porta si riempì di cilindri e altri contenitori, alcuni di plastica e altri in cartone, in un mosaico alto fino agli occhi.
Secondo il professore quello che cercavano era in una scatola di plastica alta mezzo metro. Non particolarmente pesante, ma voluminoso.
Ad un certo punto Jack, mentre caricava l’ennesimo contenitore, vide una massa coperta da un telone blu. Adocchiò la fortezza di scatole intorno, la loro disposizione, e allungò un braccio per richiamare l’attenzione di Linda. «Non ti sembra che le scatole lì siano messe in modo strano?»
«Sono solo incasinate.» rispose sbrigativamente lei.
«Guardale bene. Non ti sembra che, per essere confusione, ci sia uno schema?»
La kerwaniana si fermò. Le braccia cariche, volse un’occhiata scocciata prima a lui e poi, rassegnata, al muro di contenitori e al telone che spuntava da dietro. «No, non mi pare. Solo casino.»
Il cazar storse la bocca, deluso dalla risposta. Linda, uscendo dalla stanza, si sentì pungere ancora una volta dal senso di colpa; così rientrando si sforzò di ammorbidire il tono. «Okay, supponiamo che siano incasinate solo per finta, come dici tu. Perché mai gli inservienti dovrebbero farlo?»
Buona domanda. Jack, per controbattere, aveva solo l’esperienza personale. «Tu non hai mai arruffato i vestiti nell’armadio per nasconderci qualcosa in mezzo?»
«Certo che no!» La faccia disgustata della kerwaniana parlava da sola. «Che brutta immagine. Potevi usare il classico albero nella foresta per rispondere.»
Il cazar incassò la predica dicendosi che – forse – certe tattiche funzionavano solo in casa Steel, dove con quattro fratelli per nascondere qualcosa bisognava essere creativi.
Linda si fece largo fino al fianco di Jack. Batté le mani per levare la polvere, poi si girò verso il suo compagno. «Suppongo che una sbirciatina non farà differenza in termini di tempo perso.»
Insieme, i due allargarono la breccia fino a farla arrivare a terra. Quando levarono lo scatolone più basso («Ehi, che culo! Il tripartitore!») scoprirono finalmente l’orlo del telone di plastica blu, che giaceva a venti centimetri dal suolo. Sotto, visibili, c’erano due tubi verdi un po’ scrostati.
I due ingegneri si scambiarono un’occhiata perplessa. Poi, inginocchiatosi, Jack materializzò una penna e bussò contro uno di essi. La nota fu metallica e fonda, come se ci fosse un vuoto. Come se quello fosse un tubo. Il cazar smaterializzò la penna e, con un movimento fluido, afferrò l’orlo del telone e si alzò, scoprendo il contenuto misterioso.
Bombole.
Alte, strette, piene e...
«Cosa?! Le usano ancora?!» gli venne spontaneo guardando l’anno di smaltimento obbligatorio. Era passato da un pezzo.
La kerwaniana cercò subito l’indicatore della carica. Lo adocchiò e storse la bocca. Non solo erano da smaltire per normativa, ma erano state riempite nonostante presentassero chiazzette di ruggine.
«Vado a cercare un’ispettrice.» sentenziò. «Sa il cielo quanto spessore abbia mangiato la ruggine.»
«Sì...» rispose distrattamente lui, prima di udirla allontanarsi. A quel punto passò la mano su un bozzo particolarmente marcato, segno evidente di una caduta. E poi vide il beccuccio graffiato, forse tranciato, lì dove doveva essere la sicurezza principale della bombola.
Oh, merda.
Dove caspita era finita la valvola di non ritorno?
* * * * * *
Linda rientrò meno di un minuto dopo. Al seguito della sua massa di ricci c’era una robot, ma non certo l’ispettrice che Jack si aspettava di vedere. Quella alle spalle della sua compagna recava sul petto la sigla 17-Cl: era Claire, nientemeno che la segretaria del Direttore.
La robot scansionò la stanza con due occhiate, prima di concentrarsi sugli oggetti di cui Linda continuava a parlare.
«Lo vedo, allieva, lo vedo.» disse per rabbonirla.
Jack si fece indietro per permetterle di avvicinarsi. La robot, però, parve di un altro avviso. Materializzò un guanto nero, lo indossò e smaterializzò al suo interno il telone e tutti i recipienti intorno alle bombole. Una dopo l’altra tutte le scatole furono avvolte dal pallore della smaterializzazione e sparirono all’interno del tessuto contenitore.
Guardandola, il cazar sentì stringere lo stomaco. La kerwaniana, invece, avvertì calore sugli zigomi. Il primo desiderò tanto avere uno di quei guanti, la seconda provò una fitta d’invidia. Se solo avessero avuto qualcosa di così capiente!
«Hm...» la voce di Claire spezzò il silenzio. Quando ebbe campo libero scannerizzò il blocco di bombole, rilevando con maggiore precisione quanto le aveva riferito Linda. «Un’infrazione seria.» sentenziò alla fine, prima di voltarsi verso gli allievi. «Avete fatto bene ad avvisarmi. Come premio comporrò la vostra giustificazione per il professor Noges.»
L’affermazione colse di sorpresa i due. Claire, non comprendendo la loro reazione, aggiunse: «Dalle vostre schede risulta che dovreste avere lezione col professor Noges. Spostare i colli vi sarà costato tempo. Ne deduco che il vostro educatore si stia chiedendo dove siete finiti.»
«Ecco, per questo...» cominciò Jack, incerto. «Siamo venuti per il tripartitore di flusso armonizzato. Non voglio essere scortese, ma credo che l’abbia smaterializzato insieme al resto.»
Claire controllò. Grazie alla rete interna impiegò una frazione di secondo a confermare la frase del cazar. «Corretto. Collo F-17965.» Estese la mano guantata e fece comparire il grosso scatolone. Lo portò fuori per loro e lo depositò gentilmente sul carrello, abbandonato da una parte al loro arrivo.
«Allievi.» disse, prima che riprendessero la strada per la classe. «Vi sarei grata se evitaste di diffondere la notizia. Generereste panico inutile; deleterio per questi ultimi giorni di studio.»
«Sissignora.» risposero prontamente. Era un peccato perdere un tale pettegolezzo, ma capivano entrambi la gravità della loro scoperta. E poi, comunque, non aveva vietato di parlarne tra loro.
Mentre si allontanavano parlottando a bassa voce, l’ispettrice appoggiò le mani sui fianchi. Per il momento la faccenda era arginata, ma doveva ragionare bene sul modo per accomodarla. Quando l’ascensore puzzolente si chiuse dietro gli allievi, la robot smaterializzò tutti i contenitori meticolosamente appoggiati contro il muro. Poi richiuse la porta del magazzino e cambiò il codice d’accesso con uno sbloccabile solo dal Direttore.
* * * * * *
Sempre 4 Giugno 5402-PF, mezzo pomeriggio
 
Caldo. La prima percezione di Reshan fu il calore delle piastrelle contro il ventre e la guancia.
Subito dopo provò fastidio. Il ronzio perforante del generatore lo indusse a uscire dallo stato di torpore. Si puntellò sulle braccia, mettendosi carponi e poi in ginocchio. La testa era ovattata; gli occhi lacrimavano e le risposte dei sensi arrivavano in ritardo.
Agh...Non i segnali migliori. – si disse, asciugando gli occhi con la manica.
Andò a tastare la nuca, là dov’era stato colpito. Appena sfiorò la cute ritirò la mano, gemendo per l’intenso bruciore. Un secondo tentativo gli rese la presenza di una crosta piena di asperità.
Questo m’insegna a stare fermo, la prossima volta.
Finite le autoanalisi si guardò intorno per capire dove fosse. Solo allora si accorse dell’innaturale tinta rossa che velava il resto del mondo.
La fissò per qualche istante con aria spaesata, prima di intuirlo. Un...campo di forza?
Vedendo che non emetteva scariche vi poggiò la mano. La superficie era tiepida e rigida, segno che la barriera non aveva difetti. Fare forza sarebbe stato inutile, quindi si guardò intorno alla ricerca di qualche indizio.
Il campo è semisferico... il generatore della barriera dell’Accademia è al centro. Dal corridoio che accerchia il generatore posso presumere che il campo di forza abbia un raggio di due metri, forse qualcosa di meno. Avrà origine dal generatore anche questo?
Si avvicinò al generatore. La canna usciva verticalmente da un bulbo metallico grande quanto un frigorifero. Sulla parte che dava a sud c’era un pannello per i comandi; ma appartenevano alla barriera della scuola, non a quella che lo interessava.
Eppure da qualche parte il campo deve originarsi! Di certo non sta in piedi per caso!
Ripartì daccapo. Si guardò intorno con metodo, e quella volta individuò una nervatura nella barriera rossa. La seguì fino a terra e trovò un dischetto grosso come un tappo di bottiglia.
Lo riconobbe: era parte di un set di cerchioscudi, una dotazione standard di chiunque frequentasse l’Accademia. Insegnavano a usarli già al primo anno: si posizionavano i quattro dischi lungo una circonferenza ideale e quelli originavano una barriera semisferica che poteva essere usata a scopo difensivo o a scopo contenitivo.
Solo che qui ci sono più di quattro dischi... aspetta... uno, due, tre, – e prese a seguire la circonferenza, contando e tastando ciascun disco. – ...Dodici, e neanche uno montato a mio favore.
Quindi era dentro una combinazione di tre set, e chiunque li avesse montati non aveva commesso il classico errore di girarne uno a favore del prigioniero. Gli sarebbe bastato quello per abbattere almeno uno dei tre strati di barriera.
A quel punto una domanda sorse spontanea: com’era possibile che il cuore delle difese dell’Accademia della Flotta sita a Capital City, che tra tutte era la più prestigiosa, fosse protetto da tre banali cerchioscudi?
E poi: perché, prima di svenire, il generatore funzionava a vuoto?
Chi lo aveva colpito a tradimento? E per quale motivo?
 
Accidenti, devo uscire da qui! – pensò indispettito. Stare in una prigione di tre cerchioscudi significava ricambio d’aria minimo ed effetto serra triplicato: se non si fosse sbrigato a uscire... be’, meglio non pensarci.
C’era qualcosa che potesse fare?
Si guardò le mani e, di fronte ai palmi nudi, lo colse un pungente disappunto. Per la prima volta rimpianse d’aver seguito il regolamento. Gli unici abbigliamenti contenitori ammessi erano le polsiere e chiunque l’aveva rinchiuso s’era premurato di levargliele. Non aveva più alcun gadget, né il chatter per chiedere aiuto.
Non mi resta che Lys.
Ma era davvero l’ultima opzione?
Si morse il labbro inferiore. Era vero che l’altro era telepate e che bastava essere nel suo raggio d’azione per conversare con lui, ma in quel momento era impegnato nell’esercitazione di Difesa. Ogni distrazione poteva essere rischiosa; specie se stava pilotando.
Indeciso, temporeggiò facendo un altro giro dei dispositivi. Li studiò attentamente, sperando di trovare una falla, ma niente da fare: erano tutti rigorosamente montati al contrario.
Perciò sì: era davvero l’ultima opzione.
Memore delle lezioni che il lombax gli aveva impartito, sgomberò la mente il più possibile e cominciò a gridare nella testa il nome dell’amico.
* * * * * *
Ulysses maledisse Reshan con una parola decisamente creativa.
Gestire la Comet in modo da evitare i proiettili degli istruttori era fin troppo impegnativo per badare alle grida dello xarthar, che lo pressavano agli angoli della mente.
«Quella checca!» sussurrò ancora tra i denti, virando bruscamente per evitare l’ennesimo proiettile ad antimateria. Per fortuna quel tipo di munizione non montava un sistema di ricerca termica, ma l’avversario aveva comunque il vantaggio dell’esperienza, grazie al quale riusciva a sprecare meno munizioni della Comet manovrata dagli allievi.
«Pilotucolo! Se fai manovre tanto brusche come ti aspetti che riesca a sparare decentemente?!» lo redarguì Nirmun.
«Si è fatto vivo proprio ora! Giuro che gli tarpo le ali quando lo vedo!»
«Missile a ore sei!» gridò allarmata la coniglia, sul cui radar era comparso un puntino rosso che seguiva minacciosamente la loro rotta. Ulysses si fece svelto sulla consolle e portò la Comet sulla verticale per evitare il proiettile.
«Visto e evitato!» replicò secco, cercando di domare le grida di Reshan e i suoi pensieri.
«Vaffanculo! Mettici la testa, Yale!» sbottò la soldata. «Vuoi farci abbattere?!»
«E tu spara anziché urlare!»
«Grido perché non ci sei di testa! E che diavolo, manco alla prima esercitazione pilotavi così male!» sbottò nuovamente, sganciando un missile. Questi volò in linea retta fino a scontrarsi con un altro missile proveniente da una navetta davanti a loro, che dopo aver sganciato la munizione aveva virato a destra per non essere travolta.
Grrr... vorrei vederla se avesse nella mente il casino che ho io!
Dopo quel pensiero decise di mettere al bando dalla sua mente qualunque cosa non fosse inerente all’esercitazione. Pratico delle proprie abilità, si focalizzò sull’obiettivo tacendo per alcuni secondi. Attorno a lui cielo e terra si invertirono per un momento nello schivare un proiettile degli istruttori.
«Okay: abbiamo la Donno in coda, i nemici davanti e i nostri sotto da proteggere. Che si fa?»
Nirmun quasi non si capacitò della sua comunicazione, così diversa rispetto a poco prima.
«Missile a ore tre!» informò, attivando il phaser sulla fiancata per fermare il proiettile. La munizione esplose in una nuvola grigio sporco, sparando frammenti di metallo in ogni dove.
«Che facciamo?» chiese di nuovo Ulysses.
«Se non possiamo abbatterla, almeno sfruttiamola!»
«Cioè?»
«Portala in mezzo ai nemici!»
Ulysses strabuzzò gli occhi. «Cosa?! Ma è pura follia! Ce li troveremo tutti addosso!»
«Ma se continua così ci isolerà dai nostri!» replicò con forza la ragazza.
Il lombax scorse velocemente il radar.
Rispetto alla formazione iniziale, un groviglio di puntini blu sulla destra dello strumento, loro erano parecchio distaccati. E i puntini rossi – gli avversari – sembravano puntare alla rottura dello schieramento blu. Se fosse successo, per l’altra fazione sarebbe stato facile abbattere le navette dello schieramento cui appartenevano Nirmun e Ulysses. Ma se loro avessero portato la Donno in mezzo al cuneo...
«D’accordo, Tetraciel. Facciamolo.» disse, risoluto, digitando la nuova rotta sulla consolle.
«Evvai!» esultò la xarthar, dietro di lui. «Missili ad antimateria caricati. Pronta a fare fuoco.»
«Incrocia anche le dita; sta per scatenarsi un putiferio.»
«Basta che tu non perda la testa come prima. Siamo vivi praticamente per miracolo!»
Quella frase urtò la calma che Ulysses era riuscito a costruire nella sua mente.
«La pianti di frignare? Hai ancora il culo sul sedile o sbaglio?»
«Sì ma vorrei tenercelo!»
«Allora reggiti!»
 
Sull’altra navetta, frattanto, l’istruttrice Donno scrutava con attenzione i movimenti dei suoi allievi di punta.
«Vogliono rientrare nel mezzo dello schieramento nemico. Sperano di sconfiggerci usando gli avversari come arma e scudo.» analizzò.
«Dagli degli imbecilli...» replicò con calma l’altro istruttore.
«Mori! Quella è la tattica più stupida che potessero tirare fuori!» esclamò la donna «Al prossimo giro abbattili, per piacere. E finiscila di difenderli.»
«Okay Rita.» rispose lui. «Ce li ho già nel mirino.»
 
«Ci segue ancora?» chiese Ulysses, notando con la coda dell’occhio un missile esplodere dopo essere stato intercettato da un phaser.
«Sì.» rispose lei alcuni istanti dopo. «E spero vivamente che abbia frainteso la nostra strategia.»
La navetta eseguì un tonneau, ruotando con grazia sul suo asse longitudinale per evitare alcuni phaser, subito prima di tuffarsi tra le navette avversarie. Sul radar quindici puntini rossi si riversarono attorno alla freccetta verde che li contraddistingueva al centro.
Agirono cogliendo di sorpresa gli avversari, irrompendo dall’alto nella loro formazione, e Nirmun ebbe modo di colpire almeno due navette a distanza ravvicinata, costringendole all’atterraggio di fortuna.
Dai prof, facci un favore! – pensò la xarthar, sparando alcuni phaser come difesa.
Uscirono dalla nube di navette portandosene due all’inseguimento, ma queste finirono abbattute dalle testate sparate dagli istruttori.
«Acc, ha migliorato il tiro.» comunicò la ragazza, dopo aver letto sulla sua consolle le traiettorie impiegate dagli istruttori.
«Come stai a munizioni?»
Un altro tonneau. Un phaser schivato, una navetta nemica colpita. Nirmun sentì lo stomaco protestare, ma si sforzò d’ignorarlo: loro non erano stati colpiti e tanto bastava.
«Sono a metà.» dichiarò.
«Reggi il secondo giro?»
Ulysses sapeva che, in quanto di sottospecie terricola, aveva una debolezza nei confronti delle prodezze aeree; ma Nirmun, piuttosto che ammettere di essere quasi in dirittura d’arrivo, sarebbe svenuta.
«Scherzi?» ironizzò con convinzione. «È meglio delle montagne russe!»
Ulysses sorrise. Si beccavano il più delle volte, ma su certe cose c’era un tacito accordo a non tergiversare. Per cui...
«Lys! Missile a ore sei!!!»
Il suo grido allarmato lo riportò con la testa sulla navetta.
Tre occhiate alla consolle: non aveva il tempo si tentare una manovra evasiva. Alzò velocemente gli scudi posteriori e gridò: «Spara!»
Ancor prima di capire Nirmun fece fuoco con i phaser posteriori. Il missile fu fortunosamente intercettato, e le uniche cose che colpirono la Comet furono i resti metallici della testata. Una lieve onda d’urto fece traballare i sedili degli allievi, e le strumentazioni si spensero e si riaccesero in una frazione di secondo.
«Il sistema si è resettato!» esclamò il pilota, realizzando istintivamente tutte le conseguenze di quel che significava reset del sistema.
«Cosa?» chiese Nirmun, avvertendo che il mezzo stava perdendo velocità.
«Cerco di tenere la navetta, tu difendici come puoi!» ordinò lui, sapendo che le armi sarebbero state attive quasi subito, a dispetto dei motori che ci avrebbero impiegato alcuni secondi.
La Donno non attese che la loro navetta riprendesse a funzionare. Vedendo gli allievi in difficoltà, ordinò a Mori di finirli.
Mentre la navetta cominciava la caduta libera, ignorando se le strumentazioni fossero sballate, Nirmun mise il mirino in modalità manuale e si affidò al suo istinto, consapevole di dover guadagnare più tempo possibile.
Vide il missile partire. Fece per alzare gli scudi, ma il sistema non glielo concesse. Allora sparò una testata. Il missile fu colpito, ma dalla nuvola di fumo che generò ne sbucò un altro.
Mori, quel bastardo! – pensò. Con il sistema in reset poteva usare solo i proiettili che aveva in canna, che in quel momento si riducevano a uno solo.
Prese la mira. Fece fuoco.
Mentre premeva il comando di espulsione del missile la navetta ebbe uno scossone, e l’ultimo colpo fu sparato invano. La testata della Donno, invece, li raggiunse prima che il sistema si riprendesse del tutto. L’impatto fu quasi silenzioso, suggellato da uno scossone. Tutte le strumentazioni furono attraversate da piccole scariche elettriche, poco prima che la Comet si spegnesse e finisse la caduta, rimbalzando e ammaccandosi sul terreno del campo d’addestramento.
 
L’istruttrice Donno guardò con disprezzo la navetta che cadeva al suolo. Quando fu definitivamente ferma volse un’occhiata all’orologio: avevano resistito per quasi tre quarti d’ora.
Non male. – pensò. – Ma non è abbastanza.
La riflessione fu interrotta dal suo collega, che la chiamò alcune volte.
«Che c’è?» chiese lei, bruscamente.
«Dobbiamo tornare dagli altri.»
Mori la guardò di sottecchi. Gli occhi dell’umana, di un azzurro chiaro e freddo, erano concentrati sulla navetta appena abbattuta.
«A cosa pensi?»
Lei parve riscuotersi.
«A niente. Andiamo.» replicò, muovendo la Comet in modo da farla tornare dagli altri allievi.
Se continuano a fare cose così sconsiderate, sarà bene che si procurino un buon biomeccanico o si ritroveranno con arti malfatti, si concesse di pensare durante la virata.
* * * * * *
Andata.
Finita.
Morta.
La Comet non si sarebbe riattivata per un bel po’, e questo fu fonte di frustrazione per Ulysses, che nelle simulazioni di reset del sistema in qualche modo era sempre riuscito a cavarsela.
«Aaahh! Mondo infame! Ma una cosa che vada per il verso giusto non mi è concessa oggi?!» sbottò, colpendo la consolle con un pugno rabbioso. Dopodiché sganciò le cinture, smaterializzò manualmente la jumpsuit e uscì dalla navetta. Maledicendo il piano fallito, si guardò intorno per capire dove fossero.
Erano in una specie di radura. L’erba era mista a sassi e tutt’intorno c’erano delle palme e qualche arbusto. Quella combinazione era presente solo nel campo d’addestramento col finto albergo – ricordò – quindi dovevano essere da qualche parte a nord-est dell’accademia.
Nirmun, piuttosto scombussolata, fece capolino dalla navetta col volto colorato da una lieve sfumatura verdognola.
«Ehi, è tutto a posto?» chiese Ulysses, trattenendo a stento il tono aspro.
«Sììì...» pigolò lei, poco convincente. «Credo che lo stomaco abbia fatto una capriola...»
Il lombax le porse una mano e l’aiutò a scendere a terra. Poi, sotto la supervisione del pilota, la xarthar andò a sedersi su un sasso.
«Non reggi proprio di stomaco, eh?»
Nirmun desiderò ardentemente di potergli sparare senza conseguenze.
«Non reggo ruzzoloni in volo, cadute libere e rimbalzi...» lo rimbeccò, sentendo la bocca riempirsi di saliva. «Per fortuna le Comet hanno delle misure d’emergenza...»
Il lombax la prese come un’accusa implicita e abbassò le orecchie, umiliato.
«Non sono riuscito a far ripartire il sistema. Mi dispiace.»
La xarthar sventolò una mano in quel gesto che ormai Ulysses aveva imparato ad interpretare come non fa nulla.
«E io ho avuto sfiga col secondo proiettile. Magari, se fosse andato a segno, avresti avuto il tempo per far ripartire quella carretta.»
«Sicuro.»
«Colpa di entrambi è come dire colpa di nessuno, in questo caso. Ripartiamo da zero e andiamo ad arrostire i culi ai nostri avversari!» propose, entusiasta. Sembrava si fosse ripresa alla svelta, e la cosa fece piacere a Ulysses.
«Sono felice che ti senta già meglio.»
Nirmun rise nervosamente. «Non ci contare. Mi ci vorrà ancora un po’ per quello.»
Passò qualche istante di silenzio prima che la xarthar lo rompesse di nuovo. «Ehi, ti sei accorto che prima ti ho chiamato Lys?»
«No, ma era ora che lo facessi.» disse, sedendosi vicino a lei. Il sasso era abbastanza grande da ospitarli entrambi.
«Hehehe...veramente mi è uscito d’istinto! Però mi piace! Credo che ti chiamerò Lys e basta, d’ora in poi. Posso chiamarti così anche in giro per la scuola o ti imbarazzi?»
«Che? Ma no, fai pure.» rispose lui, conciliante.
«Va bene!» replicò vivacemente la xarthar. «Piuttosto... il tuo amico l’hai più risentito?»
«Chi, Re?»
Sgranò gli occhi, sorpreso da se stesso: come aveva fatto a dimenticarsi così del suo migliore amico?
«Mondo infame! Aspetta un momento!»
E mentre Nirmun se la rideva, lui bussò alla mente del pipistrello.
* * * * * *
Reshan si era diplomaticamente seduto contro il generatore ed aveva chiamato il suo amico per una mezz’ora buona, prima di rassegnarsi.
Dentro la barriera l’aria era diventata quella di un forno. Per non disidratarsi eccessivamente si era tolto la giacca, rimanendo con la maglietta grigia, che in quel momento era scura per il sudore. Aveva cercato di mantenersi calmo, di respirare regolarmente, di non sprecare nessuno dei litri d’aria che il suo assalitore gli aveva lasciato. Però, adesso, fra il caldo e il tempo passato, l’aria s’era fatta cattiva in bocca e dolorosa nei polmoni. Era agli sgoccioli.
 
«Re? Re, mi senti?»
 
Lo xarthar riaprì appena gli occhi e drizzò un poco le orecchie. Istintivamente cercò di guardarsi attorno, ma lo colse un brutto giramento di testa non appena cercò di alzare il mento.
«Lys...» chiamò, sollevato. «Aiuto...»
Silenzio per alcuni secondi. Reshan s’immaginò di vedere la faccia stranita del lombax di fronte alla sua richiesta, ma dalla risposta che ricevette fu preso in contropiede.
«RAZZA DI IDIOTA, MA CE L’HAI UNA VAGA IDEA DELLA PREOCCUPAZIONE CHE C’HO ADDOSSO?! SEI SCAPPATO DALLA MENSA E SEI SPARITO!!! E ADESSO SPERI DI CAVARTELA COSÌ?!»
Le grida aizzarono un secondo, bruttissimo, giramento di testa.
«Hai ragione, ma... non posso... spiegare.» replicò. Per un istante desiderò chiudere gli occhi e cedere a quella vertigine così opprimente, poi percepì come un freno alle sensazioni che l’altro stava trasmettendo con il dialogo. Fu balsamico. Lo spinse a riaprire gli occhi.
«Sì, non puoi adesso, ma lo farai. Dove sei?»
«Sul tetto... dell’accademia...»
«Aspettami lì. Arrivo.»
«Però attento...»
«A cosa?»
«...»
«Re?»
* * * * * *
All’albergo nel campo d’addestramento, Ulysses mostrò una faccia decisamente basita.
«Allora?» chiese Nirmun, il cui stomaco aveva finito di agitarsi.
«È... nei guai.» rispose, non credendo neanche lui all’ultima parola. «Non ho capito bene, ma se non è riuscito a formulare i pensieri la situazione butta malissimo.»
«Cosa vuoi fare?»
«Vado a recuperarlo.»
«Vai dove?» lo redarguì lei. «La Donno ti spellerà vivo se ti allontani!»
«Per quanto ne sa la Donno sono morto dentro la Comet!» sbottò. «Senti: non ti chiedo di venire con me. Se vuoi tornare dagli altri fa’ pure. Dirigiti a nord-ovest, non puoi sbagliare.» disse, indicandole la direzione. «Io devo andare. Farò presto.»
La ragazza si alzò in piedi e si rassettò alla meglio i pantaloni e la maglia.
«Stai scherzando, vero? Se anche li raggiungessi in tempo mi chiederebbero di te. A quel punto cosa dovrei dirgli? Che sei schizzato via per andare dal tuo amico?» provocò. «Siamo precipitati insieme, diremo tutt’al più che abbiamo cercato di far ripartire la Comet, ma muoverci separatamente è da stupidi.»
«Quindi?» la interruppe Ulysses, impaziente di sentire il succo del discorso. Nirmun materializzò un hoverboard dalla polsiera e ne avviò i propulsori.
«Quindi io e te andiamo da Jure, gli diamo una mano e preghiamo di riuscire a tornare indietro prima che la Donno scopra che abbiamo fatto una piccola deviazione
«Ottimo.» assentì, senza fronzoli. «La tua tavola può portarci sul tetto dell’accademia?»
Nirmun lo guardò con aria di sfida e gli fece cenno di salire dietro di lei.
«Per chi mi hai preso, pilotucolo?»
Diede gas, e i due sfrecciarono verso sud-ovest.
* * * * * *
Atterrarono sul tetto quasi silenziosamente, in perfetto equilibrio, come se fosse qualcosa di quotidiano.
«Eccolo!» esclamò quasi subito Ulysses, indicando la semisfera rossastra. Nirmun non gli diede troppa tara: la salita lungo l’edificio aveva dato il colpo di grazia allo stomaco e adesso stava male sul serio.
Il lombax, appena la tavola si spense, schizzò verso la barriera. Lei, nello stesso tempo, raggiunse un grosso sfiato in alluminio, dietro il quale vomitò a più riprese. Ulysses neanche se ne accorse, preso com’era. Studiò rapidamente l’esterno: visti i congegni a terra capì; poi si dedicò all’interno. Reshan sembrava addormentato, appoggiato scompostamente contro il bulbo metallico e col volto reclinato sul petto. La maglia era zuppa di sudore, i ciuffi castani erano appiccicati al volto, le labbra di un pericoloso livido.
«Re! Ehi, Re!» chiamò. Si avvicinò Nirmun, pulendosi la bocca in un fazzoletto che fece svanire nella polsiera.
«Aiutami a spegnere i cerchioscudi!» ordinò il lombax, cominciando a lavorare per disattivarne uno. L’altra lo imitò immediatamente: premettero ai lati dei dischetti, aspettandosi che uscissero le piccole pulsantiere con i tasti on e off, tuttavia non uscì nulla. Incuriositi, riprovarono. Niente da fare.
«Reshan, rispondi! Che razza di cerchioscudi sono?»
Lo xarthar non rispose, così Ulysses cercò di porgli la domanda per via mentale, ma senza riuscire a raggiungerlo. Nirmun fece il giro di tutti i congegni nel tentativo di aprirli. Alla fine del giro fece cenno di no al pilota, che s’alzò in piedi.
«Okay.» disse con risolutezza, sfoderando una delle vipere. La xarthar capì al volo e lo imitò: se quei congegni non si volevano spegnere con le buone, lo avrebbero fatto con le cattive.
I due spararono una serie di colpi, abbattendo uno dopo l’altro i dischetti. Mano a mano che i dispositivi vennero messi fuori uso le barriere andarono dissolvendosi; e quando l’ultima calò Nirmun s’inginocchiò di fianco al suo simile per assicurarsi che il battito cardiaco fosse ancora presente.
«Okay, è con noi.» e gli posò una mano sulla fronte. «Cazzo, scotta!»
Il lombax si guardò intorno. «Portiamolo dallo sbocco delle scale. Almeno c’è dell’ombra.»
Nirmun annuì, si spostò in una posizione più adatta e si passò il braccio di Reshan attorno al collo. Lo stesso fece Ulysses, ed a un segnale comune i due sollevarono il pipistrello. Passo dopo passo raggiunsero la loro meta, e lì adagiarono Reshan a terra.
Nirmun auscultò nuovamente il battito cardiaco e valutò la respirazione.
«Respira a malapena. Che facciamo?» chiese con una punta d’apprensione.
«E che ne so io, è il medico quello da curare!»
«Andiamo, metti in moto il cervello! Con lui ci vivi, ne avrete parlato qualche volta di primo soccorso! Cosa farebbe lui se tu fossi al suo posto?» lo incalzò lei. Ulysses ci pensò un momento, poi corse a prendere la giacca di Reshan. Incerto sul da farsi, l’arrotolò e l’andò a posizionare sotto il collo dell’amico, in modo che la testa risultasse leggermente reclinata all’indietro.
«Ecco... credo che vada messa così per facilitare la respirazione...» spiegò «Ma non mi viene in mente nient’altro. E comunque casi del genere non rientrano nei nostri discorsi abituali!»
Nirmun ignorò la risposta e concentrò lo sguardo su Reshan. La pelle del volto era estremamente pallida, le labbra livide.
«Dobbiamo chiamare qualcuno...»
«Oh bella questa!» rimbeccò il lombax. «Siamo sul tetto dell’accademia, come lo spieghiamo il nostro arrivo qui?»
«Ehi, la nostra parte è comprensibile! È la sua che non ha giustificazioni!» replicò Nirmun, indicando il pipistrello.
«Ehi, non vorrai mica metterci Thallia alle costole più di quel che c’è già!»
«Maledetto murha, noi non siamo medici! Non possiamo prenderci cura di qualcuno se non sappiamo cos’ha!»
«Beh, è immaginabile quello che ha, no? È stato chiuso dentro tre cerchioscudi sotto il sole per ore!»
«Ciò non toglie che dobbiamo chiamare qualcuno!» insisté la coniglia. «Non puoi essere tanto egoista da pensare solo a quello che l’ispettrice ti farà!»
«Io non penso solo a quello!»
«Ah no?»
«No! Pensassi solo a quello non avrei nemmeno messo piede qui sopra!» sbottò Ulysses.
«Ma senti che stronzo! E lo avresti lasciato a morire???»
«Senti chi parla! E ti pare che l’abbia lasciato a morire???»
«Rispondi alla mia domanda!»
 
In quel momento Reshan prese a tossire con forza, interrompendo la discussione dei due che, uno da una parte e una dall’altra, lo fissarono con stupore e apprensione.
Il torace del pipistrello, che prima si muoveva in maniera quasi impercettibile, dopo i colpi di tosse prese a salire e scendere al massimo delle sue capacità, come se lo xarthar avesse avuto il fiatone. Altri colpi di tosse, di nuovo fiatone: il pipistrello ingurgitava tanta aria da sembrare un mantice, a tratti quasi fischiando mentre inspirava, come se la troppa aria gli stesse andando di traverso.
Il cambio improvviso di comportamento mandò nel panico gli altri due.
Per loro fortuna, quella scena non durò più di una quindicina di secondi, allo scadere dei quali il medico riprese a respirare affannosamente.
«Socio?» azzardò Ulysses, senza ottenere risposta.
Osservò intensamente l’amico, combattuto su cosa fare.
«Okay, dobbiamo portarlo in infermeria.» dichiarò infine. «Se gli prendesse un altro attacco potrei sclerare.»
«E cosa dirai quando ti chiederanno spiegazioni?» domandò Nirmun. L’altro spostò lo sguardo negli occhi della xarthar e rispose con una punta di rassegnazione: «Dirò la verità. Prendo quanto resta dei cerchioscudi e spero che bastino come prova. Come accidenti gliela spiego sennò?»
* * * * * *
Ore 18:30
 
Dopo che lo xarthar fu visitato da uno dei medici di turno, Ulysses e Nirmun furono interrogati su quanto fosse successo.
«Tre cerchioscudi, avete detto?»
Il medico che li stava interrogando era un cazar minuto, dal vello scuro e gli occhi di un verde profondo. Indossava l’uniforme come tutti gli studenti, ma il fatto che la base fosse chiara anziché grigio scuro lo collocava tra gli insegnanti.
«Sì. E pure strani, tanto che per tirarlo fuori abbiamo dovuto farli saltare coi phaser. Guardi.» rispose Ulysses, materializzando uno dei tre superstiti.
Il cazar provò subito ad aprire il pannello di comando, e quando non ci riuscì lo avvicinò al volto per studiarlo con attenzione. «Decisamente bizzarro. Quindi cos’avete fatto?»
«Lo abbiamo fatto sdraiare all’ombra dello sbocco delle scale, credendo che bastasse a farlo riprendere. Quando ha cominciato a tossire e respirare come un mantice lo abbiamo portato qui.» rispose ancora il lombax.
«Capisco...»
La porta si aprì di scatto.
«ALLIEVI!!!»
Nirmun e Ulysses sobbalzarono sulle sedie, le pupille grandi per lo spavento.
Quella voce. La Donno era arrivata.
Siamo finiti! fu il pensiero di entrambi, mentre si voltavano. In piedi sulla porta, in mimetica e anfibi, l’istruttrice aveva l’espressione più truce che le avessero mai visto in volto.
«In piedi, idioti!» i due allievi scattarono come molle, presentandosi sull’attenti. Se nel primo pomeriggio avevano osato pensare risposte alle affermazioni dell’istruttrice, in quel momento risultava loro impossibile un’azione del genere.
«Lo sapete come si chiama la vostra azione?! Si chiama diserzione, ed è punibile con il carcere in tempo di pace e con la morte in tempo di guerra!»
Ulysses e Nirmun deglutirono lentamente. Quello era tempo di pace, quindi sarebbero stati incarcerati?
No, molto più probabilmente sarebbero stati espulsi dall’Accademia.
«Avanti a me adesso! Vi voglio nell’ufficio del direttore entro due minuti!»
Ufficio del direttore! Quindi li avrebbero espulsi sul serio!
«Sissignora!» assentirono meccanicamente i due allievi, prima di avviarsi davanti allo sguardo vigile dell’istruttrice. Sull’ingresso, Ulysses lanciò una fugace occhiata al lettino dov’era stato messo Reshan.
Solo perché non sa cosa c’è dietro, prof. Non può buttarci fuori così, pensò, adocchiando poi Nirmun, la quale camminava affianco a lui con l’espressione seria e il mento forzatamente alto.
Orgoglio. Vederlo così palesato diede l’impulso al lombax, che strinse il pugno e fece la sua promessa.
Non si disferà di noi tanto facilmente. Parola di Ulysses Yale.
 

 

 

 

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