Gioco di Maschere ✨BoyxBoy✨

di Virgiz01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lastre di ghiaccio ***
Capitolo 2: *** Funambolo ***
Capitolo 3: *** Young Rebels ***
Capitolo 4: *** «Ci vediamo presto» ***
Capitolo 5: *** «La matrimoniale è mia!» ***
Capitolo 6: *** La Brughiera ***
Capitolo 7: *** Non mostrare nulla finché nulla ti viene mostrato ***
Capitolo 8: *** Holden ***
Capitolo 9: *** «Questo vuol dire che, come Lucien fa con Allen nel film, mi abbandonerai?» ***
Capitolo 10: *** Spalline in pizzo ***
Capitolo 11: *** Gioco di maschere ***
Capitolo 12: *** Una pugnalata negli occhi ***
Capitolo 13: *** Non è bello essere invisibili ***
Capitolo 14: *** Perché tornare da me? ***
Capitolo 15: *** Il burattinaio ***
Capitolo 16: *** Innocente e amabilmente puro ***
Capitolo 17: *** «Cos'è quel sorriso sfacciato?» ***
Capitolo 18: *** Impazzire ***
Capitolo 19: *** Angelo bianco ***
Capitolo 20: *** Primo pensiero, miglior pensiero ***
Capitolo 21: *** «Perdonami» ***
Capitolo 22: *** Da Amsterdam Con Amore ***
Capitolo 23: *** M'ama? Non m'ama? ***
Capitolo 24: *** «Fino a quando non ce la faremo più» ***
Capitolo 25: *** «So che ci sono cose di cui non mi parli, Dane» ***
Capitolo 26: *** Come i segreti che respiravano sotto la sua pelle ***
Capitolo 27: *** «Io credo che l'Amore non sia fatto per esistere per sempre» ***
Capitolo 28: *** Il caos funziona come un vizio ***
Capitolo 29: *** La pallina andò a segno e il flipper smise di funzionare ***
Capitolo 30: *** Un passo e sarebbe cambiato tutto ✨Epilogo✨ ***
Capitolo 31: *** ❤Scleri, Precisazioni e Profusioni d'Affetto❤ ***



Capitolo 1
*** Lastre di ghiaccio ***


Aspirò una boccata di fumo. Inspira. Espira.

Un'altra boccata di fumo. Inspira. Espira.
Gli occhiali iniziarono ad appannarsi, mentre la carta e il tabacco bruciavano. Inspira. Espira.
Un colpo di tosse. Un altro ancora. Un giramento di testa che a poco a poco scomparve. Leggero bruciore alla gola, insignificante.

I comuni effetti della prima sigaretta che, nel caso di Daniel, si presentavano tutte le volte che iniziava a fumarne una. Non era dedito al fumo come Dane, il suo ragazzo, che gli aveva ceduto uno dei suoi svariati pacchetti di Marlboro con uno sguardo preoccupato e diffidente, quando gli aveva chiesto di lasciargli almeno le sigarette, durante il periodo in cui sarebbe rimasto a casa da solo.

La prima volta era stato complicato. Daniel ebbe difficoltà anche ad accenderla, la sigaretta, e soprattutto a sopportare il suo sapore così acre e caldo, caratteristico del primo tiro, di cui non era mai riuscito a disfarsi completamente e che gli ricordava un whiskey di cattiva qualità. Nonostante questo, si concedeva una sigaretta ogni tanto, non contava se una volta al giorno, mese o anno. Dipendeva da quanto riusciva a resistere all'assenza di Dane. Vagare in giro per casa da solo non era mai piacevole, anzi, a volte gli metteva addosso una tristezza incontenibile. Come se il colore caldo delle pareti si spegnesse improvvisamente in un grigio scuro e angosciante.

Erano entrambi due attori, lui e Dane, e quest'ultimo, nonostante non fosse famoso quanto Daniel, veniva richiesto per film sempre più complessi e che necessitavano di un lungo viaggio, di un'accurata preparazione e di una recitazione ripetuta molte volte, per ottenere la perfezione. Dopotutto il cinema continua a evolversi e pretende che gli attori stiano al suo passo, se vogliono sopravvivere in quel mondo.

Daniel viaggiava spesso, ma solitamente stava via per poco tempo e recitava in film girati relativamente vicino a dove abitavano. Essendo molto richiesto aveva solo l'imbarazzo della scelta, mentre Dane si doveva adattare. Come tutti gli attori in erba sapeva quanto era importante non lasciarsi scappare nessuna opportunità per brillare nel firmamento cinematografico.

Daniel si poteva dire, in un certo senso, felice per lui. Sapeva che Dane amava il suo lavoro. Amava la grande sfida nel riuscire a comprendere il personaggio che doveva interpretare, ma soprattutto amava ogni singolo soggetto, ogni sua singola sfaccettatura, ogni sua singola caratteristica.

Dane amava. Non tutti lo avrebbero detto, ma Dane amava incondizionatamente. E la verità era che per lui e Daniel era doloroso lasciarsi andare. Significava non potersi abbracciare per settimane e settimane, dormire senza nessuno accanto, vedersi solamente attraverso uno schermo. Lasciarsi significava perdersi per un po' e, in fondo, rischiare di perdersi per sempre.

Anne, che per un breve periodo era stata la moglie di Dane, lo aveva capito bene. Era stata sempre molto attenta e sospettosa, ma in nessun modo avrebbe potuto prevedere che Dane si innamorasse di qualcuno durante le riprese di un film come Young Rebels, e soprattutto non di un ragazzo.

Anne e Dane pensavano di sposarsi già da un anno prima che cominciassero le riprese di Young Rebels. Avevano programmato tutto ancor prima che Dane partisse. Lei era così felice mentre sceglievano insieme gli invitati e la loro disposizione al ricevimento, il colore della torta e il luogo dove si sarebbe svolta la cerimonia. E anche lui era felice.

Ma le persone non sono che tante fragili lastre di ghiaccio che si muovono su un oceano labile come l'amore, senza alcuna sosta e senza capire il perché delle loro azioni. Dane fu semplicemente sopraffatto dalle onde.

E forse era proprio così che dovevano andare le cose, seguendo il loro corso. Dane ora poteva contare i suoi pochi rimorsi sulle dita di una mano e di certo non avrebbe mai rimpianto Daniel, perchè lasciarlo significava anche rivederlo, quando sarebbe tornato a casa, stringerlo più forte, guardarlo più intensamente negli occhi e, magari, amarlo un po' più di prima.


Angolo Autrice :) 

Heioo, come state? 
Premetto che questo e il prossimo capitolo sono ancora, diciamo, di introduzione e non sono tutto sto granchè. Comunque non preoccupatevi, in seguito le cose si fanno più interessanti ^-^ 
Com'è che dicono in televisione prima della pubblicità? Restate con noi ;) 

Virgiz01

 

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Capitolo 2
*** Funambolo ***


Tutto iniziò quando, una delle ultime settimane di dicembre, i rispettivi agenti di Dane e Daniel vennero contattati dal regista del nuovo film Young Rebels, la cui descrizione soddisfaceva la richiesta da parte di Daniel di un altro film fuori dal comune con cui allontanarsi dal personaggio della celebre saga fantasy che aveva interpretato da ragazzo, con cui ormai tutti lo etichettavano, e quella di Dane di un film tratto da una storia vera con cui confrontarsi e che accendesse l’attesa scintilla per il suo lancio nel mondo del cinema.

Daniel e Dane vennero chiamati quello stesso giorno dai loro agenti. I due attori accettarono la proposta di provare a ottenere la parte in Young Rebels e qualche settimana dopo affrontarono i loro provini, Daniel di fronte al regista, mentre Dane a 3000 miglia di distanza, con un provino registrato. Entrambi stupirono il regista per come, in 30 secondi di recitazione, diedero ai loro personaggi, Allen e Lucien, l’uno naturalezza e freschezza e l’altro carisma e tormento interiore.

In verità, l’alchimia tra i due nacque settimane prima dell’inizio delle riprese, quando ancora i due attori non si conoscevano, in un modo strano, diversamente da come iniziano la maggior parte delle relazioni. La loro storia d’amore nacque da una storia d’amore già sbocciata e consolidata da tempo.

Era uno dei primi giorni di dicembre e nell’aria di New York, città dove si sarebbero svolte le riprese, si poteva già sentire la vibrante attesa del Natale, ma anche il desiderio di uscire dall’inverno per affacciarsi finalmente sulla fragile primavera di marzo. La temperatura non sarebbe cambiata di molto, ma già solo la parola primavera faceva scattare nella mente delle persone una flebile felicità, un sentore del lontano arrivo dell'estate.

Durante una di queste fredde giornate, Daniel si trovava nella metropoli e come tutte le volte che tornava a far visita alla Grande Mela, non era riuscito a fare a meno di recarsi a Central Park. C’era già stato, quando per un periodo aveva vissuto a Manhattan e quel luogo lo aveva stregato. 
Per lui era come una bellissima perla argentea all’interno di una conchiglia ruvida e sporca. La tranquillità dentro il caos. Il colore verde nel colore grigio. Un polmone vivente in un polmone raggrinzito.

Era seduto su una panchina di uno dei tanti piccoli parchi di Central Park South, di fronte a uno stagno attraversato da un ponte di pietra, dove presto, quando in primavera sul laghetto si sarebbe sciolto il ghiaccio, sarebbe tornato a nuotare un gruppetto di anatre. 
Indossava una camicia di un azzurro chiaro con sopra un maglione spesso che ne lasciava intravedere solo il colletto ed era stretto in un pesante cappotto. Sedeva con una gamba accavallata sull’altra, come era prassi fare durante le interviste. Stava scrivendo.

Gli piaceva scrivere poesie, di tanto in tanto. Molti anni prima ne aveva pubblicate alcune, sotto pseudonimo. Dopo tutto quel tempo, rileggerle lo faceva ridere. Non sono mica poesie queste, diceva tra sé e sé. 
Ora continuava a scriverne, anche se non aveva più tempo per tornare sui libri a studiare i canoni che regolavano la poesia, i suoi ritmi, toni e metrica. Perciò scriveva solo quello che gli passava per la testa, senza porsi regole o, più che altro, senza porsi preoccupazioni.

In quel momento, a Central Park South, stava scrivendo che si sentiva come una foglia caduta. Prima era al sicuro, attaccato al ramo, protetto dall’ombra del ragazzo prodigio che aveva rappresentato nei film che lo avevano reso famoso. Poi aveva voluto staccarsi dal ramo, rischiando con altri film, in modo da scrollarsi di dosso il personaggio che ora iniziava a tormentarlo. 
All’inizio, mentre come una foglia si librava in aria e volava verso il basso, era inebriato. Sentiva il vento addosso, la luminosa possibilità di ricominciare da zero, strappare la pagina e cominciare a vivere in un altro racconto. Poi era atterrato su un letto di foglie marce che, come lui, si erano staccate dall’albero e aveva capito che a quel punto sarebbe stato tutto più difficile. Adesso, sulla soglia dell'inizio della sua nuova vita, si sentiva solo, nostalgico, vulnerabile, con soltanto una misera citazione di Jack Kerouac a dargli coraggio: Meglio dormire libero in un letto scomodo che dormire prigioniero in un letto comodo.

Il parco nel quale si era appartato era piccolo e nascosto. Tutti puntavano al grande lago nel mezzo di Central Park, mentre pochi venivano attirati da quello stagno dall’aria triste che, per questo, non era frequentato quasi da nessuno. In fondo, era la ragione per la quale a lui piaceva.  
Fu per questo che Daniel si stupì, nel sentire delle voci nelle vicinanze.

Alzò lo sguardo e vide poco lontano una coppia che avanzava per un camminamento. Da quella distanza, Daniel riconobbe una ragazza e un ragazzo. Quando si avvicinarono, poté osservare che lei era abbastanza alta, molto magra e poco formosa. I suoi capelli erano lunghi e bruni e sembravano molto curati. Le sue labbra erano dipinte di un rosso acceso e indossava un vestito abbastanza attillato, una blusa scura in tela leggera e scarpe coi tacchi alti. Insomma, non proprio l'abbigliamento adatto per una passeggiata nella natura o alla temperatura di quella giornata, constatò Daniel tra sè e sè.

La ragazza stringeva il braccio del suo accompagnatore come avesse paura di perderlo da un momento all’altro, mentre parlava ininterrottamente di ricevimenti, torte e bouquet. 
Il ragazzo che era con lei nel frattempo si guardava attorno. Era snello e un po’ più alto di lei. I vestiti che indossava erano molto più casual: Jeans, t-shirt e un maglioncino fin troppo sottile per quel giorno freddo. Sembrava che senza la sua giacca, che aveva posato sulle spalle della ragazza, stesse patendo molto la bassa temperatura. I suoi capelli erano di un color biondo scuro, tendenti al marrone. Erano arruffati, al contrario di quelli ordinati di lei e Daniel azzardò definendoli secchi. Sembrava che fossero stati trattati molte volte. Pensò che il ragazzo in questione forse lavorava nel mondo dello spettacolo, nel quale l’aspetto conta molto e per cui il colore e le altre caratteristiche dei capelli, a volte, devono cambiare costantemente.
Forse era un cantante o un presentatore televisivo, oppure un attore. Da quanto Daniel poteva scorgere da quella distanza, il ragazzo alto non sembrava avere un brutto aspetto. Era dotato di una bellezza particolare, magnetica e forse un po’ fanciullesca, ma comunque raffinata.

Improvvisamente il telefono nella borsa della ragazza cominciò a squillare. Lei lasciò subito la presa stretta che aveva sul ragazzo per cercare frettolosamente il suo cellulare. Quando lo trovò, fece scorrere velocemente il dito sullo schermo e attivò la chiamata. Guardò il suo accompagnatore e le sue labbra pronunciarono un rapido Scusa, poi si voltò e si allontanò, gesticolando e parlando con voce acuta.

Il ragazzo annuì alle sue scuse. Il suo sguardo iniziò a scorrere sugli alberi spogli, sui loro rami, sulle foglie marce per terra, sullo stagno ghiacciato, per poi fermarsi sul ragazzo seduto sulla panchina. I loro sguardi si incontrarono e Daniel sentì una forte fitta al petto.

Il ragazzo lo guardava con occhi freddi e inespressivi, ma tutt’altro che distratti. Non erano indifferenti o leggeri, ma neppure eccessivamente insistenti. Daniel non avrebbe saputo scegliere se lo stava guardando perché era l'unico nelle vicinanze o se lo stava fissando perché trovavano strano il suo aspetto. Probabilmente avrebbe negato entrambe le opzioni. Infatti il ragazzo sembrava oscillare proprio nel mezzo, con l'eleganza di un funambolo esperto che cammina su una corda sottile sospesa sul baratro.

Passò un tempo che sembrò infinito, prima che una voce acuta spezzasse l’indescrivibile atmosfera in cui i due ragazzi erano immersi e che aveva impedito ad entrambi di distogliere lo sguardo l'uno dall'altro. 
«Tesoro, eccomi! Ha appena chiamato Christina. Voleva vederci prima possibile per decidere il colore dei vestiti delle damigelle e per definire altri dettagli». Daniel guardò la ragazza e poi di nuovo il suo accompagnatore, il cui sguardo rimase immutato. «Vieni, dobbiamo andare» lo richiamò nuovamente lei, con voce insistente, ma non troppo. Il ragazzo batté le palpebre, come per tornare alla realtà e poi si voltò lentamente, tornando a camminare a fianco della ragazza, aggrappata di nuovo al suo braccio.

Daniel era confuso, ma continuò a guardarli mentre si allontanavano.  Un momento prima che i due svoltassero dietro una muretta, colse il secondo sguardo che gli scoccò quel ragazzo. Uno sguardo che sapeva avrebbe faticato a dimenticare.
 

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Capitolo 3
*** Young Rebels ***


La sala riunioni era fin troppo grande per la modesta quantità di persone che l'avevano affittata, ma Daniel lo notò soltanto e non se ne fece un cruccio. Il meeting non sarebbe durato molto. Daniel sapeva che sarebbero stati una decina, tra regista, sceneggiatore, direttore di produzione e attori principali, per le riprese di Young Rebels. Tra di loro conosceva solo John, il regista. Ancor prima di partecipare ai provini, aveva letto qualcosa a proposito di lui sul web. Gli altri partecipanti al meeting preferiva conoscerli di persona.

Daniel era seduto su una delle dieci sedie disposte attorno al grande tavolo che occupava la stanza, anche se più che seduto, su quella sedia ci si era "spalmato" sopra. Si stava maledicendo mentalmente per essere arrivato così presto. Era da quindici minuti che aspettava da solo in quella stanza ed era già da un po' che stava tamburellando nervosamente la superficie del tavolo, fissando dritto davanti a sè i grattacieli oltre la grande vetrata. Le nuvole erano lassù, in cielo, ben definite e stagliate contro lo sfondo color lapislazzuli. Qualche aereo solcava quel grande mare azzurro di tanto in tanto, ma per il resto quel mondo era calmo.

La mente di Daniel spaziava. Tornava a Central Park South, alla panchina dove soleva sedersi a scrivere. Tornava a quel giorno freddo tra gennaio e febbraio e allo stagno ghiacciato senza anatre. Tornava agli occhi di quel ragazzo, chiari, di un colore che non era riuscito a definire bene, che lo avevano immediatamente colpito e che serbava gelosamente nella memoria. Era da giorni che si chiedeva se avrebbe mai rivisto quel ragazzo e la risposta più razionale che la sua mente gli forniva era No.

Insomma, quant'era alta la probabilità che lo rivedesse? A quell'ora poteva essere ormai ovunque. E poi, si sarebbe ricordato di lui?

Non ebbe neppure il tempo di fermare i meccanismi feroci della sua mente per chiedersi perché si stesse ponendo tutte quelle preoccupazioni, che qualcuno aprì la porta della sala. «Ciao Dan!» esclamò il ragazzo appena entrato, chiudendo la porta dietro di sè. Daniel lo riconobbe subito, si trattava del regista.

«Piacere di rivederti, John» rispose Daniel con un sorriso. Durante i provini avevano stretto amicizia, per cui, quando Daniel gli offrì la mano, John non l'accettò, bensì si ritrasse per poi abbracciarlo. Era un tipo molto socievole.

«Sei qui da tanto, Daniel?» gli chiese amichevolmente, prima di sedersi su una delle sedie dall'altra parte del tavolo. 
«Non da tanto» mentì Daniel. 
«Bene. A momenti arriveranno anche gli altri». Detto ciò, la porta si aprì di nuovo. Questa volta entrò un gruppo di persone.

Dopo che John ebbe fatto le necessarie presentazioni, tutti presero posto attorno al tavolo. Il resto del cast sembra simpatico, pensò Daniel, sorridendo tra sè e sè. 
«Allora, ci siamo tutti?» chiese il regista, osservando le persone sedute. 
«Non tutti».

Lo sguardo di Daniel si volse immediatamente alla porta della sala, dalla quale proveniva quella voce flebile e profonda, e per la seconda volta una sensazione straziante gli colpì il petto. Non è possibile, pensò. Sulla soglia c'era il ragazzo di Central Park South che lo stava fissando. Anche nel suo sguardo, Daniel vide una nota di stupore.

«Ecco l'ultimo arrivato!» disse qualcuno. 
Quest'esclamazione attirò lo sguardo del ragazzo, che si rivolse sorridente alle persone sedute: «Sì, eccomi. Scusatemi per il ritardo». Riservò nuovamente la sua attenzione a Daniel e gli si avvicinò. 
Gli porse la mano. «Piacere, io sono Dane» disse, quando Daniel la strinse in risposta. 
«Daniel» sussurrò quest'ultimo. 
La loro stretta di mano si sciolse, ma i loro sguardi indugiarono l'uno nell'altro ancora un po', anche quando si sedettero entrambi, quasi volessero farsi scomparire a vicenda, per cancellare quell'avvenimento troppo inconsueto. Quando si furono tutti sistemati, il meeting iniziò.

Il regista partì raccontando meglio l'intera trama del film, poi spiegò che gli attori avrebbero avuto a disposizione un mese per studiare meglio la sceneggiatura, il copione e l'argomentazione sulla Beat Generation, il movimento culturale ricreato dai personaggi del film, e per meglio definire i toni e le pronunce dei rispettivi personaggi. 
Praticamente come a scuola, pensò Daniel, lasciandosi sfuggire un sorriso.

Dopo il mese preparatorio, continuò a spiegare John, sarebbero iniziate le riprese, che, naturalmente, avrebbero avuto bisogno del loro tempo, per cui ci sarebbero state anche delle pause di più settimane. Poi il regista aggiunse che il film sarebbe stato relativamente veloce da produrre, poiché si trattava di un film in pellicola, cioè senza effetti speciali o scene composte al computer.

Continuò: «E infine, ricordatevi, non lasciatevi spaventare dai personaggi che rappresenterete. Noi non ripercorreremo la loro storia da quando sono diventati famosi e hanno creato il movimento culturale della Beat Generation. Li rappresenteremo da ragazzi, nel 1944. Allen e il suo passaggio da normale matricola a poeta maledetto sarà il ruolo centrale e la relazione impossibile tra David e Lucien sarà il punto focale attorno al quale ruoterà la storia.
«Voi dovrete solo rappresentare degli universitari che vogliono creare una rivoluzione insieme, ragazzi che nutrono già le loro idee innovative, di cui vi forniremo la documentazione. Cercate di tornare adolescenti, insomma, di imbattervi di nuovo nelle vostre insicurezze, nei vostri sogni ribelli, nelle vostre ambizioni per il futuro e nella vostra voglia di infrangere le regole. Ritrovate quell'euforia che vi caratterizzava e che probabilmente vi caratterizza ancora oggi» disse il regista, guardando ognuno negli occhi, per essere più convincente. 
«Comunque non preoccupatevi» John sorrise «Siete attori professionisti e di cui io mi fido molto, per cui, vi assicuro, troverete il tutto molto facile» aggiunse rivolgendosi ai suoi ascoltatori con un sorriso ampio e rassicurante. 
«Beh, credo di avervi detto tutto. Nel caso vi debba comunicare altro, vi chiamerò» concluse.

Tutti si alzarono, si salutarono con pacche sulle spalle e strette di mano e iniziarono a lasciare la sala conferenze, per poi attraversare il corridoio, svoltare a sinistra e raggiungere l'ascensore.

Dane e Daniel stavano camminando con gli altri quando la voce di John, che era rimasto a riordinare i suoi appunti nella sala conferenze, li richiamò. Entrambi si fermarono e si voltarono verso di lui, che li raggiunse qualche secondo dopo. 
«Ragazzi, mi sono dimenticato di dirvi una cosa. Io e Austin, il mio collega sceneggiatore, pensavamo che sarebbe meglio se voi due vi prendeste tre giorni prima dell'inizio delle riprese per conoscervi. In fondo siete i personaggi principali e durante il film sarete molto in contatto. Per cui, se a voi non dispiace, io ho trovato un appartamento qui a New York che potrete condividere prima delle riprese e anche durante, se vi va. Che ne pensate?»

Loro si guardarono. Daniel non disse nulla, stupito dalla proposta e battuto sul tempo da Dane. «Certo, accettiamo» disse infatti quest'ultimo, con voce calma, come se vivere per un paio di giorni con uno sconosciuto fosse la cosa più normale al mondo. «Sempre che tu sia d'accordo» aggiunse, guardando Daniel, per chiedere conferma con gli occhi.

Daniel lo fissò intensamente, ancora più stupito di prima. Poi distolse lo sguardo e il suo volto assunse un'espressione serena. Non poteva farsi scappare l'occasione di indagare sull'effetto che quel ragazzo esercitava su di lui. Non dopo essersela lasciata scappare a Central Park South, non potendo fare nulla, in quel caso. 
«Sì, per me va bene» rispose educatamente, cercando di non apparire né incerto, né sfacciato.

«Perfetto!» disse John, «Il martedì, mi sembra» tirò fuori dalla tasca del cappotto una piccola agenda, per controllare la data «sì, il martedì dell'ultima settimana di febbraio manderò qualcuno a prendervi. Per cui fatevi trovare pronti» concluse con un sorriso tra l'amichevole e il complice. 
«Sì, certo» acconsentì velocemente Daniel. 
«Allora ci si vede ragazzi» li salutò John, per poi congedarsi con un cenno di mano e lasciare i due attori nel corridoio deserto.

Il volto di Dane tornò serio non appena John sparì dietro l'angolo. Sospirò e iniziò a percorrere il corridoio in direzione dell'uscita, lasciando Daniel per ultimo a chiedersi perché l'espressione di Dane era diventata così seria all'improvviso, a chiedersi se veramente era interessato alla proposta di John o se aveva accettato per ingraziarselo. Era plausibile, ma Daniel sperava intensamente che non fosse così. Sarebbe stato un peccato se un potenziale attore di talento, con quell'aspetto e con quello sguardo intenso e profondo fosse in fondo una persona falsa.

Mentre si allontanava, con gli occhi di Daniel puntati su di sè, Dane improvvisamente ruotò leggermente il busto e, camminando, gli fece l'occhiolino e un cenno di saluto con la mano, come se non si fosse ancora accorto della strana atmosfera che si stava insinuando tra loro, pesante e intrigante come la nebbia.

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Capitolo 4
*** «Ci vediamo presto» ***


«Sono loro!» esclamò Dane, alzandosi di scatto dal divano del salotto. Erano le sette di sera e, come d’accordo, una macchina mandata da John era arrivata al Residence di Dane, ad Harrisburg, Pennsylvania.

«Sono veramente molto puntuali, vero caro?» una domanda gettata nel buio, una domanda dalla risposta ovvia. La voce di Anne arrivò ovattata dalla cucina. Stava preparando una cena sostanziosa. Aveva invitato qualche amico, come sempre.

Dane annuì in risposta, ma non una parola uscì dalla sua bocca. Stava osservando la tavola apparecchiata in salotto, di fronte a lui. Gli dava l’idea di un’imminente celebrazione della sua partenza. Ma era un pensiero stupido, uno di quei pensieri che provengono dalla parte istintiva della mente, che non si fida di niente e di nessuno.
«Io vado, allora» disse infine, strofinandosi i palmi sudati delle mani sui pantaloni e aspettando una risposta da Anne. Lei fece la sua comparsa in salotto, indossando un grembiule da cucina. Sia il grembiule che il suo viso erano sporchi di farina. Stava preparando il dolce, probabilmente. Non era mai stata molto brava a cucinare, ma in vista del matrimonio aveva cominciato a seguire dei corsi online. Per Dane avrebbe fatto questo ed altro.

«Sì» disse semplicemente, guardandolo. 
Strano, pensò Dane. Solitamente lei usava decorare e completare le frasi che gli rivolgeva con nomignoli romantici come tesoro, amore, caro. Erano un po’ irritanti, delle volte, ma Dane li sopportava facilmente. Erano altre le cose che amava in lei.

Anne gli si avvicinò e gli diede un bacio, che lui ricambiò volentieri. Quando le loro labbra si separarono, entrambi sorrisero. Poi Dane prese la sua valigia e aprì la porta dell’appartamento. Sempre sorridendo la salutò e le sussurrò un dolce «Ci vediamo presto» prima di uscire e chiudere la porta dietro di sé.

All’interno dell’appartamento, Anne si strinse le braccia al petto, fingendo un abbraccio. Quel sabato si sarebbero sposati e lui sarebbe diventato suo per sempre. E nonostante il fatto che la loro luna di miele non ci sarebbe stata o che, per lo più, sarebbe durata solo un giorno, tutto questo la rassicurava.

Si strinse ancora di più nel suo abbraccio. Iniziava a sentire freddo.

Angolo Autrice :)

Ciao a tuttiii. Come state?

Chiedo umilmente perdono per questo capitolo un po' cortino, ma se lo avessi unito a quello seguente sarebbe stato troppo lungo ;)

Virgiz01

 

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Capitolo 5
*** «La matrimoniale è mia!» ***


Dane percorse il corridoio, trascinando con sè la sua valigia, e arrivò all’ascensore. Entrò, premette il tasto zero e in poco tempo arrivò al piano terra. Percorse la hall e uscì dal Residence. Di fronte all’entrata sostava una macchina nera. L’autista stava aspettando fuori dall’auto. Sul suo volto era stampato un sorriso, dovuto all’emozione di incontrare una persona famosa. Sempre sorridendo si presentò: «Sono Matthew, il suo nuovo autista», e lo stesso fece Dane.

Quando entrambi furono entrati in macchina, l’autista partì e il viaggio poté iniziare. A poco a poco lasciarono la Pennsylvania, terra natale dell’attore, per poi entrare nello stato di New York. Dane non parlò molto con Matthew, se non per rispondere a qualche sua sporadica domanda. In ogni caso gli parve una persona abbastanza socievole e allegra. Era divertente il modo in cui strabordava di felicità ed emozione, pur sempre rimanendo formale e professionale.

Dane però non era in vena di parlare, nè di ridere. Ascoltava musica e tamburellava con le dita le ginocchia. Sapeva che avrebbe dovuto sentirsi entusiasta per l'inizio delle riprese di Young Rebels, come lo era stato quando il suo agente gli aveva comunicato che lo avevano scelto per interpretare il ruolo di Lucien, ma invece si sentiva malinconico e frastornato. John aveva raccomandato a lui e agli altri di non aver paura di ciò che avrebbero affrontato, ma Dane non ci riusciva.

Doveva ammettere di essere spaventato. Gli accadeva spesso, d'altronde, ma questo film era diverso. Avrebbe dovuto recitare la parte di un personaggio realmente esistito. Non poteva metterci troppo di sè, doveva essere distaccato.

Aveva paura di non riuscire a dare il massimo, nonostante ci tenesse tanto. Aveva paura di non aver fatto una buona impressione al regista. Aveva paura di aver accettato in modo troppo irrazionale di condividere con quell’attore, Daniel, molto del suo tempo.
Aveva paura di non essere stato troppo affettuoso con Anne.
Aveva anche paura del matrimonio. Ma perché avrebbe dovuto? Non era quello che lui e Anne volevano da tanto tempo, in fondo?

Decise di abbassare il volume della musica e cercò di dormire, ma non ci fu verso. Troppi pensieri per la testa. Iniziò a guardare il paesaggio all’esterno dell’auto. 
Fuori le nuvole scorrevano veloci e sembravano quasi condensarsi in una scia grigiastra e opaca, che si mescolava al colore scuro del cielo e diventava azzurra. Conteneva una sfumatura che Dane avrebbe definito nostalgica.

Da lontano si iniziarono a scorgere le luci di New York. Dane spense la musica e si tolse le cuffie, così da poter sentire i rumori della città.

Quando si immisero in una delle mille strade newyorkesi affollate, abbassò il finestrino e il vento freddo lo colpì in volto. Emise un profondo respiro. L’aria odorava di fumo. 
Ora quasi tutti i suoi sensi erano venuti a contatto con la metropoli e la stavano assimilando. La macchina iniziò a rallentare per via del traffico.

Quasi nessuno, fuori dalla vettura, lo notava. Nonostante molti lo conoscessero e lo ammirassero, tutti camminavano veloci, indaffarati nel fare questo o quello. 
New York non era sembrata mai così viva agli occhi del ragazzo.

Percorsero ancora un po’ di strada nel traffico, nell’aria fresca e fumosa, negli odori e nei rumori cosmopoliti della città, per poi giungere in un quartiere meno caotico e fermarsi di fronte a un condominio. Quest'ultimo non era molto grande e alto, conteneva sì e no quattro appartamenti e aveva uno stile rustico: muri in mattoni rossi e fiori alle finestre. Gli sembrò un edificio molto grazioso, quasi delicato, rispetto al resto della città.

Matthew scese dall’auto e andò a suonare a uno dei citofoni. Dopo neanche mezzo minuto, molto meno di quanto era servito a Dane, Daniel comparve sulla soglia del condominio, vide Matthew e gli sorrise, per poi stringergli la mano e presentarsi, nonostante l'altro conoscesse già il suo nome. Poi il suo sguardo si posò sulla macchina e sulla sagoma al suo interno. 
Non ne vedeva il viso per via dell’oscurità che era scesa sulla città, ma immaginò che si trattasse dell’altro giovane attore. Gli fece un cenno con la testa. Dane rispose e Daniel lo vide muovere la mano in segno di saluto, anche se non poté notare il suo sorriso.

Daniel consegnò le valigie a Matthew e iniziò a scendere i gradini, ravviandosi i capelli mori, poi l’autista gli aprì la portiera della macchina. 
«Ciao» disse Dane, scalando di posto per lasciare spazio all’altro. 

«Ciao» Daniel entrò in auto in modo maldestro. Si sentiva osservato. Fu un solo attimo, quando Daniel si fu seduto. I loro occhi si incontrarono. Daniel abbassò subito lo sguardo, per poi non riuscire a contenere la curiosità. Credeva che avrebbe colto Dane a guardarlo fisso, per mostrargli una seconda volta che aveva una grande forza d’animo. Invece il suo sguardo era basso e la sua espressione era tutt’altro che sicura di sé.

A Daniel l'altro giovane attore non era sembrato affatto una persona fragile, che abbassa lo sguardo timidamente. Ma forse era per nascondere quella fragilità, quello scappare dal suo sguardo, pensò Daniel, che in pubblico si mostrava sicuro di sé, sfacciato, tuttavia distante. 
Se fosse stato così, di certo Dane era un soggetto molto più interessante di quanto dava a vedere.

Durante il tragitto, che lì portò verso i quartieri più interni di Manhattan, i due non parlarono tra di loro. Dane era tornato serio e guardava fuori dal finestrino, cercando di sembrare indifferente. Daniel invece si osservava le mani, che stringeva nervosamente, cercando di non fare rumore, alzando di tanto in tanto lo sguardo su Dane.

Con la macchina passarono di fronte alla Columbia University, dove avrebbero girato molte scene del film, la superarono ed entrarono in Amsterdam Avenue. Matthew parcheggiò di fronte a un Residence poco lontano. 
I due attori scesero dall’auto e presero le loro valigie.

«La vostra camera è a nome di John. Lunedì pomeriggio sarò qui per portarvi alla Columbia University. Vi auguro un buon soggiorno. Arrivederci» li informò Matthew, consegnando a Daniel un foglietto, poiché Dane era occupato a guardarsi attorno, come un bambino curioso che vede per la prima volta la sua nuova casa. 
I due ragazzi ringraziarono e salutarono l’autista, entrarono nella hall e ritirarono la chiave elettronica della camera, poi presero l’ascensore e raggiunsero la porta con sopra affisso il numero 168.

Daniel aprì la porta e accese la luce, poi rimase sulla soglia a osservare l’interno dell’appartamento, dopo aver lasciato entrare Dane. 
Davanti a lui si apriva il salotto: vi erano due divani, l’uno di fronte all’altro, e una televisione sulla sinistra. A destra si poteva vedere la cucina, mentre a sinistra del salotto c’era un corridoio che si snodava tra due bagni e due camere da letto, una matrimoniale e l’altra singola. A collegare la cucina col soggiorno e il soggiorno con la zona notte erano due ampi archi di mattoni, dall’aspetto rustico, che contrastavano con il resto dell’appartamento, dal mobilio molto elegante e moderno.

Il ragazzo non fece in tempo a commentare la smisurata grandezza dell’appartamento, che già Dane si dirigeva verso le camere dicendo: «La matrimoniale è mia!» e guardandolo con la coda dell’occhio prima di scomparire nella stanza, come per assicurarsi che in quel caso non avrebbe replicato.

Daniel rimase per un attimo sulla soglia, assimilando il comportamento dell’altro, poi raccolse le sue cose e si diresse verso la seconda camera da letto, osservando, mentre passava davanti alla sua stanza, Dane lanciare con un movimento energico la proprie valigia sul letto matrimoniale.

Entrato in camera, Daniel lasciò il suo bagaglio vicino all’armadio che stava di fronte al letto e si stese a pancia in su sul materasso, portando le mani dietro alla testa e usandole come cuscini, inspirando ed espirando forte.

Poco dopo, Dane si affacciò all’ingresso della sua camera. Era appoggiato col busto al muro esterno e solo il viso sporgeva all’interno della stanza. La sua espressione era strana, pareva stanca, ma teatrale. 
«Dato che io ho fatto un viaggio lungo e non ho chiuso occhio, e dato che non mi sembri un tipo da party notturni, penso che andrò a dormire» disse tutto d’un fiato, in modo tranquillamente sfacciato. «Quindi, buonanotte» concluse, alzando le sopracciglia e arricciando le labbra, in un’espressione allegra e innocente, prima di andarsene.

Tutto ciò lasciò Daniel molto confuso.

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Capitolo 6
*** La Brughiera ***


Era martedì sera quando Dane e Daniel trasferirono nella stanza 168 del Residence
Daniel si era svegliato presto, mercoledì mattina. Non amava molto dormire e per di più quella notte aveva avuto un incubo, un incubo gli si presentava abbastanza raramente. Ed era sempre lo stesso.

Quando chiudeva gli occhi, entrava in un sogno così vivido da sembrargli reale, un sogno in cui viaggiava attraverso i luoghi della sua infanzia e riviveva i suoi ricordi. 
Daniel non aveva mai preso seriamente questo suo strano modo di sognare, non lo definiva un problema, anche perché non gli dispiaceva affatto di rivedere la sua infanzia. Il fattore preoccupante era che, spesso verso la fine del sogno, accadeva una cosa che lo turbava molto e che trasformava questi ricordi a intermittenza in incubi.

Quel martedì notte rivide sua madre, di nuovo giovane, che gli posava davanti una tazza di tè fumante, vi lasciava cadere dentro due cubetti di zucchero e gli sorrideva. Rivide suo padre che tornava dal lavoro la sera e gli baciava la fronte affettuosamente. Rivide i suoi amici delle elementari che giocavano a mosca cieca con lui nel giardino di casa sua e tanto altro.

Dopo, come Daniel sperava non succedesse, nel sogno appariva la Brughiera, il luogo lugubre in cui da bambino si avventurava e dove, durante un pomeriggio inoltrato, aveva trovato un cervo morto. Il corpo dell’animale giaceva inerme a terra, ben nascosto e, per un attimo, Daniel lo aveva confuso con le erbacce secche. Ma poi aveva scorto la grande macchia di sangue che aveva imbevuto l'erba circostante e aveva scoperto il grande collo del cervo dilaniato da un morso e i suoi grandi occhi vitrei spalancati. Da quel giorno ricordare la Brughiera diffondeva nella sua mente una parvenza di terrore e morte.

Non c’era mai nessuno a calmarlo, quando si risvegliava. O a stringerlo, ad abbracciarlo, sussurrandogli «Va tutto bene» mentre lui ancora annaspava tra sogno e realtà accumunati entrambi dalla stessa paura che prendeva il sopravvento nella sua mente. 
Con il tempo aveva imparato a calmarsi da solo e a non fare rumore. All’inizio reprimeva il grido in gola, poi cercava di regolarizzare il respiro. Inevitabilmente si alzava e a volte non riusciva neppure a tornare a dormire.

Quel martedì notte, quando si svegliò e andò in cucina per prepararsi un tè con ciò che aveva messo loro a disposizione il Residence, Dane stava ancora dormendo. Non pareva aver sentito niente o essersi accorto di nulla.

Daniel, mentre sorseggiava il tè nel soggiorno poco illuminato, tornò ad arrovellarsi sul dubbio che lo aveva turbato il giorno prima. Che persona era veramente Dane? Si sarebbe lasciato conoscere? Lo avrebbe voluto conoscere a sua volta?

Daniel finì il tè e sospirò. Andò a poggiare la tazza nel secchiaio, poi ripercorse il salotto, stringendosi nel maglione. Nell’appartamento faceva ancora abbastanza freddo.

Fece i primi passi nella zona notte. Provò a trattenersi, ma non riuscì a non buttare un occhio all’interno della camera di Dane, attraverso la porta semi aperta. Ancora non l’aveva osservata bene, aveva dato solo una sbirciata.

La stanza era rimasta abbastanza spoglia, nonostante il nuovo ospite. Non c’era ancora alcun oggetto poggiato sui comodini.
Sulla destra vi era un armadio e una delle due ante era aperta. Daniel vide che l’interno era vuoto. I capi necessari fino a quel momento erano stati prelevati direttamente dalla valigia, poggiata su una sedia, vicino all’armadio. Qualche vestito giaceva a terra, ai piedi della sedia. Sulla sinistra c’era il letto, bianco, semplice e asettico, ma pulito.
La stanza era calda. Al centro del letto giaceva qualcosa di molto simile a un bozzolo. Un intreccio di piumone, braccia e gambe.

L’atmosfera era tranquilla, fino a quando il groviglio sul letto non si mosse. Daniel sapeva di non dover essere lì a guardare. Si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, quando avrebbe dovuto dirigersi subito alla propria camera, senza esitazione. Ma qualcosa, forse la curiosità o la velata attesa di un avvenimento inevitabile, lo trattenne.

Dane emerse dal piumone. I suoi capelli erano di un biondo intenso, illuminati dalla luce dei lampioni proveniente dalla finestra in prossimità del letto, sulla parete di fronte a Daniel, che la tenda non era riuscita a oscurare.

Si guardarono. L’espressione di Dane era stupita, innocente. Le sue labbra erano socchiuse, come se fosse sul punto di dire qualcosa, forse una spassionata protesta a proposito della mancanza di privacy. Ma non disse nulla.
Daniel esitò sulla soglia. Sentiva una forte sensazione in prossimità del petto, come se gli occhi di Dane gli avessero appena cucito una gabbia intorno.

Quando tornò in camera sua, sorse in lui la consapevolezza di aver indugiato troppo con lo sguardo.

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Capitolo 7
*** Non mostrare nulla finché nulla ti viene mostrato ***


Daniel finì di svuotare le valigie e si allontanò per guardare da un’altra prospettiva il lavoro che aveva appena svolto. I suoi vestiti, le sue scarpe e i suoi altri accessori d’abbigliamento come cappelli, occhiali e orologi erano nell’armadio, mentre gli altri effetti personali li aveva appoggiati sopra e nei cassetti del comodino accanto al letto. 
Ogni cosa era stata riposta al posto che le spettava, con ordine, calma e diligenza, abitudini che caratterizzavano la vita di Daniel nel suo lavoro e nelle sue azioni quotidiane, fin da quando era bambino. Solo i suoi incubi spezzavano quella monotonia.

Ora la luce del sole era abbastanza forte da convincere Daniel a spegnere quella della sua camera e ad aprire le tende, in modo che la luce mattutina potesse illuminare tutto ciò a cui poteva arrivare e che stendesse sugli oggetti una patina diversa da quella della luce elettrica, una patina più viva e meno asettica.

Era tutto tranquillo, non c’erano rumori forti. Si sentiva solo il leggero brusio della città che non dorme mai, fuori, ovattato dalla finestra. Poi Daniel udì un rumore sommesso, ripetitivo e maledettamente fastidioso, e sospirò. Si trattava del suo telefono che vibrava sulla superficie di legno scuro del comodino vicino al letto. Non teneva mai accesa la suoneria.

Con la camminata pesante, Daniel si diresse verso il letto, poi si fermò di colpo e procedette alleggerendo il passo, ricordandosi che il suo coinquilino stava ancora dormendo, a quanto pareva. Da quando Daniel si era rifugiato nella propria camera, da quella di Dane non era provenuto alcun rumore.

Daniel prese in mano il telefono, sospirando. Chiamata in arrivo: John Young Rebels. Fece scorrere velocemente il dito sullo schermo prima di rispondere. 
«Pronto» 
«Hei Dan! Tutto bene? Ti piace il posto?» la voce di John pervase pungente le sue orecchie. 
«Sì, lo adoro» rispose Daniel con calma, ammiccando con un sorriso. 
«Fantastico! Tu e Dane avete già legato un po’?».
«Uhm, sì» la risposta di Daniel suonò più come una domanda. 
Per lui John era ormai un amico, questo è vero, ma Daniel non se la sentiva di dirgli che lui e Dane a malapena si erano parlati. Sapeva che John avrebbe sicuramente iniziato a fare domande scomode. 
«Bene. Alle quattro Matthew sarà parcheggiato davanti al Residence, per portarvi alla Columbia University» 
Daniel si portò una mano alla fronte, chiuse gli occhi e increspò le labbra. Si era completamente dimenticato della visita sul set di quel pomeriggio. 
«Certo, sì. Grazie di avermelo ricordato, John».
«Figurati! Allora ci si vede dopo». 
«Sì, naturalmente. Ciao John». 
«Ciao Dan» John riagganciò. Nella stanza tornò il silenzio.

Daniel posò il telefono sul comodino e raccolse un mucchio di libri e di fascicoli che era lì accanto. Uscì dalla camera e socchiuse la porta, per poi dirigersi verso il soggiorno. La porta della stanza di Dane ora era chiusa. Passato l’arco di mattoni che collegava la zona notte e il salotto, andò a posare i libri e i fascicoli sul tavolino da caffè tra i due divani.

Solitamente si sarebbe preparato la colazione. Oppure sarebbe andato in un bar, avrebbe ordinato qualcosa da portare via, lo avrebbero riconosciuto, avrebbe firmato qualche autografo e fatto qualche foto coi fans, poi se ne sarebbe andato in qualche posto tranquillo a consumare ciò che aveva comprato.

Ma quella mattina non aveva fame. Si sedette sul divano che dava le spalle alla porta e al resto dell’appartamento. Quando Dane fece il suo ingresso in soggiorno con passo leggero, Daniel nemmeno se ne accorse. 
Dane si fermò ad osservare l’altro attore, seduto con le braccia tese sulle coscie, i palmi delle mani poggiati sulle ginocchia, le gambe leggermente divaricate. La sua schiena era flessa in avanti e il suo sguardo era basso.

Di fronte a lui, sul tavolino, c’era un fascicolo che Dane riconobbe come il copione. Attorno c’erano vari libri aperti. Con un’attenta osservazione si poteva capire a quali di essi Daniel tenesse di più e a quali tenesse di meno. Questi ultimi erano sottolineati coi colori sgargianti tipici degli evidenziatori e avevano molti degli angoli delle pagine piegati. Gli altri, invece, erano pieni zeppi di post-it, per non rovinare la carta, e Dane, da dove si trovava, non scorse sottolineature, per cui probabilmente le parti importanti erano segnate a matita, in modo da poter essere cancellate.

Daniel stava leggendo a bassa voce il copione. Agli occhi di Dane il ragazzo parve estremamente buffo, mentre provava le diverse espressioni facciali, per non arrivare impreparato sul set. Dane sapeva che quella era una tecnica degli attori professionisti, ma non l'aveva comunque mai usata. Preferiva improvvisare e, conoscendosi, sapeva che preparandosi precedentemente non sarebbe più sembrato autentico.

Continuò a guardare Daniel e la concentrazione che stava impiegando nel ricostruire una possibile espressione vuota e persa, da post-litigio. Già per me è stressante, non oso pensare com’è sotto pressione lui che deve interpretare il personaggio principale, pensò Dane fra sé e sé.

Quando si decise a parlare, esordì con un normale «Buongiorno», ma il suo tono di voce risultò severo, quasi scocciato per aver dovuto proferire parola. Dane rimpianse subito di aver parlato. 
Daniel si voltò di scatto, stupito di essere osservato «Buongiorno» rispose, dopo essersi accertato che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. I loro sguardi fecero a botte per qualche secondo. 
«Vado fuori a fare colazione. Starò via anche per pranzo» lo liquidò velocemente Dane, in modo che non aggiungesse altro. Aveva abbassato lo sguardo appena aveva potuto, come se fosse rimasto scottato.

La visita alla Columbia University di quel pomeriggio fu abbastanza lunga. L’edificio era enorme e, sia all’entrata che all’uscita del gruppo degli attori e dello staff, un ampio gruppo di studenti attendeva alla porta principale per ricevere un autografo e scattare una foto. 
Per le riprese del film sarebbero state utilizzate solo alcune delle innumerevoli stanze, ma comunque John preferì mostrare subito al cast anche dove si trovavano tutti i camerini.

Mentre Dane e Daniel percorrevano a seguito del gruppo i corridoi dell’università, non dissero una parola, né si guardarono mai. Sembrava quasi che entrambi avessero inconsapevolmente firmato un patto con sè stessi: Non mostrare nulla finchè nulla ti viene mostrato.

Vedendo la giornata che avevano passato insieme, chiunque, senza esitazione, li avrebbe definiti due linee parallele, sempre vicine, ma che non riescono ad incontrarsi mai.

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Capitolo 8
*** Holden ***


Dane era steso supino sul letto, quel giovedì mattina. I suoi occhi erano leggermente socchiusi, le palpebre stanche li coprivano quasi per metà e si abbassavano completamente a intervalli regolari e ben distanziati tra loro. I suoi capelli erano spettinati, ma non tanto da dover essere sistemati. Le sue labbra erano secche e schiuse. Guardava il soffitto.

La porta della sua stanza era leggermente aperta, ma nonostante questo non aveva udito alcun rumore provenire dall'interno dell'appartamento. Il giorno prima aveva sentito Daniel svegliarsi presto, vagare per le stanze, riordinare le proprie cose e poi parlare con qualcuno al telefono. La porta di entrambe le camere da letto era chiusa, per cui la sua voce era arrivata alle orecchie di Dane solo ovattata e a tratti e quest'ultimo non aveva ben capito di cosa stesse parlando o con chi. Che fosse stata la sua ragazza?

A questo pensiero, il ragazzo steso sul letto sentì una fitta leggera nel petto, qualcosa a cui di solito non si dà peso e a cui Dane, in quel momento, non riuscì ad attribuire un'origine o un significato. Decise di alzarsi. Si diresse al bagno e si appoggiò con le mani al lavandino. Puntò lo sguardo dritto sui suoi occhi riflessi nello specchio, di cui era impossibile definire il colore, poiché cambiava in base alla luce che colpiva l'iride. Alcune volte erano di un azzurro intenso, altre di un verde leggero e altre ancora erano di un grigio chiaro, quasi trasparenti.

Si sciacquò il viso e lo asciugò. Lasciò che il freddo umido passasse attraverso la sua pelle, entrando in profondità e provocandogli dei brividi leggeri, facendogli perdere il controllo per un attimo. Emise un profondo respiro e in quello stesso momento decise in maniera fulminea che la nuova giornata che lo aspettava sarebbe stata completamente diversa dalla precedente.

Prima di tornare nella propria camera, diede un occhiata dentro a quella di Daniel, la cui porta era aperta quella mattina, come per assicurarsi che lui fosse ancora lì, dopo il modo scontroso in cui Dane si era comportato il giorno prima.

Daniel era steso sul letto, barricato sotto lo strato del piumone, come se fosse stato sotto il suo tipico strato di riservatezza. Forse era per quello che loro due non avevano ancora stretto amicizia. L'uno si nascondeva nella sua timidezza, l'altro nella sua superbia. Due maschere completamente diverse, ma con l'obbiettivo comune di difendere se stessi dagli altri.

Dane lasciò un post-it sul tavolino del soggiorno, nel caso il suo coinquilino si fosse svegliato prima del suo rientro, e uscì. Andò a prendere la colazione e a fare due passi. Mentre camminava si beò di essere un attore così poco conosciuto. Con un berretto a coprirgli i capelli e degli occhiali scuri, quasi nessuno capiva chi fosse.

Certo, c'era sempre qualche ragazzina o qualche signora che lo fermava e lui era felice di firmare autografi e di sorridere ai suoi fans, ma continuava a chiedersi come facesse Daniel a sopportare tutta la sua popolarità. Chiunque avrebbe ceduto, pensava, ma lui no.

Quando tornò all'appartamento, l'altro attore era sveglio, seduto sul divano, come il giorno prima, ma questa volta la sua posa era più rilassata e stava leggendo un libro apparentemente non sottolineato e privo di post-it. Quando sentì la porta aprirsi, Daniel neppure si voltò, come avrebbe fatto al suo solito. Aveva cambiato strategia, per affrontare Dane con una nuova maschera, la più dolorosa, quella fatta d'indifferenza.

«Hey» sussurrò con voce leggera il ragazzo alla porta.

Forse perché non si aspettava un richiamo o un tono di voce così dolce, Daniel si voltò subito a guardarlo. Dane intanto sorrise, vedendo di aver attirato la sua attenzione «Ho portato la colazione» disse sfoggiando i due bicchieri di carta che aveva tra le mani.

«Ma...» sussurrò appena Daniel, stupito.

«Spero ti piaccia il caffè» continuò Dane avvicinandosi, come se non lo avesse sentito. «A dire la verità ero indeciso. Tu sei inglese e probabilmente preferisci il té» appoggiò i due bicchieri di carta sul tavolino e si sedette sull'altro divano. Daniel intanto seguiva con lo sguardo ogni suo movimento. «Ma, siamo sinceri, se uno cerca un té a New York, o va in un bar di lusso o se lo compra al supermercato. Di certo da Starbucks non mi aspetterei chissà cosa» continuò Dane, tranquillamente, «Forse mi sbaglio, non so. Che tu ci creda o no è la prima volta che entravo da Starbucks».

Daniel rimase ad osservarlo con le sopracciglia alzate, mentre l'altro rideva e prendeva il proprio bicchiere, per poi portarlo alle labbra.

«Perché ti comporti in questo modo? Dove sta il trucco?» furono le prime domande che si presentarono alla mente di Daniel e che pronunciò, quasi inconsapevolmente, ad alta voce.

«Oh, insomma, sorvoliamo queste questioni stupide. Bevi che si raffredda» lo incitò Dane, indicando il bicchiere sul tavolo. Daniel scosse un po' la testa, guardandolo, come a volersi svegliare da uno strano sogno. Poi si sporse in avanti per prendere il bicchiere. Cercò di non fissare l'altro, mentre finiva il suo caffè, il Perché che continuava a rimbombargli nella mente.

«Che stavi leggendo?» gli chiese Dane.

«Oh, John Keats» rispose Daniel posando il bicchiere vuoto.

«Mhm, sembra interessante».

«È il mio poeta preferito» disse Daniel sorridendo fra sè e sè.

«Allora devo leggere per forza qualcosa scritto da lui! Tu che mi consigli?».

«Il libro che sto leggendo ora è molto bello, ma non è il migliore. Lui scrisse una raccolta di Odi, tra cui c'è Ode a un usignolo. È una poesia semplicemente sublime» rispose Daniel strofinando distrattamente la copertina del libro che aveva tra le mani, assaporando un ricordo. 
Poi la sua espressione diventò pensierosa «Sai, John Keats aveva solo ventisei anni quando è morto. Aveva la tubercolosi e fu a Roma dove esalò il suo ultimo respiro. Anni fa, durante un viaggio in Italia, sono andato a vedere la sua lapide. Sopra vi era scritto: Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell'acqua» alzò lo sguardo su Dane e poi sorrise tristemente «Ancora non so che significa, però è una bella frase. Ti ispira purezza, limpidezza nell'animo» un attimo dopo si mise a ridere «Perdonami, Dane. Non so come ma sono finito a parlare della morte» scosse la testa.

Dane lo guardò sorridente. Lo aveva chiamato per nome.

Ad un certo punto, le prime note di una vecchia canzone risuonarono in quell'atmosfera che si era venuta a creare. Red Hot Chili Peppers, Dani California.

Dane si morse il labbro inferiore e infilò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni per estrarne lo smartphone. Mimò uno Scusa a Daniel e alla sua espressione stupita, si alzò e attivò la chiamata. Era Anne.

«Pronto, Anne. Come stai?» iniziò a camminare per il soggiorno.

«Pronto tesoro! Sto bene, grazie. Volevo dirti che oggi vengo lì a New York per rivedere i preparativi per il matrimonio. Ti va se ci vediamo verso mezzogiorno a quel ristorante tanto carino dove siamo andati un sacco di volte la scorsa estate? Così possiamo discutere insieme delle ultime scelte da prendere»

Dane guardò un attimo Daniel con uno sguardo dispiaciuto, poi rispose ad Anne «Io sono un po' indaffarato oggi. Sai com'è, gli ultimi giorni prima dell'inizio delle riprese. Perché... perché non te ne occupi tu? Voglio che sia una sorpresa» disse, cercando di mettere abbastanza emozione nel suo tono di voce, per far credere che fosse felice. Infatti, di prassi, avrebbe dovuto esserlo.
Nonostante il suo matrimonio fosse previsto tra una settimana, quando ci sarebbe stata la prima pausa dalle riprese, in quel momento, la priorità di conoscere meglio Daniel era passata sopra a tutte le altre.

«Oh, sei sicuro baby?» Anne sembrava triste. Dane poteva facilmente immaginarsi l'espressione da cagnolino bastonato che lei aveva in quel momento, e che assumeva ogni qualvolta le veniva negato qualcosa.

«Sì» rispose Dane. Annuì mentre lo diceva, anche se era consapevole che Anne non poteva vederlo, più per convincere se stesso. Poi ebbe un'idea: «Anzi, credo di avere un po' di tempo, se mi dici il nome del ristorante che al momento non ricordo, passerò fra poco e ti farò conoscere una persona». Sapeva quanto Anne era felice di incontrare nuova gente famosa.

«Bene, sono all'hotel White Rose, vicino al nostro appartamento» disse riferendosi ad un appartamento a Williamsburg, Brooklyn, che avevano comprato da poco e dove avrebbero iniziato ad abitare dopo il matrimonio.

«Okay, certo, ho in mente qual è. Allora ci si vede lì fra un'ora. Ciao» detto questo, Dane chiuse la chiamata, quasi senza aspettare che Anne rispondesse con il suo solito Ciao Amore. Si voltò verso l'altro attore, che abbassò subito lo sguardo. Daniel sperava che Dane non si fosse accorto che lo aveva fissato con curiosità per tutta la durata della telefonata.

«Daniel, sei occupato questa mattina?» gli chiese piano Dane, mettendo via il cellulare.

«Uhm?» fece Daniel, cercando di nascondere il suo interessamento per la telefonata che si era svolta poco prima. «Oh, no, sono libero».

«Perfetto, ti va di andare a fare un giro? Sono solo le dieci. Ti farò conoscere una persona» gli disse Dane sorridente.

«Certo, va bene. Prendo il cappotto» rispose Daniel, alzandosi immediatamente e poggiando il libro che stava leggendo sul tavolino.

Entrambi, ora che l'uno era meno soffocato dalla propria timidezza e l'altro si comportava con meno freddezza, ora che riuscivano a scorgere uno squarcio nel normale schema di vita dell'altro, erano molto impazienti di conoscersi.

Scelsero di dirigersi verso Central Park. Daniel sapeva discretamente come funzionavano gli autobus, le fermate e le mappe, avendo vissuto a lungo a Londra, così si comportò da guida turistica, cosa che lo fece sembrare piuttosto divertente agli occhi di Dane. Mentre erano seduti o alternativamente in piedi in autobus e si osservavano intorno, notavano sempre qualche persona che attirava la loro attenzione, come per esempio diverse ragazze e signore truccate come se sotto i chili di fondotinta, mascara e ombretto si nascondesse un viso sfigurato.

Si impegnarono per accogliere con un Salve gentile e un sorriso tutti quelli che sarebbero saliti sull'autobus. Questo strano gioco non funzionava molto all'inizio, perché il viso di Daniel si dipingeva subito di rosso e i saluti di Dane consistevano in dei sussurri, ma col passare del tempo, i nodi che tenevano stretto il loro lato un scherzoso si sciolsero e il problema più grande divenne solo il non venire riconosciuti.

Quando entrarono a Central Park, iniziarono a percorrere i diversi camminamenti in ghiaia, sentendosi leggeri e freschi, quasi ringiovaniti, come dei bucaneve che sbocciano nel freddo e si rinvigoriscono al sole. Marzo era alle porte.

Mentre camminavano, parlavano animatamente. Avevano dimenticato il modo in cui si erano comportati l'uno con l'altro, i giorni prima.
«Hai visto come ci ha guardato male quella signora altissima con i capelli tutti boccoli?» chiese Dane ridendo.
«Oddio sì. Sembrava avesse avesse visto due scarafaggi! E pensare che io avevo una certa stima di me stesso» rispose Daniel, facendo un piccolo broncio da bambino offeso.

Dane continuò a ridere «E quel ragazzino che si atteggiava tanto da teppista col suo gruppo di amici? Appena li abbiamo salutati sono scappati via. Secondo te perché se ne sono andati?» disse, per poi smettere di ridere e prendersi un attimo per pensarci.

Daniel aveva già una mezza idea sulla risposta. Alla gente vedere due ragazzi della stessa età, vicini, allegri, che ridono tra di loro non lascia molto spazio all'immaginazione. «Uhm, non saprei» mentì. Poi sorrise «Comunque la conosco la canzone della suoneria del tuo cellulare, anzi, la adoro. Deni California, dei Red Hot Chili Peppers giusto?» concluse guardando l'altro attore.

Dane lo guardò a sua volta e sorrise «Sì, giusto».

Passarono ancora del tempo a parlare di quella canzone e della famosissima band, quindi della musica in generale. Quando arrivarono a Central Park South, Daniel si fermò e non riuscì a trattenere un commento: «Ecco dove ci siamo visti per la prima volta» riferendosi al luogo preciso dove si trovavano. Davanti a loro c'era una familiare panchina, un laghetto quasi completamente libero dal ghiaccio e un ponte di pietra per attraversarlo.

«Già» rispose Dane, fermandosi anche lui. Stette un attimo in silenzio e poi riprese «Sai perché amo questo posto?».

Daniel scosse la testa.

«Hai in mente Il giovane Holden? Era uno dei libri che ci aveva assegnato da leggere John, per avere un esempio di persona fuori dagli schemi, anticonformista».

«Oh, sì. Conosco la trama, però non l'ho letto» rispose Daniel, grattandosi la nuca.

«Ecco» continuò Dane, «Io mi sono innamorato di quel libro, anzi, più che altro mi sono innamorato del personaggio principale, Holden Caulfield. Sai, quando leggi un libro del genere, è quasi inevitabile. Comunque c'è una scena, verso l'inizio, in cui Holden si chiede dove vanno d'inverno le anatre che durante la bella stagione stanno in quel laghetto» disse indicando lo stagno di fronte a loro.

«Proprio quel laghetto?» chiese Daniel, non sicuro di aver capito.

Dane annuì. «Holden fa varie ipotesi. Per esempio che le anatre volino via, oppure persino che un camion le venga a prendere per portarle lontano. Sai, questo mi ha fatto sorridere molto. La sua ingenuità e la sua purezza d'animo sono ammirevoli. Mentre leggevo quelle frasi mi ha fatto tornare per un attimo bambino».

Daniel deglutì. Sentire per la prima volta Dane parlare in quel modo, per niente superficiale, pieno di emozioni sincere, era un avvenimento raro. «Cosa mi sono perso...» disse, dopo un attimo di silenzio. Entrambi sorrisero.

Arrivare a Williamsburg in autobus avrebbe preso ai due attori troppo tempo e loro erano in ritardo, per cui scelsero di prendere un taxi. Arrivati all'hotel White Rose, Dane guidò Daniel fino alla hall adiacende al ristorante e poi ad un tavolo dov'era seduta Anne, in tutta l'eleganza e la bellezza del suo tubino corto rosso e della collana con un piccolo e luminoso smeraldo che portava al collo. Appena li vide arrivare, la ragazza si alzò e, sorridente, li salutò cordialmente, Daniel con una stretta di mano e Dane con un bacio sulla guancia.

«Anne, ti presento Daniel. Daniel, lei è Anne» disse Dane. Esitò impercettibilmente nell'aggiungere: «La mia fidanzata»

«Futura moglie, a dire la verità» lo corresse Anne ridendo. «Sa, Daniel, io l'ho già vista» disse scherzosamente, riferendosi ai famosissimi film in cui Daniel aveva recitato, spesso come protagonista.

«Oh, sì. La mia fama mi precede sempre» rispose Daniel. Per un attimo dovette forzare il proprio sorriso.

Passarono un po' di tempo a conversare. Anne era interessatissima a farsi raccontare ogni dettaglio della carriera di Daniel e, senza darlo troppo a vedere, di tanto in tanto apriva una parentesi sulla propria, di carriera cinematografica. Era anche lei un'attrice.

Dane nel frattempo li osservava con un sorriso enigmatico. Non disse quasi nulla tutto il tempo. «Beh, credo che sia ora che noi andiamo» disse, quando capì che Daniel e Anne avevano appena concluso un discorso, sorridendo, quasi si fosse appena risvegliato da un sogno illuminante.

Si alzò velocemente, atteggiando le labbra in un'espressione seria, sotto lo sguardo alquanto stupito di Daniel. Tutti, in quel salone, si sarebbero accorti che la frase e il sorriso di Dane erano dei più ipocriti mai visti, tutti tranne Anne.

Mentre si allontanavano dall'hotel, la mente di Daniel rifletteva macchinosamente: Anne ama così tanto Dane da rimanere cieca di fronte a quella fuggevole farsa? O forse se ne'è accorta, ma non l'ha dato a notare? Se è stato così, perché?

Dopo aver mangiato in un fast food abbastanza appartato, i due attori erano tornati al Residence. Nel frattempo, Dane si era rabbuiato di nuovo. La tabella di marcia per il resto della giornata consisteva nel ripassare un po' il copione durante il pomeriggio e poi uscire la sera. Dane aveva detto di conoscere un posto perfetto dove sbronzarsi senza essere riconosciuti. Aveva riso all'idea.

Daniel doveva ammettere che studiare le parti insieme, avere qualcuno a cui rivolgersi, mentre ripeteva il proprio copione, gli giovava molto. Era quasi come rivolgersi al regista. John aveva avuto un'ottima idea riguardo a quei pochi giorni di appartamento condiviso.

«E a questo punto, Jack chiederà: Chi sei, realmente?» disse Dane all'altro attore, mentre erano seduti su uno dei divani del loro appartamento, provando una scena del film.

Daniel lo guardò e decise di lasciar perdere il copione, provando a dare una svolta divertente alla conversazione. «Io sono Daniel, il protagonista di quella vecchia saga fantasy che ha cambiato il mondo. Sono famosissimo» rispose, enfatizzando comicamente l'ultima frase e ridendo un poco.

Dane sorrise leggermente. «Ne sono consapevole». Restò in silenzio un attimo, poi continuò «Ti sarai sicuramente chiesto perché durante tutti questi giorni non l'ho mai dato a vedere» disse, sfoggiando nuovamente il suo sorriso enigmatico. «Perché avrei dovuto, dopotutto? Sei pur sempre una delle tante persone che si vendono al mondo, attraverso lo schermo, come me» continuò Dane con nonchalance. «Il fatto che tu abbia recitato in questo o quel film non cambia le mie considerazioni su di te. Noi due siamo uguali».

Daniel tossì nervosamente e sorrise. «Noi non siamo identici, sotto questo punto di vista» commentò, sistemandosi in modo lievemente impacciato gli occhiali, per poi prendere una posa più composta. «Io credo che tu dovresti invece considerare i film, gli show o gli spettacoli che le persone recitano. O i libri che scrivono. Un'interpretazione, un personaggio, possono aprirti gli occhi e portarti a compiere ragionamenti o a porti domande che non ti saresti mai immaginato. Penso che tu sottovaluti troppo tutto questo. Ti stai precludendo un sacco di opzioni, se il tuo obiettivo è osservare le persone». La parola di Daniel contro quella di Dane.

Dane guardò l'attore davanti a lui più intensamente, come se farlo lo aiutasse a pensare più in fretta. «Chi ha detto che il mio obiettivo è osservare le persone?» chiese con espressione spavalda.

«Nessuno. Solo, pare che tu mi stia osservando» disse Daniel, tranquillamente.

«Vedo che non sono l'unico dei due a farlo» rispose Dane, con l'espressione di qualcuno che ha appena vinto una scommessa.

Daniel sorrise. Touché.

Angolo Autrice :)

Capitolo lunghiiissimo, se siete arrivati fin qui sani e salvi meritate un premio. Spero vi sia piaciuto lo stesso ;)

Virgiz01

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Capitolo 9
*** «Questo vuol dire che, come Lucien fa con Allen nel film, mi abbandonerai?» ***


Mentre Dane e Daniel si allontanavano dal centro di New York, le luci andavano scemando. Si stavano addentrando tra intrecci di strade relativamente strette e illuminate da lampioni arancioni. Le case erano basse, rispetto ai grattacieli del centro ed erano in mattoni, mentre alle vie si accompagnavano file di alberi spogli. Dane aveva deciso di prendere un taxi, dato che erano relativamente lontani e aveva scritto al tassista la destinazione su un foglietto.

Deve tenerci tanto all'effetto sorpresa, aveva pensato Daniel, quando Dane aveva passato il biglietto al tassista senza lasciargli sbirciare e, mentre provava a orientarsi guardando fuori dal finestrino, l'altro lo aveva fermato ridacchiando e dicendo: «No, no. Così non vale». Daniel aveva finito col passare tutto il tempo osservandosi le scarpe.

Quando erano sul punto di arrivare, Dane aveva sussurrato «Ci siamo».
Daniel poté vedere un leggero sorriso arieggiare la sua maschera di indifferenza. Il suo volto era color caramello, sotto l'effetto delle luci esterne alla vettura. Sembrava quasi un bambino, mentre osservava le fronde degli alberi che scorrevano veloci fuori dal finestrino, coprendo il cielo scuro.

Quando scesero, Daniel si guardò intorno. La maggior parte delle case erano buie. Da molti balconi pendevano bandiere americane e arcobaleno. Cominciò a guardarsi attorno, quando la sua attenzione venne catturata da un cartello: Christopher Street

«Se sei così preparato come sembra a proposito del copione che abbiamo studiato tutto questo pomeriggio, di sicuro conosci già questo posto» disse Dane, che intanto aveva cominciato a percorrere il viale, le mani nelle tasche e lo sguardo rivolto attorno a sè.

Daniel rifletté un attimo. «Ci sono!» esclamò poi. «C'è una parte del film, verso l'inizio, in cui indico questa strada su una cartina affissa sul muro della mia camera del convitto. Qui vicino c'è il Greenwich Village, dove gireremo alcune scene del film. Com'è che sei così informato a proposito delle mie parti del copione?» chiese.

«Oh, da adesso non si può più neppure essere curiosi?» rispose Dane ridendo e continuando a camminare.
Daniel si affrettò a seguirlo all'interno di un bar. Dentro il locale era molto simile a un pub rivisitato in chiave moderna e ad un primo impatto gli ricordò l'Inghilterra.

Dane gli sussurrò all'orecchio: «Cosa vuoi che prenda da bere mentre tu trovi un posto dove sederci?»
«Uhm... una birra piccola?» disse Daniel. Conosceva assai bene i propri difetti e tra questi c'era anche l'ubriacarsi facilmente. Fin da adolescente aveva mostrato un debole per l'alcool e aveva combinato spesso un sacco di disastri, dopo averne assunto troppo.

«Solo una birra? Sicuro?».
Daniel annuì.
Dane sorrise e rispose semplicemente: «Okay».

Daniel intanto cercò e poi occupò un tavolino appartato. Non era molto tardi, per cui c'era ancora relativamente poca gente. Si guardò un po' in giro. Le persone attorno a lui erano delle più svariate e stravaganti, per la maggior parte uomini, ma cosa ci si poteva aspettare da un luogo come Christopher Street, dopotutto? Daniel sperò che Dane arrivasse il prima possibile, perché già si sentiva osservato, in alcuni casi mangiato con gli occhi, e questa volta non era per la sua fama, dato che nessuno dava segno di conoscerlo.

Quando Dane arrivò con due birre e vide sul volto di Daniel un'espressione guardinga e preoccupata, si sedette al tavolo e disse ridendo: «Non stare in ansia. Ora nessuno ti fisserà più».

Daniel lo guardò confuso e Dane continuò, «Scusa se ti ho portato in un posto così poco ordinario, ma sai, ho pensato che, dato che lo scopo della nostra permanenza sotto lo stesso tetto è anche quella di entrare meglio nella nostra parte, venire qui non avrebbe guastato. Dopotutto Allen e Lucien frequentavano questi luoghi». Prese un sorso dal suo bicchiere. «Dobbiamo cercare di capire che cosa avevano in testa e tentare di prenderci la mano, non credi?».

Daniel annuì. Dane però non aveva dato risposta alla questione che ora gli frullava in testa, quella sul perché tutti avessero smesso di fissarlo, cosa che infatti stava avvenendo. Prese la sua birra e ne bevve un po', per distrarsi. «Allora Dane, perché hai scelto di recitare in questo film?».

Il ragazzo di fronte a lui bevve un grande sorso dal suo bicchiere, lo posò sul tavolo e poi rispose: «Tutti prima o poi recitano in un film del genere, un film che si ispira a una storia vera, no? E poi il fatto che interpreterò un personaggio così mentalmente complesso e per di più omosessuale aumenterà la mia visibilità nel mondo del cinema. Sai, ultimamente la gente impazzisce se sei così bravo da riuscire a fingere di essere gay» rispose ridendo e guardandosi attorno.

Daniel apprezzò il fatto che ne parlasse con tanta nonchalance. Nonostante la propria timidezza, anche lui non si faceva troppi problemi a parlare di quell'argomento in pubblico. Era un argomento davanti al quale non si poteva restare in silezio. Il fatto è che il mondo muta inevitabilmente e che certe evoluzioni vanno accettate, soprattutto se si parla di amore e di libertà.

Dane cambiò discorso. «Quanti anni avevi quando hai iniziato a recitare?».
Daniel bevve un altro po' di birra. «Dodici, anche se ero praticamente solo una comparsa. Il film che mi ha reso famoso l'ho fatto poco dopo. Sai, ricordo che quando mia madre mi disse che mi avevano accettato per la parte del protagonista, ero in vasca. All'inizio l'ho fissata con sospetto, poi, dopo aver avuto un'ulteriore conferma, sono balzato in piedi gridando di felicità e bagnandole tutto il vestito».

Dane sorrise fissando il suo bicchiere quasi vuoto. Lui non era stato così fortunato. Il giorno in cui aveva scoperto che l'avevano scritturato per il suo primo film, non c'era nessuno lì a comunicarglielo, ad abbracciarlo, a congratularsi con lui. In più era partito pressappoco in sordina, nel frangente cinematografico. Aveva veramente bisogno di un film che gli desse slancio, un trampolino. Nutriva grandi speranze in ciò che era andato a fare a New York.

Dopo un'altra birra, l'atmosfera continuava a essere calma. Il locale si svuotava e si riempiva costantemente, senza che i due attori troppo presi dalla loro conversazione se ne accorgessero. Tuttavia, improvvisamente, un tonfo fragoroso attirò l'attenzione di tutti. Un uomo robusto si era appena scaraventato all'interno del locale. Il suo viso era rosso e sudato. Barcollando, visibilmente ubriaco, fece vagare il suo sguardo nervoso tra la gente.

«Tu!» esclamò ad un certo punto, indicando con un dito un ragazzo che stava conversando e bevendo un drink con un altro uomo al bancone.
«Tu, disgustoso frocio che non sei altro!» gridò in faccia al ragazzo, prima di avvicinarsi e colpirlo in volto con un pugno, facendolo cadere a terra. Dopo quel gesto una marea di persone che avevano assistito all'accaduto si apprestarono ad avvicinarsi, chi per aiutare il ragazzo colpito, chi per dare una lezione all'aggressore.

«Forse è meglio andarcene» sussurrò Dane, un attimo prima di afferrare Daniel per il braccio e sgusciare fuori dal locale. Lasciò la presa sul braccio di Daniel appena furono fuori e si mise a correre verso l'incrocio dove si era diretto il taxi che li aveva portati fino a Christopher Street. Poi svoltò in un viale più grande e illuminato. Qui si fermò e aspettò Daniel, che era rimasto indietro, e si guardò attorno in cerca di un taxi.

Quando Daniel lo raggiunse esclamò col fiatone: «Hai visto? Lo faranno di sicuro nero, quello». C'era una nota di preoccupazione nella sua voce.

«Sì, sono sicuro che lo faranno. Ma non avrebbero tutti i torti, non credi?» rispose Dane serio.

«Avrebbero dovuto buttarlo fuori direttamente. Riempirlo di botte non cancellerà i lividi dell'altro ragazzo». Daniel fissò Dane, che annuì in modo assente in risposta, ma che non ricambiò lo sguardo, tant'era o si fingeva occupato nell'osservare i veicoli che passavano in strada.

Appena tornati alla loro camera, al Residence, Daniel si buttò a peso morto sul divano. La sua mente era in confusione, continuava a tornare alla rissa nel locale. L'aggressore aveva sicuramente torto, ma Daniel non riusciva a sopportare il fatto che le persone nel locale avessero risposto alla sua violenza con ulteriore violenza.

Dane lo raggiunse poco dopo, tenendo in una mano una bottiglia di whiskey e nell'altra due piccoli bicchieri. «Dai, tirati su. La serata non è ancora finita!» esclamò il ragazzo.

«Da dove viene quella?» chiese l'altro, dopo essersi seduto, indicando il tavolino dove Dane aveva poggiato la bottiglia e i bicchierini. «In questi Residence non ci sono quasi mai i liquori nelle camere, a meno che tu non li chieda esplicitamente» spiegò strofinandosi gli occhi. Si sentiva improvvisamente stanchissimo.

«Oh, questa bottiglia viene dalla mia valigia. L'ho portata con me per ogni evenienza».

Daniel rise, sostenendosi con le mani il capo che gli sembrava esser diventato pesante come un mattone. Dane di tanto in tanto sapeva essere veramente stravagante. Quest'ultimo versò un po' di liquore in entrambi i bicchieri e gliene porse uno. Daniel lo prese e lo osservò con curiosità. «Probabilmente me ne pentirò» sussurrò. 
Dane aveva un sorriso complice. Si guardarono e, dopo aver riso entrambi, portarono i bicchieri alle labbra e ne bevvero il contenuto.

All'inizio per Daniel fu come un risveglio. Il calore era bruciante. Adorava quella sensazione. Era come se un serpente gli scendesse nelle viscere e le riscaldasse, rendendole reali, materiali. A Daniel un bicchiere d'alcool pareva un caldo e rassicurante abbraccio. Poi sulla lingua gli rimbombava l'amaro degli aromi e questo un po' lo risvegliava dal torpore, ma senza aggredirgli il palato. Daniel, a occhi chiusi, emise un mugolio di piacere. Il calore andava poco a poco attenuandosi.

«Scommetto che non bevi da molto tempo» commentò Dane ridendo. Le birre al locale e il whiskey stavano facendo effetto.

«Già. Mi piacciono così tanto i liquori che quando ne bevo un po' ho paura di non riuscire più a smettere» rispose Daniel, con un'espressione quasi sognante in volto.

«Beh, oggi è la serata delle eccezioni». Dane riprese la bottiglia e versò un altro po' del suo contenuto nei bicchieri.

Al terzo shot, Daniel iniziò a perdere il controllo. «Quando ti sposi?» buttò lì. 
Daniel, dopo aver ripensato a se stesso e a Dane in compagnia di Anne, si era reso conto che la questione era un punto dolente per entrambi, anche se ancora non sapeva perché.
Dane intanto si era un po' incupito. Guardò Daniel. Se non avesse avuto lui di fronte, si sarebbe abbandonato a un sorriso ampio, felicissimo. Ma in quel momento gli risultava difficile anche solo immaginarlo.

«Fra due giorni».

Daniel annuì assente e poi spalancò per un attimo gli occhi, quasi in un finto stupore. «Domenica. Così presto» si lasciò sfuggire. Quando se ne rese conto provò a rimediare. «Ma... noi inizieremo le riprese lunedì. Come farete con la luna di miele?».

«Anne ha detto che anche se non la facciamo non importa. Preferisce non interferire con le riprese. Tiene al mio lavoro quasi quanto me» rispose con un sorriso triste. Decise di cambiare velocemente discorso. «Al locale mi hai chiesto perché ho scelto di recitare in questo film, ma io non l'ho ancora chiesto a te».

Daniel fu come scosso da uno strano stato di trance. «Beh, volevo allontanarmi un po' dal personaggio per cui sono riconosciuto praticamente da tutti. Sai, la gente quando passa per strada e mi vede non dice Hei, ma quello è Daniel!. Loro dicono Guarda, quello è Harry!» disse Daniel quasi con un lamento. «Non è una cosa tristissima?» aggiunse poi, in un sussurro strascicato.

Dane annuì. In cuor suo non avrebbe mai voluto trovarsi in una situazione del genere, per questo cercava di essere più eclettico possibile nella scelta dei personaggi da recitare.

Ci fu un attimo di silenzio, poi Dane disse: «Sai una cosa? Ripensandoci non mi piace Lucien, il mio personaggio. È così simile... a me. E questo è quasi inspiegabile. O forse sono io che mi affeziono troppo ai miei personaggi e finisco per somigliare a ognuno di loro? Probabilmente entro troppo nel pezzo quando dovrei essere distaccato» scosse la testa.

«Ti prego, non essere così severo con te stesso. Fai bene ad affezionarti a chi devi rappresentare. Se non fai così, rischi una cattiva interpretazione».

«Hai ragione, però poi finisce che con certe persone mi comporto come si comporterebbe Lucien, per esempio. Finisce che sembro un bipolare».

«Certe persone? Tipo chi?» chiese Daniel, improvvisamente curioso.

«Tipo te» rispose semplicemente Dane, senza esitazione.

«Io?» Daniel non era tanto stupito per ciò che l'altro attore aveva appena detto, bensì per il fatto che l'avesse detto. Oh, quanti problemi l'alcool sapeva risolvere, oltre che creare.

«Sì, sì. Proprio tu» Dane iniziò a ridacchiare.

«Che disgrazia! Questo vuol dire che, come Lucien fa con Allen nel film, mi abbandonerai?».

Dane si portò una mano sul lato destro della bocca, passando le dita sulle labbra «No, credo che non farò nulla del genere. Mi stai simpatico».

L'atmosfera diventò a poco a poco più distesa. Dane iniziò a dondolare la testa, a occhi chiusi, e a canticchiare sommessamente Imagine di John Lennon, come se non avesse mai detto nulla. Daniel invece abbassò lo sguardo. Sorrise. Amava quella canzone. Dopo qualche minuto di meditazione, si alzò. «Vado a dormire» disse.

«Di già?» l'espressione di Dane apparve all'altro attore simile a quella di un bambino che, nel cortile della scuola, mentre giocava, ha appena sentito suonare la campanella dell'inizio delle lezioni.

Daniel annuì. «D'accordo».

Il giovane lasciò la stanza. L'atmosfera si fece improvvisamente pesante. Era come se nel bel mezzo dell'estate il sole fosse scomparso, lasciando appassire i magnifici fiori di campo. Dane posò il bicchiere vuoto che teneva in mano sul tavolino, mentre le note di Imagine continuavano a rimbombargli in testa.

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Capitolo 10
*** Spalline in pizzo ***


Il giorno del matrimonio tra Dane e Anne era arrivato molto presto a bussare alla porta dei due attori.
Era stato celebrato in un quartiere appartato di New York, in una piccola e candida chiesa che davanti aveva un giardino curato e sul retro un boschetto di querce. La giornata era solare e l’aria era tiepida e frizzante.

Anne indossava un lungo e sobrio vestito bianco, dalle spalline in pizzo che le coprivano le esili braccia e il décolleté, mentre Dane era vestito in modo molto più disinvolto, camicia blu a quadri, giacca scura e cravatta, uno stile che poteva sembrare abbastanza insolito, ma che invece era quasi d’obbligo, per la tradizione della sua famiglia.

C’erano pochi invitati, solo i parenti stretti e gli amici più intimi e, apparentemente, nessun paparazzo. Anne era felicissima, il suo sorriso era aperto e sincero. Stava per avere il bellissimo Dane servito su un piatto d’argento e questo la rassicurava. Dane era anche lui sorridente. Aveva baciato serenamente le labbra rosse di sua moglie, dopo che lei aveva detto .

Ogni cosa era filata liscia come l’olio. Agli occhi di tutti era sembrata una domenica pomeriggio perfetta.
Ma Daniel non era stato lì per vederla. Era rimasto chiuso nell’appartamento che aveva condiviso con Dane per un paio di giorni. Quest’ultimo non l’aveva invitato, non se la sentiva di mandare in confusione tutti i minuziosi piani di Anne un giorno prima del matrimonio, convincendola ad aggiungere un'altra persona, ma questo a Daniel non l’aveva detto. 

Entrambi, Dane varie ora dopo il matrimonio, Daniel durante la giornata, quasi inconsciamente avevano considerato l’idea di non essersi incontrati al matrimonio la scelta giusta. Sentivano tutti e due che, se Daniel fosse stato lì, qualcosa sarebbe stato diverso.

Non avrei sorriso. Sarei stato titubante. È così?, si ritrovò a domandarsi tra sè e sè Dane, quella stessa notte, seduto sulla poltrona del salotto dell’appartamento a Williamsburg dove lui e Anne si erano appena trasferiti. Sua moglie intanto dormiva. L’aveva fatta stancare molto quella notte, forse troppo. Ma a lei piaceva così.

No. Sarebbe stato tutto normale. Nessuna incertezza. Mia moglie è bellissima, continuò a pensare. Non poteva negarlo. La prima volta che aveva visto Anne, all’ultimo anno del college, gli era sembrata una dea comparsa tra i comuni mortali, qualcosa di irraggiungibile.
Ma dov’è finita la sua innocenza? Dov’è finita la sua timidezza?. Gli sembrava perfino ironico il farsi tali domande sulla donna che aveva appena sposato. Dane continuò a guardare le persone che camminavano in strada, nonostante l’orario.

Daniel è timido. A volte ho quasi paura di guardarlo. Pare così puro e fragile che potrei rovinarlo con lo sguardo. Il giovane scosse la testa. Non avrebbe dovuto pensare a quel ragazzo, tuttavia la tentazione era troppo forte. Ma Daniel non ha paura. Era così determinato quando cercava di conoscermi. Dane sorrise pensandoci.

Lanciò un ultimo sguardo alla New York fuori dalla finestra prima di tornare in camera. Non voleva che Anne si svegliasse senza averlo accanto. Avrebbe fatto domande e sarebbe stata l’ultima persona con cui Dane avrebbe voluto parlare di ciò che lo turbava.

La notte passò velocemente e si presentò alle porte di New York un lunedì elettrizzante. Le riprese erano finalmente cominciate. 
All’interno della Columbia University, il set principale del film, si sentiva nell’aria l’emozionante inizio della creazione di un’opera d’arte. 

Daniel ci affogava quasi nella sua trepidante emozione. Voleva dare il massimo. Si aggirava per tutto il set sorridendo come un bambino. Osservava come si muovevano le telecamere, le inquadrature, osservava i vari punti di vista che assumevano. Ormai aveva visto così tante volte scene del genere che arrivava a capire in relativamente poco tempo lo stile del regista, i dettagli su cui intendeva soffermarsi, come voleva che il pubblico vedesse la scena.

John studiava ogni cosa cento volte più minuziosamente di quanto stava facendo Daniel. Sul set si mostrava in tutta la sua serietà, concentrazione e intraprendenza. Come Dane, era determinato a farsi notare dal mondo cinematografico. 
Quest'ultimo, invece, non si era ancora fatto vedere. Daniel lo incontrò soltanto mentre si stava dirigendo ai camerini per prepararsi. Dane camminava con lo sguardo fiero, le mani in tasca e a Daniel ricordò la flemma che lo caratterizzava la sera in cui erano andati a Christopher Street. Sorrise all’idea.

La spavalderia di Dane scomparve nel momento in cui incontrò lo sguardo di Daniel. Guardò subito altrove e, quando gli passò vicino, gli fece solo un segno col capo. 
Il primo mese delle riprese per loro due trascorse così, un continuo evitarsi.

Daniel era sconsolato. Ciò che aveva predetto Dane la sera che si erano ubriacati si stava avverando. Si stava comportando veramente come se fosse Lucien
Il punto dolente era che Dane, con l’andare del tempo, non si stava atteggiando in modo distaccato solo verso Daniel, ma anche verso Anne.

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Capitolo 11
*** Gioco di maschere ***


Dane si poteva definire una sorta di felino selvatico.

L’avere a che fare con Daniel e Anne dodici ore al giorno l'uno e dodici l'altra lo faceva sentire minacciato. A lui piaceva rischiare, solitamente, ma il pericolo che gli facevano percepire quei due aveva un retrogusto amaro. Tutti gli strani comportamenti che stava mostrando in quel periodo erano il risultato di due convivenze esplosive che lo stavano letteralmente facendo impazzire.

Daniel lo faceva sentire vulnerabile. Ogni volta che lo guardava, dentro Dane un muro cedeva. Un allarme suonava. Un filo si spezzava. Dane poteva sentire il suo autocontrollo oscillare come la fiammella di una candela esposta al vento. Ma allo stesso tempo, una luce si accendeva, un’alba chiara gli dava tranquillità. Daniel era l’inspiegabile unione chimica di distrazione e pace interiore.

Anne, invece, era la sua dea. Sapeva sempre come ammaliarlo e attirare la sua attenzione. Il suo corpo magro e sinuoso era la chiave per il piacere. Eppure lei era tutta una frenesia continua, un perenne bisogno di controllo sulla situazione. Di norma non sarebbe dovuta essere così. Dane era fermamente convinto che, dopo il matrimonio, lei avrebbe smesso di comportarsi in quel modo, ma si sbagliava. Per Anne ormai era normale essere paranoica. 
Infatti il fatto che sempre più spesso lui tornasse a casa turbato o che a volte si svegliasse a notte fonda per bersi un bicchiere davanti all’ampia finestra del salotto, la preoccupava molto. Aveva sempre più difficoltà a sviare suo marito dai suoi pensieri.

Era anche lei sconsolata come Daniel. Si chiedeva continuamente cosa stesse succedendo a Dane, e quest’ultimo non era di certo d’aiuto, dato che non voleva proferir parola su ciò che lo turbava.

Lei era serena solo se aveva il controllo su ogni cosa e il non poter vedere ciò che si celava oltre il muro che Dane aveva erto credendo di proteggersi, la portava a una curiosità famelica e, quando si accorgeva che non sarebbe arrivata a nessuna conclusione, a una forte apprensione.

La situazione che si era andata a creare in modo così rapido, in soli due mesi, era critica, come quella di un cane che gira in tondo cercando di mordersi la coda. Agli occhi di Dane, Daniel e Anne l’inizio delle riprese avrebbe dovuto essere l’inizio di un periodo tranquillo, mentre invece i primi mesi si stavano rivelando il contrario.

Daniel, nel reagire a quella situazione, aveva ricominciato a scrivere poesie. Non ne aveva mai scritte così tante. Ciò che stava passando, la tristezza che provava, fungevano per lui da forte ispirazione. Tuttavia nelle sue poesie si potevano leggere anche note di rabbia e di gioia represse, che non stonavano affatto con il personaggio che interpretava durante le riprese del film.
Continuava a chiedersi quando Dane avrebbe deciso di tornare di nuovo coi piedi per terra. Perché era questo ciò che stava succedendo: Dane si stava rifugiando dietro a un comportamento ben preciso, per sfuggire a ciò che in verità gli stava attorno. Come se continuasse a essere sul set di un film anche quando tornava a casa o quando non c’era nessuna telecamera a riprenderlo. Continuava a rimanere in bilico sulla giostra, senza mai fermare il gioco. Quel suo stupido Gioco di maschere.

Mentre Daniel reagiva all’alquanto ingestibile comportamento di Dane scrivendo, Anne aveva trovato un’altra soluzione.

Angolo Autrice :)

Altro capitolo di "transizione", col prossimo si torna all'azione ;)

Virgiz01

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Capitolo 12
*** Una pugnalata negli occhi ***


Quella sera le riprese erano finite due ore prima del previsto e senza alcun preavviso. C’erano stati dei problemi con le telecamere principali e John aveva comunicato che, dal momento che si sarebbe fatto troppo tardi per le riprese, quando fossero riusciti a risolvere il problema, tutti potevano lasciare il set in anticipo. Dane sgusciò via il prima possibile. Sentiva la tensione nell’aria.

Fuori dalla Columbia University si stagliava la scura New York. Non era molto tardi, ma essendo inverno il cielo era già di un azzurro scuro e intenso. C’era un filo di vento e Dane poté finalmente tirare un rumoroso sospiro senza che nessuno lo sentisse. Le riprese stavano procedendo relativamente bene. Nonostante la sua precaria situazione privata, sul set tutto sembrava scomparire e Dane riusciva a dare il massimo di sé.

Di lì a pochi giorni ci sarebbe stata una breve pausa. La attendeva con fervida ansia. Forse lo avrebbe aiutato a portare un po’ di ordine nei suoi pensieri prima di dover affrontare, al ritorno, le riprese delle scene con Daniel.

Nessun’altro era ancora uscito dall’edificio e solo, in cima agli ultimi scalini della rampa che portava all’ingresso dell'università, Dane si sentiva immenso. Poteva percepire l’inquietudine che in quel periodo lo accompagnava scivolare via. Chiuse gli occhi. Le sue preoccupazioni scorrevano liquide come un fiume in piena, impetuose, ma inosservate verso un oceano lontano, così lontano da Dane da non turbarlo minimamente, fino a lasciarlo desertico, in un’arida, ma piacevole inconsistenza.

L’improvviso e involontario bisogno di riempire quel vuoto portò il giovane attore fino alla porta di casa sua e di Anne. Affidarsi ciecamente al dolce calore umano della moglie gli sembrava l’idea migliore, per sentirsi rinascere. 
Ma, per l’ennesima volta nel momento del bisogno, Dane non trovò alcun aiuto. Non trovò nessun tipo di calorosa accoglienza. Nessun saluto, abbraccio o bacio. Solo una pugnalata negli occhi.

All’inizio, quando fece ingresso nell’appartamento, non vide nessuno. Stava per provare a chiamare il nome di sua moglie quando scorse, abbandonati per terra, vicino al divano del salotto, la giacca che Anne indossava quella mattina e una cravatta blu. Per la mente di Dane balenò subito l’eventualità che all’interno dell’appartamento ci fosse un ladro.

Rimase in silenzio per non rischiare che il ladro si accorgesse di lui e raccolse la cravatta, assumendo un’espressione confusa quando vide nella parte interna del colletto le iniziali E.R. La cravatta non era sua. Sentì un fruscio provenire da sinistra. Si addentrò nell’appartamento e raggiunse la porta chiusa della camera da letto. Senza fare rumore accostò l’orecchio al legno lucido e freddo della porta.

«Eric, sbrigati. Abbiamo solo un’ora prima che Dane rincasi». L'attore riconobbe la voce di Anne, più roca del solito, fremente. Quando aprì la porta e vide, si sentì completamente prosciugato, come in precedenza, ma con la differenza che questa volta tutto dentro di lui sembrava essersi di colpo ricoperto di ghiaccio. Ogni organo, ogni tessuto. La visione della sua bellissima Anne dalle spalle spoglie e dalla pelle chiara lambita da mani altrui lo accecò. Non sarebbe restato oltre.

Mentre scendeva di corsa le scale, quasi non udì la voce di Anne chiamare il suo nome. La rabbia che gli montava dentro gli impediva di sentire o vedere altro oltre a se stesso e a ciò a cui aveva appena assistito. Gli sembrò la decisione migliore andarsene il prima possibile e lasciare che la leggera nebbia che saliva dalle strade bagnate lo nascondesse dagli occhi di Anne, colmi di lacrime.

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Capitolo 13
*** Non è bello essere invisibili ***


Anne aveva provato più volte a chiamare Dane al cellulare, ma lui non aveva mai risposto. Aveva anche tentato di parlargli mentre era sul set, per convincerlo a tornare a casa da lei. Tuttavia, quando riuscì ad avvicinarsi a lui, ad afferrarlo per la manica del maglione e, guardandolo con occhi languidi, a supplicarlo: «Per favore, Dane, ti posso spiegare. Ti prego ascoltami» lui, con voce tremante che tradiva il suo severo sguardo di ghiaccio, le aveva sussurrato: «Fa male, vero?», per poi lasciarla lì, tra gli sguardi increduli dello staff, a sprofondare nella vergogna.

Quando arrivò la pausa dalle riprese tanto agognata da Dane, quest'ultimo lasciò New York per tornare a casa dei suoi genitori, in Pennsylvania. Prima di partire, fece ritorno all'appartamento di Williamsburg, verificò che Anne non fosse in casa, raccattò tutta la sua roba e abbandonò il suo paio di chiavi sul tavolino da caffè del salotto, come si abbandonano i brutti ricordi.

A Dane mancava tanto Allentown, la sua città natale. Rise di gusto mentre, facendo il suo ingresso nelle strade della cittadina, si accorse che aveva vissuto per moltissimo tempo in un luogo il cui titolo conteneva la parola Allen, cioè il nome del personaggio principale di Young Rebels, il personaggio interpretato da Daniel.

I suoi genitori e sua sorella Catherine erano stupiti di rivederlo. Si aspettavano che rimanesse a passare la sua settimana di vacanza con Anne, a New York.
La sua famiglia non gli era mai mancata così tanto. Dane, mentre tornava a casa, si chiese se fosse rimasto tutto come prima o se magari i suoi genitori avessero svuotato la sua vecchia camera per farne una stanza per gli ospiti.

Sua sorella Catherine, quando non aveva niente da fare, soleva sedere in casa sulla sedia ormai consunta che usava sempre il suo bisnonno. La trascinava dalla cucina alla scrivania che stava di fronte alla finestra in salotto, si sedeva e iniziava a disegnare, alzando di tanto in tanto lo sguardo sulle macchine che passavano per la via.
Dane aveva sempre ritenuto sua sorella un portento nel disegno. Diceva che aveva la fortunata dote di saper disegnare meravigliosamente cose che vivevano soltanto nella sua mente. Sosteneva che era un vantaggio, dal momento che, a volte, non ci si vede attorno nulla di abbastanza bello e interessante da trasferire su carta.

Quel fresco giorno di gennaio, quando, alzando lo sguardo dal suo album da disegno, vide suo fratello salire gli scalini in legno che portavano alla porta principale della casa di famiglia, Catherine accorse più velocemente possibile ad abbracciarlo. La sua stella polare era tornata a casa.

Quella sera stessa, a conclusione di una copiosa cena di benvenuto e dopo aver comunicato ai suoi genitori ciò che era accaduto con Anne, Dane si ritirò sulla veranda che dava sulla strada. Sedette su una delle sedie a dondolo e per via del freddo si strinse nel cappotto nero di pelle che usava solitamente quando era ragazzo. Lo aveva ritrovato nella sua vecchia camera, rimasta intatta, e ancora gli calzava.

Si sentiva spaesato. Tirò fuori dalla tasca del cappotto un pacchetto di sigarette, che ricordava essere rimasto lì da moltissimo tempo. Da giovane fumava spesso. A quei tempi le sigarette non erano considerate pericolose, ma benefiche. Da molti anni aveva smesso, tuttavia sapeva ancora come fare.

Guardò diffidente una delle sigarette, chiedendosi se fossero degli oggetti che marciscono col tempo. Accantonò per un attimo la propria insicurezza e, mentre l'accendeva, lasciò che i suoi pensieri si liberassero dalle loro catene e defluissero dalla sua mente.
La sigaretta rilasciò nella sua bocca un intenso sapore amaro. Lui lo ignorò e fece un altro tiro profondo, per poi espirare lentamente.

Tornare nella città della propria infanzia gli faceva sempre un certo effetto. Fare ritorno dopo un lungo viaggio e guardarsi indietro lo lasciava ogni volta stupito per tutta la strada che aveva percorso allontanandosi dalla vecchia Allentown e per il fatto che, in un modo o nell'altro, vi faceva sempre ritorno.

Inspirò ulteriormente dalla sigaretta. Anne era stata solo una volta ad Allentown, per un pranzo. Fu il giorno in cui Dane la presentò ai suoi genitori. Lei li conquistò in un attimo, raggiante com'era nel suo vestito a fiori, illuminata da un sorriso reso naturale con abilità.

Forse sono stato troppo crudele con lei. Forse quanto ho visto e sentito non era ciò che sembrava, pensò. Poi si portò una mano alla fronte e scosse la testa con rassegnazione. No, non è possibile che io abbia frainteso
La sigaretta ormai era quasi finita. Dane la spense nel posacenere che stava sul davanzale e si scompigliò i capelli con fare annoiato. Un rumore lo destò.

«Hey» sussurrò Catherine, mentre faceva il suo ingresso nella veranda e procurando un leggero e involontario sorriso sul volto di Dane. Lei sorrise a sua volta e si avvicinò al fratello maggiore. Gli poggiò una mano sulla spalla. «Ho sentito ciò che hai raccontato a mamma e papà. Dane, mi dispiace per quello che è successo con Anne». Gli strinse più forte la spalla. «Se magari ti può consolare, è stata così abile da riuscire a raggirare non solo te, ma tutti noi. Era sembrata anche a me una persona affidabile».

«Già» rispose il fratello, lasciando cadere il discorso e abbassando lo sguardo.

Dopo un attimo di silenzio, Catherine sbuffò e con un movimento veloce si inginocchiò al suo fianco e prese tra i suoi palmi piccoli e graziosi le mani più grandi del fratello. «Senti, Dane, io odio vederti in questo stato. Vada a quel paese Anne, a noi non interessa più!».
L'intraprendenza di sua sorella fece nascere involontariamente un sorriso sul volto di Dane. A questo punto Catherine continuò: «Allora, sai che ti dico? Ora ti godrai per bene questa tua vacanza a casa, senza alcun brutto ricordo. Poi prenderai un taxi, tornerai a New York e ti troverai qualcuno che sappia amarti e rispettarti veramente, okay?». Infine, senza aver bisogno di una risposta, si alzò e iniziò a muoversi per la veranda, stringendosi le mani, come era suo solito.
Poi si voltò di nuovo verso il fratello. «Ma stai attento, Dane, anche a chi ti sta attorno. Presta attenzione a ciò che provano gli altri. Forse potresti avere qualcuno molto vicino a te che non aspetta altro che tu lo noti. Te lo dico da persona che la sa lunga su questo. Non è bello essere invisibili». Sorrise impercettibilmente, beandosi per un attimo ancora del ritorno di suo fratello. «Pensaci e osserva, Dane. E ora vieni, torniamo dentro, così ti mostro i miei nuovi disegni».

Angolo Autrice :)

Ah, la cara vecchia Allentown... Non so voi ma io la adoro!

Virgiz01

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Capitolo 14
*** Perché tornare da me? ***


«Eccomi, eccomi» gridò Daniel percorrendo a passo svelto l’appartamento. L’acqua del tè aveva appena iniziato a bollire quando avevano bussato alla porta. L’attore credeva che sarebbe riuscito a versare in tempo l’acqua bollente nella tazza, prima di andare ad aprire, ma la persona alla porta si rivelò assai insistente e bussò un’altra volta, con più forza.

Daniel rimase a bocca aperta, quando sull’uscio si trovò di fronte Dane, sorridente, con le braccia tese lungo i fianchi a sorreggere le proprie valige. Lui era decisamente l’ultima persona che Daniel si sarebbe aspettato di trovarsi di fronte in quel momento. «Perché, perché sei qui?» domandò, incerto.

Dane abbassò lo sguardo e sorrise amaramente. Posso fidarmi di lui?, si chiese. Tornò di nuovo a guardare Daniel. Nei suoi occhi sinceri e limpidi non vide cattiveria o fastidio, ma curiosità e, in fondo, sicuramente un pizzico di disponibilità e bontà.

«Anne mi ha tradito» disse velocemente. «Posso tornare a stare qui?» chiese subito dopo, cercando di cancellare il prima possibile la rivelazione precedente sorridendo in modo forzato e piegando di lato il capo.

Daniel rimase perplesso per un attimo, poi iniziò ad annuire. «Certo, entra pure». Lo osservò mentre si dirigeva verso le camere da letto, poi gli disse: «La tua stanza è ancora libera».

«La mia stanza?» gli chiese Dane ridendo. Si fermò e si voltò per poterlo guardare. «Sembrava piacerti la matrimoniale. Credevo che te la saresti accaparrata. Perché non lo hai fatto?».

«Beh, perché era la tua stanza e perché, insomma…» esitò. Formulò lo stesso pensiero che aveva attraversato la mente di Dane neanche un minuto prima: Posso fidarmi di lui? Sospirò. «Magari saresti tornato» concluse con imbarazzo, oscillando impercettibilmente e spostando il peso da una gamba all’altra. Poi alzò lo sguardo.

L'espressione di Dane, da divertita, diventò seria. Nel suo sguardo passò una velata nota di consapevolezza. «Daniel, tu sapevi che non sarei tornato» sussurrò.

L’altro attore abbassò lo sguardo. «Già» rispose piano. Un attimo di pesante silenzio, poi tornò a guardare l’amico e sorrise. «E tu perché sei tornato proprio qui?» chiese, cercando di sviare il discorso. Dane per un attimo non seppe come rispondere. La situazione era appena stata invertita. «Ci sono un sacco di altri hotel in giro» aggiunse Danel, pensieroso. 

Dane rimase a bocca aperta. Non ci aveva ragionato molto su, prima di decidere di tornare al Residence. Era per lo più andato ad istinto. «Non volevo restare solo» fu l’unica cosa che seppe rispondere. 

«Beh, saresti potuto tranquillamente andare a stare da qualche amico. Hai molti amici, in fondo» insistette Daniel, non con la malvagità di un accusatore, ma con la curiosità di un bambino. «Perché tornare qui?». 
Perché tornare da me?, era la vera domanda.

«Non lo so perché» rispose infine Dane con voce flebile. «Non lo so».

Quella sera si ritrovarono per la seconda volta seduti uno di fronte all’altro, con un bicchiere vuoto che sapeva di alcol in mano, a discutere del più e del meno.

Daniel sentì di star perdendo il controllo. «Ho scritto moltissimo durante il periodo in cui tu ti comportavi da stronzo, sai?».

«Ah, sì? Allora sarò obbligato a leggere qualcuno dei tuoi testi, prima o poi» rispose Dane ridendo. Poi si fece pensieroso e rimase qualche secondo a fissare il fondo del bicchiere che teneva in mano, come se di lì a poco potesse ricomparirvi del whiskey. «Ecco la differenza tra come tu e Anne avete reagito a quel mio brutto periodo. Tu non hai in nessun modo provato a ferirmi. Magari hai veramente un cuore d’oro» disse.

L’altro attore sorrise. 
Dane in precedenza aveva vissuto il dramma di dover scegliere chi tra Anne e Daniel era la minaccia più grande. Ora che sua moglie era uscita di scena, non gli restava che comportarsi in modo più amichevole con Daniel.

Angolo Autrice :)

Col prossimo capitolo iniziano le scene condivise e compare un nuovo, importantissimo personaggio. Chissà.

Virgiz01

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Capitolo 15
*** Il burattinaio ***


Il lavoro era di nuovo cominciato. John, come se fosse stato il primo giorno, con un caloroso discorso diede inizio alle riprese delle scene condivise, cioè a quelle più importanti, che riguardavano i dialoghi principali tra i diversi personaggi.

Daniel quel giorno era insolitamente nervoso. Aveva studiato bene il copione, ma sapeva che presto avrebbe dovuto recitare una scena importantissima per il film, una scena estremamente difficile per lui.

Mentre percorreva a grandi passi il proprio camerino, andando dalla porta all’appendiabiti colmo di vestiario grigiastro e spento che in parte stava indossando per interpretare Allen sul set, si malediceva per aver accettato la proposta che John gli aveva fatto al meeting di inizio dicembre.

Avrebbe potuto giustificarsi dicendo che ormai aveva un posto migliore dove andare, che sapeva già tutto il copione alla perfezione e non aveva il minimo bisogno di conoscere meglio Dane. Perché, dopotutto, che vantaggi gli aveva portato l’altro attore? Nessuno. Solo un pesante stato confusionale.
A periodi, Dane era stato maledettamente antipatico, irritabile e imperscrutabile. Poi tutt’un tratto era tornato dopo un matrimonio fallito e si era comportato come se fossero stati amici da sempre. Aveva forse senso?

Daniel fermò la sua marcia pensierosa di fronte all’appendiabiti. Con le punte delle dita sfiorò la manica di una camicia a quadri. Come se quel tessuto, con una piccola scossa, gli avesse trasmesso il temperamento altalenante del suo ipotetico proprietario originale, Allen, Daniel si sentì improvvisamente debole, confuso, fuori posto.

Dane aveva ragione. I ruoli che un attore interpreta lo possono cambiare nel profondo e deve saper proteggersi, se non vuole rischiare di perdere se stesso. Cosa che Daniel temeva gli stesse capitando.
Si chiese che ne sarebbe stato di lui, finite le riprese. Come sarebbe stato tornare a casa e poi recitare in altri film? Sarebbe rimasto la stessa persona di prima? La sua mente era tutto un groviglio di domande e lui odiava sentirsi così impotente di fronte alla propria mancanza di risposte.

Qualcuno bussò quasi impercettibilmente alla porta del suo camerino. «Daniel, sei pronto?» venne chiamato con gentilezza da una voce dal tono dolce come il miele. Collegò in un attimo quella voce a Sarah, una ragazza dello staff che aveva il compito di raggiungere i diversi attori nei loro camerini quando erano richiesti dal regista e accompagnarli sul set su cui erano attesi. Una tuttofare, in poche parole. Di certo, per la precisione e la laboriosità che sicuramente la contraddistinguevano, aveva il rispetto di Daniel. Lui le aveva parlato rare volte, ma aveva comunque potuto avere un assaggio del sorriso e della gentilezza contagiosi di quella ragazza.

«Sì, eccomi» rispose prontamente l’attore. Il nervosismo di qualche minuto prima appena mandato giù grazie alla voce di Sarah, una zolletta di zucchero per la sua mente confusionale.

Daniel si aggiustò quasi involontariamente gli abiti da giovane laureando che indossava e aprì frettolosamente la porta del camerino. Lo accolsero due grandi e vispi occhi marroni, coperti solo da trucco leggero, ma comunque accurato. I capelli di Sarah erano lunghi e neri, incredibilmente lisci, e la sua pelle era così bianca da sembrare fragile come la porcellana. Di certo era una ragazza di bell’aspetto, piacevole allo sguardo.

Quel giorno Daniel non recitò con Dane, ma nelle scene che John girò, il personaggio di Lucien era onnipresente. C’erano riferimenti a lui nei dialoghi, se ne sentiva la pesante influenza nella mentalità e nelle azioni degli altri personaggi.
Sarebbe potuto passare facilmente per il protagonista del film, nonostante non lo fosse. Dopotutto, era un burattinaio e come tale gli piaceva essere al centro dell’attenzione. Si divertiva coi burattini a sua disposizione, ammaliati dalla sua bellezza, a lui devoti. Per una notte li faceva sentire importanti e il giorno dopo li abbandonava. Noi siamo coloro di cui ha bisogno ma che non vuole mai, diceva la battuta di David, un personaggio del film.

Nessuno aveva il permesso di accedere alla mente del burattinaio, alle sfumature più recondite del suo animo. Nel film, il protagonista ci tentava, ma le sue azioni gli si ritorcevano contro, come corde trasformate in vipere. 
Lucien, l’inafferrabile, l’effimero e dannato Lucien.

Per quel giorno, però, Daniel riuscì a non pensarci più di tanto. Finite le riprese della giornata, fuori dalla Columbia University, ad attenderlo c’era Sarah, intenzionata a percorrere con lui un pezzo di strada. 
Quando giunsero al Residence, per un attimo, mentre Sarah si dirigeva verso la metro e poi si voltava per salutarlo un’ultima volta con un cenno di mano, Daniel scorse nel sorriso della ragazza il luccichio di un possibile nuovo inizio.

Angolo Autrice :)

Heioo persons! 
Sono molto molto molto curiosa di sapere che ne pensate di Sarah. Che idea vi siete fatti dalla descrizione? Secondo voi che ruolo avrà nella storia? 

Virgiz01

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Capitolo 16
*** Innocente e amabilmente puro ***


Dire che Dane si limitava a osservare con sguardo annoiato le interazioni tra Daniel e Sarah, era mentire. Lui le spiava con profondo interesse. Chiunque sarebbe riuscito a comprendere l’origine della sua curiosità, tranne lui stesso. Dane ostentava a non darle una definizione. Seguiva l’istinto e basta, senza neppure essere consapevole che, prima o poi, i nodi sarebbero giunti al pettine. Inevitabilmente.

Però, se c’era una cosa che capiva benissimo, era che tra i due stava nascendo qualcosa. Anche un cieco l’avrebbe capito. Durante le pause tra una ripresa e l’altra, Daniel cercava Sarah con lo sguardo e quando i suoi occhi incontravano quelli di lei, entrambi sorridevano. Se Sarah aveva da fare, Daniel la salutava soltanto, con un gesto leggero della mano, se invece era libera, cioè senza persone da accompagnare da qualche parte al suo fianco, le si avvicinava.

Dei loro dialoghi Dane aveva ascoltato solo pezzetti che, inoltre, riteneva alquanto banali e noiosi. Frasi come: Allora, tutto bene?, e risposte simili a Sì, fila tutto liscio come l’olio. Dane veramente non sapeva come facessero a conversare. Attaccare bottone con frasi del genere era come fallire in partenza. Ti lasciano con la mente vuota e con un imbarazzo terribile. Nonostante questo, Sarah riusciva a uscire sempre da quelle situazioni insoddisfacenti con un sorriso.

A Dane lei non andava a genio, anche se il leggero disprezzo nei suoi confronti, in realtà, non aveva fondamenti ragionevoli. Era ancora tutta colpa del suo istinto. Forse anche del suo cuore. Dopotutto, la gelosia proviene da lì.

Semplicemente, quando avrebbe dovuto compiacersi del fatto che al mondo esistono persone gentili, cordiali e simpatiche come Sarah, Dane non riusciva a non vedere i gesti e le parole della ragazza come appiccicosi. Gli pareva la caricatura sdolcinata di un film. La sua mente era annebbiata da sentimenti che lui stesso rifiutava di accettare e vagava nel vuoto, sferrando i suoi colpi senza pensare a conseguenze.

Qualunque cosa, pur di mantenere l’attenzione di Daniel puntata su se stesso.

Ciò lo appagava molto. Durante le scene che in quei giorni condivise con il compagno di appartamento sul set, Dane cercava di rendersi più desiderabile possibile. Era avvantaggiato, dal momento che il personaggio che rappresentava altro non era che una prima donna. Gli calzava a pennello.

E poi lui era bravo in queste genere di cose. Col suo sguardo magnetico, Anne e molte altre prima di lei gli erano cadute ai piedi. Non sarebbe stato così difficile con Daniel. In fondo, Daniel era malleabile come l’argilla, sotto questo punto di vista. Innocente e amabilmente puro, lo definiva tra sè e sè Dane, di tanto in tanto.

Questi pensieri lo facevano sentire quasi superiore. Era tutto un gioco e lui si stava divertendo moltissimo.

Se guardava la questione da un altro punto di vista, poteva quasi ammettere che Daniel lo stava involontariamente aiutando, dandogli un diversivo per dimenticare il passato e riscattarsi, dopo ciò che Anne gli aveva fatto.
Un giorno lo avrebbe ringraziato.

Angolo Autrice :)

Eh già. Un altro capitolo "di transizione". Ma finiranno maii???😅

Virgiz01

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Capitolo 17
*** «Cos'è quel sorriso sfacciato?» ***


«Sei mai stato da Nancy’s?» chiese Sarah, con un sorriso smagliante. Daniel si prese un attimo per scandagliare la propria memoria visiva, alla ricerca di un luogo che riportasse quel nome. Non trovò nulla.

«Non credo, sai? Il pranzo lo facciamo tutti insieme qui e la sera spesso rimango al Residence, per cena» rispose.

«Chiuso in appartamento, solo soletto, tutte le sere» lo canzonò Sarah ridendo. Gli occhi di un bambino. 

Daniel rise con lei e in seguito tra i due calò un silenzio imbarazzato. Io non sono solo, pensò per un momento. Poi, con un’espressione interessata, chiese «Dove si trova questo Nancy’s?».

«Oh» sussurrò Sarah, leggermente incredula per l’interessamento di Daniel. «E' qui vicino, qualche incrocio oltre Starbucks» disse con voce improvvisamente allegra. 

Daniel rifletté su cosa rispondere. Era arrivato il momento che aspettava da tanto. Aveva a portata di mano l’occasione di dare una svolta alla sua situazione attuale di ragazzo solo, unicamente dedito al lavoro. Decise di agire. «Potremmo andarci insieme, uno di questi giorni» disse, mostrando un sorriso timido. Prese un profondo respiro, per prepararsi alla fatidica domanda: «Sei libera domani sera?».

Le sue parole rimasero nell’aria per un po’ di tempo e Daniel quasi temette di aver fatto la mossa sbagliata. 
Sarah era ammutolita, stupita, e lo teneva inconsapevolmente sulle spine. Poi arrossì e abbassò lo sguardo. «Sì» sussurrò, alzando lo sguardo per mostrare un sorriso velato, volutamente contenuto. «Sono libera domani sera».

Daniel, quando tornò al Residence a fine riprese, si sentiva incredibilmente felice. Aveva un appuntamento, ora. Era da molto tempo che non gli capitava. 
In effetti il lavoro gli era sempre parso la cosa più rilevante. Quasi inconsciamente lui lo aveva gonfiato d’importanza, col passare degli anni, finché esso era passato sopra a tutto il resto.

Daniel se ne accorse solo allora. Forse era stato il sorriso di Sarah o magari i suoi modi gentili, ad offrirgli un’uscita dal vortice in cui era stato a poco a poco coinvolto recentemente.

Mentre vagava allegramente per l’appartamento, continuava a chiedersi, senza trovare risposta, come avesse fatto Sarah ad aiutarlo. Magari era stato una sorta di click psicologico o qualcosa di simile. Le risposte che riusciva a dare alle proprie domande erano assai vaghe, ma in quel momento questo non lo turbava come al suo solito. Si sentiva infinitamente sereno.

«Cos’è quel sorriso sfacciato?».
Daniel si voltò di scatto e prese quasi paura, perché si trovò di fronte Dane con un sorriso divertito sul viso.

Daniel arrossì quasi e abbassò subito lo sguardo, come un bambino timido scoperto dalla mamma a cantare sotto la doccia o a fare qualche stupidaggine. «Nulla» sussurrò, trattenendo a stento il sorriso.

«Sì, come no» rispose Dane, mentre si allontanava, continuando a fissarlo con uno sguardo indecifrabile. La felicità di quel ragazzo lo incuriosiva all’estremo. Iniziò a camminargli attorno, osservando la sua preda. Poi abbassò lo sguardo e cominciò a pensare a qualcosa che potesse giustificare la felicità di Daniel.
Esaminò varie opzioni, con calma, una per ogni passo, ma quando giunse alla più appropriata, una dolorosa consapevolezza fece appassire il suo sorriso. Sarah. Si trattava sicuramente di Sarah. Si fermò, a qualche metro dall’altro attore. «Un appuntamento» disse ad alta voce, più a se stesso, che a Daniel.

Daniel alzò le sopracciglia, leggermente stupito. «Ehm… proprio così, domani sera» rispose. Dane non alzò lo sguardo, ma sapeva con certezza che Daniel aveva un’espressione imbarazzata, che un piccolo sorriso aleggiava sul suo volto e che aveva iniziato a grattarsi la nuca, in un gesto quasi involontario.

«Bene» disse Dane con voce fredda, dopo un attimo di silenzio. «Se mi cerchi, sono nella mia stanza» aggiunse, allontanandosi da Daniel e lasciandolo in confusione, a riflettere sulle parole dette e su quelle non dette.

Sarah, Sarah e ancora Sarah, pensò Dane, mentre si chiudeva alle spalle la porta della camera. Possibile che io mi faccia mettere i piedi in testa da quella ragazza?, si chiese, buttandosi a peso morto sul letto, imbronciato. Provò rabbia. Non la stessa rabbia che gli aveva riempito il petto la sera che aveva scoperto Anne con l’amante. Una rabbia meno consistente, ma comunque irritante. Per un attimo, si rese conto che ciò che realmente stava provando era gelosia.

Non aveva la minima intenzione di rimanere al Residence a girarsi i pollici, l’indomani sera. Nulla poteva frapporsi fra lui e la sua preda.

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Capitolo 18
*** Impazzire ***


Ogni cosa era perfetta.
L’atmosfera era piacevolmente calma. Delle candele profumate spargevano nel ristorante gradevoli aromi e la musica di sottofondo risuonava piacevolmente nell’ambiente.

Gli occhi di Sarah brillavano, nonostante la luce all’interno del Nancy’s fosse fioca. Da quando lei e Daniel si erano incontrati fuori dal locale, un sorriso sincero non aveva più abbandonato il suo viso. Era raggiante, nella sua camicetta chiara e leggera, decorata sul decoltè da qualche piccola gemma ambrata.

Daniel, mentre cenavano e dialogavano, la osservava in modo discreto, scoprendo ogni volta un particolare nuovo, che la rendeva sempre più interessante.

«Allora, ti piace questo posto?» chiese Sarah, prendendo un sorso di vino dal suo calice e cercando di mascherare il suo leggero imbarazzo, in attesa della risposta di Daniel.

«Sì, lo adoro. Il locale è veramente bellissimo e il cibo è uno dei più buoni che io abbia mai mangiato qui negli USA».

Sarah rise di gusto, poi posò il calice sul tavolo con un movimento lento e che manifestava una ritrovata tranquillità «Ne sono contenta» rispose semplicemente.

Ci fu un attimo di silenzio tra i due, quando giunsero a quel vicolo cieco nella conversazione. Dall’altro lato del locale, intanto, un pianista vestito di bianco suonava una melodia allegra e poco impegnativa che lasciava spazio anche al chiacchiericcio dei commensali e ai rumori delle posate che cozzavano tra loro quando venivano poste sul tavolo.

La serata procedette in questo modo: dialoghi e poi momenti di silenzio. In quegli attimi, l’imbarazzo sembrava sovrastare tutto il resto. Non era un imbarazzo completamente negativo, dopotutto entrambi sorridevano, ma era comunque una tensione che li bloccava e loro non avevano il coraggio di liberarsene.

Daniel avrebbe descritto quella situazione come un’altalena che oscillava tra lui e Sarah e che nessuno dei due riusciva a fermare senza un enorme sforzo. Infatti, l’inizio di una nuova conversazione che faceva seguito al silenzio, pareva ogni volta quasi forzata. Tuttavia Sarah sembrava non accorgersene e questo rasserenò Daniel.

Inoltre, Daniel colse l’occasione per raccontare a Sarah dei suoi incubi. All’inizio riteneva che fosse un argomento troppo privato ed era alquanto indeciso sul da farsi, ma alla fine si convinse a parlargliene. Dopotutto, se quello era veramente il principio di una possibile relazione duratura, come Daniel sperava, certe cose era meglio raccontarle subito. Cercò di essere il più vago e discreto possibile, senza far sembrare il tutto un problema di stato, ma solamente una sua fastidiosa caratteristica. Sarah si dimostrò estremamente comprensiva ed espresse la speranza di un cambiamento della situazione.

Passo dopo passo, giunsero alla fine della serata. Dopo un giocoso battibecco, Daniel riuscì finalmente a pagare il conto. Si stavano entrambi apprestando a uscire dal locale, quando Daniel decise di agire. Era del tutto inconsueto per lui abbandonarsi ai consigli della parte irrazionale della sua mente, che continuava a ripetergli Agisci. Sei qui per ottenere dei risultati, ma in quel momento decise semplicemente di lasciarsi andare.

Un attimo prima che Sarah uscisse, fece un profondo respiro e con tocco leggero le prese la mano. Lei si voltò e si riavvicinò, allontanandosi di un poco dalla porta. Lo guardò con quei suoi grandi occhi marroni e sfoggiò un sorriso che trasudava fervida attesa. Non le erano sfuggite le loro mani intrecciate.

Daniel fece un secondo profondo respiro. Posò la mano libera sulla guancia di Sarah e la sentì emozionarsi sotto il suo tocco. Tremava impercettibilmente. Lei dischiuse le labbra lucide e scure, poi serrò gli occhi. Daniel capì che quello era il momento del bacio. Deglutì e avvicinò lentamente il proprio volto a quello di Sarah.

Decise di non chiudere gli occhi. Voleva osservarla sotto una luce diversa, in quel momento. Ma non gli fu possibile. 
Mentre le loro labbra stavano per congiungersi, l’attenzione di Daniel fu richiamata da un volto familiare, che poteva scorgere oltre la spalla di Sarah.

Dane era seduto a un tavolo poco lontano, solo, in un angolo del locale, e lo fissava insistentemente, con uno sguardo magnetico. I suoi occhi solitamente chiari, per via della scarsa luminosità dell’interno del ristorante, erano scuri e liquidi. Stava sorridendo. 

Daniel si sentì vacillare, quando, senza smettere di guardarlo, Dane si morse il labbro inferiore. In quel momento i battiti del cuore di Daniel sembrarono raddoppiare. Non riuscì a trattenere un respiro, che rimbombò rumorosamente tra il suo corpo e quello di Sarah. La presa che aveva sulla sua mano cedette e il loro ultimo contatto si sciolse. Lei se ne accorse e aprì gli occhi.

«Daniel?» lo richiamò con la voce tentennante, che a malapena riusciva a nascondere la sua evidente nota interrogativa.

Il ragazzo la guadò con incertezza, incontrando il suo sguardo turbato, poi tornò a posare gli occhi su Dane. L’espressione del compagno d’appartamento era seria ora, era interessato alla svolta che aveva preso la situazione. Il suo sguardo sembrava dire tutto e niente allo stesso tempo e confondeva Daniel ancora di più.

«Cosa c’è?» insistette Sarah. Sembrava non essersi accorta della presenza di Dane. 

«Io…» sussurrò Daniel. Non sapeva cosa dire per aggiustare la situazione. Perché era quella la cosa giusta da fare, no?
La guardò di nuovo, studiandola con sguardo perso. La camicetta che indossava le donava molto. Gli orecchini brillanti che portava sembravano far risplendere il suo volto. L’acconciatura complessa con cui aveva raccolto ordinatamente i capelli le lasciava scoperto il collo sinuoso.

Nonostante la sua espressione confusa, era bellissima. 
Nulla stonava o osava eccessivamente. Era la perfetta, impeccabile, brava ragazza.

Ma è realmente quello di cui ho bisogno?, si domandò Daniel. Dove sono i fuochi d’artificio, i colpi al cuore? 
In quel momento, nonostante tentasse di sforzarsi, non riuscì a provare nulla di speciale. Nessuna favilla, niente che lo facesse andare fuori di testa per lei. Solamente pura e semplice ammirazione.

«Mi dispiace» sussurrò Daniel in un sospiro. Lanciò un’ultima e veloce occhiata, una sorta di richiesta d’aiuto, a Dane che nel frattempo lo osservava con uno sguardo improvvisamente apatico. Poi corse fuori dal locale.

Sarah rimase immobile a fissare la porta da cui Daniel era appena uscito. Non disse nulla, non provò neppure a seguirlo. Non riusciva a capire cosa gli fosse preso. L’aveva lasciata lì, dopo averle fatto intendere, coi suoi gesti, di ricambiare un sentimento che lei sentiva di provare da molto tempo. Era confusa, maledettamente confusa.

E anche Dane lo era. Aveva programmato ogni cosa, ma la fuga di Daniel non l’aveva minimamente immaginata. Decise di improvvisare. 
Si alzò, scrollandosi ogni preoccupazione di dosso e si aggiustò i capelli, preparandosi per andare a riscuotere il risultato che tanto aveva agognato.

Compì velocemente i passi che lo separavano dalla porta del locale, camminando con agilità tra i tavoli gremiti di persone troppo occupate a dialogare per accorgersi del suo furtivo passaggio. Quando giunse di fronte a Sarah, lei lo guardò. Dane non diede peso al suo volto spento o ai suoi occhi che erano sul punto di lasciarsi andare a un pianto che le avrebbe trascinato via il trucco e prima di uscire le sorrise.

Era un sorriso che però nulla aveva di rassicurante, anzi, che rasentava un ghigno vittorioso in cui spiccava un pizzico di superbia. Tanto terribile, quanto necessario, a detta di Dane.

Fuori dal locale, lo colpirono l’aria fredda e il fragore della strada, un miscuglio di rumore di motori e di clacson, completamente contrastante rispetto alla dolce e carezzevole atmosfera del Nancy’s.

Dane si guardò attorno, alla ricerca di Daniel. Il suo sguardo si protese il più lontano possibile, tra le poche persone che popolavano le vie e tra coloro che, sul ciglio della strada, attendevano impazienti l’arrivo di un taxi. Ma del compagno di appartamento non c’era traccia. Dane era sul punto di chiamare anche lui un taxi, per tornare al Residence e cercare Daniel lì, quando sentì in lontananza la voce dell’altro attore imprecare: «Dannazione!»

Percorse interamente il viale in cui era ubicato il Nancy’s e, arrivato all’angolo in cui la strada terminava, si fermò. Daniel era sicuramente dall’altra parte. Dane lo sentiva borbottare ad alta voce.

Quando decise di svoltare l’angolo, se lo trovò di fronte, seduto sui gradini dell’ingresso di un appartamento, mentre fissava la strada e scuoteva la testa. Daniel si sentiva così maledettamente fragile, in balia delle provocazioni di Dane. Neppure lui stesso riusciva a capire il proprio comportamento.

Dane ebbe quasi compassione per lui, vedendo la sua espressione così confusa, e si lasciò sfuggire in un sussurro titubante: «Come stai?»

Daniel lo guardò, inizialmente stupito per la sua presenza, poi ostentando un’espressione severa e inusualmente determinata che non aveva più nulla a che vedere con l’ultimo sguardo languido che gli aveva rivolto nel locale, prima di correre via. 
«Come credi che stia?» rispose acido. «Se sei umano e hai un cuore, dimmi tu come credi che stia» aggiunse con rabbia. A quel punto non c’era più nulla a frenare le sue parole.

Dane strinse i pugni, accettando in silenzio la pesante critica. Non sapeva per quanto altro tempo sarebbe riuscito a resistere, ma decise di non dire nulla e di concedere a Daniel l'opportunità di moderarsi da solo.

«Ho appena rovinato tutto, ed è solo colpa tua!» aggiunse invece quest'ultimo, rincarando la dose.

Dane sentì che la goccia che fa traboccare il vaso era appena caduta. La sua espressione mutò completamente. «Colpa mia?» chiese, stupito della determinazione di Daniel.

«Proprio così. Sono stanco dei tuoi giochetti. Se tu non fossi stato lì, sarebbe andato tutto liscio» rispose Daniel. Dane scoppiò a ridere. L’altro lo guardò sprezzante. «Cosa c’è di tanto divertente?» chiese, alzando la voce. Non sopportava il fatto di non riuscir mai a capire completamente quel ragazzo.

Dane non si scompose eccessivamente. Attenuò di un poco le risa ed esclamò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo: «Non dirmi che l’avresti veramente baciata!»

Daniel sgranò gli occhi. «Perché diavolo non avrei dovuto?»

«Oh, andiamo! Siete entrambi così timidi che incespicate continuamente nel vostro imbarazzo. Neppure riuscite a mettere insieme una conversazione decente» rispose Dane.

«Una relazione non si basa solo sulla conversazione» rispose l’altro, con un filo di voce, abbassando lo sguardo, prendendo atto del fatto di non potersi difendere dalla constatazione di Dane, senza dubbio veritiera.

«Su questo non hai tutti i torti» disse Dane, sorridendo complice, come se Daniel avesse appena fatto una battuta. «Ciò non toglie che lei non è la persona giusta per te».

Daniel si alzò e lo raggiunse. «Come puoi dirlo? Lei è sempre gentile, serena, bellissima». Il suo sguardo si affievolì mentre sfogliava i ricordi di Sarah. Prese un profondo respiro e indossò nuovamente la sua maschera di rabbia. «Sentiamo, saputello, cos'ha Sarah che non va?»

Dane si avvicinò, portando il suo viso a mezzo metro scarso da quello dell’altro. Sentiva le gambe farsi gelatina, ma non lo diede a vedere e continuò a sorridere. In cuor suo sperò che Daniel non lo respingesse e quando vide l'altro che non dava segno di volersi allontanare, sussurrò con voce calda «Lei non ti fa impazzire, dico bene?»

Daniel non disse nulla. Non riusciva neppure a muoversi. Gli occhi magnetici di Dane lo tenevano incatenato, completamente immobile. Si sentì mille volte più fragile di quanto non si era mai sentito, ma questa sensazione non si trasformò in rabbia e frustrazione, bensì in un meraviglioso senso di abbandono.

In quegli attimi sapeva che, se anche si fosse trovato sull’orlo di un dirupo, non gliene sarebbe importato nulla, dal momento che sì, Dane lo avrebbe sicuramente salvato.

Angolo Autrice :)

Buongiorno a tuttiii!
Spero che il capitolo vi abbia fatto sclerare a dovere ;)

Virgiz01

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Capitolo 19
*** Angelo bianco ***


Se c'era una cosa che Daniel aveva chiaramente capito quella sera fuori dal Nancy's, era che Dane sarebbe stato sempre incredibilmente bizzarro.

Non era successo nulla di ciò che si era immaginato. Alla fine, Dane aveva solamente spezzato l'attimo allontanandosi con un sorriso vittorioso in volto. «Andiamo» aveva detto, prima di dirigersi verso la strada principale, in cerca di un taxi.

Di norma, Daniel avrebbe odiato quella situazione, dal momento che aveva detto chiaramente a Dane di essere stufo dei suoi giochetti. Ma, superata la confusione iniziale, non poteva negare di aver apprezzato le azioni di Dane, il quale dopotutto aveva due importanti caratteristiche che Sarah invece neppure rasentava: la complessità e l'imprevedibilità.

Perché sì, quella sera, mentre si guardavano come se la loro salvezza dipendesse da uno sguardo e quando Dane sussurrò quelle ultime parole calde, Daniel sentì distintamente i fuochi d'artificio e i colpi al cuore che non aveva provato quando era stato sul punto di baciare Sarah.

Quella notte, il suo letto sembrò trasformarsi in dura pietra, anche se in realtà l'unica cosa scomoda nella stanza di Daniel era la sua mente, che macinava continuamente pensieri e domande.

Quanto era accaduto quella sera e ciò che aveva provato non gli fecero chiudere occhio fino a notte inoltrata. Decise comunque di non alzarsi e di rinunciare a una tazza di tè caldo, alla maniera inglese, perché era quasi sicuro che Dane fosse in salotto.

La sua non era solamente una semplice percezione. L'aveva sentito camminare nel corridoio, verso le due di notte.
Aveva provato a captare qualche rumore, ma Dane era silenzioso e Daniel dovette cedere al sonno, prima di poterlo sentir tornare alla sua camera.

Quella notte a maggior ragione di altre, Dane non aveva potuto fare a meno del suo goccio di whiskey. Sto proprio cadendo in basso, pensò, mentre svuotava l'ennesimo bicchiere. Devo darci un taglio o finirò sul ciglio di chissà quale strada.

Facile a dirsi ma difficile a farsi. Quella notte il famoso detto sembrava proprio volerlo sopraffare.

Era stato sul punto di baciare Daniel quella sera, in quella strada deserta, ne era sicuro. Ma qualcosa lo aveva fermato. Orgoglio? Superbia? Oppure paura?

Anne. Per un attimo il volto di sua moglie gli tornò in mente. Era il giorno del loro matrimonio e lei indossava quel meraviglioso vestito bianco che accentuava le curve delicate del suo corpo. Stavano ballando e lei, mentre volteggiava sulla pista da ballo, gli sorrideva, come se fosse il suo miracolo più grande.

Mentre invece non ero niente, rispose allo sguardo di lei, cercando di relegare quell'immagine nel più lontano e angusto angolo della sua mente, ma con scarsi risultati. Il ricordo di quell'angelo bianco continuava a scorrergli davanti agli occhi, in una danza quasi diabolica che non voleva lasciarlo andare.

Come ho potuto, in così pochi giorni, averla già dimenticata? Come ho potuto scordare il suo sorriso, la sua voce, il suo corpo
Guardò la fede al proprio dito. Si sentì un verme, per essersi pericolosamente avvicinato a Daniel quando Anne era ancora là fuori ed era ancora sua moglie.

Provò l'irrefrenabile bisogno di vuotare tutta la bottiglia di liquore, ma riuscì a trattenersi, con grande difficoltà, portandosi le mani al volto e reprimendo un leggero gemito di frustrazione.

Dopo un po' si passò le mani fra i capelli e sospirò. Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e compose il numero di Anne. Si bloccò prima di avviare la chiamata, tutta la determinazione di un attimo prima scomparsa, perduta in un battito di ciglia.

Dopo lenti e interminabili minuti, Dane alzò lo sguardo. Guardò la luna, che svettava piena e silenziosa fuori dalla finestra. Qualunque cosa fosse successa, lei avrebbe continuato a splendere. 
Ripose il cellulare in tasca.

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Capitolo 20
*** Primo pensiero, miglior pensiero ***


L’aria era insolitamente fredda, quella notte, e perfetta per le riprese. Il cielo era di un nero torbido. Non c’era traccia della luna o di qualche stella solitaria, solo le luci a intermittenza di occasionali aerei, miseri puntini rossi lampeggianti nel buio.

Il Riverside Park era deserto, i visitatori della sera erano stati tutti gentilmente allontanati. John vagava a passo svelto tra lo staff e la strumentazione disposta ordinatamente sul prato del parco. Il set era quasi pronto.

Daniel era seduto su una panchina e si torceva le mani. Eccolo, era arrivato il momento di girare una delle scene del film che più lo spaventavano. Ripeté sotto voce le sue poche battute.

Poco lontano da dov’erano tutti indaffarati a preparare il set, Dane stava fumando una sigaretta, mentre guardava lo Hudson River, nero come il cielo e impossessato da un leggero tumulto, che fluiva lentamente oltre il parco. Sentiva il freddo pungergli le ossa, il vento leggero scompigliargli i capelli. Aveva paura? Non poteva negarlo.

Avrebbe tanto voluto abbandonare tutto e tutti, per tornare ad Allentown, alle sue origini, a quei tempi durante i quali in testa aveva solamente la spensieratezza, a quei tempi in cui i sentimenti e le domande senza risposta non lo scalfivano, perché facevano parte del suo futuro e non del suo presente. Ed erano lontani, così lontani da lui.

Ma ora c’era dentro, a quel casino. E non aveva la minima idea di dove partire per sanare le proprie ferite e liberarsi dalla gabbia che il suo stesso cuore gli aveva costruito attorno.

«Siamo tutti pronti? Allora iniziamo. Dov’è Dane?». La voce di John gli giunse alle orecchie come una condanna. Spense la sigaretta sul terriccio umido di un’aiuola, poi lasciò lì il mozzicone con un gesto di noncuranza e si avvicinò al set. Daniel e un altro attore di nome Jack erano già lì. Le scene da girare erano relativamente poche, ma complicate. John riassunse velocemente tutto ciò che dovevano fare.

Le riprese iniziarono con Jack, Dane e Daniel che camminavano nel parco. Jack era completamente ubriaco, a differenza degli altri due, che lo erano solo leggermente e, ad un certo punto, disse «Che ne pensate di fare una gara? Chi, rotolando giù da questa collinetta riesce a raggiungere l’Hudson, vince una notte con Edie» detto questo fece un lungo tiro di spinello.

Dane iniziò a ridere. «Tu sei pazzo, ma ci sto. Comunque te ne pentirai da morire da sobrio perché stanne sicuro, la tua fidanzata la vincerò io».

Daniel era silenzioso e osservava Dane, chiedendosi come facesse a essere così sciolto e noncurante di quanto aspettava entrambi. Ma, in fondo, non c’era nulla da stupirsi. Era un bravo attore.

Dovettero ripetere questa scena un paio di volte. Aveva iniziato a piovere e Jack aveva dimenticato una frase del copione. La scena seguente si rivelò molto più complicata.

Di prassi, Jack sarebbe dovuto rotolare giù dalla collinetta dentro una botte e avrebbe dovuto fermarsi qualche metro prima di cadere nello Hudson River, perdendo la scommessa. Era già stato organizzato tutto, attraverso un paio prove, in modo che la botte si fermasse in un determinato punto. Ma l’incognita della pioggia mise tutto in discussione. A causa dell’erba bagnata che non poteva più offrire l’attrito sufficiente, la botte sarebbe di sicuro finita nel fiume.

John, i tre attori e coloro che avevano organizzato il set si riunirono vicino alla cinepresa principale. «Allora, la pioggia è un impedimento che non avevamo calcolato. Quindi, qualcuno vuole avanzare delle proposte per risolvere il problema?» chiese John, cercando di mascherare la preoccupazione e la frustrazione evidenti nei suoi occhi stanchi.

«Ci vuole qualcosa che rallenti la discesa della botte» asserì una ragazza dello staff che indossava dei severi occhiali neri e i cui lunghi capelli biondo cenere erano legati in una coda di cavallo dalla quale non sfuggiva neppure un ciuffo. Daniel pensò che era quasi inquietante, barricata nella sua austerità.

«Non avete a disposizione una sorta di miscuglio chimico o qualcosa di simile?» chiese Jack.

John si lasciò sfuggire una risatina. «Non siamo mica dei Man In Black» rispose poi serafico, senza rivolgere neppure uno sguardo a Jack. «Nè abbiamo il potere di schioccare e dita e ottenere magicamente qualche bizzarra sostanza che possa risolvere il problema all’istante».

Jack abbassò lo sguardo, improvvisamente disinteressato e Daniel si chiese se si fosse offeso o se avrebbe lasciato correre, giustificando il comportamento di John con la situazione spinosa che si era andata a creare.

«Magari possiamo usare della segatura o creare dei finti rilievi naturali che rallentino la botte» rilanciò la ragazza bionda.

«Probabilmente ne aumenterebbero la velocità» rispose rapido Dane. La voce spenta, lo sguardo fisso nel vuoto.

«Perché non rendiamo tutto più semplice?». Fu un giovane della troupe a spezzare il silenzio gravido di dubbi e di un pizzico di sconsolazione. Era molto magro e di bassa statura, ma i suoi occhi erano luminosi e celavano una vivace intelligenza. La sua voce era piacevolmente leggera.

«Potremmo creare due scene distinte» propose. Attese di aver attirato l’attenzione di tutti i diretti interessati, prima di continuare: «Come prima scena mostriamo Dane che spinge giù la botte dalla collinetta e riprendiamo per un breve tratto la discesa. Poi fermiamo la botte e la portiamo lentamente più in basso, dove la superficie è quasi piana, in modo da evitare la parte in cui la botte prenderebbe una velocità eccessiva, dopodiché riprendiamo solo la parte finale della discesa» spiegò, gesticolando per far comprendere meglio ogni concetto. «Inoltre, per rendere l’idea del tempo della discesa che scarteremo, potremmo inserire tra le due scene un mezzo busto su Dane e Daniel, per mostrare la loro reazione».

Tutti si presero un attimo per riflettere sulla nuova idea. «Fantastico» sussurrò John «Su, dai, prepariamoci!»

Il regista richiamò a sé lo staff e scelse un gruppo di persone con cui portare a compimento la proposta del ragazzo dagli occhi vispi. Fecero qualche prova e si affrettarono, dato che il buio della notte stava diventando sempre più pesante. Quando tutto fu pronto, le riprese poterono ricominciare.

Appena la botte arrivò in fondo alla collinetta e si fermò, Jack chiese: «Allora, ho vinto?» la sua voce era spossata e rimbombava contro le pareti di legno.

Dane rise di gusto, per farsi sentire anche da Jack, che doveva apparire mezzo stordito dall’alcol, e gridò, con un sorriso sornione in volto: «No. Hai perso!»

Jack uscì dalla botte barcollando. «Vaffanculo!» rispose a gran voce, prima di piegarsi in due e cadere a terra addormentato.

«Oh» sussurrò Dane storcendo il naso. «Il grande poeta è trapassato!» disse poi, facendo ridere anche Daniel. Poi lo guardò. «Ora tocca a te» gli intimò a bassa voce.

«Cosa? No!» esclamò l’altro, ridendo. 

In risposta, Dane appoggiò il capo sulla spalla di Daniel. Il sorriso non dava segni di voler abbandonare il suo volto. «È tutta colpa tua» sussurrò. Il suo non sembrava un rimprovero, ma bensì un pensiero alcolico detto con leggerezza ad alta voce. «Tutta colpa tua» ripetè.

Daniel deglutì. Era arrivato il momento. Si guardò attorno, per controllare che non ci fosse nessuno nelle vicinanze e che Jack fosse ancora svenuto.

Il cuore gli batteva senza sosta, mentre cercava di riordinare i pensieri e di prepararsi psicologicamente a qualcosa che mai in passato aveva provato. La paura era forte, condensata nel suo stomaco. Era presente anche nella sua mente e la faceva correre senza sosta, alla ricerca di ossigeno. Raggiunse le sue dita e le scosse in un tremito, mentre si sporgeva a sfiorare la guancia di Dane, per attirarne l’attenzione.

Fu un attimo e gli occhi di quest’ultimo si fissarono su di lui. Per un momento, Daniel valutò la possibilità di fare un passo indietro, di prendersi altro tempo. Ma attorno a lui c’erano molte persone che si aspettavano una recitazione perfetta e si era ripromesso di non deluderli.

Lo sguardo di Dane gli parve quello di un bambino, incosciente di quanto gli accade attorno, ma curioso di scoprirlo. I suoi occhi esprimevano una domanda dalle sfumature chiare, che scavava dentro Daniel alla ricerca di risposte.

Il ragazzo deglutì. «Primo pensiero, miglior pensiero» sussurrò nell’avvicinarsi lentamente a Dane e baciarlo.

Angolo Autrice :)

Forse il capitolo che tutti aspettavano (?) 😂

Virgiz01

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Capitolo 21
*** «Perdonami» ***


Ma allora le coincidenze esistono veramente, pensò tra sé e sé Daniel, mentre si guardava attorno. Si trovava per la seconda volta all’interno del Nancy’s.

C’era qualche differenza rispetto alla prima volta in cui era stato lì, naturalmente. Quel giorno era accaduto di sera, mentre adesso era l’ora di pranzo. Il tavolo presso cui sedeva in quel momento non era lo stesso, anzi, era due volte più grande. Ma soprattutto, non c’era Sarah con lui.

Si trattava di un pranzo di lavoro, questa volta. John voleva fargli conoscere alcuni suoi amici e colleghi che stavano partecipando indirettamente alla creazione del film.

«Allora, conosco già l’opinione di John, quindi lo domando anche a te, Daniel: come ti sembra stiano andando le riprese?» chiese uno dei signori seduti a tavola. Daniel non ricordava con precisione il suo nome, ma con molte probabilità era Patrick.

«Uhm, molto bene. Fra poche settimane finiremo le riprese, poi inizieranno ad assemblare il tutto. Abbiamo incontrato qualche difficoltà con alcune riprese, ma lo staff è sempre pronto a rimediare» rispose con voce piatta.

«I fatti sono quelli, Patrick, e non cambiano se poni la domanda a me o se la poni a Daniel» ammiccò John, col suo solito sorriso. Tutti risero.

Tutti tranne Daniel o almeno, la sua breve risata era falsa all’estremo. Voleva andarsene il prima possibile, ma anche scomparire andava più che bene. Che differenza c’era? A lui bastava allontanarsi da tutte quelle persone, che esigevano da lui un completo interesse verso i loro discorsi. Aveva bisogno di silenzio. Stava pensando.

Non all’ultima volta che era stato al Nancy’s. Non all’atmosfera leggera che aleggiava nel locale. Non al cibo squisito che gli avevano servito. No. Non stava pensando a Sarah. Era un’altra la persona che teneva occupata la sua mente.

Era passata ormai una settimana, ma quel bacio nel parco non se l’era ancora dimenticato. E come poteva, dopotutto? Era stato qualcosa di completamente nuovo per lui. Non solo perché stava baciando un ragazzo, ma soprattutto perché stava baciando Dane.

Ciò che gli aveva fatto scoppiare il cuore nel momento del bacio era il fatto che, per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, Dane aveva abbandonato il suo trono di superbia per lasciarsi guidare.
Daniel era riuscito a sentirlo improvvisamente abbandonare tutte le difese e diventare malleabile. Si era sciolto, in poche parole, e aveva chiuso subito gli occhi per apprezzare quell’attimo.

Subito dopo si erano separati per qualche secondo, come scritto sul copione. Si erano guardati. Negli occhi di Dane, Daniel aveva visto il mondo. Il suo sguardo si spostava febbrilmente, come a voler imprimere nei ricordi ogni minuzioso dettaglio fisico, ogni singola emozione superficiale. Daniel aveva poi interrotto questo scambio di sguardi con un altro bacio, molto più lungo e intenso del precedente.

«Oh, eccoti Sarah!». La voce di John giunse alle orecchie dell'attore leggera come un sussurro ma, nel messaggio che portava con sé, pungente come un ago. In un attimo chiuse Daniel fuori dai suoi pensieri.

«Buongiorno a tutti». Sarah era appena entrata all’interno del Nancy’s e ora John la stava presentando a tutti coloro che erano seduti al tavolo. Era serena e raggiante, a differenza di Daniel.

Dopo il non-bacio non si erano più rivolti la parola. Daniel avrebbe tanto voluto andarle a parlare, ma ogni volta che la vedeva perdeva in un attimo tutto il suo coraggio e le sue buone intenzioni.

«Bene, Daniel. Sarà Sarah ad accompagnarti alla Columbia University» disse John, poi si rivolse a tutti. «Sapete, ho scoperto di avere nello staff un regista in erba, Michael. Ho deciso di fargli girare in completa autonomia due scene che ieri non eravamo riusciti a fare» concluse. Con un sorriso orgoglioso accolse le approvazioni e gli scherzosi consigli da parte dei signori seduti al tavolo.

Daniel recepì il messaggio che lo esortava a sbrigarsi e si alzò. Rapidamente strinse la mano a tutti e li ringraziò, poi uscì dal locale al seguito da Sarah, la cui serenità scomparve appena salirono sul taxi parcheggiato di fronte al ristorante.

Daniel si sentiva a disagio. Sapeva che con molte probabilità lei era profondamente arrabbiata. Come poterla biasimare?

Era impensabile parlare in quel momento, ma non riusciva più a sopportare quel silenzio denso che era calato su di loro, così si schiarì la gola e cercò di attirare l’attenzione della ragazza nel modo più discreto possibile. «Sarah» sussurrò guardandola.

Lo sguardo di lei era rivolto fuori dal finestrino. Era ovvio che non ci fosse nulla di particolare da osservare, ma lei pareva comunque irremovibile ed estremamente concentrata.

«Sarah, ti prego guardami» ripeté. Pochi attimi dopo, si pentì di aver detto quelle parole ad alta voce, perché lo sguardo che Sarah decise finalmente di rivolgergli era così freddo che sembrava volergli congelare l’anima. Daniel si sentì improvvisamente morire. Voleva distogliere lo sguardo, ma non riusciva a smettere di guardarla. Era la prima volta che la vedeva sotto quella luce gelida.

«Cosa vuoi, Daniel?» chiese lei, senza smettere di guardarlo, senza smettere di mettergli soggezione.

«Io, io…» balbettò lui. Prese un profondo respiro, prima di continuare. «Io volevo chiederti scusa» sussurrò.

Lei spalancò gli occhi. «Chiedermi scusa?» ripeté sarcastica, prima di scoppiare in una risata. «Tu non hai idea di come mi sono sentita quella sera!» disse, alzando la voce e mimando un No con un gesto della mano.

«Sì, invece» rispose Daniel, quasi impercettibilmente, abbassando timido lo sguardo. Sarah si fermò di colpo. Il suo sguardo non era più severo come prima, ma pareva quasi sorpreso, le sopracciglia leggermente aggrottate.

«A tutti, prima o poi, capitano delle delusioni in amore» disse lui. «E si può dire che a me ne siano capitate tantissime. Quindi sì, so come ti sei sentita».

I tratti del viso di lei sembrarono addolcirsi, in attesa che lui continuasse. Forse valeva veramente la pena fidarsi.

Daniel la guardò. «So che ti sei sentita persa. So che ti sei sentita vuota, priva di appoggi. So che ti sei sentita sola. So che ti sei sentita vulnerabile, fragile. So che ti sei sentita presa in giro. 
Dopo che la rabbia iniziale è scemata, so che hai sentito la tua autostima scivolare via velocemente, troppo velocemente, e in un attimo non sono rimasti altro che dubbi. Ti sei domandata un centinaio di volte: Cos’ho fatto di sbagliato? Sono stata troppo brusca? Ho bruciato le tappe? Ma soprattutto, ti sei chiesta: Ha visto qualcosa nel mio aspetto che non gli è piaciuto? La camicetta era troppo scollata? Avevo i capelli spettinati? Non ero abbastanza magra? Non ero abbastanza bella?».

Sarah non riusciva a distogliere lo sguardo o a dire alcunché. Le stava stava leggendo dentro con estrema facilità e sicurezza, come se la conoscesse da sempre.

Lui prese un profondo respiro. Era pronto a dare voce a pensieri che in altre circostanze sarebbero rimasti imprigionati nella sua testa, come semplici ricordi. «Ma ascoltami, Sarah. Tu non lasciare per nessun motivo che questi dubbi ti rubino la serenità o il sorriso o la gentilezza che ti rendono fantastica. Perché tu sei fantastica, credimi. Sei una persona meravigliosa, in tutti i sensi» disse, sorridendole dolcemente. «E se c’è qualcuno di sbagliato qui, sono io. Fidati. Probabilmente ho qualche rotella fuori posto».

«Daniel» sussurrò Sarah. 

«Tu…» la interruppe lui, posandole un dito sulle labbra, con delicatezza, come se nel rubarle quell’attimo potesse infrangere le sue sicurezze. «Tu meriti qualcuno che non ti sappia apprezzare soltanto, ma che ti ami».

Il tempo sembrò condensarsi in quel taxi che continuava a proseguire inesorabile nel traffico, così vicino alla sua meta. Sarah sentiva le lacrime pizzicarle gli occhi. Come aveva potuto, anche solo per un attimo, dubitare di lui?

«Daniel, io… io ero così arrabbiata. Ho fatto una cosa che non dovevo fare» sussurrò, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa.

Lui all’inizio non disse nulla, confuso. «Di che parli?» nella sua voce c’era una chiara nota interrogativa.

«Non te lo meritavi» continuò a sussurrare lei.

«Cosa non meritavo? Sarah, spiegami». Ora iniziava a essere preoccupato.

Il tassista li interruppe: «Sono sei dollari e cinquanta». Daniel non si era neppure accorto del fatto che erano arrivati a destinazione o anche del tempo che passava. In quel momento scendere dal taxi era l’ultima cosa che aveva in mente.

«È troppo tardi» sussurrò Sarah, raccattando la sua borsetta e aprendo la portiera. Gli occhi bassi, per paura di incontrare il suo sguardo. «Perdonami» disse, prima di uscire.

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Capitolo 22
*** Da Amsterdam Con Amore ***


John aveva ragione, Michael non era male come regista, anzi. Si trattava di quel ragazzo dello staff che aveva risolto il problema della botte. Un tipo in gamba, insomma. A Daniel non era dispiaciuto affatto lavorare con lui per quell’ora, poiché Michael portava con sé un’atmosfera molto vivace e dopo un po’ aveva iniziato a muoversi sul set con determinazione e tranquillità, sembrando quasi John in persona.

Finito di girare, ognuno si congedò e Daniel notò con amarezza che Sarah era silenziosamente scomparsa. Durante la loro conversazione in taxi, poco prima di arrivare a destinazione, le era sembrata molto turbata. Forse la cosa migliore era lasciarla sola. Lui, per esempio, mentre pensava, preferiva non avere nessuno attorno.

Camminò per un po’ tra i corridori della Columbia University, incontrando di tanto in tanto qualche ragazzo dello staff che conosceva e salutandolo. Non gli ci volle molto ad arrivare alla zona dei camerini che erano stati allestiti in varie stanze che l’università non utilizzava da tempo. Stava per procedere oltre, quando scorse sulla porta socchiusa di un camerino una targhetta a lui familiare. Decise di entrare.

Si trattava molto probabilmente di un vecchio ufficio. Non era molto grande, ma comunque abbastanza spazioso per contenere un guardaroba, una serie di scatole per scarpe e un piano d’appoggio abbastanza ampio. La scrivania che stava contro una delle pareti della stanza era piena di oggetti lasciati a disposizione di truccatori e acconciatori. C’era una piccola finestra chiusa, sulla parete opposta alla porta, e nell’aria si sentiva un forte odore di stantio, mischiato a un lieve sentore di fumo.

«Che ci fai nel mio camerino?».
Daniel si voltò di scatto, spaventato. Lo sguardo di Dane era puntato su di lui, più penetrante che mai, pronto a sondargli l’anima.

«Io» sussurrò, «passavo lì fuori per caso e ho pensato di dare un’occhiata».

«Sì, come no» rispose in fretta l’altro, chiudendosi velocemente la porta alle spalle. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette di una marca che Daniel non conosceva, poi si avvicinò alla scrivania e iniziò a rovistare senza troppa cura tra tutti gli oggetti che vi erano poggiati sopra. Non gli ci volle molto per trovare ciò che cercava. 

«L’altro giorno Emily lo ha dimenticato qui. Le è caduto mentre lei e Katy mi aggiustavano l’acconciatura» disse a bassa voce, farfugliando un po’ per via della sigaretta che teneva tra le labbra e che stava tentando di accendere. Riuscito nell’impresa, Dane scostò alzò l’accendino per poterlo osservare.

«Carino» ammiccò. «Non trovi?» aggiunse, mentre con un gesto veloce lo lanciò a Daniel che, visti i suoi scarsi riflessi, per poco non lo fece cadere a terra. Se lo rigirò tra le mani. Sulla plastica erano stampate una foglia di marijuana stilizzata e la scritta: Da Amsterdam Con Amore.

«Ci sei mai stato?». Dane ora sedeva su una delle due poltrone girevoli che erano davanti alla scrivania. 

Fissò il suo sguardo intenso su Daniel, mentre attendeva la sua risposta a una domanda abbastanza semplice. Questo non aveva ancora risposto, ma non sembrava riflettere su che parole usare. Dopo un lungo attimo disse semplicemente: «Non ancora».

Dane sussurrò qualcosa e abbassò lo sguardo, facendo un tiro. Sembrava intento a incasellare delle informazioni nel suo complesso archivio mentale e contemporaneamente a cercarne altre. Daniel tentò di captare i suoi pensieri, ma volute bianche di fumo nascondevano l’espressione del suo viso, impedendogli di scrutarne gli occhi. Le sue labbra socchiuse parevano lucide, quasi iridescenti, mentre sussurravano fumo.

Tutto d’un tratto parve risvegliarsi. «Siediti pure» sussurrò, mentre indicava l’altra poltrona. Daniel si sedette e calò su di loro un silenzio liquido, nuovo.

«Sai, Amsterdam è una città meravigliosa» disse infine, continuando a tenere lo sguardo fisso sulla sigaretta ormai consumata per metà. «Sa essere calma, ma anche esageratamente frenetica, piena zeppa di viuzze selciate che si intrecciano in un labirinto geometrico, percorse da canali silenziosi che scorrono in ogni dove. Le case altissime si sostengono, poggiate l’una sull’altra, e al piano terra ognuna ha un negozietto sempre molto originale o accattivante. Il vento e il freddo possono solo accarezzarti quando sei lì, a guardare quel cielo così unico nel suo genere. Dà assuefazione».

Daniel si chiese se ciò che Dane gli stava raccontando avesse uno scopo, come tutte le altre cose che avevano qualcosa a che fare con lui. Conoscendolo un poco avrebbe giurato che era impossibile che gli parlasse di sé per il puro gusto che chiunque proverebbe nel farlo.

«Tuttavia non sono mai riuscito ad apprezzarla, Amsterdam» continuò Dane, spegnendo la sigaretta in un posacenere anonimo, nascosto tra tutta la roba poggiata sulla scrivania. Si prese tempo, come se i propri gesti fossero stati estremamente interessanti. «Era come se mi mancasse sempre qualcosa o qualcuno, per poterla amare con tutto me stesso».

Alzò per un attimo le spalle, come a volersi scrollare di dosso l’intorpidimento che lo aveva avvolto. Subito dopo guardò Daniel, con un lieve sorriso. «Vedi, sono umano anch’io» disse, rifacendosi alla loro discussione fuori dal Nancy’s.

Daniel intravide in quell'affermazione un barlume di speranza fino ad allora sconosciuta e sorrise a sua volta, per poi portarsi una mano ai capelli e ravviarli. Così ignorò il leggero scricchiolio della poltrona girevole, mentre la faceva scivolare sul parquet rovinato, fino ad arrivare ad una spanna dalle ginocchia di Dane. Sporse il busto, per poterlo guardare meglio.

«Forse sono l’unico qui che si sente strano» disse. Un guizzo di coraggio attraversò i suoi occhi, completamente estraneo a entrambi. «Ma anche tu sei cambiato o sbaglio?».

Non aspettò nessuna risposta, nessuno sguardo confuso, nessuna risata. Lo baciò e basta, con trasporto, e si sentì improvvisamente sprofondare. Un sentimento dai tratti poco marcati era riuscito in un attimo a far scomparire tutto il resto. Con la potenza di un temporale lo aveva sradicato da quel camerino. Per un momento gli parve di tornare coi piedi per terra e di sentire Dane rispondere a sua volta con quel linguaggio che è torbido e puro allo stesso tempo. Ma l’estasi non durò molto.

«No, no».
La voce di Dane sembrava così lontana, lui stesso lo sembrava.

Daniel aggrottò la fronte mentre lo osservava allontanarsi e scuotere la testa. Riprese fiato e per un attimo si chiese cosa fosse successo. Scacciò dalla mente l’immagine delle labbra di Dane e tornò in sé. Il ragazzo di fronte a lui sembrava profondamente turbato, come se stesse lottando per cercare di cacciare via un pensiero che, al contrario, non può essere cancellato.

«Dane» sussurrò, sporgendosi in avanti per toccargli la spalla, in un vano tentativo di rassicurarlo.

Tuttavia l’altro si divincolò e si allontanò nuovamente, mormorando sotto voce e scivolando indietro sulla poltrona, fino a percepire il muro opporre resistenza alla sua fuga. Si sentiva scoppiare la testa. Si guardò distrattamente intorno all’inutile ricerca di una bottiglia di whiskey. 
«Dane» ripeté Daniel. «Ti prego, parlami…».

«Io… io non posso» balbettò l'altro, lasciando trapelare una sfumatura di aggressività nella voce. «Là fuori c’è Anne. Io sono ancora sposato» mormorò velocemente, abbassando lo sguardo sull’anello dorato che portava al dito. 
Si accorse della sua presenza dopo molto tempo. Aveva continuato a indossarlo, nonostante tutto, forse perché se ne era dimenticato oppure perché semplicemente era qualcosa di troppo difficile da lasciar andare: Il ricordo di un giorno felice che in quel momento gli parve improvvisamente ingombrante.

Daniel si passò per un attimo le mani sulle palpebre chiuse, nel tentativo di far scivolare via la frustrazione. Poi precisò: «Non credevo che avrei mai detto una cosa del genere in una situazione simile, ma o la va, o la spacca, per cui ora ti dirò la verità su ciò che penso» disse, attirando lo sguardo di Dane, improvvisamente enormi e curiosi come quelli di un bambino, su di sé.

«Devi smetterla di comportarti come farebbe Lucien, okay? Tu non sei lui, né sei costretto ad esserlo. È inutile che cerchi di nascondermi il tuo lato fragile, comportandoti da stronzo o da imperscrutabile, perché, come puoi vedere, è impossibile celare per sempre le proprie debolezze». Lo guardò con più insistenza, per la prima volta senza volerlo per forza comprendere, ma solo per essere sicuro che il concetto gli si imprimesse a caldo nella mente.

«Ma soprattutto,» proseguì, ormai a briglie sciolte, «liberati del ricordo di Anne». Sospirò mentre pronunciava il suo nome. Forse non avrebbe dovuto dirlo, ma ormai era troppo tardi. «Io non so per certo cosa sia successo quel giorno, ma credo che dopo quello che ti ha fatto non ti meriti più, Dane» disse sottovoce, come se stesse rivelando un segreto. E non era così, dopotutto?

«Ecco quello che penso» sussurrò infine, distogliendo lo sguardo.

Dane ascoltò silenziosamente quel fiume di parole col fiato mozzato. Appena capì ciò che Daniel voleva dirgli, sentì improvvisamente le membra pesanti, la bocca secca. Lo sguardo non reggeva più, gli pizzicavano gli occhi. Era arrabbiato e allo stesso tempo sul punto di piangere. Ma non poteva, non poteva piangere di fronte a lui.

Con tutta la forza di volontà che aveva in corpo, si alzò velocemente e sgusciò via dalla poltrona, lanciando un ultimo sguardo a Daniel, prima di coprirsi il volto con il dorso della mano, per nascondere le lacrime, e uscire dal camerino.

Daniel scosse il capo in un gesto rassegnato. Ora non doveva far altro che aspettare. Prima o poi qualcosa sarebbe dovuto accadere, ne era certo.

Angolo Autrice :)

Qualcuno qui è mai stato ad Amsterdam?😍

Virgiz01

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Capitolo 23
*** M'ama? Non m'ama? ***


L'estenuante esame di maturità. L'emozione per il primo vero incarico cinematografico. L'ennesima poesia scritta su una sudicia agenda marrone. Le note soffici e familiari di Mrs.Robinson. L'abbraccio caldo di un amico. 
I ricordi si susseguivano nella mente di Daniel, senza alcuna sosta o filo logico.

La marmellata spalmata su una fetta biscottata. La vecchia Bibbia di suo nonno nascosta sotto il cuscino. La felicità di suo cugino appena uscito da una lunga febbre. Le mani affusolate di Bob Dylan che pizzicano le corde di una chitarra. Le nuvolette bianche originate da un respiro che si affaccia nella notte fredda.

Troppo presto ogni cosa si dissolse. Ora l'erba alta gli solleticava le gambe nude e le sue narici erano pervase dal forte profumo di fiori selvatici. Poi, mentre camminava nella Brughiera, scorse a terra la macchia di sangue scarlatta e densa, la stessa di tutti i suoi incubi. Con lieve sicurezza scansò le erbacce, credendo di trovarvi sotto la testa dilaniata del cervo, ma non fu così. Vide il proprio corpo insanguinato, nascosto dalla vegetazione secca.

Daniel si svegliò di soprassalto, scattando a sedere sul materasso intriso di sudore. Con uno sforzo immane soffocò un grido e fece un respiro profondo. Batté le palpebre un paio di volte, deglutendo. Non ci poteva credere.
Vedere il proprio viso, i propri occhi spalancati e vitrei, morti, lo lasciarono sconvolto. Si passò una mano sul volto per asciugare quelle goccioline di sudore ribelli che aveva sulla fronte e sotto agli occhi.

Solo allora udì nella stanza la presenza di un respiro che non era il suo e si accorse che qualcuno poggiava una mano sulla sua coscia, da sopra le coperte, con tocco leggero, rassicurante. 
Guardò alla sua destra e indietreggiò involontariamente. «Oddio, scusa. Non, non ti avevo sentito» sussurrò poi.

Dane era lì, accovacciato accanto al letto, e gli stava rivolgendo uno sguardo strano, oscillante tra lo stupore e la curiosità. Indossava una maglia bianca leggerissima e un paio di pantaloni sportivi grigi. Erano decisamente troppo grandi per lui e lo facevano sembrare un giovane collegiale con più sogni in testa che certezze.

«Che ci fai qui?» chiese Daniel, tirandosi su e appoggiandosi con la schiena alla tastiera del letto, per poi indossare velocemente gli occhiali che aveva appoggiato sul comodino di fianco. Si guardò attorno. La stanza non era troppo buia. Dai balconi semiaperti di entrambe le finestre giungeva il bagliore di un arancio leggero, proveniente dai lampioni che illuminavano la strada, e l'abat-jour del comodino sulla destra del letto era accesa e spandeva una luce calda.

Dane distolse lo sguardo e si sistemò a sua volta, sedendosi a gambe incrociate sul parquet fresco. Poi iniziò a toccarsi il retro dell'orecchio destro, quasi timidamente, come per far sì che, per quel momento, l'attenzione di Daniel non si concentrasse sui suoi occhi.

«Beh,» sussurrò, «stavo tornando dal salotto quando sono passato accanto alla tua stanza. La porta era aperta e ho notato che tremavi. Per un momento ho pensato che non fosse niente, ma quando ho dato un'altra occhiata, ho visto che non stavi più solo tremando, ma sembrava quasi che stessi avendo dei piccoli spasmi» raccontò, mentre arricciava le labbra, in un'espressione che mostrava quanto poco gli piacesse ricordare Daniel in quello stato. «Così mi sono avvicinato al letto e ho provato a svegliarti o almeno a calmarti. Tu hai aperto gli occhi quasi subito».

Daniel lo aveva osservato per tutto il tempo, mentre raccontava, aspettando che gli prestasse attenzione, per tentare di capire dal suo sguardo ciò che pensava della faccenda. Ma questo non lo guardò, così Daniel non disse nulla.

«Era un brutto sogno?» chiese Dane dopo un po'.

«Già» rispose Daniel con voce piatta. Voleva scoraggiare Dane dal chiedergli spiegazioni, ma non si sarebbe stupito se l'altro avesse fatto comunque di testa sua.

«Ti va di parlarmene?» chiese infatti.

Daniel solitamente avrebbe risposto con un no secco, ma nella voce di Dane nel porgli quella domanda non notò dispiacere. Non lo stava compatendo, era soltanto curioso. E poi i suoi occhi erano così grandi, mentre lo osservava. Sembrava voler veramente sapere qualcosa a proposito e, chissà, magari alla fine non avrebbe risposto Mi dispiace, come avrebbero fatto tutti.

Daniel allora iniziò a raccontare. Parlò di tutto ciò che aveva sognato quella notte, senza dimenticare nulla, nessun dettaglio. Nel riportare a galla i ricordi, sorrise, anche. «Ma c'era qualcosa di diverso, quando mi sono ritrovato nella Brughiera» disse poi. «Non c'era nessun cervo morto tra le erbacce». Per un secondo il suo sguardo si perse nelle ombre che si formavano tra le pieghe del lenzuolo che ancora gli copriva il corpo.

Dane aggrottò la fronte e tornò a posare la mano sulla sua gamba, questa volta per attirarne l'attenzione, mentre pronunciava il suo nome. Daniel guardò la mano che sostava sul lenzuolo e per un po' non disse nulla, come se il tocco di Dane stesse influenzando una scelta silenziosa che stava cercando di prendere in quel momento.

«Tra le erbacce ho visto il mio corpo pallido, morto. C'era sangue ovunque» mormorò.

Calò il silenzio, un silenzio pesante come una coltre di neve, freddo e sordo. Dane sospirò, poi disse semplicemente: «Ho voglia di caffè».

Si alzò e gli volse le spalle, così da non dover indugiare troppo con lo sguardo su Daniel. Quando tornò aveva due tazze fumanti tra le mani e l'aroma di caffè si sparse nella stanza.

Bevvero in silenzio, senza fare rumore. Daniel aveva fatto spazio all'altro sul letto e ora erano seduti vicini. Ad un certo punto Dane alzò lo sguardo. «Quindi scrivevi poesie» disse, riferendosi a uno dei ricordi che l'altro gli aveva raccontato, e un sorriso si fece spazio sul suo volto, mentre guardava Daniel.

L'altro poggiò il caffè e lo stesso fece Dane. «Sì» rispose, con un sorriso timido.

«E com'erano? Racconta» chiese Dane, improvvisamente curioso, sistemandosi meglio sul materasso in modo da essere giusto di fronte a Daniel. 

Quest'ultimo scosse la testa, ridendo. «Beh, non sono dei testi di cui vado orgoglioso» ammise. «Li ho scritti mentre avevo diciassette anni circa, quando per un breve periodo mi è capitato di immergermi completamente nel sudiciume del mondo delle celebrità» disse, alzando le spalle.

«Scommetto che non è stata una bella esperienza» scherzò Dane.

«Infatti. Rischiavo di diventare un fenomeno da baraccone». La risata di entrambi riecheggiò tra le pareti sottili, per poi scemare piano. Sui loro volti andarono spegnendosi due sorrisi silenziosi. 

Daniel si mordicchiò l'interno della guancia. «Ho proprio paura che venendo qui tu ti sia messo nei guai» disse, a bassa voce. Per un attimo, mentre pensava a che frase formulare, gli era parso che quelle fossero le uniche parole che avrebbe potuto sussurrare. Se ne pentì subito.

Dane piegò leggermente la testa di lato, come avrebbe fatto un bambino. «E perché?».

Inutile dire che Daniel aveva sperato che quella domanda rimanesse solo un pensiero. Sospirò. Ormai non c'era più modo di nascondere la risposta. «Perché ora ho una gran voglia di baciarti».

Dane abbassò quasi subito lo sguardo e tornò a toccarsi il retro dell'orecchio destro, mentre inconsapevolmente arrossiva. Poi emise un profondo respiro e si morse il labbro inferiore, disteso in un piccolo sorriso.

In quel momento Daniel sentì dentro di lui, solida e prorompente, una certezza. Da quando aveva conosciuto Dane tutto era cambiato, impossibile negarlo. Quel ragazzo era piombato nella sua vita con uno sguardo intenso e una stretta di mano e, in pochi mesi, aveva sconvolto tutto. Aveva reso Daniel infinitamente più insicuro di quanto non fosse realmente e allo stesso tempo gli aveva dimostrato che nella vita è necessario anche un tocco d'audacia.

E chi poteva negare che lo stesso discorso non calzasse a pennello anche su Dane? In un certo senso, si erano salvati a vicenda. Quando entrambi sentivano che i loro ruoli stavano a poco a poco cancellandoli, avevano mostrato sé stessi l'uno all'altro, riacquistando forza e sicurezza. Non ci sarebbe stato più modo di fingere.

Le due tazze di caffè giacevano vuote sul pavimento. Mentre guardava Dane sorridere, per un attimo Daniel sentì anche un'eco lontano intimargli di non andare oltre di nuovo, di fermarsi, di cambiare idea. Ma lui non le prestò ascolto e la relegò in un angolo buio della mente, ricevendo in cambio una meravigliosa sensazione di leggerezza.

Si avvicinò a Dane. Con la punta delle dita gli alzò leggermente il mento e incontrò il suo sguardo. Passò un momento, prima che posasse le labbra sulle sue, dolcemente, quasi a chiedergli il permesso. Neppure un attimo e quel permesso fu rifiutato.

Il respiro di Dane correva veloce mentre si allontanava da Daniel. Lo guardò, col dispiacere negli occhi. «No, Dan, mi dispiace» scosse la testa e abbassò lo sguardo. «Non posso».

Daniel si morse il labbro. Come aveva potuto intuire due giorni prima nel camerino della Columbia University, c'era un muro tra lui e Dane, erto da quest'ultimo per difendersi. Era un muro fatto di insicurezza e rabbia repressa, ricordi e rimpianti. 
Per un attimo Daniel valutò di lasciar perdere. Vide il muro negli occhi di Dane e si sentì vacillare. Pensò che forse aveva incontrato la persona sbagliata, che probabilmente non avrebbe mai funzionato. Dopotutto, chi era lui per poter anche solo pensare di riuscire a scavalcare quel muro?

Ma l'esitazione non durò molto, perché poi Daniel scosse la testa. Era inutile. Tutti i ragionamenti del mondo non sarebbero riusciti a spegnere la fiamma che pareva quasi ardere sulle sue labbra.

«Cosa c'è di sbagliato in questo, Dane?». Fece un profondo respiro, perché davvero non voleva dar fiato alle parole che stava per dire. «Se non provi quello che provo io per te, dimmelo ora».

«No, non è questo il punto» lo interruppe Dane, mentre gli tornava alla mente lo sguardo spento di Sarah, la sera al Nancy's, dopo che lui le aveva rivolto quel ghigno superbo. «Credo che ciò che proviamo l'uno per l'altro sia lo stesso, ma sarebbe comunque un grande sbaglio» si portò le mani al petto. «Io sono un mostro, Dan, e tu lo sai. Ho rovinato la vita di troppe persone e non ci tengo a rovinare anche la tua».

Daniel inizialmente non disse nulla. Non si aspettava una risposta del genere, i ragionamenti non erano tipici di Dane. Era confuso e la situazione andava chiarita. «Perché dici così?» chiese.

«Sai bene perchè. Mi sono comportato in modo meschino con Sarah, pur di farti allontanare da lei. Ho fatto sì che tu la lasciassi e a quel punto, quand'era distrutta, le ho rinfacciato la mia vittoria. L'ho fatta sentire umiliata. Per cosa poi? Per la mia maledetta superbia e il mio stupido istinto. Sai, tutto ciò che ho fatto, non sapevo neppure a che scopo lo facevo. Non volevo rendermi conto di ciò che realmente provavo per te, dal momento che ormai l'amore mi pareva solo una debolezza».

Daniel scosse la testa. «La relazione tra me e Sarah non avrebbe funzionato comunque, Dane. Prima o poi l'avremmo disfatta noi stessi. Credo che al massimo io e lei potremmo essere buoni amici» sussurrò.

«Ciò non toglie che con lei mi sono comportato da stronzo. Con lei e con chissà quante altre persone. Daniel, io non voglio che tu sia il prossimo» continuò Dane.

Daniel sorrise, aveva capito. Posò una mano sulla guancia di Dane, sentendolo sussultare, ma non allontanarsi. Pensò che forse era a buon punto con la scalata del muro e che non si sarebbe certo fermato adesso. «Non penso proprio che tu sia un mostro, Dane. I mostri non sanno sorridere, non col cuore. Mentre tu sorridevi, sorridevi il giorno in cui siamo andati a Central Park South e mi hai parlato del Giovane Holden. Sorridevi come stai sorridendo ora e io sapevo che era vero» disse, soppesando ogni parola, credendoci fino in fondo.
«E Sarah e tutte le persone che dici di aver ferito... fanno parte del nostro passato. Siamo arrivati fino a questo momento con le nostre parole e le nostre azioni ed è per questo che non cambierei nulla» disse, prima di chiudere gli occhi e riavvicinarsi a Dane.

Ma lui si scostò all'ultimo momento, guadagnandosi da Daniel uno sguardo interrogativo e stanco, sul punto di rassegnarsi. «Tu non hai idea di quanto vorrei essere come te. Sincero, deciso, sicuro di ciò che vuoi e di ciò che sei. Ma io ho bisogno di mettere le cose in chiaro» disse con voce sottile, appoggiando la propria fronte contro quella di Daniel. Ora erano abbastanza vicini perché i loro respiri caldi si solleticassero a vicenda.
«E se io non fossi come te, Daniel? Se ciò che credo di sentire fosse solo un abbaglio? Non ci ho mai riflettuto prima. Questa situazione è diversa. È qualcosa di grande, imponente e mi fa paura» mormorò piano, ad occhi chiusi. «Rischierei di ferirti, di ferire entrambi, promettendoti solo fumo, ed è l'ultima delle mie intenzioni». Una lacrima gli scese lungo la guancia, mostrando l'insicurezza e la fragilità nascoste dietro la sua maschera.

Prima che dai suoi occhi scendessero altre lacrime, Daniel lo abbracciò per sorreggerlo e, quasi cullandolo, gli sussurrò: «Ho capito ciò che cerchi di dirmi, ma Dane, pensaci. Il punto non è essere diversi o no. Gli occhi di tutti non dovrebbero vedere uomini che amano donne, uomini che amano uomini o donne che amano donne, ma semplicemente persone che amano persone». Poi gli poggiò una mano sul petto. «Se pensi di non essere sicuro di quello che provi, se hai bisogno di tempo, io sono pronto a concedertene, anche se significasse perderti. Ma se ciò che senti qui, nel tuo cuore, è ciò che provo io,» lo guardò e sorrise, «lasciati andare, Dane, e permettimi di curare le tue ferite».

Dane trattenne per un attimo il fiato. Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere, prima di allora. Mai nessuno gli aveva promesso che si sarebbe preso cura di lui. Perché forse qualcuno che gli indicasse la strada era proprio ciò di cui aveva bisogno, ciò che aveva sempre cercato.

Pensò a quello che provava quando vedeva Daniel sorridere o preoccuparsi per lui o anche solo dargli fiducia. Pensò a quello che provava quando Daniel gli mostrava una parte della sua vita, una parte del suo cuore. Poi smise di pensare.

Si avvicinò a Daniel e riprese il bacio che aveva interrotto fin troppe volte. Subito percepì tutto il trasporto e tutta la passione di cui, fino a quel momento, aveva ignorato l'esistenza. Si lasciò andare e così fece Daniel.

A poco a poco si spogliarono dei loro vestiti, delle loro incertezze, delle loro responsabilità e delle loro finte maschere. Fu come quando si tolgono uno ad uno i petali alle margherite. M'ama? Non m'ama? Per scoprire, infine, d'essere amati.

Angolo Autrice :)

Okay questo capitolo l'ho riscritto tipo venti volte e niente, spero che questa ultima versione vi piaccia😊

Ps. I capitoli dal prossimo in avanti propongono un grande stacco dai precedenti e sono in assoluto i miei preferiti. Spero che abbiate avuto la pazienza necessaria per arrivare fin qui e leggerli e spero che li apprezzerete quanto me <3

Virgiz01

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Capitolo 24
*** «Fino a quando non ce la faremo più» ***


Le riprese erano finite e la Columbia University era stata liberata dall’attrezzatura cinematografica. La colonna sonora era stata preparata, le scene montate. Il trailer era stato rilasciato con successo sul web e le interviste erano state portate a termine. Il film era stato presentato nei cinema di mezzo mondo.

Un capitolo concluso per tutti, ma un libro appena alle prime pagine per due giovani attori, innamoratisi l’uno dell’altro sul set di quel film, così diversi, ma complementari allo stesso tempo.

I due avevano deciso di continuare a vivere a New York, nel pittoresco appartamento di mattoni rossi che Daniel aveva affittato prima dell’inizio delle riprese, fino a che non avrebbero trovato un altro posto dove abitare. Andava bene ad entrambi, il quartiere era tranquillo e ancora nessun giornalista li aveva disturbati.

Avevano deciso che la loro relazione sarebbe dovuta rimanere un segreto. «Fino a quando non ce la faremo più» aveva detto Dane una sera, con lo sguardo perso oltre i vetri della finestra della camera da letto, dopo aver vuotato qualche bicchiere.

Daniel odiava quando l’altro gli dava risposte così vaghe a proposito dell’argomento, ma non aveva detto nulla e si era limitato ad abbracciarlo. Sapeva che Dane ce la stava già mettendo tutta per adattarsi alla loro nuova vita.

Perciò mantennero il segreto per quasi un anno, ignorando ogni accenno all’argomento e ogni domanda scomoda. Ma la situazione cambiò radicalmente durante un’intervista di fine settembre. Quella sera Daniel era ospite di uno dei tanti famosi show televisivi che popolano la televisione americana.

Appena era entrato nello studio, le persone sedute lo avevano accolto con dei fragorosi applausi che per un attimo gli avevano scaldato il cuore. Subito dopo si era pentito di essersi vestito in modo così frettoloso. La camicia che stava indossando e che Dane gli aveva tolto troppo velocemente la notte prima aveva uno dei bottoni superiori mancanti. Ma lo staff che lo aveva preparato dietro le quinte non aveva notato nulla, quindi magari nessuno si sarebbe accorto del filo sottile che pendeva dalla stoffa bianca.

La giovane ragazza che conduceva l’intervista indossava un vestito color rosa intenso e forse gli sarebbe stata perfino simpatica, se non avesse cominciato subito col discutere di argomenti un po’ troppo delicati per i suoi gusti.

Non c’era voluto molto, prima che lei gli ponesse la domanda più spinosa di tutte: «Allora, Daniel» cominciò, con voce e sguardo carichi di malizia. «Sei per caso fidanzato?».

Lui e Dane non avevano mai avuto il bisogno di definirsi fidanzati, ma in quel momento Daniel non fece molta difficoltà a capire che la loro storia era ciò che tutti volevano sentire. Emise un sospiro e si concentrò su di una piccola voglia scura sulla guancia dell’intervistatrice. Cosa avrebbe dovuto rispondere? 

La verità, ecco cos’avrebbe dovuto dire.

Si sistemò meglio sulla poltroncina su cui era seduto e tossì nervosamente, ma quando fu sul punto di socchiudere le labbra e parlare, un ricordo gli balenò nella mente. Un ricordo offuscato, vecchio, che aveva ormai dimenticato da tempo, ma ora così chiaro e vivido.

Era bambino e durante un freddo giorno di gennaio stava leggendo un libretto di favole e leggende irlandesi scovato in soffitta. Si trovava sul retro di una vecchia casetta inglese abbandonata che veniva definita maledetta da tutti i suoi amici. Daniel lo considerava semplicemente un luogo molto tranquillo e tutt’altro che lugubre e pauroso. Lì poteva stare da solo e fare ciò che voleva senza che nessuno lo vedesse o lo spiasse.

Mentre leggeva silenziosamente il suo libro, sentì il leggero rumore di foglie secche calpestate. Chiuse velocemente il libretto e alzò lo sguardo. Poco lontano da lui erano arrivati nel giardino sul retro dell’edificio due ragazzi. Il più alto dei due aveva i capelli scuri, mentre l’altro li teneva cortissimi e biondi, a spazzola.

Daniel li osservò curioso, mentre avanzavano sotto gli alberi tendendosi per mano e sorridendo, senza accorgersi della sua presenza. Li vide arrivare al limitare del giardino, fin sotto i rami ormai scarni di una grande quercia.

Il ragazzo dai capelli scuri si chinò a raccogliere da terra una piccola margherita sopravvissuta all’inizio della stagione secca, per poi mostrarla all’altro. Lui la prese con delicatezza tra le dita e sorrise. Daniel sentì una stretta al petto quando li vide baciarsi. Se fosse gioia oppure invidia, non sapeva dirlo. Avrebbe dovuto provare disgusto, ma nel suo cuore non ve n'era traccia.

Decise di andarsene, di lasciare soli i due amanti, ma mentre si alzava il libretto gli cadde tra le foglie e, cercando di raccoglierlo, non poté evitare di fare rumore e finì per attirare l’attenzione dei due ragazzi. Quando lo videro, Daniel non si mosse. Non per paura, ma per la pura curiosità di sapere cosa sarebbe successo di lì a poco.

I due ragazzi si guardarono di nuovo. Sembravano entrambi preoccupati e indecisi sul da farsi. Poi il ragazzo dai capelli scuri sembrò sorridere e allontanarsi dall’altro, compiendo un paio di passi in direzione di Daniel, che era sul punto di indietreggiare. «Ti prego, aspetta, non scappare» sussurrò, con voce calma ma incrinata, quando gli fu abbastanza vicino. Daniel annuì.

Il ragazzo si avvicinò ancora, fino a poterglisi inginocchiare di fronte. «So che ciò che hai appena visto ti sembra strano e che vorresti andare subito a raccontarlo a qualcuno ma, ti prego, non farlo. Non dire niente. Nessuno deve sapere quello che hai scoperto».

«Perché?» domandò Daniel, con curiosità spontanea. Ancora non era del tutto consapevole che, nonostante il mondo stesse cambiando, nei paesi di periferia come quello in cui viveva lui l’omosessualità rimaneva qualcosa con cui non si doveva per nessun motivo avere a che fare. Lui era troppo piccolo per saperlo e inoltre non era di certo un argomento di cui si discuteva apertamente.

«Perché ci sono tante persone che direbbero che quel bacio era qualcosa di sbagliato,» rispose il ragazzo dai capelli scuri, abbassando lo sguardo e sussurrando poi, «e che se lo venissero a sapere ci farebbero del male».

«Tu mi sembri uno in gamba». Questa volta parlò l’altro ragazzo, che nel frattempo si era avvicinato. «Ti prego, promettici che non lo dirai a nessuno» disse, poggiando affettuosamente la mano sulla spalla del più grande, il quale lo guardò e gli strinse la mano in risposta.

Daniel li osservò entrambi, ricordando come li aveva visti felici mentre si guardavano negli occhi, sotto la grande quercia. Poi sfoggiò un piccolo e sincero sorriso, per rassicurarli. «Lo prometto».

Col passare del tempo, Daniel cresceva e il segreto dei due ragazzi cresceva con lui, nascosto. Lui lo serbava quasi gelosamente, sorridendo al ricordo di quel piccolo mondo a lui sconosciuto.

Avrebbe voluto porre qualche domanda sull'argomento ai suoi genitori, ma ogni volta che provava ad aprir bocca, un sentore di disagio lo bloccava. Forse la paura che suo padre gli rivolgesse lo stesso sguardo che gli aveva rivolto il giorno in cui, da bambino, lui era tornato a casa da scuola dicendo che un suo compagno di classe sosteneva che i bambini non li portavano le cicogne e domandando spiegazioni, che naturalmente gli erano state negate.

Quando cambiò scuola, finì nello stesso grande istituto in cui studiavano i due amanti segreti. Li osservava spesso, come se fosse stato il loro angelo custode. Scoprì che il ragazzo dai capelli scuri si chiamava Michael e che era molto popolare a scuola, mentre l’altro si chiamava Aaron. Avevano la stessa età e avevano la maggior parte dei corsi in comune. A volte Daniel notava i loro sguardi e i loro sorrisi e rimase per molto tempo l’unico a interpretarli come qualcosa che andava oltre l’amicizia.

Poi, d’un tratto, com’erano arrivati improvvisamente nel giardino sul retro dell’edificio abbandonato, i due ragazzi non si presentarono più a scuola. Daniel non li scorse più camminare nei corridoi o parlare insieme in cortile. Sembravano scomparsi.

Daniel, ormai un ragazzo, pensò che si fossero trasferiti per qualche motivo e che avessero cambiato istituto, ma le sue ipotesi si dimostrarono infondate quando, durante un intervallo passato in classe per via della pioggia, un suo compagno richiamò l’attenzione di tutti. «Ragazzi, ma avete sentito di Michael Smith, quello dell’ultimo anno? Conoscete?». In risposta alla domanda qualcuno annuì e qualcun altro scosse la testa, per poi allontanarsi.

«Ecco, sapete che gli è successo? Lo hanno trovato grondante di sangue nel retro di un bar. Mi hanno detto che era lì che baciava un ragazzo. Cioè, un ragazzo!» disse enfatizzando l’ultima frase, per dargli una nota di disgusto. «Li hanno uccisi di botte, quei due froci» concluse con un ghigno soddisfatto.

Qualcuno rispose che era già a conoscenza del fatto, qualcun altro commentò con un Che schifo, riferito naturalmente al fatto che erano omosessuali e non al fatto che li avevano ammazzati. 
Daniel ricordò di com’era uscito di corsa dalla sua classe e si era rifugiato in bagno. Poi aveva cominciato a piangere.

«Daniel?». La ragazza in rosa seduta di fronte a lui lo stava guardando seccata, tamburellando le lunghe dita sulle ginocchia.

Daniel ebbe un leggero tremore, nel separarsi da quel ricordo e tornare coi piedi per terra. Alzò impercettibilmente le sopracciglia e chiese «Come, scusi?».

L’intervistatrice si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si ricompose sulla poltrona. «Avevo chiesto se sei fidanzato» disse, fingendo un sorriso.

Daniel tornò ad annaspare nell’indecisione. Quel ricordo doveva pur significare qualcosa. Forse era un ammonimento. Forse la rivelazione della sua relazione si sarebbe ritorta contro di lui. Avrebbe potuto perdere tutto. I fans, la fama, il rispetto. Era disposto a correre un rischio così alto? Il prezzo sarebbe stato amaro da pagare. Si toccò il retro dell’orecchio destro, com’era solito fare Dane. Un flebile No era sul punto di scivolare fuori dalle sue labbra.

Ma le parole di Dane gli tornarono alla mente appena prima di rispondere. «Fino a quando non ce la faremo più» aveva detto. Daniel sussultò. Quanto ancora sarebbe riuscito a resistere nell’ombra?

Mandò giù tutte le sue incertezze e debolezze. Di una cosa era certo, non avrebbe resistito a lungo. «Sì, sono fidanzato» disse.

La ragazza in rosa sorrise, raggiante e felice di aver finalmente conquistato la risposta tanto agognata. Portò il busto in avanti, come per avvicinarsi «E con chi?» chiese. Doveva sembrare un flebile e amichevole sussurro, ma lo sentirono tutti.

Daniel fissò la telecamera, con uno sguardo carico di scuse che sperava Dane avrebbe accettato, tornò a posare gli occhi sulla voglia scura sulla guancia della ragazza, emise un profondo sospiro e rispose.

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Capitolo 25
*** «So che ci sono cose di cui non mi parli, Dane» ***


Il tempo quel pomeriggio era pessimo. La pioggia fredda batteva inesorabile contro la finestra, cercando inutilmente di intaccare l'atmosfera calda della camera da letto, mentre le nuvole coprivano ormai da due ore il cielo di New York.

Dane sedeva sulla poltrona di fronte alla finestra e osservava le goccioline scorrere sul vetro appannato. Era completamente immobile, tranne per il fatto che stava tamburellando incessantemente con le dita sul bracciolo della poltrona, partendo dal mignolo e finendo con l'indice. Ad un certo punto invertì l'ordine. La pioggia non smise di scendere.

Appena sentì il rumore tipico delle chiavi inserite in una serratura si voltò di scatto, desideroso di qualunque cosa potesse trascinarlo via da quel torpore.

«Sono a casa» disse Daniel a gran voce, poggiando le chiavi e due caffè caldi sul mobiletto all'entrata. Si tolse velocemente il cappotto bagnato e percorse il corridoio che lo separava dalla camera da letto.

Appena lo vide, sporgendo la testa oltre lo schienale della poltrona, Dane lo salutò con un «Hey» sussurrato e un sorriso.

«Ciao» rispose Daniel avvicinandosi. «Che stai facendo?» scherzò indicando la finestra e buttandosi a peso morto sul pouf rosso lì accanto, che come oggetto di arredamento stonava completamente con tutto il resto, ma che a Daniel piaceva moltissimo. Lo faceva tornare bambino.

«Oh, niente di ché». Dane fece una smorfia e tornò a guardare la pioggia. «Non vedo l'ora che comincino le riprese del nuovo film» aggiunse, sostenendo svogliatamente il capo con la mano destra.

«Quello della settimana prossima?» chiese Daniel, tentando di asciugarsi i capelli fradici scuotendo la testa un paio di volte, senza ottenere alcun risultato.

Dane annuì in risposta, lanciando una veloce occhiata all'altro. «Nel frattempo mi annoio» aggiunse, alzando gli occhi al cielo e sorridendo.

Daniel rise, per poi rimanere a guardare Dane che tornava per l'ennesima volta a osservare la pioggia, ora meno forte di prima. La sua silhouette era morbida e tranquilla e i suoi occhi parevano chiarissimi, quasi trasparenti. La luce proveniente dall'esterno illuminava il suo volto, facendolo sembrare di marmo. Era completamente immobile, se non fosse stato per il suo respirare lento. Non gli stava prestando più alcuna attenzione, la pioggia aveva attirato i suoi pensieri. Daniel arricciò le labbra e piegò la testa. Dane era troppo immobile per i suoi gusti.

«Oh, ti annoi?» chiese allora, con voce carezzevole, mentre si alzava e si avvicinava a lui. Si sedette su uno dei due braccioli della poltrona e poi si sporse in avanti, attirando in un attimo lo sguardo di Dane. Lasciò un bacio incompiuto sull'angolo della bocca di quest'ultimo, leggero come un soffio di vento. «Sei pigro. Ecco perché ti annoi».

Non riuscì a finire la frase che Dane lo chiuse in un bacio. Erano già passati due anni, ma era sempre emozionante come la prima volta.

Daniel si allontanò sorridendo. «Spostiamoci da qui o quelli della casa di fronte sporgeranno denuncia per atti osceni in luogo pubblico» rise, mentre si inoltrava nella stanza.

Dane lo seguì immediatamente, come se fosse legato a lui da un filo invisibile. «Mi sei mancato» sussurrò sulle sue labbra prima di tornare a baciarlo, sporgendosi in avanti, quasi a volerlo sentire completamente sul suo corpo, tanto che Daniel si dovette aggrappare al suo maglione.

«Ti sono mancato?» chiese, dopo essersi allontanato per un attimo dal suo viso e aver fatto un passo indietro, per riacquistare l'equilibrio. «Ma se sono stato via solo per un'ora».

Dane cominciò a lasciargli una scia di brevi baci sul collo. «Vedo che il nuovo regista è uno che la tira per le lunghe» mormorò, facendo scorrere le dita fra i capelli bagnati di Daniel. «Comunque l'ora più lunga di tutta la mia vita» aggiunse, facendolo ridere.

Stava andando tutto a meraviglia, ma non appena si accinse ad alzargli l'orlo del maglione, lo sentì sussurrare un «No, aspetta» flebile, ma abbastanza forte per essere udito.

«Cosa?» chiese con voce noncurante, senza fermarsi, fino a quando non sentì le mani di Daniel prendergli i polsi e abbassarli lentamente.

«C'è una cosa di cui ti devo parlare» disse quest'ultimo. 

Dane sospirò e smise di baciarlo, per poi aggrottare le sopracciglia e guardarlo. «Proprio ora?» chiese.

L'altro si allontanò, lasciandolo a mani vuote. «Sì» disse, mentre si dirigeva verso il vecchio comò che stava dall'altra parte della stanza. «Si tratta di una cosa abbastanza urgente ed è da tre giorni che me ne dimentico. I tuoi bisogni primari possono aspettare» continuò, iniziando a frugare fra le cartelle e i documenti che stavano sul comò.

Dane sbuffò e si sedette sul margine del letto. «L'unico caso urgente in questa stanza sono io» disse.

Daniel rise. «Smettila di lamentarti come un bambino» rispose. «Ti sono mancato così tanto che ora hai bisogno di chiuderti in bagno?» chiese poi, con un sorriso tutt'altro che candido sul volto.

Dane lo guardò a sua volta e non riuscì a non mordersi il labbro. «Per tua fortuna no. Scommetto che ti dispiacerebbe moltissimo non poter sistemare la situazione di tuo pugno» rispose, ammiccando senza alcun pudore.

Daniel si fermò e chiuse gli occhi, lottando contro l'intensa tentazione di tornare da lui e zittirlo con un bacio, e poi un altro ancora. Non poteva dargliela vinta. Emise un sospiro ed esclamò: «Trovato!» alzando un'anonima cartellina viola dal mucchio di fogli disordinati che si era andato a formare col tempo sul comò.

«Sentiamo di che si tratta» sussurrò Dane, sedendosi a gambe incrociate sul letto.

Daniel fissò l'anonima cartellina viola che teneva in mano e divenne improvvisamente serio. Forse sarebbe stato meglio lasciar stare. Dopotutto non sapeva come Dane, che in quel momento sorrideva curioso, avrebbe preso la nuova notizia. «Allora» sospirò, valutando le opzioni. Pareva una situazione analoga a quella che gli si era presentata durante l'intervista della settimana prima. Sentiva la stessa ingombrante necessità di liberarsi di un peso. «Ho trovato una casa» disse.

Un momento dopo il tempo parve fermarsi. Il sorriso di Dane si spense, lasciando le sue labbra chiare socchiuse per vari attimi. Sapeva di dover rispondere al più presto, mentre osservava l'espressione di Daniel farsi preoccupata, ma gli pareva impossibile dire una parola.

All'improvviso un raggio di sole, segno che il temporale era cessato, attraversò la camera, lambendo i piedi di Daniel. Dane focalizzò la sua attenzione sulla luce più che poté, fino a quando l'altro non sussurrò il suo nome. «Una casa?» fu l'unica cosa che seppe dire.

«Sì» rispose Daniel. «Una casa bellissima». Abbassò lentamente lo sguardo, mentre apriva la cartellina viola. «È grande, luminosa, accogliente anche» disse, facendo un piccolo sorriso e porgendo i fogli con le foto e le informazioni sull'abitazione a Dane, che li osservò con cipiglio nervoso. «E poi ha un terrazzo enorme. Si vede tutta San Francisco da lì» aggiunse.

Dane strabuzzò gli occhi. «San Francisco?» chiese, continuando a sfogliare le foto della casa, senza mai guardarle veramente. «Non è un po' troppo lontana?» sussurrò, aggrottando la fronte e mordendosi il labbro, come un bambino che per Natale non riceve ciò che aveva chiesto, ma che cerca di spiegarlo nel modo più gentile possibile, per non far dispiacere i genitori.

«Sì, ma pensa ai vantaggi che ne trarremo. Hollywood sarà a portata di mano e sarà tutto più facile per il tuo film, per il mio film» rispose Daniel, con voce sicura, che tradiva il suo sguardo.

Dane sospirò. Sarebbe stato così difficile spiegare ciò che stava accadendo nella sua mente. «Io non so se...».

«Non ti sto chiedendo di scegliere ora» lo interruppe Daniel. «Ma almeno sii felice» sussurrò. Poi scosse la testa. «Ce la sto mettendo tutta per trovare un bel posto dove stare. Lo faccio per noi due».

Dane poggiò i fogli sul letto, cercando di far meno caso possibile a quelle parole che come macigni sprofondavano lentamente nel suo petto, ora un pozzo profondo, raschiando le pareti del precipizio, facendolo soffocare. «Io... sto bene qui» mentì, abbassando la testa.

Udì la risata amara di Daniel. «Quindi è questo il problema? Non te ne vuoi andare?» gli chiese, allontanandosi. Dane non rispose. Si limitò a prendere un profondo respiro. «Almeno spiegami perché, dal momento che possiamo permetterci posti molto più belli di questo» lo sentì sussurrare.

Dane percepì un breve e leggero tremore alle mani. Tutto ciò che avrebbe voluto dire gli si era congelato nella mente. Era più difficile di quanto aveva pensato, aprire la bocca e parlare chiaro e in quel momento gli parve un'impresa impossibile. «Senti, non sono dell'umore giusto per parlarne» rispose semplicemente, sperando che l'altro lasciasse cadere la conversazione nel dimenticatoio.

Ma Daniel fece tutt'altro. «Quando si tratta di te, sei sempre pronto ad agire, a prendere decisioni, spesso in modo impulsivo. Ma quando si tratta di me non sei dell'umore giusto, non è così?». Lo sfidò con lo sguardo.

Dane alzò lentamente il volto e lo sguardo colmo di rabbia, per poi allontanarsi dal letto e aprir bocca solo una volta raggiunto Daniel. «Senti chi parla! Prima il coming-out, ora la casa!».

Daniel non lo lasciò continuare. «Cosa diavolo c'entra ora il coming-out? Non sembravi contrario quando ne abbiamo parlato, dopo l'intervista!» disse, alzando anche lui la voce.

«Beh, invece lo sono!» rispose subito Dane. Poi chiuse gli occhi e gli diede le spalle, cercando di calmarsi. «Ci hai pensato a me, quando hai detto di noi al mondo?» chiese, tornando a guardarlo con occhi vitrei.

Daniel scosse la testa, quasi rise «Avrei potuto farti la stessa domanda, quando tu mi hai detto che stare zitti era la cosa giusta da fare» rispose lentamente, lasciando alle proprie parole il tempo di colpire il bersaglio.

Dane non rispose, ma sentì qualcosa dentro di lui cedere. Per la prima volta quell'appartamento gli sembrò una prigione, così pieno di assordante silenzio.

Attutita da quell'atmosfera ormai insostenibile, udì la voce di Daniel. «So che ci sono cose di cui non mi parli, Dane». Poi lo percepì allontanarsi silenziosamente, arrivare fino all'entrata della camera e voltarsi. «Perché non ti fidi di me?» sussurrò, prima di lasciarlo solo in quell'appartamento che, improvvisamente, non aveva più niente di loro.

Angolo Autrice :)

Che aggettivo usereste per descrivere questo capitolo?😅

Virgiz01

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Capitolo 26
*** Come i segreti che respiravano sotto la sua pelle ***


Appena lasciato l'appartamento, Daniel aveva chiamato un taxi e si era fatto trascinare per le strade bagnate di New York, destinazione lontano da qui. L'autista lo aveva lasciato, sotto sua richiesta, in una zona industriale poco fuori città, che a Daniel ricordava i luoghi della sua infanzia. Appena sceso, il giovane attore iniziò a camminare al limitare di una strada poco trafficata. Si mise le cuffie alle orecchie e fece partire una canzone.

Gli piaceva concedersi, di tanto in tanto, momenti come quello. Momenti in cui non faceva nulla se non pensare e guardarsi attorno. Lui avrebbe detto che lo facevano sentire più umano, anche se forse concetti del genere erano un azzardo. Ma il punto è che la solitudine acconsente di essere padroni di se stessi.

Sussultò, quando sentì la morte passargli un metro accanto, silenziosa, attutita dalla musica. Le auto percorrevano veloci quelle strade fuori città e quando gli correvano contro era strano sentire come lo spingevano indietro mentre lui riusciva comunque ad andare avanti.

Decise di svoltare a destra, immettendosi in una strada di ghiaia che scorreva attraverso un quartiere di edifici industriali abbandonati. Solitamente in ambienti come quello ci si imbatte nella gente più bizzarra, mentre vende o compra qualsiasi cosa da gente altrettanto bizzarra. Ma Daniel non incontrò nessuno, così non si vide costretto ad abbassare il volume della musica.

Le fabbriche e i magazzini erano in buono stato, probabilmente in vendita da poco. Sorrise, pensando che era fortunato ad essere capitato lì proprio mentre non c’era nessuno. Tuttavia non era abituato a stare da solo. Provò ad immaginare una situazione analoga, solo con Dane accanto. Non ci riuscì. 
Non voleva riuscirci.

Continuò a camminare, finché la strada non lo condusse fuori da quel labirinto di fabbriche. Arrivò ad una piazzola, chiusa su un lato da una piccola arena di sei o sette gradoni circa. Rimase per un attimo ad osservare perplesso quella struttura così fuori luogo, poi si avvicinò e cominciò a salire i gradoni a passo svelto, fino ad arrivare al piano più alto. Si sedette e rimase lì immobile per qualche minuto, pensando a quanti concerti erano stati fatti lì e a quante persone si erano emozionate, innamorate in quel luogo.

Sussultò, quando sentì il telefono squillare. Appena guardò lo schermo sussultò una seconda volta. Chiamata in arrivo: Dane.

Si guardò attorno. Non voleva rispondere, ma non aveva il coraggio di riattaccare. Oltre i capannoni vide il Manhattan Bridge baciato dal sole del primo pomeriggio. Sospirò, mentre scuoteva la testa. «E va bene» disse, prima di attivare la chiamata.

«Pronto» mormorò poi con voce cauta. Non aveva la minima idea di cosa aspettarsi.

«Ti Amo. Ti prego torna».

Daniel rimase immobile a fissare il vuoto. La sua mente si era spenta in un attimo. Sentì Dane chiamarlo per nome con voce preoccupata.
«Sì, ci sono» lo rassicurò. In tutti quegli anni non si erano mai detti Ti Amo. Era una frase potente, insidiosa, un patto sigillato ad alta voce. Li intimidiva, perchè in fondo entrambi sapevano bene quanto certe promesse sono difficili da mantenere. «Ripetilo» sussurrò Daniel.

«Ti Amo».

Daniel sorrise, mentre una lacrima gli scorreva lungo la guancia. Tornò a guardare il Manhattan Bridge e pensò che quello era uno Splendido Attimo. Uno di quei mille bei momenti che la vita sa concedere, ma che le persone raramente sanno cogliere. Si promise che non lo avrebbe dimenticato. 
«Arrivo» rispose.

Il viaggio di ritorno gli sembrò il viaggio più lungo che avesse mai fatto, ma tentennò comunque, mentre inseriva le chiavi nella serratura dell’appartamento. Poi ripensò alle parole di Dane e trovò il coraggio di aprire.

«Daniel, sei tu?». La voce di Dane era sottile, poco più di un respiro, ma sembrò comunque rimbombare, tra le pareti silenziose dell’appartamento.

«Sì, sono io» rispose Daniel altrettanto piano, chiudendosi lentamente la porta alle spalle. Si diresse per la seconda volta verso la camera da letto, cercando di fare meno rumore possibile, come se Dane fosse stato un oggetto incredibilmente fragile, chiuso in una teca fatta di silenzio e vetro.

Lo trovò in piedi, in mezzo alla stanza. «Daniel, devo parlarti» sussurrò. Lo sguardo di chi ha da dire qualcosa di importante.

«Ti ascolto» rispose Daniel, con voce calma. Non l'aveva mai visto così sciupato, se non le prime volte che aveva tentato di baciarlo. Aveva i capelli spettinati, come se ci avesse passato ripetutamente le mani sopra.

«Daniel, io… non volevo comportarmi in quel modo prima,» iniziò Dane, «é solo che ho paura dei cambiamenti» disse, chiudendo per un attimo gli occhi e alzando le spalle. «Perché un cambiamento tira l'altro e io ho un'enorme paura di fare il passo più lungo della gamba». Guardò Daniel, alla ricerca di un qualsiasi cenno che gli dimostrasse di essersi spiegato bene «Mi sento così stupido a dire una cosa del genere».

«Non preoccuparti» lo interruppe l’altro, con sguardo insicuro. «Ho capito».

Dane aggrottò leggermente la fronte. «Sì?» chiese.

Daniel cercò di sorridere, anche se non riusciva a non provare una forte amarezza per ciò che Dane gli aveva appena detto. «Sì» rispose, attirandolo tra le sue braccia.

Per un attimo provò la paura, abbracciandolo, di non essere ancora riuscito a scavalcare il muro che Dane aveva erto molti anni prima per proteggersi. «Sei la persona più importante della mia vita» mormorò allora.

Dane parve irrigidirsi e un attimo dopo sciolse dall’abbraccio. «Non credo. Stai parlando di qualcun altro» disse, facendo un debole e amaro sorriso.

Daniel scosse la testa. «Dane, io mi fido di te. Non hai bisogno di sapere altro». Lo guardò a lungo e poi gli accarezzò la guancia. «Ti chiedo soltanto di lasciare che sia io la persona che sta al tuo fianco» lo abbracciò di nuovo, senza più alcuna esitazione. «Ti amo».

Dane lo strinse a sua volta, cercando di trattenere una lacrima che invece cadde sulla spalla dell’altro, impercettibile, ma tutt'altro che insignificante, come i segreti che respiravano sotto la sua pelle.

Per un po' si perse in quel calore intimo, guardando il raggio di sole che in precedenza attraversava luminoso il centro della stanza e che ora ne raggiungeva a fatica, debole, solo un angolino. Pensò che forse lasciarsi andare era parte integrante della vita di ognuno, come respirare, correre e amare. Un'azione essenziale che lui non aveva mai imparato a compiere del tutto e che forse, ancora una volta, era la cosa più giusta da fare.

Strinse il lembo inferiore della maglia di Daniel tra le dita sottili, poi gli diede un bacio sul collo, più tenero possibile. «Sarei onorato se quella persona fossi tu» gli sussurrò all'orecchio. Sorrise e, quando fu sicuro che il messaggio fosse giunto chiaro e nitido al destinatario, aggiunse: «Comunque prima della prossima settimana voglio che andiamo a trovare i miei». Si morse il labbro, prima di continuare «Dopotutto, dovrò pur raccontare loro della nuova bellissima casa in cui ci trasferiremo».

Lo strinse più forte e, anche se non poteva vederlo, sapeva che stava sorridendo.

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Capitolo 27
*** «Io credo che l'Amore non sia fatto per esistere per sempre» ***


La nuova casa era dieci volte più bella di quanto Dane se l'era immaginata o di come l'aveva vista di sfuggita nelle foto. Era un'abitazione dallo stile moderno, luminosa e dalla pianta semplice e lineare. Sul davanti aveva un vialetto, un garage e un piccolo giardino ben curato. Dentro, il color panna chiaro definiva tutte le stanze, dando loro quel tocco caldo necessario in ogni casa. Ma la ciliegina sulla torta era la terrazza, abbastanza ampia da poter contenere anche solo in una metà un tavolo e cinque o sei sedie. Vi si accedeva dal salotto attraverso una porta a vetro e da lì il panorama era magnifico.

Oltre la terrazza si stagliavano il Golden Gate Bridge, una delle due rive montuose che quest'ultimo collegava tra loro e più in là le luci di San Francisco. Il prezzo della casa era alto, ma «Faccio il mio lavoro anche per potermi permettere pazzie come questa» aveva detto Daniel, mentre avevano discusso a proposito.

Quest'ultimo si era occupato di tutto quanto aveva a che fare con gli affari, mentre Dane si era limitato a inscatolare i vari oggetti che sarebbero traslocati con loro. Dopotutto era questo che gli aveva chiesto l'altro, di non preoccuparsi, di fidarsi di lui. Dane doveva ammettere che non era facile, ma che ci stava riuscendo.

All'inizio era stato difficile adattarsi. Cambiare casa fa sempre uno strano effetto, abbandonare un giardino dell'Eden per mettere radici in un altro. Dire Arrivederci a una città e Salve a un'altra. Guardarsi attorno e pensare È qui che vivrò.

Erano partiti appena avevano finito di lavorare sui loro ultimi film. Dane aveva per un attimo esitato, con una delle valigie accanto, pronta ad essere disposta nel bagagliaio del taxi, di fronte al loro appartamento di mattoni rossi. Aveva osservato con forza ogni dettaglio dell'edificio, per imprimerselo nella mente.

Appena lo aveva visto, Daniel lo aveva raggiunto e aveva intrecciato la mano nella sua. «Non è un Addio» gli aveva sussurrato all'orecchio, cercando di sorridere, ma continuando a essere consapevole del tumulto che aveva luogo nel cuore dell'altro. Dane lo aveva guardato a sua volta e aveva sorriso. «Mi mancherà New York» aveva poi detto, appena erano saliti sul taxi.

Dopo qualche mese a San Francisco, la vita quotidiana aveva ripreso il suo corso. Lenta e calma, come tutte le volte in cui non c'era nulla da fare, se non percorrere la città in lungo e in largo. San Francisco aveva quel ché di affascinante, nei suoi quartieri pieni di colore, nelle sue strade in salita e nei tram dall'aspetto antico che le attraversavano. Nelle sue zone di verde montuoso al limitare dell'agglomerato di edifici, nella nebbia del mattino. Nel suo caos e nella sua calma, nella sua armonia.

Armonia dolce, ma fragile, che fu deviata dal suo corso durante un giorno di primavera. Era mattina inoltrata, ma Dane fu comunque sorpreso di sentire qualcuno suonare alla porta. Tutti i loro amici che erano nelle vicinanze o di passaggio avevano già fatto loro visita e i giornalisti non avrebbero mai osato disturbarli fino a quel punto o almeno così Dane sperava. Appena aprì la porta sbarrò gli occhi.

Inizialmente gli parve impossibile che la persona sulla soglia fosse Anne, ma invece lei era lì di fronte a lui, col corpo sempre più magro, fasciato nel suo miglior abito. Dane ricordava bene quel vestito, un tubino di tessuto nero lucido che le arrivava sopra il ginocchio, con una modesta scollatura sul davanti e la schiena completamente scoperta, incredibilmente attillato, che metteva in risalto le sue poche, ma armoniose curve.

La prima sera che lei lo aveva indossato, Dane era caduto ai suoi piedi, adorandola per tutta la notte. Ma ora c'era qualcosa di diverso. In quel momento, il suo corpo gli parve così arido e magro, forse per via del suo nuovo lavoro di modella, forse per la solitudine, che lo costrinse a sviare lo sguardo.

Si accorse solo allora di essere irrimediabilmente cambiato, mentre guardava la bella donna che aveva amato fino allo sfinimento e si accorgeva di non provare più nulla per lei. Sentì solo in quel momento quanto era grande e profondo e insidioso l'oceano che li divideva e con quanta facilità aveva dimenticato tutti i bei momenti che avevano trascorso assieme.

Forse Daniel non c'entrava neppure. Forse il tritacarne che aveva meccanicamente cancellato tutti i ricordi di lui e Anne era sempre stato dentro di lui, come una bestia in letargo, consapevole del fatto che prima o poi sarebbe stata inevitabilmente svegliata.

Dane guardò Anne negli occhi, cercando di mascherare tutto ciò che gli passava per la mente con uno sguardo severo, impenetrabile. «Cosa ci fai qui?» chiese, ancora fermo in casa, pronto a sbatterle la porta in faccia, se necessario.

Anne scoppiò in una risata tutt'altro che tranquillizzante. «Beh, è facilmente intuibile» rispose con voce frivola, mentre si avvicinava. Dane non si mosse, in modo da farle capire che non avrebbe ceduto, ma lei continuò: «So che ti sono mancata». Gli posò una mano sul petto e la fece scorrere sul tessuto leggero della sua maglia.

Fu come se lo avesse sfiorato un ramo ricoperto di brina. Dane sentì solo freddo. Lei era fredda. Prese la sua mano e l'allontanò. «Dopo quello che mi hai fatto hai pure il coraggio di presentarti qui?» le chiese, cercando di liquidarla il prima possibile.

Lei rise di nuovo. «Ah! Parla quello che appena ha potuto è filato via con un... un ragazzo. E poi ha persino messo su casa» disse, indicando con un dito l'abitazione alle loro spalle, indossando un'espressione infantile. «Vi siete proprio dati da fare».

Dane iniziò a sentire la rabbia ribollirgli nel sangue. La voce di lei era più irritante di qualunque cosa. «Che avrei dovuto fare, sentiamo. Rimanere a tua disposizione per quando ti saresti stufata del tuo Eric e intanto passare il tempo pensando a tutto quello che facevate quando io non c'ero?» rispose Dane, alzando la voce e stupendosi, un attimo dopo, di ricordare ancora il nome dell'uomo con cui Anne lo tradiva.

Lei sorrise provocatoria e rispose. «Beh, sì. È proprio quello che ho fatto io e guardami, sono ancora qui!» alzò le braccia al cielo, come se da un momento all'altro un grande faro la illuminasse.

Ma non successe nulla di tutto questo e agli occhi di Dane lei continuò a sembrare la buia e angusta grotta in cui era caduto secoli prima e da cui poi era finalmente scappato. Si ritrovò ad arricciare le labbra, davanti al triste teatrino che gli si presentava di fronte. «Anne, è inutile» scosse la testa. «Ciò che abbiamo provato l'uno per l'altra non esiste più e mai più esisterà».

Non fece in tempo a vedere la reazione di Anne alle sue parole, che si sentì chiamare per nome.

«Dane, cosa c'è? È da un po' che-» Daniel si fermò un attimo, non appena vide Anne. Poi si affrettò a raggiungere Dane sulla soglia e aggrottò la fronte. «Anne?» sussurrò.

«Oh, ecco arrivato il ragazzo che ha rubato il cuore al mio principe. Felice di rivederti, Daniel». Il viso di lei si tinse di un sorriso falso. Si sporse in avanti per stringergli la mano, ma Daniel non si mosse.

«Che succede?» domandò invece, rivolgendo a Dane uno sguardo confuso.

Lui lo guardò a sua volta e poi riportò l'attenzione sulla donna nel vialetto. «Stavo soltanto chiedendo gentilmente ad Anne di lasciare la nostra proprietà» disse gonfiando involontariamente il petto, rendendosi conto di aver usato un linguaggio così americano. Riusciva a ricordarselo pure, suo nonno, quando urlava ai teppisti del paese di lasciare la sua proprietà.

«Vedo che sei ancora lo stesso ragazzo testardo». Anne si morse il labbro, osservandolo con malizia. «Comunque, prima di andare, voglio che tu sappia che qualunque sia la tua scelta, io vi ho in pugno». Il suo sorriso ora era arrogante, mentre il suo sguardo pareva lontano, così lontano.

«Di che stai parlando?» domandò subito Daniel e il sorriso di lei si fece più ampio.

«Io so dei tuoi incubi, Daniel» mormorò piano, incrociando le braccia al petto.

Il giovane attore socchiuse le labbra, ma non disse nulla. Era sempre stato un segreto. Guardò Dane, alla ricerca di un aiuto, di una risposta che però l'altro non aveva ancora formulato.

Anne tornò a parlare. «Hai idea di cosa scriverebbero i giornali, se la notizia si diffondesse?» chiese, rivolgendosi a Dane. «Prima il coming-out, poi questo specie di deficit psicologico. Probabilmente tutti concorderebbero sul fatto che il tuo fidanzatino dovrebbe farsi curare».

Daniel riuscì a far desistere Dane dal reagire stringendogli la mano. L'altro sembrò vacillare per un attimo, poi inspirò rumorosamente e non rispose. La guardò soltanto.

«Avresti dovuto vedere com'era arrabbiata con te, Daniel, la ragazza che mi ha raccontato tutto». Anne si leccò le labbra. «Cosa le hai fatto per sciupare in quel modo il suo viso gentile? Sarah si chiamava, se non sbaglio» disse, rincarando la dose.

Cadde di nuovo il silenzio. La mente di Daniel sembrò inciampare su se stessa. All'improvviso tratti di una conversazione che ormai da tempo aveva dimenticato riemersero.

Daniel, io... io ero così arrabbiata. Ho fatto una cosa che non dovevo fare.

Non te lo meritavi.

È troppo tardi. Perdonami.

Quelle frasi sconnesse andarono in un attimo a incastrarsi nel puzzle grigio che si stava venendo a creare. Guardò Anne con odio. Aveva di sicuro estorto quelle informazioni. Sarah non ne avrebbe mai parlato volontariamente. Doveva averla ingannata, oppure corrotta, con soldi e opportunità lavorative. Non riusciva ancora a crederci.

«Daniel». Dane lo stava guardando. «Lasciami un minuto a parlare da solo con Anne, per favore». Non sorrise ma gli strinse la mano, come ad assicurargli che ce l'avrebbe fatta anche da solo. In un tacito accordo fatto di sguardi, Daniel rientrò in casa, continuando a pensare a Sarah.

Anne sembrò ravvivarsi. «E così hai mandato via il terzo incomodo per avere un po' di intimità» disse allegra, rispondendo da sola al Perché che le vagava nella mente. «Hai per caso intenzione di baciarmi, Dane?» lo stuzzicò.

Lui abbassò lo sguardo. «Dimmi, Anne» mormorò, per poi tornare a guardare i suoi occhi lontani. «Perché ti riduci a questo?».

Lei non rispose e il suo sorriso si incrinò. Il suo corpo sembrò immobilizzarsi, come tutto il resto, ma Dane capì comunque che ora il suo sguardo non era poi così lontano. «Sappiamo entrambi, fin dall'inizio, che tutto questo è solo un futile teatrino» continuò. «Quindi perché insisti ad umiliarti in questo modo, comportandoti come la ragazzina stupida che non sei mai stata?».

Anne era completamente seria ora. Il sorriso era scomparso dal suo volto.

«Non capisco perché continui a struggerti per questo. Per me». Dane si portò le mani al petto, per poi lasciarle cadere lungo i fianchi. «Ti farai solo più male, cercando di aggiustare ciò che ormai è irrimediabilmente rotto».

Il silenzio che li aveva avvolti fino ad allora si appesantì attorno ad Anne, schiacciandola, spingendola sempre più in basso nella sua stessa trappola. Lei tentò di rimediare battendo le ciglia, facendo qualche respiro profondo, ma accadde tutto troppo velocemente. In un attimo aveva iniziato a piangere.

Le lacrime le scorrevano lungo le guance, lentamente, trascinando giù il trucco e gli ultimi rimasugli della ragazzina stupida che aveva parlato fino a quel momento. Pianse come non faceva da anni. Pianse col cuore e non solo con gli occhi. Rimase immobile, mentre una corrente invisibile la trascinava via e continuò a guardare Dane fisso negli occhi, in un'ultima, muta richiesta d'aiuto, prima di gettarsi tra le sue braccia.

Dane all'inizio non si mosse, ma nel giro di pochi secondi cedette alla compassione e la strinse a sua volta, sentendo i singhiozzi di lei rimbombare contro il suo petto.

«Cos'ha-» la sentì mormorare con voce impastata. «Cos'ha lui che io non ho?».

Dane emise un sospiro amaro. In quell'attimo, Anne gli parve una bambina che ha appena perso i suoi genitori e che ha bisogno di qualcuno che l'accudisca. Una bambina che ha paura di porre domande, ma che le pone lo stesso. Una bambina che, nel profondo del cuore, per quanto lo nasconda, continua a credere che tutti i drammi che le accadono siano colpa sua.

Inizialmente non rispose. Aveva paura di dire qualcosa che la distruggesse ancor di più di quanto già non fosse distrutta. Per qualche minuto si limitò a stringere il suo corpo esile, a sostenere quello spettro che sennò sarebbe affondato nel suo petto. Iniziò ad accarezzarle i capelli.

Solo quando sentì che i suoi singhiozzi erano cessati, decise che era il momento di farle dono della sua confessione più profonda, qualcosa che a Daniel non aveva mai detto: «Io credo che l'Amore non sia fatto per esistere per sempre» sussurrò al suo orecchio, a bassa voce. «Ma che sia fatto per essere vissuto, finché dura».

Detto questo la strinse a sé per l'ultima volta.

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Capitolo 28
*** Il caos funziona come un vizio ***


Il caos funziona come un vizio: può essere sradicato solo dalla venuta di un altro suo simile.

Questa era l'unica spiegazione che Daniel riusciva a dare al diminuire della frequenza dei suoi incubi. Da sempre la calma e la diligenza avevano regnato nella sua vita e quei suoi incubi erano le uniche anomalie che spaccavano il ghiaccio.

Ma da quando aveva conosciuto Dane, col passare del tempo, gli incubi erano passati dal manifestarsi nella sua mente una volta ogni tre mesi ad una o due volte all’anno e questo classificava Dane come nuovo caos. Il caos migliore che a Daniel potesse mai capitare.

Sarah e tutte le altre persone che aveva conosciuto in passato non erano come Dane. Non erano complesse, effimere. Non erano provocanti e costantemente misteriose. Non erano ogni giorno una nuova sfida. Non lo avevano mai fatto soffrire e sentire vivo allo stesso tempo. Avevano una sola faccia e non mille sfaccettature.

Dane sapeva passare dall'essere superbo all’essere infantile. Sapeva comportarsi a volte nel modo saggio di chi tasta la terra di fronte a sé con un bastone prima di attraversarla, a volte nel modo impulsivo del ragazzo che si lancia nel fuoco. Poteva dimostrarsi irremovibilmente crudele durante un litigio e infinitamente dolce in un bacio.

Daniel questo lo sapeva bene. Tutte le volte che gli incubi ritornavano, Dane era lì per lui. Si svegliava quando, nella sua mente, Daniel si ritrovava nella Brughiera e iniziava a tremare nel sonno, e accendeva le abat-jour ai lati del letto. Con un braccio gli cingeva la schiena e appoggiava l’altra mano sul suo petto, facendo leggermente pressione, come per impedire al cuore di Daniel di battere troppo velocemente. Poi, con voce dolce, iniziava a canticchiare Imagine, la canzone che aveva sussurrato al buio la sera in cui lui e Daniel si erano ubriacati nell’appartamento di New York, quando per la prima volta avevano intravisto un luccichio di verità l’uno nell’altro.

E Dane rimaneva così, ad aspettare che l'altro affrontasse il finale dell’incubo. La prima cosa che riconnetteva Daniel alla realtà erano gli occhi di Dane che luccicavano chiari nella leggera oscurità della stanza. Poi vedeva il suo sorriso e le sue labbra che si muovevano a pronunciare delle parole. Infine udiva la melodia e i versi di Imagine, miele per la sua mente.
Dane spostava le sue mani dalla schiena e dal petto di Daniel alle sue guance, incorniciando il suo viso, invitandolo a cantare con lui. Quando i loro sussurri si univano, Dane poggiava la propria fronte su quella di Daniel, chiudeva gli occhi e con un bacio leggero gli dava la Buonanotte.

Fu durante il sesto anno che trascorrevano insieme, che Daniel scorse per la seconda volta nel suo incubo una persona che non fosse lui stesso giacere tra l’erica selvatica al posto del cervo. Vedere il viso di Dane, freddo e immobile, senza alcuna espressione, lo spaventò tanto da svegliarlo subito, nel cuore della notte, senza che Dane si accorgesse di nulla.

Daniel iniziò a fare dei profondi respiri, era sconvolto e quando sentì di essersi calmato abbastanza, si alzò. Con passo lento e incerto raggiunse il salotto, facendosi guidare dai raggi di luna che illuminavano la stanza dalla portafinestra. 
Sospirò, mentre si accingeva a prendere un bicchiere dal vassoio dei liquori e a riempirlo di Jack Daniel’s.

Con qualche passo raggiunse la portafinestra, poi guardò fuori: la notte era luminosa. Ovunque volgesse lo sguardo era tutto luce e riflessi, tranne il cielo, terso e violaceo. Bevve un sorso di liquore, prima di poggiare il bicchiere sul tavolino da caffè e sedersi sulla poltrona accanto alla portafinestra. 
San Francisco avrebbe potuto distogliere la sua attenzione in mille maniere, ma in quel momento lui riusciva a pensare solamente al suo incubo.

Cominciò col chiedersi Perché, perché continuava a portarsi addosso quel ricordo di morte. Era forse qualcosa di importante, così importante da tormentarlo? Un pensiero malvagio, un tratto di cattiveria su cui non poteva esercitare alcun controllo? Oppure era solamente paura? Paura di lasciar andare il passato, paura di perdere il presente?

Daniel abbassò lo sguardo, mentre si domandava se la morte di Dane nel suo incubo avesse qualcosa a che fare con lui. L’autrice di quell’immagine era stata la sua mente, dopotutto. Ma rifiutò questa possibilità quasi subito. Non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere a una persona cara, non avrebbe mai voluto. Non ce n’era motivo e mai ce ne sarebbe stato.

Si diede dello stupido per averci anche solo pensato e, quando si fu alzato, lanciò un ultimo sguardo al bicchiere sul tavolo da caffè per poi afferrarlo senza esitazione e berne tutto il contenuto d’un fiato. Era il suo modo di cancellare ciò che era stato.

Appena tornò in camera da letto si fermò ad osservare Dane che dormiva, le sue spalle strette scoperte e le sue labbra socchiuse, come quelle di un bambino intento a sognare. L’ultima domanda che si pose fu se gli importava veramente conoscere il significato del suo incubo. Sorrise.

Mentre si avvicinava a Dane e si chinava per baciarlo, pensò che sapere il perché dei suoi incubi non avrebbe fatto alcuna differenza. In seguito non ebbe più l’occasione di riflettere sui suoi dubbi a riguardo, perché gli incubi non si ripresentarono più e perché quella notte, mentre aspettava che Dane aprisse gli occhi, decise che quello che già aveva gli sarebbe bastato.

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Capitolo 29
*** La pallina andò a segno e il flipper smise di funzionare ***


San Francisco era particolarmente affollata quel sabato pomeriggio. Le strade erano gremite di gente di tutti i tipi, indaffarata a svolgere mille compiti diversi nel minor tempo possibile.

Daniel camminava tra la folla. Mani nelle tasche, passo lento, nessuno lo notava. Sembrava percorrere una corsia preferenziale, completamente estranea a quelle altrui, sempre rapide e trafficate. Le persone gli scorrevano attorno veloci, senza fermarsi un attimo, come centinaia di treni sulle loro rotaie.

In pochi incontravano il suo sguardo. Quasi tutti tenevano gli occhi rivolti a terra, sullo schermo del cellulare o dritti di fronte a loro. Attorno a lui c'erano decine di sguardi che guardavano altrettante decine di sguardi senza mai guardarli veramente. In verità osservavano tutto l’ammasso nel suo insieme, un solo grande pesce formato da tanti piccoli pesci, vicini, stretti, che nuotano all'unisono nell'oceano, invulnerabili.

Questo Daniel lo leggeva nel loro sguardo fermo, concentrato verso una sola e irremovibile direzione. Non c'era tempo da perdere, in quegli sguardi.

Daniel cercava di incrociarli uno ad uno, anche se solamente per un misero secondo, nel tentativo di decifrarli e, nei casi più eccezionali, di far scattare qualcosa in loro: uno sguardo in risposta, un cedimento nella loro espressione fredda o anche un semplice pensiero discordante. Tutto sarebbe andato bene, qualunque cosa lo avrebbe fatto sorridere.

Mentre camminava, per un attimo Daniel notò una figura seduta su una panchina, sul limitare del marciapiede. Si trattava di una ragazza, forse di quattordici, quindici anni. Stava china su un piccolo quaderno, coi lunghi e lisci capelli bruni a coprirle un lato del viso, segnato qua e là da gruppetti di lentiggini leggere.

Non indossava nulla di accattivante, una semplice canottiera nera che le lasciava le spalle spoglie, mentre le sue gambe magre erano coperte solo da dei pantaloncini corti in jeans e per un momento nella mente di Daniel passò l'idea di sedersi accanto a lei e stringerla, perché probabilmente aveva freddo. 
La sua pelle era chiarissima e per certi versi gli ricordò Catherine, la sorella di Dane, anche se non fu quel dettaglio a catturare il suo sguardo.

Era la sua espressione che lo interessava, il modo in cui il suo candido viso rotondo era segnato da una sfumatura di tristezza, come se ciò che stava scrivendo la stesse costringendo a pensare a qualcosa che in passato la aveva amareggiata o spiazzata o lasciata confusa.

Improvvisamente sentì che loro due non erano molto diversi. Un tempo lui si era trovato nella sua stessa situazione, con quella stessa espressione persa sul volto, a scrivere poesie, mute richieste d'aiuto, nel tentativo di riordinare i pensieri e riacquistare chiarezza.

La osservò a lungo, mentre camminava e sperò di rivederla un giorno, felice. Poi passò oltre, non poteva fare tardi. Doveva comprare una cosa e, se non si fosse affrettato a raggiungere la fermata dei tram, il negozio a cui era diretto avrebbe sicuramente chiuso.

Ma prima che potesse raggiungere la fermata, a pochi passi da lui, un ragazzo che stava andando nella direzione opposta e che procedeva altrettanto velocemente, lo travolse. Non lo guardò neppure, dopo averlo spintonato, ma si limitò a sibilare un aggressivo «Sta attento a dove vai, finocchio»

Daniel rimase fermo per un attimo a guardare quel ragazzo scomparire come fumo tra la folla, per poi tornare a camminare a sguardo basso, come scosso. Si sedette sul primo posto libero che trovò alla fermata e guardò il tabellone elettronico degli orari. Dieci minuti e poi sarebbe passato il suo tram.

«Hey amico, mi dispiace per quello che ti ha detto quel tipo».

Daniel voltò svogliatamente lo sguardo a sinistra, per poter guardare in volto il suo interlocutore. Si trattava di una ragazza della sua età, semplice, dai lunghi e ordinati capelli biondi, gli occhi azzurri e la corporatura robusta. Il suo sguardo era luminoso e invogliava a sorridere.

«I giovani d'oggi ormai non si ingegnano più negli insulti. Dicono sempre solo finocchio o checca, così sono sicuri di offenderti se non sei gay e di ferirti se lo sei» aggiunse questa, con espressione accigliata.

Daniel si limitò ad annuire, per poi tornare a guardare il tabellone. Continuavano a mancare dieci minuti.

«Comunque, che tram devi prendere tu?». La ragazza parlò di nuovo, accavallando le gambe.

Daniel la guardò, chiedendosi perché volesse intrattenere una conversazione con una persona che è stata appena insultata e che quindi non è dell'umore migliore. «Il 69» rispose con voce incerta.

«Ah! Uno dei primi» esclamò lei ridendo. «Noi dobbiamo aspettare il 27, che arriva fra un bel po’» disse, posando uno sguardo veloce sullo smalto verde acqua delle sue unghie. «Comunque scommetto che con la sfortuna che abbiamo non ci capiterà neppure uno di quei tram antichi che pullulano in questa città, ma uno di quelli moderni e tristi» aggiunse. «Non so te, ma a volte io ho proprio l'impressione che la sfortuna mi perseguiti. Una delle poche cose che sono andate come volevamo è stato il nostro matrimonio, non è vero?».

Questa volta si rivolse alla ragazza seduta accanto a lei, che si sporse in avanti per poter guardare Daniel e poi sussurrò «Vero» annuendo e facendo così scuotere i capelli neri a caschetto che le incorniciavano il viso dalla pelle color caramello.

«Già. Siamo state fortunate. Nessun omofobo a disturbare la cerimonia, nessuna protesta pubblica, insomma, il matrimonio perfetto» disse la ragazza bionda, sorridendo a quella seduta accanto a lei e stringendole la mano.

Daniel si ritrovò a sorridere. «Quindi state insieme» disse, sistemandosi meglio sulla seggiola di plastica della fermata.

Entrambe annuirono. «Da un anno ormai» disse quella col caschetto, con sguardo timido. «Anche se sembra ieri».

Daniel sorrise di nuovo, poi si morse il labbro inferiore. «Non avevate paura di compiere un passo tanto grande?» chiese a bassa voce, percependo con dispiacere quanto quella domanda diceva della situazione delicata tra lui e Dane.

«Ma figurati!» rispose subito la ragazza dallo sguardo vivace, iniziando a ridere. «A me importava solo che dicessero Ora puoi baciare la sposa».

Rise anche l'altra. «Menti!» esclamò, poi si rivolse a Daniel. «Lei aspettava solamente il ricevimento per potersi abbuffare come Dio solo sa cosa».

Daniel alzò le sopracciglia e non riuscì a resistere alla loro allegria contagiosa.

«Colpevole». La diretta interessata alzò le mani al cielo in segno di resa. «Comunque non mangiavo da mesi. Non avete idea di che dieta impossibile ho dovuto fare per poter entrare nel vestito!»

Continuarono a dialogare allegramente, del più e del meno, senza neppure conoscere gli uni i nomi degli altri, fino all'arrivo del tram numero 69.

Appena salì e iniziò ad allontanarsi, Daniel sentì una fitta al petto. Non era sicuro che avrebbe rivisto quelle due ragazze, ma non poteva nemmeno dire che si sarebbe dimenticato di loro, assolutamente no.

Il viaggio sembrò durare un’eternità ma, quando finì, Daniel si trovò proprio di fronte al negozio che cercava. Era abbastanza piccolo e luminoso. Da fuori si potevano scorgere i clienti indaffarati a esaminare con lo sguardo le vetrinette in cui erano esposti gli oggetti in vendita, appena dentro, due bodyguard piantonavano l'entrata, per impedire che qualche malintenzionato rubasse la merce e scappasse.

Daniel all'inizio non si mosse di un passo. La sua mente era in subbuglio come un flipper, un continuo Lo faccio o non lo faccio?

Doveva prendere una decisione che gli avrebbe cambiato la vita per sempre e non si sentiva completamente pronto. Aveva paura che avrebbe preso l'ennesima porta in faccia, l'ennesimo Non lo so, l'ennesima decisione che viene accantonata, lasciata incompiuta per settimane.

Poi si ricordò le due ragazze alla fermata del tram, il modo in cui erano felici. Fece un respiro profondo. La pallina andò a segno e il flipper smise di funzionare.

Per un attimo provò una bellissima sensazione di leggerezza. Lo faccio per Dane, pensò, prima di compiere il primo passo.

Angolo Autrice :)

Vooolevate che la tipa ci stesse provando con Daniel, eh?😋

Allora, ne approfitto per fare pubblicità al mio libro preferito: La stanza di Giovanni, di James Baldwin, perchè un pezzo di questo capitolo (un solo grande pesce formato da tanti piccoli pesci, vicini, stretti, che nuotano all'unisono nell'oceano, invulnerabili.) è ispirato da un paragrafo di quel libro, perfetto per chi vuole leggere una storia d'amore non convenzionale (ci siamo capiti) unita ad una scrittura sublime e a dei personaggi principali meravigliosamente complessi.

Ultimissima cosa: è solito degli scrittori dare un senso e un'utililtà a qualunque personaggio compaia nei loro scritti. Ecco, non è il caso della ragazza dell'inizio, seduta sulla panchina. Ho deciso di descrivere quel personaggio perchè nel momento in cui ho scritto questo capitolo sentivo il bisogno di dar vita a quel soggetto, anche solo per poterlo imprimere per sempre su carta. Non per un motivo in qualche modo utile alla narrazione della storia.

Tutto questo per chiedervi di perdonarmi per quella sviolinata. Almeno spero che il modo in cui l'ho descritta vi sia piaciuto ;)

Virgiz01

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Capitolo 30
*** Un passo e sarebbe cambiato tutto ✨Epilogo✨ ***


Dieci passi. Nove passi. Otto passi. Daniel percorreva lentamente il salotto dalle pareti color panna.

Sette passi. Sei passi. Cinque passi. Lanciò un'occhiata veloce agli oggetti poggiati sul lungo comò nero a cui era appena passato vicino. Si trattava di piccoli souvenir provenienti dalle città in cui lui e Dane erano stati per lavoro o svago.

Ogni volta che li guardava, Daniel notava la sottile patina degli anni trascorsi ricoprirli e non poteva fare a meno di sospirare. Ma quel giorno non si abbandonò ai ricordi di tutto quel tempo passato, aveva altro per la testa.

Quattro passi. Tre passi. Due passi. Era da stupidi, ma non riusciva a fare a meno di contare quanti gliene mancavano per raggiungere la porta finestra che occupava quasi un'intera parete del salotto. Mano a mano che si avvicinava, si facevano sempre più pesanti.

Un passo. Un passo e sarebbe cambiato tutto.

Si fermò. Fuori dalla porta finestra tirava un venticello fresco che scuoteva piano gli arbusti del giardino e che faceva scivolare le foglie autunnali sulle piastrelle della terrazza, come piccole barche in un mare d'aria. Ad est il cielo era azzurrino e opaco, mentre ad ovest, tra le nuvole, si apriva uno spiraglio chiaro, attraverso il quale il sole proiettava i suoi flebili raggi sulla porzione di cielo in prossimità del tramonto.

Dane era in piedi, poggiato col lato sinistro del busto al parapetto della terrazza. Dava la fronte al tramonto e leggeva un libro dallo spessore sottile, la copertina blu scuro, le rifiniture dorate, un libro che Daniel riconobbe all'istante come Il Giovane Holden. Era l'ennesima volta che Dane lo leggeva.

Il libro tremava impercettibilmente, stretto nella mano destra di Dane. Evidentemente aveva freddo. L'altra mano la posava di continuo sulla fronte, per scostare le ciocche ribelli mosse dal vento e il suo maglione giaceva dimenticato, arrotolato sul tavolo della terrazza, troppo poco importante rispetto al finale del libro.

Un passo. Daniel continuò a non muoversi. Dane aveva catturato il suo sguardo: la sua pelle, solitamente diafana, aveva preso la sfumatura del caramello. Il colore dei raggi di quel tramonto gli illuminava i capelli disordinati. Le sue labbra sottili erano socchiuse, così come i suoi occhi, per colpa del vento.

Un accenno di sorriso si insinuò nel viso del giovane uomo in salotto. Daniel non riusciva a credere che tutto quello che aveva sempre desiderato, l'amore più grande che aveva sempre sognato, fosse lì con lui, dall'altra parte del vetro.

Dane finì di leggere le ultime righe. Lentamente alzò lo sguardo sul tramonto e sospirò. I suoi occhi brillavano ed erano lucidi. Con movimenti lenti inserì il ferma libro tra le pagine e chiuse Il Giovane Holden.

Un passo. Daniel decise che quello era il momento. Non ci sarebbe stata una seconda occasione. Con un movimento silenzioso fece scattare la maniglia e aprì la porta a vetro. Il ragazzo col libro in mano si voltò.

«Ehy» disse Daniel, facendo la sua timida comparsa in terrazza. 

Lo sguardo di Dane percorse impercettibilmente la sua figura, per poi posarsi sui suoi occhi. Le labbra erano ancora socchiuse, ma la sua espressione questa volta era curiosa. «Era da molto che mi osservavi?» chiese.

«Solo da un po'» rispose Daniel, alzando le spalle. Probabilmente si trattava di pochi attimi, ma a lui erano sembrati secoli.

Dane annuì. Non trovava niente da dire, per cui strofinò con la mano la copertina ruvida de Il Giovane Holden, che poi poggiò distrattamente sul tavolo. Scese il completo silenzio. Il vento aveva smesso di soffiare.

Ora Dane si era riappoggiato al parapetto e guardava Daniel con il suo tipico sguardo enigmatico, tra il tenero e il malinconico. Sapeva che l'altro aveva qualcosa da dirgli, lo capiva dal suo sguardo fragile e, come sempre, con grande tranquillità, aspettò che lui si aprisse da solo, come un bocciolo, senza essere forzato.

Le parole pesavano come macigni nella gola di Daniel. Il suo respiro era grave e stava cercando di raccogliere le forze, ma fu il sorriso che gli rivolse Dane a dargli la spinta decisiva. «Dane» esordì, facendo qualche altro passo avanti.

«Sembra una faccenda seria» scherzò l'altro, cercando di sciogliere la tensione e nascondere la propria preoccupazione.

«Infatti lo è» rispose prontamente Daniel, tentando di rimanere serio, ma sorridendo appena mentre avanzava di un altro passo, per poi fermarsi, come indeciso.

«D'accordo» acconsentì l'altro.

Daniel emise un profondo respiro. «Dane, sei la cosa migliore che potesse capitare nella mia vita e il tempo che abbiamo trascorso insieme è il suo dono più prezioso» cominciò, non senza sentire l'emozione scorrere in ogni dove nel suo corpo, come un fiume in piena. «Durante questi anni ne abbiamo passate così tante. Momenti belli, momenti difficili, affrontati sempre l'uno accanto all'altro. Nulla è mai rimasto lo stesso, tutto si è reso nuovo e affascinante. Sono cresciuto molto, con te, e soprattutto ti ho amato. Amato follemente». Detto questo fece un ultimo passo, trovandosi a mezzo metro scarso da Dane. Prese la mano sinistra di lui tra le sue e la strinse. «E credo che tu sappia che ti amerò sempre».

Daniel portò la mano di Dane alle labbra e vi lasciò un piccolo bacio. L'altro arrossì e si morse il labbro inferiore, sempre sorridendo, com'era solito fare.

«E devo... porti una domanda». Lasciò la mano di Dane e si inginocchiò di fronte a lui, per poi estrarre dalla tasca destra dei pantaloni una scatolina di velluto rosso.

L'espressione di Dane mutò completamente quando un'ipotesi certa gli balenò in mente. La tensione raggiunse il culmine in ogni sua parte del corpo, riversandosi nel suo sguardo.

Daniel aprì la scatolina. Dentro vi era un anello argentato con un piccolo diamantino incastonato nel centro, semplice, ma raffinato. Quando Dane lo vide, perse un respiro, due, forse dieci.

«So che per te è sempre difficile affrontare i cambiamenti o le decisioni più importanti» continuò Daniel. «So che tu non vuoi soffrire e che non vuoi veder soffrire. Ma io ti amo più di ogni altra cosa e ti giuro che sarò forte, più di quanto sono mai stato fino ad ora, e sarò al tuo fianco sempre». Tolse con delicatezza l'anello dalla scatolina di velluto rosso.

«Ti voglio donare quest'anello perché ci ho riflettuto tanto e ho capito che non mi importa di tutto quello che potrà succedere. Ho capito che tu sei più importante di questa nostra stupida paura di rischiare». Prese la mano sinistra e tremante di Dane e infilò l'anello sul suo anulare, iniziando a sentire gli occhi pizzicare. «Questa è la mia promessa, Dane. La mia promessa più grande». Lasciò che le lacrime calde gli rigassero il volto, prima di guardarlo negli occhi.

«Io ti voglio sposare perché così tu saprai che io sono tuo. Io ti voglio sposare perché voglio essere parte di te, Dane, come tu sei parte di me e lo sei sempre stato». Prese nuovamente un profondo respiro e, con il suo solito sorriso timido, disse «E tu, Dane, vuoi sposarmi?».

L'attimo dopo rimasero solo due respiri mozzati. Due sguardi offuscati dalle lacrime. 
Dane annaspò per qualche secondo. Il giorno tanto temuto era arrivato e lo aveva colpito con tutta la sua chiarezza.

Daniel amava Daniel con tutto se stesso, indissolubilmente e senza alcuna riserva. Le sue parole erano chiare e profonde, luminose. Dane non aveva mai osservato una situazione del genere da quel punto di vista.

Vale veramente la pena? Chi mi dice che non sarà l'ennesima scelta sbagliata? si chiese. L'anello sul suo anulare sinistro era insidioso, ma più di ogni cosa raggiante. Il volto di Daniel in quel momento era tutto ciò che potesse mai desiderare dal suo futuro. Per la prima volta in vita sua guardò se stesso negli occhi e non ci vide alcuna paura.

Un ultimo attimo di silenzio straziante e poi un sussurro: «Sì».

Daniel scattò in piedi e lo abbracciò senza esitazione, singhiozzando. Dane lo strinse e sorrise, mentre lo abbracciava a sua volta. «Sì, Daniel. Ti voglio sposare» ripeté, piangendo anche lui. In quel momento si sentì l'uomo più fortunato del mondo.

L'abbraccio, da stretto e possessivo, divenne a poco a poco più sciolto e gentile. Uno di quegli abbracci che valgono più di tutti i baci del mondo. «Dane, grazie» mormorò Daniel contro la sua spalla.

Dane sciolse l'abbraccio e gli accarezzò una guancia, cancellando le sue lacrime. «Sono io a doverti ringraziare» disse semplicemente. «Ti sei fidato di me, quando io non avevo più fiducia in me stesso e mi hai amato, quando io non riuscivo più ad amare nulla che non fosse il mio stupido gioco».

«Uno stupido gioco che ci ha portati fin qui» sussurrò Daniel, mostrando un sorriso tenero. Dane fece lo stesso.
Continuarono a guardarsi negli occhi. L'azzurro intenso del mare nell'azzurro chiaro del cielo annuvolato.

Poi Daniel si voltò lentamente verso il giardino oltre la terrazza e portò Dane per mano fino al parapetto, appoggiandovi il busto, lo sguardo rivolto alla metropoli. Erano due sagome unite, che si stagliavano forti contro le luci di San Francisco.

Il sorriso di Dane non aveva ancora abbandonato le sue labbra, timido e dolce come solo i sorrisi di chi non potrebbe essere più felice d'aver fatto una scelta e già pregusta il futuro che ne verrà. 
Fu guardando quel sorriso che Daniel sentì la felicità vibrare nell'aria, trasportata dal vento, come un profumo astratto. Era uno Splendido Attimo.

Dane poggiò la mano sulla sua guancia e accarezzò delicatamente il suo viso, per poi suggellare tutte le loro parole in un bacio intenso. A modo suo gli diceva che si fidava completamente di lui, che non avrebbe mai più finto, che voleva per loro un Per Sempre più di ogni altra cosa.

Quando il loro bacio si dissolse, così avvenne con tutto il resto. In quella nube dall'aroma di ricordi, rimase solo lo sguardo profondo di Dane, color speranza, in cui Daniel vide l'intera vita che avrebbero trascorso insieme.

E in quel momento poteva dire tutto, ma non che non l'avrebbe vissuta.

Fin.

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Capitolo 31
*** ❤Scleri, Precisazioni e Profusioni d'Affetto❤ ***


Ragazzi, che dire se non che sono felice? Felice di essere arrivata qui, dopo tre lunghi e necessari anni di scrittura e revisione. Felice di esserci arrivata col sostegno di persone meravigliose. Felice di esserci arrivata con questa storia.

E voi, voi siete felici? Spero di sì, lo spero con tutto il cuore.
(Lo so, lo so, sono sdolcinata. Ma veramente non riesco a trattenermi :,)

Bene, ora aprirei un piccolo angolino di pagina per alcune precisazioni:

Il film che fa da sfondo a questa storia e molti dei personaggi sono reali, ma allo stesso tempo unici. All'inizio avevo pensato di fare il Manzoni della situazione e rimanere fedele a nomi, azioni, personalità ecc... poi ho cambiato idea per svariati motivi e il risultato è che delle cose, dei fatti e delle persone a cui mi sono ispirata non rimane che un'ombra.

Il nome del film l'ho cambiato, anche se le poche scene descritte sono originali, in alcuni casi leggerissimamente modificate, e sono prese dalla pellicola Kill Your Darlings - Giovani Ribelli, che è uno dei miei film preferiti, nonchè il film che ha cambiato la mia vita.
Mentre degli attori ho mantenuto solo i nomi (non i cognomi) e il loro aspetto esteriore. Le loro personalità e storie di vita le ho completamente stravolte. Per esempio Dane e Anne nella realtà sono sposati e sono bellissimi insieme. Inoltre hanno una figlia 😍

Quindi, cari miei attori nella vita reale, se volete denunciarmi... evitate. Non ce n'è seriamente bisogno, tanto siete già sbarcati di soldi e questa storia non la leggerà nessuno.

Penso di non avere altre precisazioni da fare 😂 Se non il fatto che mi trovate anche su Wattpad con lo stesso nome profilo e le stesse storie.


Spero che la storia vi sia piaciuta! Non esitate a lasciare un commentino. Sono curiosissima di sapere che ne pensate *-*

Detto questo, Passo e Chiudo 🏳‍🌈

Virgiz01

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