I Pinguini Non Sanno Volare

di whitemushroom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


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“Sei pregato di non mettere i piedi sul divano, Oswald”.
Edward si accascia su una sedia, buttando giù una delle sue pillole. La giornata non è stata delle migliori.
Trovare una nemesi è quasi peggio che trovare un amico.
Ha la giacca ancora sporca del sangue di quel penoso docente di chimica; il primo pensiero è quello di correre in bagno a cambiarsi, ma l’occhio gli cade sulle pozze d’acqua lasciate dal passaggio del suo amico. “Ti dispiacerebbe ripulire questo macello?”
“Nervosetti stasera?”
Dio, se sa essere irritante certe volte! Per nulla intimorito dal suo tono minaccioso, Oswald lascia a bella posta una pedata di fango sul telo del divano e si versa un bicchiere di Scotch. Edward fa per alzarsi con l’intento di strapparglielo dalle mani e costringerlo a pulire il pavimento con la lingua, se necessario, poi lo manda al diavolo e si abbandona sulla poltrona. Il telo è pieno di buchi ed avrebbe un urgente bisogno di essere rammendato, ma è troppo stanco per alzarsi e prendere la scatola del cucito. “Ho bisogno schiarirmi le idee, Oswald”.
“Come vedi sono qui” risponde. Versa un secondo bicchiere, e a Ed non sfugge il sorriso che gli attraversa le labbra quando glielo porge. “Inizia tu”.
“Molto bene”.
Sì, già va meglio. Va sempre meglio quando il suo cervello inizia a creare. “Sono una creatura dai tanti volti. Vivo nelle tenebre, e mille uomini mi danno la caccia. Se vengo scoperto perdo l’anima, la vita ed il nome”


L’aria di quella casa profuma di plumcake e biscotti allo zenzero.
In fondo non sarebbe tanto male come risveglio, ma le cinghie che gli avviluppano i polsi e lo bloccano al letto dicono un’altra cosa.
Un bisogno di rimettere gli attraversa il corpo, e la gola di Oswald Cobblepot implora un sorso d’acqua.
“Scusami, amico, ti ho dovuto imbottire di morfina. Ma stai tranquillo, sono riuscito a levarti quel proiettile” dice il tipo strano, lo spilungone con gli occhiali. Oswald ricorda di averlo visto nel bosco, davanti alla sua roulotte, ma appena il cervello cerca di fare marcia indietro tutto inizia a girare. Il volto senza vita di sua madre sembra l’unico ricordo immobile.
“Adesso ti libero. Però sarebbe carino se non mi vomitassi sul pavimento. Sono stato ore a pulire tutto quel sangue” dice l’altro. Oswald si sforza di mettere a fuoco il viso del tipo, di ricordare dove abbia già incontrato il suo salvatore improvvisato.
“Tu sei quello della GCPD, vero? Il tipo che mi ha posto quell'enigma …”
“Ma che bella memoria. Allora, tutti sanno aprirmi, nessuno sa chiudermi. Chi sono?”
“Un uovo”.
Tutti i dati in suo possesso indicano che è appena finito nelle mani di un pazzo psicolabile. Il che, a dirla tutta, non è poi un enorme problema. Sono a Gotham, e qui un tipo abile col bisturi ed il pallino per gli indovinelli non rientra nemmeno nel livello di codice di allerta arancione. Specie se suddetta persona gli ha appena salvato la vita e “sembra” non avere intenzioni ostili, almeno a giudicare dal piatto pieno di pancetta e uovo che gli viene servito sotto il naso. “Sei davvero intelligente come dicono. Fantastico! Dai, adesso tocca a me indovinare”.
Oswald manda giù la colazione. Ha bisogno di riprendersi tutto.
Non solo le forze, ma molto altro.
Il suo regno. La sua vita. E la vendetta, quella prima di ogni altra cosa.
Gli indovinelli iniziano a rincorrersi nella stanza e, quando il Pinguino alza gli occhi verso la pendola, si accorge di aver passato più di sei ore pensando solo a come battere uno stupido spilungone con una ancora più stupida fissazione per gli enigmi.
E, detesta ammetterlo, non si è mai divertito così tanto.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


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Gli erano mancate quelle serate. Dio, se gli erano mancate.
“Versami un altro goccio” mormora.
Il sapore dello Scotch è perfetto per accompagnare la pillola. È già alla seconda della giornata, ma può sopportarne gli effetti indesiderati. “Adesso tocca a te”.
“Suvvia, Ed, preferisci essere tu quello che pone gli enigmi. Quindi sentiti libero di creare”.
Verissimo.
Un enigma mette a nudo l’essenza di una persona. Le sue reazioni, le sue paure, il suo cervello, un indovinello ben congegnato è in grado di rivelare i punti più nascosti del proprio avversario. Vi è un sottile piacere nel vedere le vittime arrovellarsi alla ricerca della soluzione.
Con Oswald, però, quella sensazione è sempre di breve durata.
“Sono figlio dell’acqua, ma se l’acqua mi tocca … beh, io muoio!”


“Ehm … Oswald … esattamente cosa sarebbe questo … uhmmm … piatto?”
“Gulash, amico mio. Preparato secondo la ricetta di mia madre”.
Quarta regola del nascondere un esponente della malavita di Gotham a casa propria: mai attardarsi a lavoro. Suddetto esponente della malavita potrebbe sentirsi in obbligo di ripagare l’ospitalità cucinando la cena per te.
La carne stufata galleggia nel sugo rossiccio, sfidandolo a mettere la punta della forchetta lì dentro. Ha più o meno l’aspetto di un fegato spiaccicato in un tripudio di liquido cerebrale, ma la cosa peggiore rimane il sorriso carico di orgoglio che Oswald non riesce a levarsi dalla faccia.
Non che Edward Nygma si consideri un cuoco esperto, ma in tutti quegli anni da single la scelta è stata sottostare alla schiavitù delle scatolette oppure apprendere i rudimenti della nobile arte dei fornelli; il sospetto che il suo nuovo amico pennuto non abbia mai acceso nemmeno l’interruttore del forno gli si fa strada nella testa insieme al più rapido piano per evadere da quella scomoda situazione che renderebbe una fuga da Arkham idillica quanto una gita scolastica.
“Wow, sembra delizioso!” dice, sforzandosi di apparire credibile. “Vado un attimo in cucina ad aggiungerci un po’ di sale”.
Non appena varca l’agognata soglia, metà del gulash intraprende un rapido viaggio fuori dalla finestra.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


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“Noto che non hai perso lo smalto”
“Avrei dovuto?”
Oswald si stiracchia senza alcun ritegno. Ed detesta ammetterlo, ma l’uomo seduto di fronte a lui è l’unico in grado di tenergli testa, quella minuscola caricatura a metà tra l’uomo ed il volatile che sembra nata solo per farlo impazzire.
Osservandolo di sottecchi, ancora zuppo e con addosso l’odore del molo di Gotham, Ed si domanda se, nella sua vita, sia entrata prima la pazzia o prima Oswald Cobblepot, oppure se siano entrambe due facce di una medaglia che gli si è stretta intorno al collo fino a trascinarlo nell’abisso.
L’unica cosa certa è che non riesce in alcun modo a farne a meno. “Percepisco ogni tuo movimento, conosco ogni tuo pensiero. Sono con te dalla nascita, e ti guarderò marcire”.


Il sangue non vuole saperne di fermarsi.
Lavarsi con quell’acqua che odora di fogna è un modo praticamente infallibile di prendersi una setticemia.
Cinque giorni.
Non ne resisterà altrettanti.
Non quando quel pazzoide che si crede l’angelo sterminatore del Dio delle Pulci gli ha rifilato un pugno in piena faccia perché riteneva blasfema la montatura dei suoi occhiali.
“Qualcuno ha bisogno di una mano?”
Ed inizia a tremare.
È l’altro Ed. L’Ed che vive nel riflesso dello specchio. “Tu … tu te n’eri andato!”
“Ma io sono il tuo migliore amico, Ed!” gli risponde l’altro. È bellissimo, pulito, ed anche nella puzza delle latrine di Arkham è ben rasato e vestito come se dovesse andare al galà della Wayne Enterprise. “E i veri amici si vedono nel momento del bisogno, a differenza di quell’uccellaccio storpio!”
“Oswald non mi lascerà marcire qui dentro”.
“Lo ha già fatto, Ed. Fidati, è troppo preso nella sua candidatura a sindaco per occuparsi di un patetico omuncolo come te con un bell’omicidio sulla fedina penale. Gli rovineresti l’immagine!”
E ride.
Ed vorrebbe avere quella sua bellissima risata. Era un po’ che non la sentiva tintinnare dentro di sé: in effetti, da quando Oswald era entrato a gamba tesa nella sua esistenza, l’Ed dello specchio non si era più fatto vedere. Fino a quel momento.
Giusto.
È di nuovo solo.
Oswald non verrà mai a prenderlo. Lui stesso non verrebbe a prendersi.
“Visite per te, Nygma”. Non si era nemmeno accorto del secondino sovrappeso che lo sta fissando con un rivolo di senape che ancora gli pende da un lato della bocca. “Non capisco perché il futuro sindaco voglia parlare con un rifiuto della tua risma, ma … bah, è nella sala colloqui”.
Prima ancora di realizzare cosa stia succedendo Ed si ritrova fuori, col cuore in gola e le gambe che scalpitano per uscire dal bagno.
Si volta verso lo specchio, terrorizzato, ma gli rispondono solo la sua faccia piena di sangue e la barba non rasata da cinque giorni.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


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La pendola batte le dieci di sera, e la notte è ancora giovane. Era sicuro che, a furia di chiacchierare con Oswald, il tempo sarebbe corso in avanti come un cavallo imbizzarrito, ma per qualche strano motivo la loro gara abituale non lo ha condotto per mano fino oltre la mezzanotte.
La luna risplende, e senza chiedersene il motivo Ed esce di casa, attraversando il giardino che Oswald ha sempre preteso fosse ancora più curato della propria stanza da letto; non fa freddo e camminano entrambi in camicia, scivolando tra i vialetti dove la luce argentata della luna crea degli scherzi, delle figure immaginarie tra le siepi ed i cespugli.
Buffo, l’unica cosa a cui riesce a pensare è che un luogo simile sarebbe piaciuto tantissimo a Kristin.
Il cuore del giardino è uno stupendo manto bianco. Oswald si ferma, con un sorriso nostalgico dipinto su quella faccia da rapace.
Ha sempre adorato i mughetti.
Ci sono stati dei momenti in cui Ed ha avuto persino l’impressione di poter scorgere un uomo sotto le piume arruffate del Pinguino. Istanti rarissimi scanditi da quello strano modo di increspare le labbra, dove quelle iridi indurite dalla città di Gotham si voltano verso il basso e galoppano indietro nel tempo.
Gli ci è voluto del tempo per capire che Oswald Cobblepot, uno dei più pericolosi mostri della loro città, si concede questi piccoli attimi di debolezza solo in sua presenza; e, nel loro mondo, una simile debolezza è il primo passo per la rovina. Edward fissa rassegnato i piccoli fiori, cercando di sganciare il proprio compagno dal loro incantesimo nell’unico modo a sua disposizione: “Quando sono dritto, lui è sdraiato. Quando sono sdraiato, lui è dritto”.


Idiota …
Oswald si siede sulla panchina, fissando il molo.
Troppi ricordi. Dolorosi, certo, ma soprattutto … troppi.
Quando le temperature si abbassano il piede torna a fargli male; ha sentito l’ennesimo ortopedico tre giorni fa, ma la risposta è sempre la stessa.
Quasi non si accorge di Ed, sedutosi al suo fianco. “Scusami. Non intendevo farmi gli affari tuoi”.
“No, Ed. L’idiota sono io” mormora, fissando quel punto indefinito dell’orizzonte dove i gabbiani si immergono nella foschia. “Non avrei dovuto risponderti male”.
Vorrebbe trovare le parole giuste.
Vorrebbe trovare un modo per raccontargli di Fish e di quella notte, di quel dolore che non saprebbe nemmeno descrivere.
Di quanto sia difficile salire le scale quando tutti ti fissano mentre maledici ogni singolo gradino. Credeva di poter parlare di tutto con Ed, eppure è stato capace solo di urlargli addosso senza alcuna ragione.
Nei riflessi del sole sul mare gli sembra di rivedere il sorriso di quella puttana di Fish.
“Abbiamo tutti i nostri segreti, Oswald” dice Ed. Dalla tasca della giacca estrae un paio di occhiali da donna, ammirandoli mentre i raggi del pomeriggio creano strani giochi di luci tra quelle lenti e le sue. “Vedrai, un giorno troveranno il modo di guarire quel piede. E forse allora mi racconterai la storia per intero”.
“I medici sono negativi, amico mio …”
Si impone di respirare a fondo e di sorridere. Mantenere una facciata, quantomeno “… in fondo lo sanno tutti che i pinguini non possono volare”.
“A questo possiamo rimediare”.
Ed si rialza, riponendo gli occhiali, e prima che Oswald possa controbattere gli prende la mano, sollevandolo dalla panchina e tenendolo stretto a sé senza bisogno di alcun bastone. “Basta che io sia le tue ali”.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


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Si è fatto tardi, e la notte inizia a pungere con il suo vento freddo. Per quel che lo riguarda Edward continuerebbe il loro gioco anche lì fuori, seduti sotto il pergolato con un bicchiere di qualcosa di forte tra le mani, ma nonostante tutte le dicerie secondo cui i pinguini siano animali amanti del freddo, Oswald è sempre stato il tipo da preferire un camino bene acceso ed i piedi nelle pantofole.
Quel pennuto lo conosce dannatamente bene.
La gente, persino quel tale di nome Lucius, non capisce che non vi è alcun gusto nel creare indovinelli privi di soluzione. Il piacere sta negli occhi dell’avversario, nelle sue iridi, nel sentire il cervello muovere gli ingranaggi pur di seguire la sua traccia mortale.
Un enigma è una lotta, e non c’è gusto in una sfida che si sa di vincere a priori.
Si considera piuttosto bravo anche ad indovinare, ma è nella creazione della domanda che il brivido di estasi gli corre lungo la schiena, più potente di qualsiasi droga, più intimo di un bacio.
“Sono forte come una roccia, ma una parola può distruggermi” mormora, trangugiando la terza -ma forse è la quarta- pillola della serata.
E Oswald, stuzzicato, riprende la danza.
Edward non è così certo di essere colui che sta guidando questo ballo.


“Dovrebbe dirglielo”
“Dire cosa a chi, Olga?”
La vecchia cameriera sospira, riordinando ciò che resta della colazione. Il padrone è un uomo molto intelligente, ma certe volte sono le cose più semplici a sfuggirgli da sotto il naso. “Dire al signor Edward quello che prova”.
“E cosa dovrei provare, di grazia?”
Il signor Cobblepot, quando ci si mette, ha la testa più dura di un mulo. Olga ha sotterrato due mariti, e su certe cose si ritiene piuttosto esperta: tutti quegli energumeni armati fino ai denti potranno non essersene accorti, ma a lei non sfugge lo sguardo nervoso che il padrone scocca alla pendola quando il signor Edward è un minuto in ritardo, o quando corre alla finestra non appena sente il rumore della sua macchina al cancello. O di come entri nell’ala della servitù con le scuse più puerili per sfiorare col dorso della mano le camicie appena stirate del suo nuovo sottosegretario. “Oh, se non lo sa lei, padrone … ma sappia che il silenzio non ha mai fatto bene a nessuno!”
Fosse per lei avrebbe in mente almeno un paio di ragazzette allegre che sarebbero ben felici di ravvivare un po’ le serate grigie del signor Cobblepot; quello spilungone con gli occhiali ha uno sguardo che non le piace affatto, c’è qualcosa di cattivo che non riesce ad afferrare. Però va anche detto che da quando è in quella casa il signor padrone è molto gentile con tutti e lascia spesso mance generose con lo sguardo sognante.
A sorpresa, l’uomo appoggia il giornale. “Forse hai ragione tu! Stasera lo inviterò qui e glielo dirò! Prepara una cena magistrale, qualcosa degna di questo evento!”
Olga sbuffa, chiedendosi quando imparerà a tenere la boccaccia chiusa.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


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Era da tempo che Oswald non apriva il pianoforte.
Col suo solito sorriso malizioso lo invita a sedersi sullo sgabello insieme a lui. Spalla contro spalla, come ai vecchi tempi.
Sa che non dovrebbe, ma dopo un’altra pillola capisce che non vi è nulla di male nell’accomodarsi al suo fianco.
Nessuno li può sentire.
“Dammi un’ispirazione” dice lui, mentre preme a caso qualche tasto.
E Edward, osservandogli le mani ancora livide, risponde “Posso riempire una stanza, ma anche un cuore solo. Alcuni possono avermi, ma non condividermi”.
Sa quello che l’altro vuole, la canzone che vuole suonare. Una delle poche che conosce perché Oswald sa soltanto i brani con cui accompagnava sua madre al canto, e questa parla di una donna, della luna, di un uomo, degli spari sotto la luce argentata. Per una volta Ed non è interessato allo sguardo dell’altro alla ricerca della soluzione: si limita solo a schiarirsi la voce ed a cantare al suo fianco, le note sgangherate che sono soltanto un telaio su cui le loro parole si intrecciano e si perdono nella sera.


Abbracciato al suo corpo luminoso, Edward Nygma sorride.
Fuori dalla finestra il mondo è in pace. Gotham è in pace.
Nessuno sparo quella notte.
Una macchina passa proprio sotto la finestra del loro appartamento. I fari illuminano per un istante il vetro della finestra, ed in quel guizzo Edward vede riflesse nello specchio la propria figura e quella di Isabella. La sua, non quella dell’altro Ed.
Le ciocche bionde della ragazza scivolano sotto le sue dita, disegnano anelli d’oro in grado di rilucere anche nel buio della stanza.
L’Ed dello specchio non c’è più.
La verità è che lo sa, e lo ha sempre saputo: l’Ed del mondo dei riflessi era nato dalla sua solitudine. Lo avevano creato i suoi colleghi, invidiosi della sua bravura. O forse ancora prima, quei compagni di classe che gli nascondevano gli occhiali nel secchio della spazzatura non facevano altro che ridere.
Isabella, col suo sorriso, ha spezzato questa maledizione. Lo ha capito, anche più di Kristin. Lo ha accettato, lo ha amato, lo ama e basta. Nel sonno gli cinge un braccio intorno alle spalle, le appartiene.
Ha una donna meravigliosa e persino un amico, qualcosa che fino a qualche mese prima non avrebbe mai osato nemmeno sognare nei suoi pomeriggi lenti, solo nel suo appartamento ad osservare l’orologio.
Non è più solo.
Non ha più bisogno dell’altro Ed.
Prima di riprendere sonno si concede il lusso di sorridere, pregustando la faccia che Oswald farà il giorno stesso in cui gli comunicherà la notizia. E, se conosce bene il suo amico, metterà a soqquadro tutta Gotham per organizzargli un matrimonio che lascerà l’intera città a bocca aperta.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


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Oswald chiude le persiane del salotto, una ad una. Sempre nello stesso ordine, mai una prima del previsto; getta sempre occhiate sospettose all’esterno prima di accostare anche le tende, con quel suo strambo sospiro che unisce le certezze alle inquietudini, quel mondo del passato dove persino per Ed è sempre stato difficilissimo entrare.
Si limita a stringersi nella giacca e prendere l’attizzatoio.
Il fuoco impiega qualche minuto in più del previsto a prendere, complici la pioggia che sta colpendo Gotham da giorni e che ha senza dubbio inumidito la legna. Adora osservare i ciocchi cambiare colore, il rosso incandescente che si consuma fino a diventare nero, ed in ultimo una fine cenere bianca. Gli piace accorgersi che le lingue di fuoco si riflettono sulle lenti dei propri occhiali, quasi a diventare tutt’uno col suo cervello.
“Se avevi tanto freddo avresti potuto chiedere!”
Edward sospira, sentendo la voce impastata dell’altro. L’alcool fa male a tutti, ma conosce poca gente in grado di reggerlo peggio di Oswald. Va detto che anche lui stasera ci ha dato dentro e la testa inizia a farsi pesante, ma negli ultimi tempi ha imparato a riconoscere le mutazioni dell’umore di quell’uccellaccio quando lo Scotch gli è entrato in circolo. “Avrei potuto scaldarti io …”
Deve distrarlo. E deve farlo subito, prima che la conversazione degeneri.
Sa benissimo dove l’altro vuole andare a parare. “Peso molto poco, ma ero un albero anch’io”.

Quando era piccolo lui e sua madre andavano spesso a messa.
Cosa lei vi trovasse di così glorioso in quell’uomo magro, dolorante ed attaccato ad una croce, Oswald non lo aveva mai capito, ma aveva continuato a darle il braccio lungo quelle navate seguendo il lento scivolare degli anni, almeno finché i reumatismi di Gertrude Cobblepot non si erano fatti così gravi da chiedere al parroco di recarsi nel loro piccolo appartamento.
Il Dio che sua madre pregava diceva che dovevano essere buoni anche con chi faceva loro del male, e porgere l’altra guancia quando i compagni ridevano dei tuoi buffi vestiti. E, per alcune cose Oswald aveva una discreta memoria, era certo che quel Dio vietasse di desiderare l’uomo o la donna d’altri.
Di chi è Edward Nygma?
Oswald sospira, chiuso nella sua stanza.
Davanti a lui, posto sul cuscino come un re, un pinguino di carta lo scruta, unico interlocutore di quel dialogo senza parole.
Appartiene forse a quella puttanella? A quella bibliotecaria insignificante, banale, ordinaria, che se lo è portato a letto dopo averci parlato per un’oretta scarsa? Quella donna bruttina, grigia, rigida, chiacchierona, ottusa, vuota, che chiaramente nessun uomo ha mai voluto e che ne ha approfittato di assomigliare per errore alla defunta ragazza di Ed?
Non può appartenere a lei.
Quei sorrisi languidi che le rivolge sono chiaramente frutto di una debolezza momentanea, e Ed è stato fin troppo pietoso ad abbassarsi al suo livello per darle un po’ di conforto.
Lui ha detto di amarla perdutamente. Il sorriso che nasce dalle sue labbra quando ne pronuncia anche solo il nome è tale da fargli venire un doloroso brivido lungo la schiena mentre tenta di fantasticare come sarebbe dolce il suono del proprio nome mormorato tra quei denti bianchi.
Fissa l’origami a forma di pinguino, uno degli ultimi creati da Ed, disteso sul letto con ancora indosso gli abiti dell’ultima riunione.
Pensa che persino quel pupazzo di carta sia più fortunato di lui: ha avuto il piacere di nascere dalla mente geniale di quell’uomo bellissimo, di essere plasmato dalle sue mani. Ha sentito quei polpastrelli sfiorarlo in ogni sua parte, quei tocchi che più passano i giorni e più sembrano carezze bollenti che gli vengono negate. Tocca il pinguino alla ricerca di quel calore, ma la carta è ruvida, porosa, anch’essa avida di dargli anche solo una briciola dell’amore di Ed.
E quell’amore dovrà essere suo. Ha già perso abbastanza in quei mesi, più di una volta ha creduto di trovarsi al capolinea, a quel fondo dove una pallottola nel cervello sembra l’unica via di fuga.
Ma ha sempre lottato, e lo farà di nuovo.
Lui è il Pinguino, e non può perdere questa partita.
Bruci pure tutta Gotham.






Link alla fanart originale: http://akimao.tumblr.com/post/122506297561

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


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“Siamo sempre stati fatti l’uno per l’altro, Ed. Non negarlo”
“Lo nego eccome!”
Oswald si alza dal divano, zoppicando verso di lui. Chiunque dica che i pinguini sono animali affabili ed inoffensivi non ha mai conosciuto Oswald Cobblepot ed i suoi occhi verdi che, bagnati dall’alcool, sembrano quelli di un predatore. È un ometto infimo, ma nonostante la propria superiorità fisica Edward se ne sente comunque minacciato.
I piedi fanno due passi indietro senza che glielo avesse comandato. “Non c’è niente … e non ci sarà mai niente tra noi due. Mettitelo in testa!”
“Dopo quello che mi hai fatto è improbabile che ci potrà mai essere qualcosa, sai?”
Oswald sorride sghembo, mettendo in bella mostra il suo abito elegante ancora zuppo ed imbrattato di fanghiglia marrone. I capelli bagnati gli si sono appiattiti sulla fronte, rendendolo ancora più deforme del solito.
A quelle parole, però, tutto lo Scotch tracannato fino a quel momento risale lungo la gola di Edward, bruciandogli la gola. “Dopo quello che io avrei fatto a … te? Perché invece a me sembra che sia successo il contrario?”
“Perché, come al solito, al momento della resa dei conti riesci a pensare solo a te stesso”.
Si prende un istante per respirare.
Oswald Cobblepot ha sempre avuto il potere di afferrarlo per il baratro e trascinarlo nell’Abisso. È davvero una delle mille forme della Follia, quella che si diverte ad intrappolarlo nel suo mortale gioco di specchi, una partita dove ogni parola gli viene rivolta contro con tutta la maestria di quel piccolo ratto criminale. Sa benissimo che il Pinguino sta usando la loro amicizia a proprio vantaggio, e l’unico modo di uscirne è il gioco che loro stessi hanno creato.
L’altro lo fissa con aria di sfida, chiedendogli un nuovo indovinello.
“Per alcuni sono un incubo, per altri la salvezza”.
Per la prima volta da quando la battaglia è iniziata, Edward Nygma si accorge che potrebbe davvero perdere.
Guarda la pendola, e sono le tre di notte.

Uno, due, tre.
Riconta.
Uno, due, tre. Quattro, contando se stesso.
Quattro sono le persone presenti nella chiesa, sacerdote e chierichetti esclusi.
Riconta.
Sempre quattro.
Quattro persone stanno piangendo Isabella. Nessun padre, nessuna madre. Nessun parente a cui trovare il coraggio di presentarsi, solo due anonime signore, forse delle colleghe.
Domani si dimenticheranno di lei.
Forse anche oggi pomeriggio, quando andranno a prendersi un the.
La bara si allontana.
Lei si allontana.
Il suo intero mondo si allontana, sigillato sotto quel cassettone bianco con guarnizioni dorate.
Dovrebbe seguirlo.
Non dovrebbe seguirlo.
Ma dovrebbe seguirlo, perché non seguirlo significherebbe dirle addio per sempre.
Il futuro scivola via sulle spalle di sei uomini vestiti di nero. E, prima che anche ciò che rimane della sua vita scivoli con esso in mezzo alle lacrime un contatto lo trattiene. La mano di Oswald gli stringe l’avambraccio, abbastanza forte da trattenerlo, abbastanza debole da non celare il dolore.
Riconta.
Uno. Due.
Due uomini persi tra le volute d’incenso.
“Il medico legale dice che almeno non ha sofferto. Un colpo di sonno, al momento dell’impatto tra la macchina ed il treno non era cosciente” mormora, sapendo che non sarà certo quella magra consolazione a placare la sua disperazione. Quella morte non sarebbe dovuta accadere. Non avrebbe dovuto permetterle di tornare a casa da sola così tardi. Si sente scivolare nell’aria, attaccato solo a quella piccola mano che è lì, stretta alla sua manica, ignorando riunioni, discorsi, giornalisti e valanghe di denaro.
Si stringe a Oswald, piangendo contro la sua spalla.
Riconta.
Sempre due.
Solo due.
Loro due.

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


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All’ennesima risposta giusta dell’altro gli manca il fiato. La testa gli gira, lo stomaco gli manda una fitta simile ad una pugnalata; con la mano cerca la confezione delle pillole, ma le dita cercano a vuoto. Afferra il blister e se lo porta agli occhi, purtroppo le sue dita non si sono ingannate.
Quante ne ha prese stasera? Almeno dieci.
Almeno.
“Ti manca qualcosa, amico mio?”
Il pennuto sghignazza. Rimane fuori dal suo spazio vitale, quasi a canzonarlo. Gli fissa le labbra, che d’un tratto sono riarse e sembrano spaccarsi alla ricerca di un bicchiere d’acqua. Si impone di respirare, di controllare la tachicardia, ma quello sguardo vuole scavargli dentro. Come un rapace.
Si avvicina alla vetrina per aprirsi un’altra bottiglia.
Avverte lo schiaffo sulla mano con molto ritardo. Se la porta alla bocca, e si accorge del puzzo di fogna intriso alla lingua ancora impastata dall’alcool. “Non ci provare, Ed” sorride “Finisci ciò che hai iniziato”.
“Ciò che TU hai iniziato! TU L’HAI UCCISA!”
“Non sei il tipo da ribadire concetti ovvi! Non mi deludere proprio adesso” sibila. Come sempre sulla sua faccia la risata e la tristezza cambiano di posto ad una velocità incredibile. “Il mio Ed non si mette a strillare per una donnicciola morta. E, fidati, ti parlo per esperienza. L’esperienza del cadavere di Kristin Kringle, per citarti un caso …”
“SMETTILA!”
“Ho già smesso da molto tempo, Ed. Oh, aspetta, com’è che ti piace essere chiamato adesso?”
Il sangue ormai gli va la testa, e prima che possa riflettere sulle conseguenze afferra il Pinguino per il colletto della camicia, spingendolo contro la parete. Rovescia il tavolino, rompe i bicchieri finché non sente la testa dell’altro impattare contro il muro. Eppure, nonostante i segni delle dita contro il collo, quello non smette di sogghignare. “Cosa appartiene a me …” mormora Edward, con una voce che di certo non riconosce “… ma lo usano gli altri?”

È nella natura degli uomini dare un nome alle cose. Theodore, ad esempio, vuol dire “Dono di Dio”. E Oswald?
“Potenza di Dio”. Come sbagliarsi?
Dai alla gente un nome simile e poi meravigliati che non abbiano deliri di onnipotenza.
Edward segue le indicazioni stradali, guidando verso il molo; supera un paio di poliziotti con un saluto della mano ed entra nel settore degli scarichi. In un qualsiasi altro paese lo avrebbero fermato come minimo venti volte nel vedere il carico buttato sul suo sedile posteriore, ma a Gotham sono molto avanti sul tema dello smaltimento dei rifiuti.
Il rifiuto che trasporta, poi, è proprio uno di quelli di cui la città sente il bisogno di sbarazzarsi.
“Credi davvero di riuscire a farlo, Ed?”
Nonostante gli abbia quasi fracassato la testa a colpi di pugni, Oswald non riesce proprio a stare zitto; anche dallo specchietto retrovisore può vedere il sangue che gli cola dal labbro spaccato. “Non chiamarmi così!”
“Oh, scusa, e come dovrei chiamarti … ED?”
Un nome definisce qualcosa. E lui non è più Edward Nygma.
È qualcosa di più, qualcosa di oltre: è una persona nuova, più intelligente, colui che svela la natura umana celata oltre la barriera degli enigmi. “Lo sai benissimo come devi chiamarmi”.
Il bastardo dovrà pronunciarlo.
Dovrà implorare ogni singola lettera, una alla volta. Lo riconoscerà per quello che è.
“Con quel tuo ridicolo soprannome? Ma fammi il piacere!” risponde con quella lingua biforcuta “Tu sei e resterai e resterai per sempre Edward Nygma. Uccidimi pure, ma non ti darò quella soddisfazione!”
Con più ira del previsto frena, a poche braccia dal mare, e dal cruscotto estrae la pistola.
Sono loro due, solo loro due ed il verso continuo dei gabbiani.
Il figlio di puttana lo pronuncerà.
Fosse l’ultima cosa che farà nella sua putrida esistenza.
“Sai … è proprio quello che intendo fare!”

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


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Si vince? Si perde?
Non sono domande per chi entra nel gioco degli enigmi.
Si vive? Si muore?
Edward Nygma non si sente vivo. Né morto. Non un vincitore, nemmeno un perdente.
Sente il corpo di Oswald schiacciato tra la sua furia e la parete, il suo profumo mescolato all’odore dei liquami del molo. Il pulsare della propria testa gli sembra l’unica cosa reale, ma il medico che è in lui viene rapidamente mandato a quel paese quando il ghigno di Oswald gli lascia intendere che al grandissimo bastardo la cosa non dispiace.
Si ama?
“Il povero lo ha, il ricco lo desidera, ma se lo mangi muori” mormora, anche se ormai è solo per se stesso.
Conosce la risposta, ma la seppellisce dentro di sé.


Cosa vede un uomo prima di morire?
Molti sostengono che si veda scorrere tutta la propria vita, proprio come una vecchia pellicola. Azioni buone, azioni malvagie, un film con attori improvvisati lungo quanto un unico fiato.
Un ramo galleggia.
Oscura il sole per un istante, poi se ne va.
Qualcuno parla di una luce accecante, un cammino che si percorre fino alla fine senza più voltarsi indietro. Che ci sia qualcuno ad aspettarci, forse solo per non darci la paura di rimanere soli.
Oswald non vede nessuna luce. E nessun film, nessuna storia che parli di malavita, di gangster, di complotti.
C’è solo un viso, un viso bellissimo. Prova a sfiorarlo col dorso della mano, ma i suoi polpastrelli toccano soltanto l’acqua. Si allontana da lui, rubato dai riflessi del mare.
Non gli importa del dolore. La pallottola conficcata nel suo petto ha già smesso di bruciare quando l’acqua si è tinta di fuoco, di rosso, di una macchia crudele che lo separa da quel viso.
Riesce a vedere quegli occhi prima di chiudere i propri. Prima di perdere conoscenza, forse per sempre, si impregna di quegli occhiali dalla montatura fuori moda e dalle lenti sporche.
Vede lo sguardo per cui avrebbe dato la vita.
E per cui, qualche beffardo senza dubbio lo deriderebbe, la vita la ha persa sul serio.
Ma Oswald Cobblepot non muore per una pallottola.
O per l’acqua salata che gli entra nei polmoni l’attimo dopo.
Oswald Cobblepot muore quando osserva per l’ultima volta gli occhi di Edward Nygma, ed in quello sguardo non vi legge niente.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


 

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Chi sono loro due?
Sono acqua e nebbia, senza forma.
Senza forma è il suo respiro sporco mentre guarda le proprie mani: non stringono più il collo di Oswald, ma si avvolgono tra di loro, stanche.
Il gioco è finito. Game over.
“Ho vinto io!”
In piedi accanto al camino, Oswald ride. E non della risata idiota del Pinguino, quella che sembra un fischio malato.
Sotto quegli occhi verdi ed ubriachi si delinea il sorriso del demonio.
Ed si stringe le braccia ed avverte per la prima volta il freddo cadergli addosso “… ancora uno …”
“Le regole sono regole, Ed. Potresti accettare la sconfitta con un po’ di dignità”.
“Da quale pulpito viene la predica …”
Gli ha sparato.
Gli ha sparato, lo ha ucciso, ha visto il suo cadavere sprofondare tra le onde ed ha contato una ad una le gocce di sangue che sono risalite sulla superficie del mare come papaveri su un campo d’erba. Gli ha sparato ed ha vinto, allora perché si sente così male?
“Perché non puoi fare a meno di me”.
Un piede alla volta, l’uccellaccio risponde ad ogni suo timore. “Siamo fatti per essere una squadra, Ed. Negalo quanto ti pare, ma il tuo respiro mi cerca. Tu mi cerchi, anche se non lo ammetterai mai”.
Incalza ancora, saturo della sua vittoria.
“Altrimenti non ti bruceresti di stupefacenti pur di rivedermi. Pur di giocare ancora con te quando cala la notte” sussurra “Pur di non ammettere a te stesso che hai bisogno di me”.
Poi vi è un sapore. È aspro, amaro, bagnato di Scotch e di qualcos’altro che non conosce.
È salato, ma forse non è l’acqua di mare.
“Non posso essere comprato, ma puoi rubarmi con uno sguardo. Sono inutile per uno, inestimabile per due”.
Non appena riapre gli occhi, delle labbra di Oswald non c’è traccia.
Ci sono solo una decina di bottiglie e scatole di compresse scagliate alla rinfusa. Riprova a guardarsi intorno, ma vi è solo un labile profumo di mughetti.




Grazie per chiunque abbia deciso di leggere questa piccola raccolta. Ci tengo molto a sottolineare che la dedico ad Aoboshi, la mia compagna di scleri su Gotham ed in particolare su questo fantastico duo che non ci ha fatte dormire la notte nella speranza che potessero finalmente riconciliarsi. Certo, Aoboshi l'avrebbe scritta senza dubbio molto meglio di me, ma queste sono le mie possibilità ed oltre non so andare.
Un salutone a tutti e ci si rivede con la quinta stagione.



 

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