Un colore di più

di Stefy89M
(/viewuser.php?uid=992141)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Capitolo 1- ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 3: *** -CAPITOLO 3- ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 ***



Capitolo 1
*** -Capitolo 1- ***


“Storia partecipante al II CONTEST FANFICTION OBSESSION GALLAVICH: CAN WE BE FRIENDS?”
TITOLO: Un colore di più
AVVISI: AU
GENERE: Angst, Romantico, introspettivo
NOTE DELL’AUTORE: Per scrivere questa mini fiction mi sono ispirata all'idea di una storia bellissima che lessi tanto tempo fa (di un altro genere e paring). Ho utilizzato questa idea per scrivere una ff (ovviamente completamente diversa) che avevo in testa già da molto tempo. Spero vi piaccia e spero possiate lasciare un commento. Buona lettura!

 
Un colore di più
 
Vivete in un modo un po’ matto.
Una volta tanto.
E vedrete che succede. Illuminate la giornata. Colorate il mondo.
Solo per un po’.
[cit. Leo Buscaglia]
 
 
-CAPITOLO 1-
 
 
 
Nel South Side non c’era poi molto da fare. Nonostante i numerosi colpi di fuoco, le rapine a mano armata e gli inseguimenti selvaggi, Mickey Milkovich trovava la sua vita da adolescente problematico una vera noia mortale. Come un po’ i suoi fratelli (o fratellastri?) Mickey Milkovich passava interi pomeriggi a spacciare nel parcheggio del suo supermercato preferito, dove  a volte andava a rubare la salsa barbecue per le patatine. I suoi fratelli in realtà sceglievano di farlo al porto (il mega centro di spaccio del quartiere) mentre Mickey preferiva mantenere un profilo basso e non esporsi troppo. Preferiva di gran lunga bighellonare nel parcheggio del supermercato, fumare canne e osservare gente spingere pigramente i carrelli della spesa. A volte sua sorella Mandy lo raggiungeva per fargli compagnia. Mandy, a detta di Mickey, era forse l’unica persona del South Side a voler fare qualcosa di costruttivo per il suo futuro. La vedeva studiare a scuola, impegnarsi con i compiti e partecipare ad attività ricreative pomeridiane. Mickey ovviamente le trovava tutte stronzate. Frequentare la scuola anche di pomeriggio era da veri sfigati, oltre che essere una grandissima perdita di tempo. Comunque, in qualche modo, rispettava l’atteggiamento propositivo e volenteroso della sorella, e quando lei lo raggiungeva nel parcheggio per aiutarlo a guadagnare qualcosa per la cena, Mickey la cacciava via, non volendola mettere nei guai. Se Mandy desiderava avere un futuro migliore, non sarebbe stato di certo lui a rovinarglielo.

A Mickey del suo futuro non fregava un cazzo. Il suo futuro era già stato segnato. Quando nascevi in un quartiere come quello, con un padre che entrava ed usciva di prigione e che non si preoccupava che i suoi figli mettessero qualcosa sotto i denti, non potevi di certo credere che le cose sarebbero cambiate per il meglio. Mandy ci credeva… Mickey no.

Così, quando un giorno fu beccato a spacciare erba e sbattuto in riformatorio per più di 10 mesi, Mickey non sentì affatto il peso o la gravità del suo comportamento. La signora Danielle Bowers, la sua assistente sociale che pareva determinata a salvargli costantemente il culo, non sembrava pensarla esattamente così. Per qualche ragione a lui sconosciuta, la signora Bowers aveva fatto in modo che gli scontassero la pena di qualche mese e che lo facessero uscire dal riformatorio prima del dovuto. Si era appellata a qualcosa del tipo che lui non era in grado di capire cosa fosse giusto o sbagliato, e vista la sua situazione familiare disastrosa, non aveva avuto esempi corretti e puliti su come procurarsi dei soldi o del cibo per sfamarsi. In qualche modo quella stronzata aveva spinto i giudici ad avere compassione di lui e a ridimensionargli la pena. E in un universo parallelo, Mickey avrebbe anche potuto dirle grazie, se non fosse per quello che accadde dopo.
 
La signora Bowers lo stava accompagnando decidendo saggiamente di rimanere in silenzio. Mickey era incazzato. Per quanto avesse odiato il riformatorio, avrebbe di gran lunga preferito rimanere lì piuttosto che recarsi nel posto in cui erano diretti.
-Sarà solo per qualche settimana- aveva proferito la Bowers stretta nel suo tailleur grigio. Era una donna di colore robusta, tutta d’un pezzo e con la voce profonda. Mickey notò che nel suo tono non c’era alcun tipo di dispiacere o rimorso per averlo messo in quel casino, e questo lo fece innervosire ancora di più.
-Vedrai che questa esperienza ti sarà utile- continuò lei, ignorando l’aura negativa proveniente dal ragazzo che si trascinava svogliatamente dietro di lei.

-Sì, come ti pare- borbottò Mickey non volendole dare corda. Quella tizia aveva la brutta abitudine di fargli la paternale ogni due per tre. In quegli anni si era recata spesso a casa loro per accertarsi che suo padre (quando era fuori di prigione) non li maltrattasse, ma ovviamente Terry le intimava finemente di tenersi alla larga dalla sua famiglia. Nonostante ciò, era riuscita ad inculcare delle strane idee in testa a sua sorella Mandy: avere la possibilità di un futuro migliore, studiare al college e altre cazzate. Una volta, si ricordò Mickey, aveva provato ad affrontare un discorso del genere anche con lui, ma Mickey si era limitato a riderle in faccia e a mandarla a cagare. No. I discorsetti del “tu sei meglio di così” con lui non funzionavano.

L’edificio a occhio e croce era alto 5 piani, era grigio ed era tetro. Mickey storse la bocca. Quel posto metteva i brividi.
-Eccoci qua- disse la Bowers come se fosse il fottuto capo di quel luogo. Fece un cenno al vigilante che fece scattare prontamente il cancello. Attraversarono il giardinetto poco curato e Mickey si augurò che il suo compito fosse proprio quello di strappare le erbacce e spargere concime puzzolente; tutto pur di non mettere piede lì dentro. Ovviamente la Bowers lo smontò subito: -Per queste settimane ti occuperai della pulizia all’interno dei reparti- disse oltrepassando le porte scorrevoli. Mickey la seguì lanciando uno sguardo alla grossa scritta che dava il benvenuto al “San Payer Ospital”, il fottuto manicomio di Chicago.

Che cazzo, avrebbe accettato di tutto, avrebbe accettato persino di lavorare in un mattatoio col rischio di perdere una mano, ma non quello. Quello era veramente troppo anche per lui. Si mosse a disagio mentre attendevano che il capo della struttura li raggiungesse. La reception non sembrava molto paurosa, era bianca, era sterile, e nell’aria si poteva sentire un nauseante odore di disinfettante. Forse sarebbero stati clementi e avrebbero lasciato che si occupasse delle pulizie lì… Dio, gli sarebbe andato bene persino accogliere i visitatori e sorreggere i loro fottuti cappotti con un sorriso idiota.

-Merda- borbottò aggiustandosi lo zaino in spalla.

La Bowers lo guardò. –Che ti piaccia o no, questo sarà il tuo lavoro socialmente utile- gli disse col solito tono canzonatorio. Mickey roteò gli occhi. –Quindi vedi di comportarti bene. Fai tutto ciò che ti dicono di fare, sii puntuale, rispettoso, non dire parolacce, presentati a lavoro sempre ordinato e pulito, non attaccare briga, presta attenzione al-
-Cristo- la interruppe Mickey bruscamente –ho afferrato il concetto, d’accordo?!-

Danielle gli scoccò uno sguardo scettico. –Dico sul serio Mickey- riprese stavolta con la voce più bassa e ragionevole. –Ascolta: questa potrebbe essere la tua occasione per voltare pagina, per avere una vita migliore. Se lavorerai bene, alla fine delle ore, potrebbero anche decidere di assumerti e tenerti con loro. Potresti avere un buon lavoro, un contratto regolare, uno stipendio sicuro, malattia e ferie pagate… Pensaci. A me l’idea non farebbe così schifo…-

Mickey si masticò le labbra, in silenzio. Non aveva mai pensato a lungo termine, non si era mai posto una domanda sul suo futuro, su quello che gli sarebbe piaciuto fare o studiare... E non aveva mai neanche lontanamente immaginato che un giorno qualcuno avrebbe potuto/voluto offrirgli un lavoro. Semplicemente era impossibile.
A salvarlo da una risposta tagliente fu il capo della casa di cura.

-Perdonate il ritardo- disse senza sembrare veramente dispiaciuta. Era una donna sulla sessantina, alta, magra e austera. A Mickey stava già sul cazzo. I capelli biondi molto corti le incorniciavano il viso scarno e duro mentre gli occhi erano dipinti pesantemente da un ombretto verde opaco. A Mickey ricordava molto un personaggio delle vecchie telenovele argentine degli anni 80.
-Non si preoccupi, siamo arrivati poco fa.-

Il grande capo sorrise appena. –Lei deve essere il Signor Milkovich- disse poi rivolto al ragazzo. Mickey celò un brivido; era sempre fottutamente strano quando qualcuno lo chiamava “Signore”.
-Sono io- annuì cercando di mostrarsi educato e disinvolto. Poteva sentire lo sguardo della Bowers bruciargli sulla nuca. –Mi chiami pure Mickey-
Lei lo ignorò. –Sono la Dottoressa Anderson e per tutto il tempo del suo lavoro sarò la sua referente nonché il suo supervisore. Le faccio fare un giro, prego, mi segua. –

-Oh, allora io ne approfitto per salutarvi- intervenne la Bowers allungando una mano verso la Anderson. –E’ stato un piacere, per qualsiasi cosa ha i miei recapiti.- La Anderson le strinse la mano e Mickey le lanciò uno sguardo allarmato; stava già andando via?
Per qualche strana ragione si sentì improvvisamente solo, piccolo e disorientato. La Bowers gli toccò gentilmente una spalla e Mickey si irrigidì, evitando i suoi occhi, non era sicuro di poter sorreggere il suo sguardo e soprattutto il suo saluto.

-Ci vedremo presto- gli rassicurò come avendolo letto nel pensiero. –Ti chiamerò domani e mi racconterai come è andata, d’accordo?-
Mickey annuì, non guardandola. Non voleva che la Bowers si facesse strane idee sul loro rapporto; non erano amici, lui non aveva bisogno di lei e soprattutto lei non era sua madre. Quindi poteva anche risparmiarsi quelle frasi amorevoli del cazzo.
-D’accordo.- ripeté Danielle dandogli una piccola pacca, e visto che non ricevette risposta, salutò nuovamente la Anderson e si diresse fuori dall’edificio. Mickey si voltò giusto in tempo per vedere la sua schiena scomparire oltre le porte scorrevoli e si chiese se avesse dovuto almeno dirle un ciao.

-Bene.- proruppe la Anderson riportandolo alla realtà, -mi segua.-
La Anderson gli disse che avrebbe dovuto presentarsi alle 6 di ogni fottuta mattina per la prima settimana, in modo che imparasse e capisse quali fossero le sue mansioni, dopodiché, una volta autonomo, avrebbe dovuto ricoprire i turni notturni fino alla fine del suo lavoro socialmente utile.

Lavorare di notte. In un cazzo di manicomio. Mickey rabbrividì. Cercò di memorizzare seriamente tutte le indicazioni che gli venivano date perché non aveva alcuna intenzione di perdersi in quel posto, soprattutto la notte. Appuntò mentalmente dove si trovassero le fottute mazze e i fottuti secchi, la lavanderia, la mensa, il coso per timbrare il badge e lo spogliatoio del personale. Gli faceva già male la testa.

Attraversarono l’ennesimo corridoio bianco e sbucarono in quella che doveva essere la sala comune dei pazienti. I ricoverati  portavano una divisa gialla, un po’ scolorita. A Mickey sembravano dei carcerati, ma man mano che si faceva largo nella sala, iniziò a notare i loro comportamenti anomali; un uomo parlava e inveiva contro il muro, una donna anziana si dondolava sulla sedia ridendo con una bambina, altri giocavano a carte o seguivano in maniera troppo passiva la televisione e Dio, c’era persino un ragazzo! Doveva avere qualcosa come due o tre anni in meno di lui ed era chinato su un tavolo a disegnare furiosamente qualcosa. Mickey deglutì. Voleva andar via.

-Questa è la sala comune dei nostri pazienti. Dovrà pulirla subito dopo l’ora di pranzo.- disse la Anderson avviandosi verso la grande finestra che dava sul cortile esterno. –Questa invece dovrà pulirla sia dopo pranzo sia dopo cena. A quanto pare ai nostri pazienti piace imbrattarla di cibo.-

Accanto alla finestra era posizionato il tavolo rotondo dove il ragazzo stava disegnando. Vista la vicinanza, Mickey non poté fare a meno di lanciargli uno sguardo più approfondito; aveva folti capelli rossi e il suo viso era ricoperto da tantissime lentiggini. Sembrava corrucciato. Evidentemente lo scarabocchio che stava disegnando sul foglio non lo convinceva.
-I vetri devono essere sempre molto puliti- stava continuando la Anderson indicandogli alcune delle finestre che circondavano la sala comune –soprattutto negli orari di visita, voglio che i parenti non vedano tracce di cibo o vomito sparse nella sala-

Mickey non la stava più ascoltando. Stava osservando il ragazzo dai capelli rossi… sembrava così normale, com’è che si trovava in quel posto? I lineamenti del viso erano delicati, le labbra piene e rosse, forse un po’ troppo gonfie perché torturate continuamente dagli incisivi. Stava disegnando su un foglio stropicciato, in mano stringeva una matita consumata, forse troppo piccola per la sua mano.
Mickey sobbalzò quando il ragazzo si accorse finalmente di essere fissato; sollevò su di lui due occhi verdi e profondi e Mickey sentì lo stomaco contorcersi in modo strano. Lo aveva beccato.

Vide il ragazzino spalancare leggermente la bocca, sorpreso, forse perché anche lui non si aspettava di vedere qualcuno della sua età lì dentro. Ma lui, si disse Mickey, a differenza sua non era un fottuto pazzo.

La Anderson si schiarì la voce per richiamare la sua attenzione; evidentemente non gli era sfuggito quel gioco di sguardi perché si parò velocemente davanti a Mickey, dando la schiena al ragazzo coi capelli rossi. –Regola numero uno, Mickey. Non dare mai confidenza ai pazienti. Mai. Non parlare con loro. Non interagire con loro. Non guardarli. Sono stata chiara?-
Mickey scrollò le spalle.
-Ho detto, sono stata chiara?-

-Sì- fece Mickey interdetto, sussurrando un Cristo. Se per quello, nemmeno lui aveva alcuna intenzione di dare confidenza a quei pazzi! Ma che cazzo pensava? Che si sarebbe messo a giocare a poker con loro? Il solo pensiero gli faceva accapponare la pelle. E poi cos’era? La Anderson aveva già abbandonato il “Signor Milkovich” e i suoi modi pomposi per minacciarlo?

A questa riflessione sogghignò. E così la tipa stava già perdendo le staffe e la pazienza senza che si fosse lontanamente impegnato?! Oh, allora non aveva proprio idea di con chi avesse a che fare. Il gioco iniziava a farsi interessante… Adorava indispettire la gente.
-Sarà meglio.- concluse la Anderson dando poi una veloce occhiata al suo orologio da polso. –Cominci fra un quarto d’ora. Va’ a cambiarti-

Mickey si rimise garbatamente lo zaino in spalla e uscì dalla sala comune, ignorando volutamente due grandi occhi verdi che continuavano a fissarlo ossessivamente.

Quel tizio iniziava a dargli la pelle d'oca.
 
 
 
 
  
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 ***


NOTE DELL'AUTRICE: Forse sono pazza pure io, non lo so, ma l'ispirazione viene e va. Mi ero promessa di non postare più fino a che non avessi completato tutta la storia ma sti cazzi. Abbiamo bisogno di Gallavich ora più che mai e io ho bisogno anche di sentire il parere e l'incoraggiamento di voi lettori per poter continuare a scrivere. spero possiate lasciare un commento. Grazie ancora!

 
Un colore di più
 
Il primo segno di follia
è parlare con la propria testa
[Harry Potter]
 
-CAPITOLO 2-
 
 
Quando anche quella mattina la sveglia suonò alle 5, Mickey si coprì la faccia con il cuscino. No, non era fottutamente possibile; gli era sembrato di chiudere gli occhi e addormentarsi solo 10 minuti prima! Non avrebbe mai fatto l’abitudine a quel nuovo orario. Mai.
-Spegni quella cazzo di sveglia!- urlò suo fratello dall’altra stanza. Mickey grugnì e pigiò a casaccio sul suo telefono per mettere fine a quella tortura. Si strofinò stancamente gli occhi e si costrinse ad alzarsi. Stava rivalutando l’idea dei turni notturni, sicuramente sarebbero stati meglio di quelli lì. Si preparò in fretta e uscì di casa affrontando il gelo di Chicago. Tremando convulsamente, fece una breve corsetta verso la metro e una volta dentro rilasciò un sospiro. C’era aria calda e Mickey si accoccolò nel suo sedile, sbadigliando un po’.
Il giorno prima la Anderson lo aveva seguito come un’ombra, verificando e controllando che pulisse bene tutti i fottuti reparti. Era stato molto fastidioso averla lì, ma Mickey era sicuro che quel giorno, invece, lo avrebbe lasciato in pace. Non poteva seguirlo per sempre, no?
Il viaggiò durò poco e Mickey si strinse nuovamente nella sua giacca prima di scendere dal treno e incamminarsi velocemente al cancello del Payer. Il vigilante esaminò il suo badge nuovo di zecca e poi lo fece entrare, borbottandogli un “Buona Giornata”. Mickey si limitò a grugnire.

Caffè. Aveva bisogno di caffè.
Una volta nello spogliatoio, indossò l’uniforma che gli avevano consegnato; i pantaloni bianchi erano troppo lunghi, così se li arrotolò sulle caviglie, mentre la maglia non era altro che una comoda casacca di colore blu. Si guardò allo specchio appeso al muro e per un momento stentò a riconoscersi. MickeyFottutoMilkovich stava indossando una divisa da lavoro! Scioccato dalla sua stessa figura, fece qualche giravolta, rimirandosi.
Però.
La casacca gli faceva risaltare gli occhi blu e così vestito sembrava un fottuto lavoratore rispettabile, un uomo! A Mandy le si sarebbe staccata la mandibola se solo lo avesse visto conciato in quel modo! Soffocò una risatina e poi cercò delle monete nelle zaino e andò finalmente a prendere un caffè alla macchinetta. Lì vi trovò una giovane donna che sorseggiava quella che doveva essere una tisana puzzolente. Mickey non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto e la ragazza sorrise.
-Melissa, Ibisco, Zenzero e Propoli- spiegò lei sollevando la tazza viola.
-Dev’essere buona- ironizzò Mickey inserendo i soldi nella macchinetta. Avrebbe bevuto un caffè scuro e amaro, come piaceva a lui. La tizia poteva tenersi stretta la sua tisana del cazzo.
-Lo è- continuò lei prendendone un altro sorso –ha un gusto abbastanza forte-
-Come l’odore- Mickey non voleva essere così acido, ma la risposta gli uscì comunque molto tagliente. La ragazza fortunatamente rise.
-Non sei un tipo da tisane, eh?-. Aveva i capelli biondi legati in una leggera coda, la divisa era totalmente bianca, a differenza della sua, e sembrava giovane. Non quanto lui, ma comunque più giovane di tutti quelli che aveva visto lavorare lì dentro.
- Sono Melissa- disse porgendogli la mano. Mickey gliela strinse.
-Ti chiami come la tisana?- fece sollevando le sopracciglia –comunque io sono Mickey-
La ragazza rise di nuovo e Mickey si chiese come fosse possibile ridere così tante volte nelle prime ore del mattino. Forse la tizia aveva qualche rotella fuori posto.
-Sei divertente!-
Mickey quasi sputò il caffè. Ok, aveva decisamente qualche rotella fuori posto.
-Sei nuovo? Credo di non averti mai visto.-
Mickey scrollò le spalle. –Già. Ho iniziato ieri.-
-Oh, e dimmi, ti piace qui?- chiese sinceramente interessata. Mickey era incredulo.
-Mi stai veramente chiedendo se mi piace lavorare in un manicomio?-
Melissa rise di nuovo e Mickey si chiese cosa ci fosse di così divertente nella loro conversazione.
-Io sono qui da poco più di sei mesi, sto facendo un tirocinio- spiegò pensando che a Mickey potesse interessare qualcosa, ma Mickey annuì, già annoiato. Non poteva farci niente, lo annoiava tutto, lo annoiavano le persone, i loro discorsi, le loro vite. Persino Mandy a volte lo annoiava.
-All’inizio è stata dura, sai? Ma poi ci fai l’abitudine. Spero un giorno di poter lavorare in un ospedale vero, comunque. In cardiologia-
-Già- rispose Mickey non sapendo che altro dire. Bevve l’ultimo sorso del suo caffè e buttò il bicchiere nella spazzatura. –Devo andare, inizio fra due minuti-
-Oh, certo. Buon lavoro allora. Ricordati di non parlare con i pazienti!- gli raccomandò salutandolo con la mano. Mickey si allontanò accigliato; ancora con quella storia? Perché la gente continuava a ripetergli di non parlare con i pazienti? Lo credevano così stupido?
 
Tre ore più tardi Mickey si ritrovò nella sala comune intento a staccare un chewing gum da una sedia. Un suo collega, Buck, un energumeno di 120 kg, gli aveva ordinato di lasciar stare i corridoi e occuparsi del disastro nella sala comune. Ovviamente il lavoro sporco lo lasciavano a lui, al novellino del Payer. Mickey digrignò i denti e cercò di scollare la gomma dalla sedia col solo risultato di appiccicarla ai guanti in lattice che stava indossando.
-Fanculo- mormorò gettandoli via e prendendone un altro paio. Fortunatamente la sala era pressoché vuota, fatta eccezione per due pazienti che guardavano la televisione e il ragazzino dai capelli rossi seduto al tavolo. Mickey notò che il tipo lo stava guardando.
In realtà lo stava fissando.
 
Ossessivamente.
 
Da quando era entrato.
 
Che cazzo voleva?
 
Gli diede le spalle e si rimise all’opera. La gomma era un maledetto osso duro, non voleva staccarsi. Mickey maledì mentalmente il fottuto pazzo che l’aveva attaccata e allungata per tutta la larghezza della sedia; doveva essere proprio fuori di testa per fare una cosa del genere. Si sollevò per prendere un altro paio di guanti e con la coda dell’occhio vide che il ragazzino aveva deciso di avvicinarglisi.

Oh no.

Si chinò sulla sedia e il ragazzino gli si parò davanti.
-Ciao-
Mickey sussultò ma fece finta di non averlo sentito.
-Sembra complicato- disse, forse riferendosi al groviglio di chewing gum con cui Mickey stava lottando. – Odio lo gomme. Preferisco le caramelle.- aggiunse standosene lì, impalato.
Mickey non poteva credere che il tizio gli stesse rivolgendo la parola. Tirò il chewing gum ma questo gli si appiccicò di nuovo ai guanti, incollandoli fra di loro. –Ma che cazzo- sbottò togliendoseli per l’ennesima volta.
-Forse non dovresti indossarli- gli consigliò il ragazzo. –Ti conviene toglierli e provare a tirarla via con un pezzo di legno.-

Mickey trattenne una risata di scherno. E dove lo trovava un fottuto pezzo di legno?
-Dico sul serio. Le gomme sono la cosa più odiosa inventata nell’ultimo secolo. Decisamente meglio le caramelle. Quelle al limone, se vogliamo essere più specifici. Le caramelle alla fragola invece sono le peggiori-
Mickey si sforzò di ignorarlo e a denti stretti cercò disperatamente di strappare il chewing gum a manate.
-Una volta ho anche provato ad assaggiare le caramelle con limone e fragola insieme, e devo dire che è stata un’esperienza disgustosa-

La gomma si impiastricciò tutta su i guanti e Mickey ingoiò un urlo di rabbia.
-Da allora le evito accuratamente. Come le cicche. E come le caramelline gommose. Le hai mai provate?-
Mickey strappò la gomma da masticare a mani nude. Fanculo quel lavoro, fanculo il manicomio, fanculo Danielle per averlo messo lì, fanculo tutto!
-Lo sapevi che la gelatina che le riveste è fatta di bava di animale?-

Ma quel tipo non stava mai zitto?

-Un sacco di cose sono fatte con le cose più assurde degli animali. Come il burro a cacao per le labbra. Lo sapevi che alcune marche usano lo sperma di cinghiale per farlo? E lo sapevi che per colorare alcuni rossetti viene utilizzato un colorante estratto dal corpo e dalle uova di alcuni insetti sud americani?-
Mickey soffocò un conato di vomito; sia per il tipo che aveva preso a raccontargli cose disgustose e sia per la gomma che gli si incollava addosso… chissà chi l’aveva masticata… chissà quanti batteri e microbi si stavano diffondendo ora sulle sue mani…

- E lo sapevi che la cheratina proviene dalle criniere e dalle corna di diversi animali? E lo sapevi che la fragranza del muschio tradizionale viene ottenuta dai genitali della lontra o del castoro? E lo sapevi che alcuni shampoo contengono il midollo di bue? E lo sapevi che-

-Vuoi chiudere quella dannata bocca?- esplose infine il moro, guardandolo in faccia per la prima volta. Entrambi sussultarono e spalancarono gli occhi; Mickey perché aveva rivolto la parola ad un internato (quando gli era stato proibito categoricamente di farlo) il ragazzino perché evidentemente non si aspettava che il tizio delle pulizie avesse il permesso di rispondergli. Dopo un breve silenzio, il ragazzino ghignò.

-E lo sapevi che non ti era permesso parlare con noi?-

Mickey arrossì lievemente e distolse in fretta lo sguardo. La sedia era più o meno stata liberata dal chewing gum, così si alzò in piedi e raccattò velocemente le sue cose, deciso ad allontanarsi da quel pazzo.
-Dove stai andando?- gli chiese sempre il ragazzino seguendolo fuori dalla sala.
Mickey strinse le mani sul carrello, alzando il passo.
-Come mai sei venuto a lavorare qui?- Il rosso saltellò, determinato a stargli dietro. –Quanti anni hai? Non sembri così vecchio…-
Il moro svoltò nel corridoio costringendo se stesso a restare calmo. Se avesse continuato ad ignorarlo, il ragazzino alla fine si sarebbe arreso e se ne sarebbe andato.  Sì.
-Hai più o meno la mia stessa età, vero? No… forse qualche anno di più. Andavi alla mia stessa scuola? La Near del South Side? Non mi pare di averti mai visto-

Mickey rabbrividì. Avevano frequentato la stessa scuola? Neanche lui ricordava di averlo mai visto in giro. Un ragazzo con dei capelli così rossi non poteva essere passato inosservato.
-Dov’è che abiti?-
Mickey adocchiò l’ascensore e ci si catapultò dentro; era l’unico modo per seminare definitivamente il ragazzino. Il rosso però lo tallonò abilmente e nel momento stesso in cui Mickey pigiò 5 pulsanti a caso, preso dall’ansia, il ragazzino si infilò tra le porte scorrevoli, finendogli addosso.

Il moro era sconvolto. – Cosa cazzo credi di fare?-  e mandò al diavolo tutti i suoi buoni propositi di rimanere in silenzio. Ormai la situazione gli era completamente e dannatamente sfuggita di mano. Aveva un internato rinchiuso con lui, in un ascensore, che lo stalkerava. Era nei guai fino al collo.
D’altra parte il ragazzino sembrava divertito e si guardava intorno. –Era da un secolo che non prendevo l’ascensore- spiegò esaltato. –Dov’è che stiamo andando?-
-Dove stiamo andando-?- ripeté scioccato, guardandolo con occhi enormi. –Noi non stiamo andando da nessuna parte!- strillò. –Devi smetterla di seguirmi. Non parlarmi, non guardarmi. Continua a fare… quello che fai qui dentro-
Il rosso scrollò le spalle -Pensavo ti avrebbe fatto piacere avere un po’ di compagnia-
Mickey aprì la bocca per dire qualcosa ma poi la richiuse. –Tu sei pazzo-
-Non mi piace quando mi chiamano così-

Per la prima volta Mickey vide un’ombra oscurare gli occhi verdi e sempre vivaci di quel ragazzo e si ricordò che il suo interlocutore era un paziente rinchiuso in un manicomio. Non che pensasse che avrebbe potuto aggredirlo da un momento all’altro (e anche se fosse, Mickey non aveva paura di fare a botte) ma il ragazzino era disturbato. Non sapeva esattamente di quale patologia soffrisse, fino ad ora non ne aveva dato cenno, ma pensò che fosse meglio interrompere qualsiasi cosa stessero facendo. Dopotutto c’era una ragione se era proibito parlare con loro.
-Va bene- disse calmo, passandosi una mano sulla fronte sudata. –Ora devi starmi a sentire.-
L’ascensore arrivò al quarto piano e Mickey spinse in fretta il pulsante del secondo, prima che si aprissero le porte. Immaginò le facce sconvolte di tutti quelli che avrebbero potuto scoprirli lì dentro una volta che le porte si fossero aperte.

-Se qualcuno ti vedesse in questo ascensore a parlare con me, passeremmo entrambi dei guai terribili, lo capisci?- Alla parola guai il corpo del ragazzino tremò impercettibilmente. – Quindi adesso dobbiamo farti uscire di qui senza che nessuno ti veda.- disse quasi parlando con se stesso. Fissò il carrello e gli venne un’idea.
-Nasconditi qui!- esclamò indicando il bidone della spazzatura. Non era molto grande, ma se si fosse accovacciato dentro, il ragazzo ci sarebbe entrato benissimo.
Il rosso spalancò gli occhi. –Vuoi davvero che entri qui dentro?-
Mickey si sorprese ancora una volta di quanto il ragazzino sembrasse una persona normale… forse un po’ logorroico e rompi scatole, ma comunque normale.

-Hai un’idea migliore?- lo incalzò alzando entrambe le sopracciglia.
Il ragazzo sbuffò e senza troppe storie ci si ficcò dentro giusto un secondo prima che le porte dell’ascensore si aprissero. Nel corridoio c’erano alcuni suoi colleghi e Mickey li superò salutandoli con un sorriso tirato. Spinse il carrello che era diventato decisamente più pesante e svoltò in un altro corridoio. Avvicinò cautamente la testa al bidone, continuando a spingere.

-Tutto bene li dentro?- sussurrò.
Il ragazzo tossì, togliendosi di dosso delle cartacce sporche. –Credo che vomiterò-
Mickey sogghignò. Gli stava bene.
-Fa presto-
Mickey spinse più velocemente il carrello verso la sala comune ma vide alcuni infermieri entrare proprio lì dentro, smontandogli il piano.
-Merda-
-Che succede?-

Mickey fece dietro front, ora era seriamente agitato. Aveva un cazzo di paziente ficcato nel bidone della spazzatura e non aveva idea di come farlo uscire senza che qualcuno li vedesse. Era nelle merda. Era proprio nella merda.
-Non posso farti uscire- borbottò con una nota di panico nella voce. –Ci sono infermieri ovunque.-
-Portami nella mia stanza!- gli suggerì il rosso con la voce ovattata.

-S-si trova in questo piano?- balbettò svoltando un altro corridoio.
-Vai nell’ala est, la mia camera è la 241- confermò il ragazzo, tossendo.
Mickey non era mai stato in quel reparto del secondo piano, ma decise di fidarsi. Lascio che il ragazzo gli facesse strada, augurandosi che non lo stesse prendendo in giro solo per fare un piccolo tour del Payer. Oltrepassarono varie camere e finalmente arrivarono alla 241. Il corridoio sembrava deserto ma Mickey preferì nascondersi all’interno della stanza prima di far uscire il ragazzino dal suo carrello.
Il rosso si trascinò fuori, sporco, e con la faccia verdognola. –Pensavo di morire- mormorò pulendo e stirandosi la maglietta sgualcita.

Mickey diede un’occhiata alla camera grigia del ragazzo; c’era un letto in ferro battuto bianco, una scrivania con una sedia e una finestra sigillata e sbarrata. Il rosso seguì il suo sguardo e sorrise.
-Lo fanno per impedirci di buttarci di sotto- spiegò come se nulla fosse. Ma c’era qualcosa di vagamente malinconico in quella frase, pensò Mickey; doveva essere brutto non avere la libertà di aprire una finestra e respirare aria pulita, la libertà di sporgere il viso e farsi investire dal vento gelido. Senza dire nulla lasciò vagare i suoi occhi in lungo e in largo; a destra c’era un piccolo armadio grigio e poi una porta che conduceva ad un bagno privato.

Aveva già visto le stanze di altri pazienti del primo e del terzo piano, ma nessuno di loro aveva una camera singola con bagno privato; erano tutte doppie o triple e condividevano un unico bagno. Nonostante la 241 non fosse una stanza lussuosa, Mickey intuì che tutti quelli del secondo piano dovevano essere i pazienti della “prima classe”.
-E’ un po’ sporca al momento, si dimenticano sempre di venirla a pulire- disse calciando via po’ di polvere dal pavimento. Mickey si avvicinò alla scrivania e vide un album da disegno pieno di fogli colorati e scarabocchiati, dovevano essere un centinaio perché l’album non poteva chiudersi. Si ricordò del giorno in cui l’aveva visto per la prima volta, chinato sul tavolo della sala, a colorare qualcosa con una certa urgenza.

-Cos’è che disegni?- gli chiese non riuscendo a trattenersi.
Gli occhi del ragazzo brillarono mentre si avvicinava alla scrivania e ci spargeva qualche foglio. –Non disegno, coloro-
Mickey vide che effettivamente erano solo fogli colorati; alcuni con colori omogenei, altri sfumati, altri ancora colorati in maniera disordinata. Mickey si accorse che alcuni fogli erano addirittura strappati in più punti; dovevano essere stati colorati con troppa foga.

-Mi piacciono i colori, amo i colori- gli occhi erano fissi sui suoi disegni, le dita tremanti che ne accarezzavano la superficie. Era come se tutto ad un tratto il ragazzino fosse rimasto incantato dalle sue stesse opere, ipnotizzato. –D-devo riempire gli spazi. D-ddevo riempire tutti gli spazi, capisci? Niente spazi-

 Mickey si mosse a disagio; il ragazzo aveva iniziato a balbettare, cosa che non aveva mai fatto nel tempo trascorso insieme. Era come se adesso stesse scivolando via. Lontano da quella stanza, dalla loro conversazione.
-Io… devo andare- concluse Mickey sbrigativo, riprendendosi il carrello e accingendosi fuori dalla 241, ma prima che riuscisse a mettere un piede fuori il ragazzo lo fermò.

-A-aspetta!!- sembrava che stesse lottando contro se stesso per riuscire ad allontanarsi dalla scrivania, come se una forza più grande di lui lo volesse tenere incatenato lì. Mickey lo vide sbattere più volte le palpebre e fare un passo nella sua direzione con la gamba che tremava come una gelatina.
-Io… io devo proprio andare, devo tornare a lavoro- ripeté Mickey leggermente atterrito. Non credeva di voler vedere la battaglia che il ragazzino stava affrontando con se stesso, nella sua testa. Voleva andarsene.

-S-ssi, lo s-sso.- balbettò il rosso e per qualche ragione a Mickey gli si strinse il cuore. Gli diede le spalle e fece per andarsene ma la sua voce lo bloccò di nuovo.

-C-ccome ti c-cchiami?- sembrò davvero che quella semplice domanda gli fosse costata uno sforzo enorme.
Il moro continuò a dargli le spalle e stavolta fu lui a dover lottare con se stesso, indeciso se rispondergli o se andarsene in silenzio, mettendo fine a quell’assurda situazione. Strizzò gli occhi. Era un idiota.

-Mickey-

E in quattro e quattr’otto fu fuori dal reparto, lontano da lui.     
 
    
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** -CAPITOLO 3- ***


Un colore di più
 
“Se non ricordi che Amore t’abbia mai fatto commettere la
più piccola follia, allora non hai mai amato”

[cit.William Shakespeare]

 
-Capitolo 3-
 
Come ormai di routine, Mickey prese il suo caffè nero alla macchinetta e fece un cenno di saluto alla tirocinante Melissa.

-I turni di mattina mi distruggono- proferì lei massaggiandosi la nuca. –Non ne posso più-
Mickey non poté che darle ragione. I turni di mattina stavano diventando massacranti, svegliarsi all’alba era qualcosa di orribile e lavorare tutto il giorno a stretto contatto con i suoi colleghi stava diventando impossibile. L’idea dei turni notturni iniziava a farsi sempre più allettante nella sua testa; non avrebbe più dovuto intrattenere conversazioni con nessuno o svegliarsi presto o vedere tutti quei pazzi in giro a fare cose strane. No. La notte dormivano tutti, la notte c’era silenzio, la notte si era in servizio da soli, un inserviente per ogni piano.
Melissa bevve tutta la sua tisana e poi diede un colpetto sulla sua spalla a mo’ di saluto.
-Ci vediamo e mi raccomando, non parlare con i pazienti!-

Mickey seppellì la faccia nel suo bicchiere di caffè. Lui con i pazienti ci aveva parlato eccome, specialmente con uno. Un ragazzino logorroico dai capelli rossi che lo aveva seguito in lungo e in largo. Mickey ingoiò con amarezza quello che era rimasto del suo caffè. Dio, gli aveva pure rivelato il suo nome.
Scosse la testa e si accinse ad iniziare il suo turno di lavoro.
 
Per gran parte della mattinata, Mickey riuscì a tenersi lontano dalla sala comune del secondo piano. Lavò i corridoi del quarto e si sentì decisamente più tranquillo; quando veniva lasciato in pace dalla Anderson e da i suoi colleghi che lo controllavano e lo trattavano come se fosse un poppante, riusciva quasi ad apprezzare il suo lavoro. Lavare i pavimenti in silenzio e in completa solitudine aveva su di lui un effetto rilassante.

Quando ebbe passato lo straccio sull’ultima macchia, rimirò il suo lavoro e si ritenne soddisfatto. Diede un’occhiata all’orologio da polso che aveva rubato ad un tizio qualche tempo prima, e si accorse che era arrivato il momento di pulire la vetrata del secondo piano, dove solitamente sostava il ragazzino dai capelli rossi. Mickey sospirò.

Prese l’ascensore e dopo pochi secondi si ritrovò nella sala comune, accigliandosi per il baccano. La situazione era ben diversa dal giorno prima; c’erano più pazienti in giro e l’atmosfera era decisamente più agitata. Alcuni urlavano, altri cantavano canzoni che Mickey non aveva mai sentito e altri correvano da una parte all’altra. Anche Mickey si agitò. Vide che alcuni vigilanti presero a rincorrere quelli che correvano forsennati, e alcuni infermieri anestetizzavano quelli che erano già stati presi e bloccati. In un’altra occasione Mickey avrebbe trovato il tutto molto divertente ma qualcosa in quel posto continuava a mettergli i brividi.

-Ehi! Mickey!-

Mickey si sentì chiamare e voltandosi si accorse che si trattava del ragazzino dai capelli rossi, seduto al solito tavolo rotondo vicino la vetrata. Lo fulminò con lo sguardo e poi si guardò intorno per assicurarsi che infermieri e vigilanti non l’avessero sentito. Non poteva essere così idiota!
Fortunatamente quelli erano troppo presi a combattere con i pazienti per accorgersi di loro. Mickey comunque era arrabbiato. Non poteva essere così sprovveduto! Chiamarlo lì, a gran voce, sapendo che era proibito parlare con lui! Cosa cavolo gli diceva il cervello?

Poi si ricordò che il ragazzino era un internato. Un paziente. Malato. Che diavolo si era aspettato?
Scosse la testa e si avvicinò alla vetrata. Doveva smetterla di dargli confidenza.
-Micky?- lo richiamò lui. Il moro per tutta risposta spruzzò una generosa quantità di disinfettante sulla finestra e iniziò a pulire.

Il ragazzino aggrottò la fronte e si alzò, andandogli dietro. –Mi stai ignorando?-
Mickey sentì il suo respiro sul collo e rabbrividì. –Che stai facendo?- chiese allarmato, guardandosi nuovamente intorno. –allontanati!-
Lui ridacchiò. –Nessuno si accorgerà di noi- lo rassicurò facendo comunque un passo indietro. –Devono ristabilire la quiete!-

Mickey lo vide ritornare al suo posto, l’album da disegno aperto sul tavolo, le matite colorate sparse qua e là. Si ricordò del giorno prima, di come i colori lo avessero fatto scivolare via, lentamente. Lontano.
-Succede spesso?- si ritrovò a chiedergli in un sussurro. Non voleva intrattenere una conversazione con lui, ma la curiosità ebbe la meglio ancora una volta.
Il rosso lanciò un’occhiata agli infermieri che infilavano le siringhe su per le braccia di alcuni pazienti scossi. – A volte sì. –
Ma Mickey non si riferiva alla situazione nella sala. Improvvisamente decise che comunque non voleva saperlo. Quel ragazzino sembrava un normalissimo adolescente rinchiuso lì per sbaglio. Ma non era uno sbaglio. C’era qualcosa, e Mickey lo aveva visto il giorno prima, nei suoi occhi che via via diventavano più vacui e nella voce che diventava sempre più remota.  

-A volte sono più violenti- continuò il ragazzino con un sorriso amaro. Mickey ebbe la brutta sensazione che gli infermieri fossero stati violenti anche con lui. Per qualche ragione strinse forte lo straccio e pulì i vetri con più foga. Nel breve silenzio che ne seguì, si accorse che finalmente i pazienti erano stati domati e che gli infermieri riprendevano fiato, allontanandosi.

Lanciò un’occhiata al rosso e si scoprì che lo stava di nuovo fissando. Mickey grugnì.
-Lo sapevi che il disinfettante che stai usando va spruzzato a 15 cm di distanza della superficie? E lo sapevi che per ottenere un effetto più omogeneo devi passare lo straccio nello stesso verso e non facendo cerchi concentrici? E lo sapev-
-E lo sapevi che delle tue dritte da sapientone non me ne faccio proprio un cazzo?- disse ironico puntandogli lo spruzzino contro. Il ragazzino gli fece un gran sorriso divertito e Mickey arrossì. Si voltò di nuovo e riprese a pulire, irritato.
Stavolta però, prese a passare lo straccio nello stesso verso.
 

***
 
Nel pomeriggio, un quarto d’ora prima di andarsene, Buck gli disse che doveva andare a pulire il bagno di una stanza al secondo piano. Cosa che non aveva mai fatto, dato che le sue mansioni erano altre. Sbuffò irritato e trascinò il carrello nell’ala est, chiedendosi distrattamente se Buck non lo facesse di proposito ad appioppargli i lavoretti dell’ultimo minuto.
Quando un’infermiera gli indicò la stanza che avrebbe dovuto pulire, il suo sgomento crebbe: la 241. La camera del ragazzino. Qualcosa gli disse che quello non poteva essere un semplice caso.

Sospirando, bussò brevemente alla porta giusto per avvisare che stesse entrando.
-Ehi Mickey!- il rosso lo salutò festoso; era a letto e sembrava che fino ad un secondo prima si stesse annoiando. Mickey gli fece un cenno spazientito e si infilò subito nel piccolo bagno per pulirlo.
Il ragazzino comunque lo seguì. –Non pensavo fossi ancora in turno-
Mickey digrignò i denti. –Beh, sarei dovuto uscire 10 minuti fa, ma grazie a te farò un altro quarto d’ora di volontariato-
-Ohh allora è questo che fai? Volontariato?- chiese lui curiosissimo.
-Qualcosa del genere- borbottò Mickey infilandosi i guanti e spruzzando disinfettante ovunque. Il rosso indietreggiò di poco per non essere colpito.

-Come mai hai deciso di fare volontariato proprio al Payer?- domandò, alzando un sopracciglio. –Devi avere una grandissima forza d’animo per svolgere tante ore appresso a questa manica di pazzi!-
Mickey si stranì nel sentirlo parlare così; come se la cosa non lo riguardasse, come se lui stesso non facesse parte di quella “manica di pazzi”. Credeva forse di non essere malato?

-Sei cristiano? Hai fatto qualche voto di pentiment-
Mickey lo interruppe e non riuscì a trattenere un sorriso divertito. –Non sono credente! Niente del genere!- mise subito in chiaro.
-E allora come mai sei qui?-
Mickey non gli rispose, continuò a pulire.
-Avanti dimmelo!-
Mickey rimase in silenzio e il ragazzino s’impuntò. –Dai! Dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimm-
-Cristo e va bene!- sbottò Mickey lanciandogli uno sguardo sprezzante. –Se te lo dico mi prometti di non rompermi più le scatole?-

Il rosso annuì e Mickey sospirò. –D’accordo. Niente volontariato, sto scontando una pena; lavoro socialmente utile.-
Il ragazzino spalancò la bocca. –Sei un criminale?-
-Cosa? No!- fece il moro interdetto e riprese a pulire.
-Hai ammazzato qualcuno?-
-No.-
-Hai sparato a qualcuno?-
-No.-
-Hai picchiato a sangue qualcuno?-
-No.-
-Hai investito qualcuno?-
-Cristo, no. Ascolta- si spazientì Mickey rimettendosi in piedi e buttando un po’ di carta nel cestino. –Spacciavo, ok? Spacciavo erba. Tutto qua. E sono stato beccato-

Il rosso si aprì in una “o” muta e Mickey approfittò di quel silenzio per rimettersi a lavoro. Prima finiva e prima poteva andar via.
-Ne hai un po’?-
Mickey quasi cadde per terra a quella domanda. –Cosa?-
Il ragazzino si mosse leggermente a disagio. –Sì beh, ne hai un po’ qui? Adesso?-
Mickey era sconvolto. –Certo che no, non me la porto dietro- rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo. –Perché?-

Stavolta fu il ragazzino a distogliere lo sguardo imbarazzato e Mickey capì. –Vuoi fumarti una canna?- chiese con un ghigno. –Vuoi fumarti una canna qui dentro?-
Il rosso scrollò le spalle. –E anche se fosse? Ci si annoia qui dentro!- disse uscendo dal bagno e lanciandosi sul materasso con un salto. Mickey, sempre più divertito, riprese i prodotti e li mise a posto nel carrello.
-Prima di andartene- riprese il rosso mettendo comodamente le braccia dietro la testa –ti dispiacerebbe dare una pulita anche qui? Il pavimento è così sporco!-

Mickey lo fulminò. –Il mio compito era solo quello di pulire il bagno. Me ne vado-
-E cosa dirà la Anderson quando domani passando di qui vedrà tutto il pavimento sporco?- chiese con finta innocenza. –Vorrà sapere chi è stato…-
-Mi stai ricattando?- chiese con le sopracciglia sollevate.
-Dico solo che spazzare il pavimento ti eviterà una gran bella rottura di scatole.-
-Sei uno stronzo, lo sai?-
-Sì, lo so- fece con un sorriso. Mickey borbottò un fottiti e poi afferrò la scopa.
-Un giorno mi ringrazierai- disse seguendo minuziosamente il suo lavoro.
-Ringraziarti per cosa? Per avermi fatto restare a pulire la tua stanza alla fine del mio turno? Non credo proprio!- con la mazza della scopa sbatté accidentalmente sulla cartellina medica appesa a bordo del letto. Senza neanche essere troppo discreto, Mickey lesse quello che doveva essere il nome e il cognome del ragazzino.

-“Ian Gallagher?”-
-Sono io- confermò imbarazzato.
-Da quanto tempo sei qui dentro?- ora era il turno di Mickey di fare le domande.
Ian si strinse nelle spalle –credo 4 mesi-
Mickey fischiò. –Bella vacanza-
-La odio- lo disse col solito sorriso ma Mickey ne percepì il disagio.
-Perché sei qui dentro?-
-Davvero non lo sai?-
Perché sei pazzo. Ovviamente. Mickey non l’avrebbe mai detto ad alta voce. Ma quale disturbo aveva? Perché era lì dentro da 4 lunghi mesi?
-Quando uscirai?- chiese allora raccogliendo la polvere e buttandola nell’immondizia.
-Non lo so. Forse mai. Forse in primavera.-
Ancora una volta Mickey preferì non andare oltre; era sicuro che le successive risposte non gli sarebbero piaciute.
Dissimulò l’imbarazzo con un colpo di tosse. Ian si mise seduto.
-La tua maledetta stanza adesso è pulita, ragazzino. Quindi me ne vado-
Lui rise, poggiando la schiena al muro. –Perché Ragazzino? Perché non Ian?-
Mickey infilò la scopa nel carrello e poi lo guardò beffardo. –Ragazzino mi piace di più-
-Ci vediamo domani mattina?-
-No-
Ian parve più triste. –Non vieni?-
Il moro scosse la testa. –Domani è il mio fottuto giorno di riposo e dormirò tutta la mattina.-
-Q-quindi non ci vediamo?-
-Direi proprio di no-
-A-alllora  d-dopodomani mattina?-

Mickey si accigliò.
Aveva ricominciato a balbettare e la cosa non gli era sfuggita. –Dopodomani inizio i turni di notte- spiegò lentamente e vide il viso dell’altro abbassarsi un po’. Lo sguardo altrove.
Mickey mise le mani sul carrello e prima di uscire guardò di nuovo Ian. Era spento.
–Stai bene, ragazzino?-

Ian non gli rispose, non si girò a guardarlo ma poi lo chiamò. –M-mmickey…-
-Si?- il moro si avvicinò di un passo ma Ian fissava ancora con sguardo vacuo il muro di fronte.
-S-sssto ann-ndando vv-via.- balbettò molto piano. Qualcun altro avrebbe potuto pensare che Ian lo stesse semplicemente avvisando che sarebbe uscito da quel posto, o dalla stanza, o da qualsiasi altra parte, ma Mickey aveva imparato in fretta che non era così. Aveva imparato a capire di che cosa si trattava. Ian stava semplicemente scivolando via. E lo stava avvisando.
A quel pensiero gli si strinse il cuore.
-Dove stai andando?- gli chiese pacatamente. Non era sicuro di cosa stesse facendo ma voleva sapere, voleva accettarsi che sarebbe stato bene.
-I-io…-
-Vuoi che chiami qualcuno, ragazzino?-
-N-nno-
Ian era seduto, immobile, gli occhi incollati alla parete bianca. Lo osservò con preoccupazione.
-Tornerai, vero?- si ritrovò a domandargli con ansia. –ci rivediamo dopodomani, non è vero? Ragazzino?-
Mickey vide la mandibola di Ian serrarsi duramente. Immaginò l’ennesima e feroce battaglia che si stava scatenando nella sua testa.
-Ragazzino?-
Deglutì e si avvicinò di un altro passo; molto lentamente gli portò una mano davanti agli occhi ma Ian non dava segno di vederlo o di percepirlo.
 
Poi la bocca di Ian si schiuse, con forza. 
-C-cci v-vediamo- riuscì a rispondere tremando un po’.
Poteva bastare. Mickey lo guardò un’ultima volta, sperando di scorgere un segno di ripresa o un piccolo sorriso, ma non accadde nulla. Trascinò fuori il carrello lasciandosi dietro un Ian che fissava ancora quella parete bianca. Mickey si augurò che in qualunque posto fosse scivolato, fosse un posto pieno di colori.

 
****
 
Nel suo tanto agognato giorno libero, Mickey dormì per tutta la mattina. Almeno finché sua sorella Mandy non lo svegliò buttandogli un cuscino addosso.
-Hai intenzione di dormire tutto il giorno?-
Per tutta risposta Mickey gli fece il dito medio e si girò dall’altra parte.
-Andiamo Mickey- piagnucolò scuotendogli una spalla. –Avevi detto che ci saresti venuto! Lo avevi promesso.-
Stavolta il moro aprì gli occhi e la guardò. –Di che cosa stai parlando?- gli fece con la voce impastata.
Mandy era scioccata. –C’è la presentazione dei corsi! Non l’avrai dimenticato?-
Oh no.
Mickey rimandò indietro la testa, premendosi un cuscino in faccia. Qualche giorno prima, Mandy gli aveva fatto promettere che sarebbe andato a scuola per la presentazione dei nuovi corsi di formazioni, corsi che avrebbero potuto dargli un lavoro, in futuro (se non avesse ricevuto una proposta dal Payer). Ma le aveva detto di sì solo per togliersela di torno, confidando nei suoi turni spaccaschiena per tirarsene fuori all’ultimo minuto. Peccato che quel giorno fosse coinciso col suo unico fottuto giorno libero.
Mandy gli buttò a letto una maglietta e un jeans. –Vestiti, ti aspetto fuori.-
Da quand’è che era diventata così autoritaria? Sbuffando, sollevò le coperte e uscì nel gelo della sua stanza, vestendosi in fretta. Ciabattò fino alla cucina con la lentezza di un bradipo e si versò del caffè nella tazza.
-Ti ci vuole ancora molto?- lo rimbeccò lei già bella che pronta con cappotto sciarpa e cappello.
-Gesù. Posso almeno finire il mio caffè?-
A salvarlo da una risposta tagliente fu il campanello. –E’ arrivata…-
-Chi è arrivata?- chiese Mickey aggrottando la fronte.
Mandy aprì la porta alla loro assistente sociale Danielle Bowers. - Ciao ragazzi-
-Dovevo immaginarlo che c’era lei dietro tutta questa storia- grugnì Mickey brandendo la tazza del caffè. –Siete ridicole-
-Vedi di sbrigarti, piuttosto- ribatté la Bowers incrociando le braccia al petto. Mickey fece una smorfia e bevve il suo caffè nella maniera più lenta che gli riuscì. Mandy alzò gli occhi al cielo.
-Non è divertente-
Mickey si pulì la bocca e andò a mettersi la giacca. –Sono pronto-
-Era ora.- borbottò in risposta.
L’unica cosa positiva di tutta quella faccenda è che sarebbero andati a scuola con l’auto della signora Bowers, evitando di gelarsi le chiappe alla fermata del bus. Mickey prese posto dietro e lasciò che sua sorella minore si sedesse avanti con lei, tanto quelle due erano già piuttosto in confidenza, ed entrambe stavano facendo a gara affinché lui trovasse la sua strada e com’è che dicevano? Ah, sì: il suo posto nel mondo. 

-Hai dato un’occhiata alle brochure che ti ho mandato?-
Mickey le visualizzò all’interno della sua stanza, sepolte sotto una marea di vestiti sporchi.
-Certo-
La Bowers mise in moto, per nulla convinta. –C’è un corso in particolare che ti piacerebbe frequentare?-
-Non ho ancora un’idea precisa- ribatté piccato, sorridendole dallo specchietto retrovisore. Danielle grugnì una risposta e poi fortunatamente prese a parlare con Mandy, l’unica della famiglia che riusciva a regalarle una gioia.
Mickey sospirò e si lasciò andare contro il sedile; odiava dover seriamente pensare al suo futuro, al fatto che prima o poi avrebbe dovuto cavarsela da solo. A volte si rifugiava nei ricordi della sua infanzia, quando ancora avevano una mamma che poteva badare a loro. Poi lei si era spenta, consumata dal dolore, da un amore malato che l’aveva prosciugata da dentro. Suo padre era un drogato e un alcolizzato e a niente erano servite le lacrime di sua madre, le sue continue preghiere. A niente.

Era forse per quello che Mickey non aveva mai permesso a se stesso di innamorarsi; certo, aveva avuto delle brevissime storie con alcune ragazze, ma non si era mai lasciato coinvolgere. L’amore, per quello che aveva potuto vedere, rendeva deboli, ciechi. Felici solo per poco. A volte per niente.
L’amore aveva fatto ammalare sua madre.

Mickey si chiese se anche quel ragazzino si fosse ammalato per una delusione d’amore. Si chiese se effettivamente un cuore spezzato avesse il potere di far scivolare via una persona, obbligandola a non sentire più nulla, a silenziare le emozioni. Per sua madre doveva essere stato sicuramente così…
E a proposito di quel ragazzino… chissà come stava…
 
 

 
Mickey si allontanò dall’ultimo stand con un gran mal di testa. Avevano trascorso quasi due ore ad ascoltare i vari tizi che rappresentavano i corsi che sarebbero partiti di lì a qualche mese. Ad ogni stand la Bowers gli appioppava una brochure in mano e lo costringeva a rimanere attento. Alla fine, mentre uscivano dalla palestra, Micky si ritrovò in mano una marea di fogli: corso di falegnameria, di ceramica, di marketing, di idraulica, di pronto soccorso-.
Li appallottolò su se stessi e se li ficcò in tasca, guadagnandosi un’occhiata trucida dalla Bowers.
-Ora possiamo andare?- chiese per la ventesima volta, esausto.
-Devo prima fare una ricerca… qui c’è la connessione a internet- spiegò Mandy con una scrollata di spalle, come per giustificarsi con suo fratello.

-Beh allora andiamo- disse la Bowers seguendo sua sorella in biblioteca. Mickey imprecò; voleva andarsene per conto suo e lasciarle lì… ma il freddo pungente e il vento che soffiava malefico lo fecero desistere. Si costrinse a seguire le due in biblioteca e ad augurarsi che si spicciassero.
Che avrebbe dato per avere una macchina tutta sua!

Mentre sua sorella era immersa in una ricerca di storia aiutata dalla Bowers, Mickey misurò la biblioteca a grandi falcate, sbuffando forte quando si trovava a passare dietro le due.

-Mi stai innervosendo- si ritrovò a dire Mandy dopo aver ascoltato un grugnito particolarmente scocciato del fratello. –Perché non entri in qualche chat porno e mi lasci studiare in pace?-

Mickey alzò il dito medio ma decise di accogliere il suggerimento. Scelse un computer nella terza fila e sprofondò nella sedia. Sulla barra di ricerca, tra i preferiti, c’era il sito della scuola. Mickey ci cliccò sù e gli apparve un fastidioso sfondo verde evidenziatore; c’era di tutto, le comunicazioni importanti, gli eventi, gli articoli del laboratorio di giornalismo, le fotografie dei lavori di tutti i club della scuola ecc ecc. Prima che chiudesse tutto e andasse davvero a connettersi in una chat porno, Mickey notò al lato della pagina un menù a tendina con i link diretti ai lavori che ogni club aveva fatto durante gli anni.
Addentò pensieroso l’unghia del pollice e fece scorrere il cursore nell’archivio dell’anno 2014. Quel ragazzino aveva frequentato la sua scuola… doveva aver fatto solo il primo anno di liceo prima di essere ricoverato… e forse durante l’anno aveva preso parte a qualche rivoltante attività extrascolastica… 

Perché non lo aveva mai notato? Perché non se lo ricordava?

Senza farsi altre domande cliccò sull’anno 2014. Erano archiviate le foto della squadra di basket che Mickey ignorò immediatamente, qualcosa gli diceva che quel ragazzino non fosse un tipo esattamente sportivo. Selezionò invece il laboratorio di giornalismo; lo immaginava benissimo nei panni di un fotografo goffo e invisibile intento a fotografare qualsiasi cosa per riuscire ad assicurarsi l’esclusiva della prima pagina. Le foto raffiguravano alcuni suoi compagni di cui si ricordava vagamente, altri li aveva presi a botte fino a qualche anno prima. Nessuna traccia di Ian. Selezionò il club di scienze, credendo forse che quella sua aria da sapientone avesse qualcosa a che fare con gli schizzati ed egocentrici di quel laboratorio. Nulla anche lì. Controllò il club di letteratura. Nulla. Il club dei matematici, e nulla. Il club degli  scacchi, di teatro, di meccanica e nulla, nulla,nulla.

Dove diavolo era? Possibile che come lui non avesse mai partecipato a nessuna attività? Forse la sua condizione psichica non gli permetteva di poter frequentare laboratori e corsi troppo impegnativi. Forse non era neanche vero che avesse mai frequentato quella scuola… che ne sapeva? Perché stava dando retta a quel ragazzino? Ma che gliene importava alla fine se avesse o non avesse frequentato la Near?

Stava quasi per chiudere tutto per l’ennesima volta, quando davanti agli occhi gli comparve l’archivio del club di arte. Sentì la mano formicolare e subito, con frenesia, come se avesse appena trovato la risposta a tutte le sue domande, ci cliccò sopra. Ed era lì. Il piccolo Ian era lì, che compariva distrattamente in alcune foto. In una di queste era semplicemente sullo sfondo, in lontananza, chino su un tavolo a disegnare nella stessa posizione che assumeva nella sala del Payer. In un’altra ancora, sempre sullo sfondo, come se facesse parte dell’arredamento, stava dipingendo su una tela. In un’altra ancora, Mickey riuscì a riconoscerlo solo per mezzo braccio e un ciuffo di capelli rossi che comparivano da dietro un armadio. C’erano foto in primo pano di tutti gli alunni di quel dannato laboratorio di arte, ma non una singola foto che ritraesse Ian e i suoi lavori. Nulla.

Mickey si sentì quasi offeso. Nessuno si era mai sprecato a fare una foto ricordo a quel ragazzino?
Scorse un altro paio di immagini e ne trovò una con una ragazza che sorrideva all’obbiettivo e mostrava quello che doveva essere il suo quadro –decisamente orrendo. Al lato della ragazza, Mickey riuscì a scorgere un Ian leggermente meno sfocato; era in piedi e dipingeva sereno il suo quadro. Mickey da quella prospettiva, riusciva finalmente a vedere uno dei suoi lavori; aveva dipinto l’alba. Semplice ma per nulla banale; Mickey la trovava bellissima. Ian aveva usato tutte le sfumature del giallo dell’arancio e del rosso; i raggi del sole filtravano tra le foglie, come se si stesse ammirando l’alba attraverso i rami di un albero. C’era qualcosa di magico e nostalgico nelle forme, nelle rifiniture, nei colori.
-Ehi-
Mickey sobbalzò.
Mandy aveva finalmente lasciato la sua postazione e gli si stava avvicinando -Che stai facendo?-
-Non sono affari tuoi- borbottò coprendo lo schermo con le mani – hai finito?-
Mandy roteò gli occhi. –Sì, sì, ho finito, ora ce ne andiamo. Sto aspettando che Danielle mi corregga il compito.-
-Bene, allora prova ad aspettare qualche metro più in là, grazie-
Mandy gli fece una smorfia. –Come se non avessi mai visto un sito porno in vita mia. Coglione- e se ne tornò dalla Bowers felice di riaverla lì per commentare un paragrafo. Mickey ne approfittò per modificare la foto di Ian. Tagliò via dall’immagine la ragazza col suo orrendo quadro e ci lasciò Ian come protagonista assoluto. Soddisfatto, mandò la foto in stampa.
 
 
Era stata una giornata particolarmente pesante nonostante fosse quella del suo riposo. La gita a scuola lo aveva sfiancato, così si spogliò per mettersi finalmente a letto. Buttò via la camicia e si tirò giù i pantaloni. Dalla tasca ne uscì un foglio piegato. Era la foto che aveva stampato quel pomeriggio. Si mise sotto le coperte e portò quell’immagine con sé, per guardarla ancora un po’.

Osservò l’alba. Era strano come un semplice quadro potesse in qualche modo fargli provare qualcosa. Non sapeva effettivamente cosa, ma era un sentimento che racchiudeva un po’ di malinconia, di bellezza, di lacrime, di gioia, di serenità, di inquietudine.
Osservare quel quadro gli faceva male e gli faceva bene. Non era sicuro che fosse una sensazione piacevole, ma era inebriante.

Che stesse impazzendo anche lui?

Scosse la testa e poi lascò vagare i suoi occhi sul profilo di Ian. Aveva il naso leggermente all’insù, le lentiggini gli coprivano gran parte del volto, l’occhio destro, quello raffigurato, era verde e attento, sereno, concentrato.
Mickey si ritrovò a fissare quel profilo per parecchi minuti. Forse un po’ troppi. Si strofinò gli occhi come per scacciare via qualcosa di fastidioso e ficcò la foto sotto il cuscino senza troppi convenevoli. Si girò di lato a braccia conserte e infine sospirò.

E sospirò…
 
 
 
 
  Note dell'autrice: Piano piano ci stiamo addentrando nella storia, devo dire che ho amato particolarmente scrivere questo capitolo =) cosa ne pensate? Vi piacciono i profili caratteriali di questi gallavich? Al prossimo capitolo, un abbraccio! StefyM

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 ***


Un colore di più
 
Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Voi dite “questo non può essere” e per loro può essere tutto.

[Cit. Luigi Pirandello]
 
-Capitolo 4-
 

Quel pomeriggio lo spogliatoio era più affollato del solito. Mickey poggiò la borsa nel suo armadietto e fece un cenno di saluto ad alcuni suoi colleghi che invece chiudevano tutto in fretta e andavano via da lì. Avevano finito il loro turno mentre Mickey si apprestava a cominciare il suo... La sua prima notte al Payer. Scese al primo piano a prendere il suo fidato carrello e poi si diresse nella sala comune. La Anderson gli aveva raccomandato di tenerla il più pulita possibile, specialmente a quell’ora, durante la visita dei parenti.

Si preparò mentalmente alla bolgia con cui avrebbe dovuto lottare per farsi spazio, ma quando ci entrò rimase interdetto. C’erano giusto una ventina di familiari che avevano avuto il cuore di andare a trovare i loro parenti, niente di più. La Anderson, in tutta la sua altezzosità, era lì a conversare con alcuni di loro, ostentando una professionalità e una rigidità vomitevole. E a proposito di vomito… uno dei pazienti aveva deciso di lasciarne una generosa quantità sulla poltrona accanto alla televisione. Stava già per svignarsela ma la Anderson lo intercettò subito e con un cenno muto gli ordinò di andare a pulire. Immediatamente. Mickey sbuffò.

Con lo schifo stampato in faccia, indossò i guanti e srotolò un metro di carta assorbente. Cercò di raccogliere quella che forse era stata la merenda di quello stronzo e provò in tutti modi a non contribuire con quello che invece era stato il suo pranzo. Perché quei pazzi vomitavano sempre? Perché?!

Da quella prospettiva si accorse che al solito tavolo vicino alla finestra c’era Ian. Ma stavolta non era da solo. Seduto dall’altra parte del tavolo c’era un uomo sulla cinquantina, i capelli rossi con un inizio di calvizia, il viso segnato, triste. Mickey era sicuro si trattasse del padre del ragazzino. Si somigliavano troppo per poter essere solo semplici parenti.
A quanto pareva la conversazione non doveva essere molto piacevole. L’uomo stava dicendo qualcosa a Ian, che annuiva meccanicamente e con aria spenta. Per un attimo Mickey pensò che fosse scivolato via , ma poi lo vide parlare e partecipare animatamente alla discussione.

Di sicuro era una questione familiare delicata.

Mickey gli occhieggiò comunque per tutto il tempo, anche quando finì di raccogliere tutto il vomito. Ian non doveva ancora averlo visto…

Ciondolò in giro per la sala, spazzando e spruzzando disinfettante ovunque. Nel momento in cui Ian avesse deciso di voltarsi, Mickey era pronto a regalargli un piccolo sorriso di incoraggiamento. Ma non accadde nulla. Padre e figlio sembravano aver finito di discutere ed erano rimasti lì seduti, in silenzio e immobili. Mickey passò casualmente dalle loro parti e lanciò uno sguardo al rosso che invece lo ignorò completamente; come se Ian avesse incrociato accidentalmente gli occhi di un estraneo.

Per qualche ragione Mickey si sentì strano. Era una reazione che decisamente non si era aspettato da parte del ragazzino; non era forse lui quello che insisteva a salutarlo ovunque si incontrassero? E ora faceva finta di non conoscerlo? Dopo che Mickey era andato contro tutte le regole del Payer ed aveva conversato e chiacchierato con lui?
Quel pensiero lo irritò particolarmente e decise che non gli avrebbe più rivolto la parola, né tantomeno si sarebbe fatto coinvolgere nella sua fottuta vita privata. Afferrò la scopa e andò a pulire i corridoi, abbandonando la sala comune e lasciandosi dietro Ian e i suoi problemi. 
 
 
Per la prima volta da quando aveva iniziato a lavorare al Payer, Mickey si trovò a dover cenare nella sala mensa, quella riservata al personale. Il cibo assegnato a loro, fortunatamente, sembrava leggermente più appetitoso della sbobba che invece veniva data ai pazienti. E sicuramente sembrava più appetitosa della cena che Mandy puntualmente bruciava nel forno.

Così si servì abbondantemente di pasticcio di patate, salsicce, verdure miste e mais, e non sdegnò nemmeno una zuppa di qualcosa di un colore indefinito. Infine mise sul suo vassoio una fetta di crostata alle mele e due arance; poi si voltò per cercare un posto. In realtà la sala non era altro che una stanza di media grandezza con quattro tavoli e delle panche. C’erano cinque colleghi in tutto a cenare; Buck e quello che doveva essere Conny-Cronny o qualcosa del genere erano seduti all’ultimo tavolo, mentre Melissa e altri 2 che non conosceva, erano seduti al primo tavolo. Mickey fece per sedersi in un tavolo vuoto e starsene per conto suo ma Melissa iniziò a sbracciarsi per invitarlo a cenare lì. Stava quasi per declinare l’invito ma alla fine decise di unirsi a loro; qualcosa gli diceva che se si fosse seduto da solo, gli altri non lo avrebbero lasciato in pace. Tanto valeva dargliela subito vinta.

-Ehi- lo salutò allegramente Melissa, invitandolo a sedersi. –Ragazzi lui è Mickey!- lo presentò amabilmente agli altri due. Senza scomporsi, Mickey gli salutò con un cenno del capo e poi si avventò sulle sue salsicce.
Melissa gli presentò Vincent e Rachel, di qualche anno più grandi di lui; anche loro stavano facendo un tirocinio da infermieri.

-Ne hai di fame, eh- commentò Rachel quando Mickey passò ad ingozzarsi contemporaneamente di zuppa e pasticcio.
-Non sdegno il cibo- rispose semplicemente, con la bocca piena. Melissa rise mentre Vincent fece una smorfia.
-Tesoro, vorrei avere solo un decimo del tuo metabolismo- fece il ragazzo in modo decisamente poco mascolino, guardando con desiderio il piatto di Mickey, -Invece mi ritrovo ad ingrassare  respirando l’aria-

Melissa e Rachel risero mentre Mickey si accigliò; quel Vincent doveva essere un finocchio.
-Da quando abbiamo iniziato a lavorare qui credo di aver messo su 4 kg!- continuò sconvolto, guadagnandosi la comprensione assoluta delle sue colleghe.

-E’ colpa di questo posto- protestò Melissa –mai una volta che avessi visto un piatto leggero, un’insalatina, del farro! Nulla! Solo piatti grassi e unti-
-E vogliamo parlare del sale?- rincarò Vincent –Nella zuppa di pesce di ieri c’era talmente tanto sale che mi sembrava di bere acqua marina.-
-Hai ragione!-

Mickey scosse la testa, ingoiando una grossa forchettata di pasticcio. Quei tre non avevano assolutamente idea di che cosa significasse avere fame. Altro che diete e 4 kg in più! Mickey avrebbe pagato oro per avere la possibilità di avere un pasto completo al giorno; che ne sapevano loro dei crampi allo stomaco, delle lunghe notti a rigirarsi fra le lenzuola immaginando di addentare un solo pezzo di pizza. Di tutte le volte che lui e Mandy, presi dalla fame, si erano appostati nel retro di alcuni ristoranti a chiedere gli avanzi…

-Beh, io sono stanca di questo posto in generale- sbottò Rachel buttando giù il suo bicchiere d’aranciata come fosse un alcolico. –Credo di star impazzendo. Proprio come loro- disse riferendosi ai pazienti. –Dopo la giornataccia di ieri, pensavo che le cose almeno oggi si sarebbero calmate, e invece nulla.-
-Cos’è successo ieri?- chiese Vincent curioso.

-Perché, non lo sai?- gli domandò Melissa interdetta. –Il tipo del secondo piano ha avuto una brutta crisi.-
-Ieri ero di turno al quarto piano!- si giustificò per la mancanza di quel pettegolezzo, -Cos’è successo?-
-Hai presente quel ragazzino coi capelli rossi?- e qui anche Mickey drizzò le orecchie. –Della 241-
-Quello con la mania dei colori?- si accertò Vincent.

-Proprio lui!- rispose Rachel, compiaciuta di avere la completa attenzione della tavolata. –Beh, ieri mi apprestavo ad iniziare il mio solito turno mattutino- raccontò con voce più bassa, con fare complice -ero lì ad affiancare il Dottor Mcnoir per il solito giro di controllo al secondo piano. Quando ad un certo punto abbiamo sentito delle urla provenire dalla sala comune.- spiegò versandosi un’altra generosa quantità di aranciata nel bicchiere. Mickey non faticò ad immaginare Rachel vuotarsi da sola intere bottiglie di sherry. –Siamo tutti abituati a sentire delle urla qui dentro. Ma quelle, credetemi, non erano urla qualsiasi. Erano urla terrificanti, di quelle che ti fanno accapponare la pelle.- disse con una splendida pausa ad effetto. Se la stava godendo un sacco, pensò Mickey, ma non poté fare a meno di ascoltarla con estremo interesse e un pizzico di preoccupazione. Cos’era successo al ragazzino durante il suo giorno libero?

-Ho proposto al Dottor Mcnoir di andare a controllare cosa stesse succedendo, così ci siamo catapultati nella sala comune. Non avevo mai visto il ragazzo dai capelli rossi avere una crisi del genere. Da quanto ricordo è sempre stato molto tranquillo, sempre lì a fare i suoi disegni. Ma ieri qualcosa deve averlo fatto svalvolare. C’era un tizio delle pulizie, lì vicino. A quanto abbiamo potuto capire, il tizio deve aver fatto cadere accidentalmente un prodotto su uno dei suoi disegni, rovinandoglielo, ed il ragazzo è andato fuori di testa.-

Mickey sentì la gola stringersi.

-Abbiamo provato a calmarlo. Ma era totalmente fuori. Blaterava qualcosa sugli spazi bianchi, e sui prodotti che andavano spruzzati ad una distanza di sicurezza o qualcosa del genere. Abbiamo dovuto immobilizzarlo e legarlo a letto.-
Mickey sbiancò lentamente. –P-perché lo avete legato?-

Melissa e Vincent si voltarono a guardarlo. Come se avesse fatto la domanda più stupida del secolo, come se quella fosse una procedura ovvia.  
No. Non lo era. Non era ovvio per un cazzo.  

-Aveva iniziato a farsi del male- spiegò Rachel per nulla infastidita da quella domanda, anzi. Si beò di avere tutti in pugno col suo racconto. –Aveva preso a graffiarsi la faccia, quasi a strapparsi la pelle. Abbiamo dovuto legargli i polsi a più mandate e iniettargli del calmante e poi del sonnifero.-

Mickey si sentiva arrabbiato, triste, addolorato.
-Abbiamo potuto slegarlo solo stamattina, e abbiamo chiamato suo padre-
Ecco perché quella sera era lì. Ecco perché forse stavano discutendo.
-Stamattina invece è toccato di nuovo al tipo delle canzoni. Anche lui ha avuto una crisi isterica. Non li sopporto più- disse in tono superficiale.

Mickey era indignato. Anche lui a volte non sopportava quei pazzi ma… insomma, non lo facevano di proposito a stare male, no? Non erano loro a volere quelle crisi, e di certo quel ragazzino non aveva voluto farsi immobilizzare a letto così, per gioco. Non era colpa loro.

-Oddio ancora? Cos’ha fatto adesso?-
E spettegolarono sul tizio delle canzoni ma Mickey smise di ascoltarli. Non aveva più voglia di stare a sentire le loro stronzate. I pensieri erano rivolti a Ian; alle immagini di lui che urlava e piangeva mentre veniva legato a letto, mentre non riusciva a collegarsi alla realtà e non riusciva ad essere cosciente. Immaginò la confusione e il terrore nei suoi occhi verdi. Immaginò la paura di vedersi lì da solo, senza nessuno ad aiutarlo…

Gli era passata la fame.
 
 

Erano più o meno le tre di notte e Mickey aveva pulito tutto il terzo piano. I primi tempi aveva creduto che lavorare di notte in manicomio lo avrebbe fatto morire di crepacuore, e invece no! C’era silenzio. Niente Anderson, o Buck, o pettegoli, o pazienti; ogni tanto incrociava un vigilante durante il loro giro di ronda e fortunatamente anche loro non avevano nessunissima voglia di parlare, si limitavano a farsi un cenno o ad ignorarsi a vicenda. Era tutto perfetto.
Prese l’ascensore e si diresse al secondo piano per lavare i corridoi. Cambiò l’acqua del secchio e mise una generosa quantità di prodotto. Fanculo il risparmio.

Passando dal corridoio centrale, si accorse di una piccola luce provenire dalla sala comune. Mickey era sicuro di aver visto tutte le luci spente fino ad un attimo prima..

Forse uno dei vigilanti l’aveva lasciata accesa per sbaglio. Lasciò il secchio sul carrello e poi entrò nella sala comune già sbuffando. La luce proveniva da una piccola lanterna elettrica portatile, poggiata sul tavolo tondo vicino la finestra. Ian era concentrato a colorare uno dei suoi fogli, ignaro di tutto.

Mickey lanciò uno sguardo alle sue spalle per assicurarsi che fossero soli, poi si avvicinò cautamente al ragazzino.
-Lo sai che non puoi stare qui, vero?- gli chiese incrociando le braccia al petto ma utilizzando un tono di voce bonario.

Ian sussultò impercettibilmente e fece incrociare i loro sguardi, lasciando stare per un momento i colori. –…Farai la spia?-
Mickey scrollò le spalle e si avvicinò di un altro passo. –Cosa stai facendo qui?-
Il ragazzino abbassò lo sguardo sul suo album da disegno. –Coloro- disse come se fosse una cosa ovvia, ma Mickey lo fissò, invitandolo a continuare.

Ian sospirò e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. –Non riuscivo a dormire. Ogni tanto vengo qui per rilassarmi. Non sto facendo nulla di male- spiegò come per giustificarsi.
Mickey annuì e si sedette sulla sedia di fronte, dove quel pomeriggio aveva visto il padre del ragazzino. Da quel punto poteva vedere i graffi sul collo che si era procurato. –Come mai non riesci a dormire?-

Ian scrollò le spalle e Mickey si sentì triste per lui; non era il solito Ian raggiante e sorridente, evidentemente la crisi del giorno prima lo aveva debilitato parecchio.
-Dovresti andare a riposare- gli consigliò, -E dovresti rilassarti. Una volta mia sorella mi ha fatto vedere una strana procedura orientale- gli spiegò cercando di ricordare cosa esattamente Mandy gli avesse detto, -Devi ehm, stenderti a letto… e toccarti il lobo dell’orecchio sinistro… o forse era il destro? No no no il sinistro!-

Per la prima volta Ian abbozzò un piccolo sorriso e Mickey se ne rallegrò. –Devi credermi, funziona davvero! Devi solo tenerlo premuto per qualche minuto e poi voilà: e t’addormenti come un bambino -
Ian scosse piano la testa mentre il lieve sorriso spariva. –E’ da qualche giorno che non riesco a dormire- ribadì grattando il tavolo con un dito.

Mickey soppesò l’idea di chiedergli se la sua perdita di sonno fosse dovuta alla crisi del giorno prima, ma non voleva urtare la sua sensibilità. Dopotutto non erano poi così in confidenza. -E’ successo qualcosa?- decise di chiedere quindi, rimanendo vago e ignorando volutamente i segni sul collo e sui polsi.
Ian stava per rispondere ma il silenzio fu rotto dal suo stomaco che brontolava in maniera feroce. Mickey sollevò le sopracciglia sorpreso, mentre Ian arrossì.

-Hai fame!- constatò il moro, quasi accusandolo. –Hai cenato stasera?-
Ian arrossì ancora, distogliendo lo sguardo. –…ho mangiato qualcosina- sciorinò piano; il che voleva dire che non aveva mangiato nulla. Mickey sospirò e poi si alzò di scatto da tavola.
-Seguimi.- gli ordinò dirigendosi fuori dalla sala comune.

-Cos-dove?- domandò Ian confuso, rimanendo comunque al suo posto. Mickey si  voltò per lanciargli uno sguardo trucido. –Muoviti- gli disse soltanto, dandogli le spalle e riprendendo a camminare.
Ian fu costretto ad alzarsi e seguirlo.

Pochi secondi dopo, Ian riconobbe la sala mensa del personale. Mickey tirò fuori le chiavi dal taschino e le ficcò nella porta che dava l’ingresso alla cucina.

-Come le hai avute?- fece sbigottito. Era sicuro che non fosse permesso ad un ragazzo del lavoro socialmente utile di poter entrare nella cucina del Payer.
Mickey si aprì in un sorriso sghembo. –Le ho rubate-

Ian strillò -COS-?-  ma Mickey gli premette velocemente una mano sulla bocca per zittirlo.
-Vuoi che ci sentano tutti?- lo rimproverò a denti stretti. Ian scosse il capo  e Mickey notò che da quella distanza riusciva a contare tutte le lentiggini che il rosso aveva sul naso. E se faceva scorrere lo sguardo leggermente più su, poteva ammirare quelle iridi verdi  che in quel momento lo guardavano in pieno viso. Si sentì arrossire e tolse velocemente la mano da quelle labbra particolarmente morbide. Lo invitò ad entrare e subito dopo accese le luci.

Ian si strinse nelle braccia, la stanza era leggermente più fresca rispetto agli altri reparti del Payer. –Perché siamo qui?-
Mickey aprì il grande frigo d’acciaio e tirò fuori un grande vassoio avvolto da una pellicola. –Hai bisogno di mangiare- spiegò velocemente, recuperando piatti e posate.

Ian era annichilito. –M-a ma tu… perché hai rubato le chiavi?- ripeté non riuscendo a capacitarsi del perché e del come si trovassero lì. Mickey sbuffò versando sul piatto un bel po’ di pasticcio di patate.
-Ok… per fartela breve, ho scoperto che in questo posto buttano via tutti gli avanzi e gli scarti della giornata. Così ho pensato che questa roba starebbe meglio nel mio stomaco e in quello di mia sorella piuttosto che in una pattumiera.-
Ian si aprì nel più sincero dei sorrisi della serata. – Hai ragione-

-E anche nel tuo, di stomaco- aggiunse appioppandogli il pasticcio di patate in mano. -Il resto verrò a prenderlo prima di andare via e lo porterò a casa, non si accorgeranno di nulla-

Ian infilzò la forchetta nel suo pasto e annusò. –Sembra diversa dalla solita poltiglia della nostra mensa-
-E lo è- confermò Mickey sedendosi sul bancone e prendendo un piatto anche per sé. Ian gli si sedette accanto, forse un po’ troppo vicino per i suoi gusti, ma lo lasciò fare. Ian aveva un buon profumo.

Lo vide addentare con diffidenza la prima forchettata e poi spalancare gli occhi una volta scoperto che il sapore era buono. Mickey soffocò un risolino e Ian azzannò il suo piatto, finendolo nel giro di pochi secondi. –Ne vuoi ancora?- gli chiese. Ian annuì con la bocca ancora piena.

Mickey sempre più divertito e rilassato gli riempì il secondo piatto fino all’orlo, e stavolta Ian ci si fiondò senza più alcuna diffidenza.

-Dì la verità… da quant’è che non mangiavi?- fece mangiando anche lui il suo pasticcio. Quel coso era davvero buono.
Ian ingoiò a fatica un grande boccone e gli lanciò uno sguardo timido. –Da ieri- confessò ritornando con gli occhi al piatto.
Mickey per poco non soffocò. –Cos- ma perché?-
Ian scrollò le spalle, l’umore di nuovo triste. –Non avevo fame…-
-Perché non avevi fame?-

Ian lo guardò strano e Mickey si chiese se non si stesse spingendo troppo oltre. Dopotutto, perché quel ragazzino avrebbe dovuto confidarsi con lui, e soprattutto, perché Mickey ci teneva così tanto che lo facesse?
-Ho avuto una crisi.- rispose finalmente, guardandolo in faccia, quasi sfidandolo a ridere o ad abbassare lo sguardo imbarazzato o inorridito. Mickey tenne tranquillamente gli occhi nei suoi non regalandogli nessuna reazione in particolare. Si guardarono per lunghi secondi e Ian a quel punto vacillò, allontanando lo sguardo.
-Ora come stai?-

Ian ritornò velocemente a guardarlo, studiando ogni sua espressione. –Credo meglio-
Mickey annuì fissando poi i segni sui polsi e sul collo. Prese coraggio e con l’indice indicò il collo del ragazzo. –Sei stato tu?- gli chiese cercando di sembrare distratto ma allo stesso tempo non superficiale.

Ian di riflesso portò una mano sui punti feriti, pensieroso. –E’…non lo so. E’ una cosa che non posso controllare- spiegò con tutta la spontaneità e la naturalezza di un ragazzo della sua età.

-Come quando vai via?- si ritrovò a chiedere Mickey quasi pendendo dalle sue labbra. Per qualche ragione aveva bisogno di sapere e capire quel ragazzino.  Aveva bisogno che lui gli dicesse cosa sentiva e provava.
Ian lo guardò di nuovo a lungo prima di decidere se rispondere o meno. –A volte… posso decidere io, se andarmene o meno. A volte no, non posso-

Sembrava che il rosso volesse chiudere il discorso ma Mickey non era ancora pronto ad abbandonare la faccenda. –Allora perché a volte scegli di andare via?- chiese d’impeto pur sembrando indelicato. Aveva bisogno di sapere. Lui doveva sapere.

Ian aggrottò la fronte giochicchiando con un po’ di pasticcio rimasto nel piatto. –Per… per stare meglio, suppongo.-
Il cuore di Mickey perse un battito, stringendo forte la forchetta nella mano.
-Era questa la risposta che stavi cercando?- gli chiese Ian, prendendolo di sorpresa.

-Cosa?-
Ian fece un sorriso storto. –Chi era?- domandò semplicemente.
Mickey deglutì e distolse lo sguardo. –Nessuno…- ma si accorse di suonare falso persino a se stesso. Inizialmente aveva fatto quella domanda al ragazzino perché curioso di sapere il motivo della scelta di scivolare via… ma la verità era un’altra. La verità era che lui, forse, aveva bisogno di sapere il motivo per il quale sua madre, aveva scelto di scivolare via. Di lasciare lui e sua sorella Mandy a patire la fame, a privarli dell’affetto di un genitore, per andare in qualsiasi altro posto nella sua mente, lontano dalla realtà e da loro.

Sospirò.
-…Mia madre- confessò alla fine guardando dall’altra parte, non riuscendo a reggere lo sguardo di compassione che Ian gli stava riservando. –Ma ormai non ha più importanza. Ovunque lei sia, avrà sicuramente trovato il posto che cercava nella sua testa-
-Mi dispiace molto-

Ian lo guardava con occhi enormi e lucidi e Mickey si sentì infastidito da quell’improvviso  sentimentalismo. Scrollò le spalle e scese dal bancone. –Dovremmo andare-
-Sei arrabbiato con lei…- constatò il rosso guardandolo di sottecchi, ancora seduto. –Lo capisco, sai? Anche mio padre è arrabbiato con me. Oggi abbiamo discusso. Crede che io non mi stia impegnando abbastanza- disse con una nota di amarezza. Mickey lo ascoltò con attenzione, in silenzio. –Vorrei solo che tutto questo sparisse. Che quello che ho nella mia testa sparisse per sempre… ma non ci riesco-
-P-puoi farcela…- lo incoraggiò Mickey lentamente. –Mi sembri uno sveglio. Puoi uscirne.- Non sapeva perché stesse dicendo quelle cose, ma sentiva il bisogno di dirle, forse perché aveva bisogno di credere che ci fosse speranza, o forse perché aveva bisogno di credere che non tutti quelli che si ammalavano erano destinati a finire come sua madre.
No. Quel ragazzino poteva farcela.

Mickey giurò che gli occhi di Ian avessero brillato per un momento prima di tornare opachi e un po’ malinconici. –Sei gentile a dirlo…-
-Non dire mai più che sono gentile!- borbottò accusandolo con una forchetta. –Ho picchiato per molto meno, sai?- Il discorso stava prendendo una piega fin troppo zuccherosa per i suoi gusti, così decise di sdrammatizzare e portare la loro conversazione ad un livello più gestibile. Ian infatti rise.

-Picchiavi le matricole a scuola?- chiese leggermente più vivace.
-Picchiavo chi mi doveva dei soldi- puntualizzò sbarazzandosi dei loro piatti ed eliminando ogni loro traccia dalla cucina.

-Ancora non posso credere di non averti mai incrociato alla Near- fece Ian pensieroso. –Mi sarei ricordato subito dei tuoi occhi- lo disse così, nella maniera più naturale possibile, e Mickey per poco non si affogò con la sua stessa saliva.
-Come?-

Ian lo guardò. –Sì beh… il colore dei tuoi occhi… sono blu. Con qualche sfumatura azzurra- illustrò muovendo le dita come se stesse dipingendo il suo sguardo a mezz’aria. -E ci sono dei riflessi più chiari che cambiano in base alla luce o alla prospettiva.- 

 Mickey si stupì di come Ian fosse riuscito a notare tutti quei particolari in quelle poche volte che si erano visti. –Oh…- mormorò imbarazzato. –Beh, nemmeno io ti ho mai visto a scuola.-
-Mi avresti picchiato?-

-Non lo so. I capelli rossi mi ispirano violenza, però-
Ian rise di nuovo scendendo dal bancone con un salto e lo raggiunse, parandoglisi davanti. Si guardarono ancora in silenzio e Mickey si chiese perché quella sera si fissassero in continuazione. –Dovremmo andare- ripeté caracollando verso la porta. Accompagnò Ian fino alla 241 dandogli la buonanotte e augurandosi che quella sera, a stomaco pieno, riuscisse a riposare almeno un po’.

-Mickey?-
-Sì?-
-Ci vediamo domani?…- chiese con voce piccola, mettendosi sotto le coperte. Nel cuore di Mickey crebbe velocemente un moto di tenerezza. Una tenerezza che non aveva mai provato per nessuno.
-Sì, va bene- fece per andarsene, ma Ian lo fermò di nuovo.
-Mickey?-
-Sì?-
-Ora… noi siamo amici?- domandò con una tale semplicità che Mickey si sentì arrossire. Si grattò la nuca, spaesato.
-Beh… suppongo di sì.- borbottò girandosi per andarsene di nuovo.
-Mickey?-
Le sopracciglia di Mickey schizzarono verso l’alto. –Sì??-
Ian sorrise scoprendo una fila di denti bianchi. -…Grazie… per oggi-
Le guance si dipinsero di un lieve rossore e questo lo fece sentire tremendamente a disagio. –Bene… se questo è tutto…- alzò una mano a mo’ di saluto e chiuse velocemente la porta alle sue spalle. Ci si appoggiò per un momento contro e un angolo della bocca gli si piegò verso l’alto.
 
 
***

 
La sera seguente Mickey fu felice di trovare un Ian più vivace ad attenderlo. Stava sfogliando una rivista sui dinosauri, una di quelle che si regalavano ai poppanti.

-Quanti anni hai?- lo schernì infatti adoperandosi a pulire i vetri della sala comune. Ian lo guardò come un povero ignorante lebbroso. –Qui dentro c’è tutto quello che c’è da sapere su di loro- gli spiegò con enfasi. –E poi le immagini sono bellissime! Guarda! Guarda i colori! Guarda le sfumature!- disse quasi premendogli la rivista in faccia.
Mickey gliel’allontanò. –Sì, sì, ok, ho afferrato il concetto-

Ian se la riprese e ci affondò la faccia sopra, ammirando la moltitudine di colori.
Il moro continuò a pulire il vetro, pensieroso. Ian aveva questa strana fissazione pei colori che, per carità, potevano tranquillamente derivare dal suo amore per l’arte, ma qualcosa gli diceva che non era propriamente così.
-Perché non disegni?- si ritrovò a chiedergli ad un certo punto, lasciando stare la vetrata. Ian risbucò dalla sua rivista, confuso.
-Cosa?-
Mickey era sicuro di non aver visto un solo disegno nel suo album, c’erano solo fogli colorati e strappati, ma nessuna alba magica, nessun tramonto, nessun paesaggio. Solo e semplici accozzaglie di colori.

-Una volta mi hai detto “io non disegno, coloro”-
Ian lo guardò strano, il viso inespressivo. -Ah…te lo ricordi-

Mickey aspettò che andasse avanti ma Ian prolungò il silenziò finché Mickey non lo spronò a continuare.
-Io non disegno- ripeté meccanicamente- Non ho mai disegnato. Coloro e basta e questo è tutto-

Bugia colossale.

Mickey sapeva benissimo che Ian aveva disegnato eccome in passato, aveva la prova stampata sotto il suo cuscino, la prova di quell’alba mozzafiato vista attraverso i rami di un albero.
Ma perché lo negava, allora? Perché aveva smesso di disegnare? Perché non voleva dirlo?
Fece per aprire bocca ma Ian lo precedette. –Non voglio parlarne-
Non aveva mai usato un tono così perentorio, così Mickey decise di accontentarlo e non aggiungere nulla; evidentemente aveva in qualche modo toccato un tasto dolente.

Ian comunque parve accorgersi che la sua risposta tagliente aveva freddato un po’ l’atmosfera, così provò a rimediare. –Ti va… se ci facciamo un panino?- propose innocentemente.
Mickey scosse la testa, sorridendo. –Sei proprio un ingordo , lo sai?-

Ian si aprì in un sorriso, contento che il discorso si fosse alleggerito. –Perché?-
-Perché stai approfittando delle abilità ladresche di un semplice inserviente per poterti abbuffare- lo accusò lasciando i prodotti sul tavolo e avviandosi verso la mensa.

Ian alzò le mani in segno di resa. –Mi hai beccato!- poi chiuse la rivista e la ficcò nel suo album da disegni, seguendo il moro.
 
 ***
 
Era strano tornare a casa dopo il turno di notte, con la luce del sole che illuminava flebilmente le strade di Chicago. Non si era ancora totalmente abituato al nuovo orario, soprattutto era stato difficile rimanere sveglio la sera per poi dormire di giorno. Sentiva di non riuscire a recuperare mai del tutto il sonno perso. Comunque, a parte questo, poteva tranquillamente dire di starsi trovando abbastanza bene… quando incrociava Mandy in cucina, per fare colazione insieme con gli avanzi e alcune provviste che puntualmente rubava al Payer, sua sorella gli chiedeva come stesse andando, e lui rispondeva con una semplice scrollata di spalle.

A dirla tutta, non aveva voglia di raccontarle del suo lavoro, e soprattutto non aveva voglia di raccontarle di Ian.
Già… Ian.
Un ragazzino, un paziente, un internato con cui lui aveva fatto amicizia.

Era una situazione completamente assurda ma Mickey non si sentì particolarmente in colpa. Durante i turni notturni scambiavano semplicemente quattro chiacchiere; Ian lo seguiva un po’ dappertutto, a volte infastidendolo terribilmente con i suoi sproloqui sulle norme di sicurezza  e sugli agenti chimici, a volte se ne stava seduto a colorare  mentre lui metteva in ordine la sala, facendogli compagnia con la sua sola presenza. In quei giorni avevano parlato un po’ di tutto, di film, di cibo, della loro vecchia scuola scambiandosi aneddoti divertenti e il loro reciproco odio per la preside. Non avevano più parlato della crisi che Ian aveva avuto qualche giorno prima, né del motivo per cui avesse smesso di disegnare e né della sua malattia in generale.

E ad ogni modo, a Mickey andava bene così. Si sentiva stranamente tranquillo e sereno, come non lo era stato da tempo. Ogni tanto si ritrovava a fischiettare o a cantare sotto la doccia, a volte semplicemente sorrideva senza un apparente motivo per poi scuotersi e stamparsi in faccia la sua solita maschera d’indifferenza. Qualcosa comunque era cambiato. E lo notò anche Mandy quella mattina, quando Mickey le passò una scatola di uova presa al Payer.
-Sei strano- disse aprendo le uova e buttandole in padella.

Mickey si versò il caffè nella sua tazza e le lanciò un’occhiata. –Stronzate-
Mandy si limitò a guardarlo di sottecchi, aggiungendo un pizzico di sale nella padella. –Sarà… ma ti vedo diverso- insistette mentre Mickey prendeva posto a tavola, seguito subito da lei e dal profumo delle uova fritte.
Mickey si servì di una generosa quantità e se le ficcò in bocca senza troppe cerimonie. –Non sono diverso- la contraddisse sputacchiando cibo ovunque. Mandy fece una smorfia schifata, togliendosi un pezzo di uovo che suo fratello le aveva sputato su un braccio. –Forse hai ragione-
 
 
***
 

La notte seguente Mickey non trovò Ian da nessuna parte.
 
Non lo aveva visto neanche nella sala comune prima della cena. Fece il suo solito giro di pulizie gettando occhiate ovunque nella speranza di trovarselo improvvisamente davanti intento a disegnare o a vagabondare per i corridoi, ma nulla. Che avesse avuto un’altra crisi?

Dai compagni di Melissa però, non erano sopraggiunti altri pettegolezzi sui pazienti. La situazione era decisamente tranquilla e sotto controllo.
Mickey comunque, non riusciva a togliersi di dosso uno strano senso di inquietudine e preoccupazione. Ogni sera durante il suo turno, scassasse il mondo, Ian era sempre lì ad aspettarlo… dov’era finito?

Decise che alla fine del suo turno avrebbe dato una sbirciatina alla camera 241 per accertarsi che il ragazzino stesse bene. Si preparò a lavare l’ultimo corridoio del secondo piano e quasi non strillò per lo spavento. In fondo al corridoio c’era una figura scura rannicchiata sul pavimento. Da quella distanza Mickey non riusciva a capire di chi o di cosa si trattasse. Assottigliò gli occhi e brandendo la scopa si avvicinò di qualche passo, cauto. Una volta più vicino, riuscì a distinguere una chioma rossa fuoco.

-Ragazzino…-
Ian era seduto per terra con la schiena poggiata al muro, le gambe strette al petto, lo sguardo vacuo. Mickey si piegò per riuscire a guardarlo in viso.
-Ehi…-

Ian non rispose. Gli occhi erano fissi sulla parete bianca di fronte. Mickey gli scosse gentilmente una spalla, chiamandolo ancora, ma Ian sembrava lontano anni luce e ovunque fosse, Mickey sapeva che non poteva sentirlo.
Avrebbe dovuto chiamare aiuto?
-Ian?-

Nessuna risposta. Mickey si rimise in piedi, teso. Cosa poteva fare? Odiava sentirsi impotente di fronte al silenzio del ragazzino. Forse avrebbe dovuto chiamare qualche infermiere o i vigilanti di pattuglia…?

Si morse le labbra e decise di prendersi un po’ di tempo per pensare. Lo lasciò seduto lì assicurandosi che fosse comodo e prese a pulire l’ultimo corridoio di quel turno, sempre tenendolo d’occhio, sperando si ridestasse da un momento all’altro.

Una volta finito andò a lasciare il carrello e molto velocemente ritornò da Ian, che trovò nella medesima posizione. Si accovacciò al suo fianco e provò a chiamarlo ancora. 
Nulla.

Si passò una mano tra i capelli corvini, non sapendo cosa fare. Il suo turno di lavoro era finito e di certo non poteva lasciare Ian lì. Per qualche ragione l’idea di chiamare aiuto gli faceva dolere lo stomaco dalla paura; non poteva permettere che lo legassero o che gli iniettassero qualcosa.

Una vocina remota nella sua testa però, gli ricordò che i dottori quella volta si erano visti costretti a legarlo, perché Ian aveva preso a farsi del male da solo durante la crisi…
Ma Mickey scosse la testa. No. Non gli importava.

Anche se in quel momento Ian non stesse affrontando nessuna crisi e fosse semplicemente spento, decise che poteva gestire la situazione da solo. Senza altri indugi, stando attento, lo tirò piano per le braccia, scostandolo dalla parete. Poi, non sapeva neanche lui come, con uno slancio e un grugnito se lo tirò addosso, accomodandolo sulla spalla sinistra. Il busto e la testa di Ian ciondolavano morbidamente sulla schiena e le gambe erano tenute strette dalle sue braccia. Con un po’ di fatica e stando attento che nessun vigilante lo vedesse, riportò Ian nella sua stanza, adagiandolo sul letto. Gli rimboccò le coperte come sua madre faceva con lui e Mandy quando erano bambini e con delicatezza, con una mano, gli abbassò le palpebre per consentirgli in qualche modo, magari, di addormentarsi.

Si soffermò a guardare il suo viso lentigginoso, gli pareva che fosse più sereno e tranquillo adesso… e Mickey se ne sentì rincuorato.
-Buonanotte ragazzino-
Prima che uscisse dalla stanza si sentì chiamare.
-Mmm-mickeyy?-
Mickey si voltò immediatamente, gli occhi di Ian lo guardavano confusi.
-Ehi…-
Ian si umettò velocemente le labbra sollevandosi sui gomiti mentre Mickey si riavvicinava al letto.
-Dove sei stato?- gli chiese con la fronte corrugata, una nota di ansia nella voce. Mickey non seppe cosa rispondere. –Ti ho cercato tutta la sera- proseguì lui agitato, -ma non riuscivo a trovarti-
Il moro deglutì. –Ero qui… sono sempre stato qui-

Ian lo guardò continuando a non capire. –Ti ho chiamato! Ti ho cercato nella sala comune, in tutto il secondo piano e tu non c’eri!- lo accusò. –Sono andato anche nella mensa, in cucina e-…-
In quel momento Mickey vide chiaramente gli occhi verdi di Ian allargarsi, mentre lentamente la consapevolezza di quello che era successo in realtà si faceva strada nella sua mente.

Ian richiuse la bocca e distolse lo sguardo sentendosi a disagio. –Io… sc-scusami-
Mickey scosse la testa, sedendosi sul suo letto. –Va tutto bene-
-D-devo essermi perso…- continuò cercando di fare chiarezza tra i suoi pensieri –Io… io credevo di… credevo fosse reale.- disse sconnessamente mentre un brivido lo percorreva tutto.

Mickey si sentì profondamente dispiaciuto per lui. –Ora sei qui, non preoccuparti.- provo a dire, cercando in qualche modo di consolarlo. Ian sollevò i suoi occhi su di lui e lo guardò strano.
-Come faccio a sapere che adesso sei reale?- disse. –Come faccio a sapere che non sei nella mia testa?-
Mickey non sapeva rispondere a quella domanda, restò in silenzio per qualche secondo, sentendo lo sguardo del rosso bruciargli addosso. Poi gli tirò un forte pizzicotto sul braccio e Ian squittì dal dolore.

-Perché l’hai fatto?- chiese tenendosi la parte lesa, risentito.
-Ti ha fatto male?-
Ian annuì e Mickey sorrise. –Bene, se hai provato dolore, allora significa che tutto questo è reale.- spiegò affabile. –Ora cerca di dormire, non pensare più a nulla-
Non appena Mickey si alzò, Ian lo guardò con occhi enormi. –Ci vediamo domani?-
Era la domanda che Ian gli ripeteva ogni notte, prima che Mickey andasse via dal Payer. Era una sorta di tacito accordo, una promessa che Mickey tutte le sere si era ritrovato ad accettare.
Perché aveva bisogno anche lui di tener fede a quella promessa.
-Sì- acconsentì Mickey, facendolo distendere.

-E se non riuscissi a trovarti?- chiese spaventato. –Se mi perdessi di nuovo?-
-Allora ti troverò io.- promise Mickey lasciandogli una breve e fugace carezza sullo zigomo. Ian gli bloccò la mano di scatto e incatenò gli occhi ai suoi, guardandolo con una tale intensità che Mickey si sentì avvampare. C’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui Ian gli stava stringendo la mano, nel modo in cui lo stava guardando, nel modo in cui la sua testa si stava sollevando dal cuscino per potersi avvicinare alla sua…

Seppe solo che dovette fare un passo indietro, per sfuggire a non sapeva bene cosa, e mettere qualche centimetro di distanza fra lui e la pericolosa nuvola di emozioni che aveva preso a vorticare davanti a lui.

Vide Ian fermarsi a metà strada, tra l’allarmato e l’imbarazzato, distogliendo finalmente lo sguardo. Mickey deglutì e si ficcò le mani in tasca, desiderando come non mai di scappare via da lì, lontano.

-Allora a domani- sussurrò. Ian non gli rispose, annuì soltanto senza guardarlo.
 
 
Mentre usciva dal Payer con l’alba che faceva capolino sullo sfondo, Mickey toccò il punto in cui le dita di Ian avevano stretto la sua mano, la pelle quasi bruciava. Pensò al modo in cui si erano guardati, al modo in cui il viso di Ian si era avvicinato pericolosamente al suo.

Che diavolo stava succedendo?

Note dell'Autrice: Devo ammettere che ho avuto un bel po' di difficoltà nella stesura di questo capitolo perché man mano che lo scrivevo continuavo a sentirlo "slegato". Avete avuto anche voi la stessa impressione o sono io che mi sto facendo mille pippe mentali? Comunque stiamo entrando nel vivo della storia e si sta iniziando a smuovere qualcosa... dovevo farlo perché appunto, come avevo detto all'inizio, questa fic non sarà lunghissima, quindi devo far rientrare tutto nei "tempi". Fatemi sapere cosa ne pensate! Un bacione!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3759846