Twins

di CthulhuIsMyMuse
(/viewuser.php?uid=1062654)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontri ***
Capitolo 2: *** Incontri parte 2 ***
Capitolo 3: *** Scelte ***
Capitolo 4: *** Serate tra amici ***
Capitolo 5: *** Momenti ***
Capitolo 6: *** ... ***
Capitolo 7: *** 12 agosto, ore 00.30 ***
Capitolo 8: *** 12 agosto, ore 00.30 - parte 2 ***
Capitolo 9: *** 12 agosto, ore 00.30 - parte 3 ***
Capitolo 10: *** 12 agosto, ore 01.30 ***
Capitolo 11: *** 13 agosto, ore 10.30 ***
Capitolo 12: *** 13 agosto, ore 10.30 - parte 2 ***
Capitolo 13: *** 13 agosto, ore 13.00 ***
Capitolo 14: *** 13 agosto, ore 13.00 - parte 2 ***
Capitolo 15: *** 13 agosto, ore 14.00 ***
Capitolo 16: *** 13 agosto, continua ***
Capitolo 17: *** 14 agosto 00.15 ***
Capitolo 18: *** 12 agosto 2018, ore 13.00 ***
Capitolo 19: *** 14 agosto, ore 17.00 ***
Capitolo 20: *** 14 agosto, continua ***
Capitolo 21: *** 14 agosto, ore 21.00 ***



Capitolo 1
*** Incontri ***


11 agosto, mattina (ore 11.00)
 
Il caldo impregnava completamente l’aria di agosto, cercava di colmare il vuoto lasciato dagli abitanti di Milano che avevano abbandonato la cittadina in cerca di luoghi più accoglienti, ameni e meno roventi o quanto meno affiancati da una lunga battigia battuta dalle onde del mare. 
 
Era accompagnato dall’umidità presente in elevata percentuale. Questa s’insinuava nei pori della pelle sino a saturarli per poi risgorgare e impregnare le vesti o per scorrere in rivoli fino a terra dove sarebbe nuovamente evaporata in un ciclo infinito che sarebbe durato fino alla fine del mese – o almeno così speravano la maggior parte delle persone.

L’afa faceva vibrare sul terreno piccoli miraggi che si allungavano lungo tutta la strada polverosa che, all’interno del parco, conduceva sino al Museo Civico di Storia Naturale verso il quale, Giovanni, era diretto speranzoso di poter trovare conforto sia alle pene corporee – il museo era sempre condizionato – sia alle pene mentali scaturite da un’infelice nottata.

Aveva nuovamente fatto quello strano sogno.

Da che aveva memoria sapeva di averlo sempre sognato. Non aveva una ricorrenza precisa, poteva presentarsi ogni giorno oppure potevano passare mesi prima che si ripresentasse. C’era stato un anno che sembrava non dovesse tornare mai più e invece aveva sognato nuovamente.

Non ne ricordava mai il contenuto, se ci ripensava vedeva solo strascichi di immagini incoerenti che si susseguivano su uno sfondo brullo e desertico.

L’unica cosa certa di quel sogno era il mal di testa che lo seguiva. Prendeva vita a partire dalle tempie, s’insinuava sin nei recessi più profondi della sua materia grigia e la sua eco si perpetrava per almeno un paio di giorni che sembravano senza fine.

Nessun antidolorifico sembrava funzionare ma, aveva con il tempo scoperto che il silenzio riusciva a acquietare quel martellio incessante fino a quasi farlo scomparire.

Per quel motivo si stava dirigendo verso il museo che, nei periodi di ferie, riusciva ad essere più silenzioso di una biblioteca inoltre, avendo visitato il museo un elevato numero di volte, non doveva neanche concentrarsi troppo sul cosa stesse vedendo.

Si fermò all’angolo della costruzione sotto un piccolo raggruppamento di alberi la cui ombra offriva riparo dal sole cocente della mattinata già inoltrata. Guardò la facciata ingrigita dall’inquinamento cittadino, inspirò profondamente – felice dell’assenza del tipico traffico di porta Venezia – e iniziò, mentalmente, a godere della quiete che pareva traboccare direttamente dalle pareti.

Sorrise, soddisfatto, a se stesso e tornò ad avanzare verso gli scaloni che conducono verso l’entrata del museo.

In quel momento, quel suo stesso incedere fu in qualche modo coadiuvato, in modo poco aggraziato, da un colpo – neanche troppo leggero – ricevuto alle spalle.

Poco prima di essere leso nella sua persona sentì, alle sue spalle, una voce secca di donna gridare «Attenta!» ma il suo cervello, al momento stopposo, non riuscì ad installare nessun tipo di comunicazione tra le cellule nervose che si accesero solamente al momento dell’urto.

Il colpo lo fece barcollare in avanti ma ciò che lo fece cadere fu la fitta che si dipanò dal centro della testa fino ai confini del cranio.

Sentì il dolore diffondersi lungo tutti i nervi sostituendo qualsiasi altro input proveniente dall’ambiente esterno, per questo inizialmente non sentì il dolore dei sassolini che si infilavano nelle ginocchia scoperte  mentre cadeva in ginocchio sul posto.

Premette le mani sulle tempie, cercando inutilmente di limitare quel dilagare infinito di dolore ma fu inutile.

Le forze gli vennero meno ma, prima di toccare terra qualcosa lo afferrò da sotto le ascelle. Erano braccia sottili ma la presa era forte e decisa.

Lo trascinarono per pochi metri e lo posarono a terra con delicatezza, qualcosa di solido ma dalla forma non consona era alle sue spalle e lo teneva eretto. Pensò subito all’albero sotto il quale si era fermato pochi istanti prima.

Non sentiva più niente, dagli occhi semi chiusi riusciva ad intravedere due figure che si agitavano sotto l’ombra degli alberi. Voleva dirgli che se si fossero agitate così avrebbero sofferto ancora di più il caldo asfissiante, dovevano rilassarsi come lui, comodamente seduto sotto un albero del parco dei giardini pubblici di Indro Montanelli.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Incontri parte 2 ***


 
Aprì gli occhi a fatica, davanti a se vide un’immagine sfocata e poco definita. Era una forma rosa con dei punti colorati.

Chiuse le palpebre e respirò profondamente dalle narici. Sentì la gabbia toracica aprirsi e l’aria circolare libera nei polmoni.

L’apporto vigoroso di ossigeno ripristinò parte della funzionalità del cervello, un pizzicore pulsava sul fondo della materia grigia, ma molto meno disturbante rispetto a prima.

Aprì pochi millimetri di palpebra per aiutare la pupilla a mettere a fuoco almeno parte di ciò che si trovava davanti. Quando riuscì a focalizzare quelli che sembravano due menti aprì gli occhi un po’ di più e un po’ di più ancora fino a scoprire completamente le iridi castane.

Per un istante si chiese, mentalmente, come mai ci fosse uno specchio posizionato accanto al viso della donna che lo aveva soccorso.
 
Doveva essere uno specchio difettoso perché a un’attenta osservazione si poteva trovare una differenza tra il riflesso e il viso realmente presente ovvero, gli occhi.

Delle quattro pupille, tre avevano lo stesso identico colore. Un azzurro intenso, come quello del cielo terso primaverile.

La stonatura derivava dall’occhio la cui iride era di un profondo color castano che sembrava virare al rosso scuro in alcuni punti probabilmente a causa del gioco di luci e ombre creato dalle fronte dell’albero sotto il quale si trovavano.

Il concentrarsi su quel punto gli provocò una violenta sensazione di nausea che lo costrinse a chiudere nuovamente gli occhi.

«Secondo te sta bene?» una voce leggera fece capolino all’orizzonte. La risposta arrivò poco dopo da una seconda voce a tratti similare alla prima ma non identica. Fu quello a fargli comprendere che non c’erano ne specchi né riflessi ma solo due persone simili ferme proprio davanti a lui.

Riaprì nuovamente gli occhi.

«Non lo so, ma almeno ha riaperto gli occhi».

Erano due ragazze con le fattezze dei volti identiche. Il viso allungato era adornato da occhi grandi con le punte sottili rivolte verso l’alto; il naso era piccolo con la punta diritta e sottile; avevano labbra rosee definite, molto in contrasto con la carnagione chiara. Erano oggettivamente belli da guardare, si fissò soprattutto su quella con gli occhi di colore identico il cui sorriso ampio le illuminava particolarmente il volto.

In quel momento si chiese chi potesse essere, quale fosse il suo nome, se fosse libera, se avesse potuto offrirgli da bere e fare due chiacchiere del resto, come diceva sempre il suo amico Michele, perché farsi sfuggire l’opportunità? La giovinezza è fugace ed è meglio godersela al meglio fino a che si può.

Uno schiocco di dita lo riportò alla realtà dei fatti, accanto agli occhi di ugual colore vide nuovamente gli eterocromi. Fu da quel volto che udì provenire la domanda seguente.

«Ehi, tutto ok?» Era una voce soave ma uniforme, se non fosse stato per l’inflessione interrogativa sul finale, sarebbe potuta provenire da un computer.

«Si, credo di si» rantolò.

«Scusami, non pensavo di averti colpito così forte» l’altra voce era più marcata, di qualche nota più alta e sembrava molto più umana.

«Non ti preoccupare, non stavo già bene in precedenza» volse lo sguardo in quella direzione e incrociò gli occhi color del cielo.

Rimase imbambolato per qualche istante, non se ne era accorto ma il volto che aveva visto era incorniciato da lunghi capelli di un bianco candido, raccolti in un’ampia treccia che cadeva morbida sulla spalla destra.

Nuovamente ne rimase incantato. Si chiese, stupidamente, se non fosse morto ma il caldo era troppo soffocante per poter essere in paradiso. Il problema era che la ragazza sembrava rappresentare l’ideale collettivo di angelo.

Non il severo angelo biblico ma gli angeli del focolare quelli che, nelle storie delle nonne, irradiano amore e gentilezza solo per la loro presenza.

Avvertì un profondo calore e percepì le gote arrossarsi, quasi ringraziò il colpetto di tosse che emise l’altra ragazza e che lo fece voltare.

Era tornata in piedi e aveva fatto un passo indietro. Incorniciandola completamente con lo sguardo aveva compreso che seppur avessero lo stesso viso non erano completamente identiche.

La seconda differenza erano i capelli, questa li aveva neri come la pece e corti. Aveva un taglio sbarazzino e disordinato ma non il disordinato caotico di chi si alza la mattina e si dimentica di pettinarsi. Era un disordinato studiato, di quelli pensati per essere esattamente così.

La terza e palpabile differenza, che era anche quella che lo faceva propendere per l’altra ragazza, era l’espressione. Se la prima era radiosa e trasmetteva gioia, la seconda sembrava volerti trascinare in un profondo buco nero.

Nello sguardo non si leggeva nient’altro che indifferenza e se non fosse stato per l’impostazione del corpo – braccia serrate sotto il seno, gambe leggermente divaricate e il piede destro che tamburellava per terra – dal quale si leggeva una certa indisponenza alla situazione, nessuno sarebbe riuscito a comprendere quale emozione stesse provando in quel momento.

«Se ora stai meglio…» proferì senza particolari inflessioni nella voce ma facendo intendere la sua volontà ad andarsene dal quel posto.

«Oh smettila, come se avessimo fretta» una vocina dolcemente irritata fece nuovamente capolino. La figura candida affiancò l’ombra assumendo una strana posa minacciosa con le mani poggiate sui fianchi e il busto leggermente flesso in avanti.

A sottolineare la sua sicura parentela con gli angeli era il vestitino in raso bianco che le ricadeva perfettamente sulla figura longilinea. La parte sovrastante era aderente al busto fino al punto vita mentre la gonna si apriva comodamente arrivando a sfiorare le ginocchia bianche.

L’altra inarco il sopracciglio destro e la guardò con una punta leggera di perplessità «In effetti l’abbiamo» rispose con calma.

«Non credo che la perderemo per qualche minuto passato qui» rispose l’altra tornando poi a guardare il ragazzo. Nuovamente allargò le labbra in un sorriso, la naturalezza di quel gesto lo fece sorridere a sua volta.

«Ce la fai ad alzarti?» chiese, allungando una mano verso di lui.

Giovanni, come afferrò la mano candida, percepì il calore della pelle, la stretta delle dita era gentile ma sicura e non sembrò fare troppa fatica nell’aiutarlo a sollevarsi indizio che, probabilmente, non era così delicata come sembrava apparire.
«Grazie per avermi aiutato» si spazzolò i vestiti coperti di terra.

«Era il minimo dopo averti atterrato» sorrise nuovamente e gli sembrò che il sole fosse leggermente più brillante «Stavi andando al museo?» domandò.

«Si. E’ un posto tranquillo d’estate, quando ho mal di testa mi piace perderci qualche ora» spiegò pacatamente.

Accanto alla ragazza dai capelli argentei apparve la soprannominata ombra, le porse un grosso capello in paglia con la tesa molto larga che doveva aver perso durante la collisione «Finirai per prenderti un’insolazione. Un soccorso al giorno è più che sufficiente» Giovanni percepì una sfumatura di preoccupazione nel tono della voce.

«Grazie» canticchiò felicemente l’altra calcandosi il cappello sul capo e sistemando bene la tesa mentre la mora riassunse la sua posizione da frettolosa.

Tornò a guardarlo, gli occhi all’ombra avevano assunto una venatura leggermente più scura «Possiamo lasciarti senza problemi o ti senti svenire ancora?»

Lui agitò una mano nell’aria scacciando una mosca bianca «Sto molto meglio ora, andate tranquille. Mi spiace avervi trattenuto» cercò di scusarsi guardando sottecchi la mora lì accanto che sembrò ignorare completamente le sue scuse.

«Non preoccuparti. Allora buona giornata, divertiti al museo.»

«Buona giornata a voi» alzò una mano per salutarle mentre gli voltavano le spalle e prendevano a camminare.

Dopo qualche secondo però si ricordò che non conosceva il loro nome o quantomeno non quello dell’angelo «Aspetta, aspetta un attimo».

Si volsero entrambe, lo sguardo truce della mora lo trapassò come una freccia ma non si fece intimorire. Le raggiunse e si buttò «Non so il tuo nome»

Il sorriso che gli rivolse era dolce come miele «Bel» allungò una mano verso la compagna «e lei è mia sorella Layla» in quello stesso frangente la gemella le afferrò il polso «Muoviti» e la trascinò via.

«Giovanni, mi chiamo Giovanni» le guardò allontanarsi, Bel gli stava facendo un cenno di saluto con la mano libera prima di tornare a seguire obbligatoriamente la sorella.

«Magari possiamo rivederci» mormorò a se stesso ciò che avrebbe voluto dirle prima che venisse trascinata via. «Cavolo…» tirò un leggero calcio al terreno, alzando una piccola nuvola di polvere nell’aria che si sedimentò nei secondi successivi.

Quando vide le forme delle donne sparire all’orizzonte si diresse verso il museo. Una nota di tristezza lo accompagnò fino in tarda serata per non essere riuscito a strapparle almeno un altro incontro.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Scelte ***


11 agosto, pomeriggio (ore 15.00) 

Aveva camminato per svariate ore, girando metà della città di Milano, prima di decidere di varcare la soglia di un piccolo bar di fronte a Piazza Diaz per cercare di rilassarsi davanti ad una bevanda rinfrescante. 

Le sembrava di averle scorte, al parco Indro Montanelli. Erano indaffarate probabilmente a soccorre qualcuno, non l’avevano vista e prima che potessero farlo aveva cambiato strada cercando un posto dove potersi nascondere. Era arrivata fino in centro citta, ora gremita di turisti stranieri e davanti al Duomo aveva deciso di voltare in una stradina secondaria che l’aveva condotta sino a lì. 

Ora, davanti ad una centrifuga di frutta che la commessa le aveva venduto come energizzante, stava ripensando a loro. 

La loro apparenza coincideva con la descrizione che le aveva fatto il ragazzo, diverse notti precedenti. 

Due gemelle, una con capelli corti e neri come la pece e l’altra con capelli lunghi e argentei. 

Era difficile poterle confondere con qualsiasi altra persona esistente al mondo e, in ogni caso, non aveva voluto rischiare. 

Non l’avevano vista, erano troppo indaffarate ma, per qualche strano motivo si sentiva inquieta. 

Era la stessa sensazione che aveva provato quando si era svegliata in quel vicolo e aveva visto i due ragazzi davanti a lei. Gli stessi che l’avevano avvertita del pericolo che stava correndo. 

«Ti stanno cercando, vogliono farti del male. Ucciderti.» aveva sibilato il moro 

Non aveva voluto crederci, del resto lei era innocente. Nonostante le mani sporche di sangue e i vestiti impregnati di morte lei sapeva di essere innocente. Non aveva fatto nulla di male. Glielo aveva urlato in faccia sputando tutto l’odio che covava dentro contro quegli sconosciuti. 

Innocente. Sono innocente. Nessuno di voi sa niente di me. Non potete giudicarmi. Nessuno può farlo, solo Dio. 

Il ragazzo biondo rise, era una risata cristallina che, in qualsiasi altra circostanza avrebbe rallegrato tutti i presenti, invece lei si sentì lentamente morire. Le entrò sin nelle viscere e le fece contorcere. Un conato di vomito risalì dallo stomaco e si trasformò in un getto di cibo che aveva già perso la forma originale. 

«Non lo hai ancora capito? Sei già stata giudicata e la sentenza è stata emessa. Loro sono la tua sentenza.» la guardava divertito mentre lei espelleva l’ultimo sputo disgustoso. Si pulì la bocca con il retro della mano e si dipinse le labbra di rosso purpureo.  

L’odore del sangue le inondò le narici e le causò un secondo conato. L’acidità le impregnò la bocca ma non riuscì a rigettare nient’altro.  

Sentiva lo stomaco contratto e trafitto da migliaia di piccoli aghi, agli angoli degli occhi le lacrime pungevano per uscire. Le trattenne a stento. 

Il biondo rise ancora e il moro fece una smorfia di disgusto «Noi ti abbiamo avvisata, poi fai come preferisci» 

«Perché me lo dite?» domandò con uno stremato filo di voce. 

«Perché tra compagni ci si aiuta sempre» rispose sarcastico prima di andarsene insieme al suo compagno. 

Non ci aveva creduto, era stata ferma nella sua convinzione fino a che non le aveva viste. In quel momento la sua fede vacillò. Il castello di cristallo che mentalmente si era costruita aveva iniziato ad incrinarsi. Piccole crepe avevano intaccato le fondamenta mentre una vocina dentro di lei le diceva che doveva scappare e nascondersi. 

E così avrebbe fatto.  

Alzò gli occhi dalla bevanda dal colore arancione e posò il mento sopra le dita intrecciate delle mani. 

Poteva prendere in considerazione l’idea di parlare con le due donne ma voleva fidarsi della sua voce interiore.  

Quella voce nuova che le sibilava nella testa da quando aveva avuto quell’incidente. Doveva fidarsi delle sue intuizioni perché se non si fidava di se stessa, di chi altro poteva farlo? 

Ma era davvero una sua intuizione? 

Non aveva tempo da perdere pensandoci su, doveva agire. 

Finì la sua bevanda e abbandonò il bar.  
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Serate tra amici ***


11 agosto, ore 20.00 

Nel buio creato dalle palpebre chiuse, riviveva la scena cui aveva partecipato durante la mattinata. 

Rianalizzava ogni momento, lentamente, nella memoria cercando di carpire più dettagli possibili da quelle immagini che, nonostante lo sforzo, si facevano più labili e imprecise a ogni singolo istante. 

Sbuffò sonoramente e allungò le braccia oltre la testa che già ciondolava dal bracciolo della poltrona. Nello stesso istante qualcuno gli lanciò un cuscino che lo colpì secco allo stomaco. Non gli fece male ma lo costrinse a riportare l’attenzione alla realtà corrente. 

«Se sei venuto per dormire potevi stare anche a casa tua.» Michele rise. Era seduto per terra con in mano il joystick della playstation, sul televisore a schermo piatto erano immobilizzati dei mostri, su uno sfondo desertico, che attendevano la ripresa della partita per poter scagliare la loro palla di fuoco contro un non ben precisato nemico. 

«Non puoi capire» mugugnò Giovanni tornando a sedersi sulla poltrona. Un leggero battito pulsò sul fondo della sua scatola cranica. Il dolore alla testa si era assopito ma, ogni tanto, minacciava di tornare a farsi sentire. 

«Capisco perfettamente invece. Hai perso l’occasione di fartela con una gnocca stratosferica e ora sei  a tirarti delle pippe “mentali”» alzò la mano libera e su “mentali” mimò le virgolette sottintendendo un atto più fisico che mentale «unica cosa che ti è rimasta» scoppiò a ridere mentre Giovanni gli tirava il cuscino che gli era giunto poco prima, ridendo a sua volta. 

Michele era suo amico dalle superiori, era sempre stato un ragazzo molto esuberante ed era la cosa che preferiva di lui. Anche se spesso tendeva ad esagerare, non riusciva mai a capire quando poteva scherzare e quando era invece il momento di accantonare l’ironia e far spazio alla serietà. 

«Sei proprio stupido Michele» La voce di Stefania proveniva dalla piccola cucina presente accanto alla sala. La sua figura apparì sulla soglia della porta pochi istanti dopo.  

Tra le mani reggeva una fetta di pizza alla quale mancava parte della punta. Il movimento delle mandibole chiarì ad entrambi la fine che aveva fatto. 

La guardarono ferma sulla soglia dove la luce alle sue spalle metteva in risalto il fisico androgino. Osservandola di spalle, con un paio di jeans e una magliettina, si faceva fatica a capire se fosse una giovane donna oppure un ragazzino in crescita. 

Solo i capelli lunghi riuscivano ad instillare il dubbio in chi la guardava.  

Spense la luce e tornò verso l’ampio divano blu, posto alle spalle di Michele «Non riesci a evitare riferimenti sessuali? Sei così fissato» sospirò e si sedette, con le gambe incrociate, sulla seduta in stoffa 

I capelli castani, sciolti, le incorniciavano il volto i cui tratti delicati e ben definiti lo rendevano piacevole da guardare, soprattutto quando sorrideva. 

«Siamo uomini, ogni cosa per noi è un riferimento al sesso» Michele sbloccò il gioco facendo spallucce e riprese la partita. Il rumore degli spari tornò a rimbombare tra le mura dell’appartamento che lo stesso Michele condivideva con altri due ragazzi che erano al momento a godersi le bene amate vacanze estive. 

«Allora, come farai a ritrovare il tuo angelo?» domandò Stefania lasciandosi scappare un pizzico d’ironia nel tono di voce. 

Michele e Stefania, seppure la ragazza da meno tempo, erano i suoi migliori amici e tendeva a raccontare ad entrambi tutto quello che di importante gli accadeva nella giornata. Ovviamente le risposte erano prettamente differenti 

Michele era molto più sbrigativo nel dare consigli, era un uomo più da o bianco e nero mentre Stefania riusciva a percepire anche le piccole sfumature delle cose, dimostrando un’accennata sensibilità verso ciò che la circondava. 

Giovanni abbandonò il volto nel palmo delle mani, tra le dita aperte poteva vedere i suoi piedi scalzi poggiati sul pavimento dalle cui piastrelle permeava un leggero tepore. 

Si rialzò, lentamente, poggiando il capo sullo schienale «Non la ritroverò mai. Milano è enorme. Inoltre non sembravano di qui, magari non si fermano…» guardò con occhi tristi la sua amica che si stava gustando la pizza. 

«Ne troverai un’altra» gracchiò Michele facendo seguire un’imprecazione per un colpo mancato. 

«No, impossibile. Non credo che possa esistere qualcun’altra…come lei» la frase gli sfuggì in un sussurro trasognato a cui seguì un rantolo di voce sbiascicato. 

«Certo Certo, nessuna mai. Fatti prete allora» ridacchio il suo amico senza distogliere lo sguardo del dalle immagini di gioco che continuavano a sfilare nello schermo del televisore. La fluidità con cui riusciva a muoversi all’interno delle videate e la precisione con cui colpiva i suoi nemici lasciava sempre le persone di stucco.  

Giovanni stesso si era ritrovato più volte a invidiarlo per questa sua capacità che, in parte, derivava da un’assidua frequentazione degli ambienti di gioco a scapito invece della vita reale – tra cui anche quella universitaria. 

«Padre Giovanni, non suona neanche tanto male» fece eco lui stesso mentre si accasciava lateralmente sulla morbida seduta. 

«Siete due imbecilli» esclamò Stefania libera ormai del fardello del cibo «Dovresti provare a tornare sul luogo del misfatto, magari ti sta aspettando» 

Giovanni sospirò e si lasciò cadere nuovamente verso il bracciolo, sul quale poggiò la testa «Potrebbe essere un’idea» i rumori della casa tornarono a decorare lo sfondo della sua mente mentre si perdeva nuovamente all’interno dei suoi pensieri. 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Momenti ***


11 agosto, ore 22.00 

La casa era immersa nel buio, le tapparelle chiuse non facevano filtrare neanche la luce soffusa dei lampioni esterni che rischiaravano gli ampi marciapiedi ancora percorsi dai pochi milanesi superstiti della stagione estiva. 

L’assenza di colore si disperdeva in tutte le stanze del piccolo appartamento e in alcuni punti sembrava aver completamente inghiottito l’arredamento che a malapena si riusciva a distinguere dallo sfondo tenebroso. 

L’oscurità sembrava aver inghiottito anche i rumori, l’unico superstite era il timido scricchiolio delle assi di legno del tetto simile a quello delle ossa artritiche di un’azienda signora. A volte, la proprietaria della casa pensava fosse qualche vecchio fantasma che ancora girava per le stanze, soprattutto durante i periodi notturni. 

L’unica parvenza di vera vita appariva fievole dalla porta della sala lasciata appena socchiusa.  

All’interno della stanza il buio era stato sconfitto da una piccola lucina gialla che aleggiava a mezz’aria. La luce allungava orribili ombre scure sulle pareti della stanza che sembravano appartenere a tozzi mostri di un’oscura dimensione invece che a vecchi pezzi di arredamento in legno. 

Al minimo movimento della fonte luminosa le ombre facevano piccoli scatti a destra o a sinistra, come se il suo proprietario cercasse di cogliere in un’imboscata la sua presa. 

Dentro quella stessa stanza, ignare delle ombre danzanti che le circondavano, sedevano le due gemelle. 

La bruna aveva occupato una sedia che aveva avvicinato alla porta, mentre la bionda aveva educatamente occupato il vecchio divano in stoffa, posando ordinatamente il suo capello accanto a lei. 

Fu lei la prima a parlare, la voce soave sembrò quasi placare la danza dei finti mostri che le circondavano «Era lui? Il ragazzo di stamattina dico, era quello che avevi sognato?» 

La sorella sbuffò «Sembrerebbe» aveva la testa poggiata sul muro alle sue spalle con le gambe incrociate sulla seduta e le mani chiuse attorno alle caviglie. Piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte bianca.  

«Non ne sei sicura?» domandò nuovamente. 

«Come faccio a esserne sicura…Non è un sogno così chiaro» esclamò leggermente scocciata l’altra corrugando al fronte. Una gocciolina scivolò lungo il profilo del volto e la asciugò con il dorso della mano «Che caldo che fa qui dentro, non possiamo aprire minimamente la finestra?» 

«Non entrerebbe che altro caldo» borbottò la bionda «Comunque se non ne vuoi parlare non sei obbligata a farlo» incrociò le braccia sotto il seno e volse il volto di pochi gradi dalla parte opposta rispetto alla posizione della sorella. 

Layla riconobbe quel suo modo di fingersi offesa e alzò gli occhi verso il soffitto sul quale danzavano lente le ombre scure. 

«Non è che non ne voglio parlare ma non so che dirti. Sì, poteva essere lui ma poteva solo essere qualcuno che gli somigliava. Il sogno non è chiaro, riesco a distinguere bene solo il paesaggio» Lasciò cadere a terra i piedi che emisero un leggero tonfo a contatto il pavimento. 

Bel tornò a guardare la sorella, aveva la bocca tesa perfettamente in orizzontale che le conferiva un’aria buffa. «Fai piano, non vorrai che venga qualcuno a controllare» La rimproverò. 

Layla sventolò una mano nell’aria «No, no, tranquilla» il sudore le imperlava la pelle che riluceva leggera alla luce 

Sbuffò. 

Si erano intrufolate in quell’appartamento da circa un’ora e della proprietaria non si era neanche vista l’ombra per il momento e Layla iniziava ad essere infastidita dalla situazione, più che altro dal caldo che le si era appiccicato sulla pelle senza alcun tipo di ritegno. 

Si chiedeva, dopo tanti anni, come facesse sua sorella a non mostrare nessun tipo di sofferenza, o forse davvero non pativa quelle temperature elevate, come lei.  

«Non ce la faccio più, fa troppo caldo» mormorò dando voce ai suoi pensieri. 

«Tu ti focalizzi troppo, cerca di pensare a qualcosa d’altro» rispose la sorella sfoggiando un sorriso compiacente. 

«Tipo? Tu a cosa pensi?»  

«Io sto pensando a chi potrebbe essere quel ragazzo. Come si chiamava?» rimase qualche istante in silenzio. Come sempre, quando pensava, si mordeva il labbro inferiore che le conferiva un’espressione dolcemente imbronciata simile a quella dei bambini. 

«Giovanni» esclamò sorridendo soddisfatta.  

«Era così importante il nome?» domandò l’altra. 

«Certo, identificano le persone, soprattutto quelle importanti per noi. Sia nel bene che nel male». La gemella bruna storse un angolo della bocca, la bionda afferrò subito il filo dei suoi pensieri «Ancora non sappiamo chi sia per noi ma in qualche modo siamo legati. O almeno è legato a te»  

«Forse...» si apprestò subito ad aggiungere l’altra. 

«Non dovresti essere sempre così restia a intessere delle relazioni, sorella» la rimproverò Bel incrociando le braccia appena sotto il petto. 

«E tu non dovresti essere così propensa ad allacciare rapporti con qualsiasi persona ti capiti davanti» rimbrottò l’altra guardandola sottecchi. 

«Non cerco di fare amicizia con tutti» piagnucolò Bel corrugando la fronte bianca e inarcando gli angoli delle labbra verso il mento.  

Layla si chiese come potesse, in alcune espressioni, assomigliare ancora alla bambina che era un tempo.  

E di tempo ne era passato davvero molto. Si domandò, mentalmente, se anche lei fosse riuscita a conservare parte della sua natura infantile o se l’avesse persa nei secoli trascorsi.  

Grugnì qualcosa mentre si passava la mano sinistra sull’occhio, il sudore le si intrappolò tra le dita sottili. «Non importa» sospirò mentre posava il tallone sinistro sulla sedia e adagiava la stessa guancia sul ginocchio ora alto. 

Bel la guardò, l’offesa scivolò lentamente via dal suo volto lasciando spazio a una nota leggera di tristezza. Layla parlò prima che potesse farlo la gemella, come se avesse compreso la causa della sua espressione «Sei espansiva, lo so. Non devi scusarti» esalò un altro flebile sospiro «Sono io che non sopporto il genere umano». 

«Dovresti rilassarti, non sono poi così male alla fine. Forse un po’ impacciati all’inizio, ma nel complesso sono simpatici» sorrise e si strinse nelle spalle magre già conscia della risposta dell’altra. Erano secoli che andavano avanti e non era mai riuscita a cambiare il suo punto di vista.  

Si chiese molte volte cosa la portasse ad essere così intransigente verso le persone, forse parte di quel sentimento derivava dalla sua condizione, ma parte era presente nella sua caratterizzazione di base.  

Ricordava chiaramente le innumerevoli disquisizioni, da ragazze, sul dover uscire con altre persone che non fossero loro stesse o sul doversi fermare ad aiutare una persona che non rientrava neanche nell’ambito delle loro conoscenze. 

E tutt’ora era lo stesso. La vide, prima di iniziare a parlare, socchiudere gli occhi con aria di sufficienza e storcere le labbra in una smorfia che rasentava chiaramente il disgusto e le sfuggì una risata argentina. 

Layla si bloccò e sbarrò gli occhi con un leggero modo di incredulità «Perché ridi?» le domandò perplessa. 

Bel agitò una mano nell’aria e cercò di soffocare l’ilarità tra le dita dell’altra mano posate sopra la bocca «Non sei cambiata per niente». 

Qualcosa di molto simile a un peso scivolò dal cuore della bruna e lasciò che un accenno di sorriso furbetto le inarcasse le labbra «Neanche tu». 

Il rumore di una chiave che girava nella toppa della porta le sviò dai loro discorsi.  

NDA: -- Causa problemi personali dovrò saltare, spero, solo la prossima settimana per la pubbicazione del capitolo. Mi scuso anticipatamente.--

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** ... ***


 

I cardini della porta d’ingresso cigolarono mentre veniva aperta, era un rumore a cui si era abituata da molto tempo. Le avevano suggerito più volte di farli oliare ma, dopo aver ringraziato per il suggerimento, non aveva mai portato a termine il compito. 

In cuor suo apprezzava quel rumore perché in qualche modo sapeva che ogni qual volta la porta si fosse aperta lei lo avrebbe saputo. 

Accese la luce del corridoio e richiuse l’uscio alle sue spalle. Alzò il collo verso il soffitto e lasciò scrocchiare un paio di vertebre mentre si massaggiava la spalla destra.  

Era stanca. 

Era una situazione che si protraeva ormai da tempo, sentiva una stanchezza interiore che non sembrava riuscire a recuperare neanche dopo lunghe ore di sonno e che le aveva lasciato profonde occhiaie a circondarle gli occhi e un generale indolenzimento della muscolatura e delle ossa.  

Fece girare il capo mentre lasciava scivolare la mano oltre le vertebre cervicali e poi riportò lo sguardo lungo il corridoio.  

Osservò la porticina sul fondo che dava al piccolo ripostiglio. Era chiusa, come sempre. 

Era un vizio che aveva preso subito da quando era entrata in quell’appartamento, guardare in fondo al corridoio per vedere se la porta era stata aperta. Come se un intruso pensasse per prima cosa a guardare nel ripostiglio. 

Ma vederla chiusa la rincuorava, ed era quello che contava. 

Fece un ultimo sforzo, ed entrò nella piccola cucina che si affacciava proprio di fianco all’entrata. 

Aprì il frigo e prese una birra, sentì il fresco del vetro passare attraverso la pelle e corroborarle le membra. Lasciò che un sorriso se sfuggisse sulle labbra. Oltre alla stanchezza, il caldo le si appiccicava addosso come pellicola trasparente. Era una sensazione quasi più insopportabile della spossatezza. 

Aprì la bottiglia e ne rubò un sorso, il liquido fresco discese lungo il tubo digerente disperdendo la sua frescura verso gli altri organi. Aveva sempre apprezzato una buona birra fresca nei momenti di calura più intensa, un singolo sorso riusciva ad essere più soddisfacente di tutta l’acqua del mondo. 

La donna lasciò la cucina e si diresse verso il corridoio. A metà di questo si fermò nuovamente a contemplare quella porticina lontana, ad un tratto si domandò come mai fosse chiusa. In qualche modo le sembrava impossibile. 

Scosse il capo. Era tutto a posto, non c’era niente che non andava. Avrebbe riposato un paio d’ore, poi avrebbe preparato i bagagli e se ne sarebbe andata da lì per un po’. 

Accese le luci e poi aprì la porta della sala, l’uscio si aprì silenziosamente e la donna lo varcò. 

Face due singoli passi in avanti, al terzo percepì un lungo brivido partire dal collo e dilungarsi fino alla base della colonna vertebrale. Fu come se una scarica elettrica gli trapassasse tutte le vertebre dorsali fino ad arrivare al coccige. La sentì diffondersi lungo tutte le nervature increspandole la cute e rizzandole ogni singolo pelo presente sulla sua superficie corporea. 

Nello stesso istante la porta si richiuse alle sue spalle con un leggero “clac”. 

«Finalmente sei tornata» esordì una voce alle sue spalle che la donna non si aspettava sicuramente di sentire. «Iniziavo a non sopportare più questa sauna gratuita». 

Una risata argentina sgorgò dalla sua sinistra. Non riuscì a volgere la testa ma scorse la figura volgendo gli occhi in quella direzione e non rimase di stucco quando vide i lunghi capelli argentei brillare sotto le luci artificiali della sala.  

«Devi scusare mia sorella, ha un limite di sopportazione molto basso» nuovamente rise. Alla donna ricordò la risata innocente di un bambino. 

Un rivolino di sudore le scivolò via dalla tempia e descrisse la linea del collo con precisione impeccabile «Chi siete?» domandò con un tremolio nella voce che faticò a nascondere. 

La risposta proveniva dalla stessa fonte che aveva perso l'ilarità iniziale ma non la cordialità «Vuoi sapere i nostri nomi o cosa ci facciamo qui?»  

Strinse la mano sul collo della bottiglia. Il rumore del vetro che si incrinava le giunse alle orecchie, ma doveva essere solo un'impressione perché non poteva avere la forza per incrinare il vetro. A volte faceva fatica anche a strappare il cartone, soprattutto se era molto spesso, rompere il vetro con la sola forza della mani era impossibile.  

Tra i denti serrati e le labbra tese le scappò una risatina isterica. 

Alle sue spalle la gemella con i capelli più scuri aveva inarcato un sopracciglio mentre l'altra aveva socchiuso gli occhi e abbozzato un leggero "no" con la testa.  

Rise. Usa risata strozzata e nervosa lasciò le sue labbra tese in un ghigno. «No, no» mugugno facendo perplimere entrambe le sorelle per un istante «Io lo so, lo so già...». 

Bel fece un passo in avanti, leggero, ma seppur impercepibile fece scattare la testa della donna nella sua direzione. Alzò di scatto anche un braccio tremante il cui indice era rivolto verso la ragazza. Inosservata essendo alle spalle della scena, aveva mosso un passo anche Layla. 

Bel alzò le mani e mostrò i palmi alla donna sorridendo dolcemente «Cosa sai?» domandò. La voce calda risuonò dolcemente nelle orecchie della sua interlocutrice che, quasi inconsciamente, abbassò il dito accusatore. «Cosa siete qui a fare...» il tono della voce aveva assunto una nota più acuta. 

«E, dimmi, quale dovrebbe essere il nostro compito?» Bel la assecondò nuovamente. Non voleva spaventarla almeno non di più di quanto qualcun altro avesse già fatto. Piegò un poco il volto e socchiuse gli occhi, cercando l'espressione più accomodante e dolce che conoscesse. 

La donna sembrò abbassare un po' di più la guardia anche se si poteva percepire chiaramente la paura che la soggiogava, si era diffusa per la stanza come un odore aspro. 

La guardava con occhi spalancati e lucidi, le pupille erano completamente dilatate e avevano nascosto quasi completamente l'iride. Le guance, tese, vibravano al ritmo dei denti che si sfregavano.  La pelle del volto aveva perso una tonalità di colore.  

Aprì e chiuse i pugni un elevato numero di volte prima di riuscire ad aprire nuovamente la bocca. Ciò che ne uscì fu un sibilo nel quale fu difficile distinguere le parole. «Volete uccidermi...» 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 12 agosto, ore 00.30 ***


12 agosto, ore 00.30 

Non era stato solo il ripresentarsi improvviso del mal testa a farlo protendere per il ritorno a casa. Sin da quando aveva ricevuto l'invito da Michele non aveva neanche preso in considerazione la possibilità di fermarsi a dormire perché di solito, quel "dormire", rimaneva un concetto pressoché astratto. 

Aveva quindi salutato tutti i presenti e aveva preso la metropolitana che l'aveva lasciato alla fermata di loreto per i soliti problemi riscontrati sulla linea. 

Nonostante l'orario e le temperature elevate con lui uscirono dalla carrozza almeno un'altra ventina di persone che si dispersero velocemente tra le vie della periferia della città. 

Giovanni si fermò al termine della scalinata che si affaccia sul marciapiede, sbuffò e il suo alito di disperse nell'aria calda di agosto. 

Le strade erano semideserte, alla luce dei lampioni si potevano distinguere le sagome dei clochard accasciate lungo le paratie chiuse dei negozi. Qualcuno dormiva sognando la possibilità di vivere degnamente mentre qualcun'atro era stato abbastanza fortunato da racimolare qualche spicciolo che l'aveva aiutato a rallegrare la serata con qualche birra.  

Questo era abbastanza da permettergli di sorridere momentaneamente alla vita, almeno per una singola sera. A volte, bastava davvero poco per essere felici. 

Il McDonald era ancora aperto anche se con un esiguo numero di clienti, ma l'aria condizionata rendeva meno ostico il turno per i poveri commessi che avevano dovuto rimandare le ferie di qualche mese. 

Giovanni infilò le mani nelle tasche dei pantaloni sgualciti e si apprestò a incamminarsi verso casa con un flemmatico passo rappresentativo della sua emotività del momento. 

Si sentiva svogliato e poco propenso ad interagire attivamente con la sua vita.  

L'impossibilità di non rivedere più la ragazza che aveva incontrato quella mattina lo infastidiva più di quello che aveva dato a vedere ai suoi amici. Il pensiero continuava a tornare in modo incessante al momento in cui l'aveva vista andar via e al fatto che non era riuscito a fare nulla di più che urlare il suo nome. 

Quel vortice di pensieri scatenava un'attività celerale ripetitiva che portava il suo problema principale, il mal di testa, a ripresentarsi con insistenza. 

Diede un calcio all'asfalto, la suola della scarpa sfregò sul terreno producendo un soffuso fruscio.  

Si sentì in qualche modo frustrato. Come poteva un incontro casuale e momentaneo segnarlo così tanto? Si sentiva un adolescente con gli ormoni completamente in subbuglio, eppure aveva oltrepassato l'età della pubertà da diverso tempo. 

Scosse il capo, cercando di allontanare quei pensieri che gli intasavano la testa, doveva iniziare a considerare quell'incontro come "non importante". Non era essenziale per la sua vita, era stato un evento casuale senza alcuna rilevanza. 

Accelerò il passo incassando il capo tra le spalle ingobbite, percepii una certa tensione irrigidirgli la muscolatura del collo «Non è importante, non è importante» scandì, con tono di voce cupo, a sé stesso. L'avrebbe dimenticata, ci avrebbe messo magari qualche giorno ma di sicuro avrebbe archiviato quel ricordo nel cassetto dei momenti poco importanti della sua vita.  

Accennò un sorriso tirato, sentì la pelle delle labbra tendersi leggermente e poi tirare quando le deformò con una smorfia di dolorePer un istante credette di essere stato colpito da un fulmine scagliato dallo stesso Dio verso di lui come castigo per gli stupidi pensieri da cui si stava facendo assillare. 

Si piegò su se stesso e premette le mani sulle tempie cercando di arginare il dolore. Qualche passante lo guardò stranito, lo additò di nascosto ma non si fermò né ad aiutarlo né a chiedergli se avesse avuto qualche problema. 

Giovanni attese qualche istante e poi si risollevò, aveva gli occhi stretti in due piccole fessure, la pelle della fronte era corrugata e imperlata di sudore. Qualche gocciolina tentò di scivolargli lungo le rughe ma lui le fermò con il palmo della mano prima che potessero raggiungere il volto. 

«Che palle…» mugugnò tra i denti «Devo sbrigar…» una nuova fitta si diffuse lungo le terminazioni nervose e intasò il flusso delle comunicazioni tra le cellule. Il cuore sembrò rallentare e perdere un battito. Il respiro gli si mozzò nel petto. Serrò i denti con forza e un clangore secco gli echeggiò nelle orecchie. 

Nel silenzio innaturale che seguì udì un pensiero che fu sicuro non far parte dei suoi: 

“E’ vicina” 

Si rialzò a fatica, sentiva i muscoli del corpo vibrare mentre tentava di riassumere una posizione eretta. Fu come se migliaia di spilli elettrificati gli venissero conficcati nelle fibre muscolari vanificando ogni tentativo di comunicazione delle cellule tra di loro. 

«Ma cosa diamine…» 

Nuovamente quel pensiero non suo gli attraversò la mente: 

E’ qui, è vicina” 

Il flash di un’immagine gli riempì gli occhi: dall’alto di un cielo sconosciuto vedeva estendersi sotto di sé un deserto che sembrava infinitoSulla superficie riverberavano i raggi del sole cocente creando delle increspature simile alle onde del mare, tra le quali spiccavano piccole sagome nere che sembravano annegare nell’immensità di quel terribile posto. 

Tra quelle ombre una sembrava primeggiare tra tutte 

Si fiondò, in picchiata, verso quel piccolo punto nero che diventò sempre più grande e definito.  

Una donna, circondata da lunghi capelli amaranto, che si muovevano sinuosi come serpenti sfiorando la pelle bianca che brillava sotto i raggi del soleera in piedi e guardava verso l’alto con aria di sfida. Aveva occhi rossi come il sangue intarsiati da venature più scure, come se si fosse a tratti raggrumato, e un ghigno irriverente che le tagliava il volto da parte a parte. 

Si stava fiondando verso di lei ad una velocità elevata ma, prima di schiantarsi, si sentì trascinare fuori da quel sogno ad occhi aperti.  

Fu come se qualcuno l’avesse preso per il colletto e estratto da una pozza d’acqua nella quale stava annegando. Il sudore che copioso sgorgava dai pori della pelle ne accentuò la sensazione. 

Aveva il respiro affannoso e sentiva il cuore rimbombargli nella testa. Faticava a reggersi in piedi, faticava anche solo a dover formulare l’idea di un pensiero ma questo non impedì al suo corpo di riprendersi a muoversi contro la sua volontà. 

Con difficoltà ritornò a camminare seppur con passo claudicante, fece qualche metro e automaticamente voltò a sinistra in una via che non riuscì a recuperare in nessuno dei suoi ricordi. Cercò di fermarsi ma nuovamente qualcuno sembrò parlargli: 

Dobbiamo andare, è vicina” 

Arrancava in una direzione non meglio nota, l’unica cosa che gli fu chiara è che stava seguendo quel pensiero non suo cercando, nei vicoli di quella zona l’immagine, di quella donna che qualcuno o qualcosa gli aveva proiettato nella testa. 




---
Scusate ma non so più che titoli inserire per i singoli capitoli.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 12 agosto, ore 00.30 - parte 2 ***


Non sapeva da quanto tempo stava girovagando per quei vicoli bui, potevano essere ore ma anche solo pochi istanti. 

La stanchezza e il dolore alla testa non gli permettevano di ragionare coerentemente inoltre, quando cercava di ribellarsi a quella forza esterna che lo costringeva a muoversi tornava immediato ad insediarsi tra le pieghe della sua materia grigia quel pensiero estraneo che gli scombinava tutte le idee che, in qualche modo, era riuscito a rimettere in ordine. 

La frustrazione del non poter fare niente iniziava a farlo infervorare seppur cercasse di non farsi sovrastare da quell’emozione per paura di perdere totalmente il controllo della situazione. 

Fu improvviso e non atteso lo schianto che udì in quella situazione già particolarmente confusa, gli ricordò immediatamente il rombo di un tuono che si presentava non invitato durante una tiepida giornata primaverile con il cielo completamente terso. Fu talmente intenso da fargli perdere per un istante l’orientamento mentale che si era riuscito a creare. 

Ne seguì un tonfo più leggero contornato da qualcosa molto simile ai calcinacci che si frantumavano. A contornare il tutto una specie di gorgoglio soffuso, come se qualcuno cercasse di eseguire i gargarismi senza farsi udire. 

Cercò, girando su se stesso la fonte di quel rumore ma non trovò null’altro che ombra intorno a se. La notte sembrava essersi appesantita e gravava ora minacciosa su di lui e su tutto quello che lo circondava. 

Aveva inghiottito la luce delle stelle e della luna ma ciò che rendeva il tutto più spaventoso è che era riuscita ad oscurare la luce perenne dei lampioni della metropoli, famosi per essere riusciti a subissare la luce degli astri eterni del cielo. 

Una fitta gli trafisse il cervello e la voce si palesò nuovamente nelle sue orecchie, riecheggiando infinitamente: 

E’ qui, è lei, l’abbiamo trovata… 

Giovanni cadde in ginocchio, premette le mani sulle orecchie e conficcò con foga le unghie nel cuoio capelluto cercando, in quel leggero dolore, una via di fuga al continuo tormento che gli infliggeva quell'insistente richiamo. Fu tutto inutile. 

L’ultima cosa che riuscì a vedere fu il fluttuare dell’oscurità davanti a lui che si aprì come il sipario di un teatroDall'apertura che si era creata riuscirono a fare capolino timidi punti di luce che riuscirono ad illuminare in modo soffuso una figura. 

Giovanni non riuscì a metterla a fuoco ma il vederla, seppur sfocata, gli fece provare un moto improvviso di disperazione. Una paura profonda e primordiale fece capolino e si miscelò al caotico groviglio di sensazioni che gli imperversava nel corpo. 

Sopraffatto si lasciò trascinare nell’oscurità che si era infiltrata tra le pieghe della sua mente e si lasciò avvolgere da questa. Per un breve istante provò un certo piacere nel percepire che tutti i suoi sensi si stavano affievolendo facendo ammutolire qualsiasi tipo di sensazione provata. 

Svenne supino, quasi sorridendo, lasciando stupita l’attrice appena entrata in scena. 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 12 agosto, ore 00.30 - parte 3 ***



 
Era particolarmente irritata dalla situazione, soprattutto perché le era toccato saltare dal sesto piano di un palazzo e ora si trovava a dover inseguire una semi posseduta, nella calura estiva, con i capelli pieni di frammenti di vetro.

Doveva ringraziare la veloce rigenerazione delle ferite se non si ritrovava anche ricoperta di fastidiosissimi tagli sulla pelle.

L’unica nota positiva era la notte che regnava incontrastata per tutta la città e che le permetteva di usare i poteri della sua ospite senza troppa fatica.

Avrebbe trovato la fuggiasca in qualsiasi anfratto avesse deciso di nascondersi e di sicuro le avrebbe fatto pagare quel salto estremo, o quanto meno avrebbe fatto pagare il conto al demone.

Fermò l’incedere e prese un profondo respiro, Bel non era ancora arrivata ma del resto aveva dovuto prendere l’ascensore a meno che non avesse deciso di mettere fine alla sua vita schiantandosi al suolo.

Abbassò lo sguardo verso il terreno cercando l’ombra che dai suoi piedi si allungava esattamente davanti a sé.

Se una seconda persona avesse visto la scena l’avrebbe trovata bizzarra perché le luci posizionate sopra la testa della ragazza avrebbero dovuto proiettare un’ombra multipla sotto i suoi piedi e non quella forma nera e ben definita che si profilava diritta sul terreno sconnesso.

«E’ tempo di lavorare, cercala» alle parole proferite seguì un leggero tremolio delle luci artificiali. L’ombra non sembrò curarsene, mantenne intatte le sue forme e, a dispetto della sua padrona iniziò a muoversi.

Allungò le braccia verso l’alto. Gli arti affusolati germogliarono dal terreno, le mani unite con le dita aperte mimavano la nascita di un nero papavero dall’asfalto. L’essere piegò i gomiti verso l’esterno e poggiò le mani sulla superficie ruvida.

Da quei due punti l’oscurità cominciò a diffondersi come sottili fili di una ragnatela.

Correvano lungo il terreno insinuandosi tra le pieghe della terra diffondendosi come bacilli infetti e contagiando tutto ciò che li circondava. Risalivano lungo i muri, s’inerpicavano lungo i lampioni come edera velenosa, intrecciandosi tra loro come sinuosi serpenti fino a creare un manto di nero uniforme che inghiottì completamente tutto ciò che lo circondava.

Layla era rimasta immobile dentro quel buio.

C'era stato un tempo in cui lo aveva temuto ma era ormai lontano.
Aveva imparato a far diventare l'oscurità un'estensione del suo corpo e dei suoi sensi.

Sentiva i fili distendersi e legarsi tra loro, li sentiva attraversare la materia permettendole di percepire anche l’umidità stagnante nei micro pori del terreno.

Avvertiva il respiro affannato dei topi spaventati rinchiusi nei loro anfratti e le zampe degli insetti che correvano lungo l’ombra alla ricerca di un posto sicuro. Ma era inesistente, l’ombra copriva tutto e tutti e correva nelle zone più proibitive alla ricerca della sua preda.

Spalancò gli occhi nel buio «Trovata» sibilò allungando un perfido sorriso sulle labbra che umettò con la punta della lingua rosea.

Con passo cadenzato la donna iniziò ad avanzare lungo la via. Se l’avesse vista sua sorella avrebbe subito compreso che non era più completamente lei.

Aveva acquisito di nuovo quel passo ancheggiate che non le era proprio e sfoggiava sul volto un sorriso beffardo e soddisfatto che non faceva parte della sua gamma di espressioni.

Era lei ma non era lei, frammenti di quell’ombra si erano insinuati dentro e cercavano di prendere possesso di parte di quel corpo che non le apparteneva. Ma per Layla non era un problema perché, dopo tanto tempo, avevano imparato in qualche modo a conviverci ed era stata proprio una sua volontà ora quella di cederle parte del controllo. Come una nave condotta da due capitani.

Si fermò all’angolo di una via, alzò la mano destra e la posò al centro delle labbra che dischiuse, l’alito caldo fluì tra le dita che vennero fatte scivolare sino alla punta del mento sulla quale si fermarono.

La donna sorrise.

«Ti ho trovato topolino» proferì suadente mentre una mano d’ombra si apriva alle spalle dell'ignara preda.

La afferrò con forza facendo chiudere lunga dita nere sul fragile corpo. Sentì la donna posseduta contorcersi nella sua presa per cercare di liberarsi e questo la fece sorridere un po’ di più.

Serrò la presa fino a che non sentì le ossa dell’altra scricchiolare, aspettò ancora un’istante e poi si bloccò.

C’era qualcun altro poco distante, una presenza fastidiosa si era insinuata nel suo mondo. La percepiva perfettamente ed era come se avesse messo erroneamente la mano sopra dei cactus, la avvertiva pungere contro le pareti nere come se cercasse di uscirne, pur non potendo.

«Chi diamine può essere…» all’affermazione seguì un moto rabbioso. Lanciò, con inaudita violenza, contro il muro la donna posseduta.

Non riusciva a capirlo, sembrava che l’essere riuscisse in qualche modo a schermare i suoi sensi e non era assolutamente possibile perché quel mondo era suo e nessun altro poteva interferire o sopraffarla.

Lì era lei l’unica divinità presente e non apprezzava l’idea che qualcuno vi entrasse riuscendo, in qualche modo, a celare la sua identità.

Liberatasi del peso Layla o chi per lei fece dissolvere il pesante buio che aveva fatto calare.

Girò l’angolo dando le spalle alla forma umana sepolta dal calcestruzzo che si era scrostato dal muro colpito e volse la sua attenzione sull’essere presente poco più in là.

Più le tenebre si diradavano più la forma assumeva dei contorni definiti. Era un ragazzo ed era svenuto, lo guardò torva prima di avvicinarsi con passo lesto. Si chinò proprio di fronte a lui e gli afferrò i capelli con la mano destra alzandogli il volto poco gentilmente «E tu chi diamine sei?» sussurrò con un tono di voce più simile a quello della solita Layla.

Rimase qualche secondo a contemplarne le fattezze «Cazzo!»

«Modera i termini sorella» la vocina di Bel, affannata, fece capolino alle sue spalle «Cosa hai combinato?» domandò guardando il corpo della donna accasciata senza sensi accanto al muro e scorgendone un altro nascosto da quello della sorella, china.

L’altra sospirò coprendosi il volto con la mano libera «Assolutamente niente» mugugnò «Ma credo che siamo incappate in un problema» e le fece cenno di avvicinarsi.

Bel avanzò cautamente, la fronte corrugata e gli occhi socchiusi le conferivano un’espressione buffa, più che concentrata. Si fermò accanto alla sorella la cui espressione era ora sconsolata e concentrò l’attenzione sulla figura del ragazzo svenuto la cui testa era ancora sollevata dalla gemella.

Le ci volle qualche secondo e poi si coprì la bocca con entrambe le mani in un moto di stupore «Giovanni!» esclamò «Cosa ci fa lui qui!»

Layla lasciò la presa e il capo del ragazzo picchiò sonoramente per terra «Layla!»

Non fece caso al rimprovero, si alzò e batte le mani sui calzoni in un gesto di sufficienza «Non so cosa ci faccia qui, l’ho trovato» avanzò verso l’altra vittima continuando a parlare «C’era qualcosa di fastidioso nell’ombra, non riuscivamo a capire cosa fosse» si flesse sopra la donna, non sembrava dare segni di vita «a quanto pare era lui».

Bel, ancora china accanto al ragazzo, gli passò una mano sulla fronte. Era completamente bagnata, come anche i suoi vestiti «Non ha senso, non può sfuggirvi niente nell’ombra e lui è solo…un ragazzo».

Alzò le spalle magre e tornò a cercare la gemella che aveva allungato una mano verso la giugulare della donna svenuta, il battito cardiaco era ancora percepibile sotto la pelle del collo.

«Forse non è solo un ragazzo» tornò eretta e mimò le virgolette con le dita incorniciando la parola “solo” «forse è qualcosa di più oppure lui era già lì e non l’ho percepito a causa di qualcun altro che è riuscito a scappare oppure…».

«Okkey, okkey ho capito» l’interruppe Bel prima che continuasse il suo sproloquio. La conosceva e sapeva che sarebbe stato infinito, del resto aveva sempre reagito così quando qualcosa faceva innervosire lei e la sua ospite.

Non era sua abitudine urlare ma si dilettava particolarmente bene in lunghe sceneggiate che diventavano difficili da sopportare soprattutto dopo i primi cinque minuti.

Si alzò, lisciò i bordi della gonna picchiettando le mani sulla stoffa arruffata, e le si avvicinò sorridendole amorevolmente «Dobbiamo capire cosa sia successo, ma prima dobbiamo soccorrere entrambi».

Il sorriso della gemella mise un piccolo argine alla sua agitazione crescente, non era comunque quello il momento di farsi sovrastare dalle emozioni «Hai ragione» esordì pacatamente «Proviamo a chiamare il vecchio, abbiamo bisogno di una macchina per portare entrambi».

L’altra annuì con decisione un paio di volte e Layla prese il cellulare dalla tasca anteriore dei suoi calzoni. Era il nuovo modello del Nokia 3310.

Bel aveva provato più volte a farle prendere uno smartphone, ma Layla non era per niente avvezza alla tecnologia, avrebbe preferito uno di quei modelli che vendono per lo più regali agli anziani ma alla fine aveva ceduto alla suppliche della sorella e aveva preso la versione più aggiornata del 3310.

Cercò nella rubrica il nome del suo interlocutore, premette il tasto invio ed inoltrò la chiamata.
​...

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 12 agosto, ore 01.30 ***


… 

12 agosto, ore 01.30 

La stanza non le era mai particolarmente piaciuta, era spoglia e arredata con quello stile moderno che non era mai stato di suo gradimento inoltre il mobilio aveva colori molto scuri che erano poco rischiarati dalla luce bianca proveniente dalla plafoniera appesa al centro del soffitto il che conferiva all'ambiente un aspetto lugubre. 

Non l'aveva mai vista durante il giorno, quindi non poteva sapere se alla luce del sole potesse avere un altro effetto.  

A volte si era domanda se non fosse il suo umore a far apparire quella stanza così cupa. 

Aveva finito di recuperare i suoi vestiti che erano disseminati disordinatamente all'interno della camera. Alcuni erano stati poggiati sulle poltroncine in pelle nera, altri erano disposti sul pavimento in parquet e qualcosa era riuscito a finire sotto il letto, nella foga di spogliarsi. 

Ora rimanevano solo quelli di lui come soldati reduci di una guerra che, nonostante tutto, avevano vinto e avrebbero continuato a vincere. 

Si rivestì. 

Indossò il perizoma in raso bianco e il bustino abbinato il cui ricamo che lo componeva sembrava un tatuaggio bianco sulla pelle olivastra della donna. 

Quando lo aveva provato si era sentita bella quasi come una di quelle modelle di intimo che svettavano sui cartelloni pubblicitari posti nei centri delle città. Le sollevava il seno verso l'alto e le stringeva i fianchi creando quella forma a clessidra che tanto invidiava nelle altre donne. Aveva passato più e più volte le sue mani sul corpo per paura che fosse solamente un inganno dello specchio. Ma non era così, quella era lei, lo era davvero. 

Ora invece la infastidiva, le bacchette le premevano sui fianchi e il raso le solleticava la pelle ancora umida del sudore dell'amplesso. 

Il filo delle mutande le tagliava la pelle delle natiche e la parte anteriore le irritava la parte più intima ancora infiammata per i rapporti avuti. 

Cercò di nascondere il tutto infilando il vestito a tubino azzurro il cui scollo profondo lasciava intravedere parte di quel complicato intimo che si era permessa di comprare dando fondo ad una cospicua somma di denaro che ancora gravava sul suo conto corrente. 

E pensare che nella sua vita non aveva mai comprato niente di più osé di un reggiseno rosso per capodanno e una maglia con il collo a barca. 

Volse lo sguardo verso la porta del bagno privato e si avvicinò, poggiò la testa sul mogano caldo e chiuse gli occhi. Oltre quella porta c'era la persona per cui aveva iniziato a cambiare. C'era l'uomo per il quale aveva iniziato a perdere un po' di sé stessa. 

Sentiva, ovattato, lo scroscio dell'acqua della doccia e non riuscì a trattenere l'immaginazione. 

Attraverso la condensa che ricopriva i vetri della doccia poteva vedere il suo possente corpo nudo con l'acqua che correva ricalcando le linee perfette della muscolatura allenata e ne fu gelosa.  

Voleva essere quell'acqua e toccare nuovamente quella pelle rovente. Voleva scendere lungo le sue spalle e scavalcarle per scivolare lungo l'ampio torace, magari passando a giocare un poco con i suoi capezzoli e poi ancora giù fino oltre gli addominali scolpiti sino a cingergli la vita sottile per poi sugellare tra le labbra il suo membro eretto. 

«Piccola insaziabile…» una voce profonda e voluttuosa fece capolino nella sua testa. 

Doveva essere stata la sua immaginazione, la cristallizzazione dei suoi stessi pensieri dietro la voce di quell'uomo, la causa primaria della sua disfatta. 

L'aveva sedotta e l'aveva condotta verso la via dell'autodistruzione facendole scoprire i piaceri della carne ai quali era totalmente assuefatta. Aveva così tradito tutte le promesse fatte e infranto tutti i suoi sogni da bambina. Cosa avrebbe pensato il suo fidanzato quando avesse scoperto che non era più illibata? E come avrebbero reagito i suoi genitori? L'avrebbero sicuramente disconosciuta e lei non sarebbe stata più in grado di perdonarsi. 

Chissà se Dio l'avrebbe perdonata, chissà se sarebbe riuscita a fare ammenda dei suoi peccati. 

Prima avrebbe dovuto smettere. Smettere di vederlo, smettere di desiderarlo. Smettere di farsi soggiogare da quel demone del piacere e tornare ad essere la donna di sempre. Quella devota alla famiglia e all'amore puro. 

Le lacrime le irrigarono il volto facendo sciogliere gli ultimi rimasugli di mascara che tracciarono righe nere lungo le guance arrossate di Sara. 

Recuperò le sue scarpe, erano delle open toe laccate di nero con un tacco di 8 centimetri, e la sua borsetta di finta pelle e scappò via certa che, questa volta, si stava lasciando alle spalle per sempre quel vortice peccaminoso entro il quale era stata risucchiata. 

Intanto l’acqua della doccia aveva smesso di scorrere. L’uomo recuperò l’asciugamano e lo strinse alla vita magra. 

Aveva un ghigno soddisfatto dipinto sulle labbra strette, questa ragazza gli stava dando parecchio piacere e non solo a livello fisico.  

Era divertente vederla lottare tra cosa pensava fosse giusto e i desideri della sua carne che si facevano sempre più intensi. Gli esseri umani gli avevano sempre portato grande divertimento, soprattutto quando cadevano nel baratro di ciò che loro consideravano licenzioso. Vederli lottare e fallire era la sua meta principale, ma anche vederli vincere e ritrovare la strada corretta era interessante.  

«Chissà cosa ne sarà di te piccola Sara...» proferì serafico mentre tornava nella stanza. 

Si sdraiò nell'ampio letto matrimoniale e pochi istanti dopo, soddisfatto, cadde in un sonno profondo. 
... 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 13 agosto, ore 10.30 ***


NDA:Rileggendo mi sono accorta di alcuni errori dovuti alla mia indecisione sul personaggio che doveva fare da segretario/segretaria a Asmodeus. Alla fine ho optato per un ragazzo di nome Angelo però, distrattamente, non ho cambiato correttamente tutti i riferimenti femminili presenti nel testo. Oggi credo di essere riuscita a mettere una toppa in tutte le falle. Mi scuso per il "casino" e Vi ringrazio per la pazienza.

... 

13 agosto, ore 10.30 

Il sole batteva oltre le finestre dell'ufficio oscurate da semplici veneziane bianche la cui ombra zigrinata si allungava sino alla parete, posta di fronte. 

Regnava, all'interno, un completo silenzio, rotto a volte dal leggero picchiettare della penna sulla superficie lucida della scrivania in mogano. Era un pezzo particolarmente costoso che lui aveva voluto ad ogni costo.  

Era rimasto particolarmente affascinato dalle rifiniture in ebano e dall'alto rilievo che era stato così attentamente scolpito nel perimetro più alto del mobile. 

Vi erano uomini e donne, immersi nelle fiamme, che volgevano i loro sguardi e le loro preghiere verso Dio per cercare la salvezza che non sembrava essergli stata concessa.  

Guardando più da vicino invece ci si accorgeva che le espressioni intagliate erano di odio e disgusto. Non lo stavano pregando, lo stavano maledicendo per la punizione inflitta. 

Era un lavoro di pregio, non se lo era fatto sfuggire e aveva voluto sfoggiarlo nel suo ufficio. 

Il telefono nero, poggiato sul ripiano di legno ricoperto, suonò un paio di volte. Lui premette il pulsante del vivavoce e rispose con voce profonda all'uomo che si trovava all'altro capo della cornetta: 

«Dimmi Angelo» assaporò il suo nome come si fa con un boccone particolarmente delizioso.  

Ci fu qualche secondo di silenzio, lo immaginò arrossire oltre la cornetta e toccarsi le labbra con la punta delle dita. Quelle dita morbide e affusolate. 

«Ehm...Signor Galeni sono arrivati i suoi ospiti» gli vibrava la voce. 

«Li faccia passare» un momento di silenzio e poi riprese «E per favore, Angelo, ci porti dell'acqua e del caffè». 

«Subito Signore» la risposta arrivò soffiata attraverso la cornetta del telefono. 

Chiuse la chiamata e sorrise compiaciuto giungendo le mani in preghiera e poggiando il mento nella fossa lasciata tra i pollici e gli indici.  

Premette i polpastrelli sulla punta del naso e osservò lo sfondo sfuocato dell'ufficio. Probabilmente l'aveva lasciato abbastanza tempo a desiderare, era il caso di iniziare a concedergli qualcosa, ma senza esagerare. 

C'era un che di eccitante nel vederli implorare per avere sempre un po' di più dell'oggetto del loro desiderio. Alcuni riuscivano ad umiliare sé stessi oltre il limite del concesso ed era una cosa che lo stuzzicava piacevolmente. 

Due leggeri colpi alla porta fecero svanire il filo dei suoi pensieri. Inspirò e riportò le mani sulla superficie della scrivania, con un polpastrello seguì la spirale disegnata da una venatura «Avanti». 

La porta si aprì, la serratura emise un leggero click. 

La figura allampanata di Dantalion fece la sua comparsa sull'uscio, passò la mano sui capelli scarmigliati e avanzò flemmatico nella stanza. 

Alle sue spalle fece capolino Belial che affiancò il compagno di fronte alla scrivania. 

Vederli insieme era come osservare un patchwork.  

Dantalion sembrava si fosse appena alzato dal letto, aveva gli occhi ancora semichiusi e i capelli rossi si rimescolavano tra loro come se fossero in lotta. Indossava una maglia bianca che presentava parecchi scavi di tarli e un vecchio paio di jeans logori che sembravano stare insieme per quella grazia che a lui non era stata concessa insieme ad un paio di allstar che probabilmente non avevano mai visto giorni migliori.  

Era tanto alto quanto magro con una leggera curvatura nella parte dorsale della schiena che lo faceva sembrare vecchio e stanco, e probabilmente stanco lo era. 

Ora lo guardava con una certa indolenza. Tra le croste del sonno si poteva leggere la speranza che il tutto finisse presto per poter tornare così ad oziare nel suo piccolo appartamento. 

Belial era sveglia e attenta, con i suoi occhi da gatta – accuratamente truccati – puntati verso il suo interlocutore. In realtà lei osservava tutto ciò che la circondava con minuziosa attenzione, niente le sfuggiva. 

I capelli neri, dritti come spaghi, ricadevano perfettamente sul volto e sopra le spalle, incorniciandola in un quadro perfetto. 

Indossava un mini dress di Maison Valentino color corniolo pallido, molto in contrasto con la sua pelle cioccolato, adornato dei sandali con tacco a spillo chiusi con nastri in raso e una borsa di Gucci in pelle bianca il cui fermaglio di chiusura era la testa di un serpente la cui lingua biforcuta fece capolino tra le fauci. 

«Asmodeus, quanto tempo» la sua voce incantatrice risuonò come musica. Tese il braccio affusolato in avanti porgendogli il dorso della sua mano.  

Il demone si alzò e sfoggiando con naturalezza la sua parvenza di adone. 

I capelli, di un biondo molto chiaro, erano impomatati e pettinati tutti verso il lato destro del volto, così da lasciare libera l’ampia fronte e gli occhi grigi, incastonati in un viso dalla forma triangolare. 

Un filo di barba, arricchito da un impeccabile pizzetto, circondavano una bocca con labbra sottili perennemente arricciate in un dolce sorriso di convenienza. 

Il fisico perfettamente allenato, nil completo di Ferragamo blu scuro, cucito a mano, lo faceva sembrare un vero e proprio modello. 

Oltrepassò la scrivania e cinse, con grazia, le dita della donna. 

La pelle color dell'ebano emanava un dolce profumo di rose, quando vi poggio delicatamente le labbra gli ricordò il tocco della seta. 

La squadrò rialzando leggermente il capo affilando lo sguardo «Appetitosa, come sempre».  

«Vizioso, come sempre» rispose lei giocosa ritirando la mano. 

Asmodeus tornò eretto e cercò l'altro ospite, che aveva lo sguardo rivolto verso una delle finestre. Osservandolo con attenzione si poteva comprendere che non stava davvero guardando oltre il vetro, la sua mente stava naufragando in un mondo che era ai più sconosciuto. 

Il biondo schioccò le dita. La testa di Dantalion fece un leggero scatto e poi, lentamente, tornò a volgersi verso il demone. «Asmodeus...» proferì pigramente. 

«Ben tornato, Dantalion» ironizzò ma l'altro non ci diede peso. 

Il padrone di casa allungò un braccio e indicò il tavolo rettangolare posizionato dirimpetto alla scrivania. 

«Prego, accomodatevi» 

Non se lo fecero ripetere due volte. 

Sedettero entrambi sulle sedie ai lati del capotavolo. 

Asmodeus avanzò nella stanza con le misurate movenze di un predatore e si fermò dietro la sedia a capotavolo, osservando fermamente i due astanti e soffermandosi sul rosso. 

Dantalion ricambiò alzando gli occhi vacui verso il soffitto. 

«Facci un rapporto sulla situazione, Dantalion...» bussarono alla porta, un tocco leggero. L’uomo si affrettò ad andare ad aprire «...sii il più breve possibile, per favore» 

Oltre l'uscio, stanziava un ragazzo in ordine impeccabile. In mano reggeva un ampio vassoio con tre tazzine del caffè, coperte da un piccolo coperchio in ceramica, altrettanti bicchieri e una bottiglia d'acqua sul cui vetro scorrevano lente piccole gocce di condensa. 

Il suo volto cambiò drasticamente colore quando apparve il suo capo e la sua presa cedette leggermente, facendo vibrare così la vetreria che reggeva. 

Lui sorrise e allungò le grandi mani verso l’altro «Grazie Angelo, me ne occupo io» il tono di voce suadente lo fece trasalire.  

«Come preferisce» la voce gli tremò, non riuscì ad evitarlo. Gli porse il vassoio e percepì il calore delle dita di lui che sfioravano le sue. Il cuore gli tamburellò nel petto, come avrebbe voluto che quel contatto si prolungasse. 

Arrossì nuovamente e abbassò lo sguardo cercando di celare quella voglia crescente che covava dentro. 

Asmodeus non parlò, indietreggiò di un passo e richiuse la porta alle sue spalle.  

«Finirai per farlo impazzire» commentò sarcastica Belial leggendo il compiacimento nel volto di lui.  

«Potrebbe essere una delle opzioni possibili» rispose alla donna, ma non si soffermò sul discorso.  

Portò il vassoio lo poggiò tra di loro, prima di sedersi 

«Inizia Dantalion». 

Il rosso alzò le spalle e socchiuse gli occhi, lasciò ciondolare la testa in avanti e per un istante sembrò fosse sul punto di addormentarsi «Agalierap sta cercando Adam. Pare si stia nascondendo nel Kamchatka, o quantomeno così dicono le sue fonti ma non ha ancora avuto riprova della loro veridicità» si interruppe di colpo e fece una pausa chiudendo lentamente le palpebre due volte.  

Gli occhi erano fermi sullo spazio compreso tra i due presenti ma entrambi sapevano che non aveva messo a fuoco nulla e nessuno di ciò che era presente nella stanza. 

Belial sospirò e si allungò in avanti, con le dita affusolate afferrò il coperchio di una tazzina e lo posò sul vassoio. Un leggero aroma di caffè solleticò le narici dei presenti. Il rumore dello strappo della bustina di zucchero sovrastò il silenzio seguita poi dal leggero tintinnare del cucchiaino contro la ceramica. 

Quando il suono si interruppe fu sostituito, di nuovo, dalla voce soave di Dantalion «Resterà ancora un paio di giorni, se non troverà niente tornerà indietro e cercherà una nuova pista». 

«Questa volta è particolarmente capace, dobbiamo dargliene atto» Belial intervenne costringendo Dantalion a interrompere il filo dei suoi pensieri e a volgere lo sguardo in sua direzione. 

Sorseggiava il caffè tenendo la tazzina per il manico con la punta del pollice e dell'indice destri, il mignolo era leggermente scostato verso l'esterno. 

«In effetti ci sta mettendo in difficoltà» Le unghie curate di Asmodeus ticchettarono sul ripiano del tavolo «Quando torna voglio parlargli». 

Dantalion annuì un'unica volta e attese l'accenno dell'altro uomo prima di continuare il suo resoconto. 

Asmodeus accarezzò la superficie, ne percepiva le imperfezioni tramite quelle dita che aveva imparato a gestire perfettamente.  

Alzò la mano volgendo il palmo verso l'alto con le dita chiuse in un pugno. La colorazione emaciata della pelle era stata sostituita da una bronzea e le unghie, una volta mangiucchiate, erano ora arrotondate e levigate perfettamente. Ogni imperfezione era svanita così come l'animapadre di quelle deformità, che vi aveva abitato in precedenza.  

Allungò le dita perfette verso l'esterno e alzò leggermente il mento per inquadrare con lo sguardo la figura sgraziata del rosso.  

«Cos'altro, Dantalion». 

L'uomo tirò in avanti la schiena e incrociò le braccia sul ripiano di fronte a lui Posò lo sguardo assente sul vassoio «Klepoth e Minoson» nella breve pausa Belial posò la tazzina. Sulle sue labbra si era disegnato un sorriso divertito. Asmodeus corrugò la fronte e attese. 

«Hanno trovato la causa dei recenti assassini» si grattò con noncuranza la punta del mento, il dito sfregò tra i peli ispidi della barba «E' una donna ed è posseduta» risalì con il dito lungo il profilo del volto fermandosi sulla tempia che grattò con la punta dell'unghia scheggiata. 

Con un gesto aggraziato, Belial, coprì l'ilarità che le nasceva spontanea sulle labbra scure arricciate. 

Il re degli inferi sospirò e poggiò la testa sul palmo aperto della mano, affilando lo sguardo sulla naturale gestualità del demone che lasciava trasparire un sentimento quasi paragonabile all'agitazione. 

«Klepoth e Minoson l'hanno seguita per un po' e alla fine si sono mostrati.» aggirò il capo e passò le dita tra i capelli scarmigliati con una lentezza che tendeva ad infastidire il suo superiore il quale, con il tempo, aveva imparato che Dantalion non era affetto in alcun modo dalle minacce e che l'unico modo che aveva per recuperare le informazioni era avere pazienza. 

«Hanno avuto una soffiata da alcuni nostri contatti e hanno avvisato la donna di scappare» 

Si udì una risatina leggera e un'esalazione profonda. 

L'uomo passò la mano sul volto chiudendo gli occhi per un istante. Sarebbe stato piacevole fargli assaporare questa tortura se non fosse stato completamente apatico alle sensazioni «Dantalion, si chiaro» proferì secco. 

Il rosso riportò le mani in grembo e piegò il capo di lato cercando di ricambiare lo sguardo di Asmodeus 

Socchiuse le labbra e, prima di parlare, una luce di vita sembrò affiorare nel fondo vitreo dei suoi occhi verdi. 

«Hanno inviato le gemelle» 

... 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 13 agosto, ore 10.30 - parte 2 ***


... 

Il serpente sulla borsa di Gucci ebbe un fremito, scostò la testa argentata e sibilò profondamente. Quando Belial posò, con delicatezza, la sua mano sul manico in bambù il rettile tornò a quietarsi. 

«Una scelta interessante» sorrise candidamente e si volse verso l’uomo al suo fianco. 

Asmodeus aveva gli occhi spalancati e lucidi e si stava mordendo con forza il labbro inferiore. Sembrava non aver udito le parole della donna ma perso in qualche pensiero particolarmente intenso. 

I due presenti lo guardarono in silenzio, Dantalion flesse il volto verso l’interno del tavolo e socchiuse le palpebre come se stesse mettendo a fuoco una figura indistinta 

«Dantalion» Belial ne sibilò minacciosamente il nome attirando così la sua attenzione «non è il caso» 

L’altro annuì, apatico, lasciando che quella punta infinitesimale di curiosità annegasse nel mare di accidia che componeva il suo io. 

«Parecchio interessante» proferì l’uomo con voce calda e pacata, dopo qualche minuto di silenzio «quanti omicidi?» si allungò verso il vassoio e afferrò una delle tazzine di caffè. 

«Sette» rispose Dantalion. 

«Produttivo il nuovo arrivato» commentò la donna «Sappiamo chi è?» 

«Non con certezza» intervenne nuovamente il rosso. 

Asmodeus bevve il suo caffè nero, assaporò con piacere l’amaro della bevanda e rapì, con la punta della lingua, le gocce che si erano depositate sulle labbra. 

Lentamente poggiò la tazzina sul vassoio e poi giunse le mani, come in preghiera, vicino al busto, con le braccia piegate e poggiate parallele al tavolo. 

«Dantalion» l’inflessione interrogativa destò l’attenzione demone 

Quando mise a fuoco il volto dell’uomo provò un brivido di quella che aveva più volte riconosciuto, negli uomini, essere la paura. 

L’aveva avvertita quando aveva sondato la mente di un bambino che aveva fatto arrabbiare sua madre; quando aveva spiato tra i recessi di una donna che nascondeva i suoi lividi e anche quando aveva assistito all’incidente di quell’adolescente investito che si era accorto che stava morendo. 

Era come una leggera scossa che prendeva vita dalla base della spina dorsale. La si percepiva risalire e poi diffondersi lungo i nervi facendo rizzare tutti i bulbi piliferi, nei casi peggiori paralizzando tutti i muscoli del corpo. 

Nel fondo di quegli occhi grigi, attraverso la pelle tesa del volto i cui tratti perfetti erano deformati da un ghigno sadico, si poteva scorgere con chiarezza, la natura distorta dell’essere che secoli addietro aveva deciso di lasciare gli inferi più profondi per mescolarsi agli esseri umani. 

In quel momento gli fu chiaro perché Asmodeus era salito all’apice degli inferi arrivando ad investire una delle quattro cariche di Re e cheneanche la sua inedia lo avrebbe potuto salvare dai dolori che avrebbe potuto infliggergli quell’essere infernale. 

«…continua, te ne prego» la sua voce si insinuò serpentina fin nei recessi più profondi della mente del duca. 

Posò lo sguardo sulla donna, che lo osservava con il mento poggiato sulle dita intrecciate delle mani. Gli sorrideva sardonica, come avesse intuito il filo dei suoi pensieri. 

«Hanno inviato le gemelle a seguire il caso di questo assassino. Klepoth e Minoson lo hanno scoperto e hanno avvisato la donna che ha tergiversato troppo e pare sia stata presaPerò…» si interruppe, socchiuse gli occhi per una frazione di secondo ricercando il filo dei pensieri che era più lento di quanto lo fossero le parole ad uscire dalla sua bocca «…pare sia successo qualcosa mentre la prendevano. Qualcosa le ha disturbate ma non sono riusciti a capire cosa stesse succedendo. Hanno chiamato qualcuno e si sono fatte venire a prendereÈ arrivata una vecchia punto azzurra hanno caricato due persone svenute e poi se ne sono andate» nuovamente dovette interrompersi «Non sono riusciti a seguire la macchina né a leggerne la targa, doveva essere coperta da un qualche tipo di magia che distorce la realtà» terminò la frase, guardò entrambi i presenti «Questo è tutto» 

L’espressione di Amodeus sembrò placarsi, allargò un sorriso di soddisfazione insieme alla braccia che portò verso l’esterno della sedia «Al di là dell’operato di Minoson e Klepothche è sempre discutibile abbiamo qualche elemento su cui lavorare» richiuse gli arti e poggiò le mani sui braccioli della sedia, strinse le dita intorno alla copertura e dovette trattenersi per non romperle. 

«Belial, cosa ne pensi?» 

La donna sbuffò tra le belle labbra messe in risalto da un cremoso rossetto color melograno «Che dovresti rilassarti un po’ prima di continuare, stai facendo spaventare anche me» e si posò una mano sul cuore mimando un mancamento per poi nuovamente ridere con leggiadria. 

Asmodeus la guardò affilando lo sguardo ferino «Quanto tempo è passato dall’ultima volta che l'ho vista?» le domandò. 

«Un centinaio di anni?» mormorò Belial perplessa poggiando l’indice al centro, sotto il labbro inferiore. 

«Esatto» allargò un nuovo ghigno «Non chiedermi quindi cose impossibili» passò la mano tra i capelli, facendo ricadere qualche ciocca sopra la fronte la cui pelle era ora corrugata da mille pensieri. 

Belial alzò le spalle e scosse leggermente la testa facendo ondeggiare i capelli neri «Non hanno molti contatti a Milano, non credo che sarà difficile arrivare a chi si sono appoggiate» passò una mano sotto i crini, facendoli saltare leggermente «Me ne posso occupare io. Eviterei di inviare nuovamente quei due buoni a nulla» sospirò e allargò nuovamente un sorriso ferino. 

«Ottimo» proferì Asmodeus «Quando sai qualcosa avvisa Dantalion». 

Spostò lo sguardo su quest'ultimo «Dantalion voglio sapere cosa è successo, cosa ha turbato le gemelle» allontanò la sedia dal tavolo, le ruote produssero un leggero sfrigolio a contatto con il pavimento. 

L'uomo si alzò, passò le mani sul capo e sistemò i capelli. Fece scorrere la mano sul volto, inspirò lentamente e poi riesalò il fiato caldo.  

Quando scoprì il viso aveva recuperato la sua compostezza. Dantalion ne fu in qualche modo sollevato. 

«Se riesci, recupera anche la donna» afferrò il bavero della giacca e tirò leggermente la stoffa per conferirle nuovamente un aspetto ordinato «Porta con te Valac. Di Minoson e Klepoth scegli tu cosa farne» 

«D'accordo» il rosso rispose senza esitazione facendo scorrere a sua volta la sedia indietro. 

Insieme si alzò anche Belial la quale sistemò con grazia l'orlo del suo vestito «Hai intenzione di farla arrabbiare?» 

L'uomo sorrise beffardo, allungò il braccio piegato verso Belial e attese che la donna vi si appoggiasse «Quel tanto che basta per far sì che venga a cercarmi». 

Belial poggiò la mano sull'avambraccio dell'uomo e recuperò la sua borsa il cui serpente sembrava essersi acquietato 

Asmodeus l'accompagnò verso l'uscita, aprì la porta e si scostò per lasciarle spazio «A presto Belial» gentilmente le afferrò la mano e posò le labbra sul dorso di questa.  

La donna sorrise maliziosa e scivolò, con grazia, oltre l'uscio. 

«Tienimi aggiornato, Dantalion» il rosso fece un piccolo cenno di assenso con il capo prima di seguire la donna sui passi del ritorno. 

... 

Quando la porta venne richiusa la serratura emise un flebile suono che fu seguito dai passi misurati dAsmodeus verso la sua scrivania. 

Si lasciò andare sulla sedia, poggiando il capo sul poggia testa e stringendo i braccioli tra le dita delle mani. 

Dopo un secolo finalmente l'avrebbe rivista nuovamente. 

Rovistando tra i ricordi riusciva a recuperare quello sguardo fiero e selvaggio che l'aveva, da sempre, distinta da chiunque presente nell'intero universo. 

In quegli occhi, in quello stesso corpo ardevano incessanti le fiamme dell'inferno nelle quali avrebbe voluto buttarsi lasciando bruciale la pelle, le ossa e tutti gli organi interni sino a che, di lui, non fosse rimasta solo la cenere più nera. 

Un brivido di eccitazione gli strinse l'inguine. Percepì il sangue defluire dal cervello e riversarsi nei lombi ingrossando la sua virilità.  

Si morse l'interno del labbro inferiore quando premette contro la stoffa dei boxer, deformando il cavallo dei calzoni. 

Emise un mugolio strozzato quando sfiorò il rigonfiamento con il palmo della mano.  

Inarcò le labbra in un mezzo sorriso, non si sarebbe concesso quel piacere da solo. 

Allungò la mano e premette il tasto dell'interfono. L'accorata voce maschile del suo segretario fece capolino «Ha bisogno, Signore?» 

«Si Angelo, per favore vieni nel mio studio» il respiro profondo arrivò sino alle orecchie del ragazzo che perse per un attimo il senso della realtà quasi percependo, attraverso la cornetta, il desiderio dell'uomo. 

«Subito» rispose e già stava arrossendo.  

Chiuse la chiamata e si apprestò alla porta dell'ufficio. Esitò, per un istante, prima di bussare. 

Chissà cosa voleva, forse era solo per ritirare il vassoio ma la sua voce era così tesa, come se fosse desideroso di qualcosa o qualcuno... 

Bussò e attese. Aveva i palmi delle mani sudati e se ne vergognò. 

«Avanti» 

Deglutì, entrò nell'ufficio. 

Rimase pietrificato quando vide, oltre la scrivania, due occhi ferini che lo puntavano con avidità sostenuti da un'espressione bramosa che non aveva mai visto in nessuna persona che avesse incontrato nella sua vita. 

Solo nei felini in caccia era possibile ritrovare quella frenesia e quello di fronte a lui era, solo, un uomo. 

Per un istante dubitò di trovarsi di fronte ad un vero essere umano. 

Come gli animali, Asmodeus percepì la diffidenza che stava nascendo nel ragazzo. Per questo sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi, quelli dove gli angoli della bocca vanno a sfiorare le orecchie e ad arrotondare le gote. Uno di quei sorrisi che ti fa guadagnare la fiducia dell'altro con un unico sguardo. 

All'inizio gli venivano contriti e poco convincenti ma ora, poteva ammaliare chiunque in poco tempo con quel singolo e semplice movimento muscolare. 

Di fronte a quel sorriso disarmante, in quell'espressione più sciolta Angelo riconobbe l'uomo denominato Mauro Galeni e tirò un sospiro di sollievo. 

Probabilmente la penombra della stanza lo aveva tratto in inganno. 

«Ha bisogno, Signore?» domandò innocentemente. 

Il sorriso di Asmodeus si affilò, poggiò i gomiti sulla scrivania e intrecciò le dita sotto il mento «Si, ho bisogno di te per qualcosa di molto importante» la voce sibillina dell'uomo gli penetrò sin dentro l'anima facendola vibrare di un'emozione che non riusciva a riconoscere. 

Eccitazione? Paura? Cos'era quella sensazione che riverberava dentro di lui e che quell'uomo era riuscito ad accendere? 

«Di cosa di preciso?» domandò nuovamente. 

Asmodeus si alzò, sorpassò a grandi passi la scrivania e, avanzò in sua direzione.  

Angelo, scrutandone la figura, vide il rigonfiamento all'altezza del cavallo e ad un tratto provò una profonda vergogna che lo fece arrossire vistosamente. 

Arretrò di un passo ma finì per ritrovarsi con la schiena aderente alla porta dalla quale avrebbe voluto fuggire.  

Intanto l'uomo si era avvicinato e ora lo affrontava apertamente.  

Un sorriso arcigno gli tagliava il volto da parte a parte, la coscienza di Angelo gli suggerì si fuggire il prima possibile. 

Quasi intuendone il pensiero il demone allungò il braccio sinistro in avanti, poggiando con forza la mano aperta accanto alla testa del ragazzo, proprio sulla porta. 

Il tonfo atterrì il giovane le cui gambe iniziarono a vacillare sotto il peso della paura incombente. Gli occhi gli si inumidirono. 

«No...» l'uomo cercò di rincuorarlo carezzandogli i capelli chiari «Non devi aver paura di me» la mano scese lungo il profilo imberbe dell'altro fino al mento che tenne tra le dita. Lo sollevò appena per potersi specchiare in quegli illibati occhi azzurri. 

Non era quantificabile il godimento che ne traeva a vederli così inermi di fronte a lui. 

«Signore, per favore...io...» la voce gli uscì flebile e il demone ne approfittò per allungare il dito su quelle labbra morbide dischiudendole quel tanto che bastava per poter vedere il rosa della lingua. 

Abbassò il capo verso di lui e con la sua stessa lingua descrisse il profilo della bocca dell'altro con meticolosa attenzione. 

Angelo tentò una pacata ribellione posando i palmi contro il torace dell'uomo, spinse con leggerezza contro il muro di muscoli tesi che gli si parava davanti ma non riuscì a vincere. 

Asmodeus emise una flebile risata contro quella bocca che poi sigillò con la sua in un profondo bacio lascivo con il quale sembrava voler divorare la sua nuova preda. 

Angelo, inerme, si lasciò divorare. 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 13 agosto, ore 13.00 ***


... 

13 agosto, ore 13.00 

Quando aprì gli occhi e riuscì, finalmente, a riacquisire coscienza di , si ritrovò sdraiato in un letto di una stanza sconosciuta flebilmente illuminata dalla luce del sole che filtrava dai fori delle tapparelle non perfettamente chiuse. 

Si mise a sedere, nel movimento di risalita del busto accusò un leggero dolore a livello della fronte. 

Toccò il punto con la punta delle dita e non poté fare a meno di constatare la presenza di una prominenza dolorosa. Cercò di fare mente locale ma non riusciva a recuperare nessun ricordo dopo aver lasciato la casa di Michele. 

Sbuffando fece scorrere le gambe dal letto, posando così i piedi sulle piastrelle fresche del pavimento. La sensazione che provò fu corroborante. 

Da una posizione più comoda si guardò nuovamente intorno.  

Il letto era poggiato al muro dirimpetto alla porta, era semplice con la struttura di sostegno in legno e, sentito il rumore, una vecchia rete a molle a sorreggere il materasso 

Sopra la testiera regnava incontrastato un semplice crocifisso in legno la cui figura di Cristo era stata disegnata sopra, stilizzata. 

Sulla destra vi era una scrivania in truciolato, color frassino, sulla cui sedia erano piegati e ordinatamente poggiati i suoi calzoni e calzini. 

Si alzò, con calma. Un leggero giramento di testa fece capolino e lui dovette chiudere gli occhi per un istante per ritrovare l'equilibrio. 

Li riaprì e si guardò intorno, mosse un passo in avanti e poi un altro, assicurandosi di riuscire a farlo senza cadere. Quando ebbe la sicurezza di potersi muovere senza traballare si avvicinò alla sedia e prelevò il suo vestiario che indossò con una certa celerità per paura che, il suo salvatore, potesse entrare e coglierlo in mutande. 

L'idea non lo stuzzicava in maniera particolare anche se, pensandoci bene, qualcuno lo doveva pur aver spogliato. 

La scrivania era pulita e ordinata. Sull'angolo destro erano impilati una serie di libri dalle cui pagine spuntavano piccoli segnalibri coloraticome lingue di lucertola. 

Cercò di curiosare leggendo i titoli ma le copertine in pelle erano talmente vecchie e consunte che vi erano sopravvissute sopra solo poche lettere incomplete. 

Fece spallucce e si girò verso il lato mancate sul quale erano poggiati un vecchio armadio e una cassettiera in coordinato con la scrivania.  

Sul ripiano alto della cassettiera erano ordinatamente sistemate delle fotografie, ritraenti probabilmente la famiglia del padrone di casa, e una rappresentazione della madonna. 

Non gli erano chiare molte cose ma sicuramente, chiunque abitasse in quell'appartamento, era un credente catalogabile tra il mediocre e fervido. 

Un grottesco rumore, proveniente dalla sua pancia, lo distrasse dalle sue ricerche. Vi poggiò sopra le mani e ottenne un nuovo gorgoglio lamentoso.  

Una era la certezza che aveva da quando si era svegliato, aveva fame. Sembrava non mangiasse da giorni e in effetti non poteva sapere, con certezza, quando fosse stato il suo ultimo pasto. 

Si avvicinò alla porta della stanza. La guardò esitante, chissà cosa avrebbe trovato dall'altro lato.  

Appoggiò la mano sulla maglia in ottone e l'abbassò confutando la paura di poter essere stato segregato all'interno di un posto sconosciuto. 

Spinse l'uscio, accostando il volto al legno per spiare dall'intercapedine formatasi tra la porta e lo stipite. I cardini cigolarono e Giovanni si bloccò di scatto. 

Nessuno sembrava aver colto il rumore all'interno della casa, sempre che ci fosse stato qualcuno. 

Dalla sua posizione vedeva un corridoio che, qualche metro più avanti, si allargava lateralmente in una stanza illuminata completamente dal quello che riconobbe essere il sole estivo. 

Aprì ancora un poco la porta e scivolò fuori, chiudendo l'accesso alle sue spalle e poggiandovisi sopra con la schiena. 

Ad un paio di metri, in fondo all'altro lato del corridoio, c'era una porta chiusa e a metà un'altra porticina sempre serrata. 

Non avendo scelta si girò verso l'unica via di uscita presente e mosse qualche passo in punta di piedi, prima di fermarsi. 

Se tendeva l'orecchio in quella direzione riusciva a sentire delle voci.  

Avanzò ancora, sfiorando il muro del corridoio, arrivando sino all'angolo tra questo e la stanza.  

Si mise in ascolto, seppur in cuor suo sapesse fosse poco educato. 

«E' una situazione poco chiara, dovremmo indagare un po' più a fondo.» la prima voce che sentì era quella di un uomo. La tonalità profonda e controllata gli fece venire in mente un uomo maturo e pacato «Non percepire una presenza umana nell'ombra mi sembra impossibile, per loro.» 

«Assolutamente» la seconda voce era di donna «infatti non l'hanno presa benissimo» una leggera di ironia trapelava dalle sue parole e da come terminò la frase, acuendo le ultime parole, comprese che la stessa aveva sorriso. 

In un lampo, le fattezze di un viso, gli apparvero davanti agli occhi.  

Quella voce musicale l'aveva già sentita e, automaticamente, il suo cervello l'aveva associata ad un volto. 

«Ho notato» rispose l'uomo. 

«Quando sono così diventano intrattabili» nuovamente una risata leggera «Ho imparato che basta lasciarle nel loro brodo, sbolliscono in fretta». 

"Bel". La ragazza nella stanza, ne era certo, era quella che aveva tanto agognato di incontrare nuovamente. E ora era lì, girato letteralmente l'angolo. 

«Speriamo» aggiunse l'altro «Comunque...Saranno svegli i nostri ospiti?»  

Giovanni sgranò gli occhi alla domanda e si appiattì contro il muro alle sue spalle come un ladro appena colto in flagrante. L'avrebbero scoperto mentre spiava e avrebbe fatto una figura meschina. 

«Non saprei, vado a contro...»  

«Ehm...» si schiarì la voce, dovette prendere a due mani tutto il suo coraggio per farlo. Fece un passo avanti e valicò il fatidico angolo che lo separava dal resto della stanza. 

Si palesò davanti ai due con la mano alta in segno di saluto «Buongiorno» proferì timidamente. 

I due lo guardarono in tralice per qualche istante mettendolo in imbarazzo. Fu Bel a rompere l'incanto alzandosi dalla poltrona in sui era seduta e sorridendogli ampiamente «Ben svegliato, Giovanni» la sua spontanea felicità lo contagiò subito e le sorrise di rimando «come ti senti?» 

«Un po' rintronato e leggermente affamato, ma nel complesso abbastanza bene» si grattò la nuca e abbassò lo sguardo al pavimento cercando di nascondere l'impaccio che provava. 

Bel si avvicinò, allungò la mano verso il volto del ragazzo e dolcemente lo alzò verso il suo. La pelle del volto di Giovanni cambiò colore con la velocità degna di un camaleonte, peccato che non riuscì a mimetizzarsi con l'ambiente circostante. 

La risatina che l'altro presente cercò di nascondere non aiutò la situazione. 

Bel, come ignara di ciò che stava succedendo, concentrò la sua attenzione sul bozzo sulla fronte che aveva assunto una colorazione violacea.  

«Hai preso una bella botta» proferì con una punta di dispiacere che il ragazzo colse immediatamente «ma vedrai che guarirai presto» lasciò la presa leggera e unì le mani in grembo. 

Giovanni la guardò, incantato, per qualche secondo prima di tornare a parlarle «Sicuro» inarcò l'angolo delle labbra e emise una risatina strozzata. 

«Ottimo, allora vuoi mangiare qualcosa?» chiese la ragazza. 

Giovanni la guardò e poi spinse lo sguardo verso l'uomo alle sue spalle.  

La prima cosa che notò fu l'abito ecclesiastico con la fascia bianca che spuntava dal colletto alla romana, collegò quell'immagine al crocefisso presente nella stanza e all'immagine della madonna sul comò e comprese che la casa era di sua proprietà. 

«E' Padre Samuele, un mio caro amico» l'uomo alzò la mano in segno di saluto. Era comodamente seduto su una poltroncina in stoffa e non sembrava avere intenzione di alzarsi.  

Aveva i capelli brizzolati, ormai quasi bianchi e una leggera stempiatura in progressivo aumento verso il centro del capo.  

Lo guardava con vispi occhi castani fortemente in contrasto con il groviglio di rughe che li circondavano e che gli donavano un'aria fortemente vissuta. 

«Piacere, io sono Giovanni» proferì cercando di essere il più cordiale possibile. 

«Lo so» rispose l'altro gioviale facendo poi un cenno verso la ragazza «Purtroppo non ho molto. Puoi fargli un panino con del prosciutto oppure della pasta. L'una e mezza è l'ora giusta del resto» ridacchio. 

«Una e mezza?» Giovanni li guardò entrambi con stupore ricevendo dei sorrisini imbarazzati in risposta «Ma da quanto tempo sono qui? E soprattutto, perché sono qui?» alternò lo sguardo tra i due e li colse e scambiarsi un'occhiata fugace. 

Fu nuovamente Bel a parlare e Giovanni sapeva che alle sue parole non avrebbe saputo dire di no. 

«Ti preparo qualcosa, una volta che avrai mangiato ti spiegherò cosa è successo. Ti va?» 

Lo stomaco di Giovanni brontolò e lui abbasso lo sguardo torvo in direzione della sua pancia. La curiosità era forte e premeva tra le pieghe della sua mente ma a stomaco pieno sarebbe riuscito a comprendere meglio la situazione in cui si trovava. 

«Va bene» asserì «Mi va bene un panino. Il bagno?» chiese successivamente. 

«La porta in fondo al corridoio» Bel sorrise e lui si rasserenò.  

... 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 13 agosto, ore 13.00 - parte 2 ***


 

13 agosto, ore 13.00 

Layla era seduta su una vecchia sedia in legno il cui rumore cigolante era tutto fuorché rincuorante. 

Eppure si era seduta nel modo più composto possibile e aveva cercato di rimanere ferma e tranquilla, proprio come le aveva chiesto sua sorella.  

Ma non vi era nessuna possibilità che quella sedia reggesse. Non solo era vecchia, il legno era consunto e si potevano vedere bene i fori lasciati dalle tarme che ora non risiedano più all'interno di quel pezzo da museo. 

Si chiese se in quel posto ci fosse almeno un apparecchio o mobilio che fosse stato comprato dopo il 1900. 

Qualsiasi oggetto all'interno di quella casa era datato e fatiscente. 

L'unico che aveva un'età inferiore ai 30 anni era la TV, ma solo perché l'ultima volta che erano passate a trovarlo lo avevano costretto ad abbandonare l'idea di aggiustare la sua TV a tubo catodico per comprare uno dei nuovi modelli a schermo piatto. 

Non era certa ma doveva essere verso la fine del ventesimo secolo, inizi del ventunesimo. 

Samuele era un umano della peggior specie a suo parere, soprattutto perché ancora non aveva comprato delle sedie che potevano definirsi tali. 

Sbuffò e si alzò, guardò il mobile con astio e si sedette per terra. Almeno le piastrelle erano fresche. 

Della temperatura stavolta non poteva lamentarsi. In quel garage interrato si stava abbastanza bene. Il sole non batteva direttamente sulla muratura e due piccole finestrelle, poste sulla zona posteriore permettevano il ricircolo d'aria necessario a non far surriscaldare la stanza. 

Tirò un sospiro di sollievo e si lasciò andare contro la parete in cemento posta alle sue spalle. La zigrinatura del muro le pizzicava il cuoio capelluto ma non aveva soluzioni alternative, al momento. 

Davanti a lei dormiva ancora, di un sonno agitato e incostante, la donna che avevano prelevato insieme a Giovanni. 

La vedeva contorcersi animatamente tra le lenzuola. Si girava a scatti come un pesce appena pescato e lasciato a morire su una pietra rovente in riva ad un fiume. Sudava copiosamente, la maglia si era scurita e la stoffa le si era appiccicata al corpo come una seconda pelle. 

L'incarnato si era impallidito durante lo scorrere del tempo mentre i tratti del volto erano alterati dalle smorfie di sofferenza che si susseguivano nel tempo.  

Layla però l'aveva intravisto, sulle labbra cianotiche, un riso maligno stagliarsi chiaro come la luna crescente in una notte senza stelle. 

Oltre quel sorriso, sapeva che si nascondeva il vero colpevole delle violenze compiute da quella ragazza. Era la voce sibillina che nasceva dalle anime dannate che riuscivano a scappare alle pene infernali.  

Quelle parole corrotte si insinuano nella mente facendo vacillare ed infine crollare qualsiasi credo eretto a muro intorno all'Io più profondo. Iniziano poi a scavare nella carne. Le puoi quasi percepire mentre con le loro zampe si insinuano tra le viscere, lasciando scie purulente lungo la strada. 

Quando arrivano all'cuore vi si annidano come parassiti e come tali si nutrono delle passioni vitali che sostengono il loro ospite, fino a consumargli l'animo.  

Quando questo è appassito e morente il parassita, gonfio di vita, esplode nel petto e si diffonde come una malattia nel corpo dell'ospite fino a prenderne completo possesso. 

È un processo che, lungo o breve che sia, risulta straziante. È come se venissero tirati contemporaneamente tutti gli arti del corpo verso l'esterno fino a che non vengano recisi di netto. 

Il rantolo della donna la strappò dai suoi pensieri. 

Aveva smesso di agitarsi e ora giaceva supina ed immobile. 

Layla si alzò e si avvicinò, osservandola con discrezione. Era abbastanza giovane e, in situazioni migliori, doveva essere anche una ragazza mediamente piacente.  

Era stata davvero sfortunata a diventare vittima di un demone, la sua vita sarebbe cambiata in modo radicale, sempre che fosse riuscita a sopravvivere. 

La vide aprire gli occhi di scatto, il marrone dell'iride era annebbiato e spento. 

Rimase in fissa ad osservare il soffitto e successivamente alzò un braccio verso l'alto. Mosse le dita, dapprima singolarmente e poi insieme. Chiuse la mano a pugno, infilando le unghie scheggiate nella pelle coriacea del palmo per poi ridistendere le dita verso l'esterno. 

Piegò il gomito verso l'interno e lo ridistese all'esterno.  

Tastò la pelle con l'altra mano. Poteva percepire il tocco delle dita sulla pelle e la sensazione della pelle morbida sulle dita.  

Poteva avvertire tutto. Era sdraiato su un letto, le coperte lo circondavano e gli si aggrappavano al corpo come tentacoli. Erano umide e sapeva che era stato lui ad emettere quella sostanza acquosa che aveva impregnato tutto, i vestiti che ora stava indossando e i capelli che gli si erano appiccicati al volto come carta moschicida. 

Li scostò, con disgusto, sopra la testa.  

Piegò le ginocchia, le ossa cigolarono e i muscoli si lamentarono, ma non era importante. Finalmente quel corpo era diventato suo. 

La fastidiosa presenza umana si era finalmente arresa, aveva abbandonato il posto di timoniere per relegarsi in un angolo della sua mente a piangere e a disperarsi.  

Lui non aveva atteso, aveva chiuso la porta di quel minuscolo ripostiglio e aveva preso il comando della nave. Non avrebbe più dovuto aspettare la notte, che lei dormisse per poter uscire allo scoperto. 

Quel corpo era suo, unicamente suo. 

L'unica lamentela era il sesso, avrebbe preferito il corpo di uomo, strutturalmente più solido e meno problematico ma ci avrebbe fatto l'abitudine. 

Un leggero colpo di tosse lo costrinse a girare il capo. 

Una donna era ferma accanto a lui. Sorreggeva il peso del corpo su un'unica gamba tesa, mentre l'altra era leggermente piegata con la punta del piede che batteva ritmicamente sulle piastrelle del pavimento. 

Aveva le braccia conserte, dai muscoli tesi si poteva capire che la posizione non era rilassata. 

Ciò che lo fece scattare sulla difensiva fu lo sguardo affilato come la lama di un rasoio posato sulla sua stessa persona. Si sentì penetrare da quello sguardo e, in un remoto angolo della sua testa, gli sembrò di percepire il dolore proveniente dalla ferita. 

Scattò in piedi, la dolenza delle gambe lo portò quasi a ricadere a terra. Dovette imprimere molta forza nei muscoli delle gambe per non perdere la posizione, non perfettamente eretta, che aveva assunto. 

«Ben svegliata» proferì con voce annoiata. 

Il demone la guardò con gli occhi della donna. Avevano riacquisito una leggera parvenza vitale ma ci sarebbe voluto ancora del tempo perché tornassero a sembrare davvero vivi. 

«Ti conosco» era una domanda solo per metà. In realtà, quella figura, l'aveva recuperata nei ricordi della donna che lo ospitava. Era quella che avevano evitato qualche mattina precedente, la stessa che avevano trovato nell'appartamento ed era la stessa che l'aveva seguita nei vicoli. 

Ma chi fosse, non lo sapeva ancora. 

Nell'occhio rosso riconosceva il simbolo della possessione, ma qualcosa non andava. 

Del resto non era la donna da cui doveva stare lontano? I ricordi della donna erano confusi dai sentimenti di paura. 

«Conoscere è una parola forte» Layla alzò la mano destra poggiando le dita sulla guancia «Ci siamo già viste, quello » accennò l'ombra di un sorriso e mosse un passo lateralmente, dando il fianco al suo interlocutore. 

«L'hai aspettata nell'appartamento e poi l'hai inseguita nel vicolo» fece una pausa e sondò nei ricordi grigi della donna. Qualcosa non andava perché in quel ricordo la donna che aveva davanti aveva i capelli bianchi. 

Si sedette sulla branda, le gambe le dolevano e la testa aveva iniziato a pulsarle. Prese un respiro «Avevi i capelli bianchi» corrugò la fronte e infine si colpì la tempia con il palmo della mano «Dannazione» imprecò. 

Layla si fermò, guardandolo di sbieco «Era mia sorella» spiegò ruotando su sé stessa per tornare a fronteggiarlo «L'idea era quella di esorcizzarla da te ma purtroppo è scappata usando parte dei tuoi poteri» sospirò. Sembrava infastidita «Così ho dovuto inseguirla, fortunatamente non era molto sveglia»Fece spallucce. 

«Sfortunatamente per me» digrignò i denti, le guance sussultarono nel tic nervoso.  

Quando tornò a guardarla sfoggiava un ampio ghigno che gli distorceva i lineamenti femminei «Ma potrei sempre ritentare» si alzò di scatto. Sentì le gambe tremare nello sforzo ma non gli concesse di cedere. Sporse in avanti il busto e cercò di allungare le braccia verso la donna, le mani erano già poste l'una di fronte all'altra con le dita disposte come artigli protesi verso la presa. 

Layla lo guardò con noncuranza mentre rimbalzava come una pallina elastica contro il muro che aveva eretto a gabbia di contenimento. Tornò indietro con una forza talmente intensa che rovinò contro la branda rischiando di farla ribaltare. 

«Ma che cazzo!» sbraitò. 

La donna scosse la testa in senso di diniego «Pensavi davvero di essere libero di potertene andare?» 

Flesse il busto in avanti e portò le mani oltre la schiena, posandole appena sopra il fondoschiena. Lo sguardo che gli volse era vuoto, come se si stesse rivolgendo al più misero essere presente sul pianeta «Questa sarà la tua prigione fino a che non decideremo cosa farne di te». 

L'essere ricambiò con uno sguardo pieno del più profondo astio «Spera solo che io non riesca ad uscire» la minacciò con voce roca mentre l'altra si riportava eretta e spalancava gli occhi mimando un'espressione sbalordita che le uscì poco convincente. 

«Si si, certo. Ah, già che ci siamo» esordì già dimentica della minaccia «Tu chi sei?» domandò piegando il capo di lato nell'attesa della risposta. 

L'essere la osservò in tralice, cercando quale fosse l'inganno in quella domanda. «Perché ti interessa?» ringhiò verso la donna. 

Gli angoli delle labbra si inarcarono naturalmente verso l'alto di pochi millimetri donandole un leggero tocco di malizia nell'espressione prima assente. Ciò che più attirò l'attenzione del demone fu però l'occhio rosso che assunse una tinta più accesa. 

«Mera curiosità» si avvicinò alla gabbia facendo ritrarre istintivamente l'altro che si maledì per il gesto. Allungò il braccio e con la punta delle dita sfiorò la parete invisibile che li separava. Piccole scintille azzurre scaturirono da quel contatto riversandosi nell'aria come piccoli fuochi d'artificio ignorati dai presenti. 

Il demone, dagli occhi del suo ospite, guardava la sua carceriera seguendola nei suoi spostamenti come si seguono le movenze di un serpente velenoso. 

La lingua di Layla passò lenta sul bordo delle labbra, seguendone il disegno perfetto «Lo vuoi sapere?» domandò con voce melliflua. 

«Cosa» rispose con ritrosia l'altro.  

«Chi sono io» il sorriso si accentuò mentre portava ora la mano verso il suo petto che premette leggermente proprio sopra il seno. Non vi era dolcezza, ma una profonda e radicata malizia che sbocciò quasi innaturale su quel volto prima asettico. 

L'altra si alzò e fece un passo in avanti. Le braccia tese lungo i fianchi tremavano lievemente. Quella situazione di stallo le provocava una rabbia che faceva fatica a gestire, ma quel muro di gomma non le dava la possibilità di sfogarsi in modo adeguato. 

Quanto avrebbe voluto squarciare il suo bel petto.  

Affondare una lama affilata, in verticale, nella giugulare e poi farla scorrere verso lo sterno per far zampillare come acqua sorgiva il denso liquido rosso che imperversava nelle vene. 

Si sarebbe bagnato, ne avrebbe bevuto e avrebbe brindato alla fine di quella vita insulsa che pulsava oltre quei seni che avrebbe reciso come un fiore. 

Si sarebbe poi divertito con il cadavere. L'avrebbe sezionato separando accuratamente tutti gli organi. Avrebbe iniziato scavando dentro il bulbo oculare con le sue stesse dita e godendone pienamente mentre strappava quegli occhi ora sprezzanti.  

«Chi sei»  

Colei che era ed è Layla si avvicino sinuosa come una gatta in calore.  

Protese la testa in avanti e la piegò leggermente di lato dischiudendo le labbra tra le quali fece capolino la punta rosea della lingua che schiacciò dolcemente tra gli incisivi. 

L'altra sentì il respiro aumentare e un calore innaturale risalire dall'inguine.  

Forse avrebbe potuto giocare un po' con quella lingua prima di tagliargliela. 

Una risatina la fece trasalire, la stava deridendo. Oltre quel muro la stava schernendo come si può fare come un bambino. Ma lui non era un bambino e lei non doveva permettersi niente del genere. 

«CHI SEI!» urlò, chiudendo le mani di quel misero corpo in piccoli pugni. 

Lei aprì di nuovo le labbra e in un sussurro lieve proferì «Io sono....» 

... 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 13 agosto, ore 14.00 ***


Dopo un'oretta erano tutti e tre seduti sulle poltrone del salotto. Erano abbastanza comode anche se la stoffa rovinata e il cigolio emesso dalle molle facevano intendere che l'anno di produzione risaliva a prima dell'avvento del ventunesimo secolo. 

Giovanni aveva scelto quella più vicino alla finestra, dalla quale un timido filo d'aria entrava a rinfrescare la casa. Accanto a lui si era posizionato Padre Samuele mentre di fronte a loro aveva preso posto Bel. 

Regnava un silenzio quasi innaturale all'interno della stanza, neanche il rumore delle macchine riusciva ad infrangerlo e Giovanni iniziò a chiedersi in quale parte di Milano si trovasse al momento ma quello era il suo problema minore. 

Aveva anche chiamato a casa mentendo sul fatto di essersi trattenuto più del dovuto a casa di Michele e alla fine essersi addormentato sul divano fino a pomeriggio inoltrato. 

Bel si sistemò al meglio la gonna con pacche decise ma morbide e solo successivamente si rivolse a Giovanni «Forza, chiedi pure». 

Il ragazzo si schiarì la voce, mordicchiò l'interno del labbro inferiore e iniziò a parlare «Ho sinceramente un vuoto di memoria. Ricordo di aver lasciato la casa del mio amico, neanche troppo tardi e poi riapro gli occhi qui» si grattò con la punta dell'incide la punta del mento dove piccoli ciuffi ci barba incolta iniziavano a fare capolino «Cosa è successo? Come mai mi trovo qui?»  

Bel allargò un sorriso tirato dal quale traspariva un certo turbamento «Sei qui perché ti abbiamo trovato svenuto in un vicolo»  

Giovanni inarcò un sopracciglio «Svenuto in un vicolo?» la domanda era prettamente retorica. 

«Si. Eri incosciente in un vicolo. Dove di preciso, Samuele?» la ragazza si rivolse all'uomo che rispose velocemente «Nei dintorni di Piazzale Loreto». 

Giovanni corrugò la fronte cercando di spremere le idee che risiedevano statiche dentro la scatola cranica. 

«Ah» esclamò quando il ricordo della metropolitana riaffiorò nella sua mente «Avevo preso la metropolitana Rossa che si era ovviamente bloccata per un guasto alla linea. Ci hanno fatto scendere a Loreto e ho deciso di tornare a casa a piedi visto che non abito distante».  

Bel annui un paio di volte facendo svolazzare i crini candidi che erano sfuggiti all'ampia treccia posata elegantemente sulla sua spalla destra «Ottimo! E dopo?»  domandò. 

Giovanni increspò ancora di più la fronte, andando a socchiudere gli occhi nello sforzo del ricordo. Rimase in silenzio qualche istante e poi scosse sconfortato il capo «Niente, è tutto nero»  

Bel guardò Padre Samuele lasciandosi sfuggire una punta di sconforto nell'espressione morbida ma l'uomo le sorrise e si rivolse a Giovanni con voce piena «Non preoccuparti e non cercare di sforzarti troppo. Vedrai che i ricordi riaffioreranno da soli». 

Giovanni annuì alle sue parole e trovandosi incoraggiato dall'espressione risoluta che gli mostrava l'uomo. Del resto come poteva non avere ragione, la botta sarà stata più forte del previsto ma a breve avrebbe ricordato tutto. 

Anche se in realtà, nel profondo, qualcosa gli diceva che non sarebbe stato un ricordo da incorniciare. 

Abbozzò un leggero sorriso, poi sospirò e cercò di rilassarsi sulla poltrona. Bel lo vide chiudere gli occhi, allungare gli arti e iniziare a respirare con più calma e profondamente. 

Quando riaprì gli occhi incontrò quelli azzurri di Bel. Il sole che entrava dalla finestra le schiariva le iridi tanto da farle quasi diventare bianche. 

Con i capelli argentei e la pelle candida era la rappresentazione vivente della diafana bellezza che tanto contraddistingue gli angeli.  

Scostare lo sguardo dal suo volto era uno sforzo che doveva continuamente fare per evitare di far trapelare dalle sue espressioni quei sentimenti confusi che continuava a provare e che lo sconvolgevano totalmente. 

Ad un tratto, al volto della ragazza si sovrappose un'immagine. 

Era sempre il suo volto ma un occhio aveva assunto la colorazione del sangue venoso, un rosso cupo con venature nere che dipartivano dalla pupilla e si diramavano come veleno per tutta l'iride.  

I capelli invece erano neri come il fondo di un pozzo profondo dove alla luce non era concesso arrivare. 

Una fitta di dolore gli trapanò il cervello con insistenza, premendo dalle tempie e districandosi per arrivare alla base del capo. Strinse i denti e chiuse gli occhi mentre con le mani si afferrava saldamente il capo cercando di trattenere le placche ossee dall'esplodere. 

«Ahhhh» si lasciò sfuggire un gridolino di dolore mentre si piegava su sé stesso.  

Fu breve, il dolore scemò in pochi istanti nei quali Bel si precipitò verso di lui mentre Padre Samuele lo guardava preoccupato.  

Giovanni sentì le mani delicate della ragazza posarsi sulle sue spalle «Stai bene?» la preoccupazione nella voce era palese «Cosa è successo? Cosa ti fa male?»  

Lui si massaggiò le tempie con movimenti circolari delle dita e poi tornò eretto. Quando sollevò il capo si trovò a pochi centimetri di distanza dal volto della ragazza.  

La guardò con occhi lucidi e un'espressione turbata che acuì la sua preoccupazione. 

«Tua sorella...» disse con voce bassa e fremente «Tua sorella non c'è, vero?». 

Bel chinò la testa verso la spalla destra, la treccia si allungò sino a quasi toccare le gambe del ragazzo, poi guardò incerta Padre Samuele che, posandosi una mano sul petto per prendere la parola, parlò a nome di entrambi «Perché fai questa domanda?» 

Giovanni sgranò gli occhi e rimase imbambolato tra i due presenti. Perché. Era una domanda difficile a cui non sapeva rispondere.  

Le era apparsa improvvisamente in mente come quelle immagini che vuoi cancellare dalla tua testa ma che rimangono sopite sul fondo dei pensieri e si ripresentano nel momento meno appropriato per farti sentire male. 

«Io...» poggiò la mano destra sulla fronte, premendo il bernoccolo che svettava su di essa. Il dolore si fece sentire subito e lo riportò alla realtà «...Non lo so». 

Bel si inginocchiò davanti a lui, con le braccia teneva la gonna intorno alle gambe. 

Lo guardava con occhi seri ma, data l'apparenza, gli ricordava più una bambina che tentava di essere adulta di fronte ai suoi genitori. 

Quando parlò lo fece con decisione «E' stata lei a trovarti. Ti ha trovato Layla nel vicolo» 

"Noi abbiamo trovato lei" 

La voce, improvvisa, riecheggiò nella sua testa trafiggendolo con mille aghi caldi. 

Si piegò su sé stesso, se avesse potuto si sarebbe staccato la testa con le sue stesse mani. 

Bel lo vide premersi con forza le tempie, la pelle della fronte era increspata e cosparsa di gocce di sudore mentre un'espressione di sofferenza andava a deformargli i tratti del volto. 

«Giovanni» la voce di Bel che lo chiamava sembrava lontana, ma sentiva le sue mani sulle spalle. Non poteva essere più lontana di così, era solo una sensazione di alienazione derivante dal quel dolore pungente. 

Ancora una volta un ricordo affiorò alla sua mente, come un pesce colto all'amo da un abile pescatore a mosca. 

Erano le stesse sensazioni che aveva provato la sera precedente. 

Si rammentava quella voce accompagnata da improvvisi spasmi, la fatica che faceva a pensare, a mettere ordine nelle idee, a recuperare il controllo del proprio corpo. 

Riaprì gli occhi a stento e si accasciò sullo schienale della poltrona, affaticato. Non ricordava di essersi mai sentito così tanto spossato, neanche dopo una notte insonne. 

I due presenti lo guardavano preoccuparti. 

«Sto impazzendo» proferì con un filo di voce. 

«Perché?» domandò la ragazza con gentilezza. 

«Perché sento le voci» si lasciò scappare una risatina isterica mentre una lacrima gli rigò l'angolo del viso. 

«Che voci senti?» con il palmo della mano, Bel, gli carezzò la guancia, asciugando la lacrima solitaria prima che toccasse la punta del mento. 

Quel contatto sembrò tranquillizzarlo. 

«Non lo so, delle voci. Dicono che l'abbiamo trovata, che è vicina.». 

Si sentì afferrare il volto. Tornò a specchiarsi negli occhi celesti della ragazza «Chi Giovanni, di chi parli?» non c'era cattiveria nella voce, ne imperatività ma quella dolcezza tipica delle madri che cercano la verità nelle bugie dei figli monelli. 

«Non lo so» fu la risposta, ma non era sicuro fosse quella giusta. 

«Hai chiesto di Layla» intervenne pacatamente l'uomo. 

Giovanni volse le iridi in sua direzione «Si» mormorò «ma non so, non lo so». 

Entrambi lessero lo smarrimento negli occhi del ragazzo.  

Bel lasciò scivolare il volto dalle mani e allargò un sorriso solare «Non preoccuparti». 

Giovanni si massaggiò la fronte, era facile per lei dirlo, ma riuscire a non preoccuparsi era, al momento, la cosa più difficile che potesse fare. 

«Forse dovrei andare in ospedale o meglio, da uno psichiatra» rimase in silenzio. Il dolore iniziò ad acquietarsi e i pensieri a riallinearsi ordinatamente nella testa. 

Fu in quel momento, dove tutto sembrava riassumere il senso che aveva perso, che gli venne un dubbio. 

«Perché mi avete portato qui e non in un ospedale?» domandò. 

Bel, nuovamente, scambiò un rapido sguardo d'intesa con Samuele. Quell'ennesimo scambio fece in qualche modo irritare il ragazzo. Tutti quegli sguardi complici, come se stessero cercando di nascondergli qualcosa. 

Fece scivolare la mano sul volto. Non era possibile. L'immagine che si era fatto di Bel non considerava affatto la possibilità che potesse avere dei segreti o nascondere qualcosa. 

«Non sembravi grave» rispose la stessa ragazza. 

«Ma ora sento le voci» mugugnò lui in risposta. 

Bel sospirò e accennò un sorriso che sembrò, a tratti, tirato o probabilmente era solo stanco «Ieri sera non lo sapevamo...» Le guance le si imporporarono «...inoltre non credo sia qualcosa di risolvibile con l'ospedale. Magari basta un po' di riposo...» 

Giovanni digrignò i denti e strinse i pugni, era avvilito, stanco e leggermente arrabbiato ma non voleva scaricare la sua irritazione contro la ragazza.   

Indipendentemente da tutto quello che stava succedendo non voleva mettere in dubbio la sua buona fede. 

«Potrei avere un tumore al cervello» esordì con la prima cosa che gli venne in mente. Doveva averlo visto in un film, un tumore che preme su qualche ghiandola e ti fa sentire le voci, a breve avrebbe visto i fantasmi e poi probabilmente sarebbe impazzito completamente. 

Bel lo guardò. Nei suoi occhi, Giovanni, lesse comprensione per quella paura che gli attanagliava le viscere e gli serpeggiava tra gli organi interni come un viscido lombrico. 

Si accucciò al suo fianco e gli prese la mano tra le sue. Aveva mani piccole e bianche come quelle di una bambina, ma la presa era forte e decisa e trasmetteva sicurezza. 

Sentì un po' di quella paura sciogliersi. 

«Ascolta Giovanni, non so che cosa tu possa avere ma ti giuro che non è un tumore al cervello né nessuna malattia che il tuo ospedale possa curare» lo guardava con un'intensità tale che Giovanni non riusciva a non credere alle sue parole. 

Ma il dubbio è come un verme, scava nel profondo e solo quando appare il buco sulla buccia della mela ti accorgi che è presente. 

«Come fai a saperlo?» Domandò lui 

Non fece in tempo a rispondere alla domanda, all'interno della casa una porta cigolò sui vecchi cardini.  

"È LEI, È QUI. È NOSTRA FINALMENTE!" 

La voce gli permeò in tutte le fibre corporee provocandogli dolori lancinanti non solo alla testa ma in ogni singola parte del corpo. 

Si chiuse su sé stesso, premendo le mani con forza contro le orecchie, anche se sapeva che quella voce proveniva dal profondo del suo essere e non l'avrebbe mai isolata, in nessun modo. 

Digrignò i denti e iniziò a piagnucolare «Basta, vi prego basta. Fa male...» 

«Giovanni!» Allarmata, Bel, lo chiamò a gran voce. Gli posò le mani sulle spalle, stringendo le piccole dita su queste e facendo forza per cercare di farlo distendere.  

Anche Samuele cercò di aiutarla, ma fu inutile. 

Il ragazzo era più forte di quello che, la sua figura magra, lasciasse intendere. 

«Bel, Sam, sono qui» la voce di Layla, che faceva capolino dalla porta, si diffuse secca per tutte le stanze e poi seguì il silenzio. 

Giovanni aveva smesso di tremare e i suoi muscoli avevano iniziato a rilassarsi. Entrambi i suoi soccorritori lo sentirono distendersi e allentarono la presa facendo un passo indietro per lasciargli spazio. 

Intanto Layla si era bloccata con la porta ancora in mano, dal fondo della scala si innalzò un urlo innaturale che fece rizzare i capelli della nuca della mora. 

«Cosa sta succedendo qui?» domandò a se stessa storcendo le labbra in una smorfia disgustata. 

«È qui, finalmente» un rantolo uscì dalle labbra del ragazzo. 

Lentamente si alzò dalla seduta. 

Prima distese le gambe che sollevarono la parte superiore del corpo, il busto restò per qualche secondo chino in avanti con le braccia a penzoloni, insieme alla testa che ciondolava a ritmo di una nenia inesistente.  

A Bel ricordò una marionetta appesa in attesa di essere utilizzata. 

Con un movimento meccanico e secco riportò eretto il busto, il capo rimase piegato in avanti, leggermente storto verso sinistra. Aveva gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta dalla quale continuava a ripetere "È lei, è qui, è lei...". 

Bel fece un passo verso Padre Samuele, che guardava la scena con occhi esterrefatti. Nessuno dei due riuscì ad emettere un singolo suono. 

A quello che doveva essere Giovanni gli ci volle qualche secondo prima di riuscire a riportare in posizione anche la testa. 

Con occhi vacui osservò lo spazio circostante. Girò su sé stesso, rischiando di cadere un paio di volte inciampando sui i suoi stessi piedi. 

Quando si fermò lo videro barcollare instabile e poggiare la mano sul divano al suo fianco per ritrovare l'equilibrio. 

«Giovanni?» domandò Bel socchiudendo i suoi occhi chiari per studiarne la figura. 

Lui la guardò in tralice per qualche secondo e poi tornò a guardare sé stesso. Alzò le braccia verso l'alto e le osservò con attenzione, facendo passare le mani sulla pelle scoperta. Inarcò le sopracciglia e spalancò gli occhi in un moto di sorpresa, come se avesse scoperto qualcosa di nuovo. 

Spostò le mani verso il torace, lo tastò con la punta delle dita premendo con intensità come per tastarne la consistenza e la resistenza.  

Passò al collo e si soffermò sulla giugulare, risalì al viso del quale seguì il profilo con minuzioso interesse e si fermò sui capelli a spazzola che strinse tra le dita e tirò leggermente. 

Quando riabbassò le mani tornò a guardare la ragazza, l'espressione vuota la colpì con forza e la fece barcollare, tant'è che dovette appoggiarsi per un istante a Samuele il quale la guardò pieno di preoccupazione. 

Ciò che la fece tremare non fu solo il non riconoscere, in quegli occhi nocciola, il ragazzo impacciato che aveva incontrato a Milano nei giorni precedenti ma il non saper riconoscere chi era ora presente al suo posto. 

Dei passi risoluti fecero trasalire tutti i presenti nella stanza che volsero il capo in direzione del corridoio dal quale spuntò la figura di Layla. 

«Cosa sta succedendo...»  

Lo spostarsi indietro fu solo istinto. Un riflesso incondizionato sviluppatosi in secoli di battaglie affrontate contro le più strane creature esistenti sulla terra e oltre ad essa. 

Quando percepì l'onda d'urto sfiorarla insieme ai calcinacci derivanti dall'abbattimento del muro che separava la cucina dalla sala fu sicura che, ancora una volta, non aveva sbagliato. Aveva agito correttamente. 

Un secondo prima che fosse ritirata riuscì a carpire l'immagine di ciò che le era stato scagliato addosso. Una catena dorata riluceva pomposa alla luce del sole pomeridiano. 

Bel e Padre Samuele sentirono inizialmente solo il muoversi dell'aria e il tremendo suono dato dal collasso della muratura, ciò che videro dopo li lasciò esterrefatti. 

Giovanni aveva allungato la mano sinistra in avanti, dal palmo – irradiato d'oro – fuoriuscivano delle lunghe catene dorate che si erano dapprima infilate con foga nel muro e poi depositate con pesantezza a terra. 

Tornarono indietro con un unico scatto della mano e svanirono all'interno del vortice contenuto nel palmo del ragazzo che richiuse tra le dita magre le cui ossa scricchiolarono in modo allarmante. 

Calò il silenzio per un breve istante, il ragazzo si guardò la mano come se non l'avesse mai vista. Strinse gli occhi e infine stirò le labbra in quello che doveva essere un sorriso «Ora tornerai con noi». 

E così avanzò. 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 13 agosto, continua ***


13 agosto, continua


«Fermati, Fermati Giovanni» Bel, di impeto, si lanciò in avanti e afferrò il ragazzo.  

Chiuse le suo piccole dita intorno al polso e rimase stranamente di stucco quando non riuscì a compiere il giro completo. Eppure le era sembrato così gracile. 

Tirò leggermente, puntando i piedi sul pavimento ma una forza che non riuscì a riconoscere la spinse indietro con vigore.  

Si sentì lanciare nell'aria, vide davanti a sé la figura di Giovanni che si allontanava, il braccio allungato in avanti, fermo a conclusione dell'azione. Non fece in tempo a formulare il pensiero che con la schiena colpi qualcosa di troppo morbido per essere un mobile. 

Il contraccolpo le fece perdere l'orientamento per un istante ma il grugnito alle sue spalle la fece tornare in sé più velocemente di quanto avrebbe potuto pensare. 

«Samuele!» giaceva alle sue spalle, dolorante. Si era frapposto tra lei e il mobilio, fungendo da ammortizzatore. 

«Sto bene» rantolò cercando di riacquisire una posizione più degna di quella sdraiata a terra scomposto. Un dolore acuto gli pungeva proprio alla base della schiena, era conscio che alla sua età non si sarebbe più ripreso da una contusione del genere, i suoi vent'anni se li era lasciati alle spalle da tempo. 

Tossì e allungò il braccio oltre la spalla di Bel «Almeno l'hai distratto» Bel si girò di scatto e, senza bisogno di seguire l'indicazione dell'amico, vide che il ragazzo li osservava con un'indecifrabile espressione. 

Il fracasso provocato da Samuele contro i mobili fece uscire Layla allo scoperto. I secondi che perse ad osservare sua sorella accovacciata accanto a prete furono infinitesimali e non le fecero perdere l'occasione di approfittare del ragazzo ora girato di spalle. 

L'ombra si mosse alla stessa velocità del suo pensiero, non dovette neanche indicarle il punto di presa. In pochi istanti fiorì dal terreno come la gramigna, si avvinghiò alle caviglie della presa e risalì sinuosa lungo il corpo per poi chiudersi, silenziosa e letale, al collo del ragazzo serrando così l'unica via di entrata della preziosa aria. 

Bel vide Giovanni sbarrare gli occhi, la sorpresa gli si dipinse sul volto. Portò le mani verso la giugulare e cercò di liberarsi di quella presa che lo privava di una risorsa preziosa per quel corpo mortale.  

«Layla non fargli male!» la voce di Bel era una supplica, ma nel tono si potevano intravedere chiare delle sfumature che la portavano verso l'ordine perentorio. 

«Solo il necessario, Bel» proferì secca la gemella senza distogliere lo sguardo dalla sua preda che si grattava convulsamente il collo cercando di ripristinare la funzionalità della sua gola.  

Sulla pelle si formavano profonde righe rosse, ma le unghie non riuscivano a scalfire le dita di ombra che si chiudevano intorno al collo. 

Tutti videro la pelle iniziare a perdere diverse tonalità di colore e gli occhi erano irradiarsi di piccole radici rosse che partivano dall'iride sino a perdersi oltre l'orbita. 

Boccheggiò come un pesce fuor d'acqua, allungò la mano verso la donna che lo fronteggiava sprezzante e cercò di fare alcuni passi in avanti nel tentativo di raggiungerla. 

Ma le forze venivano meno, le sentiva scivolare via insieme alla coscienza di  

Bastava solo un passo, un solo ed unico passo e l'avrebbero finalmente presa, l'avrebbero riportata al luogo d'origine e avrebbero concluso il loro dovere. 

Ma quel corpo non si muoveva, non rispondeva più bene e sapevano che la causa di tutto era lei, era sempre lei. 

Gliel'avrebbero fatta pagare.  

Non ebbe la necessità di parlare, non ce ne sarebbe stato neanche il tempo ma del resto erano legate da sempre e i pensieri, tra di loro, scorrevano docili come l'acqua nel letto di un ruscello. 

Quando Bel lo vide allargare le dite e mostrare il palmo Layla avanzò di scatto in avanti gli afferrò il braccio e lo forzò oltre la sua stessa schiena reagendo non tanto ad un suo riflesso quanto a quello della gemella. 

Nonostante ormai l'ossigeno non raggiungesse più nessuna delle sue cellule riuscì ad imprimere una certa forza per contrastare la presa della donna che non si fece distrarre nonostante lo stupore palesato sul volto. 

«Ma quanto ti ci vuole a svenire» il viso di Giovanni era ormai cianotico ma negli occhi brillava ancora una luce iraconda che scosse in profondità le anime presenti nel corpo di Layla. Qualcosa in quegli occhi, in quello sguardo riusciva a destabilizzarla più di quanto pensasse.  

Strinse un po' di più, lo vide rapire un ultimo rantolo di aria e resistere strenuamente ancora qualche secondo. Poi gli occhi virarono verso l'alto, le pupille si nascosero oltre l'orbita e la forza nel corpo gli venne meno. Lo sentì accasciarsi, inerme, su di lei che lasciò la presa e lo accolse tra le braccia. 

L'ombra lasciò la sua presa scivolando lentamente verso il terreno dal quale era nata, come un serpente che torna alla sua tana dopo aver colpito la sua preda. 

Solo allora Bel si spinse verso la sorella che reggeva il corpo esanime del ragazzo «Giovanni!». 

Lo guardò affannosamente soffermandosi sulle strisce rosse che si avviluppavano, come rovi, lungo tutto il perimetro del collo sulle quali iniziavano a sbocciare pomi violacei. Il tutto era condito da profondi graffi rossi che si era autoinflitto cercando di liberarsi dalla presa. 

Si rivolse alla sorella con preoccupazione. Layla colse anche il vago sintomo dell’irritazione che celava nel cuore. 

Sospirò e alzò le spalle, guardando quel soffitto dal quale non avrebbe ricavato nessun aiuto ma che, stranamente, si palesò nella forma si Samuele che nel contempo, dolorante, si era riuscito ad alzare. 

«Ha fatto ciò che andava fatto, non la rimproverare» si stava massaggiando la parte bassa della schiena facendo diverse smorfie di dolore mentre chiudeva la distanza che lo separava dalle gemelle «Mi verrà un livido non indifferente» cercò di scherzare per alleviare al tensione. 

«Scusami Sam, mi sono praticamente dimenticata di te» mugugnò l’argentea ritrovando quell’aria da bambina che tanto la caratterizzava. Il Prete le passò amorevolmente la mano sul capo scompigliandole qualche capello capriccioso «Non ti preoccupare, sto bene. Ho preso botte peggiori» 

«Eri anche decisamente più giovane però» infierì la mora inarcando il sopracciglio destro. 

«Sei sempre così poco gentile Layla, anche con chi cerca di aiutarti» la rimproverò amichevolmente l’uomo ricevendoinrispostala sua solita alzata di spalle. 

Bel si concesse una risatina «Comunque grazie». 

«Di niente» le sorrise e tornò a guardare il ragazzo. L’espressione ora più seria. «Allora, come sta?» domandò osservando anche lui le ferite riportate sul collo. 

Bel allungò un braccio ma ebbe un’esitazione quando dovette poggiarlo sul collo martoriato. Storse il naso e poggiò il palmo pieno sul petto.  

«E’ vivo, se è quello che stai chiedendo» esordì l’altra con serietà. 

La gemella rispose d’impeto irrigidendosi «Lo so che è vivo!» arrossì colta sul vivo sul misfatto «Controllavo solo che andasse tutto bene» ritrasse di scatto la mano e si alzò. 

Samuele parlò per cercare di evitare altri possibili litigi «Dovremmo avere tutto per curarlo» pacato, come sempre riuscita a mettere un panno fresco nei punti dove doleva di più. 

Bel rispose con un accenno del capo e si avviò verso il corridoio, fece una breve e impercettibile fermata davanti al buco nel muro creato dalle catene dorate e poi svanì oltre l’angolo della stanza.  

Layla e Samuele la guardarono fino che la sua schiena non svanì completamente dalla loro vista e solo allora l’uomo si rivolse finalmente all’unica gemella presente «Potevi comunque andarci un po’ più leggera». 

La mora gli rivolse il suo sguardo asettico. Negli occhi la coscienza di chi ha vissuto oltre il suo limite concesso «Samuele» iniziò «Tu sai che sono poche le cose che riescono ad intaccarci» sospirò «La nostra situazione è già particolare di suo, inoltre abbiamo vissuto talmente a lungo da aver visto le cose più disparate ma oggi» inspirò con più foga, socchiudendo gli occhi bicromi in due lame sottili «oggi Samuele abbiamo visto qualcosa di nuovo. Forse saremmo riuscite a fermarlo andandoci più leggere ma non ne sono così sicura». 

Samuele la guardava sgranando gli occhi man mano che il discorso andava avanti «E questo lo sa anche Bel. Ciò che è dentro questo ragazzino non è un demone ma il problema è che nessuna di noi due sa che cosa possa essere». 

«Potrei contattare la Santa Sede» proferì il Prete cercando dentro di sé quella sicurezza che non riusciva, al momento, a trovare «Magari in qualche vecchio resoconto o…» 

Layla si alzò tenendo tra le braccia il corpo inerme di Giovanni «Come preferisci Sam, ma non credo che cambierà molto» si mosse verso il corridoio. 

Samuele la seguì sospirando leggermente tra le vecchie labbra «Cosa farai ora?» 

«Lo metto a letto e lo vincolo con qualche sigillo, poi torno a vedere l’altro ospite». L'altro annuì con riluttanza, per i sigilli le avrebbe sentite litigare nuovamente ma questa volta non poteva non dare ragione a Layla.  

La seguì con passo deciso oltre l’angolo della stanza per sparire insieme a lei all’interno del corridoio. 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 14 agosto 00.15 ***


14 agosto 00.15 

Trovarlo era stata come sempre un'impresa, per certi tratti, ardua.  

Non amando i luoghi affollati era difficile che si trovasse nei comuni siti adibiti al ritrovo degli esseri umani e non gradendo l'essere facilmente ritrovato non accendeva mai il suo cellulare se non per scattare le sue macabre fotografie – o per pochi altri motivi. 

La sua localizzazione era il sintomo di una tragedia avvenuta che avrebbe straziato i cuori di molte persone, ma per l'allampanata figura immobile davanti alla vecchia palazzina dell'Istituto Marchiondi era ciò che poneva il termine alla tortura della ricerca. 

La struttura era immersa nel buio della notte, non vi erano luci a rischiararla. Anche la luce artificiale dei pali perimetrali moriva appena prima di toccare i muri dell'edificio, quasi fosse appestato e cercasse di evitarlo a qualsiasi costo. 

Come chiunque del resto.  

Dantalion aveva già fatto un giro preliminare nei dintorni ma non vi era anima viva. Neanche gli animali sembravano volersi avvicinare troppo a quel rudere e lui sapeva bene che la motivazione era quell'aura nera e pesante che permeava dalle pareti e si diffondeva nell'aria come un tanfo mefitico. 

Sapeva anche chi era la causa di tutto ma, indugiare troppo lo avrebbe portato a dover rimanere attivo ancora per molto tempo e lui era già stanco. Lo si vedeva dalle palpebre appena calate e dal riflesso lucido negli occhi, del resto non era demone dà vita notturna, seppur spesso Asmodeus l'aveva costretto a sforare oltre i suoi tipici orari di vita. 

Così, alla fine, entrò nell'edificio abbandonato. 

Il buio regnava incontrastato anche all'interno dei corridoi insieme ad un profondo silenzio che echeggiava fastidiosamente nelle orecchie andando a pungere con insistenza alla base del cranio.  

Chiunque, lì dentro, avrebbe sperato di udire almeno una singola voce rincuorante o vedere almeno il barlume di una calda luce. Chiunque tranne lui. 

Quel tipo di silenzio, totale, era qualcosa di cui non riusciva a godere spesso essendo sempre accompagnato da un costante brusio di sottofondo dato dal pensiero degli esseri che lo circondavano.  

Era come stare costantemente in una stanza piena di persone che mormoravano tra loro. 

Non lo considerava fastidioso, ormai vi era abituato ma a volte era appagante poter godere di quella calma. 

Inspirò profondamente e nuovamente allontanò i suoi pensieri traditori. La stanchezza continuava a farlo deviare dallo scopo principale per cui si trovava in quel posto lugubre. 

Fece un passo in avanti e tirò, inconsciamente, un calcio ad una maceria posizionata proprio davanti ai suoi piedi. La stoffa lacera della sua vecchia scarpa non attutì nulla del colpo e le dita dei suoi piedi diramarono, fino al cervello, il dolore della botta. 

 «Cavolo» esclamò rassegnato.  

Dalla tasca posteriore dei calzoni estrasse il cellulare e azionò la torcia che puntò sul pavimento. Ponderò che, forse, non era il caso di muoversi senza almeno un minimo di illuminazione. 

Fece scorrere il fascio bianco davanti a sé, illuminando la parte centrale del corridoio in cui si trovava. Osservò con apatia il sasso su cui aveva rischiato di inciampare, lo oltrepassò e riprese a camminare.  

Sotto le suole sottili delle scarpe scricchiolavano minacciosamente i vetri delle finestre ormai in mille pezzi, disposti lungo la strada come un tappeto d'arredamento. Di quello che l'edificio era stato rimanevano quasi integri solo muri scrostati decorati da scritte incomprensibili, le cui finestre vuote si affacciavano nel buio come occhi ciechi. 

Se si prestava attenzione si potevano sentire le piccole e veloci zampe degli scarafaggi che ticchettavano sul piastrellato crepato. Si fermavano sulle soglie delle porte, agli angoli dei corridoi, osservando il nuovo intruso nel loro regno. Le loro antenne vibravano frementi nell'aria calda della notte di agosto e Dantalion, in qualche modo, iniziò a sentirsi fuori posto. 

Gli ci vollero altri 20 minuti prima di riuscire a localizzarlo all’interno di una stanza posizionata in un corridoio laterale. 

La prima cosa che attirò la sua attenzione verso quella locale, la cui porta pendeva lateralmente tenuta da un unico cardine, fu il guizzo veloce di una coda nuda che vi sgattaiolava dentro. 

La seconda fu l’odore.  

All’inizio era solo un sentore lontano. Rimaneva nascosto tra il pulviscolo che riempiva l’aria afosa. Pizzicava con cautela le narici, come una piuma leggera, causando solo un leggero fastidio proprio sulla punta del naso. 

Avvicinandosi all’uscio, quella sensazione variò, passando da un semplice sentore ad un presagio consistente.  

L’odore divenne un intenso olezzo molesto che andò ad intirizzire tutte le cellule olfattive. 

I suoi neuroni non impiegarono più di pochi secondi a collegare gli odori alle immagini archiviate nei cassetti della sua mente. 

Tra le note che percepiva ve ne era una ferrosa e consistente, tipica del sangue ormai nero e coagulato mentre l’altra, più acida e leggera l’aveva avvertita dai corpi che avevano da poco iniziato la decomposizione 

Oltrepassato l’uscio il tanfo della morte non era più solo un'immagine ma colpiva con forza alla bocca dello stomaco.   

Il problema di Dantalion non erano  gli odori né le immagini che ne scaturivano ma era colui che aveva portato la morte in quel luogo dimenticato. 

Il fascio di luce della torcia scivolò sul piastrellato decorato da cupi fiori neri i cui steli scuri proseguivano in un lungo gambo che prendeva vita da un cumulo posizionato in un angolo della stanza.  

Dantalion non aveva bisogno di illuminarlo per sapere che era da lì che proveniva il miasma che infestava l’aria di quel luogo. 

«Dantalion, ma che sorpresa.» una vocina gioviale lo accolse e lui volse i suoi occhi spenti verso la fonte di quelle parole. 

Dirimpetto alla pila stanziava un quello che sembrava un ragazzino di non più di 12 anni. I riccioli d’oro brillarono alla luce della la torcia dalla quale lui coprì i sensibili occhi azzurri «Dannazione, hai intenzione di accecarmi?» sibilò. 

Dantalion, con la sua flemma, abbasso il fascio di luce ai suoi piedi «Scusa» borbottò senza troppa convinzione. 

«Tsz» il ragazzino lo guardò torvo per qualche istante prima di allargare un ampio solare sulle labbra sottili «Non importa, non importa. Ma stai attento con quell’affare.» Incrociò le braccia dietro la testa e si dondolò sui talloni «Allora, cosa ti porta da queste parti?» 

La luce del cellulare, che si diffondeva soffusa dal pavimento verso l'alto, creava una maschera grottesca sul volto fintamente innocente del ragazzo illuminandogli le gote rosate e oscurandogli il contorno occhi fino quasi a fargli sparire le orbite. 

Dantalion non riuscì a fare a meno di pensare che stesse solo palesando la vera anima di quell'essere. 

«Asmodeus ha richiesto il tuo intervento» proferì brevemente. 

Il ragazzino arricciò il naso «Perché?» domandò annoiato. 

«Sono tornate le gemelle» un leggero luccichio ravvivò lo sguardo azzurro dell'altro che allungo le braccia verso l'alto aprendo i palmi in un gesto che imitava un salto di gioia. 

«Erano secoli che non le incontravo!» esclamò sorridente mentre le ombre sul suo volto giocavano sui suoi tratti rendendoli più truci e fortemente in contrasto con la gioia che si percepiva nella voce. 

Fece una piroetta su  stesso, un saltello sul posto e poi si rivolse al cumulo di cadaveri, testimone inerme della loro conversazione.  

«Sentito?» domandò con un'acuta nota di felicità «E' tornata la mamma!» si lasciò sfuggire una risatina gioviale che si affrettò a coprire con le mani «Peccato che non la potrete vedere» abbassò gli angoli delle labbra mimando una smorfia di finto dispiacere che fu sostituita da una nuova manifestazione di gioia quando un'idea gli si palesò nella mente «Ma non importa perché io le farò vedere voi!» esclamò con entusiasmo. 

Dantalion lo osservava con un certo interesse. La sua accentuata mimica facciale lo aveva sempre affascinato. Quel susseguirsi di bronci, pianti e sorrisi, studiati con metodica cura, gli avevano permesso di calarsi perfettamente nella parte del ragazzino umano, diventando così l'esca perfetta per le sue ignare prede. 

«Ehi Dantalion, la mamma sarà felice di vedere le mie foto, vero?» gli sorrideva dal basso del suo metro e quaranta. I denti bianchi spuntavano tra le labbra rosa e carnose lasciate appositamente dischiuse.  

«Forse» rispose stancamente l'uomo riuscendo a creare un nuovo getto di euforia nell'animo malato del demone Valac 

«Allora forza, non c'è tempo da perdere» Dantalion fu afferrato sull'avambraccio, Valac iniziò a tirare verso la porta con insistenza. Quella presa forte e decisa era solo uno degli indizi che lasciava percepire la sua appartenenza ad un mondo tutt'altro che umano. 

«Aspetta» mormorò illuminando la catasta di corpi dalla quale braccia e gambe spuntavano scomposte come rami di un vecchio albero secco. Un’unica testa faceva capolino dalla catasta. Gli occhi, ormai velati dalla morte, grazie a quel filo di luce sembrarono, per un istante, aver riacquisito un barlume di vita. 

«Cosa intendi farne?» domandò. 

Il ragazzo arricciò le labbra, si strinse nelle spalle magre che iniziò a far dondolare a destra e a sinistra con un movimento lento. Guardava l'altro sottecchi sfarfallando le palpebre in un gesto di civetteria che Dantalion non riusciva a comprendere nella sua interezza. 

«Non importa, andiamo» alzò le spalle e si diresse verso la porta. Il fascio di luce scivolò via in direzione dei passi del demonerubando l'ultima scintilla di vita dagli occhi del cadavere. 

Valac lo seguì con un sardonico sorriso dipinto sul volto angelico. 

...

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 12 agosto 2018, ore 13.00 ***


Avviso per le gentili lettrici: Oggi partirò per le tanto agoniate ferie estive e resterò via per tre settimane. Tornerò a pubblicare i capitoli dal 3 di settembre. Vi ringrazio per la pazienza e auguro a tutte buone ferie!
---

Qualche giorno prima a Tokyo 

12 agosto 2018, ore 13.00  

Il sole brillava nel cielo e riverberava sulle alte vetrate dei palazzi di Akihabara creando giochi di luce che, per lo più, si riflettevano negli occhi dei passanti che popolavano le strade del famoso quartiere, infastidendoli durante lo shopping giornaliero. 

La zona era, come sempre, gremita di persone.  

Residenti e turisti si amalgamavano in un turbinio di colori e lingue uniti da una comune passione e incuranti delle diversità che avrebbero potuto allontanarli. 

Anche la calura sembrava non riuscire ad intaccare la loro voglia di avventurarsi tra gli intricati corridoio ripieni di modellini, action figure, bambole, manga, DVD e quanto altro poteva essere messo in mostra e quindi in vendita. 

Le goccioline di sudore che scendevano lungo le fronti, che si perdevano tra le ciglia impedendo la vista, quelle che colavano lungo la schiena fino ad arrivare ad impregnare l'elastico delle mutande creando fastidiose macchie nei posti più improbabili non mettevano freno alla voglia delle persone presenti di accaparrarsi un qualsiasi ninnolo del loro personaggio preferito. 

Come piccole api operaie continuavano imperterriti la loro ricerca del Sacro Graal nonostante le temperature avessero già oltrepassato i 30°C. 

Tra queste spiccava una figura la cui testa, coperta da un cappellino blu con sulla fronte il simbolo bianco della scimmia, sbucava oltre quelle di tutti gli altri.    

Non era solo più alto della media – soprattutto giapponese – ma il fisico prestante lo faceva risaltare più di quanto lui stesso volesse. 

Camminava rasente alle vetrine, fermandosi e bloccando lo scorrere della folla ogni volta che vedeva qualcosa che poteva essere di suo interesse.  

Sugli occhi calcava un paio di ray ban aviator con le lenti polarizzate che limitavano la tortura dovuta ai riflessi di luce del sole, protagonista indiscusso di quella giornata di metà agosto. 

Era alla disperata ricerca di un regalo ma non trovava niente che soddisfacesse il suo gusto e quello che sapeva essere il gusto della ragazza a cui lo avrebbe donato insieme ai mille altri che aveva accumulato nei suoi ultimi viaggi. 

Se fosse tornato, dopo così tanto tempo, senza niente Bel gli avrebbe sicuramente messo il broncio e questo non lo poteva permettere. Ne bastava una immusonita tutto il giorno e non aveva bisogno di aiuti dalla sorella. 

Ma scegliere qualcosa in quell'assembramento di oggettistica si era rivelato più difficile di quel che pensasse, ed era in giro ormai da due ore. Probabilmente non avrebbe resistito di più. 

Si fermò nuovamente.  

Qualche colpo alle spalle e le veloci parole di "scusa" non riuscirono a rapire la sua attenzione che si era focalizzata su un action figure messa in mostra all’apice di una vetrinetta. 

Due ragazzine dormivano sdraiate su un Taijitu stilizzato. Una vestita di bianco con lunghi capelli rosa e l'altra vestita di nero con lunghi capelli corvini.  

Non aveva la minima idea di chi potessero essere i due personaggi ma il legare la loro figura a quella delle due gemelle fu per lui immediato. 

Entrò nel negozio e ne uscì pochi secondi dopo, sorridente, con una busta che recava al suo interno il prezioso regalo.  

Tentennò qualche istante appena fuori dal negozio. La differenza di temperatura tra l’interno e l’esterno aveva messo in moto il suo apparato sudorifero più del dovuto. 

Respirò l’aria calda, si tolse il cappello dalla testa e con il dorso della mano di asciugò le goccioline che avevano impregnato la pelle della fronte. 

«Vedo che hai fatto compere, Adam! È per le gemelle?» 

Una voce squillante lo mise subito sull'attenti. Allungò il braccio destro in avanti e colpì, con il cappello, la persona che si trovava davanti proprio sul volto. 

Il corpo aveva reagito ancora prima della sua mente ma quando mise a fuoco la persona e soprattutto il vestiario di colui che gli aveva rivolto la parola, comprese immediatamente che la sua reazione era stata esagerata. 

Del resto nessuno sano di mente poteva andare in giro con una camicia a scacchi neri e viola il cui sfondo giallo era talmente intenso da dare fastidio agli occhi più di quanto potesse farlo il sole stesso. 

La portava aperta e sotto vestiva una semplice maglia bianca sulla quale risaltavano delle bretelle – dello stesso giallo della camicia – che puntavano sul bordo di un paio di jeans neri la cui parte anteriore delle gambe risultava completamente stacciata.  

In quel marasma di colori era anche riuscito ad abbinare le scarpe, un paio di Tiger gialle con le righe nere. 

Sospirò profondamente, più di quanto volesse realmente fare. Ritirò il braccio scoprendo una testa corvina – i cui capelli sparavano in ogni dove sostenuti da una magica lacca che riusciva a vincere la gravità terrestre – e un broncio da bambino piagnucolone «Scusa Minoru» mormorò. 

«Perché?!» piagnucolò l'altro in tuta rispsota. 

Adam si grattò il la testa, socchiudendo gli occhi «Scusa. Mi hai preso in contropiede e ho reagito troppo velocemente» ricalcò il cappello sulla nuca e fece spallucce. 

«Sempre attento e pronto all'azione!» azzardò un saluto militare facendo collidere i tacchi delle scarpe da ginnastica. Aveva già cambiato umore, la cosa non lo sorprese ma il siparietto fece lo fece sorridere. 

«Ci provo, per ora sembra funzionare» si grattò la guancia, il dito passò tra la barba producendo un lieve fruscio tra i peli ispidi tenuti corti. 

«Hai tempo? Ti offro qualcosa di fresco e corroborante in un locale qui vicino. È da parecchio che non ci vediamo» 

Adam estrasse il cellulare dalla tasca posteriore, guardò l'orario e annuì con il capo. 

«Ci sto». 

Minoru rispose al suo cenno, felice, e gli fece strada attraverso la folla che ancora riempiva la strada. 

... 
 

All’interno del locale la temperatura era dell’aria era moderata. Si sentiva la differenza rispetto all’esterno ma non era così elevata da farti star male. Mentalmente Adam ringraziò il proprietario del piccolo locale per non aver attentato alla sua salute. 

Si erano seduti ad un tavolino posto nell‘angolo più lontano rispetto all’ingresso al quale Minoru dava le spalle così che l’amico potesse tenerlo d‘occhio.  

Seppur fosse un bar ad un piano elevato e sembrava che nessuno li avesse seguiti non voleva fidarsi totalmente della situazione e farsi trovare in svantaggio per semplice noncuranza. 

«Riesci mai a fare qualcosa in completa tranquillità?» gli domandò il giapponese mentre si apprestava a prendere la prima cucchiaiata di una coppa di gelato dalla dimensione spropositata.  

«Difficilmente» assaggiò il caffè freddo che aveva ordinato, la diffidenza iniziale si disperse dopo il primo sorso. Era fresco e il sapore non eccedeva nell’amaro  nel dolce. Appoggiò la tazza sul ripiano, accanto giacevano il cappellino e gli occhiali da sole sulle cui lenti si riflettevano deformate le immagini dei presenti. 

«Devo dire che non ti invidio, io probabilmente non sarei sopravvissuto un giorno» ridacchiò nervosamente. 

«Mai dire mai. Bisogna solo farci l’abitudine e andare avanti» l’uomo fece spallucce, allargò le mani e ne mostrò i palmi. «Ma tralasciando la mia monotona vita in fuga, cosa mi racconti di te? Come mai in Giappone?» 

Il ragazzo abbassò gli occhi, il gelato aveva un aspetto tremendamente invitante. Cinque gusti si affollavano nella coppa di vetro suddivise da praline di cioccolato cereali croccanti. Il tutto era ricoperto da un elevato quantitativo di panna montato decorato con maestria da svariate fragole il cui colore rosso intenso faceva aumentare ancora di più la salivazione. 

Ne afferrò una insieme ad un cucchiaio di panna e la ingurgitò con ferocia. «Una ragazzina» prese un'altra cucchiaiata con cui cercò il gelato «I suoi parenti l’hanno portata da un monaco buddista che l’ha sottoposta a...» strinse più forte il cucchiaio «...dei riti di purificazione» 

Respirò con profondità e socchiuse gli occhi. Poggiò i gomiti sul tavolo e poggiò il mento sulle mani chiuse in fragili pugni.  

Riaprì gli occhi e guardò la coppa gelato. Adam vide il vitreo perdere un po’ della brillantezza che gli era consona e acquisire un velo di umidità «Sua madre non ce l’ha fatta a sopportare e ha chiamato un prete di un villaggio vicino per chiedere aiuto o quantomeno un supporto» si morse l’interno del labbro inferiore «Quando sono stato chiamato era troppo tardi. La ragazza era già morta per le sofferenze inflittele» 

Incassò la testa tra le spalle e stirò le labbra in un sorriso triste «Inoltre, dopo un rapido controllo posso confermare che non fosse posseduta da nulla» affondò con rabbia il cucchiaio nel gelato e con la stessa identità lo infilò in bocca «Stupidi ignoranti creduloni». 

«È inutile prendersela. Ce ne saranno a profusione di casi del genere. Purtroppo non puoi salvarli tutti» fece tamburellare le dita sul bicchiere, il ghiaccio nel caffè scivolò più a fondo. 

«Lo so» proferì con estrema tranquillità «però non posso fare a meno di infervorarmi quando vedo cose del genere!!!» ingurgitò più di metà del gelato con fervore, fermandosi poi di scatto quando il freddo gli trapassò la testa. 

«Ahi ahi ahi ahi» la tenne tra le mani e Adam non riuscì a trattenere le risate. 

«In ogni caso» Minoru agitò il cucchiaino nell’aria, con la mano libera si teneva parte della testa. Stringeva i denti in un’espressione alquanto sofferente «Hai loro notizie?» 

«No, ormai è da circa sei mesi che non le sento» si fermò un’istante e riformulò la frase «che non sento Bel» sospirò con tristezza. 

«Layla è una testa dura» 

Adam annuì, incrociando le braccia al petto e assumendo un’espressione più imbronciata che seria «Più di quanto possiamo pensare». 

Minoru ridacchiò. Tra le labbra tese spuntava il manico in acciaio del cucchiaio che si mosse a ritmo delle sue parole «Su questo non c’è alcun dubbio» estrasse la posata emettendo un piccolo risucchio e la puntò nuovamente verso il suo interlocutore «Ma, se vuoi, posso dirti dove si trovano al momento» sorrise serafico.  

«Dove?» domandò lasciando trapelare una leggera tensione nei muscoli delle braccia irrigiditi. 

«Milano» la risposta fu breve, accompagnata da un sorriso appagato. 

Adam strinse le dita sui bicipiti «E’ successo qualcosa?» 

L’altro scosse la testa in senso di diniego «Solita routine. Donna posseduta da liberare». 

Afferrò il proprio mento con la mano, la barba gli grattava con leggerezza il palmo. Arricciò le labbra e Minoru afferrò al volo il pensiero che gli passava per la testa «Noi due non ci siamo mai incontrati» allargò le labbra, gli angoli tesi verso l’altro, tra le quali spiccavano i denti bianchi serrati.  

L'uomo comprese il significato oltre quelle parole, inarcò un angolo delle labbra in un mezzo sorriso e tornò a rilassare le braccia distendendole lungo il ripiano in plastica del tavolo. 

«E’ un azzardo» proferì senza nota di ritrosia nella voce «Potrebbero già essersene andate» aggiunse ancora con un sorriso soddisfatto dipinto sul volto. 

«Possibile» rispose l’altro «ma tentar non nuoce» 

«Inoltre sarei troppo vicino alla tana del lupo» aggiunse ancora. 

«Proprio per questo saresti al sicuro. Chi mai penserebbe di trovarti proprio dove non dovresti essere?» era giunto all’ultima cucchiaiata di gelato. 

«Layla si arrabbierebbe moltissimo» piegò leggermente il capo verso la spalla sinistra. L’espressione di sfida aveva invaso tutto il suo viso rendendolo più accattivante. 

«Sai che novità» sbuffo Minoru lasciando cadere il cucchiaio nella ciotola ormai vuota che tintinnò come un campanello. 

Adam si alzò facendo scorrere indietro la sedia sul quale si era accomodato. «È stato un piacere incontrarti Minoru» raccolse il suo cappello che tornò a calcare sulla testa. 

«Anche per me Adam» si alzò ma nonostante tutto dovette alzare il mento per poterlo guardare nuovamente in volto. Era stato benedetto da tanti aspetti quali: la bellezza; la simpatia; il gusto eccelso per il vestiario...ma l’altezza purtroppo non rientrava in queste caratteristiche.  

Allungò la mano in sua direzione – nonostante l’impegno dei suoi genitori, Minoru aveva assorbito molti tratti comportamentali occidentali. - e Adam la strinse con vigore.  

«Spero di poterti rivedere presto» aggiunse ritirando la mano dolorante. 

«Lo spero anche io» inforcò gli occhiali e li appese al colletto della maglia. In ultimo raccolse la busta con dentro il regalo per Bel lasciando infine il bar e Minoru. 

... 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 14 agosto, ore 17.00 ***


Credette di aprire gli occhi. Ne era così certo che il non vedere niente lo fece spaventare più di quanto potesse essere possibile.  

Provò a ripetere l’azione più volte ma l’effetto non cambiava.  

Il nero lo avvolgeva come un manto, denso e impenetrabile che non gli permetteva di capire dove si trovasse. Non riusciva a comprendere neanche il senso in cui era rivolto in quello spazio angusto. 

Non c’era niente intorno a lui o forse c’era e lui semplicemente non lo poteva sapere. 

Il cuore prese a battergli più forte nel petto facendo affannare il respiro.  

Il panico iniziò a dilagare nel suo corpo, ma lo aveva davvero ancora un corpo? 

Non riusciva a percepire niente di sé stesso. 

Aveva le braccia? Le stava muovendo? Le gambe? Le dita? Le orecchie? La lingua? Era davvero il cuore quello che percepiva nel petto? O era solo il ricordo di un qualcosa che si sarebbe solo dovuto trovare lì? 

Sentì premente il desiderio di piangere e urlare. 

Di chiamare aiuto. Qualcuno mi aiuti...per favore. 

Qui è tutto buio. Dio... 

Qualcosa, dissipò quel mondo di oscurità. 

Una luce, dapprima minuscola sullo sfondo, fece capolino tra le tenebre.  

Corse lungo la strada immaginaria che conduceva sino a lui rischiarandola con forza. Era talmente intensa che si sostituiva completamente alle tenebre impedendo anch’essa la vista dei dintorni. 

Ma non era importante, perché era Luce viva e calda e il solo guardarla lo faceva sentire salvo. 

Lungo al sua visuale periferica intravide qualcosa. 

C'era una figura statica di fronte a lui. Mano a mano che si avvicinava e la luce si affievoliva i suoi occhi riuscirono a mettere a fuoco il corpo nudo di una donna avvolto da lunghi capelli rossi. 

Lui la guardava e i suoi occhi di sangue ricambiavano il suo sguardo con profonda superbia mentre un ghigno le tagliava in due il volto e ne distorceva i tratti delicati in quelli di un pazzo. 

Puntava al cielo l'indice ma non stava indicando, quel gesto era una minaccia diretta verso il cielo e lui lo sapeva, anche se non comprendeva come. 

Nuovamente si sentì prelevare la quel sogno come se fosse stato salvato dall'annegamento. 

Inspirò con una profondità pari solo al momento in cui era uscito dal grembo materno. E la sensazione che provò fu proprio quella di una rinascita.  

La luce gli inondava gli occhi facendogli ancora da schermo a ciò che lo circondava. Nelle orecchie riecheggiava un lungo e fastidioso fischio. 

Espirò con più calma e cercò di rilassarsi. Qualcosa di morbido gli premeva contro la schiena e sotto la testa, era comodo ovunque si trovasse al momento ma percepiva una forte tensione lungo tutti gli arti, inoltre gli dolevano i muscoli, come se avesse appena finito una lunga corsa. 

Non chiuse gli occhi, non voleva rischiare di ricadere nel buio, ma aspettò che le sue pupille di adattassero naturalmente alla luce presente nella stanza. 

Dopo qualche istante finalmente riuscì a vedere delle forme sopra di lui. Ombre indefinite che sembravano agitarsi per qualcosa.  

Lentamente i contorni iniziarono a definirsi, distingueva occhi, nasi e bocche che si aprivano e si chiudevano con costanza. Dicevano qualcosa ma il fischio, seppur flebile, le copriva quasi completamente. 

Gli ci vollero altri tre minuti per poter arrivare a distinguere il volto di Bel e quello del Prete ed un altro minuto interno prima di riuscire ad arrivare a sentire le parole che stavano pronunciando. 

Fu un tempo quasi infinito al termine del quale, dopo aver riacquistato quasi completamente tutti i sensi, scoprì di avere un profondo e pulsante mal di testa che gli rimbombava tra le pareti della scatola cranica e un forte dolore a livello del collo. 

Cercò di mettersi a sedere ma il risultato tu assolutamente deludente. 

«Giovanni non ti alzare, resta sdraiato, per favore» sentì delle mani sulle  spalle, un tocco dolce accompagnato dalla voce preoccupata di Bel. 

Provò a pronunciare il nome ma ciò che ne uscì fu solo un rantolo incomprensibile e un bruciore intenso lungo le mucose della laringe.  

Tentò di afferrarsi la gola con le mani maoltre alla fatica muscolare, percepì i polsi legati tra di loro. 

Sentì la voce di Bel rivolgersi verso qualcuno «Dobbiamo per forza tenerlo legato?» era in qualche modo infastidita. 

La risposta arrivò secca e incontrovertibile «Si» 

La vide sbuffare e rivolgersi all’altro presente «Samuele il bicchiere d’acqua per favore» 

Ci fu un leggero tintinnio. Bel prese il bicchiere, dal bordo sputava una cannuccia che gli porse mentre qualcun altro, con mani più grandi ma sempre gentili, lo aiutava ad alzarsi. 

«Bevi, ma fai piano»  

Oltre i capelli argentei della ragazza vide la figura nera seduta vicino alla porta della stanza. Era seduta con lo schienale tra le gambe, le braccia erano incrociate sopra la spalliera e la parte inferiore del volto era affondata tra gli avambracci.  

Spuntavano solo gli occhi bicromi che erano fissi proprio su di lui. Lo guardava come si osserva una preda, ma non un semplice coniglio, ma come la tigre può osservare un’altra tigre che invade il suo territorio di caccia. 

Era una sensazione spiacevole che gli si aggrappò allo stomaco con forza facendogli risalire un conato che si scontrò con l’acqua che scendeva creando così un ingorgo che lo costrinse a tossire. 

Bel si girò verso la gemella richiamandola con forza «Layla 

L’altra fece spallucce e rispose con sufficienza «Che c’è, lo stavo solo guardando»  

«Certo!» esclamò l’altra con foga prima di puntare l’indice della mano libera verso l’altra «Senti vedi di comportarti decentemente altrimenti finisci anche tu in cantina!». 

Layla alzò la testa di scatto e sgranò gli occhi «Forse non te ne sei accorta ma ha cercato di uccidermi!» 

Bel puntò un piede in avanti, verso la sorella «Non mi sembri morta al momento, quindi non capisco perché tu te la prenda tanto!» 

La gemella si alzò di scatto facendo cadere la sedia terra nel gesto «Sei tu che te la stai prendendo per quello...» lo osservò con schifo mal celato cercando delle parole che non sembravano uscirle «...stupido umano» sputò alla fine. 

«Stupida sai tu!» 

Giovanni le guardava con gli occhi sbarrati e un concerto di bonghi che gli rimbombava nella testa senza tregua. Ad un tratto l’uomo che lo sosteneva lo riposizionò sui cuscini e poi si alzò. 

Non vide cosa stava succedendo ma comprese appieno appena sentì la voce possente risuonare nella stanza. 

«ORA SMETTETELA ENTRAMBE!» 

Il silenzio calò con l’istantaneità dei fulmini. 

«Tu siediti» si rivolse a Bel. 

«E tu» guardò Layla e le parlò ammorbidendo sia il tono che lo sguardo «per favore, esci» 

La mora digrignò i denti e uscì dalla stanza sbattendo la porta. 

Quando Padre Samuele tornò a guardare Bel le fece nascondere la testa tra le spalle, sembrava un padre che aveva appena sgridato le sue due bambine pestifere «Quattromila anni e vi comportate ancora come due adolescenti nel pieno di una crisi ormonale. E tu...» puntò il dito nel centro della fronte di Bel «Tu dopo vai a parlarle e a risolvere questa stupida situazione!» 

Puntò il dito contro la pelle tesa e spinse leggermente, Bel chiuse gli occhi e li riaprì quando sentì il palmo posarsi dolcemente sulla sua testa. 

Arrossì di vergogna «Scusa». 

«Non devi scusarti con me ma con Layla e soprattutto con Giovanni che ha dovuto assistere a questa incresciosa situazione» 

La ragazza, che ancora reggeva il bicchiere, avvampò «Scusaci Giovanni». 

Padre Samuele lo aiutò nuovamente a mettersi seduto, sollevando ora i cuscini sullo schienale del letto «Ci farai l’abitudine Giovanni, ma vedrai che non sono così male.» il sorriso dell’uomo lo fece sorridere a sua volta. 

Bel allungò l’acqua ancora verso di lui «Hai ancora sete?» sembrava aver riacquisito la sua solita calma. 

Giovanni annuì e prese qualche sorso, quando finì la ragazza posò il bicchiere sul comodino e si sedette sul bordo del letto. 

I capelli sciolti le inondavano le spalle come fili di seta, cadevano morbidi sulla pelle scivolando su questa fino a poggiarsi con grazia sul lenzuolo che copriva il ragazzo. 

Nella sua canottiera in raso e nella gonnellina di jeans i cui bordi erano adornati con quelli che sembravano vecchi pizzi, sembrava ancora più giovane. 

«Come stai?» gli chiese. 

Giovanni face dondolare la testa e socchiuse gli occhi. Alzò le mani verso l’alto, erano giunte ai polsi da quello che sembrava un laccetto nero. Si toccò il centro della fronte e indicò a gola prima di proferire un rantolo che somigliava alla parola “male”. 

Poi con la punta del naso indicò i polsi, facendo un gesto con le spalle come a chiedere il perché di quella limitazione. 

Samuele raccolse la sedia di Layla, la avvicinò al letto e la posizionò accanto a Bel. Si guardarono entrambi per un istante e poi l’uomo parlò. 

La voce profonda e calda sembrava essere lenitiva per Giovanni «Non ricordi cosa è successo?» 

Il ragazzo mosse la testa in senso di diniego. 

Bel si morse il labbro inferiore e arricciò una smorfia avvilita sul volto. 

Samuele continuò «Ricordi che eri con noi, in salotto, a parlare?» chiese ancora. 

Giovanni dovette pensarci un attimo su. Si guardò intorno con circospezione, cercando degli indizi con gli occhi all’interno di quella stessa stanza. Lo videro corrugare la fronte nello sforzo di pensare e poi sospirare verso il soffitto. Dondolò il capo a destra e a sinistra un paio di volte e alla fine ruotò le mani legate nella stessa direzione. 

«Intendi che ricordi qualcosa?» domandò apprensiva Bel. 

Lui annuì. 

«Va bene» Samuele incrociò le braccia al petto e accavallò le gambe. La sua espressione si fece più tesa, concentrata mentre riprendeva il discorso «Per fartela un po’ breve, almeno nella prima parte, ti abbiamo recuperato svenuto in vicolo e ti abbiamo portato qui. Quando ti sei svegliato ci siamo messi a parlare e in quel momento è successo qualcosa o quantomeno ti è successo qualcosa» lo vide sospirare profondamente «All’inizio ti sei come spento e hai iniziato a ripetere “lei è qui”» 

Riprese Bel che era seduta con le mani in grembo «Poi, quando hai visto Layla, sei diventato aggressivo e...» si grattò la guancia con l‘indice della mano destra «insomma hai provato ad attaccarla». 

Giovanni li guardava alternativamente con gli occhi sgranati all’interno dei quali si poteva leggere chiara e lampante la confusione che gli si stava generando nella mente mentre sul volto si andava disegnando, sempre più chiara, un’espressione incredula. 

«Layla ti ha...» Bel si massaggiò il collo e il ragazzo subito comprese il dolore che provava proprio in quella zona. 

«Voleva solo cercare di farti svenire, ma eri sin troppo forte» aggiunge Samuele senza fretta «ha dovuto applicare più forza di quella che sarebbe stata necessaria per qualsiasi altro essere umano.» Calcò l’accetto sull’ultima parola. 

«Ed è questo il motivo per cui ora sei legato» concluse l’uomo. 

L'espressione esterrefatta di Giovanni fece accentuare la preoccupazione di Bel. Vedeva il suo petto alzarsi e abbassarsi ad un ritmo sempre più incalzate. Si allungò in avanti e poggiò la sua mano su quelle di lui. Le strinse con fermezza e lo guardò con altrettanta dolcezza. 

«Cerca di non agitarti» abbozzò un sorriso gentile a cui lui rispose con una profonda nota di tristezza. Era appena stato catapultato in una situazione che sapeva non sarebbe riuscito a gestire, era al di fuori della sua portata. 

Degluttì l’acredine che si stava accumulando alla base della bocca e percepì la gola bruciare come le fiamme dell’inferno. 

Bel lo stava guardando e Samuele vide quella ruga al centro della fronte che le si formava quando stava per fare qualcosa di cui non si sarebbe pentita neanche fosse caduto il mondo intero.  

Strinse la presa intorno ai polsi del ragazzo. Quando lo liberò le fascette erano svanite dai suoi polsi. 

Giovanni li guardò esterrefatto mentre li scioglieva per cercare di riprendere un po’ di mobilità. 

Quando riportò lo sguardo sulla ragazza questa si era già avvicinata, scorrendo lungo il bordo del letto.  

Lo fissò con serietà negli occhi per qualche istante, Giovanni non riuscì a trattenere il rossore sulle gote ma lei non sembrò farci caso. Allungò la mano destra in avanti e puntò l’indice appena sotto il mento di lui che lo alzò meccanicamente.  

«Probabilmente ti farà un po’ male, ma almeno guarirai» il ragazzo non vide il disegno che lei stava disegnando nell’aria percepì solo un profondo calore provenire dal punto in cui percepiva il dito. 

All’inizio fu sopportabile, ma dopo pochi istanti la sua pelle diventò rovente tanto da strozzargli il respiro in gola. Afferrò di scatto la mano di Bel e la strattonò in un gesto di ira incontrollato che la fece cadere dal letto. 

Bel, colta in contro piede, cadde sul pavimento lasciandosi sfuggire un gridolino mentre Samuele balzava in piedi cercando di afferrarla per la stessa mano da cui era stata strattonata. 

«Sto bene, sto bene» mormorò con gli occhi sgranati rivolti verso il ragazzo che era chino su sé stesso con le mani ora serrate intorno alla sua stessa gola. Respirava a fatica e il sudore gli aveva coperto la pelle del volto. 

Si rialzò di scatto e si riportò sul letto «Giovanni, cosa è successo?» 

Lui non la guardò neanche, qualcosa dentro di lui aveva iniziato a muoversi, ad agitarsi e poteva sentirlo nella sua testa «B..ru...cia» rantolò senza sollevare lo sguardo. 

Fu lei ad intervenire, gli premette le mani sulle spalle e spinse verso la spalliera del letto. Gli alzò di forza il collo e lo vide, il simbolo di Buer gli aveva bruciato la pelle del collo. 

«Sam» si scostò lasciando spazio a Samuele per osservare cosa era successo. 

«Se non funzionano i sigilli dei demoni...» si scambiarono uno sguardo d’intesa. 

Bel tornò a premere le mani sulla ferita di Giovanni che dovette stringere i denti per limitare il dolore che provava. 

Stavolta però qualcosa andò in modo diverso. Al posto di un dolore bruciante percepì un profondo calore che gli pervase ogni singola fibra corporea. La sentiva diffondersi partendo dal collo lungo tutte le cellule del suo corpo.  

La percepì fluire sino al cuore e colmarlo di amore. quell'amore incondizionato che poche persone al mondo sono capaci di offrirti. 

Una lacrima gli scivolò lungo la guancia e cadde sul lenzuolo che lo ricopriva.  

Quando riacquisì l’uso dei suoi sensi Bel e Samuele lo stavano guardando con un sorriso più tranquillo. La serenità si era sostituita alla preoccupazione sui loro volti. 

«Come ti senti ora?» gli chiese la ragazza. 

Giovanni ci pensò su qualche istante. Titubante cercò di posare la mano sulla gola e, quando ne sfiorò l’epidermide con la punta delle dita senza provare dolore fu sopraffatto dalla sorpresa. 

«Non sento dolore...» sgranò gli occhi «E posso parlare» sorrise ampiamente prima di farsi assalire da tutti i dubbi che erano in agguato oltre la soglia della sua mente ora nuovamente libera di pensare. «Ma come...?» 

«Forse è il caso di darti delle spiegazioni» Samuele poggiò una mano sulla spalla di Bel che annuì alle sue parole. 

... 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 14 agosto, continua ***


Scese le scale di impeto e batté anche l’ultima porta presente alle sue spalle. Appena varcò la soglia del garage si ricordò che era presente un altro ospite in quella casa. Troppe persone per i suoi gusti al momento, ma purtroppo non poteva sbarazzarsi di nessuno dei due presenti e questo la infastidiva ancora di più. 

Appena prima che la donna oltre la barriera potesse aprire bocca ne oscurò il perimetro ottenendo in risposta un elevato numero di impropri e lamentele delle quali non si curò. 

Girò oltre la porta e si accasciò lungo il muro dal quale trapelava ancora una certa frescura. 

Non poteva crederci, l’aveva sgridata perché aveva cercato in qualche modo di proteggerli. Era proprio da Bel avere quel tipo di reazione di fronte a degli esseri tanto inutili. 

«Fanculo» 

Una risatina echeggiò tra le pareti della sua mente, l’ombra ai suoi piedi tremolò sulle piastrelle come un’onda marina, si stirò e lentamente si elevò dalla superficie piatta andando ad accucciarsi accanto a Layla che sbuffò sonoramente. 

L’ombra aveva le fattezze di una donna la cui estremità inferiore era dipendente da quella della figura umana da cui prendeva vita. 

Probabilmente un attento osservatore avrebbe trovato degli elementi in comune con la stessa Layla e non gli sarebbero sfuggiti quelli che sembravano lunghi capelli che sinuosamente si avvinghiavano intorno alla stessa figura che invece, con Layla, avevano poco a che fare. 

Ahi ahi ahi, c’è un po’ di maretta tra le sorelline oggi 

La voce proveniva dall’interno del suo corpo e in esso stesso di diffondeva di modo che nessuno oltre a lei la potesse. 

Si diffondeva come un riverbero tra le cellule, le fibre e gli organi. Inizialmente era un eco fastidioso che sembrava trafiggerla come piccoli aghi attraverso la pelle.  

Nel tempo, forse anche per il cambiamento della relazione che le legava, era diventata un’onda che dolcemente si posa sul bagnasciuga. 

«Oggi manchi solo tu, vedi di non peggiorare la situazione» le rispose secca. 

L’ombra vibrò e fluttuò davanti a lei. Sembrava eretta e con una mano poggiata sul fianco destro che sporgeva di pochi centimetri esternamente. 

Che crudeltà da parte tua, e io che ero venuta a consolarti” piagnucolò prima di tornare a ridacchiare divertita. 

Da quando aveva preso confidenza non aveva mai perso un’occasione per canzonarla un po’.  

Ma Layla non era in vena e le rispose secca. «Invece di dire stronzate, parlami del ragazzo». 

L’ombra sembrò quasi sorridere. Si abbassò di qualche centimetro, il corpo nero scorse lungo il pavimento creando un angolo di novanta gradi a livello della vita della donna che poggiò la testa sui dorsi delle mani. 

Oh, lo trovo molto carino Lo sguardo torvo che le rivolse Layla non sembrò infastidirla troppo “Ma tu non sei della stessa opinione a quando pare” sospirò “Sei sempre così chiusa in te stessa, Layla. Così restia a fare amicizia. Davvero, non comprendo come tu possa essere la gemella di una ragazza tanto carina e disponibile come Bel” la canzonò. 

Evitò per un pelo la mano della donna che le ringhiò addosso «Non mi serve una seduta di psicanalisi, soprattutto da te e non mi interessa l’estetica di quel coso. Dimmi solo cosa hai percepito e cosa ne pensi prima che ti confini nell’ombra per i prossimi mille anni» 

Ottenne un mugugno scontento “Con te non si può proprio scherzare”. 

L’ombra si mosse in avanti quasi strisciando e si sedette - anche se nessuna parte del suo corpo era realmente poggiata sulle superfici presenti - accanto alla compagna, la testa tenuta alta da una mano nera “Sinceramente non saprei. Non è che le entità vanno in giro con un cartello di riconoscimento. L’unica certezza è che non è un essere appartenente alla schiera dei demoni” 

Layla alzò un sopracciglio «Ne sei sicura?» 

L’ombra allungò le braccia e si avvinghiò al collo dell’altra “Molto sicura. Non percepivi anche tu una sgradevole sensazione? Come se non fossimo sulla stessa lunghezza d’onda. Quel brivido sotto la pelle che brrr” Avvicinò la bocca alla guancia, la fece scorrere verso l’orecchio e soffiò delicatamente nel padiglione. 

Layla non percepì realmente l’aria, perché l’ombra non emetteva nessun fiato, la sensazione del brivido le fu trasmessa tramite le stesse parole che le solleticarono la base del collo costringendola a incassarlo tra le spalle.  

Vedi, proprio così”. 

«Non c’era bisogno della simulazione» in qualche modo si sentiva più calma ora, sicuramente la presenza dell’ombra le aveva permesso di distrarsi almeno un minimo. 

L’altra ridacchiò con la sua voce argentina e squillante. 

«Quindi deve essere un angelo» regnò per un istante il silenzio tra le due figure «Quando ha parlato con Bel, il ragazzino, le ha detto che una voce ripeteva nella sua testa una frase» fece una breve pausa «L’abbiamo trovata» 

L’ombra piegò la testa di lato “Temi che si riferisse a noi?”  

Layla si passò le mani tra i capelli «Si». 

“Del resto è lo stesso ragazzino che abbiamo visto in sogno” 

Quelle parole le fecero venire in mente quel ricordo poco gradevole e per un istante si rese conto che era stata lei stessa a cacciarsi in quel guaio, mettendo da parte sua sorella del sogno e del fatto che il ragazzino assomigliava alla persona che aveva visto. 

Si gratto la nuca con più foga «Lo so» digrignò tra i denti stretti mentre stringeva i crini tra le dita. Si era condannata da sola, sarebbe stato un bel grattacapo e difficile da gestire visto che Bel era passata in modalità mamma chioccia. 

Portò le ginocchia al petto e poggiò la fronte su queste, chiudendo le braccia sopra la testa. 

La situazione la irritava e in qualche modo sapeva che sarebbe solo peggiorata. 

Dopo qualche istante un risolino divertito fece eco nella sua testa «Non c’è niente da ridere» volse la testa verso l’esterno e osservò la sagoma presente ancora accanto a lei. 

Oh Layla, se ti vedessi rideresti anche tu” svolazzò leggiadra intorno alla mora e si acquattò di fronte a lei “Qual è la tua preoccupazione? Il ragazzino? Abbiamo affrontato nemici più insidiosi e subdoli uscendone vittoriose” dondolò su  stessa “Oppure è tua sorella che ti cruccia?” allungò le braccia e avvolse il viso dell’altra tra le mani nere.  

Ne sfiorò la pelle con delicatezza e attenzione, come se stesse tenendo un prezioso vaso di porcellana “Eppure non dovresti preoccuparti. È millenni che si comporta così, ma lo sai che la sua prima preoccupazione sei tu e tu soltanto” Le sfiorò la guancia con il dorso di quella che doveva essere la sua mano e con voce materna mormorò “Nonostante tutto questo tempo resti sempre così umana...ti invidio...”. 

Layla scostò il volto, premette le mani sul terreno e si alzò in piedi «Non c’è niente da invidiare» farfugliò poggiando la schiena sulla parete ed incrociando le braccia al petto. 

L’ombra le lasciò il viso e si alzò a sua volta. Dal busto le gambe iniziarono a prendere una forma più consistente andando poi a svanire, verso il pavimento, sfumando verso i piedi di Layla ai quali sembrava ricongiungersi. 

Allungò nuovamente la mano, le sfiorò con delicatezza il mento “Non ti crucciare bambina, vedrai che tutto andrà come deve andare...”.  

Mentre parlava il tono si affievolì come la sua figura che si nebulizzò per ricadere lenta verso il terreno a riformare quella che era l’ombra originaria della ragazza. 

Layla si coprì il volto con le mani facendole poi scivolare verso il mento «Questo non è per niente rincuorante» sbuffò scuotendo la testa in senso di diniego. 

Rimase in silenzio, con i suoi pensieri fino a che una voce acuta non fece capolino. 

«Ehi»  

«Ehi stronza, hai finito di parlare da sola?» la prigioniera, o quantomeno l’ospite presente nel suo corpo, aveva iniziato nuovamente a lamentarsi della sua situazione. 

Era sdraiata sulla sua branda, con le braccia che ciondolavano nel vuoto e il volto rivolto verso il soffitto bianco. 

Layla non le rispose, la fissò con sguardo vacuo fino a che non la vide mettersi a sedere. Il busto sollevato dal letto era leggermente reclinato in avanti, la testa ciondolava su un lato come se fosse stata senza vita. 

Per un istante le sembrò una bambola abbandonata sul letto da una bambina ormai stanca di giocarci insieme. 

L’idea svanì quando alzò il capo e ricambiò il suo sguardo con uno pieno di astio, del resto non doveva essere piacevole essere rinchiusi in una gabbia invisibile ed essere poi lasciati al buio per un tempo indeterminato. 

Si allontanò dal muro e avanzò di un passo «Hai bisogno di qualcosa?» domandò secca, non che fosse davvero interessata ai suoi possibili bisogni. 

«Devo andare in bagno» la canzonò, seppur fosse una richiesta vera. Fece scorrere le gambe oltre il bordo del letto e si mise a sedere più comodamente poi indicò, con le mani, la parte più bassa del ventre «Questo dannato corpo umano ha delle necessità che non posso più rimandare». 

Layla sbuffò e le diede il fianco, pronta ad andarsene da quella stanza «Non è un mio problema» proferì scatenando così l’ira dell’altra. 

«Fanculo!!!» urlò «Fammi uscire da questa cazzo di gabbia!!» la pelle paonazza del volto era in netto contrasto con il biancore delle mani chiuse in pugni tesi dal nervoso. Avrebbe voluto reagire ma, come tutti gli animali, il suo corpo ancora ricordava la prima volta che era entrata in contatto con la barriera, e non era un’esperienza che voleva ripetere «Sei solo una stronza! Una puttana! Una...». 

Era scattata in avanti con una rapidità inumana, la donna imprigionata non riuscì quasi a percepirne lo spostamento ma avvertì perfettamente le dita premere vigorosamente attorno al suo collo e impedire il flusso dell’aria nei polmoni. 

Si aggrappò con forza al polso per cercare di liberarsi.  

Grugnì qualcosa ma la donna di fronte a lei non abbandonò la presa anzi, le dita sembrarono premere ancora con più intensità. 

La guardò con occhi iniettati di sangue ma fu ricambiata da un abisso vuoto. Non c’era rabbia nella sua espressione, non c’era gioia, non c’era niente. Come se fosse stata svuotata completamente del suo essere, un fantoccio vuoto. 

Il leggero cigolio della porta e una voce sgomenta fu quello che la salvò «Layla» come sentì il suo nome la presa si allentò «ma cosa...» quando fu liberata dalla morsa tossì con vigore, quasi infastidita dall’aria che era tornata a circolarle nel corpo. 

Layla ritrasse l’arto, la barriera si richiuse lasciando nuovamente isolata la prigioniera «Urlava troppo» proferì alzando leggermente le spalle «Cosa vuoi?» domandò senza troppi convenevoli. Era ancora arrabbiata con lei. 

Bel rimase sull’uscio, ancorata alla maniglia della porta «Volevo...» abbassò lo sguardo e le gote le si imporporarono. Layla la guardò e riconobbe la sua espressione da scusa, ma non disse molto. Incrociò le braccia sotto al petto e tamburellò il piede, un paio di volte, sul pavimento. 

La sorella l’osservò sottecchi e arricciò le labbra «chiederti scusa...» sbiascicò. 

Layla inarcò un sopracciglio «Cosa?»  

La gemella batte un piede per terra, chiuse gli occhi e tese il corpo in avanti «Scusa, scusa, ti chiedo scusa!» urlò con veemenza. 

Ma non sembrò abbastanza «E per cosa ti scusi?» domandò la mora facendo un passo avanti, verso la gemella, che la guardò con occhi grandi e persi «Per come ti ho trattata prima. Non volevo sgridarti...ma...» poggiò la mano libera sulle labbra, come se non volesse continuare la frase ma Layla non aveva intenzione di lasciargliela passare liscia. Si avvicinò ancora e flesse la schiena di pochi gradi in avanti «ma?» 

Bel strinse gli occhi, inspirò profondamente e continuò «Ma è solo un ragazzino» aggiunse con più calma «Sarà già spaventato e preoccupato così. Incatenarlo e minacciarlo non migliorerà la sua situazione» alzò lo sguardo languido sulla gemella la quale fu costretta ad arrendersi, in qualche modo. 

Sbuffò sonoramente e allargò le braccia che fece ricadere rumorosamente lungo i fianchi «E’ un rischio» le parò con tutta la calma che riusciva a possedere, non voleva litigare di nuovo «lo sai che è un rischio, vero?» 

Bel annuì. 

Si avvicinò alla gemella, azzerando quasi completamente le distanze e abbassando il tono della voce «Non è diverso da ciò che facciamo di solito, Bel. Dovremmo liberarcene e basta». 

«E se ci fosse di aiuto?» domandò l’altra piegando il capo verso destra. 

«Aiuto per cosa, Bel? Ce la caviamo perfettamente da sole, non abbiamo bisogno di...» si fermò quando vide gli occhi dell’altra riempirsi inumidirsi, fu come essere pugnalata al cuore. 

Sospirò, le prese il volto tra le mani con dolcezza e poggiò la sua fronte su quella della gemella. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Il profumo dell’altra le riempì le solleticò le narici «Va bene» proferì con quanta più convinzione riuscì a trovare. 

Bel sgranò gli occhi chiari, incredula «Va bene?» domandò con una punta di perplessità. 

L’altra si allontanò di qualche centimetro, poteva vedere il suo volto riflesso nelle iridi cristalline della gemella, avevano la stessa purezza di secoli precedenti ed era qualcosa di incredibile. Le carezzò il volto e alla fine la liberò dal contatto, ma prima che la mano potesse tornare lungo il fianco Bel la intrappolò con la sua «Va bene, cercheremo di aiutare il tuo cucciolo ferito» la risatina che udì nella testa la fece sospirare «ma devi promettermi che se la situazione peggiora lo esorcizzeremo». 

Bel strinse la mano della sorella e le sorrise ampiamente con l’aria trasognata che tanto la distingueva «Promesso!». 

“Ci sarà da divertirsi” 

«Ti prego stai zitta» borbottò tra se e sé, un'occhiata in tralice della gemella. 

«Vuoi mangiare qualcosa?» aggiunse infine Bel. 

«Solo se non cucini tu» aggiunge prendendosi un buffetto in piena fronte da parte dell’altra. 

«Sei cattiva, come se non cucinassi bene» aggiunse piagnucolando. 

«Lasciamo stare» Layla strinse la presa sulla mano della gemella per trascinarla fuori dalla stanza. Prima di uscire però diede un’occhiata all’altra presenza, che sedeva sulla branda con ancora la mano poggiata sul collo.  

«Più tardi dovremmo occuparci anche di lei» Bel la guardò con una nota di tristezza negli occhi. Annui con il capo e poi seguì la sorella oltre la porta. 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 14 agosto, ore 21.00 ***


 

14 agosto, ore 21.00 

Erano seduti al tavolo della cucina da una buona mezz’ora, Padre Samuele era a capo tavola con le mani giunte poggiate sul piano; le due gemelle erano sedute lateralmente, l’una accanto all’altra, Layla con le braccia incrociate sul petto e Bel con le mani giunte sulle gambe; Giovanni era seduto di fronte a loro e le guardava con gli occhi spalancati e colmi di interrogativi.  

Si erano rifocillati e riposati per qualche istante e poi Bel aveva cercato di raccontare, a Giovanni, gli avvenimenti che si erano succeduti fino a quel momento e che li avevano portati a quell’istante, nel modo più semplice che conosceva. 

Nonostante questo, il risultato ottenuto non era quello che lei aveva sperato.  

Il ragazzo, dirimpetto, le guardava con aria spaesata. Si vedeva che faceva una certa fatica a dare ordine e senso alle informazioni che gli erano state appena passate. 

«Quindi...» dopo qualche minuto di profondo silenzio, interrotto solo da alcuni profondi sospiri, finalmente, tentennò qualche parola.  

Bel annui, sorridente, senza aggiungere niente, per paura di causare un altro blocco mentale «...voi siete...» roteò le mani nell’aria cercando la parola corretta «qualcosa come delle esorciste» l’inflessione finale la fece risultare più come una domanda che un’affermazione. 

Bel, nell’indecisione, annuì di nuovo con fermezza. 

Lo vide alzare gli occhi al soffitto e poi riportarli verso di loro. 

Dal petto che si alzava comprese che aveva inspirato profondamente, come se fosse in procinto di affrontare una lunga immersione «E io...» corrugò la fronte «...tecnicamente...» mimò le virgolette con le dita «...sarei posseduto da...» le continue pause causarono una leggera irritazione da parte di Layla che fu celermente messa a tacere dalla gemella con un leggero pizzicotto sulla coscia. 

Giovanni continuò «...un angelo?» nuovamente finì con un’inflessione interrogativa. 

«Presupponiamo» affermò Bel stirando le labbra in un sorriso tirato. 

«Presupponete» ripeté il ragazzo grattandosi il mento.  

Esasperata Layla batte, con vigore, il palmo della mano sul tavolo. Il tonfo fece sobbalzare tutti, anche Samuele che non partecipava attivamente alla discussione ma solo come spettatore. 

«Potresti arrivare al dunque o completare almeno un ragionamento» aveva i riflessi della domanda, ma uscì più come un ordine. 

«E’ che...» balbettò fermandosi nuovamente. 

«E’ che, cosa?» ringhiò la mora. 

«Layla devi dargli tempo» intervenne la sorella, cercando di placarne l’animo. 

«Tempo per c...» 

«È difficile crederci» la interruppe Giovanni tutto d’un fiato. 

Entrambe le gemelle si girarono a guardarlo. «E’ una storia surreale, anche se Bel mi ha guarito magicamente da tutti i miei mali» aggiunse. 

«In effetti potrebbe sembrare inventata» ridacchiò Bel. 

Layla esalò esasperata «Tu non dovresti dargli corda» borbottò «In ogni caso, indipendentemente da cosa lui creda, la situazione in cui ci troviamo è rischiosa e dobbiamo risolverla prima che peggiori»  

«Layla!» Bel non apprezzò il tagliar corto della gemella. 

«È inutile che mi rimproveri, è vero» proferì con sufficienza. 

Giovanni le stava guardando ma la sua mente era rimasta focalizzata nell’analizzare la situazione in cui era capitato suo malgrado. 

La storia che gli era stata raccontata era surreale, si avvicinava più alla trama di un film che ad un evento realmente possibile e credere a quelle parole era una scelta rischiosa. 

Del resto, nonostante avesse assistito alla sua stessa guarigione – con la sola imposizione delle mani – poteva sempre trattarsi di una finzione.  

Il suo cervello non riusciva ad escludere totalmente la possibilità che fosse stato sequestrato da un gruppo di pazzi che cercava di prendersi gioco di lui. 

Dall’altra parte però rimaneva un barlume di possibilità che tutto stesse realmente accadendo, il che dava una spiegazione più chiara alle voci che aveva udito nella sua testa in quell’ultimo periodo.  

Oppure semplicemente anche lui faceva parte di quel mondo di pazzi. 

Però c’era sempre il sogno. 

Batté le palpebre, tornando nel mondo reale, le due ragazze davanti a lui stavano ancora discutendo tra di loro «Posso fare una domanda?» il quesito le placò facendo convergere la loro attenzione nuovamente verso di lui. 

«Certo» la voce di Bel gli diede la forza per continuare. 

«Avete parlato di un sogno. Mi avete visto in un sogno...». 

Bel aprì la bocca ma Layla la fermò, posandole una mano sulla spalla. 

Qualcosa, probabilmente la serietà con cui pose la domanda, la portò a rispondere di persona. 

«Io» iniziò «In realtà sembravi tu» specificò «il sogno era confuso» si massaggiò le tempie e chiuse gli occhi cercando le immagini ormai sbiadite di quella visione. 

«Ricordo una piana infinita di sabbia e rocce, il fastidioso riverbero del sole e la sensazione dei raggi brucianti sulla pelle. Non sono da sola in questo posto, ci sono delle ombre intorno a me ma non riesco a distinguerli, hanno forme indistinte. Io cammino tra loro fino a che qualcosa mi distrae...» riaprì gli occhi, l’iride rossa emise un leggero bagliore «...alzo gli occhi e vedo una figura aleggiare nell’aria. Anch’essa on ha dei contorni precisi, è confusa, come se un velo semitrasparente le fosse stato messo proprio davanti. Ma il velo ondeggia, anche se non c’è vento, e se guardo bene riesco a distinguere dei tratti» corrugò la fronte e reclinò leggermente il capo verso la spalla destra, guardava in un punto imprecisato sul muro alle spalle di Giovanni. 

«E’ strano però, è come se diversi volti si miscelassero insieme a formarne uno ma in alcuni momenti, concentrandosi al massimo, è possibile distinguere un volto che...» sospirò, alzando le spalle «assomiglia proprio al tuo» e tornò a guardare il ragazzo che ora appariva ancora più sperduto, quasi spaventato. 

I presenti si scambiarono un'occhiata, due mostravano segni di preoccupazione mentre Layla era più perplessa per la reazione mostrata.  

Fu Bel ad intervenire «Giovanni, stai bene?» 

Lui alzò il volto verso di lei, deglutì, fu possibile vedere chiaramente il pomo sul collo muoversi verso l'alto e poi tornare in posizione «Ho fatto un sogno anche io». 

Le gemelle alzarono le sopracciglia contemporaneamente ma nessuna delle due si pronunciò. 

«Tecnicamente ho fatto lo stesso sogno» dalla voce iniziava a trasparire una certa agitazione «L’inizio è uguale ma io vedo tutto dall’alto e poi vedo una donna, ha capelli rossi come fuoco anzi no...come sangue. E mi indica e non è che sorride, è un ghigno e e e e e mi indica e...» fece una pausa «mi sfida?» si mise le mani sulla testa e iniziò a grattare convulsamente la cute «Ma l’ho vista solo negli ultimi due sogni così chiaramente, prima non vedevo altro che il deserto e quando mi svegliavo avevo un mal di testa terribile ma ora l’ho vista». 

Qualcuno lo sfiorò e, con uno scatto, ritornò in contatto con la realtà 

Bel si era allungata sul tavolo e gli sorrideva con dolcezza. Si perse, per qualche istante, in quella calma. Si lasciò cullare e si rilassò. 

La ragazza tornò a sedersi composta e spostò l’attenzione verso gli altri presenti. Padre Samuele aveva incrociato le braccia al petto mentre Layla si dondolava sulla sedia con sguardo serio. 

L’occhio aveva ormai assunto la colorazione del sangue vivo, sembrava ribollire e scorrere nell’iride. Era pulsante di vita, come se all'interno vi fosse rinchiusa un’anima che bramava soltanto di essere liberata da quella prigione di carne. 

E Giovanni, guardando in quel vortice di sangue, riconobbe la stessa intensità di quegli occhi che nel sogno lo fronteggiavano sprezzanti e superbi. 

Quella donna era lei, seppur le fattezze del volto non coincidessero con il suo ricordo. 

Si alzò di scatto, la sedia cadde alle sue spalle colpendo prima la parete per poi scivolare verso il pavimento, ricadendo su di esso con un tonfo secco.  

Il rumore fece riportare l’attenzione dei tre presenti verso di lui, che guardava sgomento la gemella mora. 

Alzò un braccio tremante, l’indice puntato sulla figura della donna che corrugò la fronte alle sue parole «Sei tu» proferì «Nel sogno» specificò leggendo la perplessità nei suoi occhi. 

«Che cosa....?»  

Il ragazzo piegò il braccio verso il suo stesso volto e puntò il dito ora verso l’occhio «Occhi rossi» scandì le parole con talmente tanta cura che per un istante, a tutti i presenti, il tempo sembrò aver rallentato. 

La mano di Layla si alzò, lentamente, andando a coprire l’iride cremisi al cui interno un simbolo aveva lentamente preso forma cancellando la presenza della pupilla. 

Oh.... 

«Oh...» 

La voce a tratti stupita della sua coinquilina fece capolino nella sua testa e si diffuse nella stanza tramite le sue stesse corde vocali creando così, solo per lei, uno strano effetto eco. 

«Oh? Che cosa vuol dire “Oh”?» la voce di Bel fece spostare l’attenzione di tuti verso di lei. 

Layla volse solo parte del viso in sua direzione, il sorriso di scherno che le rivolse le fece comprendere che la donna a cui si stava rivolgendo non era più sua sorella, almeno non nella sua interezza. 

Scostò la mano dal volto, scoprendo quel simbolo che la identificava in tutti i mondi esistenti e che scatenò, in Giovanni, un altro improvviso attacco di emicrania che lo costrinse a piegarsi su  stesso.  

Bel si avvicinò a lui di corsa, lo afferrò saldamente per le spalle cercando di tenerlo eretto. 

«E' che sono alquanto sorpresa. Non era la situazione che mi aspettavo» alzò le spalle con sufficienza. 

Samuele si alzò a sua volta e si avvicinò alla donna «Spiegati meglio!» esclamò con foga afferrandola per la spalla. 

Sul volto di Layla il sopracciglio si inarcò «Senti prete» marcò la parola con tutto il disprezzo che le procurava pronunciarla «per quanto le due sorelle apprezzino la tua presenza, ricordati bene che io» alzò la mano e afferrò il polso dell’uomo con forza «non sono del loro stesso parere» sibilò mentre si liberava dalla presa. 

Samuele ritrasse la mano e si afferrò con l’altra il polso dolente.  

«Non è il momento di discutere» la voce di Bel era dolente «Giovanni non sta bene». 

Il ragazzo era tenuto da Bel per le spalle, mentre lui si stringeva la testa tra le mani con tanta forza che le stesse dita avevano perso completamente il colore. 

«Giovanni, Giovanni»  

Il suono del campanello arrivò come il rombo di un tuono in una tersa giornata primaverile, allarmando i presenti. 

Bel rimase concentrata su ragazzo mentre Samuele e quella che doveva essere Layla volsero l’attenzione in direzione della porta. 

Il campanello suonò ancora una volta «Vado a vedere chi è» nella voce profonda e pacata di Samuele si poteva percepire una certa insicurezza. 

Quella che avrebbe dovuto essere Layla lo guardò, l’occhio rosso dominava completamente l’espressività di quel volto, mentre l’occhio azzurro aveva perso parte di quella luce che lo caratterizzava. 

Quando parlò la voce risuonò con la stessa tonalità di quella della gemella mora tranne per quella piccola inflessione canzonatoria che era tipica dell’altra entità che risiedeva in quel corpo «Fossi in te...» si leccò le labbra «...non lo farei» e sorrise beffarda.

Image and video hosting by TinyPic

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3749231