Iokolpos

di MadLucy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Referes ergo haec ***
Capitolo 2: *** et nuntius ibis Pelidae genitori. ***
Capitolo 3: *** Illi mea tristia facta ***
Capitolo 4: *** degeneremque Neoptolemum ***
Capitolo 5: *** narrare memento. ***
Capitolo 6: *** Nunc ***
Capitolo 7: *** morere. ***



Capitolo 1
*** Referes ergo haec ***


L'angolo a cui avevi sempre dato le spalle. L'altare ripulito, che da bambina acconsentivi a credere che non fosse mai stato sporcato. Per non soffrire, per proteggerti.
Frena le lacrime, Ermione. Mantieni la compostezza che ti si addice. Non è il primo morto che si para sulla tua strada. Era un sibilo basso, senza rabbia, solo un suono acuto nell'anello di tenebre che ti circondava, la striscia di terriccio in cui il mondo si era ammassato. Non piangere.
Singhiozzasti più forte, impugnata la stoffa, tu appesa. Era più di un pianto. Era la verità. Ti sbracciavi nella verità come una profetessa, davanti ai profani. 
Placati, placati.
La furia si affievoliva in stanchezza, espettoravi mite e imperturbata. Conscia che sarebbe passata e avresti fatto qualcosa di orribile, cioè permettere che niente fosse cambiato.

~ • ~

Eri felice di essere a Micene. Avevi due cugine vicine alla tua età lì. Cugine di madre e di padre. A Sparta, niente del genere. Figlie di schiave, bambine troppo diverse, troppo intimidite o rancorose, già imbruttite dalla loro condizione. Crisotemi, quasi minuscola, più giovane di te, che guardava sempre i propri sandali di cedro. Ifigenia, la maggiore, che sapeva già lavorare al fuso come un'adulta, un'ala di capelli corvini e morbidissimi, che si divertiva a signoreggiare ma quando ti sorrideva era molto bella. E Elettra. Eravate andate subito d'accordo. Vi misero a dormire in camera insieme. Dopo tre giorni, lei ti aveva già fatto tenere in braccio la sua bambola più bella, quella con il copricapo di pietre preziose di Lesbo, e tu le avevi già insegnato che rincorrere le lucertole era divertente. Le balie ti fulminavano con lo sguardo. Ti fecero smettere di correre e ti diedero un arcolaio. Non ti dispiacque tanto, ma così i pensieri diventavano molto più brulicanti e fervidi. Non potersi sfogare con il corpo faceva sbocciare la mente. 
Ignoravate il fermento degli adulti. Il giorno della partenza dell'esercito, subito dopo il tuo arrivo, fu maestoso. I cittadini intorno alle mura che inneggiavano, disciplinati come i commilitoni. Era una festa, c'era la frutta, il sole. Tuo padre si guardava intorno inquieto come un topo in una casa di gatti. Tuo zio Agamennone era serafico, invece, pericolosamente calmo, come a dire tutto sotto controllo, adesso ci penso io. Lo avevi visto di rado, prima di arrivare a Micene. Barba nera, ispida, occhi azzurri che spuntavano dalla pelle scuro di cuoio come tagli. Affilati, penetranti. Braccia forti, abbronzate, da giovane. A cena gli bastava pochissimo vino per urlare, sbracciarsi. Quando ti sfiorava con lo sguardo, ti sentivi sempre in dovere di raddrizzare la schiena, di apparire composta, dignitosa. Era un re in un senso in cui tuo padre non lo sarebbe mai stato. Lui era sul cavallo più grande quando partirono. Tu eri in mezzo alle donne, alla regina Clitemnestra, con in braccio l'erede maschio da poco partorito, e alle tue tre cugine: Ifigenia che imitava le donne grandi e faceva una faccia lunga e seria ma fatalisticamente consapevole dell'importanza dell'evento, Crisotemi che mangiava uva e aveva appena smesso di piangere, e Elettra che saltava insieme a te e urlava viva gli Atridi, viva la Grecia! A quel tempo le tue tre quasi coetanee erano molto più interessanti da osservare, ma in futuro avresti cercato di ricordare l'atteggiamento di Clitemnestra, una spettatrice decisamente più insigne. Lei non era cupa nè esultante. Respirava ferrea sotto i veli della sua acconciatura. Sapeva come occuparsi di una reggia in solitudine, le piaceva amministrare gli affari per conto proprio. Non aveva paura. Però bruciava di fastidio per il disonore che sua sorella aveva arrecato alla vostra genia. Elena, tua madre. Elettra te lo chiese, qualche giorno più tardi: ho sentito un soldato dire che tua mamma è una puttana dei troiani. Tu non avevi saputo cosa rispondere. Non sapevi bene cosa fosse una puttana, ma era un brutto insulto. Quasi ti dispiaceva offendere quella povera testa vuota di Elena, come si ha sempre dispiacere nel prendersi gioco di qualcuno di più debole e ingenuo, ma non eri in grado di difenderla. Elena era scomparsa -non veniva più a farsi perdonare intromettendosi nei tuoi giochi di sabbia solitari- e con lei la tua vita regolare. Ancora niente era chiaro. Ci sarebbe voluto del tempo. O forse non lo sarebbe mai stato davvero. Ma non eri così sconcertata da tutto questo. Elena spariva sempre. Essere intermittente era la sua caratteristica principale. Tornerà, pensavi, ma non lo dicevi ad alta voce. Doveva venire lei a difendersi da sola. 
Intanto a Micene tutto era allettante. L'ingresso del palazzo in salita, con la porta dei leoni. Il mercato sporco e chiassoso di oggetti esotici scaricati da navi che ormeggiavano in porti di ogni angolo del mondo, dove i bambini potevano girare liberamente nonostante fosse pieno di lestofanti, e persino tu e Elettra, se accompagnate da Arsinoe, la nutrice, ci andavate, seppur con la raccomandazione di non infilarsi nei vicoli. Il tempio in porfido rosso dedicato a Zeus, più grande di qualsiasi altro aveste a Sparta. Clitemnestra, questa zia tutta nuova, che ti trattava con dolcezza, ti accarezzava i capelli ricci e diceva tu non hai colpa, bambina, dei reati di tua madre, non dimenticarlo mai, e ti lasciava tenere tra le braccia, sotto la supervisione sua o della sua balia, il piccolo Oreste, nato quella primavera, che aveva la faccia di un animaletto schiacciato e pochi capelli, neri come il carbone, come suo padre. Ti viene da ridere, vero? a spiare quella scena nei tuoi ricordi oggi, perchè un giorno avresti stretto al seno suo figlio come allora stringevi lui. Eri troppo piccola per immaginare cose del genere. Cullarlo e guardare le sue facce era molto divertente. Micene era bellissima. 
Per venti giorni, era stato bellissimo. 
Giunse una missiva. Ifigenia deve sposare Achille. Lei ringalluzzì. Divenne quasi insopportabile. Non faceva che vantarsi. Achille, figlio di una nereide, educato da Chirone. L'uomo che avrebbe fatto cadere Troia. Ifigenia veniva servita e riverita come la regina illustre che si preparava a diventare: ogni ancella aveva per lei una premura, un unguento, un consiglio sussurrato all'orecchio. Tu e Elettra osservavate tutto ciò con un misto di meraviglia e condiscendenza. Non eravate ancora abbastanza grandi per invidiarla. Non capivate la vanità che la spingeva a controllare che i suoi boccoli ricadessero rotondi sulle spalle simmetricamente, a regolare con oculatezza la lunghezza del suo chitone. Clitemnestra si dava un gran daffare, brontolava per lo scarso preavviso. Il prima possibile, diceva il messaggero. L'alba della partenza, Ifigenia salì sulla carrozza di stoffe pregiate con il velo che la ammantava a cascata e la chioma inghirlandata di mirto, rivolgendovi un ultimo sorriso, affrettato, urgente, il prima possibile. «A presto, sorelle, a presto, Ermione: tornerò con il figlio di Achille.»
Achille avrebbe avuto un solo figlio, e non fu partorito da Ifigenia. Ifigenia non partorì nessuno. Proprio come Elena, sparì. Ma tu rivedesti Elena. Invece quella fu l'ultima volta che vedesti Ifigenia. 
Clitemnestra tornò sola, senza la figlia maggiore. Piombò il silenzio a Micene. Non osavi chiedere niente. Un mattino trovasti Elettra ombrosa, di cattivo umore, e capisti che sapeva qualcosa. Non chiedesti niente. Non volevi sapere. Avevi capito che i discorsi tristi degli adulti erano qualcosa da evitare. Non ascoltavi niente su tua madre, nè su Ifigenia. Accettasti con filosofia che prima c'erano, e adesso non più. Erano via, come tutti gli altri erano via. Tuo padre, tuo zio. Ma la vita a Micene cambiò. Crisotemi non sapeva nulla, come te, ma nel dubbio imitava sua madre: gravitava mesta intorno alle sue stanze, sempre chiuse, e in sua presenza piangeva, ignara del motivo. Elettra rimase afflitta per qualche giorno, poi dimenticò e riprese a giocare. Eravate piccole. Vi era concesso passare oltre alle disgrazie come alle sbucciature, alle punture d'ape. Qualche tempo dopo, quando delle schiave ti raccontarono la storia per filo e per segno, riflettesti. Le persone potevano essere risucchiate dal gorgo divino dei sacrifici come le vacche, le capre. La stessa figlia che, se qualcuno avesse schiaffeggiato, sarebbe stata da Agamennone giustiziata all'istante; quella stessa figlia era stata giustiziata. Le fanciulle erano giovenche, bianche, morbide, gonfie di sangue. Potevi accettarlo, e restare nell'equilibrio folle di quella realtà, o crollare nella follia. Il mondo aveva pianto Ifigenia, ma nessuno aveva provato ad impedire la sua morte. Tutti avevano davvero creduto che fosse l'unica, anche se sofferta, cosa da fare. Gli occhi che la compiangevano l'avevano seguita mentre scivolava nell'Ade. E questo, se possibile, era più spaventoso del coltello che era calato sulla sua gola. 
La vita era cambiata, ma continuò anche senza Ifigenia. Oreste imparava a camminare sulle gambette, incerto come un agnello. Clitemnestra era sempre al di fuori della portata dei vostri sguardi, mentre tu e Elettra ricevate le cure di Laodamia e Gilissa, fidate nutrici. Inventavate storie bellissime sulla guerra, sulle imprese di cui cominciavate a sentire voci. Impersonavate le donne che parlavano dei grandi guerrieri, nelle tende dell'accampamento acheo. Vi divertivate a spararle sempre più grosse. Mio marito Diomede ha colpito sul ginocchio la dea Afrodite! Mio marito Idomeneo ha ferito Ares stesso sul polpaccio sinistro! Tra i bambini si diffondeva l'insulto troiano. Un giorno, ad una delle rare cene a cui partecipò con voi, Clitemnestra lo udì uscire dalle labbra di Elettra. Impallidì. Disse: queste non sono faccende per voi. Da allora vi guardaste bene dal farvi sorprendere di nuovo.
Egisto arrivò da un giorno all'altro. L'orchestrazione dietro alla sua presenza doveva essere ben più antica, ma voi non potevate esserne al corrente. Un uomo dalle maniere cortesi, che cercò di incantarvi con un baule di seta e perle in dono. A te suscitava appena un sentore di diffidenza -dov'era Agamennone? perchè non era tornato lui al suo posto? Un uomo di potere nel palazzo di un re assente era qualcosa che metteva all'erta persino una bambina di dieci anni. Elettra lo odiava. Forse perchè ogni volta che lo vedevate era in presenza di Clitemnestra, a parlare con lei, a toccarle il braccio. La servitù bisbigliava come un nido di serpenti, irrequieto, persistente. Lo stesso che diceva Elena, la troia, Ifigenia, morta così giovane, ora diceva Egisto, nato dallo stupro di un padre ai danni della figlia, assassino dello zio. Quello zio era il padre di Agamennone e Menelao, il che faceva di Egisto il cugino del re di cui era venuto ad usurpare la reggia. L'ennesima cosa che non potevi sapere. Elettra divenne un'altra. Non riusciva a distrarsi con i giochi, con le recite. Quando intrecciavate le gambe insieme nello stesso letto, chiudeva la porta della camera con una grossa trave. Troppo grossa per la camera di una bambina. Le chiedevi perchè, rispondeva Egisto mi fa paura. Lo sognava anche di notte. Lo sognava mentre uccideva Oreste. Era diventata protettiva con lui. Da quando Clitemnestra aveva cominciato a lasciarlo con Arsinoe, insisteva sempre per occuparsene lei. Non toccarlo, non toccarlo piangeva nel sonno. Eri in pena per Elettra. Era la tua migliore amica. Non ti piaceva vederla triste. Crisotemi invece aveva accettato di buon grado seta e perle. Accettava tutto quello che era bello e consegnato con bei modi. Si lasciava accarezzare come un cucciolo, docile. Crisotemi. Era una bambina dolce. Troppo per i genitori che aveva. Un giorno Egisto si rivolse proprio a te. Clitemnestra disse chi eri, e lui inclinò la testa, sorrise. Spero che nella vita mi sarai più amica di quanto lo fu tuo nonno Tindaro. Da quel momento, avesti paura anche tu di lui. 
Il giorno della nascita di Alete non assomigliava al giorno della nascita di Oreste, avvenuta pochi anni prima. Nessun re portò doni. Nessun messaggio di congratulazione giunse dalle grandi città. Erano tutti in guerra, nessuno aveva avuto modo di accorgersi che a Micene la regina aveva partorito un illegittimo. Questo lo sapevi tu, e lo sapeva Elettra. Elettra che fremeva di rabbia. Che dovevi trattenere perchè non distruggesse i vasi della vostra camera. Oreste assisteva alla sua furia con i suoi grandi occhi gelati, gli occhi invernali di Agamennone. Elettra aveva il terrore che lui, così piccolo, non trattenesse le sue origini nella mente. Tuo padre è il re dei re, diceva, quello dabbasso è l'ultimo dei miserabili. Oreste ti ripeteva quelle parole con gioia e convinzione. Per lui era tutto un gioco, quando per voi aveva appena smesso di esserlo. Adesso anche tu, quando Elettra se ne scordava, facevi caso che il chiavistello fosse saldo alla porta. Egisto aveva portato i suoi soldati nel palazzo. Sottovoce, di notte, parlavate di cosa sarebbe successo se Agamennone fosse deceduto in battaglia. Egisto aveva un figlio adesso. Il neonato che sentivate strillare ogni notte, molesto, pieno di fiato. Clitemnestra aveva un nuovo bambino che non le ricordava i tratti del marito che le aveva strappato Ifigenia. Avrebbe difeso voi due? Ma soprattutto, avrebbe difeso Oreste? Due fanciulle filano e non danno tedio, un successore di diritto può risultare più scomodo. Tua madre in particolare, tra tutte le madri, non farebbe mai del male a un frutto del suo ventre, ribattevi tu, sconvolta dalla violenza della sola idea. Mia madre ha perso il senno, mormorava Elettra. Accarezzava la testa del fratello, piangeva. Dobbiamo portarlo via, dobbiamo salvarlo, Ermione. Tu le dicevi ricordati chi siamo, cugina. Eravate donne, no -eravate ragazzine. I condottieri che avevano giurato fedeltà ad Agamennone erano a combattere a Troia. Tu guardavi la notte, la strada polverosa e scoscesa fuori dal palazzo, che conduceva nel mondo spalancato, selvaggio, e immaginavi con un brivido tu e Elettra vagare con Oreste per mano. Non sei mai stata audace, ma non eri nemmeno stupida. Aspettiamo. La guerra finirà, i nostri padri vivranno. E Elettra aspettava, ma soffriva. Ascoltavate i resoconti di guerra con il cuore in mano. Non capivate niente, non ricordavate nemmeno quali guerrieri fossero dalla vostra e quali troiani. Ma in definitiva non accadeva nulla. Vi venne il ciclo mestruale nello stesso periodo. Era quasi un simbolo della battaglia silenziosa e indiretta che stavate combattendo insieme. Rimaneste a dormire nello stesso letto, le mani strette, la testa soffice di Oreste tra voi quando in sala da pranzo si beveva troppo vino. Li sentivate ridere sguaiati, come iene, e pensavate agli uomini che avrebbero dovuto lacerare quelle risa, e invece erano oltre il mare. La guerra doveva finire, presto. E invece durò altri sei anni. 

~ • ~

A volte ci ripensi. È come un affresco miniato su un vaso di creta, arrotolato tutto intorno alla circonferenza, snodato, immobile e definito, con luci, ombre, linee. Non conta a che punto sia la tua consapevolezza, se solo a qualche tocco di pennello o se negli ultimi sprazzi del termine. Ti stacchi dalla polpa pastosa del tempo, fai un passo indietro per vedere il complesso nella sua interezza. Sei uscita, non sei più un personaggio, assisti, esamini. Giudichi. È una storia. Con i suoi momenti morti, le sue brutture. I suoi colori. Nell'insieme, un piano piuttosto ragionevole. Di fortune sfacciate non brulica. Il caos si è disseminato a piccole dosi nei posti giusti, ha attraversato il tuo cielo come un meteorite che colpisce il pianeta accanto. Non ha esagerato, nessuno si è accanito a darti troppo o troppo poco. L'ha dipinta un dio, questa storia? 
Nessuno aveva espiato nulla, un verdetto banale. 

~ • ~

Elena era sulla bocca di tutti, ogni serva, ogni piantone, ogni grida rauca di Egisto sotto l'ebbrezza del vino. Tu eri quella che avresti dovuto saperne più degli altri. Elena era sotto la tua pelle. Nessuno ti faceva domande, ma se le avessero fatte le tue risposte sarebbero state deludenti. 
Sparta. I suoi ulivi neri, bassi, ritorti, nodosi, il fianco azzurro delle sue montagne lunghe, sempre velate di nebbia. Le cene di maza e kikcon, nella grande sala di pietra grigia. Tuo nonno Tindaro e tua nonna Leda, che tutti temevano tranne te, presa sulla ginocchia, viziata. I tuoi pepli rosa, corti come a Micene non potevi più tenerli. I capelli tagliati sempre all'altezza del mento, schiariti dal sole battente. Se c'è una cosa che tu e tua madre avete in comune è che Sparta non significò niente, non fu mai la vostra patria. Un posto sicuro da qualche parte, lontano, mai lì dov'eravate voi. Mai saldo sotto i piedi. Sparta. Uno stagno con un dito di acqua inverdita, nel quale sguazzavi con le piante dei piedi sulla melma molle e sdrucciolevole. Procleia, la tua nutrice, quella che ti aveva allattato al posto di Elena.
Elena di Sparta era malata, si pensò quando nacque. Presto abbandonata la condizione di neonata comune a tutte, hanno iniziato a spuntarle sulla testa quei capelli, come soffioni in primavera, a profusione, quasi candidi. E allora Leda l'aveva intrattenuta fra i tendaggi a crescere, vietandole l'attività fisica, lo studio, la fatica; e lei era cresciuta bianca come una focaccia, senza aver mai sudato nemmeno per il caldo. Con la candela votiva tra le mani, al tempio di Apollo, era irreale e irriproducibile come un riverbero di luce. Questo è quello che ti è stato raccontato, che è molto più chiaro di quanto tu abbia appreso vivendo con lei.
Chi è la Elena che tu ricordi?
È una ragazza amichevole che a volte, passeggiando in giardino, si ferma e si accovaccia per vedere che fai. Ride deliziata dalle pappe di sassi, come se ci credesse, più di partecipazione che di tenerezza. Forse non vedeva neanche te, vedeva solo le illusioni. Una bambina anche lei. Positiva e saltuaria, come una festa. Ma necessaria?
Non puoi smentire o confermare niente più degli altri, ma sei sempre stata convinta che non fosse una troia. Che non fosse mai andata con nessuno, prima della fuga. Non riteneva gli uomini all'altezza delle propri fantasie. Immaginava amori irresistibili, sentimenti fragorosi, eroi tutti fascino e eroismo, e si nutriva insaziata di quelli. Ogni tanto le piaceva recitare che Menelao fosse quell'amante, e allora ai banchetti metteva la mano sulla sua, gli si sedeva in braccio, filava virtuosa. Altre volte, la sua delusione era così palese da risultare comica. L'idea di essersi sposata senza amore, come gesto di sacrificio per obbedienza verso il padre, e di partorire figli per il bene del regno, anche questo la esaltava a volte, ma ad ogni modo non durava. Lo sai perchè giocava proprio come te, i bambini riconoscono gli occhi di chi gioca. Era debilitata dai limiti della realtà, Elena. 
Ricordi male anche Paride. Il suo ricordo si confonde con quello che conservi di tua madre. Le somigliava molto. Biondo, bello, giovane. Ingenuo. Che si guardava intorno in attesa che qualcosa si mobilitasse per intrattenerlo. Anche gli insulti a lui all'inizio ti facevano vergognare, ti parevano sproporzionati. Non potevi davvero credere che un viso così puerile e sprovveduto fosse in grado di reggere la responsabilità di crimini tanto gravi. Sembrava impossibile non provare indulgenza per la sua stupidità. Ripensandoci, ti torna in mente Ifigenia che spogliava crochi cantando le future imprese di Achille fra sè. Esistono ancora gli innocenti? O esistono solo gli ignoranti che lanciano le loro azioni nell'acqua senza badare a dove arriveranno i cerchi concentrici che ne scaturiranno? 

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Capitolo 2
*** et nuntius ibis Pelidae genitori. ***


Elettra cresceva segnata dalla sua preoccupazione. Fronte ampia, zigomi pronunciati. Aveva approfittato dell'incuria della madre e dell'assenza del padre per dedicarsi a passatempi altrimenti giudicati come balzani, istrursi di lettere, leggere, di leggende, genealogie mitiche. Eravate sorelle, ormai. Vi scambiavate i pensieri, i timori, le confidenze. Erano cose senza importanza. Fino a che durava la guerra, tutto era in stallo. Solo Oreste era in continuo mutamento. Era rimasto un maestro d'armi a palazzo, e Elettra gli ordinò di cominciare a istruirlo. Maneggiare una spada, parare i colpi. Rudimenti elementari. Lui assorbiva avido come un germoglio. Diceva: quando mio padre tornerà, sarà orgoglioso del figlio. Aveva imparato da Elettra il disprezzo per Egisto, che lo mal tollerava di rimando, e l'idolatria verso Agamennone. Non lo sapevi, ma tuo nonno Tindaro, quand'eri bambina, ti aveva promesso al primo figlio maschio che sarebbe nato da Clitemnestra. Il fanciullo che vedevi nel chiostro della reggia roteare il gladio era già destinato ad essere il tuo sposo. Lo amavi come una sorella, come lo amava Elettra. Temevi per lui come per tutti coloro che conoscevi. Temevi per tuo padre, persino per tua madre. Non amavi Elena di affetto propriamente filiale, ma non volevi che morisse. 
Crisotemi accompagnava per mano il piccolo Alete, per mostrargli le piante, dirne i nomi. Ormai era una fanciulla, il suo meccanismo di imitazione non era più giustificato dalla prima età. Aveva visto Egisto sedersi al tavolo al posto che era stato di suo padre e non aveva detto nulla. Mangiava con loro, accettava l'invasione. Quando la incrociava, Elettra la indicava, spietata. Guardala, Oreste. Lei è una traditrice del seme che l'ha messa al mondo, e sarebbe stato meglio che non ci venisse mai. Oreste assimilava, con i suoi occhi di ghiaccio, in silenzio. Crisotemi piangeva, le si aggrappava alla veste, cercava di portare la sorella maggiore dalla sua. Gli dei insegnano anche il rispetto della madre, e la nostra è una donna ferita da sventure troppo grandi. Elettra la calciava via, con disgusto. Non quando la madre manca di rispetto allo sposo per prima. Oreste ti chiedeva Ermione, perchè le madri sono donne cattive? Tu esitavi. Avresti potuto parlargli di come una donna fosse costretta a sposare uno sconosciuto più vecchio che la prendeva anche con la forza, o di quanto fosse impotente se il marito decideva di immolare sull'altare sua figlia abbigliata per le nozze. Di come le madri diventavano mostri, e di chi creava quei mostri. Invece gli stringevi la piccola mano bianca, con le vene lilla. Le madri sono mortali, e i mortali sono deboli. Oreste ti scrutava, con la sua schiettezza di bambino. Se tua madre è debole, perchè tuo padre non l'ha già riportata a casa? Tu immaginavi che con Paride ci avesse già bisticciato. Erano immaturi, e per condurre una lunga vita insieme ci voleva maturità. Immaginavi che a un certo punto sarebbe tornata all'accampamento del nemico, gettandosi ai piedi di Menelao, dicendo scusa, scusa, portami a casa. Ma quel momento non arrivava. 
Tu non sei cattiva, concesse infine Oreste, come verdetto definitivo, con un sorriso conciliante. Gli carezzasti una guancia, intenerita. Era il risultato dell'affetto che tu e Elettra gli avevate dato dal nulla, dal dolore di una guerra. Eppure era un bambino che conosceva l'amore. Quello che Menelao aveva dato a te, quello che Elettra aveva avuto dai genitori, prima che- prima. 
Intanto si accumulavano le storie delle nuove imprese che si vociferava avvenissero sulla baia dardania. I massacri di Diomede, Aiace Oileo e Aiace Telamonio, Palamede, e Achille. Ormai sapevi che la storia aveva bisogno solo di sfaccettature polite, come una pietra preziosa. C'erano le cose che non venivano raccontate. La leggenda non avrebbe annoverato Paride che piangeva come un bambino destato da un incubo perchè non voleva combattere per tenersi la donna che aveva rapito ad un re, i valorosi guerrieri greci che mentre si gloriavano delle proprie imprese stupravano figlie di sacerdoti più giovani delle loro stesse figlie, di Polidoro, figlio di Priamo, ucciso per l'oro dal re che aveva promesso alla madre Ecuba di tenerlo al sicuro. Non eri interessata a questo genere di tradizione, quella che nascondeva lo sporco sotto il tappeto, in cui dei due schieramenti non si faceva altro che millantare in una sfida a chi aveva la spada più scintillante. Non vi facevate più ammaliare dalla gloria. Quelle erano favole. Voi avevate bisogno di qualcosa di più concreto. Avevate bisogno che quei personaggi d'aria tornassero di carne e salpassero. Avevate bisogno che Troia cadesse. Era strano augurare tanto odio e sventura a una città che non avevi mai visto, che non aveva commesso nessun effettivo torto contro di te, la tua famiglia o il tuo popolo. Ma non aveva ripudiato Paride e le sue colpe. A volte bisogna sapere quando lasciar andare anche l'amore, pensavi, guardando Crisotemi che seguiva sua madre al tempio, gli occhi bassi. Altrimenti ci si rompe le mani.


~ • ~

Quel giorno te lo ricordi bene. Tu e Elettra filavate con delle ancelle, in gruppo come un gregge di agnelle, spalla a spalla, e Oreste aveva la testa in grembo a sua sorella. Ognuna raccontava una delle storie che aveva udito dagli aedi da bambina. Stava terminando la storia di Aracne e della sua presunzione, quando il messaggero arrivò senza fiato, senza voce, incredulo. La guerra è finita. Balzaste in piedi, pallide, all'improvviso impreparate a quello sconvolgimento. I greci avevano vinto, Troia continuava ancora a bruciare mentre voi stavate parlando. Agamennone, il re dei re, aveva piegato Priamo e la sua numerosa discendenza. Menelao era irrotto nelle stanze del palazzo in rovina e aveva trascinato fuori Elena per i lunghi capelli. Elettra piangeva, tu la stringevi, vi aggrappavate l'una all'altra. È finita, è finita. Vi sentivate come quei soldati, distrutte, imbambolate. Oreste saltava, si affacciava alla finestra, urlava tra le mani a coppa Troia è vinta, Troia è vinta, viva gli Atridi! E voi non lo sgridavate, lo imitavate. Volevate urlare anche voi. Volevate buttare fuori tutta l'angoscia, tutto l'orrore di quegli anni. Tutto il tedio. Elettra si tratteneva dallo scendere nelle stanze di Egisto e coprirlo di scherno. Ci penserà mio padre, sogghignava. Tu eri stordita e emozionata. Felice, anche, per lei. Dalle stanze di Clitemnestra, non una parola, non un suono. 
Si predispose la tua partenza. Menelao sarebbe arrivato direttamente a Sparta, e tu dovevi farti trovare lì. L'idea di rivedere tuo padre e Elena ti confondeva. Da una parte eri curiosa di scrutare in faccia i protagonisti di una storia che avevi solo sentito raccontare, dall'altra temevi di guardarli e non provare niente per loro. Vada per Elena, l'eterna assente. Ma Menelao. Era stato tuo padre, gli avevi voluto bene e lui ne aveva voluto a te. Dieci anni fa. Non eri più la stessa persona. Anzi, ora eri una persona in piena regola, mentre prima eri una ragazzina inconsapevole. La tua vera paura era che Menelao stesso non ti riconoscesse. Ti sfilasse davanti come di fronte ad una schiava, e dicesse dov'è Ermione, dov'è mia figlia? Non sapevi se avresti saputo accettarlo.
Da quando avevi scoperto della fine della guerra, non avevi neanche fatto in tempo, con tutti i pensieri che turbinavano dentro, a riflettere sul distacco che ti aspettava da Elettra e Oreste. Lo realizzasti sul serio solo un istante prima di salire sulla carrozza da viaggio, i tuoi pochi averi caricati sopra. Qualche veste, qualche sandalo. A Sparta ti aspettavano nuovi abiti, nuove responsabilità. Lo sapevate entrambe, fissandovi negli occhi, tu e Elettra, prima di separarvi per chissà quanto. La vostra vita in tempo di pace non sarebbe stata diversa dalla vita di qualsiasi donna greca. Un matrimonio nobile, dei figli. Eravate pronte per questo. Forse lo volevate persino. Tutto era stato immobile per così tanto. La vostra infanzia era stata lunga, la vostra verginità affidata alla scadenza di una guerra di sfinimento. A Sparta le ragazze si sposavano circa all'età che avevi in quel momento, ma Elettra era già in ritardo, secondo le usanze di Micene. Vi fissavate commosse e abbacchiate. Avevate condiviso tutto, e non avreste assistito a cambiamenti così grandi l'una per l'altra. Era surreale, e certamente un po' triste. Ma vi faceste forza. Vi sentivate forti. La tempesta era passata. Imbracciavate il vostro destino con coraggio. Fiere e coraggiose come i condottieri che tornavano a casa, feriti e sporchi. Elettra ti baciò sulle labbra, aspirò il profumo dei tuoi capelli. Arrivederci, sorella mia, che gli dei ti proteggano, sii felice. Piangesti calde lacrime, dolci, sulla sua spalla amica. Baciasti Oreste, la sua testa sudata di euforia, che saltava e saltava: mio padre è per mare, Ermione, è per mare! Ridevi della sua gioia, gli lisciavi i capelli corvini. I capelli di Ifigenia, di Agamennone. Sei il figlio migliore che tuo padre potesse desiderare. Ma l'ultimo saluto lo dedicasti ancora a Elettra, all'unguento di mandorla del suo corpo, al suo seno velato di blu, elegante per festeggiare la vittoria. Finchè vivrò mi sarai la più cara tra gli uomini, e possa Zeus fulminarmi se non è così. Li salutasti a lungo, finchè la carrozza rimase a loro visibile. Si allontanavano progressivamente. Già ti mancavano. Ma bisognava voltare pagina, cambiare vita. Bisognava lasciarli alla sofferenza che li attendeva, paziente, e che aveva lasciato svincolare te dalle sue maglie serrate. Se avessi saputo cosa sarebbe successo, quando la nave di Agamennone sarebbe attraccata al porto, forse saresti rimasta. Nonostante il pericolo, non avresti mai lasciato Elettra affrontare tutto questo da sola. Avresti preferito soffrire con lei che lasciarla soffrire sola. Ma non eri una profetessa, non ti era lecito sapere nulla, e partisti. 
Elettra sorrideva ancora mentre ti salutava, Oreste sventolava le braccia al suo fianco. Tu, sola con il tuo futuro incombente per la prima volta dopo tanti anni, ti lasciasti trasportare per inerzia ovunque saresti dovuta arrivare. 
Non sapevate niente. Il momento d'ignoranza più grande delle vostre vite.
Non sapevi, per esempio, come aveste vinto. Sulle prime poteva sembrarti irrilevante. Non sapevi che appena Achille era morto, un messaggero non diverso dal quello che era giunto da voi si era recato a Sciro, il più rapidamente possibile. Achille non vive più, Troia non può cadere senza il braccio del suo sangue. Non sapevi che un bambino di dieci anni, senza stupore nè timore, aveva posato le armi da allenamento con cui si preparava da anni a questo e aveva raccolto quelle da guerra, ed era salito sulla nave per Troia. 
Non sapevi che, se per te questo non era altro che l'inizio di una nuova terra di mezzo, per Elettra l'incubo era sul punto di sopraggiungere, ed era a ciò che la stavi abbandonando. 

~ • ~

La vera attesa scopristi cos'era in solitudine. L'attesa di Penelope, di tutte le mogli nelle loro regge. Il palazzo vuoto, le cene spoglie. Senza la compagnia di Elettra, la vivacità infantile di Oreste, non eri più abituata a vivere. Anche solo dormire da sola ti risultava amaro. Le ancelle erano tutte diverse da quelle che ricordavi a Sparta, non ci stringesti mai davvero un legame. Avesti la fortuna di avere a corte uomini fidati, che non ti disprezzarono mai perchè donna, che non tentarono di assoggettare il palazzo. Eri la figlia del vincitore, dopotutto. 
La notizia interruppe la monotonia della tua attesa, e desiderasti che non l'avesse fatto: all'improvviso volevi annoiarti altri cento anni. Perdesti la testa. Afferrasti furiosa il messaggero. Cosa è successo? cosa è successo? Lui potè solo ripetere, con pochi dettagli in più. 
Agamennone era tornato a Micene, sì. Su un tappeto cremisi. Il fumo dei sacrifici in suo onore nel naso. Il popolo in festa. Per il braccio Cassandra, la pazza, l'invasata, che puntava i piedi, si gettava al suolo per opporre resistenza, per non varcare quella soglia, il rogo di Troia nelle vene. Ma non si era diretto prima dai figli che smaniavano per riabbracciarlo. Era salito nella reggia per farsi il bagno. Quasi una frivolezza. Clitemnestra gli aveva gettato una rete addosso, come un pesce, e l'aveva massacrato con un'ascia bipenne. La vasca colma di sangue fino all'orlo, i brani delle sue viscere crude spiaccicati al marmo. Il lusso imbrattato di miseria. Il suo ritorno, vanificato. Dopo non erano riusciti dieci anni di guerra, avevano avuto successo i dieci giorni precedenti, quelli necessari per illudere Ifigenia. Ma si trattava ancora di Ifigenia? Aveva ancora una motivazione lo stato di sfrenatezza in cui versava la mente di Clitemnestra? Non era solo il nome pretestuoso di una rabbia più antica, a cui sarebbe stata altrimenti proibita, disdicevole, la manifestazione? Cassandra era morta allo stesso modo, macellata, senza che nemmeno scappasse più. Gli occhi aperti da tempo davanti alla fine. Probabilmente contenta, o forse solo arresa, che il mondo per lei si spegnesse. 
«Elettra?» chiedesti, la gola secca. 
«Al castello, degradata di rango» fu la risposta.
«Oreste?»
«Scomparso.»
Sapevi che cosa aveva fatto la tua più cara amica. La conoscevi abbastanza per sapere che aveva messo in atto il piano che aveva già rivelato a te anni prima. Non eri a conoscenza di dove, ma eri certa che Oreste fosse in un luogo sicuro. Trascinato via in fretta e furia, correndo, niente pianti, solo l'istinto di sopravvivenza piantato nel petto, con gli abiti che aveva indosso e nient'altro, fatta eccezione per la guida di un'intelligenza pratica d'emergenza, appena la notizia era uscita da quella stanza da bagno allagata di sangue. Sentivi nel tuo petto la paura di Elettra come fosse la tua, la paura non per se stessa, ma per il fratellino. La loro sorte t'impietosì. Non era giusto che tu fossi lì al sicuro tra quelle mura e loro condannati all'incertezza. Ti stillarono lacrime per la loro attesa incompiuta, per la loro sete di vendetta insoddisfatta, per la loro piaga inasprita, per la gioia negata. Per Oreste che voleva un padre orgoglioso di lui, per Elettra di cui nessuno avrebbe riconosciuto la fedeltà, quando era così facile e conveniente inchinarsi al nuovo padrone. Calcolare nelle notti vuote di sonno non servì a niente. Non potevi intrometterti, tornare a Micene, portarla via con te. Troppo pericoloso. Eri una donna e senza neanche un esercito, a malapena guardie sufficienti a proteggere il palazzo. Ti opponesti al sentimento che ti spingeva ad azioni incaute. Confidavi nella forza di Elettra, e allo stesso tempo odiavi che avesse dovuto essere messa alla prova in quel modo. Niente nozze per lei, schiava in casa sua, e niente per te, ancora orfana del ritorno del padre. Eravate ancora uguali. Le due sponde di uno specchio difettoso. 
Nel frattempo, proprio come sospettavi, Elettra aveva cavalcato senza sosta nella notte, per ore, una figuretta infagottata abbracciata alla sua vita dietro di lei, scossa dai singhiozzi, fino a giungere nella Focide, dove era ritornato dalla guerra anche il re Strofio, marito di Anassibia, sorella di Agamennone, e dunque zio acquisito di lei e Oreste; e fu lì, a quell'uomo costernato di non avere più un esercito sufficiente per muovere guerra all'usurpatore Egisto, ma pronto ad assumersi il rischio di nascondere il piccolo, a lui Elettra consegnò Oreste, al sicuro dal dominio ormai inconstrastato del figlio di Tieste e della sua scellerata madre. Resta anche tu, le propose Strofio. Qualcuno deve restare a corte per tenere alto l'onore della mia stirpe e per avvertirti in anticipo se c'è il rischio che scoprano tutto, obiettò Elettra. E fu così che si separò, con il cuore spezzato, dal fratello che amava più di se stessa, che dovette staccarsi a forza dalle ginocchia, piangendo, per ripartire verso la sua prigione. Strofio aveva un figlio poco più giovane di Oreste, un bambino che, svegliato dal chiasso, scese nell'atrio del palazzo per assistere all'arrivo di quel piccolo estraneo, quel corpicino su cui sembrava che si fosse abbattuta la furia della guerra di Troia, quel poveretto che non la smetteva di piangere di rabbia sotto lo sguardo triste degli zii, e gli chiese ma perchè piangi? e che sette anni dopo gli avrebbe giurato eterna fedeltà, e avrebbe sposato la ragazza intrepida che se n'era andata svelta come Artemide nei boschi notturni. 
Il tempo dell'attesa ti diede modo di apprendere tutto della fine di Troia. Uno spettacolo che aveva fatto piangere anche i greci stessi, tanto era penoso. Qualcosa di tanto colossale ridotto a nulla. Un po' come un re preso a colpi d'ascia. L'espediente del cavallo, tutti i guerrieri con le loro corazze sonanti stipati in un ventre di legno, costretti all'immobilità. Il tradimento del patto d'onore siglato su quella guerra. Ma d'altronde l'onore era morto con Ettore, con Achille. Dopo c'erano solo iene arrivate a becchettare gli avanzi della selvaggina degli eroi, farsi mantelli delle loro carogne. In campo restavano gli sciacalli, i macellai, quelli che volevano farla finita. Tagliare quella testa ad ogni costo. Con un colpo anche approssimativo, di quelli che non assicurano la morte istantanea, che innescano una lunga agonia inutile. Elena era sulla nave di ritorno, questo contava per il nemico. Come ci fosse salita, era roba da aedi, chiacchiere da donnicciole. Uomini uccisi, bambini trucidati, donne sulle navi dei vincitori, scopertisi schiavisti. Madri, figlie, sorelle, come Elettra, come te. Questa è la guerra, Ermione, ti dicevi. Ma un'altra voce, più profonda, diceva: no. Non devo adottare il linguaggio dei carnefici solamente perchè sto dalla loro parte. Va bene considerare sbagliato tutto questo. Va bene pensarlo anche se mi è convenuto così. 

~ • ~

Ti trovavi davanti a uno specchio a giudicare la versione di te che avrebbe riabbracciato Menelao dopo diciotto anni, e ti rispondevano solo un paio di occhi spauriti, che si mangiavano il viso, qualsiasi attributo grazioso potesse vantare. In un certo senso, avevi cominciato a considerare quella la vera vita, e quell'altro qualcosa che non sarebbe mai successo, che non poteva succedere. Toglievi e rimettevi gli orecchini di quarzo verde, pulivi il kohl dagli occhi. Senza sembravi un topo spaurito, con sembravi una puttana. Ti toccavi indecisa i capelli. Volevi apparire bella, ma delicata, e allo stesso tempo sapevi che non aveva nessuna importanza, e che ti ci stavi impuntando solamente per non pensare al fatto che Menelao non conosceva il tuo volto. 
Padre. Quasi ti vergognavi a immaginare di chiamarlo così. Non ti sarebbe suonato naturale. Elena... Non pensavi nemmeno a Elena. Per te lei era più come morta. Non potevi credere che avrebbe costruito un rapporto di amicizia o di confidenza mai più, con nessuno. Chi la sarebbe mai stata a sentire? Chi lei avrebbe mai avuto l'ardire di credere che la sarebbe stata a sentire? 
Tu e la corte attendevate fuori dalla reggia, allineati. Ti sentivi sotto esame, niente affatto sollevata, niente affatto impaziente. In testa avevi solo il timore di apparire come una delusione al suo sguardo. Davanti a tutti loro. Erano generali che avevano appena combattuto una guerra di dieci anni, un viaggio di ritorno degno di un mito a sè. E tu... tu cos'eri? 
Menelao scese per primo, con un balzo quasi atletico, prima di qualsiasi guardia. Diciotto anni erano passati. Rivedendo i lineamenti del suo volto, fu come se venisse tolta della sabbia da una conchiglia. I ricordi furono messi a fuoco. Lui, una quarantina d'anni, che ti alzava sulle sue spalle per farti vedere una gara ginnica tra tre lottatori, corpo a corpo. I suoi capelli biondo paglia, il suo sorriso bonario, mentre ti aiutava a scrivere il tuo nome, tenendoti la mano nella sua. Ancora lui, che ti trovava mezza incastrata nell'inforcatura sul primo ramo di un ulivo, insieme a degli ospiti, e ti riprendeva con dolcezza: Ermione, ma cosa fai! All'improvviso provavi tutti quei sentimenti che temevi si fossero dileguati per sempre. Tutto veniva spontaneo. Era lui. Era lui, che adesso tendeva il braccio, ancora forte, per aiutare un uomo molto anziano a scendere cautamente sulla terra battuta, curvo, ingobbito, gracilissimo. E tu non tacesti. 
«Padre.» La tua voce cedette, incrinata. Le lacrime arrivarono e non le frenasti.
Lui si voltò, sbigottito, come se non se lo aspettasse per niente, come se ti considerasse perduta. Vedendoti, anche il suo viso franò. I lineamenti corrugati di tenerezza. Esauristi lo spazio di rispettosa distanza per gettarti tra le sue braccia, e continuasti a piangere. Ti lasciò fare, ti carezzò la testa.
«Mi dispiace» dicevi, senza sapere il perchè. «Mi dispiace tanto.»
«Non sei tu che devi dispiacerti, figlia mia» ribattè lui, dolcemente. I suoi capelli striati di grigio, la barba senza più forma, ma era lui. «Frena il tuo rimorso.»
«Mi dispiace per il vostro dolore, la vostra fatica... Mi dispiace non averne potuto prendere nemmeno una frazione. Non aver potuto condividere il fardello con tutti voi.» La verità uscì con facilità, come se fosse sempre stata dietro la lingua. 
«È finita» disse Menelao. E tu provasti un senso di smarrimento, nel risentire le parole che Elettra aveva pronunciato prima di crollare in una trappola ancora più insidiosa di quella che il fato le aveva riservato in precedenza.
«È finita davvero?»
Menelao ti indicò l'ospite, l'anziano signore. «Costui è Nestore, prezioso consigliere per noi tutti, di cui avrai certo sentito parlare.»
Ti scrutò con attenzione, sorrise con nostalgia. «Le vostre figlie ormai hanno l'età che avevano le vostre mogli quando questa guerra è iniziata. Ma non è stata invano, giovane Ermione. Gli dei ci appaiono crudeli, ma sono più saggi di noi uomini.»
Gli lanciasti un'occhiata di incomprensione. Era in momenti come questi che pensavi alla stanza di Ifigenia, da cui le ancelle avevano portato via bauli di oggetti che non avrebbe più usato, quella stanza sgombra, con dentro il letto nudo. Non bastavano le frasi fatte per mettere una pezza sulla guerra di Troia. 
E poi uscì lei. Abbagliata dal baluginio biancastro del cielo, schermandosi gli occhi. La ragazza di luce che era vivida come un'apparizione nei ricordi, che chinandosi faceva scintillare i fili dei suoi capelli cangianti, non c'era più. Il viso era segnato, non da rughe ma da una smorfia brutta, umana, che la tirava di nuovo a terra. Figlia di Tindaro, non di Zeus. L'impatto contro la realtà era stato traumatico. Il sogno era finito. Non restava che tornare in patria e sperare che la sua famiglia se la ripigliasse. Menelao non l'aveva giustiziata. La lasciò entrare a palazzo, da sola, sotto lo sguardo di tutti, fermo, gravoso. Non frenò il passo davanti a te, non ti guardò nemmeno. Non ti fece nè caldo nè freddo. Saresti stata invece a disagio nel ritrovarti a dover simulare, se Elena avesse improvvisato una sceneggiata di rincongiungimento. 
Ma gli ospiti illustri non erano terminati. Prendendosi il suo tempo, aspettando che cominciasse il via vai di schiavi e ancelle che scaricavano i bagagli, le ricchezze, le armi trasportate nei carri posteriori, un ragazzo smontò dalla stessa carrozza di Menelao. Una corazza che non poteva appartenere ad un soldato semplice, ma nemmeno fastosa. Alto, più di te, più di Menelao. Segaligno,  nervosamente asciutto, aguzzo, snello di torace ma privo di grazia, il passo pesante, marziale. Il gladio alla cintura. Nè Menelao, nè Nestore, nè nessuno dei generali al loro seguito l'aveva. Tuo padre interruppe il suo passo con un gesto cordiale.
«Se sono tornato vivo da te, Ermione, è anche grazie a lui, valoroso sul campo di battaglia così come nelle avversità impreviste» esordì. «Ti prego di ringraziare Neottolemo, figlio di Achille, non meno impavido, due volte responsabile del mio ritorno, per come agì a Troia e nelle terre d'Egitto.»
Non tradisti reazione alcuna. I tuoi occhi esitarono a un soffio dalla superficie di ciò che videro: lineamenti duri, labbra sottilissime, capelli fulvi, cresciuti incolti fino alle spalle, occhi chiari, forse verdi. Inespressivo.
«Grazie.» La tua voce suonò al limite tra l'indifferenza e l'ostilità. Lui sapeva che tu sapevi. Tutti sapevano. Le storie avevano preceduto i loro personaggi. La progenie sacrilega di Achille, che approfittava del contrasto dell'esempio paterno per guadagnarsi una fama di trasgressione, a muso duro contro i limiti, i tabù. Che provocava i greci, testava la loro capacità di sopportazione, la loro tenacia nel tenerlo contento e impunito pur di vincere la guerra. Per rimanere più a lungo sulle labbra degli aedi, permetter loro di abbondare di dettagli truculenti. E lo avevano lasciato divertire, il figlio di Achille. Gusto dell'orrido. 
Neottolemo non rispose. Ti squadrò dalla testa ai piedi, senza un'accezione sessuale e nemmeno valutativa. 
Un vaso scivolò ad un'ancella. Non si ruppe, era di rame. Tu ti chinasti, la aiutasti a riprenderlo in braccio. Tradisti un certo sforzo. Proprio come segretamente temevi, Neottolemo fece un sorriso di scherno.
«Credevo che a Sparta le femmine frequentassero le palestre.»
Furono le prime parole che ti disse. 
Sorreggesti il suo sguardo, senza lasciarti umiliare. «Sono cresciuta a Micene, signore.» Calcasti sarcastica sull'appellativo.
Neottolemo frugò nei tuoi occhi distrattamente, apatico. Poi lanciò un'occhiata svelta a Menelao. Disse: «va bene.»
E tu, nel tuo intimo, sapevi a cosa stava acconsentendo. 
Quel ragazzo, alla stessa età che aveva Oreste l'ultima volta che l'avevi visto, aveva scagliato un infante dall'unica torre rimasta di Troia.

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Capitolo 3
*** Illi mea tristia facta ***


E all'improvviso la reggia non era più deserta. Voci in ogni corridoio, passi sulle scale, animali in cortile. Prima nessuno, ora tutti. Ti sentivi come se avessero invaso una casa soltanto tua, ti sembrava assurdo che ci si comportassero con familiarità. Tuo padre ti presentava a chiunque, con orgoglio, come se avessi compiuto qualcosa di più glorioso di combattere a Troia per dieci anni. Il tuo sguardo era cordiale e vitreo, insincero, un po' come la festa che ci sarebbe stata e che era spacciata per il tuo matrimonio, quando invece era la festa di Sparta intera. Chiedevi a Menelao notizie da Micene, ma non sapeva nulla e non aveva il coraggio di trascinare i suoi soldati in una nuova guerra per scacciare Egisto. Quello era il tanto agognato momento della pace. I legami di sangue, prima così sacri, apparivano meno vincolanti. Agamennone era il fratello di Menelao, ma era morto. E i morti non elargiscono ricompense per chi salva il loro palazzo dagli invasori. 
Neottolemo non si vedeva quasi mai, spariva per l'intera giornata. Soltanto durante i pasti era tenuto a partecipare, e potevi esaminarlo spietatamente. Non avevi intenzione di mostrargli che avevi paura di lui. Non era proprio paura. Era diffidenza, e impressione. Le storie che parlavano della sua impulsività, ben diversa dalla magnifica rabbia di Achille, ti avevano suggerito di considerarlo imprevedibile. 
Lo avresti sposato. Non c'era nessun pensiero che vi si opponesse logicamente, nella tua testa, se non qualche considerazione frammentaria, fulminante, con quelle mani ha ucciso un bambino. La sola idea vi gettava un'ombra di impurità perenne. Le spiavi, di nascosto, durante il primo banchetto che si tenne a Sparta in presenza del re dopo la guerra. Strette allo stelo del calice di vino, rozze, grandi, arrossate. Sul dorso una peluria quasi bianca, come bruciata dal fuoco. Eri sicuramente condizionata. Se suo padre era mezzo dio, lui era del tutto umano. Un figlio della terra. I polsi massicci, le braccia sode, e sulla pelle tesa ad inguainare i muscoli, che pareva spessa come quella di un toro, cicatrici. In controluce, irregolari, di cui non sapevi considerare la gravità. Lui non notò le tue occhiate, o le ignorò così bene da non fartene accorgere. Il suo sguardo era puntato sul cibo, sul pane che spezzava. Mangiava come se fosse ancora il pasto del soldato in accampamento, rapido, senza eccedere. Pochi sorsi di vino, poi acqua, abbondantemente. In contrasto con gli altri volti della tavola era ombroso, annoiato. Nessuno pareva farci caso. Questo ti diede modo di pensare che fosse il suo atteggiamento abituale. Dicevano che non sapesse nemmeno scrivere. Dicevano tante cose. Ma lui, al contrario dei generali intenti a decantare le lodi l'uno dell'altro, non pareva interessato a gloriarsi, nè a mettere in mostra la sua presenza. Tanti parlavano di Neottolemo, lui a malapena li degnava di un'occhiata. Finito di mangiare, senza chiedere il permesso a nessuno, si alzò e si diresse alle stanze che gli erano state riservate. Tu lo seguisti con lo sguardo, sbalordita da quel comportamento, non tanto per l'impertinenza che dimostrava, ma per il fatto che gli fosse concesso con tanta indulgenza. Incontrasti lo sguardo di tuo padre, che ti sorrise, intuendo i tuoi pensieri. 
«Il matrimonio si terrà qui, a Sparta» dichiarò, «tra dieci giorni. Poi partirete.»
«Per dove?» Pensasti a Ftia, la patria di Achille.
«Questo lo dovrai chiedere a lui» rispose Menelao, con un pizzico d'ironia. Poi fece un cenno con il capo. «Ti ci abituerai. Ci siamo abituati tutti. Ma sei in buone mani, figlia mia.»
Il fatto che avesse usato proprio un'espressione che tirasse in mezzo le mani ti fece rabbrividire. Il figlio di Ettore era un bambino dolce, nelle storie degli aedi. La stella negli occhi del suo popolo. Lo amavano come se fosse il figlio di ciascuno di loro, acclamavano i suoi passi esitanti di bambino nella terrazza affacciata su Troia. Dovevi smetterla di ascoltare quelle storie, non ti facevano bene. 
A cosa serve imparare a combattere se si uccidono i bambini?
«Ti ho appena ritrovato, padre, e già ci dobbiamo separare di nuovo» osservasti, con mestizia.
«Il destino di una figlia non è restare al fianco del padre» sospirò Menelao. «Anche se avrei preferito che così fosse, e che non fossero invece le mogli a dover rimanere fino alla fine, come così sarà.»
Elena non si presentò a quella cena, nè a nessun'altra a cui tu prendesti parte a Sparta. A tavola volavano facezie nei suoi confronti, e Menelao sogghignava senza difenderla. 
Volevi seguire docilmente il tuo destino di femmina, avevi un desiderio struggente di obbedire. Di essere diversa da tua madre. Di adempiere a un dovere sgradevole, come quei soldati che avevano già pagato il loro fio di sangue e dolore. Avresti sposato quel pazzo, quello da cui le altre donne si ritraevano inorridite, alla cui stanza le ancelle impallidivano nel recare una brocca d'acqua. 

~ • ~

Il rito di vestizione per il matrimonio era lungo e infarcito di superstizione non priva di bellezza, ma esasperante. Doveva esserci la cassa di bambole per Artemide, le parole del culto di Era, la clamide intinta dell'olio di rosa di Afrodite, il bracciale a forma di serpente di Asclepio. Ti perdevi in questo guazzabuglio di riferimenti, di benedizioni. Stavi soltanto immobile sotto le mani delle donne più mature, cercando di non ascoltare le chiacchiere di cui ti riempivano le orecchie. Una di loro aveva mostrato quasi con orgoglio una fioritura di lividi blu intorno al gomito. Diceva che quello era il matrimonio e presto o tardi avresti dovuto abituarti, perchè le signore non se la cavano meglio delle serve: le mogli sono serve. Nessuno dei tuoi mariti ti ha mai picchiata, e non sai proprio come ti saresti comportata, se lo avessero fatto. Il tuo orgoglio e il tuo buonsenso avrebbero battibeccato. Altre donne parlavano del talamo, di trucchi per provare meno dolore. Tu facevi orecchie da mercante, testarda. Non volevi attenuare il prezzo che dovevi pagare. Avresti subito tutto di quel che c'era per te, senza una protesta. Era il tuo personale eroismo. Forse sciocco, forse egoistico, incapace di apportare vantaggio a chiunque altro oltre a te, senza confronto con un sacrificio per il bene dei più, di un esercito, di un popolo, ma tuo. 
Poi si cambiò discorso. 
«La figlia di Priamo aveva l'età di mia figlia» chiosò una schiava, strattonandoti i capelli per appuntarli in una crocchia dietro la testa con un pettine d'avorio affilato. «Ancora inesperta di ogni fatto della vita.»
Le voci cadevano come una dopo l'altra intorno al tuo silenzio ostinato. 
«Le ha fatto scoprire il petto, bello che era, bianco e nobile, e glie l'ha infranto come fosse creta.»
«La madre guardava, la regina Ecuba, a cui erano già stati uccisi tutti i figli, e tanti che ne aveva, solo cadaveri ne erano rimasti.»
«Aveva accettato di sacrificarsi per il Pelide, e si era inginocchiata sull'altare da sola, senza che nessuno la trattenesse, la sventurata.»
Tu eri sopraffatta dai troppi rimandi, il tuo abbigliamento nuziale, e quelle parole. Non sapevi se Ifigenia si fosse rassegnata o no, se avessero dovuto tenerla ferma sotto il pugnale acuminato del sacerdote, che salmodiava imperterrito al cielo. Non sapevi se avesse pianto. Di Polissena, invece, sapevi anche di meno. Se fosse o no il modello di virtù dei racconti che la celebravano. Eri tentata di affondare il viso tra le mani, ma qualcosa accadde. Una donna entrò nella stanza, visibilmente stonata con l'atmosfera argentea. Intabarrata di nero, vesti brutte, disadorne. Non l'avevi mai vista prima nel palazzo, altrimenti te ne saresti ricordata. Non l'avresti scordata facilmente. Aveva un incarnato scuro, capelli mori e inanellati in una coda costellata di lacci per la sua lunghezza, e il viso di una statua cava, riempita di pece. Prese un loutrophoros e lo trasportò all'esterno, senza pronunciare una parola. Tu voltasti la testa al suo ingresso, e ti accorgesti di non essere stata l'unica. La sua presenza semplicemente risucchiava il fiato nella stanza, come un buco nero. Lei ci passò in mezzo, assente, impermeabile. La donna che ti stava frizionando il collo fremette, rabbrividendo per la sua aura. 
«Quella è Andromaca.»
Aveva tagliato la rotta del principio del tuo matrimonio come un oscuro presagio, come un corvo. 
Il sangue dei buoi si allargò in pozze ampie, si asciugò tetro sulla terra rossa di Sparta, mentre storcevi la bocca di disgusto e pena. La sacerdotessa ti prese in una mano i capelli biondi, allungati dagli anni dell'attesa in cui nessuno poteva rimproverarne la crescita, e li recise con un colpo di coltello. Mentre li guardavi dispersi dalla corrente pensavi che stavi lasciando andare anche tu la tua integrità, e ti stavi prendendo una ferita, una crepa, un cambiamento. Neottolemo uccise un'altra bestia mentre tu attendevi, ferma sotto le tue ghirlande di foglie d'olivo, il tuo velo opaco, attraverso la tessitura del quale vedevi appena il mondo tratteggiato di fronte a te. La sua mano che calava sul garrese pareva provenire da un sogno sanguinario. Immaginasti quella stessa mano scendere su una persona, abbatterla con quella secca violenza, di dovere, di mattatoio. Al banchetto Elena non c'era, avevi smesso di cercarla tra le teste degli ospiti. 
Non avrebbe saputo spiegarti perché ti aveva abbandonata, perché non se n'era mai pentita. Aveva avuto una figlia che non voleva, e che non era pronta ad avere, probabilmente. Pensasti: io sarò una brava madre. Neottolemo, il mantello sporco di sangue di toro, mangiava per conto suo, senza cambiare espressione, mentre nella stessa sala non facevano altro che parlare della guerra che lui aveva vinto. 
«Che cosa dici tu, a chi afferma che la tua gloria dovrebbe essere grande quasi come quella di Achille?» lo interruppe infine Ascalafo, dopo aver tentato invano di attirare la sua attenzione nominandolo. 
«Che mi ritengo offeso,» rispose Neottolemo, graffiante. «Mio padre è morto, io sono vivo. Chi sopravvive non può essere paragonato a chi è caduto.»
Freddo, denigratorio. Pareva che cercasse la critica, il dissenso. I vecchi scuotevano la testa, dicevano gli dei possono colpire in qualsiasi momento, e una spavalda gioventù può finire. Menelao sorrideva. Aveva trascorso anni al suo fianco, per età poteva benissimo essere suo figlio. Quietava le proteste. 
«Questo è un matrimonio... Si parla dei vivi, non dei morti.»
Ti vide per la prima volta a quel banchetto nuziale, troppo agghindata, oberata di ninnoli, pietruzze, pendagli e stoffe ruvide a contatto con la pelle, mentre con gli occhi soppesavi il tuo futuro insieme a un uomo di cui non ti fidavi. Deve aver percepito questa tristezza, questo onere. Ti ha aggiustato una medaglia votiva a penzoloni, che stava per cadere sul pavimento. Ti voltasti confusa. Incontrasti il suo sguardo, chiaro, diretto. Avresti voluto infrangere l'illusione scenica e contagiarlo in una risata per quelle cianfrusaglie propizie, di quei gingilli apotropaici, di quegli dei che non ti spaventavano. Ma non l'hai fatto.
«... ti ringrazio.» 
Era raro che un uomo non di famiglia interagisse direttamente con una ragazza. Ma tu ora eri una donna sposata, in salvo da ogni sospetto di riprovevolezza. Ciò che destava più stupore era che si trattasse di un giovane, anche più giovane di te, a malapena maturo, che non avevi mai visto. Capelli un po' lunghi, castani come le nocciole di Tracia, occhi dolci, quasi femminei. Indossava una tunica bianca, morbida, e sandali.
«Telemaco di Itaca, figlio di Odisseo» si presentò.

Ti era stato riferito che la furbizia di Odisseo era il risultato di sacrifici a dei inferi, che il suo sorriso faceva tremare i troiani dietro le loro mura impenetrabili. L'occhio limpido di Telemaco era acuto, ma non c'era traccia di malizia. In fondo si assomigliavano tutti, i figli del dopoguerra. I cocci, i rimasugli degli eroi. Schiacciati dai loro nomi. Preceduti dalle leggende dei loro genitori. 
Se il figlio di Achille faceva strage di nemici, perchè mai la figlia di Elena non avrebbe dovuto ammaliare, perchè il figlio di Odisseo non avrebbe dovuto sciogliere veleno nelle coppe?
«Tuo padre non è tornato a casa, non è vero?»
Telemaco ti guardò. I capelli a piccole pieghe, color sabbia bagnata, l'altezza superiore a quella delle donne che ti circondavano, l'insicurezza delle tue spalle, come se non sapessero dove mettersi, in contrasto con la fierezza della fronte. Ti guardava come lo guardavi tu, come si fa quando si riconosce qualcosa di sè nel viso di un estraneo. La notte era calma, mossa da un vento come un'onda, lento, salato. 
«Non hai pensato che...»
«Sia morto?» completò Telemaco, senza turbarsi. «È più o meno quello che credono tutti. Io no. Ma non soltanto perchè lo spero.» Scosse la testa. «Mio padre non è il tipo che si lascia ammazzare da un mare dopo essere scampato a una guerra. In base a quello che mi hanno raccontato di lui, è più probabile che sia approdato in un'isola di ninfe attraenti e non abbia nessuna intenzione di tornare al tedio del quotidiano.» Capisti che non stava parlando di una persona, stava parlando di un eroe che non aveva mai visto, e non aveva la certezza di incontrare mai. Lui, sotto il tuo sguardo fisso, costante, prolungato, sorrise, quasi divertito, senza prenderti in giro, alla luce aranciata delle torce disposte a eguale distanza sulle pareti di pietra scura. 
«Spero che tuo padre torni da te» hai detto. Ascoltaste i rumori della notte che provenivano dalle porte aperte, la corrente placida dei grilli, degli zoccoli, delle voci delle guardie, dei giochi dei garzoni più piccoli. Faceva caldo, era piena estate. Il vino nelle coppe era dolciastro, la festa era lontana, ferma in fondo alle pupille ferme, consapevoli, di Telemaco. 
Un giorno di molti anni dopo -eri già sposata al tuo secondo marito, e scortavi per mano tuo figlio di pochi anni- l'avresti incontrato, Odisseo. Un uomo dai ricci neri, bruno come un marinaio, carismatico, che cambiava atteggiamento in base alla persona con cui parlava, abile attore nella farsa sociale dei convenevoli e della diplomazia. Reggeva il capo di ogni discorso, spargeva la sua opinione ovunque come semi in un campo coltivato. Il volto segnato ma il sorriso inscalfibile, impertinente. Soltanto quando mormorasti quelle parole, sfiorandogli il braccio e simulando noncuranza -ho conosciuto tuo figlio, una volta- soltanto allora qualcosa accadde, il suo volto s'illuminò, e tra le cortine di quella finzione ben congegnata vedesti quel centimetro di vulnerabilità che la freccia di Palamede aveva centrato, precisa e letale come quella che trovò il tallone di Achille -quegli occhi disarmati di padre che non avrebbero saputo mentire su quanto amasse Telemaco. 
«È vero, ebbe l'onore di essere ospitato a Sparta durante il suo piccolo viaggio» rammentò Odisseo. «È passato del tempo. Era ancora un ragazzino. Ha preso moglie, ormai.» Raccontò che aveva sposato Policasta, una delle figlie di Nestore, che gli aveva dato due figli. Eri felice che la sua vita non avesse incontrato tempeste, ma qualcosa, meno di un rimpianto, più di un ricordo, continuò a grattare dentro di te come una storia incompleta. 
Il matrimonio non poteva essere essere consumato nella casa dove gli sposi avrebbero vissuto. Tutto il cerimoniale del trasferimento venne evitato. Camera tua fu il luogo prescelto. Neottolemo sedette sul letto su cui avevi dormito da sola per tanti anni, i cuscini tra cui avevi pianto di paura per Elettra. La tua Elettra, di cui non sapevi nulla. Cosa stesse passando, cosa le riservasse il futuro. Le avevi recapitato dei messaggeri, ma non erano tornati indietro a riferire nulla. Forse le impedivano di comunicare con l'esterno. Pensasti a lei in quel momento grottesco, quasi inquietante. Alzavi la testa, vedevi l'uomo vicino a te ed eri tentata di chiedergli: chi sei? Cosa ci fai qui?
«Non ti giudicherò per la madre che hai» concluse lui, in tono definitivo, come se avesse riflettuto per tutto questo tempo solo per queste poche parole. O forse era semplicemente la prima cosa che gli era venuta in mente per rompere il silenzio, un po' diffidente da parte tua, del tutto neutro da parte sua. 
«Dovrei ringraziarti di nuovo?» replicasti, senza rifletterci troppo. Non eri mai stata altera con gli uomini con cui avevi avuto a che fare, e invece adesso ti veniva naturale esserlo. Non avevi timore, per quanto poco potessi sapere di come il tuo atteggiamento sarebbe stato accolto. 
«No» si limitò a ribattere Neottolemo, indifferente. «Ma almeno lo sai.» 
Ricordasti Oreste che ti diceva tu non sei cattiva. Il pensiero ti procurò una smorfia. Era la seconda volta che pensavi al tuo passato, da quando eri entrata in quella camera ariosa, spoglia -la tua, ma in cui il trasloco dei tuoi possedimenti era già iniziato il giorno prima. Il letto grande, vuoto. 
Neottolemo fece tutto ad un tratto, come se si fosse destato da una lunga meditazione. Ti premette a schiena in giù sul letto, con una bruschezza non davvero violenta. Tu lo osservasti dal basso verso l'alto con occhi disincantati, per nulla assorti, solidi, interrogativi ma privi di sfumature, con una curiosità quasi infantile. Neottolemo sganciò cinture, slacciò nastri, finchè ne ebbe abbastanza e strappò con le mani le stoffe sovrapposte, per un'impazienza più dettata dal desiderio di non prolungare in maniera imbarazzante il vostro fronteggiarvi piuttosto che dall'impulso amoroso. Ti toccò un fianco con le mani, come se lo stesse esaminando, una questione tecnica più che privata. La sua pelle era ruvida, priva di nobiltà. Vi guardaste ancora per qualche istante, senza più domande, come mera constatazione. Quando ti prese fu un po' doloroso, ma non lo desti a vedere. Neottolemo fece come avrebbe fatto per pugnalare un nemico, ma probabilmente era solo disavvezzo a dosare la propria forza. Avevi le lacrime, ma battesti le ciglia e le disfacesti. Non avevi immaginato qualcosa di diverso, e quando finì eravate entrambi senza rancore. Neottolemo si girò sulla pancia e si addormentò celere, come chi lo fa sempre a comando, secondo necessità. Tu ci mettesti un po'. Guardasti un po' fuori dalla finestra, quella notte lunga, vellutata, come vino spanto di quella grande festa triviale e modesta. 
La mattina dopo, pioveva a dirotto e Neottolemo non c'era. Avresti avuto modo di non stupirtene più. Seguiva l'addestramento militare della sua infanzia: un istante prima dell'alba, in piedi. Lo fece sotto la pioggia battente, il cielo nero e il vento che la tirava obliqua sulle montagne, addossando gli ulivi al suolo. Tu eri contenta di svegliarti da sola, di mangiare con calma. 
Telemaco partiva insieme agli altri ospiti. Sembrava che ti aspettasse. Tu scendesti, nonostante le proteste delle guardie, sotto il temporale che imperversava, strappandoti il velo che solo ti copriva il capo, fradicio nel giro di pochi attimi. 

«Non voglio nulla da te» assicurò Telemaco, con la sua voce gentile, più alta per farsi sentire da sopra il cavallo. Con i capelli attaccati alla fronte sembrava la naiade dell'Eurota, che esondava poco lontano. 
«É un vero peccato» rispondesti, circondandoti il busto con le braccia. 
«Va bene così» osservò Telemaco. «L'amore può essere anche soltanto questo. Perfetto perché fugace. Io non ti vedrò mai incanutire, tu non avrai il tempo di scoprire i miei difetti. Non finiremo per darci il tedio a vicenda, per prevederci ed esasperarci.» Parlava con tono leggero, come se fosse una bella storia e non altro, e in effetti era questo. 
Lo avresti ricordato così, con quella pioggia che l'aveva catturato, che attaccava la sua figura esile e quasi intermittente sotto il manto del diluvio, il naso che grondava acqua dalla sua linea elegante, il tuo nastro nuziale legato al polso sotto la casacca di cuoio da viaggio. 
Il giorno dopo, il cielo era sereno e sulla carrozza da viaggio c'eri tu, in direzione del porto di Giteo, per salpare verso l'Epiro. Accanto a te, Neottolemo; nella carrozza dietro, anche se non potevi vederla, Andromaca, le sue vesti nere, il suo capo chino. 

~ • ~

«Un'altra volta sta cazzo di barca» imprecò Neottolemo controvento. 
Per te era tutta una novità, per lui «-un'altra volta sta cazzo di barca.» Giustamente. Sputò in mare. Tu trattenesti una risata, facendo finta di niente. 
A bordo c'era un sacerdote di Poseidone, come secondo tradizione. Lo guardava in cagnesco da sopra la barba. In un mondo senocratico, tuo marito di certo non si sapeva integrare. «Non è saggio infastidire gli dei.»
Neottolemo spalancò le braccia, affacciato al parapetto. «Nonna, Teti! Non ti arrabbiare. Sono solo un ragazzino. Le Parche mi puniranno.» Si voltò, sorrise aguzzo ai marinai dal volto aggrottato. «Siete soddisfatti?»
Tu nel frattempo godevi dell'acqua che grazie all'attrito con la fiancata della nave saliva spruzzando fino al tuo viso, inarcandosi e spezzandosi. Ora che sapevi il pericolo che poteva rappresentare, la minaccia che poteva celare dietro la sua maestosa bellezza, la ammiravi con un timore non privo di rispetto. Il mare faceva credere agli uomini di averlo domato, soltanto per poi rovesciarli sotto il peso schiacciante delle sue onde, riempire di sale i loro teschi. C'era qualcosa di femminile nel mare. Ti faceva pensare a Clitemnestra, al suo stagnare per anni e poi impazzire. All'improvviso capivi dove poteva averla tenuta nascosta, quella rabbia, nella parte concava delle ossa. Non volevi capirla, non lei che aveva tradito Elettra, che aveva voltato le spalle agli altri figli dopo averne persa una. Lei aveva sostituito Elettra e Oreste con Alete. Però succedeva, e osservavi quel fenomeno con un misto di turbamento e pietà.
La cosa che preferivi era il tramonto, quando il cielo rovesciava un secchio d'ambra liquida sulla superficie elastica e adamantina del mare. Era una grandezza a cui non eri avvezza, e che ti pareva andasse oltre a te, superasse i limiti della tua possibilità di concepirla. Ti faceva commuovere un po'. Nottolemo lo faceva con discrezione, ma ti analizzava, da lontano. Neanche lui si fidava di te, probabilmente. La cosa, in qualche modo, ti divertiva. Una fanciulla che temesse un grande guerriero, era comprensibile. Ma un guerriero che temesse per l'incolumità della sua selvatica solitudine, quello era quasi divertente. Tu non rubavi mai il suo tempo, te ne stavi per conto tuo. Eri abituata a pensare per ore, da sola, senza bisogno di stimoli esterni. In queste condizioni prive di monotonia, dove a suggerire i moti dell'animo erano i giochi di luce sulle mobili dune dell'acqua e la poesia parca dei marinai che offrivano manciate di chicchi del loro grano ai gabbiani, era ancora più facile del solito. Paragonavi quella corolla di cielo terso spalancata intorno a voi, presente ovunque, al cielo indaco di Micene che all'inizio aveva un sapore di audacia e poi di minaccia. Stavi per approdare ad una pace o ad un nuovo tranello? Soltanto una sacerdotessa di Apollo poteva saperlo, e solo un fedele le avrebbe creduto. 
Quando venne la pioggia fu un disastro. Era impossibile sfuggire dall'umidità, era nelle travi della stiva, nella tessitura delle coperte. Tutta quell'acqua ti dava quasi la nausea. Neottolemo ghignava del tuo malumore. Indicò uno dei pali che sosteneva il tettuccio, con delle scanalature profonde.
«Vedi questo? L'ho fatto con le unghie quando è venuta la tempesta sulle coste di Chio. Il vento era così forte che non ci si poteva udire parlando. La nave si è rivoltata su un fianco, e abbiamo dovuto attraccare per ripararla. Ma per trascinarla fino a riva abbiamo dovuto usare la forza del mero braccio.» Ti mostrò anche le unghie, lunghe e irregolari, come pezzi di selce. Tu annuisti, con la solennità che lui evidentemente si aspettava. 
«È davvero notevole. Al confronto, io mi lamento proprio per nulla.» Se in pubblico era taciturno e sprezzante, quando era solo con te si era rivelato un bel vanaglorioso.
Neottolemo non ti toccò mai per nessuno dei giorni di viaggio. Poco prima che tramontasse il sole si tuffava in mare, ed emergeva solo a notte fonda, quando il mare pareva petrolio, un abisso nero e insondabile, così ostile e respingente. Solo allora si arrampicava sulla fiancata senza appigli e scendeva sottocoperta, stremato, e dormiva fino all'alba. A volte lo scricchiolio del legno ti destava, sbirciavi il suo corpo completamente bagnato, le braccia spalancate, come l'apertura alare di un'aquila, che oltrepassavano il bordo del giaciglio e gocciolavano sul pavimento. Ti era ancora assolutamente indecrittabile. La percezione confusa che avevi però era che faticasse ad abituarsi ad una vita senza guerra, o senza la prospettiva di dover combattere. E che quasi ci soffrisse. 
In quello spazio ridotto, non potevi fare a meno di imbatterti in Andromaca. Lei faceva il possibile affinchè non avvenisse, ma non soltanto con te, con chiunque altro. Sembrava in grado di mimetizzarsi con gli oggetti inanimati. Si sedeva su un mucchio di corde attorcigliate come un serpente, e pareva scordarsi di esistere, di respirare. Solo Neottolemo sapeva qualche parola di luvio, nessun altro aveva anche solo i mezzi per interagire con lei. Non attirava compassione nè solidarietà. Era solo un monolite. Ignorava il suo aguzzino come il suo aguzzino faceva con lei, senza intenzione, come se semplicemente non si vedessero.
Due persone non possono guardarsi dopo una cosa del genere, pensasti. Dagli occhi, come può passare così tanto? Così tanta colpa e così tanto dolore. Un dolore così grande che il corpo si rifiuta di provarlo. 
Chiedere a Neottolemo cosa ci facesse Andromaca lì era ciò che ti premeva di più, ma non chiedevi. Non lo conoscevi ancora. Riuscivi già a intuire che la risposta fosse celata nelle radici più profonde dell'animo di quell'uomo, che lui stesso scandagliava malvolentieri. 
«Non potrebbe ucciderci nel sonno?»
«Non riuscirebbe mai a uccidere me, nè sveglio nè nel sonno.»
Scrutavi le sue pettinature barbare, che come seguendo un riflesso involontario si ricostruiva pezzo per pezzo ogni mattina, anelli di ferro per la sua chioma d'ebano. La tradizione che portava avanti, come uno stemma, come un vessillo, ora che la sua patria era in cenere. Una specie di resistenza di commovente irrilevanza in quella distruzione inesorabile. 
«Ma me sì.»
«Forse te sì.» Non gli desti la soddisfazione di fare ulteriore ironia. 
Mentre tuo marito allenava per ore la sua forza in fatiche inutili ed estenuanti, tu rimanevi statuaria e indolente come una polena a farti tirare la veste da un filo di brezza senza opporti. Le dita esperte dei marinai componevano nodi, la vela venivano alzata e abbassata e alzata ancora, i sacchi di provviste caricati a Sparta risalivano dalla pancia della nave. Era una quotidianità pacifica ma non monotona. Dopo tanta plastica, artificiosa vita di corte, toccare una vita così concreta ti aveva restituito una nuova purezza. Forse era quella la dimensione ideale dell'individuo, staccata dal vespaio politico, dalla brulicante e malevola società, staccata dai continenti inquinati. Neottolemo era nato su un'isola, dopotutto, Sciro, frammento di terra irregolare e scabroso che galleggiava nell'Egeo. Un microcosmo a parte. 
Mangiavi focacce indurite dalla prolugata conservazione, quasi insapori, e cercavi di pensare al futuro anzichè al passato. Alle persone che avevi lasciato indietro e ai loro singoli dolori. A Elettra che non rispondeva alle ambasciate. Egisto e Clitemnestra l'avevano forse data un moglie a qualcuno? Qualcuno di non abbastanza potente per reclamare i di lei diritti, o qualcuno in combutta con l'usurpatore. E del tuo matrimonio, lei sapeva? E Oreste, scomparso? Era stato davvero portato in salvo dalla sorella maggiore, o forse solo ucciso dalla madre colta dalla follia e il cadavere fatto sparire? Era stata la tua famiglia e di loro non sapevi più nulla. Gli anni insieme erano stati difficili, gravati dal peso della guerra, ma la vostra unione ti dava un conforto che essere sulla nave di uno sconosciuto verso una terra ignota non poteva procurare certo. Ed Elena? Nella piattezza del suo ritorno a casa, bersagliata dal disprezzo della corte e del marito, cominciava ad avvertire un rimorso? La remunerazione di guerra che Menelao aveva cominciato ad offrire alle sue terre, la fila dei contadini con ottant'anni e nessun figlio, suscitava qualche impressione in lei? Non lo speravi più. Sarebbe morta ignorando le proprie azioni e piangendo la fine della propria storia, la caduta del suo mito romantico. Come se una figlia non l'avesse mai partorita.
La tua fascinazione per il mare ebbe fine quando un insetto punse un marinaio e gli trasmise una febbre contagiosa, per debellare la quale Neottolemo legò l'uomo e lo scagliò fuori prua. Tutti i presenti rimasero a fissare il punto dove l'acqua si era richiusa sopra di lui definitivamente, accogliendolo come le fauci di una rana pescatrice.
Non eri abituata alla morte -quando Clitemnestra aveva compiuto la sua strage, tu eri già lontana da Micene- e anche qualcosa di così poco cruento ti lasciò interdetta.
«Cosa si prova a causare la morte?» chiedesti. Non osavi più affacciarti al parapetto. Avevi come l'impressione che l'urlo di protesta di quell'uomo fosse ancora udibile.
Ma Neottolemo non aveva paura dei morti. Fissava l'acqua solo perchè anche gli altri lo facevano. 
«Non saprei di preciso, ma mi scappa da pisciare» ribattè, tetro. 

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Capitolo 4
*** degeneremque Neoptolemum ***


Perchè l'Epiro, era un'altra domanda fondamentale.
C'era Ftia, la patria di Achille, con ancora al trono suo padre Peleo, desideroso di passare il testimone di questo onore al nipote.
C'era Sciro, la patria di Neottolemo stesso, con al trono il nonno materno Licomede pronto a riaccoglierlo in pompa magna.
C'era Sparta. Un regno potente, il principale vincitore, ora che Agamennone non era più vivo a reclamare questo titolo per Micene.
Ma Neottolemo, mettendo da parte tutte queste gloriose eredità, aveva scelto per viverci e regnarci l'unico pezzo di terra che si fosse guadagnato da solo. Questo era molto da lui. Ma al tempo lo credesti un semplice gesto di presunzione. 
La mattina dell'approdo la vista ti abbagliò. C'era... luce. Non avevi mai visto una terra così solare. Rocce scoscese, brulle, ma che bevevano calore e sembravano sprigionarlo. Tutto scottava, il sole, il suolo, l'acqua. Il mare alle sue rive sembrava un brodo. Il comitato di accoglienza era uno stuolo di soldati, i generali comandanti e dietro branchi di servitori variopinti. Le stoffe erano tinte con estratti vegetali e succhi di molluschi sconosciuti alle altre terre, o comunque troppo costosi. Neottolemo non era uno stupido, aveva portato ricchezza insieme al proprio dominio, era un re ben accetto. Ti offrirono piatti di frutti esotici e succosi, tutti dallo stesso gusto acquoso e dissetante. Ti sventolarono con foglie di banano e spogliarono delle vesti da viaggio per drappeggiarti di un chitone dallo scollo obliquio, che scopriva quasi integralmente un seno. Eri smarrita ma emozionata, senza sapere dove girarti. I soldati battevano gli stivali e ti chiamavano: regina. Tu incrociasti perplessa lo sguardo di Neottolemo, che sorrise derisorio.
«Che te ne pare del tuo reame, regina d'Epiro?» 
Sghignazzasti con lui. Era effettivamente ridicolo. Eri regina di una terra che non sapevi nemmeno esattamente quanto fosse grande, o quanta gente ci abitasse. Durante il viaggio in carrozza fino al palazzo, ammirasti filari e piantagioni rigogliose i cui prodotti maturavano al punto da staccarsi da soli dai rami, una pioggia d'abbondanza. I sudditi erano abbronzati, gente senza finezza nè pretese ma abituata a lavorare. Rimasti immuni dalla povertà che aveva colpito i regni coinvolti nella guerra. Tutti quelli che si affacciavano per salutare i sovrani volevano offrire un tributo, un canestro di quelle che sembravano arance gialle, bacche rosate come perle, mazzi di gambi verde brillante. Ti pulivi le dita dal succo con le foglie intrise di rugiada, ma poi non facevi complimenti ad assaggiare altro e altro. Il sole ti aveva quasi dato alla testa quando arrivaste alla reggia. Un castello piccolissimo rispetto a quanto eri abituata, aggrappato sul pinnacolo di una piccola montagna spoglia, senza vegetazione. Cilindrico, con una sola torre, finestre come buchi accidentali fatti dai denti di un roditore. La pietra era bianca e rossastra, pronta a sfarinarsi superficialmente al tatto e sprigionare una sabbiolina. Neottolemo ci si orientava dentro come se ci abitasse da sempre. 
«Noi dormiamo qua» fu l'unica cosa che disse esplicitamente, indicando una stanza ampia, all'ultimo piano, talmente in alto che ti vennero le vertigini lanciando un'occhiata fuori dalla finestrella. 
Non c'era lusso, era tutto frugale, modesto e dignitoso. Militare, come ogni cosa che piacesse a Neottolemo. 
In seguito alla conquista e allo sterminio dei sovrani precedenti, l'Epiro aveva ancora una possibile erede legittima, Leonassa. La vedesti sopraggiungere a palazzo a muso duro, risalendo il pendio ripido e polveroso, dalla finestra della tua nuova camera. Era nipote di un certo Illo, che lei giurava fosse figlio di Eracle. Sola, armata di un gladio e basta, senza corazza. Senza uomini ad accompagnarla. Sfidò Neottolemo alla lotta. Un gesto ardito per una femmina. Era solida, spalle robuste, torace grosso, l'andatura di un uomo. Non una completa sprovveduta.
In Neottolemo accadde qualcosa di bizzarro. S'illuminò. I suoi occhi diventarono fiamme giocose, ardite. 
«Sai chi sono io?»
«Sì» rispose Leonassa.
«Hai paura di me?» la provocò lui, animato, eccitato. 
Tu assistevi incuriosita. Non l'avevi mai visto nella sua dimensione naturale, su un campo di combattimento. Però non ti sentivi pronta a vedere quella coraggiosa ragazza smembrata. 
Sapevi già che dalla risposta della domanda che era stata fatta dipendeva il rispetto di tuo marito per qualcuno, e che lui avrebbe fiutato una menzogna.  
Leonassa pronunciò, il più chiaramente e limpidamente possibile: «no.»
Neottolemo si leccò le labbra screpolate. «Datele una spada migliore.»
Le diedero una spada delle sue, lunghissima, così pesante che non eri certa di saperla reggere nemmeno con due mani. Leonassa invece la impugnò con perizia.
«Se vinci, puoi giustiziarmi e diventare la regina di questo posto, prenderti l'oro e gli schiavi» promise Neottolemo. L'idea di una lotta lo stava fomentando incredibilmente.
«Quelli che mi appartengono già di diritto» sibilò lei.
«L'unico diritto a cui dò retta è quello del ferro.» Neottolemo non chiese un'arma. Fece qualche passo verso di lei, fissandola negli occhi.
Non capisti cosa accidenti successe, ma pochi istanti dopo Leonassa era faccia a terra, sulle piastrelle di pietra, che gridava di dolore per il ginocchio che tuo marito le stava impiantando tra le vertebre, giocherellando con la spada che le aveva sottratto. Tu pensasti: almeno fallo in fretta, chè non soffra.
«In guerra, chi perde muore» chiarì Neottolemo, poi scrollò le spalle. «Ma purtroppo la guerra è finita. Quindi sei salva. Ma devi riconoscermi come re.»
Spostò il piede, mollò la spada sul pavimento accanto a lei e si voltò. Leonassa ne approfittò per balzare in piedi e tentare di trafiggerlo. Neottolemo la sorprese in flagrante e le immobilizzò i polsi, fulmineo. 
«Questa invece era lesa maestà. Ma è inutile, Leonassa d'Epiro. Non morirai quest'oggi. Devi sottometterti al mio volere.»  
Lei imprecò come nemmeno i marinai a cui avevi vissuto accanto per un mese facevano. Perse, e dalla polvere del suolo fra la quale finì decise di piegarsi, i denti digrignati. 
Quella sera Neottolemo si destò improvvisamente e si accorse della tua presenza. Ti squadrò dalla testa ai piedi, come aveva fatto la prima volta. 
«Come intendi occupare il tuo tempo? Sei brava in qualcosa? Voglio dire, non sei nemmeno brava a letto.» 
Era posseduto da una strana euforia. La lotta pareva averlo svegliato dal suo stato di apatia. Stava cercando solo di umiliarti. Non ti lasciasti scalfire. 
«Sono una donna, non una puttana» commentasti, con sprezzo. 
Lui annuì. Gli era piaciuta la risposta. «Tanto non mi interessa. Il sesso soggioga solo i cattivi soldati. E io sono il migliore soldato greco che sia mai esistito. Sono nato per questo.» Non aggiunse altro. Era presuntuoso, ma senza enfasi, come se si trattasse di mere constatazioni. Osservasti i suoi ciuffi scaleni che non tagliava mai, ramati, i suoi occhi privi di colore, diafani. Era nato per sorreggere lo strascico di suo padre, come tutti voi. Non per se stesso. Ma lui lo aveva infangato, quello strascico.
Leonassa fu la tua prima amica in quella nuova patria. Neottolemo la prese a palazzo come ancella, pagandola profumatamente, quindi avevate modo di incrociarvi. Ti spiegava cosa dovevi fare se un uomo cercava di aggredirti di notte.
«Se proprio riesce a farti qualcosa, devi portargli via almeno un orecchio, o un occhio» illustrava, seria. Tu la ascoltavi un po' sì e un po' no, sorpresa d'incontrare una donna così diversa rispetto a tutte le altre che avessi mai conosciuto. Era da quando stavi con Elettra che non passavi tanto tempo insieme a un'altra persona. Leonassa conosceva il territorio, ti portava a scoprire le insenature tra le rocce a cui si aveva accesso solo nuotando, i punti in cui crescevano funghi e anemoni di mare, gli alberi più vecchi, le tane degli animali. Offrivate nocciole alle caprette al pascolo, scalavate il promontorio da cui si potevano scorgere le navi in arrivo. I calli sulle mani lasciarono posto a una pelle più dura e resistente. Il tuo incarnato assunse una sfumatura color miele. Ti sentivi tonica e piena di energia al mattino. In cambio, tu raccontavi a Leonassa della guerra. Era la prima persona che conoscessi che non avesse dovuto soffrire per nessun amico o conoscente là. Ormai sapevi tutto meglio di un aedo, volente o nolente. Ed erano storie che, per come erano state edulcorate ed enfatizzate, erano in grado di ipnotizzare. Inoltre, ad aggiungere fascino, subentrava il fattore che i personaggi di cui parlavi erano tua zia, tua madre, tuo padre. Leonassa non ne sapeva niente di niente, beveva avidamente tutto quanto. 
«Millecentottanta navi» ripeteva, sconvolta. «E quanti fanti? Quanti carri? Che tipi di armi?» Si interessava di dettagli tecnici su cui sapevi poco o nulla. Tu eri esperta dei drammoni sentimentali, dei padri che sacrificano le figlie, dei neonati fracassati al suolo. Raccontasti di Andromaca, glie la indicasti, senza pudore. Leonassa scuoteva il capo, rabbuiata.
«Da noi, i bambini sono sacri» dichiarò, secca. «Un uomo che uccida un bambino è peggio di un codardo, peggio di chi si rompe un braccio per non andare in guerra. Se io fossi in lei, avrei già ucciso il tuo uomo in cento modi.»
Ti domandò perchè avessi sposato Neottolemo. Secondo le loro usanze, una sposa doveva scegliere lo sposo, soppesare le sue qualità e valutare se era degno di lei. Non capiva perchè tu avessi ritenuto degno un uomo che aveva trucidato un infante. Dovesti precisare che non era stata una tua scelta, non avrebbe mai potuto esserlo. 
«Devi essere molto infelice» commentò. Non era la verità. Non sapevi come Neottolemo potesse aver fatto quello che aveva fatto, o come potesse conviverci, ma ti facevi gli affari tuoi. Lui non ti aveva mai creato alcun problema, in fondo. Le raccontasti anche di Elettra, di come ancora penavi per lei e la sua sorte incerta. Prigioniera in casa sua, probabilmente. Con una madre che aveva smesso di amarla e un ladro al posto che spettava a suo padre.
«La ami?» ti chiese Leonassa, a bruciapelo, senza stupore.
Tu rimanesti perplessa. «Cosa intendi dire?»
Al che, ti spiegò che capitava spesso che una fanciulla si innamorasse di un'altra, soprattutto se entrambe erano vergini. «A me è successo un mucchio di volte. Non c'è niente di strano.» Illustrò che esistevano anche delle pratiche amorose che solo le donne potevano compiere. Tu ridevi e l'accusavi di prenderti in giro. 
«D'altronde, anche ad Artemide piacciono solo le altre donne, no? Cosa c'è di così assurdo?» s'imbronciava Leonassa. Tu la mettesti a tacere, archiviando quelle chiacchiere frivole.
Neottolemo intanto si teneva impegnato con varie campagne per sedare fantomatiche ribellioni, che immaginavi fossero pretesti più o meno fondati per spargere sangue. L'importante era che non lo portasse entro le mura di casa. Al contrario di Sparta, qui non c'erano mai sacrifici religiosi, cerimonie. Quando un sacerdote venne a proporli, Neottolemo si girò verso di te.
«Esprimi il tuo volere, regina.»
Tu scuotesti la testa. «Preferisco che gli agnelli crescano sani e forti piuttosto che sprecarli.»
Tuo marito approvò. «Crediamo negli stessi dèi, Ermione di Sparta.»
La vostra vita insieme procedeva tranquilla, senza grandi scossoni. Non vi davate mai il tedio, potevate mantenere le vostre abitudini preferite senza scontrarvi. Neottolemo osservava con una specie di occhio beffardo l'esercizio fisico che facevi, come dire dalla tua prospettiva è una gran cosa, vero? Ogni tanto cercava di attirare indirettamente la tua meraviglia e la tua ammirazione: ti offriva l'estremità di un bastone da combattimento e ti chiedeva di colpirlo sul petto più forte che potevi.
«Dai, su, prova.» E si divertiva a mostrarti che tu potevi anche rompergli l'asta di frassino addosso senza cavargli una smorfia di dolore, sul torace durissimo. Sembrava un bambino bisognoso di complimenti quando faceva così. 
Non parlavate mai del passato. Soltanto un giorno ti affiorarono delle parole alle labbra, un tentativo goffo di riparare questo silenzio omertoso.
«Dicono che la caduta di Troia sia stata come vedere gli Inferi aprirsi.» Ricordavi le testimonianze dei messaggeri, i Greci che piangevano come i Troiani davanti a quello sfacelo, a quel tutto ridotto a nulla. La civiltà che scompare. 
Neottolemo vanificò il tuo tentativo di improvvisare un'intimità, un'intesa.
«Erano quattro casupole di contadini barbari e un castello fatto di sabbia secca» tagliò corto, cinico. «Non lasciarti impressionare dalle storielle per gli aedi.»
Ma tu già sapevi distinguere le storielle dalla realtà, e sapevi che quello era uno spettacolo che la storia non avrebbe dimenticato, e nemmeno Neottolemo. 
Andromaca non usciva mai dalle stanze riservate alle schiave, mai la si vedeva nei vasti giardini che davano sulla montagna, mai nelle sale piastrellate di bronzo con le vasche per i bagni. Forse sperava di dimenticarsi di esistere a sua volta. Tesseva assente, gli occhi fissi sui movimenti automatici delle dita, senza guardare cosa ne scaturiva. Questo era quello che intravedevi quando andavi a chiamare una serva. Andromaca era sempre sola, nessuna le sedeva accanto. Neottolemo aveva comprato un'ancella troiana -ormai ce n'erano molte sul mercato, ed economiche- perchè avesse qualcuno che parlasse la sua lingua, ma lei non ci scambiò una parola. 
Suo figlio, Scamandro, Astianatte, glie lo avevano dovuto strappare a forza, ti avevano raccontato. Li avevano divisi con difficoltà, lei piegata in due, le braccia tese in uno spasmo infinito verso il bambino che piangeva. Aveva morso, graffiato, come un animale. Aveva smesso di combattere solo quando Neottolemo in cima alle mura aveva mollato la sua presa sul suo corpicino, affidandolo all'aria intossicata del rogo di Troia. Che rumore poteva fare qualcosa di così piccolo che si apre come una mela marcia? 
Il suo dolore privo di manifestazioni ti spaventava. Una volta arrivasti a chiedere a tuo marito di mandarla via, perchè la sua presenza era inquietante, proiettava un'ombra di sventura. Lui non ti rispose nemmeno, inarcò un sopracciglio, ti gelò con lo sguardo.
Non potevi comprendere ciò che c'era tra loro. Tra un dannato e la sua maledizione. 

~ • ~

Avvenne tutto intorno alle Targelie, le feste in onore di Apollo. Erano benevole, innocue, senza spargimenti di sangue, amate dal popolo, e tu e Neottolemo approvaste la loro esecuzione. Si cominciò giorni prima a raccogliere i fiori, la frutta. Leonassa era di buon umore, cantava mentre ti insegnava in che punto dello stelo tagliare certe piante, le differenze. Le giornate erano lunghe e assolate. Ogni terra aveva una tradizione diversa: qui, carovane di contadini da tutti i villaggi si radunavano alle fonti per il bagno di purificazione, e poi c'erano le danze. I sovrani, generalmente, erano i primi all'alba a bagnarsi nella fonte sacra.
Neottolemo declinò l'offerta. «Non ho bisogno di purificazione. Non ho colpe.»
Tu sorridesti, sarcastica, amara. «Questi ultimi vent'anni hanno distribuito colpe a tutti noi.»
«Non portavo rancore a nessuna delle persone che ho ucciso» replicò tuo marito. «Perchè non le ho uccise io. Le ha uccise la guerra. La mia mano è stato solo lo strumento della volontà di mille uomini, delle scelte di mille donne.»
Questo rifiuto non passò inosservato. Tu ti presentasti, ti bagnasti gli orli svolazzanti del chitone con intorno le acclamazioni del popolo, mentre il tessuto trasparente si incollava alle tue gambe, Leonassa al tuo fianco a schizzarti con le mani, dispettosa. Senza sapere che colpe stavi espiando, ma unendoti a chi condivideva quel pezzo di storia con te, prendendo una parte di quella responsabilità universale. Scusami, Elettra, per averti lasciata sola a Micene. Scusami, madre, per essere stata una figlia che non hai saputo amare. Scusami, padre, per non essere stata un valoroso figlio maschio, che potesse assisterti in quella guerra. Scusami, Telemaco, per averti permesso di essere ragionevole e partire senza di me. Una volta a palazzo, fu un generale a parlare, uno poco scaltro.
«L'omicidio di neonati, anziani e fanciulle è diventato ora un'azione virtuosa?» esordì, nei fumi dell'alcol.
Neottolemo non si infuriò. Sorrise, come sempre quand'era più pericoloso. «Sono le mie uniche vittime di cui ricordiate il nome, non è così? Troia è stata presa grazie ad altri omicidi, di cui non sapete nulla, suppongo. Non c'era spazio per i guerrieri di mezza tacca laggiù.»
Fu una schiava a riferirtelo, quando tu la interrogasti circa Andromaca, cosa faceva, come appariva, visto che tu non riuscivi ad osservarla a lungo senza distogliere lo sguardo. Lei ti rivelò che le sue giornate erano vuote, ma le sue notti erano impegnate. Molto spesso usciva con una cappa indosso al calar del buio e rientrava nelle stanze servili all'arrossarsi del cielo. Le stesse notti in cui trovavi il tuo talamo leggero, privo del peso di un corpo. 
Non sapevi se Neottolemo compisse una violenza su Andromaca, o se quella donna semplicemente gli si abbandonasse, facesse finta di essere morta. Doveva essersi arresa, visto che andava incontro al suo destino con le proprie gambe. Però iniziavi a sospettare il motivo: perchè lei, perchè non un'altra, una schiava più attraente, più sorridente, che sapesse simularsi infatuata di lui. Dopotutto quella troiana aveva superato l'età in cui una fanciulla è più fresca. Ogni volta che Neottolemo violava Andromaca, vinceva di nuovo quella guerra. Non riusciva a liberarsene, gli era rimasta da qualche parte, incastrata fra lo sterno e i polmoni, la scheggia di una freccia. L'idea di quegli incontri da un lato ti turbava... dall'altro non ti sorprendeva come forse avrebbe dovuto. Andromaca era una bruciatura nella trama di quella storia, un foro nero e consumato, già aperto, a cui ulteriori intrusioni non potevano arrecare nuovo male. E non era crudeltà quella con cui Neottolemo si accaniva. Era una sorta di inevitabile, oscuro magnetismo. Era il dolore della guerra, da una parte, e l'amore della guerra, dall'altra: in ambo i casi, accettati. Cercavi di confrontare con il pensiero gli amplessi brevi e misurati che avevano luogo nella tua stanza, e la razzia che Neottolemo non poteva impedirsi di ripetere. Era un atto violento, era doloroso, ripugnante o seducente? Quel corpo martoriato meritava vituperi o carezze? Andromaca era quanto di più vicino lui avesse in quel momento allo scopo della sua nascita, l'impulso della sua esistenza, la guerra. Aveva ancora il suo odore addosso lei, tra i capelli neri, le labbra pronunciate, ed era quello che lui inseguiva, come un cane da caccia. Nessuna donna ai suoi occhi era degna, o appetibile, come una segnata dalla guerra. Che sa qualcosa che le altre non sanno. È un marchio negli occhi, una zoppia nel passo. La tua curiosità morbosamente ti spingeva a interrogarti. Ma non scopristi mai la verità. Il tuo rapporto con Andromaca era destinato a migliorare, ma mai al punto da concedervi confidenze.
Accadde altro, intorno alle Targelie. Giunse una nave dall'isola di Sciro, con a bordo Deidamia, tua suocera. Principessa con undici sorelle, l'unica ad essere riuscita a distrarre Achille da Patroclo, si raccontava. Furba, in grado di procurarsi una gravidanza che sulle prime era parsa a tutti sconveniente, senza un vincolo matrimoniale, ma che -lei lo aveva capito- le avrebbe portato onore in futuro. Erano quasi nove anni che non vedeva suo figlio, da quando lui ne aveva dieci ed era partito per vincere la guerra. Neottolemo era suo in senso forte. Deidamia era stata la responsabile di quella tempra, di quell'indole, a partire dal nome che gli aveva conferito. Neottolemo era il suo prodotto, del suo ventre e della sua formazione. Poco materna, ma lungimirante. Neottolemo era diventato tutto ciò che le aspettative pretendevano da lui, solo grazie a Deidamia. 
Con la madre, Neottolemo cambiava. Aspettò per ore il suo arrivo sulla baia. Quando la vide scendere a terra, battè la lancia, in segno di rispetto, come davanti a un capo militare. La donna si aprì in un sorriso simile al suo, affilato. Era bella, ma troppo pericolosa, fulva e ambigua. Capelli mogano che diventavano di sangue sotto il sole. L'amore per Neottolemo la bruciava, la mordeva. Lo osservava con un orgoglio, un tale ardente trionfo che era quasi gretto. Le sembrava impossibile che lui ormai la superasse in altezza, e di una buona spanna: era partito preadolescente. Lo accarezzò con indulgenza, come per restituirgli una pace di quiete dopo anni e anni di obbligata durezza, e lui la lasciò fare, respirandole vicino al viso come un neonato. Poi Deidamia si voltò verso di te. Forse si aspettava di meglio dalla figlia di Elena, ma non era ostile. Non esisteva donna meritevole di suo figlio, quindi non ce l'aveva con te in particolare. In seguito ti chiamò kina lenès, che significava "urna vuota" nel dialetto di Sciro. Il motivo non ti era ben chiaro, se si riferisse al fatto che non avevi ancora una gran pancia o perchè eri stupida. Non sapevi se parlasse greco, se anche poteva evitò di dartene prova. Ad ogni modo, i mesi che trascorse da voi non furono difficili. I due confabulavano continuamente in quel dialetto secco e fitto, legati dal vincolo indissolubile della famiglia d'origine; parlavano della guerra, del bottino, del merito e non merito di questo e quel generale, probabilmente. Deidamia era uno stratega, dopotutto. 
Una sera, ponderasti se fosse il caso di approfittare del suo buonumore per cavare qualche verità, una di quelle che ti perseguivano senza motivo. Esitasti, seduta sulla tua sponda di letto. Neottolemo intercettò lo sguardo, alzò gli occhi al soffitto.
«Non stare lì a fissarmi, chiedi.»
«Polissena... È andata come si racconta?»
Lui non si scompose. «E come si racconta?»
«Ha scelto di sacrificarsi per l'eroe, non ha versato una lacrima.» 
«Perlomeno ci ha provato.» Neottolemo ridacchiò, senza peso. «Sacrificarsi... un sacrificio utile quanto quello degli agnelli.»
Tu cercasti, per una volta, di trattenere il suo sguardo che sgusciava via. «Allora era proprio necessario aggiungere un'altra giovane ragazza a quell'ecatombe? Pensi che la sua sopravvivenza costituisse una minaccia, o che semplicemente non valesse nulla?» 
Neottolemo ti scrutò, con aria di sfida. Forse era curioso di vedere quanto sarebbe durata la tua temeraria retorica.
«Tu dici che è un crimine più orrendo uccidere una giovane ragazza piuttosto che un giovane ragazzo dei mille e mille che sono morti a Troia. Io ti rispondo che con questo modo di ragionare infami il tuo sesso. Io penso che un uomo e una donna siano ugualmente pericolosi, se in preda al dolore. Mia madre, se fosse stata iniziata all'arte della spada, sarebbe diventata un problema per molti dei guerrieri che ho affrontato. Tua zia Clitemnestra ha riservato un bel trattamento d'accoglienza al ritorno del marito.»
Tu non ti arginasti. Avevi iniziato con la sincerità, avresti continuato così. «Non sto parlando di maschi e femmine, sto parlando di forti e deboli, di audaci ed indifesi. Che la maggior parte delle donne rientri in queste seconde categorie, è solo un riflesso della natura del loro corpo e del mondo in cui viviamo.»
Neottolemo strinse gli occhi. Era ancora a suo agio. «Rispondi a questa domanda. Da una parte hai Polissena, uccisa in patria, in breve tempo, di una morte senza tortura. Dall'altra parte hai Andromaca, regina divenuta schiava di un uomo che odia in terra straniera, e lo rimarrà fino alla fine dei suoi giorni. A chi credi sia toccata la pena peggiore?»
Polissena. La sua lunga treccia bruna. Scalza sulle ceneri ancora calde della sua città. Riuscivi a vedere tutto quello che ti avevano raccontato. Il viso di Polissena assomigliava a quello di Ifigenia, nella tua mente. 
«Comparare la morte di un uomo a quella di cento uomini è un esempio che ricalca quello che stai esponendo, ma niente di questo toglie che l'assassinio di un unico uomo resti sbagliato» tagliasti corto. «Non è una gara a quale crimine è più riprovevole, è il giudizio di un singolo crimine. Non ho mai detto di approvare quello che Andromaca subisce.»
«E io non ho chiesto la tua approvazione» precisò Neottolemo, tagliente. «Quella ragazza era contenta di morire. Non aveva più padre nè fratelli ad evitarle stupri e umiliazioni.» 
«Quindi è sufficiente il suo implicito assenso per essere in salvo dai sensi di colpa? Non è un tribunale più alto a decretare cosa è giusto e cosa è sbagliato?» Forse stavi esagerando, ma non ci pensavi più. Ormai contavano solo le parole tra voi, come piastrelle di una strada verso la verità. Neottolemo ghignò.
«La giustizia è umana, Ermione. La guerra distrugge il suo insulso costrutto. Se avessi mai sventrato una persona su un campo di battaglia, lo sapresti.» Poi ti carezzò la testa, senza tenerezza, come avrebbe fatto con un cane, una bestiola seccante da rabbonire. Ma ciò che avresti voluto chiedergli, e che rimase in sospeso tra voi -l'unica cosa di cui non parlaste mai davvero- era la giustificazione che aveva dato a se stesso per non avere ucciso anche Andromaca. La risposta in fondo la sapevi. 
Solo qualche giorno dopo, qualcosa accadde di nuovo. Il palazzo paralizzato da un gelo surreale. Risalisti le scale fino a trovare un assemblamento di gente, tutti i servi che si affacciavano su una stanza. Ti facesti largo tra loro finchè non entrasti. La visione che ti si parò davanti era Andromaca su un treppiede, una corda appesa ad una lucerna sul soffitto, allacciata alla sua gola, contratta come quella di una bestia. Pronta a scalciare via lo sgabello. Neottolemo, davanti a lei, si voltò per farti cenno di tacere e arretrare. Infine fece un passo verso la donna e pronunciò alcune parole, a mezza voce, in luvio. Andromaca rispose al suo sguardo, per la prima volta, dopo mesi, direttamente. Uno sguardo vacuo, vitreo.
Ti rivolgesti all'ancella troiana. «Che cosa le ha detto?»
Lei era impietrita, cupa. Rispose tra i denti. «Ha detto che tutte le altre persone che sapessero dell'esistenza di suo figlio sono morte, quindi Astianatte sopravviverà solo fintanto che Andromaca resta viva a ricordarlo.»
Deidamia partì carica di casse di gioielli, soddisfatta del figlio che aveva forgiato, il vincitore, il migliore degli Achei. Questa breve apparizione ti diede la possibilità di constatare che Neottolemo era capace di passioni forti, smodate, di una fedeltà emotiva. Anche lui pareva rasserenato dalla partenza della madre, con il volto di chi ha compiuto il proprio dovere e ha saldato un debito. 
«La vecchia è ancora arzilla, vedo» scoppiò a ridere, sdrammatizzando il dispiacere che provava nel vederla partire senza sapere per quanto. «Tutta tronfia come se Troia l'avesse espugnata lei. Ora vada pure a consumare i suoi ultimi anni su quell'isola di sassi.»
Tu non dicevi nulla, gli permettevi di nascondersi da quel sentimento che lo spaventava, che gli sapeva di debolezza. Ma ogni tanto, fingendo che fosse una tua esigenza civettuola e non la tacita risposta a una necessità di lui, lo abbracciavi nel talamo e gli premevi la testa contro il tuo seno. Neottolemo fingeva di accondiscendere al tuo bisogno di affetto, ma magari, in sordina, saziava il suo.

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Capitolo 5
*** narrare memento. ***


L'abitudine si radicò celere, pratica e senza poesia, come semi di fiori selvatici. I mesi addensarono un'intimità, come argilla che si secca sotto il sole. La vita coniugale non aveva per niente l'aria di esserlo. Era piuttosto come avere un coinquilino. Neottolemo si allenava senza sosta in una sorta di sanguinario ginnasio dove l'esercizio era sostituito dalla lotta, senza esclusione di colpi; tornava alla reggia di sera, accaldato, s'immergeva nella vasca e veniva al tuo letto. Mentre ti slacciavi le fibbie d'oro della veste, discorrevate con calma, di tutto e niente. Di notte ti svegliava perchè lui si divincolava dalle coperte, si affacciava alla finestra, girava avanti ed indietro, aveva quell'irrequietezza spasmodica addosso, non riusciva a stare fermo un momento; tu fingevi di dormire, gli lasciavi quello spazio notturno per sè. 
Ogni tanto, ti offrivi di lavargli i capelli. Ti mettevi in ginocchio dietro una grande tinozza dove lui era immerso e li districavi con le dita, li ammansivi con la spazzola. Erano lunghi, fluenti e molto sani. Lui acconsentiva con sufficienza, però godeva di quel piacere dolce. Nel vapore caldo dell'acqua, nel profumo stordente delle essenze, le parole scivolavano più facilmente. Questo era potuto accadere solo una volta che eravate diventati a vostro agio con il silenzio.
«Non hai mai pensato di tornare a Sciro? Hai rivisto tua madre, ma non tuo nonno.»
«Dovresti capirlo, figlia di Menelao. Non con troppi rimpianti hai abbandonato Sparta.» 
Aveva ragione. «Non potremmo mai appartenere ai luoghi che sono già stati scenario delle storie di chi ci ha preceduto, immagino.» 
Neottolemo tacque per breve tempo. Un pensiero cupo gli tagliò la fronte. «Non l'ho mai conosciuto. Non l'ho mai visto. Sapevo solo di dover terminare ciò in cui lui avrebbe fallito.»
Tu, lui, Telemaco, Oreste. La stessa generazione. Tormentati da un'epica fantastica di personaggi mitici e irraggiungibili, che tutti quanti avrebbero cercato in voi. 
«Ma nessuno ti ha mai detto il perchè.»
«Non c'è un perchè. Ognuno riceve il destino come riceve il sangue, e come accetta l'uno deve accettare l'altro.» 
Pensasti a Elena, a tutti quei riccioli bellissimi e vani. «Non intendo gareggiare con un sangue e un destino come quelli di mia madre. Vorrei essere dimenticata. Penso sia il modo migliore per sottrarmi alla macchia della sua reputazione.»
Neottolemo si concentrò sui tuoi polpastrelli alla radice dei capelli, che frizionavano, massaggiavano, le braccia posate ai lati della tinozza di ferro. 
«L'unico modo per svincolare da questa condanna è ottenere più fama di mio padre» dichiarò. E se non col valore, con l'empietà.
«Tu hai preso Troia.»
«Quando Ettore era morto, gli dèi già sazi di sangue. La strada spianata, diranno gli aedi.»
Ti chiedesti se, quando entrava dentro Andromaca, Neottolemo immaginasse di uccidere Ettore con le proprie mani. «Gli aedi confondono verità e menzogna, me lo dicesti spesso.»
«Ma se non daremo loro materiale su cui costruire favole su di noi, la nostra fine coinciderà con quella biologica del corpo, e tutti gli sforzi compiuti in vita scompariranno.»
Contemplasti dunque il suo corpo nudo sotto l'acqua trasparente, che aveva scolpito sin da quando era tenero, acerbo, prematuramente strappato alla morbidezza. Il ventre duro di muscoli, le ossa sporgenti, le braccia possenti, le cicatrici brutte come punti da sutura. Difficile immaginarlo scomparire. «Niente Tartaro per noi.»
«Nè Campi Elisi.»
All'inizio era solo una diceria nel gineceo delle schiave, poi col trascorrere dei giorni divenne evidente, dalla piega che la veste faceva sotto il seno: Andromaca era incinta. Spiasti quel fenomeno con puerile sorpresa. Lei non faceva niente di diverso rispetto a prima, non parlò di questo con nessuno, taceva a mento basso, mangiava senza richiedere porzioni diverse. Però il seme nemico aveva attecchito nel suo grembo maturo. Avrebbe partorito la genia che più le era odiosa, la stessa che aveva impedito a quella del marito legittimo di prosperare. Un tiro mancino delle Moire. Se il carico di dolore per lei si era aggravato, non lo diede a vedere. Era una nuova speranza, o era l'apice della disperazione? 
Finora non avevi mai fatto attenzione per notare irregolarità nelle mestruazioni, non avevi mai nemmeno immaginato la prospettiva di avere presto dei figli. Non ci pensavi perchè forse lo davi per scontato, sapevi per educazione che era qualcosa che succedeva, prima o poi, e solo a quel punto ce ne si preoccupava. Di solito erano i mariti ad auspicarsi che accadesse presto. Neottolemo non ti disse mai una parola riguardo alla faccenda, non lo vedesti mai vicino ad Andromaca, nemmeno sbirciare la sua pancia quando lei era a portata di sguardo; allo stesso modo, non ti fece mai pressioni affinchè tu concepissi.
Però la schiava stava per avere un figlio da lui. Prima di te. Questo, nei palazzi, era generalmente argomento di chiacchiere e pettegolezzi. Motivo di imbarazzo. Tu non eri granchè imbarazzata: solo caduta dalle nuvole. Ti rendesti conto che era quello che poteva capitare anche a te, da un momento all'altro. Ventre grosso, seni pesanti, piedi storti. Non impazzivi di aspettativa all'idea. Da adolescente eri stata contenta di accudire il piccolo Oreste, ma solo perchè era un povero innocente trascurato, e perchè le nutrici facevano il grosso del lavoro. Non eri particolarmente vanitosa, ma non sapevi se eri pronta a vedere il tuo fisico diventare irriconoscibile e soffrire il martirio del parto per un bambino. Ma era il dovere principale di una moglie, e anche se Neottolemo non lo dichiarava espressamente era tuo compito provvedere affinchè accadesse.
Andromaca partorì vicino al solstizio d'inverno. Non sentisti mai piangere quel neonato, un maschio, nemmeno il giorno della sua nascita. Forse Andromaca, già esperta di un parto, sapeva come placarne gli strilli. Succhiò insieme al latte materno l'attitudine al mimetismo, all'invisibilità. Sapesti che era nato solo perchè la pancia madornale si afflosciò sotto le vesti. Venne allevato nel gineceo delle schiave, e non lo vedesti praticamente mai, se non quando aveva ormai un paio d'anni. Quando però aveva solo qualche mese, Leonassa venne da te, scocciata.
«L'olio di cedro non ha funzionato» annunciò, pragmaticamente. «Aspetto un figlio da tuo marito.»
Non si sentiva come se stesse confessando di aver tradito la vostra amicizia, nè tu provasti rabbia o fastidio. Quello tra te e Neottolemo era formalmente un matrimonio, ma all'interno del palazzo tutto era fluido e rilassato, e sapevi che se tu fossi andata con un altro uomo lui non avrebbe avuto niente da ridire. Non si faceva molti scrupoli, d'altronde, ad entrare nella stanza dove Leonassa dormiva, sorprenderla nel sonno e fare a gara a chi l'avrebbe spuntata, se lui a violarla o lei a respingerlo. Lei stessa la vedeva più come una sfida che come una violenza. Ma era andata a finire così. 
«Terrai il bambino?» le chiedesti. Tra le ancelle, giravano molte voci riguardo a come liberarsi di una gravidanza indesiderata. 
Lei si strinse nelle larghe spalle. «Che vuoi, probabilmente da grande diventerà qualcuno. I bastardi dei re possono persino diventare re a loro volta. Sarebbe come rimettere sul trono la dinastia di mio padre. E poi, non posso rischiare la vita con quelle diavolerie invise agli dèi.» Quella fu una gestazione che seguisti giorno per giorno, il che fu molto istruttivo per te, poter porre tutte le domande e osservare i progressivi cambiamenti del fisico e delle sensazioni di una madre. E nove mesi dopo nacque una bambina sana e forte, che Leonassa chiamò Danae, e nei confronti della quale provasti sincero affetto. 
Poco dopo Andromaca mise al mondo il secondo bambino, poi il terzo. Cosa provavi? Eri oppressa dalla gelosia, ti sentivi una moglie inutile? Tutte queste prove conducevano al sicuro verdetto che la sterile eri tu. Perchè le occasioni di rimanere incinta le avevi quasi ogni notte. Sotto quel punto di vista i rapporti sessuali non erano molto cambiati, più rilassati ma sempre neutri, orgasmi fisiologici per lui e occasionali per te, niente di indimenticabile ma nemmeno esiziale. 
Quando eri assalita da moti di rancore, pensavi che non avevi intenzione di somigliare a quella troiana feconda che scodellava prole come un animale. Tu eri più di questo. Eri più di quanto ti determinasse la tua biologia. Altre volte, finivi per pensare di non essere nè quello, nè nient'altro di buono.
Non potevi negarlo. Nel non adempiere al tuo ruolo di moglie, ti sentivi in torto, una donna deprecabile, disobbediente come tua madre. E desideravi riversare l'amore che provavi per l'amante perduto -e perlopiù costruito con la fantasia- in tante piccole creature, come si vuole svuotare una pustola, vomitare un bolo. Desideravi un amore assoluto, in mezzo a tanti modesti moti d'animo, tante fioche simpatie, tante zuppe tiepide. Neottolemo non si faceva amare, non era l'oggetto giusto. C'era troppa sincerità tra voi, vi conoscevate troppo, non sapevate ammaliarvi a vicenda. 
Neottolemo non te lo faceva pesare. In realtà non glie ne importava bel di niente. Non amava nemmeno i figli che aveva già inavvertitamente generato. Non per cattiveria, più che altro per distrazione, per colpa dei residui dell'infanzia che non aveva potuto vivere. Non si era ancora liberato dall'onere di essere un figlio, non poteva essere padre. Lo emozionava molto di più riuscire a tranciare di netto il collo di una vittima con un giavellotto che osservare un lattante.
Un giorno lo disse chiaro e tondo. «Non m'interessa se sei sterile. Non mi interessano i figli, e comunque ne ho già. Stai tranquilla. Non subirai conseguenze.» Era privo di tatto, ma era sincero, e di certo clemente. Non tutti gli uomini avrebbero affermato qualcosa di simile. «Posso sottrarre un figlio alla troiana e fingere che sia tuo, se vuoi.» 
Rifiutasti. Non era una soluzione adatta al tuo orgoglio. Dovevi farcela, era il tuo dovere, era il tuo obiettivo, nessuno poteva svolgerlo al posto tuo. E ti spaventava l'idea di non riuscire ad amare un innocente, o di infliggere altro dolore superfluo a quella povera donna. Non sapesti mai chi Andromaca fosse. A quale punto fosse stato grande il suo amore per Ettore e quale il suo odio per Neottolemo. Quand'era al fianco del suo padrone nelle cerimonie ufficiali sapeva ancora tenere la testa alta, ma lo sguardo fisso nel vuoto. Quel vuoto ti faceva paura più di ogni altra cosa. Stava solo con i suoi figli, parlava loro sottovoce nel perduto dialetto troiano, ricamava per loro nuove vesti mentre li teneva sulle ginocchia. Si guardava intorno, con le orbite nere che aveva al posto degli occhi. Temeva che qualcuno potesse strapparle anche quelli, di certo. E quel qualcuno non volevi essere tu. 
Il primo cedimento di quella vita ordinata, composta, avvenne in una notte pulita, cielo sgombro, stelle rade. Tu e Leonassa avevate parlato fino a notte fonda, vi eravate addormentate nel suo giaciglio, nel gineceo schiavile, dopo aver riso delle perdite di latte che sporcavano il suo peplo nei momenti più inopportuni. Il tuo corpo magro aderiva al suo, ancora più grande ed accogliente dopo la gravidanza. I tuoi capelli di sabbia mischiati ai suoi, del colore del legno di noce. Neottolemo venne a svegliarti con uno scossone brusco.
«Democoonte, un figlio di Priamo» disse subito, appena ti stropicciasti gli occhi stordita. «Non era davvero morto durante la guerra. È venuto qui per uccidermi.»
In effetti era armato. «L'hai fermato?»
«Decapitato.»
Annuisti. «Perchè mi hai svegliato?»
«Potrebbe non essere l'unico. Devi stare attenta d'ora in poi.»
Leonassa aprì e chiuse la bocca nel sonno, senza svegliarsi. Sollevasti la testa dal giaciglio. 
«Era riuscito ad entrare nel palazzo?»
Neottolemo non rispose. Il suo sguardo brillava. «Dove credi che sia il tuo punto di rottura, Ermione? Lo sai?»
Scavasti in quello sguardo, turbata. «Cosa sta succedendo?»
Lui rispose con uno sguardo lungo, intenso. «Devi saperlo. Devi scoprirlo.» E dopo aver pronunciato quelle parole, con naturalezza, senza spostare lo sguardo dal tuo, immerse il pugnale tra i capelli sparsi nel riposo di Leonassa. Ti gettasti nella pozza del sangue che si propagava sulla stoffa, sul pavimento, tentando di chiudere con le mani una ferita mortale. La bocca sformata in una smorfia incredula. Incapace di realizzare. Toccavi quei capelli. Nel buio il sangue non si distingueva. Sentivi le mani bagnate. Non credevi a quella morte. Pensasti, sull'orlo della follia, che fosse il latte. Era la tua unica amica.
Rialzasti lo sguardo su Neottolemo, la sua faccia determinata. «Perchè? Perchè?» Gli desti uno schiaffo, forte, aggressivo. 
Non si spostò di un soffio. Aggrottò la fronte, severo. «Apri gli occhi! Sei nata in una cazzo di torre d'avorio. Se non impari a piegarti, al primo colpo ti spezzerai come un ramo marcio.»
Gli dicesti le peggiori cose. Che era un pazzo, e anche se era un pazzo non poteva pretendere che tutti gli altri fossero pazzi. Che era un mostro contro natura incapace di amare i propri stessi figli. Che se lo poteva sognare di diventare un guerriero come Achille. Che lui non amava la guerra, amava solo vedere le budella fuori dall'addome. Che se voleva compiere stragi per sete di sangue lo facesse, ma che non la spacciasse per una lezione morale a te. Che godeva del dolore di donne senza figli e bambini senza madri solo perchè, in fondo, odiava ciò che Deidamia lo aveva fatto diventare. 
Neottolemo non fece una piega. «Non voglio che ti spezzi, Ermione. Sforzati di vedere gli appigli nel buio. C'è sempre un appiglio.» 
Quella è stata la sera in cui ti ha voluto più bene in tutta la sua vita. L'unica in cui ha pensato davvero alla tua sopravvivenza, e ha agito come se ti stesse salvando, come se invece di aprirti la terra sotto i piedi ti avesse impedito di precipitare. 
Bruciasti il corpo di Leonassa da sola. Graffiandoti le mani per radunare un mucchio di legna, sudando dalla fatica per appiccare un fuoco contro la forza oppositiva del vento. La salutasti con le ciglia aride, sua figlia Danae in braccio. Ti racconterò storie stupende su tua madre, pensasti. Anche se non è stato così. Percepisti qualcosa dentro di te. Una forza ferma, che poteva fermentare, ribollire. Io non mi rompo, sono forte. Neottolemo non sa quanto. Elena di Troia mi ha resa forte negandomi amore. Ifigenia che non è tornata indietro. Quella trave che mettevo per impedire che Egisto e i suoi soldati stuprassero me e Elettra. Il pianto di Alete che significava la morte di Oreste. Ho resistito. Quando le spoglie di Leonassa furono cenere uguale a quella del legno, una massa nera e fumante, tornasti a palazzo. Neottolemo ti aspettava nel talamo. Faceste l'amore con foga, il piacere fu come un pugno nello stomaco, drastico e lapidario. Non avevi mai provato nulla del genere. Lui si cibò dell'energia sprigionata dalla tua sofferenza. Infine, ti regalò un po' di verità.
«Non torno da mio nonno Peleo, e da mio nonno Licomede, perchè hanno paura di me. Questo è troppo, hanno deciso. Hanno dissociato il sangue di Achille da ciò che ho fatto. Volevi sapere di quella ragazza che ho sacrificato, la figlia più piccola di Priamo. Aveva davvero una treccia bruna. L'ho afferrata per lì. Il suo sudore profumava. Mi sono preso un istante per inspirare quell'odore. Lei ha bisbigliato, andiamo alla fontana di Timbra a prendere l'acqua, Troilo. La guerra può anche lasciare sopravvissuti, ciò che distrugge è quello che c'è dietro. Però piangeva. Non bisogna credere agli aedi. Adorano le eroine.» Lo baciasti sulla testa. Invece di sua moglie, ti sentivi sua madre.
Molti anni dopo, sei tornata in Epiro accompagnata da tuo figlio quindicenne. La regina, che non eri più tu, ti accolse senza calore, ma con benevolenza. Allora li vedesti. I tre maschi, e la fanciulla, la stessa che avevi cullato quand'era in fasce. Ti scesero le lacrime di fronte ai riccioli rossi di Neottolemo, i capelli che avevi pettinato tante volte, e che erano tornati al mondo, erano tornati da te, per una via o l'altra. Il suo ghigno tracotante era riflesso su quel viso giovane, nuovo, e ti chiedesti se potesse mai essere vera la metempsicosi. Ma non era così: quello era il sangue, come diceva Neottolemo, che non si poteva rifiutare. E Danae non sapeva nulla del rigore di Deidamia, della profezia della fine di Troia, dell'omicidio di Priamo. Era scampata da quell'eredità.
Però il nome di sua madre non lo ricordava quasi. Non hai mantenuto la tua promessa. 

~ • ~

Dieci anni passati dalla fine della guerra. Quasi tre anni di matrimonio per te. L'assenza di figli di cui occuparti, la scomparsa di Leonassa, portarono la noia. Ormai era finito il tempo delle riflessioni, delle aspettative per il futuro, dei rimuginii sul passato. Osservavi dalla finestra i giochi in cortile di Molosso e Pielo, i figli di Andromaca che già sapevano camminare. Estratti puri della guerra di Troia, di chi l'aveva persa e di chi l'aveva vinta. Le loro testoline bionde e ricciolute. I tuoi fantasmi tacevano, immobili, senza più turbarti. Ti eri arresa al flusso monotono, senza voce, senza domande. Quella terra colorata ti estraniò dal resto della tua vita passata. Ti giunse la notizia: la morte di Tindaro, tuo nonno. Quando tu eri tornata a Sparta lui aveva già lasciato il palazzo, sfiancato dalla malattia. Non ci avevi trascorso insieme abbastanza tempo da adulta per piangerlo. Ricordasti l'infanzia, la sua gentilezza con te che diventava austerità con tutti gli altri. Non aveva meritato un dispiacere come quello che sua figlia Elena gli aveva arrecato. Un'altra notizia: Odisseo era tornato a casa. Si raccontava di un viaggio a tappe in località misteriose, degne di un mito d'avventura, che lui stava provvedendo a infarcire di bugie gigantesche e mirabolanti. Pensasti a Telemaco, alla sua lunga fede: ti chiedesti se ci avesse sperato fino all'ultimo, o se si fosse arreso. Neottolemo commentò con la sua solita acredine. «Un parlatore, uno sbruffone. Sempre il primo ad aprire la bocca e l'ultimo ad alzare la spada. Come cibo per pesci sarebbe stato più utile.» Però nel suo sguardo c'era un'allegria, come un abbassare la guardia. 
Lui ne aveva conosciuti molti, dei protagonisti della guerra, e rispondeva alle domande che gli venivano fatte concentrandosi sui dettagli più triviali, deridendo ogni considerazione di valore si potesse fare nei confronti di questo o quest'altro. «Aiace? Chi, quello che ha dato di matto e ha scuoiato le pecore? Deifobo, che si trombava Elena quando Paride era morto? Sì, memorabili solo per la loro idiozia.» 
A te non interessava più. Volevi staccarti da quella guerra, non saperne più niente. Ci eri cresciuta come se fosse una sorella, avida di dettagli, con cruenta curiosità, e ora la ripudiavi. Nella verità sulla guerra di Troia non avresti mai trovato la verità su te stessa, anche se per molto tempo, forse, l'avevi creduto. Eri prossima ai trent'anni, volevi tirare qualche somma e non ti ritrovavi niente in mano. Cos'è la mia vita? pensavi. Non può essere la normale vita di una regina greca, non può essere una vita straordinaria come quella che hanno vissuto quei soldati, e allora cos'è? Intrappolata tra la grandezza e la mediocrità. Gli ospiti al vostro castello, sempre più frequenti, che frugavano indiscreti nel tuo viso triste alla ricerca di una somiglianza con lei, con la donna che loro stessi non avevano mai visto, ma che sapevano non somigliarti, perchè tu non eri bella come Elena. Ti abituasti a calare un velo sul volto, a non scendere per la cena. 
Neottolemo si preparava per un viaggio, a Delfi. Terra di figlie non volute che i padri relegavano in templi vuoti per preservare il patrimonio.
«Pensavo credessimo agli stessi dèi» osservasti, divertita. Eri abbastanza sicura che Apollo non parlasse attraverso le Pizie, e non parlasse in generale. 
Lui scosse il capo, ombroso. «Vado là per qualcos'altro. Avevo bisogno di un pretesto.» Secondo la versione ufficiale, avrebbe domandato all'oracolo il motivo della tua sterilità. Che per lui non era motivo di preoccupazione, e secondo te era radicata nel corpo in modo tale che non sarebbe certo stato un sacrificio propiziatorio a guarirla.
«E perchè vai, allora?»
Neottolemo era imperscrutabile. «Per uccidere un uomo.»
«Tu hai sempre qualcuno da uccidere.» 
«Perchè c'è sempre qualcuno che deve morire.»
Taceste. Voi eravate così, duri, un po' ruvidi, come le montagne di questa terra. Ma tutto quello che di buono ve ne veniva, era vero. Lo seguisti nei suoi preparativi, un drappo dorato che volteggiava tra le tue braccia, la spuma rosata del peplo, la postura eretta. Forte e silenziosa come l'albero di una nave. Dicevano che fossi la vittima di un uomo brutale, molti commiseravano la tua sorte insieme a lui. Condividevi le loro paure, un tempo. Ma, piano piano, senza nemmeno accorgertene, eri diventata il suo auriga. La sua complice. Non sapevi tutto di lui, e lui non sapeva tutto di te. Ma sapevate abbastanza per incontrarvi e fare un tratto di strada insieme, senza vivere divisi nella stessa casa. 
Al congedo, vi fronteggiaste muti, con quell'espressione di intesa secca, di rassegnata asserzione, che era propria del vostro rapporto.
«Non combinare guai» disse lui, senza sorridere. 
«Non l'ho mai fatto» replicasti. Tutto quello che facevi era imperniato allo scopo di non combinare guai. 
Neottolemo ti studiò con sospetto. «Sei una persona imprevedibile, tu.» Però ora aveva l'ombra di un sorriso sulle labbra spaccate.
Non vi baciaste, non era da voi. Gli aggiustasti i capelli dietro le orecchie, come un vezzo materno. Lui arricciò il viso, fece una smorfia buffa, e ti diede le spalle, come un bambino scostante. Tu alta, solida, in mezzo alle schiave. Sommersa dal tuo futuro indefinito, ibrido come quell'alba. I capelli imbrigliati da un cerchietto di bronzo. Il sole che saliva li rendeva del colore della creta essiccata. Ogni giorno ti facevi pettinare, ogni giorno lasciavi che il mare ti avvolgesse i piedi, senza ribellarti. La macchia informe della tua storia era nei tuoi occhi, dove si allargava in silenzio, offuscandoti. Neottolemo vedeva la tua bruma, l'inquietudine senza posa del mondo intorno a te, anche dall'alto della nave. Salutò battendo la lancia contro il ponte. Tu alzasti una mano, la riga dorata del braccio contro il cielo rossastro. Neottolemo si voltò verso l'orizzonte. La tua mano si fermò nell'aria, inanimata.
Forse in fondo sapevi che non sarebbe tornato. Perchè la sua ombra era quella di Elena, quella di Ifigenia. 
No, non lo sapevi. Si crede sempre che sia finita. 

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Capitolo 6
*** Nunc ***


Quando ti dissero che una nave inattesa aveva attraccato, all'inizio pensasti a Neottolemo che aveva finito prima del previsto e non si era preso la briga di avvisare. Poi giunse il secondo verdetto: era un ospite, che veniva in pace. Lasciasti il fuso, i polpastrelli che bruciavano. I tuoi passi piccoli su quelle grandi scale, tonanti.
Era un ragazzo, solo. Senza scorta, senza accompagnatori. Quasi gracile, nel gran salone. Le braccia distese sui fianchi sottili. «Come posso aiutarti, straniero?»
«Straniero, io?» La voce aveva un'impronta fresca, piacevole. Melodiosa. Lo scrutasti, confusa. I capelli neri, così neri da assumere sfumature indaco nell'ombra di grotta. Il fisico asciutto, esile. Il viso dai tratti fini, regolari, nobili. Occhi gelati, invernali. Gli occhi di Agamennone, ma non solo. Come non riconoscere quelli di Crisotemi.
Boccheggiasti, impreparata. Mentre il passato ti risaliva dalla pancia, non sapevi come gestirlo. Aveva un sapore troppo primigenio. Oreste capì che avevi capito e le sue labbra s'incurvarono.
Lo abbracciasti, stretto, disperatamente. Saggiasti la sua gabbia toracica, la struttura delle sue ossa. Allungate, assestate. Ti riappropriasti di quella crescita a cui non avevi potuto assistere. Con quell'abbraccio, volevi riprenderti tutto. Il tempo perduto. L'amore che non avevi potuto dare e ricevere. Lo spazio nella sua vita. 
«Ciao, Ermione.» La sua voce, la sua memoria, ora ti suonava come un miracolo. Ricordava.
«Pensavo fossi morto.» Le tue parole mentivano, esitavano, non sapevano che fare. «Volevo... non ho potuto fare niente per te... Sei... sei bellissimo.» Quella verità ti uscì commossa. Lo scostasti da te per guardarlo in faccia. Era bello davvero. Ma sapevi già da quando era piccolo che lo sarebbe diventato. Avrà tutte le donne ai suoi piedi questo bambino. Elettra rideva con te, quando lo dicevi. 
Elettra.
«Elettra, lei è-»
«Viva, sta bene.» Oreste pareva quasi divertito dal tuo stupore, dal tuo affanno. Tu liberasti un sospiro, un lungo sospiro trattenuto da dieci anni. La luce era irrotta nella tua mente.
«Dove sei stato per tutto questo tempo?»
«Focide, da nostro zio Strofio, appena tornato dalla guerra. Nascosto.»
Tu gli stringesti le mani sulle spalle, esultante. Le sue articolazioni avevano conservato una dolce fragilità. Ricordasti quando lo prendevi in braccio, quando fingevi di rimproverarlo perchè pesava troppo, e invece non pesava nulla. «Ha funzionato! Egisto e tua madre non ti hanno trovato.»
«No, non mi hanno trovato.» Oreste era calmo, sereno, come un nume. I suoi occhi azzurri erano fissi su di te più intensamente di quanto lo fossero i tuoi su di lui, con una pupilla scattante, vivida. «Ho trascorso sette anni al sicuro insieme a lui, nostra zia Anassibia e nostro cugino, Pilade.»
Lo ascoltavi con un orecchio solo, eri troppo impegnata a riaccostare i ricordi di un bimbo vivace ed impertinente a quell'adolescente smilzo. Il bambino che dormiva tra te e Elettra, rannicchiato come un cucciolo. Che saltava esultando per il ritorno imminente del padre. 
«Ero così in pena per te... Non sai quanto mi rende felice il pensiero che... hai avuto una casa che ti ha amato.» 
Il sorriso di Oreste si affilò. «Sì. Non a Micene, però. Sarei dovuto crescere in quel palazzo come un re.» 
Le tue mani corsero al suo viso, sfiorarono le guance. Erano ancora morbide, come quando era piccolo, ma si percepiva il filo duro della barba rasata. L'idea ti intenerì, ti fece pensare che lo stavi trattando come il bimbo che era stato, mentre ora era quasi un adulto. «Nessuno potrà mai porre rimedio al torto che hai subito.» Ma passava tutto in secondo piano, era lì, ed era vivo. 
«E nessuno mi toglierà mai più quello che è mio» precisò lui, serafico. 
«Certo che no. Mio marito, Neottolemo, lui può aiutarti -lui adora le guerre. Raduneremo un esercito -contro Micene. Ci riprenderemo il palazzo e il regno. Lo daremo a te, come di diritto. Giustizieremo Egisto, esilieremo tua madre e il loro figlio illegittimo. Tutto si aggiusterà, adesso che siamo insieme.»
Le tue parole erano appassionate, dipingevano in fretta e furia la realtà ideale, un mondo di armonia e completezza. Volevi prenderti cura di lui, ora che l'avevi ritrovato. Volevi farlo sentire in salvo.
Oreste sorrise. «I tuoi consigli bellici giungono tardi, cugina. Ormai è tutto finito.»
Fu quella strana ironia a raffreddare il tuo entusiasmo. Cercasti di sviscerare il suo leggero, enigmatico sorriso. «Tutto finito?»
«Giustizia è stata fatta.» Erano parole macabre. Ormai sapevi che odore aveva la giustizia, in questa epoca, in questa guerra che aveva solo finto di finire. I contorni imprecisi della sua affermazione ti turbarono. 
«Cosa è successo?» 
«Non ti preoccupare di queste faccende. Ora resta un'ultima cosa da fare, in cui tu puoi aiutarmi.» 
La mano di Oreste abbandonò il tuo fianco. Risalì fino allo scollo triangolare del tuo chitone e vi si insinuò. Strinse il tuo capezzolo, senza farti male. 
Lo fissasti, senza capire. Quell'allusione sessuale ti turbò come un dolore fisico. Provasti un conato di spavento, un gelo sulla nuca, come se la pelle si stesse arricciando e irrigidendo in un formicolio di brina.
La tua memoria, frammentata, ti parlava ancora di un bambino, ricostruiva imperterrita e sorda quell'immagine. 
«Non farlo.» Le parole non servivano a nulla, ma non avevi la forza per muoverti. 
Le dita di Oreste scivolarono fuori dalla veste, per sfiorarti il collo, delicate. Il suo viso era ancora limpido, sereno. «Non temere. Intendo rendere ufficiale la nostra unione.» 
Il senso di riconoscimento, lo stimolo alla familiarità che avevi incoraggiato fino ad allora, scivolò di nuovo giù nel gorgo del passato, come saliva ingoiata. Il ritratto di Oreste bambino, tenuto per mano durante le passeggiate nel cortile reale di Micene, fu infranto da un sasso, come un riflesso sull'acqua.
Ti sentivi tradita. Quello era un impostore, doveva esserlo, perchè l'altra verità era veleno. Ti sforzasti di distorcere i lineamenti di fronte a te, di trovare una differenza che invece diminuiva sempre di più. Passato e presente collimavano e si discostavano, senza tregua. 
«Il matrimonio tra consanguinei è maledetto dagli dèi.»
«I matrimoni che gli dèi avversano sono quelli che rimangono senza figli, cugina. E stai pur certa che io te ne darò.» Lo sguardo di Oreste era allusivo, malizioso. 
L'idea ripristinò la nausea. Quando aveva un paio d'anni lo aiutavi a fare il bagno, colmavi la tinozza, insaponavi le piccole membra. «Puoi avere ragazze più giovani. Più belle.» La tua voca era acre, diffidente. Cenere.
«Io non mi prendo mai niente di più di ciò che è mio, Ermione di Sparta.»
Sorrise. Non potesti fare a meno di pensare ch'era lo stesso sorriso che aveva visto tua zia Clitemnestra prima di morire. L'ultimo. Senza gioia. Scopristi in seguito che si diceva che le Erinni lo inseguissero ovunque andasse.
«Se intendi affrontare mio marito, te lo sconsiglio» replicasti, dura. E la sua reazione, il suo ghigno un po' più sprezzante, ti colsero alla sprovvista.
«Oh. Ma te l'ho già detto, cugina mia. Quella parte della storia è già risolta.» Non è possibile, pensasti. Nessuno può sconfiggere Neottolemo. Non questo ragazzino esile. «Quindi. Mi auguro vivamente che le nostre nozze ti appaiano gradevoli quanto il mio aspetto.» Ti canzonava, burlesco e ammiccante come se fosse tutto un gioco. 
Il tuo cuore pulsava, nudo, coperto solo dal chitone. 
«Mi stai minacciando?» L'indignazione si mischiava al disgusto. 
Lui scrollò la testa con disinvoltura. «No di certo. Se sceglierai la spada, te la concederò. Ma tu hai l'aspetto di una donna che sa stare al proprio posto, Ermione. Mi sbaglio?» Parlava lentamente e affabilmente, come se per indulgenza volesse aggiudicarsi le simpatie di un essere stupido e inferiore, troppo tardo per capire. 
Il bambino che avevi visto neonato ti stava minacciando per costringerti a sposarlo.
Cosa ho fatto per meritarmelo? Gli avevi sempre voluto bene, quando persino sua madre non glie ne voleva. Ma sua madre era morta, e il bambino era diventato uomo, coltivando la bramosia degli uomini. Che non è mai tenera come l'amore. Raspa, vuole prendersi tutto. Vuole bucare e invadere. Il tuo cuore violato, l'integrità dei tuoi sentimenti offesa. Il bianco del latte si era cagliato, e immaginandolo acido in bocca ti veniva da vomitare. 
Ed eri triste, come il padrone il cui cane morde la mano che l'ha protetto. Perchè mi oltraggi così? Perchè insulti la purezza del mio affetto? Io che sono stata buona in un mondo ostile.
La voce di Neottolemo riaffiorò. Apri gli occhi, ingenua! Apri gli occhi. I tuoi occhi erano aperti ora. Ma a che prezzo?
«Come è successo?» Lo chiedesti con una voce sfondata. Oreste era compiaciuto dell'effetto che le sue parole avrebbero prodotto. 
«Lapidazione. Gli ho ritorto contro i cittadini di Delfi con una scusa. Non è stato breve. Ma la colpa è tutta sua» spiegò, tranquillo. «Non era abituato a perdere, vero?»
Non potevi immaginare quella pioggia di pietre per ore contro lo stesso corpo che ti aveva stretta. Un omicidio da codardi, una morte umiliante. Nessun mito immortale per Neottolemo, l'Eacide, il figlio degenere. Non era stato un cattivo marito. Non ti aveva amata, ma ti aveva rispettata, in un mondo di mariti che picchiano le mogli. La rabbia era nera, di granito, dentro di te. Ti occludeva la gola, il pensiero. Non piangesti. Non spezzarti, Ermione. Non ti sei spezzata. Hai fatto i bagagli, con calma, con dignità. Per salire su una nave che ti avrebbe riportato in un sogno che si era trasformato in un incubo. 
Con il tempo, grazie alle chiacchiere degli schiavi, del popolo, ricostruisti la storia. Cosa accadde pochi giorni prima al palazzo di Micene -prima che la tua vita cambiasse per sempre. Oreste, accompagnato dal fidato Pilade, si era presentato dopo sette anni, sotto le mentite spoglie di un forestiero che portava una buona nuova alla regina Clitemnestra: suo figlio Oreste era morto, nel nascondiglio dove era rimasto tutti quegli anni. Lei non aveva esultato. Lo aveva fissato dritto negli occhi, e aveva capito l'errore che era stato compiuto, nel lasciarlo entrare. Prima che potesse chiamare le guardie, era già legata e imbavagliata.
L'avevano lasciata per ultima, Clitemnestra. Oreste era andato a cercare Egisto, e lo aveva trascinato per i capelli giù dal letto che era stato di Agamennone, trapassandolo con la spada. Poi aveva incrociato Alete, l'erede abusivo, che aveva tentato un'inutile difesa con la spada. Pilade lo teneva fermo mentre Oreste lo faceva a pezzi. 
Crisotemi sopraggiunse, spaventata dal trambusto. Si fermò, nel corridoio allagato di sangue, fissando inebetita un braccio di Alete strappato, poco lontano la testa. 
Oreste le sorrise, le mani rosse. «Sorella. Che bello ritrovarti. Ora che questi usurpatori sono sconfitti, potremo tornare a governare insieme in questa città.»
Lei si avvicinò, intimidita, atterrita, ansiosa di conquistarsi la benevolenza del fratello pazzo. Oreste allargò le braccia, l'accolse tra esse, la strinse al petto. Era più giovane di lei di cinque anni, però più alto. Crisotemi era sempre stata minuta, di fisico e di statura. Una bambina dolce, una fanciulla dolce. Vulnerabile, mansueta. Inadatta a portare sangue potente, impetuoso. Oreste la abbracciò, poi le trafisse la schiena, senza che il suo sorriso vacillasse. Elettra alle sue spalle, impassibile. Era lei la sua maestra, era lei che gli aveva insegnato chi si era dimostrato fedele al proprio nome e chi l'aveva ripudiato. Guardala, Oreste, la traditrice del suo sangue, gli aveva detto quando era bambino. Oreste aveva guardato, e aveva ricordato.
Solo a quel punto si era occupato di Clitemnestra. L'aveva condotta per mano in mezzo ai cadaveri, glie li aveva indicati.  
«Guarda, qui c'è il tuo amante. Qui c'è tuo figlio, e qua c'è tua figlia. Questa è la famiglia che ti meriti.»
Avrebbe potuto dirgli che lui era nato troppo tardi, non aveva nemmeno conosciuto Ifigenia. Che lui era solo un neonato a quel tempo, non poteva ricordare come Clitemnestra si fosse sentita complice dell'inganno di sua figlia, di come Ifigenia avesse creduto che anche la madre era a conoscenza del piano, del finto matrimonio organizzato per immolarla. Avrebbe potuto dirgli che il padre che Elettra e Oreste stavano vendicando era rimasto a guardare mentre un sacerdote tagliava la gola di sua figlia, sua figlia che lo implorava, sua figlia che lo fissava negli occhi. 
Ma non aveva detto niente. Non aveva nemmeno pianto. Aveva scoperto il petto, e detto, colpisci.  
Il tuo ultimo atto da regina d'Epiro era stato passare il tuo titolo a qualcun altro. Paradossalmente, Andromaca. Da regina, a schiava, a regina. Era madre degli eredi maschi dell'uccisore di suo figlio, dopotutto. Lei non si stupì, non commentò. Accettò questo ribaltamento della sorte come si accetta la pioggia, lo scorrere del tempo. Annuì, inespressiva. 
Le affidasti un fagotto, la piccola Danae, unica figlia femmina di Neottolemo. «Cresci questa bambina come se fosse tua» imponesti ad Andromaca. Una vita da principessa per lei. La sola cosa che potessi fare per Leonassa, l'ennesimo dei tuoi fantasmi.
Oreste non vide di buon occhio la tua decisione. Squadrò i bambini. «Dovremmo fare un bel rogo e buttarli tutti dentro.»
Sentisti la furia, l'impeto. «Quindi non sei meglio del tuo patrigno.» Usasti appositamente quella parola. Oreste irrigidì la mascella. Le tue guance fremettero, in attesa dello schiaffo. Non ti spezzare, Ermione, non ti spezzare.
Non ti colpì. «Stai attenta» disse solo. 
Dopo il tabù del matricidio, Oreste era andato avanti con lo stupro di un amore puro, la profanazione sacrilega del primo istinto materno che tu avessi mai provato. Tu, che non piangevi, che avanzavi come in marcia verso la nave, come un corteo funebre. Faccia di bronzo. Io non mi spezzo. Sotto il velo impreziosito di perle, la guerra ti aveva sfregiata. Non avevi sentito di morti gloriose e di soldati caduti. Avevi sentito solo di donne, bambini, sacrilegi. L'idea di una nuova vita ti stancava, e ti appariva buia. 
Non ti voltasti per non dare soddisfazione ai tuoi nuovi aguzzini. 

~ • ~

Odiavi Pilade, e Pilade ti odiava. Lo comprendesti all'istante, dal primo sguardo che vi scambiaste. Era un ragazzo di bell'aspetto, muscoloso, bruno, che attendeva appoggiato al parapetto della nave. «Ci avete messo un'eternità» esordì, piccato.
Oreste invece era di buonumore. «Pilade, ti presento nostra cugina Ermione, figlia di Menelao ed Elena. Nonno Tindaro la promise a me da prima della mia nascita. Purtroppo, suo padre aveva qualche problema di memoria... Ma quel piccolo contrattempo non sussiste più.» Fece un sorriso indulgente, come se stesse perdonando quell'antico errore. «Ermione, ti presento nostro cugino Pilade. Fidato compagno per me, e prossimamente amorevole marito per Elettra.» Fece sbattere le mani, entusiasta. «Celebreremo un doppio matrimonio. Una festa come non si è mai vista.»
Pilade ti rivolse un'occhiata colma di disappunto. «Spero che valga la pena del viaggio.»
Più tardi, in disparte, te lo disse in faccia, senza vergogna. «Se progetti qualche tiro mancino, lascia perdere. Non osare torcere un capello ad Oreste. Già abbiamo dovuto perdere tempo e assumerci rischi immani per accontentare questo suo capriccio e procurarci una donna usata da un selvaggio. Non creargli problemi con il tuo rancore del cazzo. Ci siamo capiti?»
Tu non rispondesti neanche, guardavi il mare. Il tempo liquido che ti separava dal nuovo destino. Potevi vedere quant'era. Sembrava infinito, ma sarebbe terminato prima che te ne accorgessi. In ogni onda rivedevi la forza di Neottolemo, i ricordi di quando tre anni prima si tuffava a nuotare di notte, nel tragitto verso l'Epiro. Ti aspettavi che rispuntasse dalle acque per rompere il collo a Oreste con le sue mani. Era troppo inconcepibile immaginarlo morto. 
La prospettiva di rivedere Elettra ti spaventava. Dopo che per anni era stata l'unica cosa che avessi desiderato, ti spaventava. Non eri pronta a rimanere delusa, a non riconoscerla più. 
La memoria dell'amore che avevi provato per Oreste bambino era sporca, corrotta per sempre dalla sua empietà. E la visione del futuro era quella di un matrimonio che ti provocava una repulsione viscerale, quanto l'idea di concederti a tuo padre, di amplessi impuri e vani che non ti avrebbero portato che infelicità. 
Oreste e Pilade bevevano, brindavano, ogni notte. Se potevi, ti ritiravi sottocoperta, senza riuscire a dormire, ma perlomeno sola; a volte venivi costretta a restare, ad assistere alle loro sbornie, alla puzza del loro vomito riversato fuoribordo. Non eri abituata, non con Neottolemo che non beveva mai, non voleva mai perdere il contatto con la realtà. In più di un'occasione, quand'erano così ubriachi e semicoscienti, sorse il desiderio di spingerli in mare. 
«Come Agamennone ha tolto Briseide ad Achille, hai ricalcato la grandezza paterna, togliendo al figlio del Pelide questa donna» millantava Pilade, desideroso di lusingarlo. 
«Dicci, Ermione,» sghignazzava Oreste, «cosa ti piaceva di più del tuo defunto marito? Aveva una spada adeguata al suo ego?»
Tu infrangibile. «Mi piaceva mia suocera. Un'ottima persona. Viva, tra l'altro.»
Adesso era il turno di Pilade, di sghignazzare ancora più forte, davanti all'irritazione di Oreste. «Linguacciuta la ragazza.»
Lui ti fissava, continuando a parlare con l'amico. «Non preoccuparti, so esattamente cosa si deve fare con le eroine come lei.»
Tu raddrizzasti le spalle. Non temevi più la violenza degli uomini, erano solo gli scarti minori del male che ti avevano già inferto.  
«Forse lo Scita la picchiava, e le piaceva» ipotizzava Pilade, versandosi altro vino. 
«Inutile, cugina. Non ti picchierò. Il tuo corpo è molto prezioso» obiettò Oreste, sfoderando di nuovo il suo sorriso di fiele e zucchero. Attirò l'attenzione di una guardia. «Tu, taglia una mano a una serva a caso.» Vedesti il moncherino, il sangue che spruzzava, la ragazza che si sgolava dal dolore. Stringesti i denti. 
«All'improvviso ti senti più gentile, vero? Molto bene» approvò Oreste, soddisfatto. La macchia di sangue non andò mai davvero via, per quanto le assi di legno del pontile venissero sfregate. 
Durante la notte, sentivi i loro gemiti nella cabina accanto. Pilade e Oreste intrattenevano una relazione molto più intima della mera amicizia, la sacra comunione delle cosce, come dicevano la chiamasse Achille. Tu, pur non avendo mai sentito parlare dell'amore femminile prima che te ne raccontasse Leonassa, sapevi che quello tra maschi era un fenomeno diffuso, ma non avevi mai avuto modo di venirne in contatto. Il segreto mistero di quel rituale ti avrebbe quasi affascinata, se le condizioni del tuo viaggio non fossero state così penose. Il loro legame non era quello tipico tra erastes ed eromenos, non si trattava di una fase, un periodo formativo per il più giovane e di sfogo sessuale per il più vecchio: sarebbe durato fino alla morte. Loro si guardavano negli occhi quando facevano l'amore, e non c'era distinzione tra amante e amato. Pilade era protettivo nei confronti di Oreste, si era preso cura di lui a casa e aveva continuato a farlo seguendolo nel suo impopolare piano di vendetta. 
Una notte sentisti le loro voci, perchè per colpa del vino stavano parlando a voce alta.
«Saremmo dovuti andarcene a Lemno...» Questo era Pilade.
«Non essere sciocco. Io avevo un trono da rivendicare.» La voce di Oreste lo rabboniva con dolcezza.
«Saremmo dovuti tirarcene fuori, Oreste.» Gorgheggiava. «Io e te... Senza nessun altro.»
«Non cambierà niente.» Oreste parlava più piano. «I matrimoni non cambiano niente. Niente di quello che c'è tra noi.» 
«E cosa c'è tra noi?» Un lamento da ubriaco.
La risposta, netta, sicura come tu non avresti mai saputo darne a nessuno. «Tutto.» 
Ben presto, imparasti a interpretare l'ostilità di Pilade come gelosia. In un mondo più equo, forse sarebbero dovuti essere loro due a sposarsi. In un mondo più equo, tu non saresti mai stata vedova. 
La nave attraccò. Di nuovo Micene. Meno grande di come appariva nei tuoi ricordi, meno incredibile. Una volta era maestosa, adesso era decadente. I buchi neri nei mosaici, i colori opacizzati dagli anni di incuria. Il mercato non era più il piacevole tumulto multietnico della tua infanzia, era una fretta di formiche spaventate che facevano incetta dei prodotti a basso costo.
Elettra vi aspettava fuori dal palazzo, vittoriosa, con un sorriso appena accennato. Fu immediatamente diversa, al primo colpo d'occhio. Ora portava i capelli raccolti in una calantica. Tu li ricordavi sciolti. La facevano sembrare più vecchia. Era più vecchia. Aveva quasi la tua età. Speravi di provare una fortissima emozione. Provasti un tiepido sospetto. 
«E così ci rivediamo.» La sua voce suonava distante, irraggiungibile. 
«Sono contenta che tu sia viva.» Eri sincera. Era quello che avevi sempre voluto. Che lei stesse bene.
Ma la Elettra che avevi lasciato non era la stessa Elettra che ritrovavi. Aveva dieci anni di scherno e soprusi in più in una casa con una madre che l'aveva rinnegata e un patrigno, assassini di suo padre. Dolori a cui tu non avevi assistito. Ti eri persa troppo di lei, non si poteva recuperare con una semplice chiacchierata a letto, come facevate da ragazzine. Quella era colei che aveva creato Oreste, colei che aveva approvato il suo piano pluriomicida. Colei che trovava giusto che voi due vi sposaste.
Vi affrontaste con compostezza. Non era così che avevi continuamente immaginato il vostro ricongiungimento. 
«Ci sono volute molte morti affinchè noi potessimo sopravvivere» decretò Elettra.
«O forse ne sono avvenute più del necessario.» La tua voce era piatta, senza clemenza. 
«Questo lo sanno solo gli dèi.» La sua era più morbida, come accondiscendente verso la tua immaturità. «Viva gli Atridi, cugina.»
Era un'idolatria che non potevi capire, un richiamo brutale al sangue che ti inquietava. La amavi prima, quando era una fanciulla ardita e orgogliosa ma buona e razionale, quando la sua umanità era più importante della dignità della sua famiglia. Adesso ti sembrava che quella ragazza fosse morta.
Anche Elettra avrebbe sposato un consanguineo, Pilade era suo cugino da parte di padre. C'era qualcosa di ugualmente marcio nei vostri matrimoni. Veniste preparate insieme. Un altro rito di passaggio della vita che condivideste. Ma per te era il secondo, e non potevi dimenticarlo. 
«Oreste ti ha salvato da una disgraziata condizione.»
«Oreste ha imposto la sua volontà, ignorando la mia.» Speravi in un minimo di empatia da parte sua. Era stata tua amica, e prima di tutto era una donna. Ma Elettra ridusse gli occhi a due fessure.
«Stare a contatto con l'ammazzabambini ti ha fatto passare dalla sua?»
Secondo te, lei era cambiata. Ma secondo lei, eri tu ad essere cambiata.
Sì, eri cambiata. Eri forte, e non potevi essere spezzata.

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Capitolo 7
*** morere. ***


Avevi una nuova stanza, nel palazzo. Quella che un tempo condividevi con Elettra ora era un deposito di ricchezze, di regali di nozze: le vecchie stanze evocavano tristi ricordi, a parere del giovane sovrano, e andavano evitate. Fissasti la tua immagine in uno specchio egizio. I capelli decorati di conchiglie, una veste di porpora, pesante, con un drappeggio sul petto bordato di pesanti ricami d'oro e perle. Principessa di Sparta, regina d'Epiro, regina di Micene -ma solo Ermione, quando ti guardavi negli occhi. 
Non potevi più dare le spalle a quell'angolo, quell'altare che non era più pulito. Il passaggio della violenza aveva lasciato il segno su di te. Fissasti le lacrime scendere, quelle che versavi perchè non potevi più fingere di non soffrire. Frena le lacrime, Ermione. Mantieni la compostezza che ti si addice. Non è il primo morto che si para sulla tua strada. Era la voce di Neottolemo, la voce della tua balia quando chiedevi di tua madre? Quella voce ti fece piangere ancora più forte. Quella verità sepolta, soffocata. Volevi tirarla fuori. Volevi che il mondo ne venisse a conoscenza. Di quella guerra che si era svolta lontano da Troia, durante essa, dopo di essa. Era un urlo di guerra. Non piangere. E invece piangevi, di rabbia. Per il dolore che non volevi sentire ma che ti stava aprendo la carne. Lascarsi dilaniare in silenzio non serviva a niente, la dignità non serviva a niente. Ti faceva solo sentire impotente e bugiarda. Non dovresti stupirti, Ermione. Non dovresti arrogarti questo diritto di soffrire. Sei stata fortunata, rispetto a molti altri. Te la sei cavata, alla fine. Sì, te l'eri cavata. Ma non ti era stato permesso di tenere gli occhi chiusi, e avevi visto troppo. Placati, placati. Quel pianto ti offuscava la mente, vi addensava un malore diffuso. Era un temporale, e una volta passato il cielo si sarebbe strappato, sarebbe venuto via come pelle morta rivelando un cielo vivo, nuovo, terso e azzurro. Quella era l'unica manifestazione di quella verità che ci sarebbe mai stata. Una volta consumata, sarebbe tornata l'omertà. Non avevi la forza per un gesto plateale, un suicidio, un omicidio. C'era stato troppo sangue. Versarne ne avrebbe chiamato ancora.
Se un tempo eri stata complice di Neottolemo, saresti diventata complice anche del tuo nuovo marito. Non lo avresti mai punito. Avresti nascosto sotto i tappeti di quel palazzo le macchie di sangue che non sarebbero venute via. Elena di Troia non avrebbe fatto così. Ermione di Sparta sì. Lei era obbediente, una brava figlia, una brava moglie. Non si ribellava, accettava quello che veniva deciso per lei. L'ancella perfetta per un mostro. 
Avevi le mani raccolte in grembo quando Oreste entrò. Ti limitasti ad ascoltare il rumore dei suoi sandali sul pavimento, senza spostare lo sguardo dallo specchio. Quegli occhi bagnati, fragili come foglie. Quei capelli afflosciati sotto ninnoli ridicoli, irrilevanti. Quando lo sentisti togliere il mantello, deglutisti. 
«Hai paura del talamo, cugina? Tu, una donna già sposata? Non mi sembra appropriato.»
Aveva ucciso Crisotemi. Tu ci avevi giocato insieme, da bambina. Crisotemi, lei se la ricordava, Ifigenia. Forse per questo aveva perdonato sua madre. 
«Mi repelle, tutto qui.» 
«Però mi sembra che apprezzassi quello che vedevi, la prima volta che ci siamo incontrati.» Oreste sganciò i fermagli d'ambra della sua veste. Il corpo bianco, levigato, glabro, proporzionato. Così diverso da quello di Neottolemo.
La prima volta che vi eravate incontrati, lui era un infante in fasce, un minuscolo grillo arricciato su se stesso, incapace di tenere la testa dritta.
«La lussuria non conta. Per me sei ancora un figlio, non un marito, Oreste. La lode alla tua bellezza era quella di un agricoltore verso la sua pianta d'acanto. Quello che accadrà stanotte per me sarà un delitto, e nulla potrà cambiare questo, perchè sono le leggi del mio cuore.»
Guardasti la sua testa accostarsi alla sua spalla, dentro lo specchio. I vostri visi vicini. I suoi occhi celesti come polle d'acqua pura.
«Penso che dovresti rilassarti. E lasciarti andare. Gli dèi hanno smesso di tormentarci. Nessuno ti giudicherà.» Le sue labbra sulla tua spalla.
Il piacere torbido che Oreste suscitò in te, tramite ambigue pratiche a scopo sicuramente non procreativo, sembrava opera di filtri o incantesimi. Lo provasti controvoglia e contrastata in se stessa, spaventata dalle meschine manipolazioni che tentavano di abbattere le tue resistenze morali. Il modo giusto per sopravvivere fu non pensarci. Smettere di pensare. Smettere di ricordare.
Ma tu non potevi del tutto dimenticare. Tornasti spesso ad Aulide, ad inghirlandare l'altare di fiori -crochi, i suoi preferiti- quell'altare che non avevi mai voluto vedere, che ti faceva paura, e che ora invece era la pietra miliare del rispetto verso te stessa, la prova che la tua versione della storia era esistita. Per Ifigenia, dicevi. Però intanto pensavi anche a Polissena. Una custode di sepolcri, di fantasmi. Elettra non commentava, lei che aveva sofferto per sua sorella, ma aveva deciso di scansare quel ricordo. Aveva tradito se stessa, e ora le restava solo la vita che la sua vendetta violenta le aveva assegnato. Regina di Focide. Partì subito dopo il matrimonio. La rivedesti di rado. Era meglio così. Vedere il simulacro di ciò che lei era stata aggirarsi per il palazzo a dare ordini ti faceva stare male.
Parlare con Oreste, riappellarti ai tempi in cui tra voi c'era affetto sincero, era inutile. Lui si sentiva nel giusto. Sentiva di stare portando avanti qualcosa di sano, sposandoti, di non aver spezzato la coerenza di un rapporto precedente del tutto differente.
«Solo una cosa mi mancava per essere felice,» insisteva, «te. Eri mia, sei sempre stata mia. Ci amavamo allora e ci amiamo adesso. Tu stessa dici che la cosa che volevi di più era ritrovarmi. Ora siamo insieme, il tuo desiderio è stato esaudito, no?»
Come potevi spiegargli che essere considerata come un possesso non ti piaceva? Come spiegargli che tutto era avvenuto nel modo sbagliato? Una realtà riflessa, sinistra.
Prima che potessi cominciare ad annoiarti, soffristi di nausee mattutine frequenti. Già sospettavi una qualche malattia continentale, psicosomatica, derivata dalla malinconia. Le ancelle non erano sorprese. Aspetti un figlio, signora. Tu eri scettica, è improbabile. Era improbabile, ma era vero. Il sangue mestruale di cui avevi preso l'abitudine di controllare la regolarità durante il primo matrimonio era scomparso. Quando glie lo dicesti, Oreste aveva un'espressione compiaciuta, come a dire cosa ti avevo detto? Odiavi il fato che riteneva giusto premiare con progenie delle nozze così sbagliate, come se piacessero agli dèi in cui non credevi. Pensavi al sangue di Elena e di Clitemnestra di nuovo congiunto insieme, ti pareva che non potesse portare fortuna. Un erede, dunque, per Micene, per la dinastia degli Atridi, per il trono lordo su cui Oreste sedeva. Un principino. 
Il rumore dello strofinaccio immerso in una ciotola d'acqua e strizzato, gocciolio limpido. La luce arancione e soffusa delle lucerne, le fiammelle che tremavano. I vapori speziati dell'incenso, le tende semitrasparenti dalle quali le serve sparivano e spuntavano rapidissime, e che servivano ad occludere la visuale agli uomini, i cui occhi non dovevano avere accesso a certi riti. Le mani che si avvicendavano tra le tue cosce, macchiate del tuo sangue, che non sembrava sangue, sembrava una fanghiglia scura, grassa, primordiale. Il ferro incandescente che vi usarono. La tua ultima guerra. I tuoi capelli fradici. E infine quel pianto, di affermazione, di protesta, di indignazione. Quel pianto di voce appena nata, come quando, rompendo un sasso, zampilla fuori una nuova sorgente. Un maschio. Oreste, gratificato, un profilo in piedi davanti al tuo letto. Hai fatto bene, sei stata brava. Gli sussurrò il suo nome all'orecchio, un nome cattivo, il vendicatore. Fu lui a offrirtelo tra le braccia. Piccolo esserino urlante. In quelle poche ore, non foste nessuno, senza nomi, senza titoli. Solo tu e lui, a dormire, estenuati da quella guerra. Quando ti svegliasti tutto era stato ripulito, le candele erano state spente, la luce del giorno era irrotta, un peplo bianco che nascondeva lo strazio del corpo. Il bambino dato da allattare a qualche balia. Tu immobile sul materasso, lo sguardo oltre la finestra. Era la tua unica forma di evasione. Non te ne saresti mai concessa altre. 
Riceveste molti visitatori, negli anni. Attori della guerra che conoscesti in ritardo. Odisseo, invecchiato, pronto a diffondere ovunque la propria stessa leggenda: era quello che la sapeva raccontare meglio. Tu gli parlasti di Telemaco, di come ti aveva fatto innamorare a vederlo, un virgulto di grazia e coraggio. Odisseo ti parlò dei nipoti che lui e Policasta gli avevano dato, Persepoli e Omero, un altro in famiglia con la lingua lunga, un contafiabe coi fiocchi. Infine, parlò di Neottolemo.
«Era irascibile, indisciplinato, arrogante, incapace di ammettere la sconfitta. In grado di massacrare un nemico o un compagno senza fare distinzioni. Assolutamente insopportabile. Ma mi ero affezionato a lui. Aveva circa l'età di Telemaco, e mentre mio figlio poteva crescere tranquillo nella sua casa questo ragazzo era stato trasformato in carne per guerra. La sua morte mi rattrista.»
Tu pensasti che la sua morte non avrebbe rattristato Neottolemo, lo avrebbe fatto ridere. L'unico modo che hanno di uccidere i finocchi, avrebbe detto, ben guardandosi dal ricavarne qualche merito. Sorridesti, impercettibilmente. Nel frattempo, Tisameno giocava a rincorrersi insieme a suo cugino Medone, il primogenito di Elettra e Pilade. Tu lo afferrasti al volo e lo reggesti per le spalle. «Saluta il re Odisseo, digli quanti anni hai.»
Lui si lagnava, cercava di sfuggirti. Era un pensiero stupido e romantico, ma nell'aspetto ti ricordava Telemaco, e lo facesti proprio per cercare, nello sguardo di quello che in un'altra vita avrebbe potuto essere tuo suocero, la stessa intuizione. 
Ti sarebbe piaciuto giurare che il tuo odio per Oreste durò per sempre, ma non fu così. Il tempo, i decenni, scalzarono i rancori. Ci vivevi accanto ogni giorno, ci affrontavi ogni vicissitudine quotidiana. E l'odio piano piano stemperò, sostituito dalla stanca bonarietà che si prova per chi invecchia insieme a noi. Oreste continuava a trascorrere lunghi periodi in Focide, per stare con Pilade, il suo amato: i vostri figli crescevano insieme come fratelli. Tu per Tisameno speravi solo che avesse dei buoni alleati, persone che lo proteggessero in una guerra, e incoraggiavi questa amicizia. Annusavi quella piccola nuca di capelli corvini, con lo stesso profumo profondo che aveva la testa di Oreste quando dormiva con te e Elettra, indifeso; la sola idea che lui stesso potesse essere coivolto in qualche nuovo conflitto della sua epoca ti faceva soffrire, ma non erano affari tuoi. Non è mai diritto dei genitori impedire la guerra. 
Fu lui che volle accompagnarti, quando esprimesti il desiderio di andare in Epiro. Tisameno era sempre stato il tuo confidente, durante gli anni -ti eri ripromessa che lui avrebbe avuto la madre che a te, che a Oreste, era stata negata- e sapeva tutto. E fu il migliore amico che avessi mai avuto. Andromaca ti salutò con una rigida formalità, ma nel suo sguardo balenava il ringraziamento che quindici anni prima non era stata in grado di formulare. Ora aveva di nuovo degli occhi splendenti, e scopristi il loro colore: castani, vellutati. Era invecchiata in fioritura, ritrovando la salute e l'antico splendore, con bracciali d'oro e non vesti da schiava. E fu così che conoscesti i suoi quattro figli, i ragazzi che ti restituirono una parte di Neottolemo. Danae fu la prima fanciulla a far arrossire Tisameno, con i suoi capelli rossi. C'era una specie di armonia in questo disegno.
Armonia, ma non simmetria. Non tutti coloro che avevano una colpa l'avevano scontata. La mano di Oreste ti aveva fatto del male, anche se fu quella che in seguito ti accarezzò, che ti difese, per il resto della vita. L'amicizia di Elettra non tornò, restò una leggenda che rievocasti in modo ormai idealizzato e perfetto da adulta. Telemaco non lo rivedesti mai più. Ifigenia, Polissena, Leonassa erano rimaste morte, Astianatte non era stato resuscitato dalla fine del suo assassino. Elena non provò mai rimorso, anche se fino all'ultimo ci sperasti, di vedere la sua nave sopraggiungere all'orizzonte: reclamare il suo diritto di madre di assisterti, di stringere il nipote, di chiedere il tuo perdono -anche solo per noia. Di farti delle confidenze sulla sua infanzia, la sua adolescenza, il rapporto con la sventurata sorella che tuo marito aveva ucciso, con tuo padre, con Paride. Da ragazza saresti stata impermeabile, ma all'età a cui eri arrivata saresti stata capace di ascoltarla, di capirla, addirittura. Invece morì da sconosciuta per te, e quel giorno tu e Oreste faceste un brindisi, alle madri di merda. La vittoria della seconda generazione era così, sbreccata, incompleta. Azzoppata dalle macerie di Troia, una città che era crollata portando con sè qualcosa di voi. 
Non hai mai rivisto Telemaco, ma hai rivisto qualcun altro della sua famiglia, dopo Odisseo. Quello accadde molti anni dopo, quando ormai Oreste era diventato identico al tuo ricordo di Agamennone, quando Tisameno era un adulto con dei figli a sua volta. 
«Sono Omero, regina di Micene» si annunciò, con un inchino riverente, «figlio di-»
«So che sei» rispondesti, con la laconica brutalità che era permessa ai vecchi. «Perchè sei qui? Tuo nonno tempo fa mi disse che sei appassionato di storie. Non in molti hanno ancora sentito la mia.»
Lui sorrise, raggiante. Il sorriso bello di Telemaco. «Sono qui proprio per questo.»
«E allora siediti, ragazzo,» ingiungesti, cercando di non tradire la gioia che quella risposta ti provocava. «Sarà lunga, ma mi sforzerò di cominciare dall'inizio.»
E cominciasti dall'inizio, anche se spesso col pensiero saltavi dei pezzi, ti ritrovavi a metà, percorrevi tutto a ritroso. Questa volta invece fosti una narratrice impeccabile. E l'inizio, per te, si trovava esattamente dove si svolgeva la fine. «Ero felice di essere a Micene...»

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