The Aviator

di Nescio17
(/viewuser.php?uid=1079490)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


La pioggia batteva incessante e la mia giacca era ormai zuppa di acqua: mi sentivo il freddo fin dentro le ossa, la pelle d’oca mi faceva tremare come un pulcino. Feci gli ultimi passi di corsa per evitare di peggiorare ulteriormente quel raffreddore che mi assillava da un mese. Appena raggiunsi la vetrina mi fermai a osservare al suo interno: il legno alle pareti dava un senso di calore, i maglioni e gli abiti erano perfettamente sistemati sui manichini che se la passavano sicuramente meglio di me. Tutte le volte che dovevo entrare in quel luogo mi soffermavo davanti ai vetri, osservando ciò che succedeva all’interno e cercando di capire se entrando avrei recato disturbo. Mi risvegliai dai miei pensieri quando un uomo mi passò accanto urtandomi con la sua valigetta: non chiese nemmeno scusa. Afferrai la maniglia e spinsi la porta verso l’interno sentendo una ventata di aria calda investirmi il volto: l’aria sapeva di menta fresca e il calore mi riportava alle estati passate a giocare al porto, dove io e Bucky ci rinfrescavamo con l’acqua. La vidi subito indaffarata dietro al bancone mentre cercava di sistemare rotoli di stoffe appena arrivati in negozio: le mani affusolate spingevano senza fatica i grossi carichi, il corpo avvolto in un vestito color malva e il maglione troppo grande per la sua corporatura che le arrivava fin sotto i fianchi. Si girò non appena la campanella smise di tintinnare, rompendo il suono di una canzone che aleggiava nell’aria:”Singing in the rain”. Gli occhi marroni come il legno di quelle pareti mi scrutarono da dietro le lenti dei suoi occhiali rossi fiammanti, i capelli, che le cadevano scompostamente sulle spalle dopo lo sforzo, le coprivano la visuale: li spostò con un soffio e la bocca si allargò in un sorriso felice. 
“Guarda chi ha deciso di farmi visita in questa giornata piovosa!” Saltò oltre il bancone con un salto atletico: era l’unica donna che lo faceva in tutta New York e forse per questo si era attirata qualche male lingua da parte delle signore per bene che andavano da lei a farsi cucire gli abiti più richiesti. Pur essendo così estrosa, sapeva essere molto riservata: sapevo molto poco della sua vita, mentre io per lei ero sempre stato un libro aperto.
“Con questo bel tempo, questo mi sembrava il luogo più adatto dove trovare buona compagnia, buona musica e qualche bella persona.” Strinsi il cappello nelle mani forse un po’ troppo forte, tant’è che lei lo notò subito.
“Devi dirmi qualcosa soldato?” I suoi occhi si fecero seri e impenetrabili: quando faceva così peggiorava solo le situazioni perché mi metteva ancora più ansia. Quel nomignolo risuonava nelle mie orecchie: aveva iniziato ad usarlo dopo la prima visita medica non passata. Nella mia testa si susseguirono numerose frasi, parole, tutte volte a creare un pensiero concreto, ma nulla che potesse andare bene. Il suo sguardo si fece sempre più preoccupato, forse aveva capito, come solo lei riusciva. 
“Ti prego, non dirmi quello che stai pensando…” La sua voce era diventata tutt’un tratto più fredda, più distante: il sorriso e la gioia di prima erano scomparse come una goccia che si schianta al suolo. Alzai lo sguardo per incontrare il suo sguardo che ormai non riusciva più a nascondere la paura e l’ansia: aveva capito. La campanella tintinnò nell’attimo esatto in cui il mio cervello aveva deciso di far uscire le parole. Luisa si distrasse osservando il cliente senza la sua solita giovialità, dettata solitamente dal mal tempo, che quel giorno però non poteva portarle felicità. Il signore fece come se non ci fossi e si diresse verso Luisa chiedendo di un cappotto che aveva portato a sistemare. Mi girai, ma prima di andarmene le lasciai la notizia.
“Parto domani per il New Jersey. Ti scriverò ogni giorno.” Il campanello della porta fu l’unico suono che le mie orecchie percepirono, non mi voltai per vederla un’ultima volta, volevo avere di lei solo il ricordo dei momenti felici. Mi avviai silenzioso verso caso con la pioggia che batteva ancora incessante.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Riserva scientifica strategica, ecco devo ero finito. Una divisione nuova di zecca, ideata appositamente dallo Stato, formata dai migliori uomini scelti, dove i miei quaranta chili non passavano di certo inosservati. Solo uno di noi sarebbe stato scelto per un programma che ancora ci era oscuro, ma a me non interessava, volevo solo prepararmi al meglio. Gli allenamenti erano faticosi, estenuanti e il fiato, a causa dell’asma mi mancava spesso: ero sempre l’ultimo. I ragazzi riuscivano spesso a complicarmi la vita, rendendo gli allenamenti ancora più faticosi di quanto già non lo fossero: si divertivano molto. Quel giorno l’aria era stranamente calda e si aggrappava ai miei polmoni come se volesse strapparmeli, ogni respiro era più faticoso di un giro di corsa e il sudore colava copioso lungo la schiena e la fronte. “Marlon hai sentito di quella divisione d’assalto aerea segreta? Dicono che i piloti siano tutte donne. Non mi dispiacerebbe incontrarle!” Gilmore Hodge rise divertito alla sua stessa battuta mentre, con leggerezza e senza fatica, faceva le sue flessioni. La mia mente si accese come un faro nella buia notte: non so perché, ma ebbi uno strano presentimento; come se i dubbi di una vita trovassero un’ipotetica soluzione. “Hodge chiudi il becco e usa quelle braccia! Forza femminucce! Queste me le chiamate flessioni!? Muovetevi!” Il generale Flanagan sbraitava quasi con la bava alla bocca: un uomo alto e nerboruto con qualche cicatrice per completare il tutto. Sudava anche lui nella sua tenuta perfettamente inamidata che però risentiva del caldo. “Stevens muoviti o te ne faccio fare il doppio!” sbraitò nuovamente. La mente stava iniziando ad annebbiarsi e la vista andava e veniva. Vidi in lontananza il colonello Chester Phillips discutere con lo scienziato Abraham Erskine: era grazie a lui se ero riuscito ad entrare, lui mi aveva dato una possibilità e io gli ero riconoscente. “Granata!” Sentii la voce del colonello chiara e limpida, la granata che cadeva pesante come un sasso in mezzo a noi che facevamo le flessioni: si scatenò il caos. Tutti si lanciarono in direzione opposta, mentre io feci il contrario: mi lanciai sulla bomba coprendola con il corpo. “Allontanatevi!” Gridai sperando che nessuno rimanesse nel raggio della bomba: non so cosa mi spinse a farlo, ma mi sembrava la cosa più giusta da fare e la feci: ripensai a tutte quelle volte in cui mi ero ritrovato nei vicoli ciechi a prenderle di santa ragione o quelle volte in cui cercavo di aiutare qualcuno, ma finiva sempre male per me. Quello ero io: il triste ragazzo di Brooklyn, rimasto senza genitori e senza soldi. Qualche secondo dopo mi accorsi dell’assenza dell’esplosione: alzai lo sguardo e mi guardai attorno. Il colonello e Erskine mi fissavano incuriositi mentre gli altri avevano capito che la bomba era una di quelle da esercitazione. Mi sollevai togliendomi la polvere di dosso e con il chiaro presentimento che quella sera mi sarebbe arrivata una notizia. Ogni sera le scrivevo una lettera, cercavo di scriverle tutto quello che mi era capitato anche se non ce n’era bisogno: a Luisa bastava sapere che stessi bene, nulla più. Ero lì, al chiarore della lampada che scrivevo quando Erskine arrivò: la notizia mi era stata data, ero stato scelto per l’esperimento. “Posso Rogers?” Alzai lo sguardo dalle ultime righe. “Venga pure.” Si avvicinò con una bottiglia e due bicchieri. Soffermò più del dovuto gli occhi sul foglio che tenevo stretto nelle mani. “Qualcuno che ti aspetta in città?” Mi fece l’occhiolino. “Solo una cara amica.” Ripiegai il foglietto e lo nascosi sotto il cuscino in attesa di completarlo. “Posso farle una domanda?” sorrise divertito. “Solo una?” annuii. “Perché proprio io?” Erskine sembrò rifletterci sopra, corrucciando leggermente la fronte. “Sai Steve, tante volte le persone pensavo che per vincere una guerra ci vogliano i muscoli, la forza. Ma ciò che ne decide le sorti è sempre il valore degli uomini, non solo la loro forza.” Annuii cercando di assimilare quelle parole e nella mia mente, stranamente, sorsero come lucciole le parole di Hodge: non so perché, ma volevo saperne di più, ne ero attirato come una mosca e il miele. “Signore cosa sa dirmi di una divisione d’assalto segreta formata da sole donne?” Erskine mi guardò come se avessi bevuto: cosa che, per altro, attendevo di fare non appena mi avesse offerto il bicchiere. “Esiste tale divisione, vengono chiamate i fantasmi alati. E’ un'altra divisione speciale dell’esercito americano. Cosa non si fa per battere il nemico?” Sorrise e nel frattempo mi porse il bicchiere. Brindammo e decisi di non fare ulteriori domande sull’argomento, notando come avesse subito sviato. Attesi che se ne andasse e poi finii la lettera scrivendo anche di quell’incontro notturno con Erskine. La mattina era nebbiosa, tipica delle giornate autunnali a Brooklyn. La condensa si mescolava ai fumi delle industrie e ai vapori emessi dalle roboanti macchine che sfrecciavano lungo le vie lastricate. Ero in macchina con il colonello e Erskine, schiacciato fra i due come un bambino appena poco adolescente: osservavo fuori la città che si svegliava frenetica. Arrivammo davanti a un negozio di libri d’antiquariato e appena entrammo le pareti mi ricordarono il caldo negozio di Luisa: me la figurai intenta a cucire bellissimi abiti o sistemare vecchi cappotti a cui lei riusciva a donare nuova vita. Seduta sul suo sgabello in legno, gli occhiali sulla punta del naso e le mani intente a cucire con maestria i fili che le pendevano lungo le gambe longilinee. Tante volte le avevo tenuto compagnia la sera, mentre lei cuciva io le leggevo dei libri che ovviamente per me erano incomprensibili: amava quelle storie lontane, quei popoli a cui si sentiva di appartenere. Passammo attraverso una porticina che conduceva ad un laboratorio ben nascosto: era lì che Erskine lavorava grazie ai fondi di Howard Stark, uno degli uomini più ricchi d’America. La sala era asettica, uomini andava avanti e indietro con cartelle, fogli, strumenti in mano; chiacchieravano, discutevano e farneticavano su formule o possibili problemi. In quegli attimi l’ansia rischiò di prendere il sopravvento, mi sentivo tutt’un tratto terrorizzato dall’idea che potesse succedermi qualcosa. “Rogers se sei pronto incominciamo.” La voce dello scienziato giunse da lontano, quasi ovattata da tutto quel trambusto. Annuii semplicemente, spogliandomi dei miei abiti e rimanendo in pantaloni: entrai in quella struttura simile a un grande siluro e quando la porta si chiuse mi accorsi di star trattenendo il respiro. Da dentro vedevo i dottori affaccendarsi e i giornalisti sistemarsi insieme al colonello e a Erskine: se tutto fosse andato bene, l’America non avrebbe più avuto paura di nessuno. Nel silenzio di quel sarcofago le idee si calmarono e l’unica figura che ne emerse fu il suo viso candido, la pelle rivestita di lentiggini, gli occhi marroni che mi scrutavano sereni: indossava un paio di pantaloni da uomo con lunghe bretelle per sostenere la stoffa troppo grande, una camicia bianca ormai rovinata dalle macchie di olio e una chiave inglese stretta nel pugno. Quel giorno l’avevo trovata nel garage di suo nonno a lavorare su una macchina e mi ero sorpreso: mai l’avevo vista più bella, non la solita Luisa vestita bene e ordinata, ma una ragazza fuori dal comune che si rimboccava le maniche e lavorava tra bulloni e viti. Non sentii quando venne dato il via, ma il mio corpo fu riempito di aghi: una bianca luce fredda mi invase gli occhi e tutto sembrò fermarsi.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3784041