Before November 8th di NicoRobs (/viewuser.php?uid=1049899)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 16 settembre 1979 - Sogni di una notte di fine estate ***
Capitolo 2: *** 8 settembre 1984 - "Segui il profumo dei fiori" ***
Capitolo 3: *** 31 ottobre 1988 - Sweet Stuff ***
Capitolo 4: *** 24 dicembre 1983 - Christmas Story (Parte I) ***
Capitolo 1 *** 16 settembre 1979 - Sogni di una notte di fine estate ***
Before november 8th cap 1
16
settembre 1979
Dublino,
16 settembre 1979.
Will,
ancora a braccia conserte, alzò un sopracciglio, mentre abbracciava
con lo sguardo la platea di studenti di fonte a lui, cercando però
di incrociare tutti i loro occhi.
-Davvero
nessuno che sappia rispondere a questa semplicissima domanda?- li
incalzò, tamburellando la penna sul proprio braccio.
-Professore,
la scongiuriamo...- piagnucolò una vocina dalla terza fila. Doveva
essere quella di Aorghie, anche se non riusciva bene a distinguere il
gruppo di ragazze semi addormentate che si nascondevano dietro la
loro pila di libri. -È venerdì pomeriggio. Ci dia tregua!-
-E
poi,- intervenne una voce maschile dalle ultime file, e questo era
sicuramente Sean. -esiste davvero qualcuno che abbia letto Finnegans
Wake?-
Tutta
la classe scoppiò a ridere. Tranne Will. Will sciolse le
braccia e, con un gesto secco, puntò la penna contro i banchi.
-Ha!-
esclamò.
-Humphrey
Chimpden Earwicker. Male, molto male, ragazzi.- continuò, scuotendo
la testa con tono deluso. -Sarete ricordati come la vergogna del
Trinity College nei secoli dei secoli. Nemmeno il protagonista di
Finnegans Wake sapete.-
Ora
stava tentando di arricciare i baffi rossi in quel modo tanto
ridicolo che la sua classe adorava e, in effetti, poco dopo
ricominciarono le risa.
-Via,
via, vili marrani.- fece allora Will, facendo loro gesto di andarsene
col dorso della mano. -Ci vediamo lunedì mattina. Lo so, lo so che
domenica c'è la partita, ma sappiate che sono disposto ad andare a
setacciare tutti i pub di Dublino e a trascinarvi per le orecchie
fino in classe, se non vi presentate. E costringerò chiunque faccia
tardi a declamare una poesia a tema patriottico di Seamus Heaney,
scelta dalla classe, di fronte alle aule di Anglistica. Sean, è
inutile che fai il finto tonto, tanto lo sanno tutti che sarai il
primo della lista. Per te ho anche pronto un costume da leprecauno.-
Il
vociare e le risa si stavano facendo più intense, mentre i ragazzi
prendevano le loro borse e si alzavano dai banchi.
Will
adorava il proprio lavoro, e anche i suoi ragazzi gli piacevano. Ci
pensava ogni volta che concludeva in questo modo bizzarro le sue
sfortunate lezioni di Letteratura Irlandese del venerdì pomeriggio.
-Professor
Kenton...- lo riscosse dai propri pensieri la voce della piccola e
bionda Daisy, che si era avvicinata alla sua scrivania come faceva
ormai quasi ogni giorno.
-Volevo
dirle che anche oggi la sua lezione è stata così emozionante!-
cinguettò la ragazza, fissandolo coi suoi enormi occhi azzurri.
-Siamo davvero fortunati ad avere un professore in gamba come lei.-
-Grazie
per avermelo detto anche oggi.- sospirò l'uomo, sistemando i propri
libri nella valigetta nera di pelle. -Ma non era necessario. Sai, ho
una buona memoria, non serve che mi fai i complimenti tutti i
giorni.-
Ma
la ragazza continuava a guardarlo sognante, torturando tra le dita
bianche la cinghia della propria borsa. I suoi compagni e le sue
compagne le passavano di fianco e ridacchiavano, così Will cercò di
levarsi in fretta d'impiccio, per porre fine a quell'umiliante
teatrino che si ripresentava ogni giorno.
Non
era certo l'unico professore al Trinity College con una studentessa o
studente che lo spasimava, ma Daisy era la tipica ragazza sognatrice,
gentile e delicata che era in grado di chiudersi completamente nelle
proprie fantasticherie; questo, purtroppo, voleva dire che da
quell'orecchio non ci sentiva proprio. Inutile farle capire che il
suo interesse non era ricambiato, era illegale e la stava mettendo in
ridicolo di fronte ai propri compagni: ogni giorno lei tentava di
fermarsi a parlare con lui, e ogni giorno lui diventava più brusco
nel liquidarla.
Will
ogni tanto si stupiva del proprio successo con le donne: era un
irlandese ordinario, non molto alto, capelli rossi faticosamente
tenuti lisci e in ordine con una riga di lato, buffi baffi rossi,
lentiggini e grandi occhi azzurri.
Si
scosse un po' di polvere di gesso dal maglioncino verde scuro mentre
prendeva impermeabile ed ombrello e si apprestava ad uscire
dall'università.
Soprattutto,
lo stupiva il fatto che un donna attraente come Freda non solo avesse
accettato il suo timido invito ad uscire, ma se lo fosse addirittura
sposato. Freda era... stupenda. Una scultura. Di ghiaccio. Certo,
Will conosceva anche il suo lato tenero e affettuoso, la sua vena
ilare e la sua giocosità, oppure non ci avrebbe messo su famiglia;
nessuno dei suoi parenti aveva approvato la sua scelta, credevano che
l'avesse scelta solo perché... come dirla in modo gentile... Freda
era gnocca. Decisamente gnocca. Era anche mostruosamente
intelligente, o non avrebbe vinto borse di studio su borse di studio
e non sarebbe diventata il primo primario donna straniero della
Repubblica d'Irlanda. Ma nessuno nota quanto sei intelligente quando
sembri una modella nordica da prima pagina.
Però,
ecco... Freda era fredda. Il suo nome derivava dal norreno Fríða,
che significa “bellissimo,
amorevole”, ma Will la prendeva sempre in giro dicendo che in
realtà la radice era quella del latino frigĭdus, che
significa “freddo”, e, tra le lingue romanze, in italiano
l'aggettivo femminile suonava proprio come Freda. E ogni volta che lo
diceva, lei puntualmente arrotolava il giornale che stava leggendo e
cominciava ad agitarglielo contro, sbraitando qualcosa in svedese, in
olandese, o addirittura in afrikaans, che, dopo accurate ricerche
filologiche, Will aveva ricondotto alla seguente serie di frasi: “Te
le faccio vedere io le radici”, “Prenderò a calci il tuo celtico
culo da qui fino a Roma a pagare i tuoi tributi”, “Ora ti faccio
un'accurata rappresentazione della conquista norrena di Lindisfarne”.
Se, tuttavia, Will provava a correggere le sue inesattezze storiche o
la confusione tra i celti d'Irlanda e quelli di Britannia, partiva
una serie di insulti ai quali il pover'uomo non aveva ancora trovato
adeguata traduzione. Era in quei momenti che Will la adorava, perché
per un attimo lasciava da parte il suo essere tutto d'un pezzo e si
lasciava andare alla goliardia, agli insulti affettuosi, alle risa.
La
sua vita non era stata facile. Sua madre Kristina era svedese, e si
era trasferita in Olanda per studiare arte, dove aveva conosciuto
Jens Van der Ende, medico di origine ebrea; tuttavia, lo scoppio
della Seconda Guerra Mondiale aveva costretto Jens a fuggire con la
ragazza da poco sposata, per trasferirsi dal ramo boero della
famiglia che da generazioni risiedeva in Sudafrica. Dopo la morte di
una prima figlia a causa della malaria, nel 1950 era nata lei, Freda.
I Van der Ende erano finiti a vivere in un quartiere di neri assieme
ad altri olandesi sfollati che ormai non avevano più nulla. Freda
adorava ascoltare le mamme di colore cantare la sera mentre
preparavano la cena, o i ragazzi che improvvisavano una danza dalle
finestre dei loro piccoli appartamenti, ma nessuno dei bambini voleva
fare amicizia con lei: lei era bianca, e i piccoli avevano paura che
avrebbe cominciato a bastonarli, a sputagli contro o che avrebbe
chiamato la polizia se solo avessero alzato lo sguardo verso di lei.
Così era cresciuta da sola e senza amici; il suo unico passatempo
era farsi insegnare da suo padre le basi della medicina, perché già
da piccola aspirava a diventare un medico che avrebbe potuto salvare
bambine come la sorella che non aveva mai conosciuto, o i bambini che
vedeva dalla finestra, che camminavano male, tossivano o avevano
ferite infette perché nessun medico, a parte suo padre, li avrebbe
mai voluti toccare.
Freda
assisteva Jens ogni qualvolta riusciva a scuoterlo dal torpore in cui
la fuga dall'Olanda, la povertà e la morte della sua primogenita lo
avevano gettato, e lo convinceva ad assistere i bambini del
quartiere. Era destino che diventasse medico anche lei.
Purtroppo,
il ragazzo che frequentava di nascosto l'aveva messa incinta, e poi
era sparito. I suoi genitori l'avevano cacciata di casa non perché
lui fosse mulatto, bensì perché era un mezzo delinquente. Era
arrivata in Inghilterra con una borsa di studio, un muro invalicabile
costruito attorto al suo cuore pesante ed un bambino nel ventre.
Era
questo ciò che Freda gli aveva raccontato la mattina dopo aver fatto
l'amore. Lo aveva guardato negli occhi, seria, avvolgendosi tremante
nel lenzuolo del minuscolo appartamento dove Will viveva quando
studiava ad Oxford, e gli aveva detto: -Will, tu hai detto che la
vera sfida con me non era portarmi a letto, quanto farmi passare
un'intera giornata sorridendo felice e serena.-
Poi
aveva distrattamente accarezzato il pancione di sei mesi, e aveva
ripreso: -Mi stai simpatico, Will. Si vede che hai un cuore grande.
Ora ti spiegherò perché secondo me la tua sfida è impossibile.-
-Ti
ascolterò solo dopo che avrai mangiato un'abbondante colazione.-
aveva detto Will, rivestendosi. -Vado in cucina. Tu non scappare.-
E,
non appena fu uscito dalla camera da letto, domandò, ad alta voce.
-Se però dovessi riuscire a sciogliere il tuo cuore di ghiaccio...
Mi sposeresti, Freda?-
Lei
aveva riso. Ma era una risata di scherno, quindi, non sarebbe valsa.
-Sono
a casa!- urlò Will, scuotendosi la pioggia dall'impermeabile e
strusciando le scarpe sullo zerbino.
Ed
ecco che, dal fondo del corridoio, gli strilli della creatura più
meravigliosa che l'intero universo avesse mai avuto l'onore di vedere
lo raggiunsero come un raggio di sole che spunta tra le nuvole in una
giornata luminosa, e ti scalda le ossa. La triste ironia del suo
pensiero smorzò un poco il suo sorriso sotto i baffi rossi, mentre
la creatura più meravigliosa del creato gli correva incontro con le
sue piccole gambette grassocce sotto un logoro vestito marrone su cui
erano attaccate finte foglie d'edera.
-Mio
signore, mio signore Oberon!- strillò la piccola Stephanie, reggendo
in mano un fiore di plastica viola.
-Ah,
Puck!- rispose Will, protendendosi in avanti con ancora
l'impermeabile addosso. Poi si schiarì la voce.
-Ben
arrivato, vagabondo! Hai il fiore con te?- recitò, porgendo la mano
alla propria pargola.
Stephanie
adorava giocare ad interpretare Sogno di una notte di
mezz'estate. Si era fatta cucire
l'abito di Puck apposta, e conosceva molte parti dell'opera a
memoria. Nonostante avesse appena tre anni, era già un'allieva
migliore rispetto ai suoi studenti universitari.
-A
me il vagabondo sembra tuo padre, Stephanie.- disse Freda,
materializzandosi sullo stipite della porta del salotto con le
braccia incrociate. -Su, vieni qui, folletto dispettoso, lascialo
entrare.-
Si
sedettero poi tutti insieme davanti ad una tazza di tè e a biscotti
appena sfornati.
-Non
mi dirai che hai cucinato tu, Freda.- la prese in giro Will.
La
donna lo fulminò con lo sguardo mentre sorseggiava elegantemente il
proprio tè, reggendo il piattino sotto la tazza. Aveva grandi occhi
azzurri da cerbiatta, zigomi alti, naso all'insù e finissimi capelli
biondo platino, praticamente bianchi come quelli della loro bambina
albina.
-Non
posso sempre lasciare che sia tu la donna di casa.- lo canzonò,
nascondendosi dietro la tazza. -Sennò va a finire che ti sentirai
trascurato e finirai per cedere alle attenzioni di qualche aitante
giovane, come quell'adorabile Daisy dell'università.-
Will
scoppiò a ridere di cuore, e Stephanie, che era in braccio a lui,
rimase ipnotizzata a guardare i suoi baffi rossi andare su e giù,
mentre ancora stringeva tra le mani grassocce il fiore di plastica.
-Questa
Daisy è innamorata di papà?- domandò candidamente, accoccolandosi
sul suo petto.
-Vedi,
piccola mia.- le disse dolcemente Will, appoggiando la tazzina sul
tavolo mentre la reggeva col braccio libero. -A volte succede che
certe persone, in periodi molto delicati della loro crescita, si
innamorino di una persona più grande perché, in realtà, sentono la
mancanza di una figura di riferimento come una mamma o un papà, e
quindi identificano inconsciamente quella persona come, appunto, la
loro mamma o il loro papà.-
-Dio
mio, Will, ha tre anni la bambina.- protestò Freda. -Non usare
parole difficili come “inconsciamente”. Spiegale le cose in modo
semplice.-
Stephanie
gonfiò le guance in un plateale gesto di dissenso che fece sorridere
Will.
-Freda,
dai... la piccola sa leggere, scrivere e fare calcoli. Mentre gli
altri bambini alla sua età stentano a colorare i libri illustrati
senza uscire dai margini, lei si sforza di leggere Shakespeare, e non
quello semplificato, ma proprio quello scritto in inglese dell'età
elisabettiana. E parla gaelico, inglese e afrikaans. Non penso che
“inconsciamente” sia un termine difficile per lei.-
Che
fosse una bambina prodigio, era fuori discussione. Stephanie era
stata precoce già ad imparare a gattonare, a camminare, a parlare e
tutto il resto. Sua madre aveva provato a farla crescere bilingue,
insegnandole l'afrikaans, la più utile, a suo parere, tra le proprie
lingue madri oltre all'inglese, ma la piccola Stephanie aveva stupito
tutti quando, di ritorno da uno degli spettacoli folklorici irlandesi
che si tenevano ogni settimana in un paesello vicino Dublino,
spettacoli che lei tanto adorava, si era messa improvvisamente a
parlare gaelico.
Quegli
spettacoli teatrali erano l'unica occasione per lei di uscire e
vedere il mondo. Era nata albina, perciò non poteva giocare con gli
altri bambini all'aria aperta, nei giorni in cui spuntava il sole.
Perciò, la piccola Stephanie attendeva con ansia che giungesse il
sabato per vedere un nuovo spettacolo, e nel frattempo si faceva
raccontare opere teatrali e fiabe folkloriche da Will.
Da
grande avrebbe fatto l'attrice di teatro, diceva.
-Potresti
farla passare da Shakespeare al teatro greco, allora.- disse allora
Freda in tono canzonatorio. -Falle leggere l'Edipo Re,
l'Elettra di
Sofocle, quelle cose lì. Così magari capisce meglio cos'è il
complesso edipico e non rischia di svilupparlo nei tuoi confronti,
visto che ti è sempre appiccicata.-
-Lo
so cos'è il complesso edipico, mamma.- borbottò Stephanie, con la
sua adorabile vocina da bambina. -Ma non voglio sposare papà. È
vecchio e ha i baffi.-
Will
e Freda scoppiarono a ridere di cuore.
San
Francisco, 16 settembre 1979.
Alla
radio la voce acuta di Kate Bush cantava a squarciagola “Bad
dreams in the night/ They told me I was going to lose the fight/
Leave behind my wuthering, wuthering/ Wuthering Heights”,
accompagnata dalla voce un po' roca di Anne Hartford, che, nonostante
la minore estensione vocale, cercava di dare il meglio di sé in quel
piccolo concerto privato che si ripeteva in macchina ogni mattina.
Forse non ci stava esattamente mettendo tutto l'abituale impegno, ma
era la prima volta che percorreva le strade di San Francisco come
conducente, per cui stava prestando particolarmente attenzione alla
strada di fronte a sé. Finalmente lei e Bjarne avevano potuto
raggiungere il padre, nuovamente trasferitosi per lavoro. Quella
volta, per lo meno erano riusciti a far finire l'anno a Bjarne e a
fargli trascorrere l'estate in compagnia dei pochi amici che era
riuscito a farsi nei precedenti due anni, periodo in cui avevano
vissuto a Santa Monica.
A
Bjarne non dispiaceva troppo dover cambiare casa e città così di
frequente: ogni occasione era buona per conoscere nuove persone e
fare esperienze diverse. Era anche un po' come quando andava alla
sala giochi a giocare a Flipper, Pac-Man o Donkey Kong: se commetteva
qualche errore in un posto, non era la fine, perché poteva
ricominciare la partita da un'altra parte ed evitare di commettere
gli stessi sbagli. Così aveva imparato che: non ci si dichiara alla
bambina più carina della classe se hai i denti sporchi dei broccoli
del tuo cestino del pranzo; che se hai i broccoli nel cestino del
pranzo è improbabile che qualcuno voglia sedersi vicino a te a
mensa; che però è meglio evitare di mangiare solo merendine e
schifezze per farsi accettare dagli altri, perché poi diventi
cicciottello e nessuno vuole stare con te in nessun caso; che, per
quanto possa sembrarti ingiusto, piangere per la sorte delle rane
dissezionate durante l'ora di scienze ti fa guadagnare solo un sacco
di prese in giro.
Ma,
soprattutto, Bjarne aveva imparato che la questione delle adozioni
veniva sempre affrontata da tutti con estremo imbarazzo, quasi come
fosse qualcosa di indicibile e scandaloso.
“Too
long I roam in the night/ I'm coming back to his side, to put it
right/ I'm coming home to wuthering, wuthering/ Wuthering Heights”
Bjarne
non avrebbe voluto interrompere il mattutino concerto privato in cui
sua madre si esibiva sempre quand'era in macchina e di buon umore, e
alla radio passava una canzone che adorava. Però aveva immaginato
non mancasse molto alla scuola dov'erano diretti, per cui tentò di
farle la stessa domanda che gli usciva spontanea ogni volta che si
trasferivano in una casa più grande, in una città più grande.
-Se
papà avrà una promozione e potremo fermarci a vivere qui, possiamo
adottare un fratellino o una sorellina?-
In
passato, a quella domanda i suoi avevano sempre risposto con un
sorriso entusiasta, convinti del fatto che un futuro più stabile in
cui costruire una famiglia più numerosa non fosse poi così lontano.
Eppure, quel giorno Anne interruppe la canzone a metà, e a Bjarne
apparve tutto d'un tratto strana, più stanca del solito, e senza la
solite luce che le illuminava lo sguardo.
-Non
lo so, tesoro.- rispose infine, semplicemente. -Non vorrei darti
false speranze. E non vorrei illudermi nemmeno io che questo possa
accadere. Vedi, io e tuo padre ci stiamo sperando da così tanto...-
Bjarne
rimase in silenzio, osservando sua madre che ora aveva preso a
guidare ancora più cauta per le larghe strade di San Francisco.
“Ooh,
let me have it/ Let me grab your soul away/ Ooh, let me have it/ Let
me grab your soul away/ You know it's me, Cathy” cantava
la radio, nel silenzio dell'abitacolo.
Il
bambino non voleva che sua madre fosse triste, per cui disse: -Non
importa, mamma. Non dovete farlo per forza. Meglio pochi ma buoni,
no?-
La
mamma si era voltata verso di lui appena un istante, per non perdere
d'occhio la strada, e aveva sorriso in quel modo così caldo e
rassicurante che sembrava lo stesse abbracciando.
Il
bambino si girò, soddisfatto, e prese a sfogliare il quadernetto
sulla cui copertina era scritto “Cose da non fare quando ti sei
appena trasferito”.
-Potresti
lasciarmi a poca distanza dall'entrata della scuola?- domandò,
quindi. -Così mi puoi dare un bacio prima che scenda, ma nessuno ci
vedrà e mi prenderà in giro.-
La
donna rise.
-Posso
anche non darti il bacio della buona giornata, se preferisci.-
-Perché
no?- domandò il piccolo, dondolando i piedi. -A te fa piacere. I
bambini sono stupidi, prendono in giro gli altri per cose stupide.
Non voglio farti un dispiacere solo perché ci sono dei bambini
stupidi.-
Bjarne
era un esperto di bambini stupidi, ormai. Aveva capito che il mondo
va avanti se c'è qualcuno di più debole da calpestare, qualcuno che
rimane fuori dal branco. Lui era sempre l'ultimo arrivato in ogni
posto, perciò era sempre isolato e facile da colpire. E poi aveva un
nome straniero.
I
suoi genitori lo avevano chiamato David di secondo nome, e lo avevano
invitato ad usare quello per evitare domande imbarazzanti o prese in
giro. Ma Bjarne non aveva voluto. Era pieno di David, là fuori, così
come era pieno di James, di John, di Mattew, di Andrew, di Edward
eccetera. Eppure, non c'era nessun Bjarne. Nessun bambino coi capelli
quasi bianchi e la pelle che si scuriva subito al sole. Lui era
unico, e pensava che doveva esserci un motivo; forse era destinato
a fare qualcosa di grande. Pensava che gli sarebbe piaciuto fare
sì che i bulli smettessero di prendersela coi più deboli, difatti
era sempre il primo a mettersi in mezzo quando i bambini se la
prendevano con qualcuno che non era lui.
-Mossa
poco intelligente.- lo aveva scherzosamente rimproverato suo padre.
-Se lasci che si trovino un nuovo capro espiatorio, ti lasceranno in
pace. D'altro canto... questo non ti renderebbe migliore di loro.
Perciò vorrei dirti che sono fiero di te, ma sono anche stanco di
vederti arrivare a casa con la divisa sgualcita e pieno di lividi e
graffi.-
Bjarne
aveva promesso che avrebbe evitato di farsi pestare. Voleva prendere
lezioni di autodifesa, e, tra le varie discipline, aveva scelto il
Jeet Kune Do; adorava i film di Bruce Lee, e poi ora si era
trasferito a San Francisco, la città natale di Lee. Era il momento
giusto. Bjarne era certo che le cose quella volta sarebbero andate
diversamente.
-Questo
è il vostro nuovo compagno.- disse l'insegnante, tenendo Bjarne per
le spalle. -Si chiama David Hartford. Spero che sarete gentili con
lui.-
-Il
mio nome è Bjarne.- puntualizzò il bambino, guardando i suoi nuovi
compagni di classe coi grandi occhi castani.
Tutti
parvero confusi. Succedeva sempre così.
-È
un nome scandinavo. Sono stato adottato.- disse candidamente. Nel suo
quadernetto aveva anche appuntato che cercare di nascondere la cosa
avrebbe fatto pensare agli altri che se ne vergognasse, e a quel
punto lo avrebbero utilizzato come argomento principe per prenderlo
in giro.
-Quindi
vuol dire che i tuoi genitori non ti volevano?- ridacchiò
immediatamente un ragazzino con diversi buchi tra i denti in
crescita, seduto al fondo della classe.
Bjarne
attese di vedere quali tra i suoi compagni di classe si sarebbero
platealmente uniti alla risata, chi avrebbe tentato di nasconderla e
chi si sarebbe voltato con uno sguardo di disapprovazione. Sul suo
quadernetto aveva appuntato: “Mostra subito le tue carte e scopri
chi possono essere i tuoi amici e chi potrebbero essere i tuoi
bulli”.
Si
impresse velocemente i volti delle tre categorie sopra citate e poi
riprese a parlare, mentre l'insegnante alle sue spalle osservava la
scena basita, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso.
-No,
vuol dire che i miei genitori mi volevano così tanto che si sono
fatti migliaia di chilometri per trovarmi.- rispose allora, esibendo
il miglior sorriso che la sua dentatura perfetta gli consentiva.
Valutò
se fosse anche il caso di passarsi una mano tra i fini capelli biondo
platino, ma decise di non esagerare: c'era tempo per sondare il
terreno con le bambine della prima fila che non avevano riso assieme
al tizio al fondo dell'aula, e, soprattutto, ora sapeva quando doveva
evitare di farsi preparare i broccoli per pranzo.
Boston,
16 settembre 1979.
“Twinkle,
twinkle, little star,
How
I wonder what you are!
Up
above the world so high,
Like
a diamond in the sky.
When
the blazing sun is gone,
When
he nothing shines upon,
Then
you show your little light,
Twinkle,
twinkle, all the night.”
Martha
recitava la poesia al proprio pancione, passandosi una mano tra gli
spessi e folti capelli castani, mentre guardava l'ultima ecografia
fatta. “Miss. Marta Venturi, w. 28” era scritto in piccolo sotto
l'immagine in bianco e nero del suo bambino o della sua bambina.
Martha sospirò; odiava il suo nome italiano, così come odiava le
sue origini straniere: poco importava che Boston fosse sempre stata
una città di immigrati, e che fosse sempre cresciuta insieme a
bambini provenienti da ogni dove; non sopportava le risatine o gli
sguardi d'allarme che le venivano lanciati ogni volta che veniva
fuori il fatto che fosse italo-russa. Aveva dovuto vivere un'infanzia
in piena Guerra Fredda con una madre dall'aspetto così sovietico che
l'appellativo più gentile che si era guadagnata dai suoi compagni di
classe era stato “spia rossa”.
Per
questo non vedeva l'ora che nascesse il bambino o la bambina, così
avrebbe potuto raggiungere Thomas in Inghilterra, si sarebbero
sposati e lei avrebbe cominciato una nuova vita. Martha Lawliet. Non
sarebbe stato difficile aggiungere una “h” al suo nome di
battesimo.
Martha
pensava a Thomas, mentre guardava le luci del porto di Boston dalla
finestra della minuscola e ammuffita soffitta dove sua zia Angelica
l'aveva sistemata dopo che se n'era andata di casa a diciassette
anni. Anche il suo uomo aveva in un certo senso ripudiato la propria
famiglia: lei lo aveva fatto non perché non volesse bene ai propri
genitori, ma perché non riusciva a sopportare il peso della
discriminazione e del sospetto; non voleva che i vicini sentissero
l'odore del ragù che sua zia e sua madre preparavano la domenica, e
si vergognava quando suo padre alzava il volume della radio perché
stava passando una canzone italiana. Thomas, invece, odiava suo
padre, senza se e senza ma. Si era ribellato alla sua rigida
disciplina, intransigente ai limiti della crudeltà, e aveva deciso
di vivere libero dal peso del suo cognome paterno e da tutto ciò che
questo significava. Per questo ora era in Inghilterra, la sua patria,
che cercava di costruirsi il proprio futuro con le sue sole forze, un
futuro da condividere con lei e con la loro creatura.
Il
padre di Thomas era un distinto Lord inglese di nome Charles Lewis,
arricchitosi durante il secondo dopoguerra grazie ad alcune sue
geniali intuizioni che lo avevano portato ad acquistare una piccola
industria automobilistica e ad espanderne il mercato in India e in
Giappone. Fin da piccolo, Thomas era stato cresciuto per succedergli,
ma il padre non gli aveva mai mostrato un minimo segno d'affetto; gli
impediva di avere amici, gli impediva un qualunque tipo di svago o
passatempo, lo obbligava a lavorare per lui, lucidando ogni macchina
prodotta dalla sezione inglese di York prima che venisse venduta: un
lavoro assolutamente superfluo, ovviamente, ma il padre di Charles
aveva deciso di punirlo per la sua sola esistenza. Già, perché
Thomas non era suo figlio. Sua madre era rimasta incinta durante uno
dei viaggi d'affari in Giappone a cui entrambi i coniugi avevano
dovuto presenziare. Il suo sangue giapponese era evidente, dal taglio
a mandorla dei suoi occhi al nero corvino dei suoi capelli, che
formavano un contrasto stridente con quelli di entrambi i genitori
legali. Eppure, Charles non aveva avuto altri figli, per cui il suo
impero sarebbe dovuto andare senza dubbio a Thomas. Ma era stato
proprio lui, una volta laureatosi, a rifiutare quell'onere: diceva di
avere il voltastomaco solo all'idea di vedere quelle macchine e a
sentire l'odore di quella fabbrica. Così aveva cominciato a lavorare
come contabile in un'azienda del sud dell'Inghilterra, rinunciando,
oltre all'eredità, anche al proprio cognome; aveva, infatti, deciso
di prendere il cognome da nubile della madre, Lawliet, e aveva
ridotto l'esistenza del proprio padre ad una misera L puntata tra
nome e cognome: Thomas L. Lawliet e Martha Lawliet, una coppia di
giovani senza nome e senza origini.
Martha guardava le luci del porto e ora
pensava a suo padre Eraldo, che probabilmente non aveva ancora finito
di lavorare; sebbene non si parlassero da quando, a diciassette anni,
aveva giurato che non avrebbe mai più messo piede in casa sua, lui
non aveva smesso coi doppi turni, e ogni mese lei si era ritrovata
qualche centinaio di dollari sul conto che i suoi genitori le avevano
aperto quando lei era ancora piccola. Probabilmente, ora cercava di
lavorare ancora di più, per mettere da parte qualcos'altro per il
nipotino o la nipotina. Non voleva che Thomas facesse tutto da solo.
Loro
due si erano conosciuti un anno e mezzo prima, quando Thomas era
venuto a Boston con un carico di merce destinata agli Stati Uniti ed
era entrato nel diner dove lei lavorava come cameriera per
ripararsi dalla pioggia battente.
-Uno
se ne va dall'Inghilterra sperando di trovare il sole, e invece
sembra le nuvole mi abbiano seguito.- le aveva detto sorridendo,
quando lei gli si era fatta incontro per condurlo ad un tavolo
libero. Martha era rimasta incantata da quegli occhi grigi e dal
gesto sbarazzino col quale si era tirato indietro gli spessi capelli
neri e bagnati. Il tipico colpo di fulmine, per entrambi. Tanto che
lui aveva più volte rimandato la sua partenza dagli Stati Uniti e,
una volta giunto in Inghilterra, aveva fatto di tutto per tornarci;
questa volta, assieme ad un anello di fidanzamento e l'inamovibile
decisione di parlare con suo padre per chiedergli la sua mano.
Martha
aveva insistito perché non lo facesse: aveva voluto bene ai suoi
genitori, ma sentiva di non avere più nulla a che vedere con loro da
tanto, troppo tempo. I loro cuori parlavano lingue diverse.
Ma
Thomas aveva fatto di testa sua, ed il vecchio Eraldo l'aveva accolto
a braccia aperte. -Mi auguro che tu riesca a far sentire a casa
Marta.-, questo gli aveva detto.
Già.
Casa. In Inghilterra la aspettava una casa in un quartiere
piccolo-borghese dove per tutti lei sarebbe stata un'americana che ha
sposato un inglese, e non la “figlia di immigrati venuti a rubare
il lavoro agli onesti cittadini del Massachussets”.
Si
allontanò dalla finestra, scossa da un brivido di freddo. Era ora di
prepararsi qualcosa da mangiare, prima che la stanchezza dovuta alla
gravidanza prendesse il sopravvento e la facesse di nuovo abbandonare
sul divano, ad aspettare che passassero le ore. Così andò verso il
piccolo frigo, lo aprì e guardò con un po' di disappunto il suo
poco contenuto. Decise che si sarebbe preparata la versione povera e
veloce di un Hamburger helper, dal momento che aveva solo
macaroni e carne macinata. Suo padre sarebbe probabilmente
inorridito al solo pensiero, e questo era uno dei motivi per cui se
n'era voluta andare di casa. Eraldo era un uomo gentile e soprattutto
un gran lavoratore, coi suoi colleghi del porto parlava inglese,
partecipava alle riunioni di condominio e di quartiere, aiutava i
vicini coi traslochi e cercava di farsi ben volere da tutti, ma se si
parlava di cucina o di vino era in grado di far scoppiare una guerra:
nessuno doveva mettere in dubbio la superiorità italiana in questi
due campi, a suo parere. Però, gli ripeteva Martha di continuo, non
è che essere italiani in quel periodo e in quella zona fosse
esattamente un vanto.
Invece
sua zia Angelica le piaceva molto di più. Prima dello scoppio della
guerra, prima che suo fratello Eraldo venisse mandato in Russia,
Angelica faceva la maestra, e i suoi alunni la adoravano; era
sveglia, coinvolgente, e soprattutto era decisa ad imparare sempre di
più. Poi era arrivata la strage di Marzabotto. E nessuno, pensava
Martha, va in giro a provocare apertamente gente di un'altra
nazionalità, dopo essere per miracolo sopravvissuta alla “marcia
della morte” nazista.
Non
aveva mai visto sua zia Angelica sorridere in ventuno anni di vita.
Se suo padre nominava qualsiasi cosa avesse a che fare con l'Italia,
o peggio ancora con la zona dell'Emilia-Romagna da cui provenivano, a
lei prendeva un attacco di panico. Aveva vissuto insieme al fratello
minore e alla cognata (la spericolata donna che aveva fatto fuggire
Eraldo dalla Russia) per circa sette anni, dopo che furono emigrati
negli Stati Uniti, ma poi non ce l'aveva più fatta, e aveva trovato
lavoro come donna delle pulizie in un vecchio palazzo abitato solo da
americani di nascita. Un giorno aveva detto a Martha che lo aveva
fatto perché non poteva più sopportare di vedere negli occhi degli
altri esuli dalla guerra, loro vicini, lo stesso orrore che lei stava
tentando di dimenticare.
Così
era riuscita a trasferirsi in quella soffitta ammuffita, l'aveva
arredata coi mobili rotti che gli inquilini del palazzo lasciavano in
strada e, quattro anni prima, l'aveva accolta senza dire una parola.
L'acqua
per i macaroni stava bollendo, così Martha buttò la pasta,
mentre si accarezzava distrattamente il pancione. Si rimise a
recitare “Twinkle Twinkle little star”, mentre col dito
disegnava ripetutamente una stella con al centro il proprio ombelico.
Pochi
minuti dopo sentì il passo affrettato della zia salire le scale,
perciò la ragazza le andò incontro, mentre questa tentava di aprire
la porta di casa. Martha si rese subito conto del fatto che qualcosa
non andava: sentiva il tintinnio del mazzo di chiavi da dietro la
porta di legno sottile, e il respiro della zia farsi sempre più
affannoso, angosciato.
-Zia!-
esclamò, aprendo lei la porta al suo posto. -Non ti senti bene? Sto
preparando la cena, vieni a sederti.-
Ma
la vista dei suoi occhi azzurri, spalancati per il terrore, come in
quelle occasioni in cui rivedeva davanti a sé le immagini dei
rastrellamenti da parte dei nazisti, e delle sue esili e vecchie
spalle che tremavano per lo sforzo, la gettò nel panico.
-Cos'è
successo?! Cosa c'è che non va?!-
La
zia distolse lo sguardo, e le appoggiò sulla spalla una mano rugosa
e rovinata dal duro lavoro.
-Mi
dispiace, ma non posso girarci intorno: ho brutte notizie. Vai a
sederti, respira profondamente; ti porto subito un bicchiere
d'acqua.-
-Che
è successo?!- ripeté spaventata lei, portandosi le mani davanti
alla bocca. -Papà si è fatto male a lavoro? Hanno di nuovo
aggredito la mamma?-
-Qui
stiamo tutti bene.- tagliò corto la donna, accompagnandola, decisa,
verso il divano senza uno dei piedi, tenuto su da una pila di vecchi
giornali.
Con
una velocità inaudita per una donna della sua età e con la sua
usuale apatia, la zia Angelica riempì un bicchiere d'acqua, per poi
sedersi di fianco alla nipote, stringendole forte la mano.
-Respira
ora. Profondamente. E stringimi forte la mano. Devi pensare che la
creatura nella tua pancia non deve patire.-
-È
successo qualcosa a Thomas.- disse allora Martha, spalancando gli
occhi. Poi si alzò in piedi di scatto, rischiando di cadere sotto il
proprio stesso peso.-
-È
successo qualcosa a Thomas!- urlò con tutto il fiato dei suoi
polmoni, cominciando a tremare anche nel profondo della propria
anima.
La
zia si alzò di scatto e la bloccò per i polsi.
-Per
l'amor di Dio, Marta!- le disse, strattonandola. -Devi calmarti!
Calmati per il tuo bambino!-
La
costrinse a sedersi e, continuando a stringerle le mani, avvicinò il
proprio viso al suo, come se stesse cercando negli occhi spaventati
della nipote una scintilla di ragione, una parte che l'avrebbe
ascoltata e avrebbe deciso di fare ciò che era meglio per chi
portava in grembo.
-È
arrivato un telegramma. Thomas ha avuto un incidente stradale, un
tizio ubriaco l'ha buttato fuori strada.-
Le
affondò le unghie nella carne.
-È
morto sul colpo. Mi dispiace, Marta.-
Note
Avevo
decisamente bisogno di cominciare a scrivere questa storia, e credo
che la fine della seconda parte di November 8th
1997 sia il momento migliore per
cominciare a leggerla. In particolare, credo che il Prologo alla
Terza Parte di November
sia anche un ottimo prologo per Before,
in parte perché viene introdotto il tema della musica, delle stelle
e dei fiori, e in parte perché si accenna allo strano rapporto
simbiotico che K sviluppa con L, ma che poi sviluppa anche con
Bjarne, e che è alla causa della gelosia di L (e che in Before
verrà trattato esaustivamente).
Spero che vi possa piacere questo percorso a ritroso, alle radici dei
miei personaggi originali e alla radice dell'L che è venuto fuori in
November. Ho elaborato
moltissimi di questi episodi prima ancora della stesura di November,
perché li ritenevo essenziali per la formazione del carattere dei
miei personaggi; tuttavia, i genitori di K, L e Bjarne sono “nati”
solo in seguito, e, soprattutto, tutto ciò che ho scritto in questo
capitolo mi è venuto così, di getto, appena qualche giorno fa.
Avevo ovviamente fatto i miei schemi sui genitori di K, quelli di
Bjarne erano già addirittura apparsi in November,
e per quelli di L avevo fatto diverse ricerche già mesi fa, ma non
li avevo mai visti “all'opera”.
Volevo
condividere con voi un dettaglio che mi ha fatto molto ridere e che
non riesco a togliermi dalla testa: mentre scrivevo, ho immaginato
William Kenton come Escanor di Seven Deadly Sins,
senza poteri e vestito come Ned Flanders. Non chiedetemi perché, ma
ormai sono assolutamente convinta che questo sia esattamente
l'aspetto del padre di K. Cioè, beninteso, Will per me è un figo:
potrebbe essere effettivamente un professore per il quale mi sarei
presa una cotta. Vive di letteratura, ama la natura, traduce tutto in
poesia e adora ridere e far ridere.
E
a proposito di letteratura: questa one-shot si apre con molta
letteratura, in particolare con molta Irishness
e molto Joyce. Vi avverto in partenza che Joyce ritornerà altre
volte nel corso di questa storia, ma, a parte il palese riferimento a
Finnegans Wake, questo
capitolo è stato inconsciamente concepito come una sorta di
mock-Ulysses: ho
cominciato volendo descrivere una giornata nella vita del padre di K
per introdurre il tema, ricorrente in Before come
anche in November, del
complesso edipico, e ho scelto, completamente a caso, il giorno 16
come data. Poi ho pensato che sarebbe stato meglio dare spazio anche
alle famiglie degli altri due protagonisti, Bjarne e L, e ho pensato
fosse una buona idea descrivere lo stesso identico giorno nelle loro
tre diverse vite. Ebbene, a quel punto ho riguardato la data che
avevo scelto a caso, e il giorno 16 è lo stesso in cui si svolge
Ulysses (16 giugno
1904). Perciò, ecco, non era mia intenzione parodiare Joyce, ma una
volta resami conto della cosa non ho voluto cambiare nulla.
Ultimo
appunto: nella mia fanfiction ho dato un passato e delle origini a L;
ovviamente è tutto frutto della mia immaginazione. Ho cercato di
costruire una storia partendo dagli unici dati disponibili, ossia
quelli sulla sua etnia. Ho scelto il “quarto” italiano rispetto a
quello francese non solo perché sono italiana e porto acqua al mio
mulino (?), ma soprattutto per il suo rapporto col caffè e perché
per me si è rivelato così più semplice costruire la storia della
sua famiglia: pensavo potesse avere senso che suo nonno materno fosse
italiano, fosse andato in Russia, fosse fuggito grazie all'aiuto di
una contadina russa, fosse emigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra
eccetera. Con un nonno o una nonna francese mi sarebbe sembrato più
“innaturale” il percorso che avrebbe portato la famiglia a
Boston. Inoltre, considerando tutti i francesi che ho conosciuto, non
riesco ad immaginare una francese che ripudia le proprie origini,
mentre questo era un elemento che giudicavo importante nella
caratterizzazione di Marta/Martha e il passato di L. Immagino abbiate
notato che i nomi dei genitori di L non sono casuali: Martha e Thomas
sono i genitori di Bruce Wayne, e L è un piccolo orfano miliardario
che si nasconde nell'ombra e usa metodi violenti per portare
giustizia, e Watari è palesemente Alfred il maggiordomo (l'abbiamo
pensato almeno una volta tutti nella vita). Non ho scelto
consciamente questi nomi, è il mio cervello che mi gioca brutti
scherzi, però ho pensato che ci stessero bene.
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Capitolo 2 *** 8 settembre 1984 - "Segui il profumo dei fiori" ***
8
aprile 1984
-Papà,
papà, da dove viene questo profumo di fiori?-
-Prova
a dirmelo tu, tesoro.-
-Non
lo so... sembrano così vicini... eppure non li vedo qui
intorno a
me.-
-E
cosa vedi intorno a te?-
-È
strano, papà. È tutto strano qui. C'è
tanta luce.-
-E
non hai paura?-
-No.
È vero papà, dovrei avere paura. La luce del sole
mi brucia la
pelle. Però questa luce non brucia. È
così... calda. Papà, è
così che ci si sente quando si sta al sole?-
-È
qualcosa di simile, bambina mia. Però concentrati: da dove
credi che
venga il calore?-
-Mmm...
Perché continui a farmi delle domande, papà? Non
mi stai spiegando
nulla. Eppure a te piace tanto spiegare!-
-Ti
stai agitando, tesoro? Hai il respiro affannato.-
-...
Sì. Non sono sicura che mi piaccia questo posto. Il calore
che sento
non viene da fuori, viene da dentro. Perché,
papà? Perché sento
caldo dentro? Dove sono i fiori? Dov'è la mamma?-
-Cosa
vedi intorno a te?-
-Smetti
di farmi domande! Dimmi cosa succede, papà!-
-Non
piangere, tesoro.-
-Certo
che piango! Piango perché non capisco!-
-Quando
non capisci qualcosa non devi piangere, bambina mia. Devi farti delle
domande finché non trovi una risposta.-
-Ma
ho solo otto anni, papà! Dov'è la mamma?-
-È
qui con me, bambina mia.-
-Non
è vero! Non la sento! Non la vedo! … Aspetta,
papà. Io non vedo
nemmeno te.-
-Ma
noi siamo proprio qui.-
-Ora
inizio a sentire freddo. Dove sono i fiori? Non sento più il
profumo
come prima. Papà! Papà! Non voglio stare al
freddo. Tu sei e la
mamma siete nella luce, vero? Allora verrò da voi.-
-Ma
i fiori, Stephanie. Che fiori sono? Riesci a distinguere che fiori
sono dal loro profumo?-
-I
fiori... erano... Non mi interessa, papà! Se penso ai fiori
sento
freddo! Sento male! Perché ho male alla spalla?-
-Concentrati
sul profumo dei fiori.-
-No!
Non voglio! Voi siete nella luce! Devo venire da voi! Voglio il
caldo, voglio un abbraccio! Voglio te e la mamma!-
-C'è
anche lo zio qui con noi.-
-Lo
zio? Ma lo zio non lo vedevamo mai? L'ultima volta...-
-Cosa
stavamo facendo l'ultima volta che abbiamo visto lo zio?-
-Siamo
andati a trovarlo in Scozia. Aaaaah! La spalla, mi fa male la spalla!
Papà, ho paura!-
-Cos'è
successo in Scozia?-
-Non
lo so! Non lo so! Perché mi fai piangere? Perché
ho freddo? Dov'è
la mamma? Perché non mi dice nulla? Voglio venire nella luce
anch'io! Ma mi fa male la spalla!-
-Riesci
a distinguere che fiori sono dal profumo?-
-Non
mi interessano i fiori, papà! Non farmi piangere. Vieni a
prendermi!
Io... mi sento così pesante...-
-Non
devi seguire la luce, amore della mamma e del papà. Devi
seguire il
profumo dei fiori.-
-Ma
voi siete nella luce. Voglio stare con voi! Venitemi a prendere!-
-Ma
noi siamo con te. Il calore dentro di te, ricordi? Basta che ti
concentri sul profumo dei fiori. Va' via di qui.-
-Ma
papà!!-
-Riesci
a distinguere che fiori sono dal profumo?-
-Papà!
No! Fa male! Non voglio!-
-Non
potrò più darti spiegazioni, non potrò
più raccontarti storie.
L'hai già capito, vero? Che cosa è successo in
Scozia?-
-No!
No! NO!-
-Segui
il profumo dei fiori, bambina mia.-
-Fa
male! Il braccio! Non riesco a muoverlo! Aaaaah!-
-Ricorda
il calore dentro di te, Stephanie. La mamma e il papà non ti
lasceranno mai.-
-Non
piangere anche tu papà! Fa male! Fa troppo male!-
Sul
comodino del letto d'ospedale c'era un vaso molto grande con una
composizione di orchidee rosa, campanule viola e qualche rametto di
fiori di ciliegio.
Ma
Stephanie non aveva seguito il profumo dei fiori per uscire dalla
luce; aveva seguito il dolore. E lo avrebbe seguito ancora, e ancora,
e ancora.
Ogni
settimana, arrivava un nuovo mazzo di fiori recisi a ravvivare il
vaso di orchidee sul comodino, verso il quale la piccola Stephanie
volgeva continuamente lo sguardo. Sentiva di aver deluso suo padre.
Verso
la fine di maggio, dopo poco più di un mese di
riabilitazione,
l'uomo dei fiori venne a prenderla. Doveva avere circa una
cinquantina d'anni, ma aveva già i capelli bianchi,
pettinati
all'indietro, evidenziando la stempiatura, palpebre pesanti sotto i
sottili e piccoli occhiali e grossi baffi.
Fu
molto gentile con lei. Le disse che sapeva che le piaceva studiare e
leggere, e che nell'orfanotrofio in cui sarebbe andata avrebbe avuto
un'enorme biblioteca a disposizione. Le disse che sperava di poterla
fare entrare nella sua accademia per bambini dotati, ma solo quando
si fosse sentita pronta.
Ma
Stephanie si lasciava scivolare addosso ogni parola come un sasso
sotto una lieve pioggerellina. Immobile, insensibile.
Prima
di lasciare l'ospedale, prese il vaso di orchidee ancora fiorito.
L'uomo aveva smesso di portare fiori di ciliegio. Era finita la
stagione.
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Capitolo 3 *** 31 ottobre 1988 - Sweet Stuff ***
31
ottobre 1988
Sweet
Stuff
“Tanti
auguri a me.” pensò L, aprendo del tutto i grigi
occhi a mandorla,
guardando, senza vedere, il resto del dormitorio maschile.
Quella
mattina si respirava ancora più aria di depressione alla
Wammy's
House; gli alberi erano spogli, il cielo era grigio, fredda era la
luce che penetrava dalle finestre. Era un autunno triste ed incolore,
come i pasti serviti alla mensa, compresa la colazione che li
aspettava quella mattina, per la quale gli altri bambini erano
già
saltati giù dai propri letti a castello e si stavano
affrettando a
vestirsi.
L
si voltò verso la finestra alle sue spalle, ignorando gli
spifferi
che entravano attraverso i vecchi infissi di legno, raggomitolandosi
sotto le coperte. Ripensò a Boston, alle zucche di Halloween
e alle
decorazioni alle finestre, alle candele e ai bambini che
scorrazzavano eccitati per le strade. Rimaneva spesso a guardarli per
ore dalla finestra della cucina, non appena sua madre usciva per
andare a lavoro; pensava fosse stupido essere così eccitati
per una
festa del genere. Per qualunque tipo di festa, a dire il vero. Le
coppiette che affollavano le vie con in mano mazzi di fiori e
cioccolatini a San Valentino, irlandesi (e non solo) ubriachi che
vomitavano nei vicoli a San Patrizio, bambini eccitati che cercavano
uova nei cortili a Pasqua, bambini eccitati che chiedevano dolcetti
ad Halloween, bambini eccitati che facevano pupazzi di neve e
uscivano per le strade coi loro giocattoli nuovi a Natale... Bambini
eccitati. Bambini.
L
odiava essere un bambino.
Quel
giorno compiva nove anni e finalmente non avrebbe visto altri
marmocchi esagitati travestiti in modo grottesco correre per le
strade per qualche cioccolatino. A Winchester magari si festeggiava
Halloween proprio come negli Stati Uniti, ma la Wammy's House si
trovava isolata nelle campagne e, soprattutto, non si facevano feste,
lì.
Ma
L continuava a pensare a Boston, e ai bambini di Boston. Ai figli
degli immigrati del quartiere di periferia dov'era nato ed era
vissuto, che magari quell'anno non sarebbero passati a bussare al
portone del suo palazzo. Continuava ad immaginarseli mentre
attraversavano la strada pur di non calpestare il selciato che sua
madre aveva bagnato di sangue quasi un anno prima, bisbigliando tra
loro “Questa è la casa di quella cameriera che si
è buttata. Mio
padre dice che era una svitata e un'ubriacona”.
Ci
sarebbe rimasta male, la zia Angelica.
Magari
anche quell'anno aveva preparato i suoi sacchetti di biscotti da
distribuire a chi veniva a fare “dolcetto o
scherzetto”; sarebbe
andata a letto sfinita e triste, quella sera, se non si fosse
presentato nessuno. Ah, quanti biscotti avanzati si sarebbe potuto
mangiare, se solo gli avessero permesso di rimanere a vivere con la
zia!
L
cacciò quel pensiero dalla mente e si alzò di
scatto. Gli altri
bambini erano già quasi tutti vestiti e stavano uscendo
ordinatamente dal dormitorio.
Si
trascinò controvoglia verso i cassetti del comodino e prese
la
propria uniforme. Se fosse rimasto a vivere con la zia, non importa
quante cose lei gli avrebbe insegnato, non importa quanti libri gli
avrebbe portato dalla biblioteca, L non avrebbe mai imparato tutto
ciò che era riuscito ad imparare in quei mesi. Alla Wammy's
House
vigeva una rigida disciplina, e i compagni lo avevano preso di mira
sin dal primo giorno; i livelli di competitività e lo stress
erano
altissimi, ma L non credeva ci fosse al mondo luogo più
adatto per
mettere alla prova le proprie capacità.
Si
era sempre sentito fuori posto, sin da quando ne aveva memoria. Ma
pensava fosse meglio sentirsi fuori posto alla Wammy's House, dove
tutto ciò che contava erano l'intelligenza, la logica,
l'intuito,
piuttosto che provare la stessa sensazione in qualsiasi altro luogo.
Dove non sarebbe stato un re. Dove avrebbero potuto definitamente
schiacciarlo.
Uscì
dal dormitorio mentre si abbottonava malamente la giacchetta, di
pessimo umore.
Non
fu tuttavia l'ultimo a giungere in mensa; i ragazzini e le ragazzine
arrivavano quasi sempre quando tutti i più piccoli avevano
finito di
mangiare, per cui c'erano ancora dei posti a sedere.
Scrutò
la sala con una rapida occhiata per individuare la zazzera di capelli
di rossi di Clarence... O J, come aveva deciso di farsi chiamare. Era
da un bel po' che lui e il suo gruppetto di amici non gli mettevano
le mani addosso, ma non voleva rischiare proprio quel giorno di
ritrovarsi la faccia nella propria tazza di porridge d'avena per
essere entrato nel suo raggio visivo.
Eccolo,
seduto al tavolo più chiassoso della mensa. La madre di L
non gli
aveva mai permesso di uscire di casa né di andare a scuola,
perciò
L non sapeva esattamente come fossero le scuole normali, ma J
sembrava proprio il tipico bulletto dei film che passavano in TV.
Volse
lo sguardo altrove, cercando, questa volta, una chioma bianca su una
testa dritta, in mezzo a quella marea di capi chini.
-Se
cerchi K, non è ancora scesa.- disse una voce femminile alle
sue
spalle.
L
bambino si voltò. Le gote color caramello della bambina
sulla soglia
della porta dietro di lui si fecero rosse, mentre i suoi occhi neri
si abbassavano a guardare la punta delle scarpe, ma L
registrò il
dettaglio e lo classificò come non rilevante. Era Tara,
quella che
condivideva il letto a castello con K.
La
bambina si prese la lunga treccia di spessi capelli neri e
cominciò
a rigirarsela tra le dita con gesti nervosi.
-È
un po' di giorni che la vedo strana. Più strana del solito,
ecco.
A-aspetta, non volevo dire che...- si corresse, arrossendo di nuovo.
Poi lasciò andare la treccia e riprese. -Ha detto che
sarebbe andata
direttamente a lezione, senza fare colazione.-
Prese
un po' di coraggio e alzò lo sguardo, mentre L continuava a
guardarla inespressivo e muto.
-Mi
ha chiesto di coprirla come al solito, stasera. P-per caso scappate
di nuovo?-
Tara
era una bambina incredibilmente intelligente, L glielo riconosceva,
ma le mancava lo spirito. Ammirava K, la sua indole ribelle e il suo
completo rifiuto delle regole, e probabilmente le sarebbe piaciuto
partecipare alle sue fughe... ma K riteneva che non sarebbe stata in
grado di sostenere la pressione e li avrebbe fatti scoprire; per
questo non la portava mai con loro, quando uscivano dalla Wammy's
House. E L pensava che avesse ragione.
-Non
mi ha detto nulla.- rispose invece, senza lasciare trasparire la
punta di risentimento che sentiva punzecchiarlo.
K
era l'unica, a parte il vecchio Wammy, a sapere che quello era il
giorno del suo compleanno. Non sapeva perché gliel'avesse
detto:
forse perché, tra tutte le persone in quell'istituto, era
stata
l'unica a comportarsi sempre in modo gentile nei suoi confronti;
forse era perché aveva, seppur controvoglia, accettato di
rimanere
accanto a lui la notte in quei periodi in cui passavano giorni
durante i quali i suoi incubi gli impedivano di dormire. Forse era
perché lei non gli aveva mai fatto domande.
Eppure,
ora si dava dello stupido per aver sperato che lei se ne fosse
ricordata.
Probabilmente,
quella sera sarebbe scappata dalla Wammy's House per andare a
Winchester e mescolarsi ai bambini che giravano per le strade a
chiedere dolcetti. Probabilmente, aveva ritenuto che lui non fosse
adatto ad una fuga del genere, che si sarebbe lamentato tutto il
tempo della confusione, del freddo, della troppa strada da fare. E L
pensò che avesse ragione.
E
così si era ritrovato escluso, proprio come Tara, che
continuava a
guardarlo, torcendosi le mani.
-Po-possiamo
sederci insieme, se vuoi.- disse infine, chinando il capo.
Ma
L era già uscito dalla mensa, con le mani in tasca e col suo
solito
sguardo cattivo negli occhi grigi.
Le
lezioni passarono più lentamente del solito, quel giorno, o
forse
era l'umore di L ad essere pessimo. Ringraziava solo il cielo di non
aver nessun corso in comune con J, quel giorno, o probabilmente non
avrebbe fatto nulla per evitare una eventuale rissa.
E
la cosa che lo rendeva più nervoso era il pensiero stesso di
essersela presa. Di essere giunto a dipendere così tanto da
un'altra
stupida mocciosa.
Non
le avrebbe più chiesto di aiutarlo a dormire quando gli
incubi di
sua madre che si gettava dalla finestra lo tenevano sveglio. Niente
più ninnananne al pianoforte o mormorate, niente
più finestre
lasciate aperte perché lei potesse entrare nel cuore della
notte per
prenderlo e scappare verso il ciliegio in riva al fiume. Soprattutto,
giurò che non avrebbe mai più dormito con lei,
perché lei
scacciasse i suoi incubi.
Pensava
a tutto questo mentre prendeva a calci una cartaccia trovata sul
pavimento di ritorno al dormitorio, con le mani in tasca e la schiena
curva.
Aprì
la porta con più energia di quanto fosse necessario, facendo
voltare
tutti i bambini che si stavano cambiando per la cena, e andò
dritto
verso il suo lettino, l'unico singolo in mezzo a tutti i letti a
castello, e vi su buttò di pancia, vestito, deciso a dormire
fino al
giorno dopo. Prima, però, si alzò quel tanto che
bastava a mettere
il chiavistello alla finestra.
Il
vociare dei bambini intorno a sé continuò per un
po', poi vi fu
silenzio e buio. Ma L non riuscì ad addormentarsi. Sentiva
le
lancette dell'orologio da muro battergli nelle tempie, tanto che si
alzò e andò alla libreria del piccolo dormitorio
a cercare qualcosa
da leggere.
Ogni
dormitorio aveva di norma quattro letti a castello, disposti sui due
lati, ma nel suo avevano aggiunto anche il lettino singolo sotto la
finestra, per cui lo spazio, già esiguo, era ancora
più ridotto. La
libreria aveva otto scaffali, uno per ogni bambino, per cui i suoi
libri erano stati messi in cima ad essa. Usò, come suo
solito, uno
dei bauli dei suoi compagni e una sedia per arrampicarsi fin
lassù e
prendere “Uno scandalo in Boemia”,
il suo racconto
preferito di Conan Doyle, e un eserciziario di fisica.
Il
dormitorio non era stato pensato per permettere agli studenti di
studiarvi, difatti non c'erano scrivanie, e nemmeno abaj-jour sui
comodini: per cui L accese l'unica fonte di luce della stanza, il
lampadario, per approfittare di quei momenti di calma.
Si
infilò sotto le coperte quando sentì i suoi
compagni tornare,
cercando di ignorare i brontolii del proprio stomaco, che non aveva
toccato cibo per tutto il giorno. Contava di aspettare che tutti si
fossero addormentati per mettersi a leggere alla finestra,
approfittando della luce dei lampioni nel parco della tenuta, ma,
senza rendersene conto, scivolò in un sonno senza sogni.
Si
svegliò di soprassalto al sentire il familiare ticchettio
sul vetro
della finestra, e, d'istinto, si scoprì per aprirla,
ricordandosi
soltanto a metà del gesto del suo giuramento di non lasciare
mai più
entrare K. Era già deciso a dipingersi sul volto
l'espressione più
contrariata che gli riuscisse per mandare via la mocciosa e
tornarsene a letto, ma rimase interdetto a vedere una figura vestita
con un lungo abito nero e capelli corvini guardarlo con un ghigno
soddisfatto. La riconobbe soltanto dagli occhi rossi.
Tolse,
suo malgrado, il chiavistello alla finestra.
-Già
a letto, piccolo Sherlock?- gli domandò lei, divertita.
-Sei
andata a festeggiare Halloween?- grugnì lui, guardandola
storto. -Da
cosa sei vestita?-
-Morticia
Addams, ovviamente. Perché sono pallida e spettrale.-
rispose lei,
aggrappandosi al davanzale della finestra. Il cornicione che correva
sotto le finestre dei dormitori maschili al secondo piano era
abbastanza largo perché lei riuscisse a camminarci senza
problemi,
ma L continuava a pensare che fosse una pazzia che la bambina
corresse rischi del genere così di frequente.
K
si tirò su e saltò sul letto del bambino,
chiudendosi la finestra
alle spalle. Una testa si mosse nella penombra: era Quentin, il
prodigio del calcolo matematico.
-K,
fa' un po' meno rumore quando entri.- bisbigliò,
socchiudendo appena
gli occhi color nocciola. -Qui noi vogliamo dormire, a differenza
vostra.-
Nessuno
in quel dormitorio avrebbe mai osato riferire delle visite notturne
di K o delle fughe di L; questo perché tutti avevano paura
di K.
Tranne Quentin. A Quentin sembrava non importasse nulla degli altri.
Per questo a L piaceva.
K
congiunse le mani in segno di scusa rivolta verso il letto di
Quentin, poi afferrò L per una mano e lo trascinò
fuori dal
dormitorio.
Poco
male, pensò il bambino; non appena fossero stati in un posto
più
tranquillo, non avrebbe aspettato che quella svitata di K gli
raccontasse tutte le fantastiche avventure vissute quella sera. Le
avrebbe detto che era stufo di lei, delle sue pazzie e delle sue
fughe, e che sarebbe stato meglio per entrambi farsi ognuno i fatti
propri.
La
bambina trattenne il respiro, sicuramente per riuscire a sentire
meglio i rumori circostanti, infine fece cenno a L di seguirla
attraverso il solito percorso sulle assi del pavimento che non
scricchiolavano. Gli fece strada fino al ripostiglio delle scope, poi
estrasse il passepartout che aveva rubato mesi prima alla povera
custode, al culmine di un piano minuziosamente studiato da entrambi
per settimane.
Aprì
la porta e lo fece entrare per primo, poi si chiuse la porta alle
spalle. Infine estrasse una torcia che aveva rubato chissà
dove e se
la puntò sotto il mento.
-Non
sono spaventosa?- bisbigliò, tentando di alterare la sua
vocina da
fringuello.
-Sei
una rompiscatole.- rispose lui, continuando a tenere il broncio.
Lei
spalancò gli occhioni rosati e appoggiò la torcia
a terra.
-Credevi
mi fossi scordata di oggi?- domandò, con voce fintamente
ferita.
-Uomo
di poca fede!- aggiunse in modo teatrale, chiudendo gli occhi e
portandosi una mano al petto e una sulla fronte, rovesciando indietro
la testa. -Se penso a tutto quello che ho fatto per te!-
-Dacci
un taglio.- borbottò lui. -Hai frainteso. Penso solo che non
sono
più un bambino, e tu non dovresti esserlo più da
tempo, invece
guarda come ti sei conciata.-
Per
tutta risposta, lei gonfiò le guance in modo plateale.
-Ho
recuperato questo vestito da sera dalla professoressa Heatwick, e non
sai che fatica ho fatto a cercare di non rovinarlo! Se scopre che
l'ho preso dalla lavanderia è la volta buona che mi ammazza.-
Poi
si tolse dalla testa la parrucca nera, rivelando una coppia di trecce
bianche all'olandese sotto.
-Questa...
è mia, invece. Non posso dirti perché ce l'abbia,
in realtà.-
Se
la rigirò tra le mani, e poi la appoggiò su uno
scaffale.
-In
realtà era castana, ma l'ho colorata di nero con della
fuliggine
fissata con la lacca. Bel lavoro, eh?-
Sorrise
nel buio dello sgabuzzino, poi si voltò e prese la sua
logora sacca
scura, dalla quale estrasse una manciata di cioccolatini.
-È
una fortuna che tu compia gli anni il giorno di Halloween. Non avrei
soldi per comprarti una torta, ma in qualche modo sono riuscita a
procurarti dei dolci.-
L
guardava incantato la carta lucida dei cioccolatini che sembrava
risplendere alla debole luce della torcia, e si decise infine ad
allungare due dita per prenderne uno.
-Sono
per me?- domandò curioso, alzando il dolcetto ed
esaminandolo da
vicino.
-Certo
che sono per te!- rispose K, rimettendo il contenuto della mano
bianca nella sacca per poi avvicinarla al bambino. C'erano anche
alcune tavolette di cioccolata, delle caramelle e dei lecca-lecca; L
non ricordava di aver mai visto tanti dolciumi tutti insieme: sua
madre non gliene lasciava mangiare, e sua zia preferiva preparargli
torte o biscotti da passargli di nascosto, piuttosto che prendergli
quei dolcetti che “chissà cos'avevano
dentro”.
-Diventerò
il bambino grasso da prendere in giro, se mi mangio tutta questa
roba.- disse infine, continuando ad esaminare il cioccolatino
incartato che teneva tra le dita con occhi famelici.
K
rise sotto i baffi, poi rovistò ancora nella propria sacca
ed
estrasse una scatola di fiammiferi.
-Usi
tanto il cervello, brucerai un sacco di glucidi, no? Non penso
qualche cioccolatino ti farà male. E poi so che detesti
tutto quello
che ci danno da mangiare qui, perciò ho pensato che potessi
tenerti
una scorta di qualcosa di buono da mangiare di tanto in tanto.-
Poi
accese il fiammifero.
-Esprimi
un desiderio, fratellino.-
L
la guardò interrogativo.
-Fratellino?-
-Beh...-
rise ancora lei. -Sei praticamente il mio fratellino, no?-
Coprì
la fiamma con una mano bianca.
-Ho
deciso di prendermi cura di te. Mi fa... sentire meglio.-
E
pronunciando quelle parole abbassò lo sguardo, ed un sorriso
triste
prese posto sulle sue labbra.
-Si
sono occupati di me per tre anni dopo che... sono rimasta orfana. Ma
non mi sono mai sentita così bene come quando scappiamo
insieme... o
quando mi occupo di te. Forse sarà egoista, ma... mi sarebbe
piaciuto avere un fratello o una sorella. E con te mi sento meno
sola.-
Estrasse
quindi un nuovo fiammifero e ne accese la punta di zolfo con quello
che teneva in mano, che si era ormai consumato fino quasi alla base.
-Ok,
ora esprimi un desiderio e soffia.-
La
fiamma novella traballava nella semi oscurità, mentre L
pensava che,
dopotutto, forse K aveva ragione. Era un fratellino che lei stava
viziando. E sebbene a L l'idea della famiglia non fosse mai piaciuta
più di tanto, doveva riconoscere che aveva sempre voluto
essere
viziato.
Per
cui, forse, andava bene anche così. Lui avrebbe continuato a
farsi
viziare, e K avrebbe combattuto i propri demoni e la propria
solitudine occupandosi di lui come un fratellino.
Chiuse
gli occhi a mandorla e soffiò sul fiammifero acceso.
-Buon
compleanno, L.-
Però
era contento per i dolci. Avrebbe voluto dirlo a K, ma non era mai
stato bravo a parlare di certe cose.
Note
Non
sono morta!
Purtroppo,
però, il blocco continua. Ho ricominciato il capitolo 19 di November
un sacco di volte, continuo a cancellare e a riscrivere. Nel
frattempo, ho buttato giù alcune bozze di ciò che
accadrà più
avanti nella storia, e ho fatto una scaletta completa degli episodi
di Before. Ho deciso che non li
pubblicherò in ordine
cronologico; appena ne avrò finito uno lo
pubblicherò, altrimenti
credo che non finirò mai più nemmeno questo
prequel.
Riguardo
a questa OS: ovviamente mi sono immaginata sia l'interno della
Wammy's House, sia le sue regole e i suoi insegnanti. I dormitori,
mentre li descrivevo, mi hanno ricordato in parte quelli di Hogwarts
e in parte quelli di Hailsham (del romanzo Never Let Me Go
di Ishiguro), ma probabilmente descriverò tutta la struttura
nel
dettaglio in una OS che precede cronologicamente questa.
Un
appunto sul titolo: ovviamente, si riferisce sia ai dolcetti, sia al
momento di tenerezza di K nei confronti di L. Il motivo che sta
dietro a certe mie scelte lessicali è che mi immagino gran
parte dei
dialoghi in inglese, essendo la lingua in cui si esprimono L, K,
Bjarne e gli altri OC quando parlano tra loro, e solo in seguito li
traduco in italiano. In certi casi riesco a mantenere lo stesso senso
anche traducendo in italiano (ci sono alcuni giochi di parole nelle
OS di Before che
vorrei segnalarvi di volta in volta), ma, in questo caso, ho
preferito lasciare il titolo in inglese perché mi sembrava
suonasse
meglio.
Dal
momento che ho deciso di creare una romance per L, ho vissuto fin
dall'inizio di queste fanfiction il terrore di cadere troppo
nell'OOC; per tentare di giustificare le mie scelte, pertanto, ho
pensato che gli episodi dell'infanzia e dell'adolescenza di L fossero
cruciali per spiegare il perché della mia scelta. Non
è mai stata
mia intenzione snaturare L; quello che L è in November
deriva
dalla mia interpretazione del suo passato. Ho immaginato le sue
origini, la sua infanzia, i suoi traumi, ho creato una spiegazione
per il suo nome, per il fatto che non dorme, per la sua ossessione
per i dolci, perché indossa sempre quei vestiti e anche
perché va
sempre in giro scalzo e ha quei capelli fin da bambino (ci
arriveremo...). In pratica, ho tentato di esplorare gli stessi
aspetti che hanno costruito la sua identità, così
come ho fatto con
gli altri miei OC. Ovviamente questo mi ha portato un po' all'OOC,
purtroppo, ma è anche il motivo per cui trovo più
difficile rendere
Light, Misa o gli altri personaggi canonici rispetto a quanto non lo
sia rendere L e i miei OC. Probabilmente dipende dal fatto che non mi
sono “appropriata” anche del passato degli altri,
non l'ho
ricostruito.
L
da bambino me lo immagino molto come Near, anche perché ben
prima di
partorire questa fanfiction ho sempre pensato che Near avrebbe
tranquillamente potuto essere suo figlio. Lo vedo oscillante tra la
tristezza o la solitudine e la “cattiveria” che L
canonicamente
dice di vedere negli occhi di Near. Spero di riuscire ad elaborarne
meglio il carattere nelle altre OS.
Un
grazie sentito a chi mi legge, e scusate ancora se non riesco ad
andare avanti con la storia principale!
|
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Capitolo 4 *** 24 dicembre 1983 - Christmas Story (Parte I) ***
24
dicembre 1983
Christmas
Story – Parte I
Quell'anno
i genitori di Bjarne avevano voluto che arrivasse al paesino sperduto
a trenta chilometri da Prineville, in Oregon, dove vivevano i suoi
nonni materni, con qualche giorno d'anticipo. Lui, d'altro canto, ne
avrebbe volentieri fatto a meno. Certo, erano sempre stati gentili
con lui, questo non poteva negarlo, ma sentiva che c'era qualcosa di
strano nel loro sguardo, a volte, una sorta di distacco, di
estraneità che sentiva ferirlo nel profondo.
Capitava
specialmente nei momenti in cui tutta la famiglia Jordan si riuniva
per le grandi occasioni e la nonna andava a rispolverare i vecchi
album fotografici. Oh, Jacob, quanto somigli allo zio Arnold! E tu,
Lisa, sei identica alla tua bisnonna da giovane! Eppure, non c'era
alcuna foto di alcun parente in cui poter riconoscere alcuni dei
tratti del volto di Bjarne, ed era in quei frangenti che gli sguardi
dei suoi parenti si facevano sfuggenti, calava un imbarazzante
silenzio e la nonna richiudeva velocemente l'album lamentando il
fatto che la polvere peggiorasse la sua asma.
A
Bjarne non importava di essere stato adottato. Ma odiava quando per
gli altri questo si rivelava essere un argomento tabù. Come
se ci
fosse qualcosa di sbagliato; o di vergognoso.
Però
il ragazzino era abbastanza ottimista; ai nonni serviva solo altro
tempo. Era già stato un duro colpo il primo divorzio della
mamma dal
reverendo Bryce, che aveva gettato la famiglia nell'infamia agli
occhi dei benpensanti della loro parrocchia; una donna sterile non
era una vera donna, non potendo assolvere al suo unico compito:
sfornare figli.
Ci
avevano messo non poco a superare la paura di farsi vedere in
pubblico, avendo ereditato da generazioni e generazioni passate il
terrore del giudizio altrui. E certo, l'arretratezza mentale degli
altri membri della sua famiglia materna non aiutava.
-Barney!-
lo chiamò con voce abbastanza seccata una prozia da parte
della
famiglia della nonna, che però era anche una lontana cugina
dalla
parte della famiglia del nonno. Il ragazzino avrebbe volentieri finto
di non aver capito che si stava rivolgendo a lui, come faceva di
solito, ma pensò fosse meglio evitare di alimentare la
tensione che
era già palpabile da ore in quella grande casa di periferia.
-Sì,
zia Becca?- rispose, alzando il mento dal davanzale della finestra
dal quale stava osservando i giochi di luci delle decorazioni della
casa di fronte.
-Sono
arrivati i tuoi parenti, valli ad aiutare a scaricare.- disse la
donna alzando la voce, per sovrastare il trambusto dei propri figli
che correvano per la casa giocando con animaletti fatti di pan di
zenzero.
Bjarne corse alla porta, la aprì e le
sue guance rosee furono investite da una folata di vento gelido.
-Ciao zia Beth! C'è anche lo zio
Javier?-
La sorella di sua madre si tirò la
sciarpa fin sopra al naso, ma Bjarne poteva vedere che gli stava
sorridendo dal luccichio negli occhi castani. Lasciò aperta
la porta
per andare a prendere il cesto di Natale che stava reggendo con una
mano già rossa e un po' squamata dal freddo, mentre, poco
più in
là, un ragazzino pagava il tassista e controllava il proprio
borsone.
-Ciao tesoro!- esclamò la zia,
allungando istintivamente una mano verso i capelli biondo platino del
nipote, fermandosi a metà del gesto, esitante.
-Fai pure, non mi dà fastidio.- le
sorrise Bjarne, prendendo il cesto e allungando il collo per darle un
bacio sulla guancia.
-Ciao Chris!- urlò poi al ragazzino
imbacuccato fino alle orecchie che stava risalendo il vialetto.
-Quest'anno festeggerai un autentico Bianco Natale. Non sei
contento?-
Sentì Chris ridere da sotto lo
sciarpone
di lana che gli copriva praticamente tutta la faccia, lasciando
scoperti solo gli occhi smeraldini.
-Javier
non c'è.- rispose infine la zia Beth, allungando il passo
verso la
porta aperta. -Sai, l'ha chiamato ieri sera un tizio dicendo che
aveva provato a prenotare la cena di Natale in qualche ristorante, ma
era tutto prenotato. Il ventitré dicembre, ti rendi conto? E
quindi
voleva fare la cena a casa sua, ma ovviamente...-
-La casa aveva bisogno di un'imbiancata.-
concluse Bjarne, con una mezza smorfia.
Entrarono tutti
in casa e si chiusero la
porta alle spalle.
-Nemmeno io mi fermerò a lungo,
comunque.- aggiunse la zia, cominciando a togliersi l'elegante
sciarpa di lana e il lungo cappotto nero, rivelando una figura
slanciata e abiti di tale buon gusto che avrebbe fatto morire
d'invidia la zia Becca, non appena si fosse affacciata dalla cucina
per mugugnare un saluto.
-Domani sera ho un volo
trans-continentale.- aggiunse, sospirando, mentre percorreva a passo
leggero il parquet dell'ingresso senza fare rumore coi lucidi
stivaletti neri. -Mi auguro che sia completamente vuoto, o che i
passeggeri siano troppo depressi per il fatto di dover viaggiare la
sera di Natale per chiamare gli assistenti di volo ogni cinque
minuti.-
-Dove sono i nonni?- domandò allora
Chris, emergendo dai suoi vestiti pesanti. -Ah, e a proposito di
questo; il prossimo anno voglio di nuovo festeggiare il Natale dagli
altri nonni in Costa Rica. Ne ho abbastanza di freddo gelido e
parenti acidi e razzisti.-
-C'è posto anche per me?-
ridacchiò
Bjarne, raccogliendo le giacche.
A Bjarne Chris
stava simpatico, anche se
non lo vedeva molto spesso. La zia Beth era hostess, per cui molto
spesso lavorava durante le feste. Chris spesso ne approfittava per
farsi qualche breve viaggio in qualche città con sua sorella
maggiore Rosario coi biglietti procurati dalla mamma. Era molto
sveglio, Chris. Bjarne lo condusse nella grande mansarda che era
stata allestita con materassi in ogni angolo per i nipoti, e gli
indicò il suo posto letto.
Il ragazzino appoggiò il proprio
borsone
ai piedi del materasso e si stiracchiò.
-Credo ora dovremmo scendere.- gli disse
Bjarne, guardandolo con espressione compassionevole.
-Dobbiamo proprio?- sbuffò Chris, ma
si
voltò e si diresse comunque verso la scala a pioli.
La cucina era un disastro totale, la zia
Becca e altre due vecchiette, il cui grado di parentela non era mai
stato meglio identificato, si affollavano attorno al tavolo su cui
faceva bella mostra un tripudio di piatti a base di carne e di
patate, luccicanti sotto il grasso che li ricopriva.
-Zie?- provò ad attirare la loro
attenzione Bjarne. -Zie... ci sono la zia Beth e Chris... possiamo
aiutarvi?-
Il continuo sbraitare delle donne si
smorzò per un attimo. Una delle due cariatidi, anche lei
chiamata
Anne, come sue madre, lanciò un'occhiata storta ai due
ragazzini e
disse, seccata: -Non ci serve l'aiuto di due ragazzini. Se volete
rendervi utili, andate a chiamare Elizabeth e ditele di venire a dare
una mano in cucina. Oppure è troppo donna di mondo ormai per
sporcarsi le mani?-
Bjarne sentì il cugino fremere alle
sue
spalle, così si voltò di scatto, lo
afferrò per un braccio e lo
trascinò via, dicendo: -Certo, zia Anne, vado subito.-
Appena fuori dalla portata delle orecchie
radar delle zie, Chris si scrollò il cugino di dosso.
-Non ti agitare.- gli disse Bjarne. -Sei
arrivato da cinque minuti. Sai quante ne ho dovute sorbire io, da
quando sono qui?-
-Vorrei tanto sapere come fai a
sopportare questa gente. Non ti ricordi tre anni fa, quando uno dei
pronipoti è venuto alla cena della vigilia per presentarci
la
moglie? Quand'è arrivato a presentare noi lei ha detto
“Ah, ma
quindi non siete ehm... di colore!”. L'ha
detto con un tono
che non mi è piaciuto per nulla, come se si sentisse
sollevata.-
Stava stringendo i pugni. Bjarne si
diresse verso la porta che dava sul retro della casa, mentre
sussurrava: -Non credo prendersela serva a qualcosa. Molti di loro
non lo fanno per cattiveria.-
Si sedettero entrambi sulla panca sulla
veranda, e Bjarne prese la spessa coperta di lana perché
potessero
coprirsi.
-Molti di loro non sono nemmeno mai
usciti dalla contea di Cook. Prineville per loro è il
massimo centro
di civiltà... sono di mentalità ristretta, sono
bigotti, ma non ci
vogliono realmente male.-
Chris rimase per un attimo in silenzio a
pensare.
-Tranne la zia Becca e le prozie
zitelle.-
Bjarne rise, e il suo respiro si
trasformò immediatamente in condensa nella fredda aria di
quel
dicembre che prometteva neve.
-Tranne loro. Ma loro sono acide e
maleducate con chiunque, quindi fossi in te non lo prenderei sul
personale.-
La cena
cominciò alle sei. Il marito
della zia Becca, Joshua, quello della ditta di legname, aveva
fabbricato anni addietro una tavolata componibile a ferro di cavallo
abbastanza grande da poter accogliere tutti i parenti (o, almeno,
tutti gli adulti) nel salone grande della casa dei nonni. Bjarne e
Chris speravano ogni Natale di essere diventati abbastanza grandi da
essersi guadagnati il privilegio di sedere a quel tavolo, e quello fu
finalmente l'anno buono: c'erano due segnaposto scritti con
l'inconfondibile calligrafia curata ed elegante della nonna, di
fianco alla zia Beth, che inutilmente si stava offrendo di aiutare le
donne di famiglia a servire le portate.
Purtroppo, sedersi al tavolo degli adulti
comportava anche una delle più crudeli delle torture mai
inflitte
all'uomo: le domande sulla tua vita e sul tuo futuro, e l'accesa
competizione tra nipoti per dimostrarsi i più degni di lode
della
famiglia. Dopo venti minuti passati a sentir parlare del nuovo lavoro
della cugina Mary e degli studi del cugino Simon
all'università
dell'Oregon, nel trambusto generale si udì la voce di Chris
dire: -A
me piacerebbe andare a Stanford.-
Tutti gli occhi si voltarono verso il
ragazzino, che si stava servendo una seconda porzione di patate
arrosto, con lo sguardo fisso sul piatto.
-Wow, Chris!- esclamò Bjarne,
sorridendo. -Hai già le idee chiare?-
Anche la zia Beth sorrise.
-Già. Ha preso molto sul serio la
cosa,
si sta impegnando molto a scuola e ha già cominciato a fare
molte
attività extracurricolari.-
-Vorrei seguire le orme di mio padre.-
riprese allora il ragazzino, rivolgendosi a Bjarne.
-Da quando bisogna andare a Stanford per
diventare imbianchini?- borbottò la zia Becca, ripulendosi
le labbra
col tovagliolo bianco ricamato.
Bjarne notò come il cugino iniziava ad
irrigidirsi, e come le pupille si stavano stringendo negli occhi
verde smeraldo, e sarebbe stato pronto ad intervenire, ma il nonno
fece cadere le posate nel proprio piatto in quell'esatto momento,
provocando un fastidioso rumore che fece di nuovo voltare tutti.
-Il padre di Chris era avvocato, in Costa
Rica.- disse come se nulla fosse, raccogliendo le posate senza
degnare la parente impicciona di un ulteriore sguardo.
-Bravo, giovanotto.- fece poi, rivolto al
nipote. -Il duro lavoro ripaga.-
Ma Chris era nervoso da ore, e
quell'ultima uscita infelice non aveva fatto altro se non buttarlo
ancora più giù. Si alzò dal tavolo con
una scusa e corse via,
sollevando un diffuso mormorio nell'intera sala. Bjarne
lanciò
un'occhiata alla nonna, che si guardava intorno con la sua solita
espressione spersa e spaurita, ammutolita e dispiaciuta per come le
cose erano precipitate. Di nuovo. Il nonno
sospirò e tornò a
fissare il proprio piatto, troppo stanco per rimettere ordine.
Il ragazzino pose
allora una mano sulla
spalla della zia Beth, che ora si reggeva la testa mollemente con una
mano, i gomiti appoggiati incuranti sul tavolo, e seguì il
cugino.
Lo trovò che camminava svelto in mezzo
alla strada, mentre ancora si infilava il giaccone e la sciarpa
pesanti, respirando affannosamente e prendendo a calci qualunque cosa
si trovasse di fronte. Bjarne lo raggiunse di corsa, e rimase
lì,
tenendo il suo passo, in silenzio, mentre Chris continuava a
camminare veloce e senza meta. Arrivarono ai confini del paese, dove
la strada si faceva più ripida e cominciava a salire verso
le
colline, prima che il ragazzino cacciasse un urlo carico di rabbia e
frustrazione. Si buttò poi sul ciglio della strada,
tenendosi la
testa tra le mani.
Bjarne gli si sedette di fianco.
-Ti avevo detto di non prendertela sul
personale.- disse, alitandosi sulle mani arrossate dal freddo.
-Sono sedici anni che mi tocca sopportare
frecciatine o insulti perché sono latino.-
ribatté Chris,
alzando la testa e battendo le mani sulle ginocchia. -Quelli guardano
dall'alto in basso mio padre perché è straniero.
Lo chiamano
“colombiano”, a casa, in California, ma qui
è addirittura
peggio. Per loro è messicano. Per loro lui non vale nulla,
non può
essere in grado di fare nulla, per loro è stupefacente che
sappia
parlare perfettamente inglese. Loro! Che sono dei bifolchi!-
-Sfondi una porta aperta.- disse Bjarne,
volgendo lo sguardo verso il paese alle loro spalle. -Perché
credi
che mia madre non venga praticamente mai alle cene di famiglia
così
allargate? Qui in paese la trattano come un'appestata perché
ha
divorziato dal reverendo Bryce.-
Si rivolse di nuovo verso Chris.
-Tua madre è diventata hostess e ha
deciso di viaggiare, ha conosciuto un uomo in un paese lontano e
s'è
sposata. Mia madre era sterile. Dobbiamo ritenerci fortunati che
siano nate nel ventesimo secolo, o le avrebbero messe entrambe al
rogo per stregoneria. Anche se, in quel caso, noi non saremmo qui,
quindi non dovremmo subirci i parenti. Dici ci è andata
male?-
Chris rise piano, e incrociò le gambe,
rivolgendo finalmente lo sguardo al cielo terso illuminato dalle
stelle.
-Sei troppo buono, Bjarne. Sei davvero
figlio della zia Anne.-
Rimasero entrambi in silenzio a guardare
il cielo, mentre un vento freddo soffiava dalle colline verso il
paese.
-Scusami se sono intrattabile. Ma vedi...
Rosario ormai non torna più a casa, credo presto si
trasferirà
definitivamente all'estero. Mia madre è sempre fuori per
lavoro, e
mio padre soffre. Lo vedo, ogni sera quando torna a casa. Vorrebbe
che mia madre non dovesse lavorare anche nei giorni di festa,
vorrebbe che facesse soltanto le tratte nazionali per permetterle di
stare a casa più spesso. Vorrebbe avessimo più
tempo per stare
insieme... ma come si fa? Lo pagano una miseria, e lui è
frustrato
perché sa di poter fare molto di più.-
Sospirò.
-In questo periodo alla TV si vedono solo
film natalizi e si sente solo parlare di buoni sentimenti, di
desideri e miracoli di Natale. Sai cosa vorrei per Natale?-
domandò
poi, stringendosi la sciarpa attorno al collo. -Vorrei che mio padre
potesse fare un lavoro che gli piace, che lo faccia sentire
realizzato. A lui piaceva davvero fare l'avvocato; forse è
anche per
questo che ora voglio entrare a Stanford.-
-Lo zio Javier sarebbe felicissimo se ci
riuscissi.- disse allora Bjarne. -Ma non credo vorrebbe che tu ti
sentissi obbligato.-
-Tu hai un desiderio per Natale?- gli
domandò il ragazzino.
Bjarne sollevò un angolo della bocca
in
un sorriso storto.
-Quand'ero piccolo e credevo ancora nella
magia del Natale, speravo ogni anno di avere un fratellino o una
sorellina.-
Si strinse nel giaccone, mentre un
brivido gli percorreva la schiena.
-Avevo quattro anni quando i miei mi
hanno detto che ero stato adottato. E me l'hanno detto
perché
continuavo a dire che volevo un fratellino o una sorellina. Mi hanno
dovuto spiegare che non potevano avere figli, mi hanno dovuto
spiegare vagamente da dove arrivano i bambini, e che per avere un
fratellino avrebbero dovuto chiedere di prendere un bambino rimasto
senza mamma e papà. È stato un Natale...
particolare.-
Risero entrambi, mentre la luce che
illuminava le loro teste si affievoliva, coperta da nubi grigie
trasportate lì dal vento.
-In realtà, un po' continuo a
sperarci.
Ma so che è inutile.-
-I tuoi pensano di essere troppo vecchi?-
domandò Chris.
-Non so se lo sai, ma a mia madre
rifiutarono un'adozione normale perché la consideravano
mentalmente
instabile. Sai, perché dopo che scoprì di essere
sterile e il
reverendo Bryce la ripudiò e chiese il divorzio, lei
tentò il
suicidio. Poi conobbe mio padre, proprio una vigilia di Natale,
lavorando alla mensa per i poveri, come ogni anno. Lui viveva a
Portland, e quell'anno mia madre decise di andare lì a fare
volontariato, per evitare gli sguardi penosi della gente che invece
le avrebbero rivolto qui. Lavorarono insieme e poi rimasero tutta la
notte a parlare. Cominciarono a frequentarsi, e lui le disse che non
gli importava che fosse sterile, perché avrebbero potuto
adottare
bambini bisognosi. Quindi, quando le rifiutarono la
possibilità di
adottare perché non la consideravano idonea, fu un altro
duro
colpo.-
Si alzò in piedi, battendo un po' di
denti, e si mise a saltellare sul posto per riscaldarsi.
-Infatti non raccontano molto spesso di
come mi hanno adottato perché non è stata una
cosa molto... legale,
ecco. Andarono in Inghilterra per seguire una terapia alternativa per
la fertilità, e incontrarono una ragazza incinta che voleva
dare il
bambino in adozione. Beh, anche mio padre ha studiato da avvocato,
anche se fa il consulente legale per gli ospedali. Quindi, insomma...
è così che mi hanno avuto. E questo è
parte del motivo per cui
chiedere un secondo bambino in adozione è sempre stato
così
difficile.-
Anche Chris si
alzò da terra e cominciò
a muoversi per riscaldarsi. Poi gli fece cenno con la fronte, dal
momento che teneva le mani in tasca e il suo viso era quasi
interamente inghiottito dallo sciarpone, perché tornassero
indietro.
-Tuo padre non è fatto per lavorare
nella sanità privata.- disse ad un tratto, mentre allungava
il passo
verso le stradine illuminate dalle luci di Natale. -È troppo
buono.
Siete tutti troppo buoni. Sembrate finti.-
Bjarne rise.
-Dovrebbero mettersi in società, mio
padre e il tuo.- disse. -Se avesse un suo studio ed esercitasse come
avvocato, mio padre non verrebbe continuamente trasferito di ospedale
in ospedale perché lo beccano a cercare di far passare gente
che non
ha l'assicurazione. E tuo padre potrebbe cominciare a mettere da
parte qualche spicciolo per pagarti i debiti che ti farai ad andare a
Stanford.-
L'aria sembrava più calda, e la notte
meno buia, ora che stavano tornando sui loro passi.
-Mmm... Ascolta, Chris.- riprese ad un
tratto Bjarne, fermandosi alla vista della chiesa del paese. -Il
reverendo Bryce a quest'ora fa distribuire cioccolata calda. Andiamo
a trovarlo?-
Il ragazzino fece spallucce, col viso di
nuovo semi nascosto nella sciarpa di lana e con le mani ficcate per
bene in tasca.
Si misero pertanto in coda fuori
dall'edificio antistante la chiesa evangelica, sfidando apertamente
con lo sguardo chiunque li fissava con una certa insistenza, certi
che il motivo fosse la loro pelle leggermente più scura
della media
del posto. Quando fu il loro turno, fu Bjarne ad andare avanti,
esibendo il suo miglior sorriso.
-Reverendo Bryce! Buon Natale!-
esordì,
allungando una mano per stringergliela, mentre una signora di fianco
al pastore si stava avvicinando con un vassoio carico di bicchierini
di plastica pieni di cioccolata calda.
L'uomo squadrò i due bambini con una
rapida occhiata, intuendo immediatamente chi fossero (il paese era
piccolo, le sorelle Jordan avevano fatto un certo scandalo, e un
figlio latino e uno adottato e nero per un quarto non passavano certo
inosservati), pertanto cercò di stamparsi in volto ancora
una volta
il sorriso di circostanza che stava ormai esibendo stancamente da
tutto il giorno.
-Ah!- disse, ricambiando la stretta di
mano. -Siete i nipoti dei Jordan, vero? Portate i miei saluti a
casa!-
-Senz'altro!- esclamò Bjarne,
controllando con la coda dell'occhio che Chris avesse preso i due
bicchieri di cioccolata. -Ci tenevo a dirle, già che sono
qui, che
la ringrazio. Per la cioccolata, e perché, se non fosse
stato per
lei e per tutto quello che ha fatto... io ora non sarei qui.-
Si godette per un momento l'espressione
raggelata del reverendo, che aveva aperto appena la bocca, con gli
occhi strabuzzati, e il suo sorriso si allargò ancora di
più.
-Ancora buon Natale!- concluse, salutando
con una mano, e voltandosi per andare via.
Non appena
raggiunsero il cortile della
chiesa, Chris scoppiò a ridere sonoramente, per la prima
volta in
tutta la giornata, tanto che Bjarne dovette togliergli i bicchierini
di mano, per evitare che se li rovesciasse addosso.
-La sua faccia! Ah ah ah! Oddio!-
continuava a ripetere, piegandosi in due, mentre i passanti li
fissavano straniti.
-Sei un grande, Bjarne!- riuscì infine
a
dire, riprendendo fiato e afferrando la cioccolata che il cugino gli
stava porgendo.
-Forse è vero che sono tanto buono da
sembrare finto.- rise Bjarne, scaldandosi le mani col bicchierino.
-Ma non credere che mi lascerei mettere i piedi in testa tanto
facilmente. O che lascerei che qualcuno facesse del male alle persone
a cui voglio bene.-
-Magari potresti diventare anche tu
avvocato.- suggerì Chris, lasciando emergere il viso dai
suoi
vestiti pesanti per bere un sorso di cioccolata. -Andiamo a difendere
i deboli tutti insieme. Io, te, tuo padre e mio padre. Una famiglia
di emarginati. Sai che bella pubblicità? Faremmo soldi a
palate!-
Risero entrambi, mentre dal cielo
cominciavano a cadere grossi fiocchi di neve, e la campana suonava la
mezzanotte.
-Buon Natale, Bjarne.-
-Buon Natale.-
-Spero che i nostri desideri si avverino,
un giorno.-
-Lo spero anch'io.-
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