Before November 8th

di NicoRobs
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 16 settembre 1979 - Sogni di una notte di fine estate ***
Capitolo 2: *** 8 settembre 1984 - "Segui il profumo dei fiori" ***
Capitolo 3: *** 31 ottobre 1988 - Sweet Stuff ***
Capitolo 4: *** 24 dicembre 1983 - Christmas Story (Parte I) ***



Capitolo 1
*** 16 settembre 1979 - Sogni di una notte di fine estate ***


Before november 8th cap 1


16 settembre 1979


     Dublino, 16 settembre 1979.
Will, ancora a braccia conserte, alzò un sopracciglio, mentre abbracciava con lo sguardo la platea di studenti di fonte a lui, cercando però di incrociare tutti i loro occhi.
-Davvero nessuno che sappia rispondere a questa semplicissima domanda?- li incalzò, tamburellando la penna sul proprio braccio.
-Professore, la scongiuriamo...- piagnucolò una vocina dalla terza fila. Doveva essere quella di Aorghie, anche se non riusciva bene a distinguere il gruppo di ragazze semi addormentate che si nascondevano dietro la loro pila di libri. -È venerdì pomeriggio. Ci dia tregua!-
-E poi,- intervenne una voce maschile dalle ultime file, e questo era sicuramente Sean. -esiste davvero qualcuno che abbia letto Finnegans Wake?-
Tutta la classe scoppiò a ridere. Tranne Will. Will sciolse le braccia e, con un gesto secco, puntò la penna contro i banchi.
-Ha!- esclamò.
-Humphrey Chimpden Earwicker. Male, molto male, ragazzi.- continuò, scuotendo la testa con tono deluso. -Sarete ricordati come la vergogna del Trinity College nei secoli dei secoli. Nemmeno il protagonista di Finnegans Wake sapete.-
Ora stava tentando di arricciare i baffi rossi in quel modo tanto ridicolo che la sua classe adorava e, in effetti, poco dopo ricominciarono le risa.
-Via, via, vili marrani.- fece allora Will, facendo loro gesto di andarsene col dorso della mano. -Ci vediamo lunedì mattina. Lo so, lo so che domenica c'è la partita, ma sappiate che sono disposto ad andare a setacciare tutti i pub di Dublino e a trascinarvi per le orecchie fino in classe, se non vi presentate. E costringerò chiunque faccia tardi a declamare una poesia a tema patriottico di Seamus Heaney, scelta dalla classe, di fronte alle aule di Anglistica. Sean, è inutile che fai il finto tonto, tanto lo sanno tutti che sarai il primo della lista. Per te ho anche pronto un costume da leprecauno.-
Il vociare e le risa si stavano facendo più intense, mentre i ragazzi prendevano le loro borse e si alzavano dai banchi.
Will adorava il proprio lavoro, e anche i suoi ragazzi gli piacevano. Ci pensava ogni volta che concludeva in questo modo bizzarro le sue sfortunate lezioni di Letteratura Irlandese del venerdì pomeriggio.
     -Professor Kenton...- lo riscosse dai propri pensieri la voce della piccola e bionda Daisy, che si era avvicinata alla sua scrivania come faceva ormai quasi ogni giorno.
-Volevo dirle che anche oggi la sua lezione è stata così emozionante!- cinguettò la ragazza, fissandolo coi suoi enormi occhi azzurri. -Siamo davvero fortunati ad avere un professore in gamba come lei.-
-Grazie per avermelo detto anche oggi.- sospirò l'uomo, sistemando i propri libri nella valigetta nera di pelle. -Ma non era necessario. Sai, ho una buona memoria, non serve che mi fai i complimenti tutti i giorni.-
Ma la ragazza continuava a guardarlo sognante, torturando tra le dita bianche la cinghia della propria borsa. I suoi compagni e le sue compagne le passavano di fianco e ridacchiavano, così Will cercò di levarsi in fretta d'impiccio, per porre fine a quell'umiliante teatrino che si ripresentava ogni giorno.
Non era certo l'unico professore al Trinity College con una studentessa o studente che lo spasimava, ma Daisy era la tipica ragazza sognatrice, gentile e delicata che era in grado di chiudersi completamente nelle proprie fantasticherie; questo, purtroppo, voleva dire che da quell'orecchio non ci sentiva proprio. Inutile farle capire che il suo interesse non era ricambiato, era illegale e la stava mettendo in ridicolo di fronte ai propri compagni: ogni giorno lei tentava di fermarsi a parlare con lui, e ogni giorno lui diventava più brusco nel liquidarla.
     Will ogni tanto si stupiva del proprio successo con le donne: era un irlandese ordinario, non molto alto, capelli rossi faticosamente tenuti lisci e in ordine con una riga di lato, buffi baffi rossi, lentiggini e grandi occhi azzurri.
Si scosse un po' di polvere di gesso dal maglioncino verde scuro mentre prendeva impermeabile ed ombrello e si apprestava ad uscire dall'università.
Soprattutto, lo stupiva il fatto che un donna attraente come Freda non solo avesse accettato il suo timido invito ad uscire, ma se lo fosse addirittura sposato. Freda era... stupenda. Una scultura. Di ghiaccio. Certo, Will conosceva anche il suo lato tenero e affettuoso, la sua vena ilare e la sua giocosità, oppure non ci avrebbe messo su famiglia; nessuno dei suoi parenti aveva approvato la sua scelta, credevano che l'avesse scelta solo perché... come dirla in modo gentile... Freda era gnocca. Decisamente gnocca. Era anche mostruosamente intelligente, o non avrebbe vinto borse di studio su borse di studio e non sarebbe diventata il primo primario donna straniero della Repubblica d'Irlanda. Ma nessuno nota quanto sei intelligente quando sembri una modella nordica da prima pagina.
Però, ecco... Freda era fredda. Il suo nome derivava dal norreno Fríða, che significa “bellissimo, amorevole”, ma Will la prendeva sempre in giro dicendo che in realtà la radice era quella del latino frigĭdus, che significa “freddo”, e, tra le lingue romanze, in italiano l'aggettivo femminile suonava proprio come Freda. E ogni volta che lo diceva, lei puntualmente arrotolava il giornale che stava leggendo e cominciava ad agitarglielo contro, sbraitando qualcosa in svedese, in olandese, o addirittura in afrikaans, che, dopo accurate ricerche filologiche, Will aveva ricondotto alla seguente serie di frasi: “Te le faccio vedere io le radici”, “Prenderò a calci il tuo celtico culo da qui fino a Roma a pagare i tuoi tributi”, “Ora ti faccio un'accurata rappresentazione della conquista norrena di Lindisfarne”. Se, tuttavia, Will provava a correggere le sue inesattezze storiche o la confusione tra i celti d'Irlanda e quelli di Britannia, partiva una serie di insulti ai quali il pover'uomo non aveva ancora trovato adeguata traduzione. Era in quei momenti che Will la adorava, perché per un attimo lasciava da parte il suo essere tutto d'un pezzo e si lasciava andare alla goliardia, agli insulti affettuosi, alle risa.
     La sua vita non era stata facile. Sua madre Kristina era svedese, e si era trasferita in Olanda per studiare arte, dove aveva conosciuto Jens Van der Ende, medico di origine ebrea; tuttavia, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale aveva costretto Jens a fuggire con la ragazza da poco sposata, per trasferirsi dal ramo boero della famiglia che da generazioni risiedeva in Sudafrica. Dopo la morte di una prima figlia a causa della malaria, nel 1950 era nata lei, Freda. I Van der Ende erano finiti a vivere in un quartiere di neri assieme ad altri olandesi sfollati che ormai non avevano più nulla. Freda adorava ascoltare le mamme di colore cantare la sera mentre preparavano la cena, o i ragazzi che improvvisavano una danza dalle finestre dei loro piccoli appartamenti, ma nessuno dei bambini voleva fare amicizia con lei: lei era bianca, e i piccoli avevano paura che avrebbe cominciato a bastonarli, a sputagli contro o che avrebbe chiamato la polizia se solo avessero alzato lo sguardo verso di lei. Così era cresciuta da sola e senza amici; il suo unico passatempo era farsi insegnare da suo padre le basi della medicina, perché già da piccola aspirava a diventare un medico che avrebbe potuto salvare bambine come la sorella che non aveva mai conosciuto, o i bambini che vedeva dalla finestra, che camminavano male, tossivano o avevano ferite infette perché nessun medico, a parte suo padre, li avrebbe mai voluti toccare.
Freda assisteva Jens ogni qualvolta riusciva a scuoterlo dal torpore in cui la fuga dall'Olanda, la povertà e la morte della sua primogenita lo avevano gettato, e lo convinceva ad assistere i bambini del quartiere. Era destino che diventasse medico anche lei.
Purtroppo, il ragazzo che frequentava di nascosto l'aveva messa incinta, e poi era sparito. I suoi genitori l'avevano cacciata di casa non perché lui fosse mulatto, bensì perché era un mezzo delinquente. Era arrivata in Inghilterra con una borsa di studio, un muro invalicabile costruito attorto al suo cuore pesante ed un bambino nel ventre.
     Era questo ciò che Freda gli aveva raccontato la mattina dopo aver fatto l'amore. Lo aveva guardato negli occhi, seria, avvolgendosi tremante nel lenzuolo del minuscolo appartamento dove Will viveva quando studiava ad Oxford, e gli aveva detto: -Will, tu hai detto che la vera sfida con me non era portarmi a letto, quanto farmi passare un'intera giornata sorridendo felice e serena.-
Poi aveva distrattamente accarezzato il pancione di sei mesi, e aveva ripreso: -Mi stai simpatico, Will. Si vede che hai un cuore grande. Ora ti spiegherò perché secondo me la tua sfida è impossibile.-
-Ti ascolterò solo dopo che avrai mangiato un'abbondante colazione.- aveva detto Will, rivestendosi. -Vado in cucina. Tu non scappare.-
E, non appena fu uscito dalla camera da letto, domandò, ad alta voce. -Se però dovessi riuscire a sciogliere il tuo cuore di ghiaccio... Mi sposeresti, Freda?-
Lei aveva riso. Ma era una risata di scherno, quindi, non sarebbe valsa.

     -Sono a casa!- urlò Will, scuotendosi la pioggia dall'impermeabile e strusciando le scarpe sullo zerbino.
Ed ecco che, dal fondo del corridoio, gli strilli della creatura più meravigliosa che l'intero universo avesse mai avuto l'onore di vedere lo raggiunsero come un raggio di sole che spunta tra le nuvole in una giornata luminosa, e ti scalda le ossa. La triste ironia del suo pensiero smorzò un poco il suo sorriso sotto i baffi rossi, mentre la creatura più meravigliosa del creato gli correva incontro con le sue piccole gambette grassocce sotto un logoro vestito marrone su cui erano attaccate finte foglie d'edera.
-Mio signore, mio signore Oberon!- strillò la piccola Stephanie, reggendo in mano un fiore di plastica viola.
-Ah, Puck!- rispose Will, protendendosi in avanti con ancora l'impermeabile addosso. Poi si schiarì la voce.
-Ben arrivato, vagabondo! Hai il fiore con te?- recitò, porgendo la mano alla propria pargola.
Stephanie adorava giocare ad interpretare Sogno di una notte di mezz'estate. Si era fatta cucire l'abito di Puck apposta, e conosceva molte parti dell'opera a memoria. Nonostante avesse appena tre anni, era già un'allieva migliore rispetto ai suoi studenti universitari.
-A me il vagabondo sembra tuo padre, Stephanie.- disse Freda, materializzandosi sullo stipite della porta del salotto con le braccia incrociate. -Su, vieni qui, folletto dispettoso, lascialo entrare.-
     Si sedettero poi tutti insieme davanti ad una tazza di tè e a biscotti appena sfornati.
-Non mi dirai che hai cucinato tu, Freda.- la prese in giro Will.
La donna lo fulminò con lo sguardo mentre sorseggiava elegantemente il proprio tè, reggendo il piattino sotto la tazza. Aveva grandi occhi azzurri da cerbiatta, zigomi alti, naso all'insù e finissimi capelli biondo platino, praticamente bianchi come quelli della loro bambina albina.
-Non posso sempre lasciare che sia tu la donna di casa.- lo canzonò, nascondendosi dietro la tazza. -Sennò va a finire che ti sentirai trascurato e finirai per cedere alle attenzioni di qualche aitante giovane, come quell'adorabile Daisy dell'università.-
Will scoppiò a ridere di cuore, e Stephanie, che era in braccio a lui, rimase ipnotizzata a guardare i suoi baffi rossi andare su e giù, mentre ancora stringeva tra le mani grassocce il fiore di plastica.
-Questa Daisy è innamorata di papà?- domandò candidamente, accoccolandosi sul suo petto.
-Vedi, piccola mia.- le disse dolcemente Will, appoggiando la tazzina sul tavolo mentre la reggeva col braccio libero. -A volte succede che certe persone, in periodi molto delicati della loro crescita, si innamorino di una persona più grande perché, in realtà, sentono la mancanza di una figura di riferimento come una mamma o un papà, e quindi identificano inconsciamente quella persona come, appunto, la loro mamma o il loro papà.-
-Dio mio, Will, ha tre anni la bambina.- protestò Freda. -Non usare parole difficili come “inconsciamente”. Spiegale le cose in modo semplice.-
Stephanie gonfiò le guance in un plateale gesto di dissenso che fece sorridere Will.
-Freda, dai... la piccola sa leggere, scrivere e fare calcoli. Mentre gli altri bambini alla sua età stentano a colorare i libri illustrati senza uscire dai margini, lei si sforza di leggere Shakespeare, e non quello semplificato, ma proprio quello scritto in inglese dell'età elisabettiana. E parla gaelico, inglese e afrikaans. Non penso che “inconsciamente” sia un termine difficile per lei.-
     Che fosse una bambina prodigio, era fuori discussione. Stephanie era stata precoce già ad imparare a gattonare, a camminare, a parlare e tutto il resto. Sua madre aveva provato a farla crescere bilingue, insegnandole l'afrikaans, la più utile, a suo parere, tra le proprie lingue madri oltre all'inglese, ma la piccola Stephanie aveva stupito tutti quando, di ritorno da uno degli spettacoli folklorici irlandesi che si tenevano ogni settimana in un paesello vicino Dublino, spettacoli che lei tanto adorava, si era messa improvvisamente a parlare gaelico.
Quegli spettacoli teatrali erano l'unica occasione per lei di uscire e vedere il mondo. Era nata albina, perciò non poteva giocare con gli altri bambini all'aria aperta, nei giorni in cui spuntava il sole. Perciò, la piccola Stephanie attendeva con ansia che giungesse il sabato per vedere un nuovo spettacolo, e nel frattempo si faceva raccontare opere teatrali e fiabe folkloriche da Will.
Da grande avrebbe fatto l'attrice di teatro, diceva.
-Potresti farla passare da Shakespeare al teatro greco, allora.- disse allora Freda in tono canzonatorio. -Falle leggere l'Edipo Re, l'Elettra di Sofocle, quelle cose lì. Così magari capisce meglio cos'è il complesso edipico e non rischia di svilupparlo nei tuoi confronti, visto che ti è sempre appiccicata.-
-Lo so cos'è il complesso edipico, mamma.- borbottò Stephanie, con la sua adorabile vocina da bambina. -Ma non voglio sposare papà. È vecchio e ha i baffi.-
Will e Freda scoppiarono a ridere di cuore.



     San Francisco, 16 settembre 1979.
    Alla radio la voce acuta di Kate Bush cantava a squarciagola “Bad dreams in the night/ They told me I was going to lose the fight/ Leave behind my wuthering, wuthering/ Wuthering Heights”, accompagnata dalla voce un po' roca di Anne Hartford, che, nonostante la minore estensione vocale, cercava di dare il meglio di sé in quel piccolo concerto privato che si ripeteva in macchina ogni mattina. Forse non ci stava esattamente mettendo tutto l'abituale impegno, ma era la prima volta che percorreva le strade di San Francisco come conducente, per cui stava prestando particolarmente attenzione alla strada di fronte a sé. Finalmente lei e Bjarne avevano potuto raggiungere il padre, nuovamente trasferitosi per lavoro. Quella volta, per lo meno erano riusciti a far finire l'anno a Bjarne e a fargli trascorrere l'estate in compagnia dei pochi amici che era riuscito a farsi nei precedenti due anni, periodo in cui avevano vissuto a Santa Monica.
A Bjarne non dispiaceva troppo dover cambiare casa e città così di frequente: ogni occasione era buona per conoscere nuove persone e fare esperienze diverse. Era anche un po' come quando andava alla sala giochi a giocare a Flipper, Pac-Man o Donkey Kong: se commetteva qualche errore in un posto, non era la fine, perché poteva ricominciare la partita da un'altra parte ed evitare di commettere gli stessi sbagli. Così aveva imparato che: non ci si dichiara alla bambina più carina della classe se hai i denti sporchi dei broccoli del tuo cestino del pranzo; che se hai i broccoli nel cestino del pranzo è improbabile che qualcuno voglia sedersi vicino a te a mensa; che però è meglio evitare di mangiare solo merendine e schifezze per farsi accettare dagli altri, perché poi diventi cicciottello e nessuno vuole stare con te in nessun caso; che, per quanto possa sembrarti ingiusto, piangere per la sorte delle rane dissezionate durante l'ora di scienze ti fa guadagnare solo un sacco di prese in giro.
Ma, soprattutto, Bjarne aveva imparato che la questione delle adozioni veniva sempre affrontata da tutti con estremo imbarazzo, quasi come fosse qualcosa di indicibile e scandaloso.
Too long I roam in the night/ I'm coming back to his side, to put it right/ I'm coming home to wuthering, wuthering/ Wuthering Heights
     Bjarne non avrebbe voluto interrompere il mattutino concerto privato in cui sua madre si esibiva sempre quand'era in macchina e di buon umore, e alla radio passava una canzone che adorava. Però aveva immaginato non mancasse molto alla scuola dov'erano diretti, per cui tentò di farle la stessa domanda che gli usciva spontanea ogni volta che si trasferivano in una casa più grande, in una città più grande.
-Se papà avrà una promozione e potremo fermarci a vivere qui, possiamo adottare un fratellino o una sorellina?-
In passato, a quella domanda i suoi avevano sempre risposto con un sorriso entusiasta, convinti del fatto che un futuro più stabile in cui costruire una famiglia più numerosa non fosse poi così lontano. Eppure, quel giorno Anne interruppe la canzone a metà, e a Bjarne apparve tutto d'un tratto strana, più stanca del solito, e senza la solite luce che le illuminava lo sguardo.
-Non lo so, tesoro.- rispose infine, semplicemente. -Non vorrei darti false speranze. E non vorrei illudermi nemmeno io che questo possa accadere. Vedi, io e tuo padre ci stiamo sperando da così tanto...-
Bjarne rimase in silenzio, osservando sua madre che ora aveva preso a guidare ancora più cauta per le larghe strade di San Francisco.
Ooh, let me have it/ Let me grab your soul away/ Ooh, let me have it/ Let me grab your soul away/ You know it's me, Cathy” cantava la radio, nel silenzio dell'abitacolo.
Il bambino non voleva che sua madre fosse triste, per cui disse: -Non importa, mamma. Non dovete farlo per forza. Meglio pochi ma buoni, no?-
La mamma si era voltata verso di lui appena un istante, per non perdere d'occhio la strada, e aveva sorriso in quel modo così caldo e rassicurante che sembrava lo stesse abbracciando.
     Il bambino si girò, soddisfatto, e prese a sfogliare il quadernetto sulla cui copertina era scritto “Cose da non fare quando ti sei appena trasferito”.
-Potresti lasciarmi a poca distanza dall'entrata della scuola?- domandò, quindi. -Così mi puoi dare un bacio prima che scenda, ma nessuno ci vedrà e mi prenderà in giro.-
La donna rise.
-Posso anche non darti il bacio della buona giornata, se preferisci.-
-Perché no?- domandò il piccolo, dondolando i piedi. -A te fa piacere. I bambini sono stupidi, prendono in giro gli altri per cose stupide. Non voglio farti un dispiacere solo perché ci sono dei bambini stupidi.-
Bjarne era un esperto di bambini stupidi, ormai. Aveva capito che il mondo va avanti se c'è qualcuno di più debole da calpestare, qualcuno che rimane fuori dal branco. Lui era sempre l'ultimo arrivato in ogni posto, perciò era sempre isolato e facile da colpire. E poi aveva un nome straniero.
I suoi genitori lo avevano chiamato David di secondo nome, e lo avevano invitato ad usare quello per evitare domande imbarazzanti o prese in giro. Ma Bjarne non aveva voluto. Era pieno di David, là fuori, così come era pieno di James, di John, di Mattew, di Andrew, di Edward eccetera. Eppure, non c'era nessun Bjarne. Nessun bambino coi capelli quasi bianchi e la pelle che si scuriva subito al sole. Lui era unico, e pensava che doveva esserci un motivo; forse era destinato a fare qualcosa di grande. Pensava che gli sarebbe piaciuto fare sì che i bulli smettessero di prendersela coi più deboli, difatti era sempre il primo a mettersi in mezzo quando i bambini se la prendevano con qualcuno che non era lui.
-Mossa poco intelligente.- lo aveva scherzosamente rimproverato suo padre. -Se lasci che si trovino un nuovo capro espiatorio, ti lasceranno in pace. D'altro canto... questo non ti renderebbe migliore di loro. Perciò vorrei dirti che sono fiero di te, ma sono anche stanco di vederti arrivare a casa con la divisa sgualcita e pieno di lividi e graffi.-
Bjarne aveva promesso che avrebbe evitato di farsi pestare. Voleva prendere lezioni di autodifesa, e, tra le varie discipline, aveva scelto il Jeet Kune Do; adorava i film di Bruce Lee, e poi ora si era trasferito a San Francisco, la città natale di Lee. Era il momento giusto. Bjarne era certo che le cose quella volta sarebbero andate diversamente.

     -Questo è il vostro nuovo compagno.- disse l'insegnante, tenendo Bjarne per le spalle. -Si chiama David Hartford. Spero che sarete gentili con lui.-
-Il mio nome è Bjarne.- puntualizzò il bambino, guardando i suoi nuovi compagni di classe coi grandi occhi castani.
Tutti parvero confusi. Succedeva sempre così.
-È un nome scandinavo. Sono stato adottato.- disse candidamente. Nel suo quadernetto aveva anche appuntato che cercare di nascondere la cosa avrebbe fatto pensare agli altri che se ne vergognasse, e a quel punto lo avrebbero utilizzato come argomento principe per prenderlo in giro.
-Quindi vuol dire che i tuoi genitori non ti volevano?- ridacchiò immediatamente un ragazzino con diversi buchi tra i denti in crescita, seduto al fondo della classe.
Bjarne attese di vedere quali tra i suoi compagni di classe si sarebbero platealmente uniti alla risata, chi avrebbe tentato di nasconderla e chi si sarebbe voltato con uno sguardo di disapprovazione. Sul suo quadernetto aveva appuntato: “Mostra subito le tue carte e scopri chi possono essere i tuoi amici e chi potrebbero essere i tuoi bulli”.
Si impresse velocemente i volti delle tre categorie sopra citate e poi riprese a parlare, mentre l'insegnante alle sue spalle osservava la scena basita, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso.
-No, vuol dire che i miei genitori mi volevano così tanto che si sono fatti migliaia di chilometri per trovarmi.- rispose allora, esibendo il miglior sorriso che la sua dentatura perfetta gli consentiva.
Valutò se fosse anche il caso di passarsi una mano tra i fini capelli biondo platino, ma decise di non esagerare: c'era tempo per sondare il terreno con le bambine della prima fila che non avevano riso assieme al tizio al fondo dell'aula, e, soprattutto, ora sapeva quando doveva evitare di farsi preparare i broccoli per pranzo.




     Boston, 16 settembre 1979.

Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are!
Up above the world so high,
Like a diamond in the sky.

When the blazing sun is gone,
When he nothing shines upon,
Then you show your little light,
Twinkle, twinkle, all the night.

     Martha recitava la poesia al proprio pancione, passandosi una mano tra gli spessi e folti capelli castani, mentre guardava l'ultima ecografia fatta. “Miss. Marta Venturi, w. 28” era scritto in piccolo sotto l'immagine in bianco e nero del suo bambino o della sua bambina. Martha sospirò; odiava il suo nome italiano, così come odiava le sue origini straniere: poco importava che Boston fosse sempre stata una città di immigrati, e che fosse sempre cresciuta insieme a bambini provenienti da ogni dove; non sopportava le risatine o gli sguardi d'allarme che le venivano lanciati ogni volta che veniva fuori il fatto che fosse italo-russa. Aveva dovuto vivere un'infanzia in piena Guerra Fredda con una madre dall'aspetto così sovietico che l'appellativo più gentile che si era guadagnata dai suoi compagni di classe era stato “spia rossa”.
Per questo non vedeva l'ora che nascesse il bambino o la bambina, così avrebbe potuto raggiungere Thomas in Inghilterra, si sarebbero sposati e lei avrebbe cominciato una nuova vita. Martha Lawliet. Non sarebbe stato difficile aggiungere una “h” al suo nome di battesimo.
Martha pensava a Thomas, mentre guardava le luci del porto di Boston dalla finestra della minuscola e ammuffita soffitta dove sua zia Angelica l'aveva sistemata dopo che se n'era andata di casa a diciassette anni. Anche il suo uomo aveva in un certo senso ripudiato la propria famiglia: lei lo aveva fatto non perché non volesse bene ai propri genitori, ma perché non riusciva a sopportare il peso della discriminazione e del sospetto; non voleva che i vicini sentissero l'odore del ragù che sua zia e sua madre preparavano la domenica, e si vergognava quando suo padre alzava il volume della radio perché stava passando una canzone italiana. Thomas, invece, odiava suo padre, senza se e senza ma. Si era ribellato alla sua rigida disciplina, intransigente ai limiti della crudeltà, e aveva deciso di vivere libero dal peso del suo cognome paterno e da tutto ciò che questo significava. Per questo ora era in Inghilterra, la sua patria, che cercava di costruirsi il proprio futuro con le sue sole forze, un futuro da condividere con lei e con la loro creatura.
     Il padre di Thomas era un distinto Lord inglese di nome Charles Lewis, arricchitosi durante il secondo dopoguerra grazie ad alcune sue geniali intuizioni che lo avevano portato ad acquistare una piccola industria automobilistica e ad espanderne il mercato in India e in Giappone. Fin da piccolo, Thomas era stato cresciuto per succedergli, ma il padre non gli aveva mai mostrato un minimo segno d'affetto; gli impediva di avere amici, gli impediva un qualunque tipo di svago o passatempo, lo obbligava a lavorare per lui, lucidando ogni macchina prodotta dalla sezione inglese di York prima che venisse venduta: un lavoro assolutamente superfluo, ovviamente, ma il padre di Charles aveva deciso di punirlo per la sua sola esistenza. Già, perché Thomas non era suo figlio. Sua madre era rimasta incinta durante uno dei viaggi d'affari in Giappone a cui entrambi i coniugi avevano dovuto presenziare. Il suo sangue giapponese era evidente, dal taglio a mandorla dei suoi occhi al nero corvino dei suoi capelli, che formavano un contrasto stridente con quelli di entrambi i genitori legali. Eppure, Charles non aveva avuto altri figli, per cui il suo impero sarebbe dovuto andare senza dubbio a Thomas. Ma era stato proprio lui, una volta laureatosi, a rifiutare quell'onere: diceva di avere il voltastomaco solo all'idea di vedere quelle macchine e a sentire l'odore di quella fabbrica. Così aveva cominciato a lavorare come contabile in un'azienda del sud dell'Inghilterra, rinunciando, oltre all'eredità, anche al proprio cognome; aveva, infatti, deciso di prendere il cognome da nubile della madre, Lawliet, e aveva ridotto l'esistenza del proprio padre ad una misera L puntata tra nome e cognome: Thomas L. Lawliet e Martha Lawliet, una coppia di giovani senza nome e senza origini.
     Martha guardava le luci del porto e ora pensava a suo padre Eraldo, che probabilmente non aveva ancora finito di lavorare; sebbene non si parlassero da quando, a diciassette anni, aveva giurato che non avrebbe mai più messo piede in casa sua, lui non aveva smesso coi doppi turni, e ogni mese lei si era ritrovata qualche centinaio di dollari sul conto che i suoi genitori le avevano aperto quando lei era ancora piccola. Probabilmente, ora cercava di lavorare ancora di più, per mettere da parte qualcos'altro per il nipotino o la nipotina. Non voleva che Thomas facesse tutto da solo.
Loro due si erano conosciuti un anno e mezzo prima, quando Thomas era venuto a Boston con un carico di merce destinata agli Stati Uniti ed era entrato nel diner dove lei lavorava come cameriera per ripararsi dalla pioggia battente.
-Uno se ne va dall'Inghilterra sperando di trovare il sole, e invece sembra le nuvole mi abbiano seguito.- le aveva detto sorridendo, quando lei gli si era fatta incontro per condurlo ad un tavolo libero. Martha era rimasta incantata da quegli occhi grigi e dal gesto sbarazzino col quale si era tirato indietro gli spessi capelli neri e bagnati. Il tipico colpo di fulmine, per entrambi. Tanto che lui aveva più volte rimandato la sua partenza dagli Stati Uniti e, una volta giunto in Inghilterra, aveva fatto di tutto per tornarci; questa volta, assieme ad un anello di fidanzamento e l'inamovibile decisione di parlare con suo padre per chiedergli la sua mano.
Martha aveva insistito perché non lo facesse: aveva voluto bene ai suoi genitori, ma sentiva di non avere più nulla a che vedere con loro da tanto, troppo tempo. I loro cuori parlavano lingue diverse.
Ma Thomas aveva fatto di testa sua, ed il vecchio Eraldo l'aveva accolto a braccia aperte. -Mi auguro che tu riesca a far sentire a casa Marta.-, questo gli aveva detto.
Già. Casa. In Inghilterra la aspettava una casa in un quartiere piccolo-borghese dove per tutti lei sarebbe stata un'americana che ha sposato un inglese, e non la “figlia di immigrati venuti a rubare il lavoro agli onesti cittadini del Massachussets”.
     Si allontanò dalla finestra, scossa da un brivido di freddo. Era ora di prepararsi qualcosa da mangiare, prima che la stanchezza dovuta alla gravidanza prendesse il sopravvento e la facesse di nuovo abbandonare sul divano, ad aspettare che passassero le ore. Così andò verso il piccolo frigo, lo aprì e guardò con un po' di disappunto il suo poco contenuto. Decise che si sarebbe preparata la versione povera e veloce di un Hamburger helper, dal momento che aveva solo macaroni e carne macinata. Suo padre sarebbe probabilmente inorridito al solo pensiero, e questo era uno dei motivi per cui se n'era voluta andare di casa. Eraldo era un uomo gentile e soprattutto un gran lavoratore, coi suoi colleghi del porto parlava inglese, partecipava alle riunioni di condominio e di quartiere, aiutava i vicini coi traslochi e cercava di farsi ben volere da tutti, ma se si parlava di cucina o di vino era in grado di far scoppiare una guerra: nessuno doveva mettere in dubbio la superiorità italiana in questi due campi, a suo parere. Però, gli ripeteva Martha di continuo, non è che essere italiani in quel periodo e in quella zona fosse esattamente un vanto.
Invece sua zia Angelica le piaceva molto di più. Prima dello scoppio della guerra, prima che suo fratello Eraldo venisse mandato in Russia, Angelica faceva la maestra, e i suoi alunni la adoravano; era sveglia, coinvolgente, e soprattutto era decisa ad imparare sempre di più. Poi era arrivata la strage di Marzabotto. E nessuno, pensava Martha, va in giro a provocare apertamente gente di un'altra nazionalità, dopo essere per miracolo sopravvissuta alla “marcia della morte” nazista.
Non aveva mai visto sua zia Angelica sorridere in ventuno anni di vita. Se suo padre nominava qualsiasi cosa avesse a che fare con l'Italia, o peggio ancora con la zona dell'Emilia-Romagna da cui provenivano, a lei prendeva un attacco di panico. Aveva vissuto insieme al fratello minore e alla cognata (la spericolata donna che aveva fatto fuggire Eraldo dalla Russia) per circa sette anni, dopo che furono emigrati negli Stati Uniti, ma poi non ce l'aveva più fatta, e aveva trovato lavoro come donna delle pulizie in un vecchio palazzo abitato solo da americani di nascita. Un giorno aveva detto a Martha che lo aveva fatto perché non poteva più sopportare di vedere negli occhi degli altri esuli dalla guerra, loro vicini, lo stesso orrore che lei stava tentando di dimenticare.
Così era riuscita a trasferirsi in quella soffitta ammuffita, l'aveva arredata coi mobili rotti che gli inquilini del palazzo lasciavano in strada e, quattro anni prima, l'aveva accolta senza dire una parola.
     L'acqua per i macaroni stava bollendo, così Martha buttò la pasta, mentre si accarezzava distrattamente il pancione. Si rimise a recitare “Twinkle Twinkle little star”, mentre col dito disegnava ripetutamente una stella con al centro il proprio ombelico.
Pochi minuti dopo sentì il passo affrettato della zia salire le scale, perciò la ragazza le andò incontro, mentre questa tentava di aprire la porta di casa. Martha si rese subito conto del fatto che qualcosa non andava: sentiva il tintinnio del mazzo di chiavi da dietro la porta di legno sottile, e il respiro della zia farsi sempre più affannoso, angosciato.
-Zia!- esclamò, aprendo lei la porta al suo posto. -Non ti senti bene? Sto preparando la cena, vieni a sederti.-
Ma la vista dei suoi occhi azzurri, spalancati per il terrore, come in quelle occasioni in cui rivedeva davanti a sé le immagini dei rastrellamenti da parte dei nazisti, e delle sue esili e vecchie spalle che tremavano per lo sforzo, la gettò nel panico.
-Cos'è successo?! Cosa c'è che non va?!-
La zia distolse lo sguardo, e le appoggiò sulla spalla una mano rugosa e rovinata dal duro lavoro.
-Mi dispiace, ma non posso girarci intorno: ho brutte notizie. Vai a sederti, respira profondamente; ti porto subito un bicchiere d'acqua.-
-Che è successo?!- ripeté spaventata lei, portandosi le mani davanti alla bocca. -Papà si è fatto male a lavoro? Hanno di nuovo aggredito la mamma?-
-Qui stiamo tutti bene.- tagliò corto la donna, accompagnandola, decisa, verso il divano senza uno dei piedi, tenuto su da una pila di vecchi giornali.
Con una velocità inaudita per una donna della sua età e con la sua usuale apatia, la zia Angelica riempì un bicchiere d'acqua, per poi sedersi di fianco alla nipote, stringendole forte la mano.
-Respira ora. Profondamente. E stringimi forte la mano. Devi pensare che la creatura nella tua pancia non deve patire.-
-È successo qualcosa a Thomas.- disse allora Martha, spalancando gli occhi. Poi si alzò in piedi di scatto, rischiando di cadere sotto il proprio stesso peso.-
-È successo qualcosa a Thomas!- urlò con tutto il fiato dei suoi polmoni, cominciando a tremare anche nel profondo della propria anima.
La zia si alzò di scatto e la bloccò per i polsi.
-Per l'amor di Dio, Marta!- le disse, strattonandola. -Devi calmarti! Calmati per il tuo bambino!-
La costrinse a sedersi e, continuando a stringerle le mani, avvicinò il proprio viso al suo, come se stesse cercando negli occhi spaventati della nipote una scintilla di ragione, una parte che l'avrebbe ascoltata e avrebbe deciso di fare ciò che era meglio per chi portava in grembo.
-È arrivato un telegramma. Thomas ha avuto un incidente stradale, un tizio ubriaco l'ha buttato fuori strada.-
Le affondò le unghie nella carne.
-È morto sul colpo. Mi dispiace, Marta.-

Note

     Avevo decisamente bisogno di cominciare a scrivere questa storia, e credo che la fine della seconda parte di November 8th 1997 sia il momento migliore per cominciare a leggerla. In particolare, credo che il Prologo alla Terza Parte di November sia anche un ottimo prologo per Before, in parte perché viene introdotto il tema della musica, delle stelle e dei fiori, e in parte perché si accenna allo strano rapporto simbiotico che K sviluppa con L, ma che poi sviluppa anche con Bjarne, e che è alla causa della gelosia di L (e che in Before verrà trattato esaustivamente). Spero che vi possa piacere questo percorso a ritroso, alle radici dei miei personaggi originali e alla radice dell'L che è venuto fuori in November. Ho elaborato moltissimi di questi episodi prima ancora della stesura di November, perché li ritenevo essenziali per la formazione del carattere dei miei personaggi; tuttavia, i genitori di K, L e Bjarne sono “nati” solo in seguito, e, soprattutto, tutto ciò che ho scritto in questo capitolo mi è venuto così, di getto, appena qualche giorno fa. Avevo ovviamente fatto i miei schemi sui genitori di K, quelli di Bjarne erano già addirittura apparsi in November, e per quelli di L avevo fatto diverse ricerche già mesi fa, ma non li avevo mai visti “all'opera”.
     Volevo condividere con voi un dettaglio che mi ha fatto molto ridere e che non riesco a togliermi dalla testa: mentre scrivevo, ho immaginato William Kenton come Escanor di Seven Deadly Sins, senza poteri e vestito come Ned Flanders. Non chiedetemi perché, ma ormai sono assolutamente convinta che questo sia esattamente l'aspetto del padre di K. Cioè, beninteso, Will per me è un figo: potrebbe essere effettivamente un professore per il quale mi sarei presa una cotta. Vive di letteratura, ama la natura, traduce tutto in poesia e adora ridere e far ridere.
     E a proposito di letteratura: questa one-shot si apre con molta letteratura, in particolare con molta Irishness e molto Joyce. Vi avverto in partenza che Joyce ritornerà altre volte nel corso di questa storia, ma, a parte il palese riferimento a Finnegans Wake, questo capitolo è stato inconsciamente concepito come una sorta di mock-Ulysses: ho cominciato volendo descrivere una giornata nella vita del padre di K per introdurre il tema, ricorrente in Before come anche in November, del complesso edipico, e ho scelto, completamente a caso, il giorno 16 come data. Poi ho pensato che sarebbe stato meglio dare spazio anche alle famiglie degli altri due protagonisti, Bjarne e L, e ho pensato fosse una buona idea descrivere lo stesso identico giorno nelle loro tre diverse vite. Ebbene, a quel punto ho riguardato la data che avevo scelto a caso, e il giorno 16 è lo stesso in cui si svolge Ulysses (16 giugno 1904). Perciò, ecco, non era mia intenzione parodiare Joyce, ma una volta resami conto della cosa non ho voluto cambiare nulla.
     Ultimo appunto: nella mia fanfiction ho dato un passato e delle origini a L; ovviamente è tutto frutto della mia immaginazione. Ho cercato di costruire una storia partendo dagli unici dati disponibili, ossia quelli sulla sua etnia. Ho scelto il “quarto” italiano rispetto a quello francese non solo perché sono italiana e porto acqua al mio mulino (?), ma soprattutto per il suo rapporto col caffè e perché per me si è rivelato così più semplice costruire la storia della sua famiglia: pensavo potesse avere senso che suo nonno materno fosse italiano, fosse andato in Russia, fosse fuggito grazie all'aiuto di una contadina russa, fosse emigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra eccetera. Con un nonno o una nonna francese mi sarebbe sembrato più “innaturale” il percorso che avrebbe portato la famiglia a Boston. Inoltre, considerando tutti i francesi che ho conosciuto, non riesco ad immaginare una francese che ripudia le proprie origini, mentre questo era un elemento che giudicavo importante nella caratterizzazione di Marta/Martha e il passato di L. Immagino abbiate notato che i nomi dei genitori di L non sono casuali: Martha e Thomas sono i genitori di Bruce Wayne, e L è un piccolo orfano miliardario che si nasconde nell'ombra e usa metodi violenti per portare giustizia, e Watari è palesemente Alfred il maggiordomo (l'abbiamo pensato almeno una volta tutti nella vita). Non ho scelto consciamente questi nomi, è il mio cervello che mi gioca brutti scherzi, però ho pensato che ci stessero bene.

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Capitolo 2
*** 8 settembre 1984 - "Segui il profumo dei fiori" ***






8 aprile 1984


     -Papà, papà, da dove viene questo profumo di fiori?-
-Prova a dirmelo tu, tesoro.-
-Non lo so... sembrano così vicini... eppure non li vedo qui intorno a me.-
-E cosa vedi intorno a te?-
-È strano, papà. È tutto strano qui. C'è tanta luce.-
-E non hai paura?-
-No. È vero papà, dovrei avere paura. La luce del sole mi brucia la pelle. Però questa luce non brucia. È così... calda. Papà, è così che ci si sente quando si sta al sole?-
-È qualcosa di simile, bambina mia. Però concentrati: da dove credi che venga il calore?-
-Mmm... Perché continui a farmi delle domande, papà? Non mi stai spiegando nulla. Eppure a te piace tanto spiegare!-
-Ti stai agitando, tesoro? Hai il respiro affannato.-
-... Sì. Non sono sicura che mi piaccia questo posto. Il calore che sento non viene da fuori, viene da dentro. Perché, papà? Perché sento caldo dentro? Dove sono i fiori? Dov'è la mamma?-
-Cosa vedi intorno a te?-
-Smetti di farmi domande! Dimmi cosa succede, papà!-
-Non piangere, tesoro.-
-Certo che piango! Piango perché non capisco!-
-Quando non capisci qualcosa non devi piangere, bambina mia. Devi farti delle domande finché non trovi una risposta.-
-Ma ho solo otto anni, papà! Dov'è la mamma?-
-È qui con me, bambina mia.-
-Non è vero! Non la sento! Non la vedo! … Aspetta, papà. Io non vedo nemmeno te.-
-Ma noi siamo proprio qui.-
-Ora inizio a sentire freddo. Dove sono i fiori? Non sento più il profumo come prima. Papà! Papà! Non voglio stare al freddo. Tu sei e la mamma siete nella luce, vero? Allora verrò da voi.-
-Ma i fiori, Stephanie. Che fiori sono? Riesci a distinguere che fiori sono dal loro profumo?-
-I fiori... erano... Non mi interessa, papà! Se penso ai fiori sento freddo! Sento male! Perché ho male alla spalla?-
-Concentrati sul profumo dei fiori.-
-No! Non voglio! Voi siete nella luce! Devo venire da voi! Voglio il caldo, voglio un abbraccio! Voglio te e la mamma!-
-C'è anche lo zio qui con noi.-
-Lo zio? Ma lo zio non lo vedevamo mai? L'ultima volta...-
-Cosa stavamo facendo l'ultima volta che abbiamo visto lo zio?-
-Siamo andati a trovarlo in Scozia. Aaaaah! La spalla, mi fa male la spalla! Papà, ho paura!-
-Cos'è successo in Scozia?-
-Non lo so! Non lo so! Perché mi fai piangere? Perché ho freddo? Dov'è la mamma? Perché non mi dice nulla? Voglio venire nella luce anch'io! Ma mi fa male la spalla!-
-Riesci a distinguere che fiori sono dal profumo?-
-Non mi interessano i fiori, papà! Non farmi piangere. Vieni a prendermi! Io... mi sento così pesante...-
-Non devi seguire la luce, amore della mamma e del papà. Devi seguire il profumo dei fiori.-
-Ma voi siete nella luce. Voglio stare con voi! Venitemi a prendere!-
-Ma noi siamo con te. Il calore dentro di te, ricordi? Basta che ti concentri sul profumo dei fiori. Va' via di qui.-
-Ma papà!!-
-Riesci a distinguere che fiori sono dal profumo?-
-Papà! No! Fa male! Non voglio!-
-Non potrò più darti spiegazioni, non potrò più raccontarti storie. L'hai già capito, vero? Che cosa è successo in Scozia?-
-No! No! NO!-
-Segui il profumo dei fiori, bambina mia.-
-Fa male! Il braccio! Non riesco a muoverlo! Aaaaah!-
-Ricorda il calore dentro di te, Stephanie. La mamma e il papà non ti lasceranno mai.-
-Non piangere anche tu papà! Fa male! Fa troppo male!-

     Sul comodino del letto d'ospedale c'era un vaso molto grande con una composizione di orchidee rosa, campanule viola e qualche rametto di fiori di ciliegio.
Ma Stephanie non aveva seguito il profumo dei fiori per uscire dalla luce; aveva seguito il dolore. E lo avrebbe seguito ancora, e ancora, e ancora.

     Ogni settimana, arrivava un nuovo mazzo di fiori recisi a ravvivare il vaso di orchidee sul comodino, verso il quale la piccola Stephanie volgeva continuamente lo sguardo. Sentiva di aver deluso suo padre.
     Verso la fine di maggio, dopo poco più di un mese di riabilitazione, l'uomo dei fiori venne a prenderla. Doveva avere circa una cinquantina d'anni, ma aveva già i capelli bianchi, pettinati all'indietro, evidenziando la stempiatura, palpebre pesanti sotto i sottili e piccoli occhiali e grossi baffi.
Fu molto gentile con lei. Le disse che sapeva che le piaceva studiare e leggere, e che nell'orfanotrofio in cui sarebbe andata avrebbe avuto un'enorme biblioteca a disposizione. Le disse che sperava di poterla fare entrare nella sua accademia per bambini dotati, ma solo quando si fosse sentita pronta.
Ma Stephanie si lasciava scivolare addosso ogni parola come un sasso sotto una lieve pioggerellina. Immobile, insensibile.
     Prima di lasciare l'ospedale, prese il vaso di orchidee ancora fiorito. L'uomo aveva smesso di portare fiori di ciliegio. Era finita la stagione.

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Capitolo 3
*** 31 ottobre 1988 - Sweet Stuff ***




31 ottobre 1988
Sweet Stuff




     “Tanti auguri a me.” pensò L, aprendo del tutto i grigi occhi a mandorla, guardando, senza vedere, il resto del dormitorio maschile.
Quella mattina si respirava ancora più aria di depressione alla Wammy's House; gli alberi erano spogli, il cielo era grigio, fredda era la luce che penetrava dalle finestre. Era un autunno triste ed incolore, come i pasti serviti alla mensa, compresa la colazione che li aspettava quella mattina, per la quale gli altri bambini erano già saltati giù dai propri letti a castello e si stavano affrettando a vestirsi.
L si voltò verso la finestra alle sue spalle, ignorando gli spifferi che entravano attraverso i vecchi infissi di legno, raggomitolandosi sotto le coperte. Ripensò a Boston, alle zucche di Halloween e alle decorazioni alle finestre, alle candele e ai bambini che scorrazzavano eccitati per le strade. Rimaneva spesso a guardarli per ore dalla finestra della cucina, non appena sua madre usciva per andare a lavoro; pensava fosse stupido essere così eccitati per una festa del genere. Per qualunque tipo di festa, a dire il vero. Le coppiette che affollavano le vie con in mano mazzi di fiori e cioccolatini a San Valentino, irlandesi (e non solo) ubriachi che vomitavano nei vicoli a San Patrizio, bambini eccitati che cercavano uova nei cortili a Pasqua, bambini eccitati che chiedevano dolcetti ad Halloween, bambini eccitati che facevano pupazzi di neve e uscivano per le strade coi loro giocattoli nuovi a Natale... Bambini eccitati. Bambini.
L odiava essere un bambino.
     Quel giorno compiva nove anni e finalmente non avrebbe visto altri marmocchi esagitati travestiti in modo grottesco correre per le strade per qualche cioccolatino. A Winchester magari si festeggiava Halloween proprio come negli Stati Uniti, ma la Wammy's House si trovava isolata nelle campagne e, soprattutto, non si facevano feste, lì.
Ma L continuava a pensare a Boston, e ai bambini di Boston. Ai figli degli immigrati del quartiere di periferia dov'era nato ed era vissuto, che magari quell'anno non sarebbero passati a bussare al portone del suo palazzo. Continuava ad immaginarseli mentre attraversavano la strada pur di non calpestare il selciato che sua madre aveva bagnato di sangue quasi un anno prima, bisbigliando tra loro “Questa è la casa di quella cameriera che si è buttata. Mio padre dice che era una svitata e un'ubriacona”.
Ci sarebbe rimasta male, la zia Angelica.
Magari anche quell'anno aveva preparato i suoi sacchetti di biscotti da distribuire a chi veniva a fare “dolcetto o scherzetto”; sarebbe andata a letto sfinita e triste, quella sera, se non si fosse presentato nessuno. Ah, quanti biscotti avanzati si sarebbe potuto mangiare, se solo gli avessero permesso di rimanere a vivere con la zia!
     L cacciò quel pensiero dalla mente e si alzò di scatto. Gli altri bambini erano già quasi tutti vestiti e stavano uscendo ordinatamente dal dormitorio.
Si trascinò controvoglia verso i cassetti del comodino e prese la propria uniforme. Se fosse rimasto a vivere con la zia, non importa quante cose lei gli avrebbe insegnato, non importa quanti libri gli avrebbe portato dalla biblioteca, L non avrebbe mai imparato tutto ciò che era riuscito ad imparare in quei mesi. Alla Wammy's House vigeva una rigida disciplina, e i compagni lo avevano preso di mira sin dal primo giorno; i livelli di competitività e lo stress erano altissimi, ma L non credeva ci fosse al mondo luogo più adatto per mettere alla prova le proprie capacità.
Si era sempre sentito fuori posto, sin da quando ne aveva memoria. Ma pensava fosse meglio sentirsi fuori posto alla Wammy's House, dove tutto ciò che contava erano l'intelligenza, la logica, l'intuito, piuttosto che provare la stessa sensazione in qualsiasi altro luogo. Dove non sarebbe stato un re. Dove avrebbero potuto definitamente schiacciarlo.
     Uscì dal dormitorio mentre si abbottonava malamente la giacchetta, di pessimo umore.
Non fu tuttavia l'ultimo a giungere in mensa; i ragazzini e le ragazzine arrivavano quasi sempre quando tutti i più piccoli avevano finito di mangiare, per cui c'erano ancora dei posti a sedere.
Scrutò la sala con una rapida occhiata per individuare la zazzera di capelli di rossi di Clarence... O J, come aveva deciso di farsi chiamare. Era da un bel po' che lui e il suo gruppetto di amici non gli mettevano le mani addosso, ma non voleva rischiare proprio quel giorno di ritrovarsi la faccia nella propria tazza di porridge d'avena per essere entrato nel suo raggio visivo.
Eccolo, seduto al tavolo più chiassoso della mensa. La madre di L non gli aveva mai permesso di uscire di casa né di andare a scuola, perciò L non sapeva esattamente come fossero le scuole normali, ma J sembrava proprio il tipico bulletto dei film che passavano in TV.
Volse lo sguardo altrove, cercando, questa volta, una chioma bianca su una testa dritta, in mezzo a quella marea di capi chini.
-Se cerchi K, non è ancora scesa.- disse una voce femminile alle sue spalle.
L bambino si voltò. Le gote color caramello della bambina sulla soglia della porta dietro di lui si fecero rosse, mentre i suoi occhi neri si abbassavano a guardare la punta delle scarpe, ma L registrò il dettaglio e lo classificò come non rilevante. Era Tara, quella che condivideva il letto a castello con K.
La bambina si prese la lunga treccia di spessi capelli neri e cominciò a rigirarsela tra le dita con gesti nervosi.
-È un po' di giorni che la vedo strana. Più strana del solito, ecco. A-aspetta, non volevo dire che...- si corresse, arrossendo di nuovo. Poi lasciò andare la treccia e riprese. -Ha detto che sarebbe andata direttamente a lezione, senza fare colazione.-
Prese un po' di coraggio e alzò lo sguardo, mentre L continuava a guardarla inespressivo e muto.
-Mi ha chiesto di coprirla come al solito, stasera. P-per caso scappate di nuovo?-
     Tara era una bambina incredibilmente intelligente, L glielo riconosceva, ma le mancava lo spirito. Ammirava K, la sua indole ribelle e il suo completo rifiuto delle regole, e probabilmente le sarebbe piaciuto partecipare alle sue fughe... ma K riteneva che non sarebbe stata in grado di sostenere la pressione e li avrebbe fatti scoprire; per questo non la portava mai con loro, quando uscivano dalla Wammy's House. E L pensava che avesse ragione.
-Non mi ha detto nulla.- rispose invece, senza lasciare trasparire la punta di risentimento che sentiva punzecchiarlo.
K era l'unica, a parte il vecchio Wammy, a sapere che quello era il giorno del suo compleanno. Non sapeva perché gliel'avesse detto: forse perché, tra tutte le persone in quell'istituto, era stata l'unica a comportarsi sempre in modo gentile nei suoi confronti; forse era perché aveva, seppur controvoglia, accettato di rimanere accanto a lui la notte in quei periodi in cui passavano giorni durante i quali i suoi incubi gli impedivano di dormire. Forse era perché lei non gli aveva mai fatto domande.
Eppure, ora si dava dello stupido per aver sperato che lei se ne fosse ricordata.
Probabilmente, quella sera sarebbe scappata dalla Wammy's House per andare a Winchester e mescolarsi ai bambini che giravano per le strade a chiedere dolcetti. Probabilmente, aveva ritenuto che lui non fosse adatto ad una fuga del genere, che si sarebbe lamentato tutto il tempo della confusione, del freddo, della troppa strada da fare. E L pensò che avesse ragione.
E così si era ritrovato escluso, proprio come Tara, che continuava a guardarlo, torcendosi le mani.
-Po-possiamo sederci insieme, se vuoi.- disse infine, chinando il capo.
Ma L era già uscito dalla mensa, con le mani in tasca e col suo solito sguardo cattivo negli occhi grigi.


     Le lezioni passarono più lentamente del solito, quel giorno, o forse era l'umore di L ad essere pessimo. Ringraziava solo il cielo di non aver nessun corso in comune con J, quel giorno, o probabilmente non avrebbe fatto nulla per evitare una eventuale rissa.
E la cosa che lo rendeva più nervoso era il pensiero stesso di essersela presa. Di essere giunto a dipendere così tanto da un'altra stupida mocciosa.
Non le avrebbe più chiesto di aiutarlo a dormire quando gli incubi di sua madre che si gettava dalla finestra lo tenevano sveglio. Niente più ninnananne al pianoforte o mormorate, niente più finestre lasciate aperte perché lei potesse entrare nel cuore della notte per prenderlo e scappare verso il ciliegio in riva al fiume. Soprattutto, giurò che non avrebbe mai più dormito con lei, perché lei scacciasse i suoi incubi.
Pensava a tutto questo mentre prendeva a calci una cartaccia trovata sul pavimento di ritorno al dormitorio, con le mani in tasca e la schiena curva.
Aprì la porta con più energia di quanto fosse necessario, facendo voltare tutti i bambini che si stavano cambiando per la cena, e andò dritto verso il suo lettino, l'unico singolo in mezzo a tutti i letti a castello, e vi su buttò di pancia, vestito, deciso a dormire fino al giorno dopo. Prima, però, si alzò quel tanto che bastava a mettere il chiavistello alla finestra.
     Il vociare dei bambini intorno a sé continuò per un po', poi vi fu silenzio e buio. Ma L non riuscì ad addormentarsi. Sentiva le lancette dell'orologio da muro battergli nelle tempie, tanto che si alzò e andò alla libreria del piccolo dormitorio a cercare qualcosa da leggere.
Ogni dormitorio aveva di norma quattro letti a castello, disposti sui due lati, ma nel suo avevano aggiunto anche il lettino singolo sotto la finestra, per cui lo spazio, già esiguo, era ancora più ridotto. La libreria aveva otto scaffali, uno per ogni bambino, per cui i suoi libri erano stati messi in cima ad essa. Usò, come suo solito, uno dei bauli dei suoi compagni e una sedia per arrampicarsi fin lassù e prendere “Uno scandalo in Boemia”, il suo racconto preferito di Conan Doyle, e un eserciziario di fisica.
Il dormitorio non era stato pensato per permettere agli studenti di studiarvi, difatti non c'erano scrivanie, e nemmeno abaj-jour sui comodini: per cui L accese l'unica fonte di luce della stanza, il lampadario, per approfittare di quei momenti di calma.
Si infilò sotto le coperte quando sentì i suoi compagni tornare, cercando di ignorare i brontolii del proprio stomaco, che non aveva toccato cibo per tutto il giorno. Contava di aspettare che tutti si fossero addormentati per mettersi a leggere alla finestra, approfittando della luce dei lampioni nel parco della tenuta, ma, senza rendersene conto, scivolò in un sonno senza sogni.


     Si svegliò di soprassalto al sentire il familiare ticchettio sul vetro della finestra, e, d'istinto, si scoprì per aprirla, ricordandosi soltanto a metà del gesto del suo giuramento di non lasciare mai più entrare K. Era già deciso a dipingersi sul volto l'espressione più contrariata che gli riuscisse per mandare via la mocciosa e tornarsene a letto, ma rimase interdetto a vedere una figura vestita con un lungo abito nero e capelli corvini guardarlo con un ghigno soddisfatto. La riconobbe soltanto dagli occhi rossi.
Tolse, suo malgrado, il chiavistello alla finestra.
-Già a letto, piccolo Sherlock?- gli domandò lei, divertita.
-Sei andata a festeggiare Halloween?- grugnì lui, guardandola storto. -Da cosa sei vestita?-
-Morticia Addams, ovviamente. Perché sono pallida e spettrale.- rispose lei, aggrappandosi al davanzale della finestra. Il cornicione che correva sotto le finestre dei dormitori maschili al secondo piano era abbastanza largo perché lei riuscisse a camminarci senza problemi, ma L continuava a pensare che fosse una pazzia che la bambina corresse rischi del genere così di frequente.
K si tirò su e saltò sul letto del bambino, chiudendosi la finestra alle spalle. Una testa si mosse nella penombra: era Quentin, il prodigio del calcolo matematico.
-K, fa' un po' meno rumore quando entri.- bisbigliò, socchiudendo appena gli occhi color nocciola. -Qui noi vogliamo dormire, a differenza vostra.-
Nessuno in quel dormitorio avrebbe mai osato riferire delle visite notturne di K o delle fughe di L; questo perché tutti avevano paura di K. Tranne Quentin. A Quentin sembrava non importasse nulla degli altri. Per questo a L piaceva.
K congiunse le mani in segno di scusa rivolta verso il letto di Quentin, poi afferrò L per una mano e lo trascinò fuori dal dormitorio.
Poco male, pensò il bambino; non appena fossero stati in un posto più tranquillo, non avrebbe aspettato che quella svitata di K gli raccontasse tutte le fantastiche avventure vissute quella sera. Le avrebbe detto che era stufo di lei, delle sue pazzie e delle sue fughe, e che sarebbe stato meglio per entrambi farsi ognuno i fatti propri.
     La bambina trattenne il respiro, sicuramente per riuscire a sentire meglio i rumori circostanti, infine fece cenno a L di seguirla attraverso il solito percorso sulle assi del pavimento che non scricchiolavano. Gli fece strada fino al ripostiglio delle scope, poi estrasse il passepartout che aveva rubato mesi prima alla povera custode, al culmine di un piano minuziosamente studiato da entrambi per settimane.
Aprì la porta e lo fece entrare per primo, poi si chiuse la porta alle spalle. Infine estrasse una torcia che aveva rubato chissà dove e se la puntò sotto il mento.
-Non sono spaventosa?- bisbigliò, tentando di alterare la sua vocina da fringuello.
-Sei una rompiscatole.- rispose lui, continuando a tenere il broncio.
Lei spalancò gli occhioni rosati e appoggiò la torcia a terra.
-Credevi mi fossi scordata di oggi?- domandò, con voce fintamente ferita.
-Uomo di poca fede!- aggiunse in modo teatrale, chiudendo gli occhi e portandosi una mano al petto e una sulla fronte, rovesciando indietro la testa. -Se penso a tutto quello che ho fatto per te!-
-Dacci un taglio.- borbottò lui. -Hai frainteso. Penso solo che non sono più un bambino, e tu non dovresti esserlo più da tempo, invece guarda come ti sei conciata.-
Per tutta risposta, lei gonfiò le guance in modo plateale.
-Ho recuperato questo vestito da sera dalla professoressa Heatwick, e non sai che fatica ho fatto a cercare di non rovinarlo! Se scopre che l'ho preso dalla lavanderia è la volta buona che mi ammazza.-
Poi si tolse dalla testa la parrucca nera, rivelando una coppia di trecce bianche all'olandese sotto.
-Questa... è mia, invece. Non posso dirti perché ce l'abbia, in realtà.-
Se la rigirò tra le mani, e poi la appoggiò su uno scaffale.
-In realtà era castana, ma l'ho colorata di nero con della fuliggine fissata con la lacca. Bel lavoro, eh?-
Sorrise nel buio dello sgabuzzino, poi si voltò e prese la sua logora sacca scura, dalla quale estrasse una manciata di cioccolatini.
-È una fortuna che tu compia gli anni il giorno di Halloween. Non avrei soldi per comprarti una torta, ma in qualche modo sono riuscita a procurarti dei dolci.-
     L guardava incantato la carta lucida dei cioccolatini che sembrava risplendere alla debole luce della torcia, e si decise infine ad allungare due dita per prenderne uno.
-Sono per me?- domandò curioso, alzando il dolcetto ed esaminandolo da vicino.
-Certo che sono per te!- rispose K, rimettendo il contenuto della mano bianca nella sacca per poi avvicinarla al bambino. C'erano anche alcune tavolette di cioccolata, delle caramelle e dei lecca-lecca; L non ricordava di aver mai visto tanti dolciumi tutti insieme: sua madre non gliene lasciava mangiare, e sua zia preferiva preparargli torte o biscotti da passargli di nascosto, piuttosto che prendergli quei dolcetti che “chissà cos'avevano dentro”.
-Diventerò il bambino grasso da prendere in giro, se mi mangio tutta questa roba.- disse infine, continuando ad esaminare il cioccolatino incartato che teneva tra le dita con occhi famelici.
K rise sotto i baffi, poi rovistò ancora nella propria sacca ed estrasse una scatola di fiammiferi.
-Usi tanto il cervello, brucerai un sacco di glucidi, no? Non penso qualche cioccolatino ti farà male. E poi so che detesti tutto quello che ci danno da mangiare qui, perciò ho pensato che potessi tenerti una scorta di qualcosa di buono da mangiare di tanto in tanto.-
Poi accese il fiammifero.
-Esprimi un desiderio, fratellino.-
L la guardò interrogativo.
-Fratellino?-
-Beh...- rise ancora lei. -Sei praticamente il mio fratellino, no?-
Coprì la fiamma con una mano bianca.
-Ho deciso di prendermi cura di te. Mi fa... sentire meglio.-
E pronunciando quelle parole abbassò lo sguardo, ed un sorriso triste prese posto sulle sue labbra.
-Si sono occupati di me per tre anni dopo che... sono rimasta orfana. Ma non mi sono mai sentita così bene come quando scappiamo insieme... o quando mi occupo di te. Forse sarà egoista, ma... mi sarebbe piaciuto avere un fratello o una sorella. E con te mi sento meno sola.-
Estrasse quindi un nuovo fiammifero e ne accese la punta di zolfo con quello che teneva in mano, che si era ormai consumato fino quasi alla base.
-Ok, ora esprimi un desiderio e soffia.-
     La fiamma novella traballava nella semi oscurità, mentre L pensava che, dopotutto, forse K aveva ragione. Era un fratellino che lei stava viziando. E sebbene a L l'idea della famiglia non fosse mai piaciuta più di tanto, doveva riconoscere che aveva sempre voluto essere viziato.
Per cui, forse, andava bene anche così. Lui avrebbe continuato a farsi viziare, e K avrebbe combattuto i propri demoni e la propria solitudine occupandosi di lui come un fratellino.
Chiuse gli occhi a mandorla e soffiò sul fiammifero acceso.
-Buon compleanno, L.-
Però era contento per i dolci. Avrebbe voluto dirlo a K, ma non era mai stato bravo a parlare di certe cose.




Note


     Non sono morta!
Purtroppo, però, il blocco continua. Ho ricominciato il capitolo 19 di November un sacco di volte, continuo a cancellare e a riscrivere. Nel frattempo, ho buttato giù alcune bozze di ciò che accadrà più avanti nella storia, e ho fatto una scaletta completa degli episodi di Before. Ho deciso che non li pubblicherò in ordine cronologico; appena ne avrò finito uno lo pubblicherò, altrimenti credo che non finirò mai più nemmeno questo prequel.
     Riguardo a questa OS: ovviamente mi sono immaginata sia l'interno della Wammy's House, sia le sue regole e i suoi insegnanti. I dormitori, mentre li descrivevo, mi hanno ricordato in parte quelli di Hogwarts e in parte quelli di Hailsham (del romanzo Never Let Me Go di Ishiguro), ma probabilmente descriverò tutta la struttura nel dettaglio in una OS che precede cronologicamente questa.
     Un appunto sul titolo: ovviamente, si riferisce sia ai dolcetti, sia al momento di tenerezza di K nei confronti di L. Il motivo che sta dietro a certe mie scelte lessicali è che mi immagino gran parte dei dialoghi in inglese, essendo la lingua in cui si esprimono L, K, Bjarne e gli altri OC quando parlano tra loro, e solo in seguito li traduco in italiano. In certi casi riesco a mantenere lo stesso senso anche traducendo in italiano (ci sono alcuni giochi di parole nelle OS di Before che vorrei segnalarvi di volta in volta), ma, in questo caso, ho preferito lasciare il titolo in inglese perché mi sembrava suonasse meglio.
     Dal momento che ho deciso di creare una romance per L, ho vissuto fin dall'inizio di queste fanfiction il terrore di cadere troppo nell'OOC; per tentare di giustificare le mie scelte, pertanto, ho pensato che gli episodi dell'infanzia e dell'adolescenza di L fossero cruciali per spiegare il perché della mia scelta. Non è mai stata mia intenzione snaturare L; quello che L è in November deriva dalla mia interpretazione del suo passato. Ho immaginato le sue origini, la sua infanzia, i suoi traumi, ho creato una spiegazione per il suo nome, per il fatto che non dorme, per la sua ossessione per i dolci, perché indossa sempre quei vestiti e anche perché va sempre in giro scalzo e ha quei capelli fin da bambino (ci arriveremo...). In pratica, ho tentato di esplorare gli stessi aspetti che hanno costruito la sua identità, così come ho fatto con gli altri miei OC. Ovviamente questo mi ha portato un po' all'OOC, purtroppo, ma è anche il motivo per cui trovo più difficile rendere Light, Misa o gli altri personaggi canonici rispetto a quanto non lo sia rendere L e i miei OC. Probabilmente dipende dal fatto che non mi sono “appropriata” anche del passato degli altri, non l'ho ricostruito.
     L da bambino me lo immagino molto come Near, anche perché ben prima di partorire questa fanfiction ho sempre pensato che Near avrebbe tranquillamente potuto essere suo figlio. Lo vedo oscillante tra la tristezza o la solitudine e la “cattiveria” che L canonicamente dice di vedere negli occhi di Near. Spero di riuscire ad elaborarne meglio il carattere nelle altre OS.
     Un grazie sentito a chi mi legge, e scusate ancora se non riesco ad andare avanti con la storia principale!

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Capitolo 4
*** 24 dicembre 1983 - Christmas Story (Parte I) ***



24 dicembre 1983
Christmas Story – Parte I

     Quell'anno i genitori di Bjarne avevano voluto che arrivasse al paesino sperduto a trenta chilometri da Prineville, in Oregon, dove vivevano i suoi nonni materni, con qualche giorno d'anticipo. Lui, d'altro canto, ne avrebbe volentieri fatto a meno. Certo, erano sempre stati gentili con lui, questo non poteva negarlo, ma sentiva che c'era qualcosa di strano nel loro sguardo, a volte, una sorta di distacco, di estraneità che sentiva ferirlo nel profondo.
Capitava specialmente nei momenti in cui tutta la famiglia Jordan si riuniva per le grandi occasioni e la nonna andava a rispolverare i vecchi album fotografici. Oh, Jacob, quanto somigli allo zio Arnold! E tu, Lisa, sei identica alla tua bisnonna da giovane! Eppure, non c'era alcuna foto di alcun parente in cui poter riconoscere alcuni dei tratti del volto di Bjarne, ed era in quei frangenti che gli sguardi dei suoi parenti si facevano sfuggenti, calava un imbarazzante silenzio e la nonna richiudeva velocemente l'album lamentando il fatto che la polvere peggiorasse la sua asma.
A Bjarne non importava di essere stato adottato. Ma odiava quando per gli altri questo si rivelava essere un argomento tabù. Come se ci fosse qualcosa di sbagliato; o di vergognoso.
     Però il ragazzino era abbastanza ottimista; ai nonni serviva solo altro tempo. Era già stato un duro colpo il primo divorzio della mamma dal reverendo Bryce, che aveva gettato la famiglia nell'infamia agli occhi dei benpensanti della loro parrocchia; una donna sterile non era una vera donna, non potendo assolvere al suo unico compito: sfornare figli.
Ci avevano messo non poco a superare la paura di farsi vedere in pubblico, avendo ereditato da generazioni e generazioni passate il terrore del giudizio altrui. E certo, l'arretratezza mentale degli altri membri della sua famiglia materna non aiutava.
-Barney!- lo chiamò con voce abbastanza seccata una prozia da parte della famiglia della nonna, che però era anche una lontana cugina dalla parte della famiglia del nonno. Il ragazzino avrebbe volentieri finto di non aver capito che si stava rivolgendo a lui, come faceva di solito, ma pensò fosse meglio evitare di alimentare la tensione che era già palpabile da ore in quella grande casa di periferia.
-Sì, zia Becca?- rispose, alzando il mento dal davanzale della finestra dal quale stava osservando i giochi di luci delle decorazioni della casa di fronte.
-Sono arrivati i tuoi parenti, valli ad aiutare a scaricare.- disse la donna alzando la voce, per sovrastare il trambusto dei propri figli che correvano per la casa giocando con animaletti fatti di pan di zenzero.
Bjarne corse alla porta, la aprì e le sue guance rosee furono investite da una folata di vento gelido.
-Ciao zia Beth! C'è anche lo zio Javier?-
La sorella di sua madre si tirò la sciarpa fin sopra al naso, ma Bjarne poteva vedere che gli stava sorridendo dal luccichio negli occhi castani. Lasciò aperta la porta per andare a prendere il cesto di Natale che stava reggendo con una mano già rossa e un po' squamata dal freddo, mentre, poco più in là, un ragazzino pagava il tassista e controllava il proprio borsone.
-Ciao tesoro!- esclamò la zia, allungando istintivamente una mano verso i capelli biondo platino del nipote, fermandosi a metà del gesto, esitante.
-Fai pure, non mi dà fastidio.- le sorrise Bjarne, prendendo il cesto e allungando il collo per darle un bacio sulla guancia.
-Ciao Chris!- urlò poi al ragazzino imbacuccato fino alle orecchie che stava risalendo il vialetto. -Quest'anno festeggerai un autentico Bianco Natale. Non sei contento?-
Sentì Chris ridere da sotto lo sciarpone di lana che gli copriva praticamente tutta la faccia, lasciando scoperti solo gli occhi smeraldini.
-Javier non c'è.- rispose infine la zia Beth, allungando il passo verso la porta aperta. -Sai, l'ha chiamato ieri sera un tizio dicendo che aveva provato a prenotare la cena di Natale in qualche ristorante, ma era tutto prenotato. Il ventitré dicembre, ti rendi conto? E quindi voleva fare la cena a casa sua, ma ovviamente...-
-La casa aveva bisogno di un'imbiancata.- concluse Bjarne, con una mezza smorfia.
     Entrarono tutti in casa e si chiusero la porta alle spalle.
-Nemmeno io mi fermerò a lungo, comunque.- aggiunse la zia, cominciando a togliersi l'elegante sciarpa di lana e il lungo cappotto nero, rivelando una figura slanciata e abiti di tale buon gusto che avrebbe fatto morire d'invidia la zia Becca, non appena si fosse affacciata dalla cucina per mugugnare un saluto.
-Domani sera ho un volo trans-continentale.- aggiunse, sospirando, mentre percorreva a passo leggero il parquet dell'ingresso senza fare rumore coi lucidi stivaletti neri. -Mi auguro che sia completamente vuoto, o che i passeggeri siano troppo depressi per il fatto di dover viaggiare la sera di Natale per chiamare gli assistenti di volo ogni cinque minuti.-
-Dove sono i nonni?- domandò allora Chris, emergendo dai suoi vestiti pesanti. -Ah, e a proposito di questo; il prossimo anno voglio di nuovo festeggiare il Natale dagli altri nonni in Costa Rica. Ne ho abbastanza di freddo gelido e parenti acidi e razzisti.-
-C'è posto anche per me?- ridacchiò Bjarne, raccogliendo le giacche.
     A Bjarne Chris stava simpatico, anche se non lo vedeva molto spesso. La zia Beth era hostess, per cui molto spesso lavorava durante le feste. Chris spesso ne approfittava per farsi qualche breve viaggio in qualche città con sua sorella maggiore Rosario coi biglietti procurati dalla mamma. Era molto sveglio, Chris. Bjarne lo condusse nella grande mansarda che era stata allestita con materassi in ogni angolo per i nipoti, e gli indicò il suo posto letto.
Il ragazzino appoggiò il proprio borsone ai piedi del materasso e si stiracchiò.
-Credo ora dovremmo scendere.- gli disse Bjarne, guardandolo con espressione compassionevole.
-Dobbiamo proprio?- sbuffò Chris, ma si voltò e si diresse comunque verso la scala a pioli.
La cucina era un disastro totale, la zia Becca e altre due vecchiette, il cui grado di parentela non era mai stato meglio identificato, si affollavano attorno al tavolo su cui faceva bella mostra un tripudio di piatti a base di carne e di patate, luccicanti sotto il grasso che li ricopriva.
-Zie?- provò ad attirare la loro attenzione Bjarne. -Zie... ci sono la zia Beth e Chris... possiamo aiutarvi?-
Il continuo sbraitare delle donne si smorzò per un attimo. Una delle due cariatidi, anche lei chiamata Anne, come sue madre, lanciò un'occhiata storta ai due ragazzini e disse, seccata: -Non ci serve l'aiuto di due ragazzini. Se volete rendervi utili, andate a chiamare Elizabeth e ditele di venire a dare una mano in cucina. Oppure è troppo donna di mondo ormai per sporcarsi le mani?-
Bjarne sentì il cugino fremere alle sue spalle, così si voltò di scatto, lo afferrò per un braccio e lo trascinò via, dicendo: -Certo, zia Anne, vado subito.-
Appena fuori dalla portata delle orecchie radar delle zie, Chris si scrollò il cugino di dosso.
-Non ti agitare.- gli disse Bjarne. -Sei arrivato da cinque minuti. Sai quante ne ho dovute sorbire io, da quando sono qui?-
-Vorrei tanto sapere come fai a sopportare questa gente. Non ti ricordi tre anni fa, quando uno dei pronipoti è venuto alla cena della vigilia per presentarci la moglie? Quand'è arrivato a presentare noi lei ha detto “Ah, ma quindi non siete ehm... di colore!”. L'ha detto con un tono che non mi è piaciuto per nulla, come se si sentisse sollevata.-
Stava stringendo i pugni. Bjarne si diresse verso la porta che dava sul retro della casa, mentre sussurrava: -Non credo prendersela serva a qualcosa. Molti di loro non lo fanno per cattiveria.-
Si sedettero entrambi sulla panca sulla veranda, e Bjarne prese la spessa coperta di lana perché potessero coprirsi.
-Molti di loro non sono nemmeno mai usciti dalla contea di Cook. Prineville per loro è il massimo centro di civiltà... sono di mentalità ristretta, sono bigotti, ma non ci vogliono realmente male.-
Chris rimase per un attimo in silenzio a pensare.
-Tranne la zia Becca e le prozie zitelle.-
Bjarne rise, e il suo respiro si trasformò immediatamente in condensa nella fredda aria di quel dicembre che prometteva neve.
-Tranne loro. Ma loro sono acide e maleducate con chiunque, quindi fossi in te non lo prenderei sul personale.-

     La cena cominciò alle sei. Il marito della zia Becca, Joshua, quello della ditta di legname, aveva fabbricato anni addietro una tavolata componibile a ferro di cavallo abbastanza grande da poter accogliere tutti i parenti (o, almeno, tutti gli adulti) nel salone grande della casa dei nonni. Bjarne e Chris speravano ogni Natale di essere diventati abbastanza grandi da essersi guadagnati il privilegio di sedere a quel tavolo, e quello fu finalmente l'anno buono: c'erano due segnaposto scritti con l'inconfondibile calligrafia curata ed elegante della nonna, di fianco alla zia Beth, che inutilmente si stava offrendo di aiutare le donne di famiglia a servire le portate.
Purtroppo, sedersi al tavolo degli adulti comportava anche una delle più crudeli delle torture mai inflitte all'uomo: le domande sulla tua vita e sul tuo futuro, e l'accesa competizione tra nipoti per dimostrarsi i più degni di lode della famiglia. Dopo venti minuti passati a sentir parlare del nuovo lavoro della cugina Mary e degli studi del cugino Simon all'università dell'Oregon, nel trambusto generale si udì la voce di Chris dire: -A me piacerebbe andare a Stanford.-
Tutti gli occhi si voltarono verso il ragazzino, che si stava servendo una seconda porzione di patate arrosto, con lo sguardo fisso sul piatto.
-Wow, Chris!- esclamò Bjarne, sorridendo. -Hai già le idee chiare?-
Anche la zia Beth sorrise.
-Già. Ha preso molto sul serio la cosa, si sta impegnando molto a scuola e ha già cominciato a fare molte attività extracurricolari.-
-Vorrei seguire le orme di mio padre.- riprese allora il ragazzino, rivolgendosi a Bjarne.
-Da quando bisogna andare a Stanford per diventare imbianchini?- borbottò la zia Becca, ripulendosi le labbra col tovagliolo bianco ricamato.
Bjarne notò come il cugino iniziava ad irrigidirsi, e come le pupille si stavano stringendo negli occhi verde smeraldo, e sarebbe stato pronto ad intervenire, ma il nonno fece cadere le posate nel proprio piatto in quell'esatto momento, provocando un fastidioso rumore che fece di nuovo voltare tutti.
-Il padre di Chris era avvocato, in Costa Rica.- disse come se nulla fosse, raccogliendo le posate senza degnare la parente impicciona di un ulteriore sguardo.
-Bravo, giovanotto.- fece poi, rivolto al nipote. -Il duro lavoro ripaga.-
Ma Chris era nervoso da ore, e quell'ultima uscita infelice non aveva fatto altro se non buttarlo ancora più giù. Si alzò dal tavolo con una scusa e corse via, sollevando un diffuso mormorio nell'intera sala. Bjarne lanciò un'occhiata alla nonna, che si guardava intorno con la sua solita espressione spersa e spaurita, ammutolita e dispiaciuta per come le cose erano precipitate. Di nuovo. Il nonno sospirò e tornò a fissare il proprio piatto, troppo stanco per rimettere ordine.
     Il ragazzino pose allora una mano sulla spalla della zia Beth, che ora si reggeva la testa mollemente con una mano, i gomiti appoggiati incuranti sul tavolo, e seguì il cugino.
Lo trovò che camminava svelto in mezzo alla strada, mentre ancora si infilava il giaccone e la sciarpa pesanti, respirando affannosamente e prendendo a calci qualunque cosa si trovasse di fronte. Bjarne lo raggiunse di corsa, e rimase lì, tenendo il suo passo, in silenzio, mentre Chris continuava a camminare veloce e senza meta. Arrivarono ai confini del paese, dove la strada si faceva più ripida e cominciava a salire verso le colline, prima che il ragazzino cacciasse un urlo carico di rabbia e frustrazione. Si buttò poi sul ciglio della strada, tenendosi la testa tra le mani.
Bjarne gli si sedette di fianco.
-Ti avevo detto di non prendertela sul personale.- disse, alitandosi sulle mani arrossate dal freddo.
-Sono sedici anni che mi tocca sopportare frecciatine o insulti perché sono latino.- ribatté Chris, alzando la testa e battendo le mani sulle ginocchia. -Quelli guardano dall'alto in basso mio padre perché è straniero. Lo chiamano “colombiano”, a casa, in California, ma qui è addirittura peggio. Per loro è messicano. Per loro lui non vale nulla, non può essere in grado di fare nulla, per loro è stupefacente che sappia parlare perfettamente inglese. Loro! Che sono dei bifolchi!-
-Sfondi una porta aperta.- disse Bjarne, volgendo lo sguardo verso il paese alle loro spalle. -Perché credi che mia madre non venga praticamente mai alle cene di famiglia così allargate? Qui in paese la trattano come un'appestata perché ha divorziato dal reverendo Bryce.-
Si rivolse di nuovo verso Chris.
-Tua madre è diventata hostess e ha deciso di viaggiare, ha conosciuto un uomo in un paese lontano e s'è sposata. Mia madre era sterile. Dobbiamo ritenerci fortunati che siano nate nel ventesimo secolo, o le avrebbero messe entrambe al rogo per stregoneria. Anche se, in quel caso, noi non saremmo qui, quindi non dovremmo subirci i parenti. Dici ci è andata male?-
Chris rise piano, e incrociò le gambe, rivolgendo finalmente lo sguardo al cielo terso illuminato dalle stelle.
-Sei troppo buono, Bjarne. Sei davvero figlio della zia Anne.-
Rimasero entrambi in silenzio a guardare il cielo, mentre un vento freddo soffiava dalle colline verso il paese.
-Scusami se sono intrattabile. Ma vedi... Rosario ormai non torna più a casa, credo presto si trasferirà definitivamente all'estero. Mia madre è sempre fuori per lavoro, e mio padre soffre. Lo vedo, ogni sera quando torna a casa. Vorrebbe che mia madre non dovesse lavorare anche nei giorni di festa, vorrebbe che facesse soltanto le tratte nazionali per permetterle di stare a casa più spesso. Vorrebbe avessimo più tempo per stare insieme... ma come si fa? Lo pagano una miseria, e lui è frustrato perché sa di poter fare molto di più.-
Sospirò.
-In questo periodo alla TV si vedono solo film natalizi e si sente solo parlare di buoni sentimenti, di desideri e miracoli di Natale. Sai cosa vorrei per Natale?- domandò poi, stringendosi la sciarpa attorno al collo. -Vorrei che mio padre potesse fare un lavoro che gli piace, che lo faccia sentire realizzato. A lui piaceva davvero fare l'avvocato; forse è anche per questo che ora voglio entrare a Stanford.-
-Lo zio Javier sarebbe felicissimo se ci riuscissi.- disse allora Bjarne. -Ma non credo vorrebbe che tu ti sentissi obbligato.-
-Tu hai un desiderio per Natale?- gli domandò il ragazzino.
Bjarne sollevò un angolo della bocca in un sorriso storto.
-Quand'ero piccolo e credevo ancora nella magia del Natale, speravo ogni anno di avere un fratellino o una sorellina.-
Si strinse nel giaccone, mentre un brivido gli percorreva la schiena.
-Avevo quattro anni quando i miei mi hanno detto che ero stato adottato. E me l'hanno detto perché continuavo a dire che volevo un fratellino o una sorellina. Mi hanno dovuto spiegare che non potevano avere figli, mi hanno dovuto spiegare vagamente da dove arrivano i bambini, e che per avere un fratellino avrebbero dovuto chiedere di prendere un bambino rimasto senza mamma e papà. È stato un Natale... particolare.-
Risero entrambi, mentre la luce che illuminava le loro teste si affievoliva, coperta da nubi grigie trasportate lì dal vento.
-In realtà, un po' continuo a sperarci. Ma so che è inutile.-
-I tuoi pensano di essere troppo vecchi?- domandò Chris.
-Non so se lo sai, ma a mia madre rifiutarono un'adozione normale perché la consideravano mentalmente instabile. Sai, perché dopo che scoprì di essere sterile e il reverendo Bryce la ripudiò e chiese il divorzio, lei tentò il suicidio. Poi conobbe mio padre, proprio una vigilia di Natale, lavorando alla mensa per i poveri, come ogni anno. Lui viveva a Portland, e quell'anno mia madre decise di andare lì a fare volontariato, per evitare gli sguardi penosi della gente che invece le avrebbero rivolto qui. Lavorarono insieme e poi rimasero tutta la notte a parlare. Cominciarono a frequentarsi, e lui le disse che non gli importava che fosse sterile, perché avrebbero potuto adottare bambini bisognosi. Quindi, quando le rifiutarono la possibilità di adottare perché non la consideravano idonea, fu un altro duro colpo.-
Si alzò in piedi, battendo un po' di denti, e si mise a saltellare sul posto per riscaldarsi.
-Infatti non raccontano molto spesso di come mi hanno adottato perché non è stata una cosa molto... legale, ecco. Andarono in Inghilterra per seguire una terapia alternativa per la fertilità, e incontrarono una ragazza incinta che voleva dare il bambino in adozione. Beh, anche mio padre ha studiato da avvocato, anche se fa il consulente legale per gli ospedali. Quindi, insomma... è così che mi hanno avuto. E questo è parte del motivo per cui chiedere un secondo bambino in adozione è sempre stato così difficile.-
     Anche Chris si alzò da terra e cominciò a muoversi per riscaldarsi. Poi gli fece cenno con la fronte, dal momento che teneva le mani in tasca e il suo viso era quasi interamente inghiottito dallo sciarpone, perché tornassero indietro.
-Tuo padre non è fatto per lavorare nella sanità privata.- disse ad un tratto, mentre allungava il passo verso le stradine illuminate dalle luci di Natale. -È troppo buono. Siete tutti troppo buoni. Sembrate finti.-
Bjarne rise.
-Dovrebbero mettersi in società, mio padre e il tuo.- disse. -Se avesse un suo studio ed esercitasse come avvocato, mio padre non verrebbe continuamente trasferito di ospedale in ospedale perché lo beccano a cercare di far passare gente che non ha l'assicurazione. E tuo padre potrebbe cominciare a mettere da parte qualche spicciolo per pagarti i debiti che ti farai ad andare a Stanford.-
L'aria sembrava più calda, e la notte meno buia, ora che stavano tornando sui loro passi.
-Mmm... Ascolta, Chris.- riprese ad un tratto Bjarne, fermandosi alla vista della chiesa del paese. -Il reverendo Bryce a quest'ora fa distribuire cioccolata calda. Andiamo a trovarlo?-
Il ragazzino fece spallucce, col viso di nuovo semi nascosto nella sciarpa di lana e con le mani ficcate per bene in tasca.
Si misero pertanto in coda fuori dall'edificio antistante la chiesa evangelica, sfidando apertamente con lo sguardo chiunque li fissava con una certa insistenza, certi che il motivo fosse la loro pelle leggermente più scura della media del posto. Quando fu il loro turno, fu Bjarne ad andare avanti, esibendo il suo miglior sorriso.
-Reverendo Bryce! Buon Natale!- esordì, allungando una mano per stringergliela, mentre una signora di fianco al pastore si stava avvicinando con un vassoio carico di bicchierini di plastica pieni di cioccolata calda.
L'uomo squadrò i due bambini con una rapida occhiata, intuendo immediatamente chi fossero (il paese era piccolo, le sorelle Jordan avevano fatto un certo scandalo, e un figlio latino e uno adottato e nero per un quarto non passavano certo inosservati), pertanto cercò di stamparsi in volto ancora una volta il sorriso di circostanza che stava ormai esibendo stancamente da tutto il giorno.
-Ah!- disse, ricambiando la stretta di mano. -Siete i nipoti dei Jordan, vero? Portate i miei saluti a casa!-
-Senz'altro!- esclamò Bjarne, controllando con la coda dell'occhio che Chris avesse preso i due bicchieri di cioccolata. -Ci tenevo a dirle, già che sono qui, che la ringrazio. Per la cioccolata, e perché, se non fosse stato per lei e per tutto quello che ha fatto... io ora non sarei qui.-
Si godette per un momento l'espressione raggelata del reverendo, che aveva aperto appena la bocca, con gli occhi strabuzzati, e il suo sorriso si allargò ancora di più.
-Ancora buon Natale!- concluse, salutando con una mano, e voltandosi per andare via.
     Non appena raggiunsero il cortile della chiesa, Chris scoppiò a ridere sonoramente, per la prima volta in tutta la giornata, tanto che Bjarne dovette togliergli i bicchierini di mano, per evitare che se li rovesciasse addosso.
-La sua faccia! Ah ah ah! Oddio!- continuava a ripetere, piegandosi in due, mentre i passanti li fissavano straniti.
-Sei un grande, Bjarne!- riuscì infine a dire, riprendendo fiato e afferrando la cioccolata che il cugino gli stava porgendo.
-Forse è vero che sono tanto buono da sembrare finto.- rise Bjarne, scaldandosi le mani col bicchierino. -Ma non credere che mi lascerei mettere i piedi in testa tanto facilmente. O che lascerei che qualcuno facesse del male alle persone a cui voglio bene.-
-Magari potresti diventare anche tu avvocato.- suggerì Chris, lasciando emergere il viso dai suoi vestiti pesanti per bere un sorso di cioccolata. -Andiamo a difendere i deboli tutti insieme. Io, te, tuo padre e mio padre. Una famiglia di emarginati. Sai che bella pubblicità? Faremmo soldi a palate!-
Risero entrambi, mentre dal cielo cominciavano a cadere grossi fiocchi di neve, e la campana suonava la mezzanotte.
-Buon Natale, Bjarne.-
-Buon Natale.-
-Spero che i nostri desideri si avverino, un giorno.-
-Lo spero anch'io.-

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