Noah

di SirioR98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bad Reputation ***
Capitolo 2: *** Emergency ***
Capitolo 3: *** Waiting ***
Capitolo 4: *** Cough Cough ***
Capitolo 5: *** Black Smoke Rising ***
Capitolo 6: *** Maghawir ***
Capitolo 7: *** High Hopes ***
Capitolo 8: *** Us ***
Capitolo 9: *** terrified ***
Capitolo 10: *** Devil ***
Capitolo 11: *** Dark Side of Me ***
Capitolo 12: *** Moth ***
Capitolo 13: *** My Blood ***
Capitolo 14: *** Kill Somebody ***
Capitolo 15: *** Peace ***
Capitolo 16: *** The Walker ***
Capitolo 17: *** when the party's over ***
Capitolo 18: *** Blowin' In The Wind ***
Capitolo 19: *** Get It Right ***
Capitolo 20: *** What a Catch, Donnie ***



Capitolo 1
*** Bad Reputation ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve, signore, signori e persone che preferiscono un'alternativa neutra in una lingue di genere. Ben ritrovati, per chi ha già letto la storia di Mitch, o benvenuti, se incappate in una delle mie storie per la prima volta! Presento a tutti voi la seconda storia di Sistema Isolato, la saga che presenta vari sistemi isolati applicati alla realtà e non.
Attenzione: la storia di Noah non ha nulla a che vedere con quella di Mitch, sono due storie distinte che presentano due esempi di sistemi isolati diversi. 
Detto questo, tengo a rispolverare le vecchie regole. Il titolo di ogno capitolo è la citazione a una canzone, di cui vi allegherò il link al video ufficiale o a un video di buona qualità, così che voi la possiate ascoltare mentre leggete. Consiglio l'ascolto del brano a basso volume, giusto per immergervi meglio nel mood della storia.
La canzone di questo primo capitolo è "Bad Reputation" di Joan Jett, brano del suo omonimo album del 1980. Penso che la conoscerete tutti grazie a a quella famosa scena di Shrek in cui il protagonista combatte nel ring contro i cavalieri, alla corte di Lord Farquaad.
Vi auguro una buona lettura e ancora un caloroso benvenuto nel mondo di Noah.
Eli~

 
Capitolo 1

 
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
 
“Ehi, Noah.” La voce di Alex mi riporta sulla terra.
Mi giro verso la mia persona preferita: ha lo sguardo perso tra la folla che ci scorre davanti, troppo impegnata nella propria quotidianità per accorgersi di noi.
Ma, alla fine, ci abbiamo fatto l’abitudine.
“Giochiamo a ‘indovina la vita’?” Mi chiede passandomi la sigaretta, che porto alla bocca stretta fra pollice e indice.
‘Indovina la vita’ è uno dei nostri giochi più amati, consiste nell’indovinare la vita che una persona conduce soltanto guardandola. Di solito si tratta di storie campate in aria, quanto più possibile lontano dalla realtà, perché non credo che quell’uomo in giacca e cravatta che abbiamo visto ieri sia una spia svedese con una passione morbosa per le paperelle di gomma e i tappeti pelosi, né che di notte si esibisca con la sua band – i famosissimi Møtherquacker – nella scena underground prog-metal di Salt Lake City.
Oppure sì, chi sono io per giudicare?
“Va bene, incomincia tu.” Rispondo, portando lo sguardo sulla folla in cerca della mia prima preda.
Con la coda dell’occhio, noto che si porta una mano al mento e vi tamburella le dita, evitando accuratamente Ugo, il suo nuovo amichetto apparso durante la notte a causa della pubertà.
Una nuvola di fumo abbandona il mio corpo per unirsi alle sue lontane cugine nel cielo. Mi sa che stasera pioverà.
Ricevo una gomitata sulle costole da Alex che, con un cenno del capo, mi indica una donna al telefono. La nostra nuova protagonista sorride ascoltando il suo interlocutore, è girata di un quarto verso la fontana davanti alla Church of Jesus Christ of Latter-day Saints, ma si guarda spesso attorno.
Alex si preme indice e medio sulla fronte, chiude gli occhi e stende il braccio libero davanti a sé, muovendo le dita come se stesse suonando un piano.
“Quella donna al telefono, non è di queste parti. I jeans e la maglietta a maniche lunghe che indossa mi fanno pensare a una paese caldo. Lei è originaria di un paese caldo... no, anche meglio! In realtà, quella donna non percepisce la temperatura. Quella povera donna soffre di...” Ferma un secondo il suo racconto per prendere il suo vecchio cellulare, miracolosamente funzionante dopo le intemperie di questo inverno.
“Insensibilità congenita al dolore con anidrosi.” Afferma, posando il cellulare in tasca.
Si gira verso di me e incontra la mia espressione scettica.
Si stringe nelle spalle.
“Che c’è, non ti sembra plausibile? Chi si vestirebbe così con 83° gradi fahrenheit all’ombra, senza sudare tra l’altro?” Chiede per avvalorare la sua tesi.
Ridacchio.
“Certo, è più probabile che soffra di una malattia rarissima del sistema nervoso.“  Faccio notare, passando la sigaretta.
Accetta una delle possibili cause della nostra morte con relativo entusiasmo, contribuendo a inquinare l’aria che ci circonda.
“Dovremmo smettere di fumare, sai? È una spesa che non ci possiamo permettere, ora come ora. In più, non fa proprio bene alla nostra salute.” Commenta, tirando una boccata.
Sorrido, scuotendo la testa.
“Effettivamente tra l’inverno che scende a -9 e la possibilità di morire di febbre o per un pneumotorace, il fumo è il primo dei nostri problemi.” Ribatto, riprendendo la sigaretta.
“E poi non è che siamo fumatori incalliti, al massimo riusciamo a finire in due un pacchetto ogni settimana e mezza.” Concludo, osservando attentamente quel tubicino di carta che mi ritrovo tra le mani.
Come fa una cosa così piccola a essere così pericolosa?
Scrollo le spalle.
Prima o poi tutti dobbiamo morire.
Torno a guardare la folla.
I miei occhi si posano su un bambino, circa quattro anni, che guarda il cielo. Poco distante, una coppia l’osserva, parlando fitto fitto tra di loro. Devono essere i suoi genitori.
Lo indico ad Alex, passando la sigaretta.
“Quel bambino lì. Quel bambino è la stella dei suoi genitori, una famiglia borghese così normale da far venire la nausea. Tutti e tre abitano in una di quelle villette a schiera a Greater Avenue, sulla decima strada o quello che è. Hanno pure un cane, Lucky, uno di quei Corgi con la coda a batuffolo che vanno tanto di moda ultimamente. La vita di quei due è tanto noiosa che l’unico momento eccitante è quando il loro pupo fa cadere gli spaghetti a terra. La famiglia perfetta, vista dall’esterno.” Mi fermo per riprendere la sigaretta e fare un altro tiro.
“Finché il piccolo Johnny un giorno, al liceo, si accorgerà che quasi quasi gli piace passare fin troppo tempo negli spogliatoi insieme ai suoi compagni di squadra e di volere qualcosa di più di un’amicizia con il suo partner di studi. Quando lo dirà a Richard e Carol, il loro mondo si disintegrerà davanti ai loro occhi e mammina e paparino lo butteranno fuori di casa, dicendo a vicini e conoscenti di averlo mandato a studiare all’estero. Perché loro hanno la famiglia perfetta e tale deve rimanere.” Concludo, seguendo con gli occhi il bambino, che ritorna dai suoi genitori e cerca di attirare l’attenzione della madre tirandole il pantalone.
Alex fa un verso di accordo.
True story.” Ribatte, alzando un calice invisibile.
Rimaniamo in silenzio per qualche minuto a guardare la vita scorrerci davanti.
Alla fine, Alex tossicchia, io tiro su con il naso.
“Il gioco mi ha fatto deprimere, torniamo a casa?” Mi chiede.
“Sì, andiamo. Sto morendo di fame.” Concordo, alzandomi dal muretto. Butto la cicca a terra e la pesto con il piede.
“7-Eleven?” Chiedo ad Alex.
“Quello sulla S 200 E?” Replica.
Annuisco.
Ci dirigiamo verso la N State. Passando accanto alla statua di Joseph e Emma Smith do, come di rito, una pacca sul sedere del vecchio Joe, giusto per attirare un po’ di fortuna e qualche sguardo disapprovante.
Perché la fortuna ci serve tutta, considerando dove stiamo andando.
Da Temple Square alla nostra meta c’è mezz’ora di strada. Proprio oggi non mi dispiace camminare, la giornata è abbastanza piacevole. Calda, ma piacevole.
Abbandoniamo l’antica S Temple per la non meno verde 200 E, allontanandoci sempre di più dal centro storico. Camminiamo lentamente, decidendo il da farsi.
Certamente non vogliamo arrivare impreparati.
Il cielo si fa più presente, man mano che gli edifici si fanno sempre più radi e sempre più bassi.
Arrivati davanti l’ambasciata messicana, ci fermiamo.
“Va bene, cosa ci serve?” Mi chiede Alex, voltandosi verso di me.
Ci penso su un attimo, ricontrollando mentalmente le nostre scorte.
“Oltre a cibo e acqua? Stiamo finendo anche il dentifricio e il sapone. E quando dico finendo, intendo che stamattina ho dovuto spremere quel tubetto come se fosse un serial killer.“ Spiego, cercando di chiarire il punto della situazione.
Alex annuisce, prendendo nota.
“Prendiamo anche della carta igienica se ci riusciamo, ci rimane solo un rotolo.” Aggiungo, prima di dare una pacca sulla spalla alla mia persona preferita e fare segno con la testa di tornare a camminare.
Attraversiamo la strada guardando a destra e a sinistra. Vorrei arrivare vivo dall’altro lato, la vita non mi fa così schifo.
Giriamo per la stazione di servizio. Precedo Alex alla porta, aprendola per far entrare.
“Facciamo come al solito.” Sussurro mentre mi passa davanti.
Con un cenno a stento percettibile, mi fa capire di avermi sentito.
È un caldo pomeriggio estivo, saranno massimo le quattro, e come tutti i caldi pomeriggi estivi qui, in questa parte di mondo dimenticata da Dio e da Joseph Smith, amico suo, i poveri dannati dei dintorni si rifugiano nel 7-Eleven all’incrocio fra la S 200 E e l’800 S per affogare le proprie fatiche in uno slurpee dal colore innaturalmente acceso.
Io, personalmente, non l’ho mai provato, però Alex una volta mi ha detto che si può davvero sentire il sapore di sostanze chimiche. Dopo quella descrizione, mi è anche passata la curiosità di provare lo slurpee del 7-Eleven.
Non che bevande simili di altri supermercati siano da meno.
Passando accanto alla macchina produttrice della nefasta sostanza, non posso che rendermi conto di quanto questo posto mi ricordi il Kwik-E-Mart dei Simpson. Anche nella realtà il 7-Eleven ha un che di cartoonesco di cui non riesce a liberarsi.
Alex si addentra nella sezione degli inscatolati, mentre io vado dritto per i prodotti per l’igiene. Ed eccolo là, il dentifricio che tanto ho agognato da stamattina.
Mi guardo intorno, cercando un qualsiasi segno di commessi impiccioni o telecamere nascoste. Con nonchalance, apro la confezione, prendo il tubetto e lo infilo in una tasca all’interno dei pantaloni da me appositamente cucita. Riposo lo scatolino al suo posto, passando al sapone.
Saponetta piatta? Perfetta per scomparire sotto la maglietta più larga di un paio di taglie che ho addosso, fermata all’altezza della vita con una cintura.
Giro l’angolo, incrociando Alex, che tiene in mano una bottiglia d’acqua. Con lo sguardo mi indica la cassa. Sbatto due volte le ciglia velocemente, come da segnale, prendendo una confezione di carta igienica.
Andiamo a pagare, mettendoci in fila dietro a un uomo con addosso un grembiule sporco di salsa.
Quand’è il nostro turno, posiamo ciò che abbiamo in mano sul bancone, mentre Alex si sporge a chiedere uno slurpee color blu evidenziatore.
Non scherzo, quello che esce dalla macchina è inchiostro blu condensato, non c’è altra spiegazione. Storco il naso mentre il cassiere lo porge ad Alex, ricevendo in cambio i soldi per acqua e carta igenica.
Guardo male la mia persona preferita,che si stringe nelle spalle.
“Che c’è? È gratis: 11 luglio uguale free slurpee day.” Spiega, prendendo la busta della spesa.
Prima di poterci girare e andare verso l’uscita, il commesso mi blocca prendendomi per la manica.
“Ehi, ragazzino. Cos’è quella?” Mi chiede indicando la maglietta.
Abbasso lo sguardo, seguendo il suo dito.
Troppo intento a elencare tutti i difetti della bevanda fra le mani di Alex, non mi sono accorto della chiazza che vi si è formata sopra.
A differenza mia, il cassiere sì.
Rialzo lo sguardo di scatto, sul mio viso si legge chiaramente la sorpresa.
Con uno strattone, mi libero dalla sua presa e corro verso l’uscita. Alex mi segue, lasciando cadere il suo slurpee a terra.
Corriamo fino alla 800S dove, come da piano, ci separiamo. Alex tira dritto, mentre io rallento un poco per fare da esca.
Giro a sinistra, con quel pover’uomo che guarda prima me, poi il mio complice. Un po’ mi dispiace farlo faticare tanto, alla fin fine sta solo cercando di fare il suo lavoro.
D’altro canto, noi dobbiamo pur sopravvivere in qualche modo.
Come da programma, decide di seguire me. Attraverso la strada senza curarmi del traffico pomeridiano, lanciandomi occhiate alle spalle per assicurarmi di essere ancora inseguito.
Arrivato a quello che dovrebbe essere un take-away italiano, giro a destra, correndo sul prato dietro il complesso residenziale. A separarmi dalla salvezza rimane solo un cancello, che riesco a scavalcare senza eccessiva difficoltà.
Non è di sicuro la prima fuga a cui sono costretto, ormai il mio fisico si è abituato.
Rallento il passo quando raggiungo la strada.
Il nascondiglio che ho scelto è una piccola chiesa, una di quelle che non si notano se già non le si conosce, che da fuori sembrerebbero delle normalissime case.
Aggrappandomi alla ringhiera, salto sui gradini ed entro nel luogo di culto.
Non posso dire di essere un amante delle chiese, ma nel momento del bisogno non faccio lo schizzinoso.
Mi chiudo la porta alle spalle e mi riparo sotto la finestra, sbirciando fuori per assicurarmi che quel pover’uomo non mi stia ancora inseguendo. Più che altro, sperando che non faccia due più due e mi venga a cercare nel mio rifugio.
Mi aggrappo al davanzale per sbirciare fuori, tentando di non sporgere troppo la testa, non vorrei essere visto.
È fermo in mezzo alla strada, le spalle si alzano e abbassano velocemente per il fiatone.
Si gira attorno, cercandomi in strada.
Frena qualcuno per chiedere informazioni.
Non riesco a sentire cosa dica, lo vedo solo alzare la mano all’altezza del suo naso e continuare a parlare. Penso mi stia descrivendo.
Il suo interlocutore scuote la testa e continua per la sua strada.
Abbattuto, il mio inseguitore fa dietrofront per tornare al suo posto di lavoro. Lo seguo con lo sguardo, finché non esce dal mio campo visivo.
“Strano modo di pregare, il tuo.”
Mi volto di scatto.
Un uomo dalla camicia nera e il collarino bianco mi sorride dal mezzo delle panche. Ha le mani conserte dietro la schiena e un sorrisino beffardo sulle labbra, ma gli occhi non mi prendono in giro: esprimono complicità.
“Non sono nessuno per giudicare le vie con cui si sceglie di raggiungere il Signore.” Aggiunge il pastore, con la sua voce bassa.
M’indica una panca.
“Però che ne dici di scegliere un modo più consono?” Mi chiede sedendosi.
Mi alzo lentamente da terra e, altrettanto lentamente, accetto la sua offerta, il tutto senza staccare lo sguardo dal suo sorriso pacifico, in cerca del minimo movimento che tradisca le sue intenzioni. Mi sistemo sulla panca per stare più comodo, cercando di nascondere la macchia sulla maglietta.
Il pastore mi squadra dalla testa ai piedi senza perdere l’aura di calma.
“Riuscito a scappare?” Mi chiede con nonchalance.
Continuo a fissarlo senza proferire parola.
E lui continua a sorridere.
“Spero non sia nulla d’illegale. A una prima occhiata direi bulli, ma qualcosa mi dice che non sia proprio così.” Prosegue, tornando a guardare il leggio davanti la grande croce in legno.
“Sai, anche io una volta ero come te.”
Ridacchio sarcastico, scuotendo la testa.
“Davvero. Anche io finivo in situazioni... oserei dire scomode. Anche io sono scappato più di una volta da persone arrabbiate.” Mi informa.
Il discorso.
Già, il discorso: quello che gli adulti fanno ai ragazzini disagiati per portarli sulla ‘retta via’, pensando di avere tutte le soluzioni ai nostri problemi.
Loro non sanno.
Sapevano, ma hanno dimenticato.
Perché quando si raggiungono le cifre tonde, si dimentica di quello che si provava il giorno prima.
A quanto pare, quando si soffia sulle candeline, prima si dà una stretta di mano e poi si sparaflasha il festeggiato.
Lui, di sicuro, non ha la soluzione ai miei problemi. E giuro che mi alzo e me ne vado se solo suggerisce...
“...ma poi ho conosciuto la parola del Signore, che mi ha illuminato la strada e mi ha mostrato i suoi errori.” Conclude, tornando a guardarmi.
Come volevasi dimostrare.
Il silenzio cala fra di noi. Mi schiarisco la gola e tiro su con il naso, prima di alzarmi e avviarmi verso l’uscita.
“Chiacchierata interessante e tutto quello che vuole, ma grazie, no grazie.” Dico avvicinandomi alla porta.
“Il Signore ha a cuore tutti i suoi figli, accoglie a braccia aperte le pecorelle smarrite.” Tenta di convincermi con i soliti cliché.
“Oh sì, non lo metto in dubbio, ma sono io a non essere tanto convinto a scaraventarmi fra le sue braccia. Alla fin fine, è anche un po’ colpa sua se mi trovo in questa situazione.” Commento con una nota di disprezzo.
“Non proprio colpa sua. Insomma, il vecchio non mi fa antipatia… è il suo fandom che non sopporto. Ma non sono nemmeno troppo contento di alcune canon dei suoi libri. Quindi grazie, ma rifiuto l’offerta e vado avanti.” Concludo aprendo e uscendo sui gradini.
“Comunque, buona giornata!” Saluto, chiudendomi la porta alle spalle.
Non aspetto una risposta, tiro dritto verso casa, guardandomi casualmente dietro per controllare di non essere seguito.
Non so con certezza se quel commesso sia ancora nei paraggi, saranno passati sì e no cinque minuti, dieci per arrotondare in eccesso.
Velocizzo il passo in ogni caso, voglio assicurarmi che Alex ce l’abbia fatta. Fortunatamente, il piano prevede che, in caso di fuga, ci si debba ricongiungere a casa il prima possibile.
Se passa più di un’ora dal momento in cui ci si divide, vuol dire che l’altro è stato preso.
In quel caso... il piano finisce qui, non abbiamo deciso che fare.
Arrivato al cancello, la macchia sulla mia maglietta si è asciugata.
Entro a casa e mi dirigo verso il laghetto delle papere, il nostro punto d’incontro.
Esatto, laghetto delle papere.
Perché è facile perdersi in 80 acri di parco, quali sono quelli di Liberty Park, quindi serve un punto di riferimento non troppo affollato, così da ritrovarci subito.
Insomma, Liberty Park è pur sempre il secondo parco più grande di Salt Lake City.
Non ci manca niente, qui: abbiamo il bagno, un posto per mangiare, una piscina, svariati campi da tennis, basket e anche bocce, per quando ci si sente pensionati.
Se ci si pensa, vivere a Liberty Park è un po’ come vivere in una di quelle ville ultralussuose in California. Una piccola differenza sta nel fatto che casa nostra sia pubblica e che non è proprio legale dormirci dentro... però abbiamo una ruota panoramica, Bill Gates può dire lo stesso?
Non credo proprio.
Punto a noi e palla al centro.
Tiro un sospiro di sollievo quando scorgo Alex aspettarmi sulla sponda del laghetto.
Appena mi vede, si avvicina.
“Tutto bene?” Chiedo.
Annuisce, guardando ancora una partita di basket che si sta svolgendo nel campo vicino a noi.
“Sì. Il negozio di dischi sulla 900S era aperto, ho pensato che il commesso del 7-Eleven non avrebbe avuto il tempo di cercarmi là. In compenso ho visto che il nuovo disco degli Imagine Dragons è già uscito.” Mi informa.
Alzo un sopracciglio.
“Vendono anche CD? Pensavo vendesse solo vinili, quel posto.” Commento fra me e me.
Alex alza le spalle.
“E poi, perché guardi vinili? Non abbiamo un giradischi, non ha senso.” Continuo.
La mia controparte mi lancia uno sguardo di rimprovero.
“I vinili e i CD non sono fatti solo per essere ascoltati. Ok, anche per essere ascoltati, ma sono soprattutto il sogno degli amanti della musica. C’è qualcosa di speciale e mistico nel tenere un vinile in mano, come se riuscissi a toccare la musica e l’impegno che l’artista ha messo nella sua creazione.” Afferma, gli occhi persi nella contemplazione di un disco immaginario fra le sue mani.
Gliele abbasso.
“Va bene, non iniziare.” Imploro, sperando che non continui il suo discorso sulla musica. Se inizia a parlarne, è inarrestabile.
Per carità, adoro la musica e adoro discuterne, ma chiunque si stancherebbe a sentire le stesse parole per la centesima volta.
“Andiamo in bagno, voglio cambiarmi la maglietta. L’odore di dentifricio mi sta facendo venire la nausea.” Affermo, tirando Alex per un braccio.
Mi segue senza opporsi.
Prima di entrare in bagno, passiamo dalla ruota panoramica, dietro la quale nascondiamo di solito gli zaini con la nostra roba.
Alex chiude la porta e vi poggia la schiena per bloccarla mentre io mi cambio.
“Abbiamo rischiato grosso, oggi. Quello poteva prenderti.” Commenta Alex, guardandomi lavare la maglietta nel lavandino.
“Lo so. Ma non mi ha preso, giusto?” Ribatto, senza smettere di strofinare la macchia.
“Dobbiamo stare più attenti, la prossima volta. Sai che c’erano telecamere, al 7-Eleven?” Continua con tono allarmato.
“C’erano? Non le ho viste.” Rispondo impensierito.
“Avranno filmato tutto. Potrebbero aver visto i nostri volti. Togli il ‘potrebbero’, hanno sicuramente le nostre facce.” Ecco, sta entrando nel panico.
Strizzo la maglietta, le gocce d’acqua formano una cascata nel lavandino.
“Ci possono riconoscere, Noah. Siamo spacciati, finiremo in galera. E in galera chiameranno i servizi sociali e ci manderanno in un’altra casa-famiglia e sarà tutto punto e a capo.” La sua voce si alza di un’ottava per la paura.
Poso la maglietta e prendo Alex per le spalle, stringendole.
“Alex, va tutto bene. Anche se hanno i nostri volti, non ci possono riconoscere, non siamo nel database. Almeno… non in quello di Salt Lake City. Andrà tutto bene, non succederà di nuovo. Ok?” Dico rassicurante, spostando lo sguardo sui suoi occhi.
“E se controllassero anche il database di Riverton?” Chiede.
Scuoto la testa, ridendo.
“Perché mai dovrebbero vedere il database di Riverton? Alex, andrà tutto bene. Fidati di me, calmati.” Dico, addolcendo il tono.
Le sue spalle si rilassano, finalmente. Le lascio andare e torno al lavandino.
Continuo a lavare la maglietta, mentre tra noi cala il silenzio.
Non ho visto le telecamere, avrei dovuto fare più attenzione.
Odio rubare.
Odio vivere la mia vita come un criminale e mettere gli altri nei guai. Soprattutto, odio mettere in pericolo Alex.
Ne ha passate tante e ha ancora quindici anni. Io, che sono un anno più grande, mi sento come un fratello maggiore nei suoi confronti, fa uscire il mio istinto protettivo.
Non voglio che ritorni in quella casa-famiglia a Riverton o in un posto simile. Non posso permetterlo.
Vengo riscosso dai miei pensieri da un commento di Alex.
“Sai che stanno aprendo un nuovo rifugio per senzatetto?”
Mi giro verso la mia persona preferita.
“Pensavo non volessi più andare in un centro d’accoglienza, non dopo che abbiamo rischiato la denuncia ai servizi sociali.” Rispondo, strizzando nuovamente la maglietta.
“Questo è diverso: è un centro per giovani appartenenti alla comunità LGBTQ+.” Specifica, pronunciando la sigla con una disinvoltura che soltanto l’abitudine può dare.
Non rispondo, sbatto la maglietta per togliere i residui d’acqua.
“Magari, se stavolta spiegassimo la nostra situazione, forse ci potrebbero aiutare...” Propone, la speranza palpabile nel suo tono.
Mi volto e appoggio un fianco sul lavandino, mentre piego la maglietta umida alla bene e meglio.
“Non lo so, Alex... preferirei mantenere un profilo basso per un paio di giorni, giusto per precauzione. Vorrei evitare di mettere in giro i nostri nomi, mi capisci?” Spiego, posando la maglietta sul lavandino e indossandone un’altra.
Alex non ribatte, mi fissa implorante.
Alzo gli occhi al cielo, incapace di guardare. Mi premo due dita fra gli occhi.
“Quando aprirà il rifugio?” Chiedo, arrendendomi.
Sorride.
“O domani o dopodomani, non ricordo. È sulla Milton Avenue.”
Tiro su con il naso, creando un attimo di suspense prima di rispondere.
Alex apre le braccia per l’impazienza, facendomi segno di decidermi.
“Ok, ci passiamo domani. Ma solo a titolo informativo, va bene?” Aggiungo prima che si possa fare strane idee.
Alex mi mette un braccio al collo.
“Sapevo avresti preso la decisione giusta. Adesso, usciamo da qui. Voglio andare in piscina, sto morendo di caldo.” M’informa, spingendomi fuori dal bagno.
Posiamo gli zaini nel nostro solito nascondiglio.
“Chi arriva per ultimo paga uno slurpee all’altro?” Mi propone.
Aggrotto le sopracciglia.
“Ma io non voglio uno slurpee.” Ribatto.
Alex sogghigna.
“E chi ha detto che avresti vinto tu?”.
Detto questo, mi dà una spinta e si mette a correre.
 

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Capitolo 2
*** Emergency ***


*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve e bentornati! Come avrete notato, aggiorno ogni due lunedì, dalle 17 in poi, giusto un piccolo appunto, così sapete quando uscirà il prossimo capitolo.
Il brano di oggi appartiene a un gruppo che ho scoperto relativamente da poco, ma di cui mi sono innamorata immediatamente: sto parlando di Emergency, dei Nothing But Thieves, di cui vi allego il link di un live in studio, che a mio parere merita più dell'originale. I Nothing But Thieves sono un gruppo britannico, proveniente dal sud dell'Essex, per l'esattezza, formatosi nel 2012 quando tre amici di scuola hanno la brillante idea di riunirsi nel garage di uno di loro, Dom, e invitare il cugino di lui al basso e un amico che tutto sembra, tranne un batterista. La canzone in questione è una delle prime che hanno composto, appartiene all'ep intitolato 
If You Don't Believe, It Can't Hurt You, risalente al 2013. Si tratta di una di quelle rare occasioni in cui la band nasce per essere ascoltata live, invece che in CD. La voce del cantante, Conor, ricorda molto quella di Jeff Buckley, ma con un cantato più pulito e corposo, che potrei tranquillamente considerare una delle mie voci preferite, per quanto riguarda intonazione e tecnica. Fun fact: per almeno la prima settimana in cui ho ascoltato la band, ero convinta che il cantante fosse una donna, nonostante avessi visto anche i video. E uno dei chitarristi mi sembrava il morphing di Justin Bieber e Dougie Baldwin.
Potrei continuare a parlare per ore dei NBT (chiunque voglia parlarne può mandarmi un messaggio, è ben accetto), ma il capitolo attende.
Vi auguro, quindi, una buona lettura!

 
Capitolo 2

 
Seduto su una gradinata, poggiato sui gomiti con la faccia rivolta verso il sole, ascolto i suoni della partita di basket.
Dei ragazzi, che ormai vedo quasi ogni giorno sul campo, si sono divisi in due squadre, distinti solo dal fatto che cinque non indossano la maglietta.
Oggi c’è troppo caldo per fare la qualsiasi.
Mi stendo sul cemento dei gradini, incrociando le braccia dietro la testa.
Guardo fra le nuvole, dritto in quello spicchio di cielo così limpido, così azzurro.
So che se riuscissi a concentrarmi abbastanza, allora potrei proiettarmi lassù, oltre le nuvole, oltre il paradiso, fino a immergermi nell’infinito e diventare un tutt’uno con l’universo, così che passato, presente e futuro si fondano insieme, creando una dimensione in cui nulla e tutto esiste nello stesso momento, in cui io sono parte del tutto, inscindibile e indistinguibile da me.
E all’improvviso, provo una profonda nostalgia per il cielo, che non ho mai veramente esplorato e dentro al quale non potrò mai camminare.
E sento una pungente gelosia per quegli uccelli sopra di me, liberi di attraversarlo quando e come vogliono, mentre io, così corporeo, sono ancorato alla terra.
Vorrei riuscire a dividere la mia essenza e volare in cielo.
Vorrei essere libero da questo mio corpo.
Però sono costretto per natura a questa prigione di materialità, limitato fra carne e ossa.
Quindi non posso fare altro che continuare a immaginare.
Non mi piace la realtà, la fantasia è molto più interessante.
Un’ombra copre la luce del sole.
“Comodo?” Mi chiede una voce.
Apro gli occhi.
Ci metto un po’ ad adattarmi al cambio di luce, ma alla fine riesco a scorgere la figura di un uomo in polo a maniche corte,  abbottonata fino in gola, con il tesserino in bella mostra appeso al collo e due chiazze di sudore molto evidenti sotto le ascelle.
Per essere l’inizio dell’autunno, le giornate sono ancora abbastanza calde.
“Ehi, Jared.” Lo saluto con un sorrisino.
È la mia guardia preferita, ormai ci chiamiamo per nome.
Certo, non è che lo conosca da chissà quanto, ma gli ho fatto subito simpatia.
Come ci si potrebbe immaginare dalla situazione, ci vediamo molto spesso.
Si siede al mio fianco, io rimango con la schiena poggiata al gradino superiore. Mi spintona leggermente con il ginocchio.
“Che fa, non giochi?” Mi chiede scherzosamente.
Scuoto la testa, ridacchiando.
“Oh, Jared, sai benissimo che il basket non è il mio forte. In più, preferisco guardare.” Rispondo con un sorrisino compiaciuto e un accenno di malizia, che causa la risata della guardia.
Dopo qualche momento, riesce finalmente a ricomporsi.
Asciugandosi una lacrima, mi strattona leggermente la maglietta, facendo segno verso la porta alle nostre spalle.
“Su, Noah, seguimi. C’è una sorpresa per te.” Mi incita, alzandosi.
Lo guardo perplesso, chiedendo silenziosamente di spiegarsi. Come risposta, ricevo solamente un segno del capo, rivolto nuovamente alla porta, adesso aperta.
Mi alzo a mia volta, velocizzando il passo, spinto dalla curiosità.
Entriamo nell’edificio dai colori pastello, che a dispetto delle pareti non mi sembra così allegro. Seguo Jared, continuando a tempestarlo di domande, ma testardo com’è riesce a non cedere alla pressione.
Ci fermiamo davanti alla porta della sala comune.
Jared prende le sue chiavi, legate alla cintura da una cordicella, e fa scattare la serratura.
Si volta verso di me con un sorriso cordiale, che sa di felicità pura e semplice, glielo si legge negli occhi.
Io rimango fermo al mio posto, senza muovere un muscolo.
Non farò un passo finché non mi dirà cosa sta succedendo.
La guardia lo capisce, con il pollice indica verso la sala comune.
“Qualcuno vorrebbe parlarti. Tranquillo,” aggiunge, notando la mia diffidenza, “penso proprio che apprezzerai questa visita.” Mi rassicura, aprendo ancor di più la porta.
All’interno della stanza dalla pittura arancione - che, nonostante l’usura del tempo , riesce ancora ad amplificare la luce del sole come quella specie di specchio che si usa al mare, quando ci si abbronza  – , a uno di quei tavoli rotondi in plastica e metallo, siede una persona che non sono sicuro di conoscere. Mi è familiare, ma non abbastanza da dargli un nome.
È un uomo piuttosto giovane, sufficientemente vicino agli enta da avere l’aria da adulto, ma pur sempre nel pieno del suo terzo decennio, tanto che conserva ancora quella scintilla d’ingenuità delle nuove anime nel mondo del lavoro, ancora convinto di poter salvare il mondo, per quanto sia possibile nella sua posizione.
Quando sente i miei passi, si volta.
Mi sorride, salutandomi con la mano.
Ricambio con un cenno del capo, avvicinandomi cautamente.
Mi indica il posto sulla sedia davanti a lui.
“Ciao, Noah. Non so se ti ricordi di me.” Mi saluta, sorridendo imbarazzato al mio silenzio.
Lo squadro dalla testa ai piedi: adesso che lo vedo più da vicino, mi sta tornando in mente un posto.
“Sei il proprietario del rifugio.” Rispondo accostandomi allo schienale, soddisfatto di essermi ricordato qualcosa di lui.
Lui annuisce contento e mi allunga la mano.
“Joshua Winterfield, ma puoi chiamarmi Josh.” Mi rinfresca il suo nome.
Guardo prima la sua mano, poi lui.
“Non possiamo avere contatti fisici con altre persone.” Lo informo secco.
Ritrae la mano, mentre la voce di Jared, proveniente dalla porta, mi dà il permesso di stringerla.
Ovviamente, faccio finta di non aver sentito.
“A che devo questa sua visita?” Chiedo, mascherando la curiosità con un velo di noncuranza che non guasta mai in certe situazioni.
Winterfield si china leggermente in avanti, poggiando le mani giunte sul tavolo.
Un dito gratta nervosamente lo spazio fra le nocche, lasciando delle scie bianche sulla pelle.
“Abbiamo parlato con l’assistente sociale che si occupa del tuo caso. Ci ha detto che cercano di farti uscire da qui da quasi una settimana, ma tu rifiuti di andare in qualsiasi famiglia affidataria o casa-famiglia.” Spiega gentilmente, cercando di mantenere un tono a dir poco cordiale, completamente dissonante con il  nervosismo tradito da quel suo tic, che adesso ha fatto arrossare l’area.
Lo ascolto con le braccia incrociate, ma non rispondo.
Voglio vedere dove va a parare.
“Non sei stanco di vivere in riformatorio?”
Ancora una volta, non apro bocca. Lo fisso e basta, sfoderando lo sguardo più neutrale che riesca a produrre.
Fuori si sentono le urla della partita di basket, il campo è giusto sotto di noi.
Eppure, da me non esce nulla.
Il walkie talkie di Jared si attiva, ordinandogli di raggiungere il cortile e attirando l’attenzione di Winterfield.
La guardia ci comunica che una sua collega lo sostituirà, esce dalla stanza e chiude la porta.
L’uomo davanti a me risponde cortesemente, per poi chinarsi a prendere una cartellina beige da una borsa a tracolla, che noto solo adesso.
La piazza sul tavolo davanti a sé e la apre.
Spiazzato, mi allungo per vedere meglio il contenuto.
Dall’altra parte della superficie di compensato color pastello, in tinta con le pareti, precisamente nella cartella, riconosco il mio volto.
È il mio fascicolo dei servizi sociali.
Francamente non so come faccia ad averlo, visto che sono un minore e lui, fino a prova contraria, non è un mio parente.
Mentre legge, la sua espressione varia, diventando sempre più seria.
“Certo, non si sa molto di te, da quanto vedo.” Commenta sottovoce.
Annuisco distratto, tornando a sedermi il più possibile lontano da lui.
Mi dà fastidio che stia leggendo la mia cartella, la sento come un’invasione della privacy.
Vorrei alzarmi, strappargli il fascicolo di mano e buttarlo fuori dalla finestra.
Ma queste finestre non si aprono che per uno spiraglio e il gesto, in sé, sarebbe da maleducati.
E i miei genitori, per tutte le colpe che riconosco loro, non hanno di sicuro cresciuto un maleducato.
“Trovato per le strade di Riverton nel 2017, sei passato da famiglia affidataria in famiglia affidataria per qualche mese, stabilendoti dai Bennet, che già ospitavano Alex Tanner, fino a marzo del 2018. Da quanto leggo, durante la notte fra il 22 e il 23 marzo dello scorso anno tu e Alex siete scappati dall’abitazione dei Bennet, portando con voi anche alcuni gioielli della signora e l’orologio del marito. E, chissà come mai, anche le chiavi della sua auto sono misteriosamente scomparse, ma la mattina seguente l’auto era ancora nel vialetto. Al tempo avevi ancora quindici anni. La famiglia ha quindi sporto denuncia per la vostra scomparsa e il signor Bennet, dopo giorni di ricerca, ha ricevuto le chiavi nella cassetta postale, accompagnate da una lettera stampata che chiedeva di abbandonare le ricerche. Così il caso è stato archiviato come una fuga e di voi due non si hanno più avuto notizie... fino a due mesi fa, quando ti hanno arrestato per furto e intrusione, qualche giorno dopo che ci siamo conosciuti.
Ho tralasciato qualcosa?” Conclude il riassunto, rialzando lo sguardo verso di me.
Mi stringo nelle spalle.
“Forse solo il fatto che siete stati voi a mandarmi la polizia a casa.” Ribatto pungente.
Winterfield sospira esausto.
“Noah, come Emma ti ha già spiegato, non era sua intenzione farti arrestare. Insomma, stavate vivendo in un parco, ovviamente ci siamo preoccupati! Se ci avessi detto...” Cerca di scusarsi, ma qui lo interrompo.
“Se vi avessi detto cosa? Che giusto il giorno prima avevamo rubato in un 7-Eleven? Che non è la mia prima denuncia?” Domando sarcasticamente, alzando il tono della voce.
“Era la prima volta che v’incontravo. Non è che vado dagli estranei a raccontare vita, morte e miracoli. Se la gente imparasse a farsi i fatti suoi, per una buona volta...” Aggiungo, battendo nervosamente il piede a terra.
Winterfield mi parla sopra.
“Eravamo preoccupati. Abbiamo incontrato due ragazzini che dormivano per strada, senza difese e senza soldi, dovevamo fare qualcosa!” Continua a difendersi, così come io continuo a ignorarlo e a sfogarmi.
“L’avevo detto ad Alex che non era una buona idea, ma non mi ha ascoltato. E adesso ho pure l’età per essere processato come un adulto. Le pare mi piaccia vivere in riformatorio, senza libertà, senza poter vedere l’unica persona per cui continuo a campare?
Ma almeno qui ho un tetto, sto ricevendo un’istruzione, le persone mi conoscono e quasi nessuno cerca grane solo perché preferisco un Adamo a una Eva, quando penso a una relazione romantica. Di sicuro non posso dire lo stesso per le case in cui sono stato.” Concludo, lasciando vagare lo sguardo nella stanza.
Winterfield mi lascia sfogare, decidendo di lasciar perdere scuse e difese.
“Certo che è un bel giro di parole per fare coming-out.” Considera con un sorrisino.
Alzo un sopracciglio.
“Essere melodrammatici è un reato, adesso? Arrestatemi, allora.” Commento sarcastico.
“Oh, l’avete già fatto.” Aggiungo, cercando una reazione nel mio interlocutore.
Winterfield sospira nuovamente e si strofina il viso con una mano.
“Noah, per favore, basta. Siamo dalla tua parte, ti vogliamo aiutare. Vienici incontro.” Mi supplica con voce stanca.
Lo guardo dritto negli occhi. Ha l’aria di un disperato, mi fa quasi pena.
Tuttavia, non so se fidarmi.
Lo so, Alex me ne parla sempre bene, ormai vive in quel rifugio da quasi due mesi. Da quanto ho capito, il suo assistente sociale ha dato il via libera per questa sistemazione.
Ma gli assistenti sociali danno il via libera per quasi ogni situazione, l’importante alla fin fine è che il nostro fascicolo sia messo in un angolo della scrivania, lontano da occhi indiscreti, dimenticato da uomini e dei. Non importa se la casa sia accogliente.
Non importa nemmeno che la casa sia sicura, basta che abbiamo un tetto sopra la testa e lo stato si congratula con se stesso.
Un altro minore lontano dai pericoli del mondo, poco interessa che sia piazzato direttamente nel teatro di Mangiafuoco, tanto non sono loro a doverci fare i conti quotidianamente.
“Noah, sei ancora con me?” Winterfield richiama la mia attenzione.
Annuisco poco convinto e sposto nuovamente lo sguardo alla finestra, lontano da qui, di nuovo verso il cielo, di cui sento la mancanza.
Fra una settimana finirà la mia pena.
Certo, devo ammettere di esserci andato fortunato: due mesi per furto e intrusione, considerando anche che il mio avvocato non era nemmeno il migliore fra i peggiori.
Forse nella media dei peggiori, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
Penso che il giudice abbia avuto pietà di me, della mia condizione.
E dopo che mi manderanno via, chissà dove andrò a finire.
No, stavolta non lo accetto, è arrivato il momento di difendermi.
Voglio riprendermi la mia libertà e decidere dove vivere.
Ma non voglio finire in un’altra trappola.
Di sicuro, un altro Bennet non sarebbe l’ideale, proprio no.
Perché dev’essere tutto così difficile? Perché non può tornare tutto come prima?
Prima stavo bene.
Sì, prendevamo qualche acquazzone, rubavamo qualcosina da mangiare, ma tutto sommato stavamo bene. Non avevamo bisogno di nessuno.
E adesso è cambiato tutto… questo perché ascolto Alex.
Si penserà che impari dai miei errori, invece no, non io.
No, signore, io devo fare di testa mia.
E se per imparare la lezione devo sbattere contro il muro dieci volte, dieci volte sbatterò contro il muro. Anche un’undicesima, giusto per essere sicuri.
E Alex è il mio muro.
Si fa prendere dalla foga del momento, non pensa e questi sono i risultati.
E io stupido che ci vado dietro, me lo merito.
La differenza è che questa volta ci speravo pure io, in fondo in fondo.
Cosa, non so, ma ci speravo.
Però questa è la situazione attuale, è inutile rimpiangere il passato.
Devo lavorare con quello che mi ritrovo.
Poggio le mani sul tavolo, assumendo un’aria d’affari. O almeno, ci tento.
“Mettiamo che accetti la vostra offerta. Dopo che succede?” Chiedo atono.
L’uomo davanti a me sorride compiaciuto.
“Quando uscirai da qui, fra una settimana, troverai o me o mia moglie ad attenderti. Verrai al rifugio e da lì decideremo il da farsi.” Mi spiega tranquillamente.
Gli faccio segno con la mano di andare avanti.
“Specifichi ‘il da farsi’.” Lo incito.
Winterfield si gonfia le guance e tamburella il tavolo con le dita.
“Non so. Sinceramente, non abbiamo molte scelte nel tuo caso. Non vuoi andare in nessuna casa-famiglia, né famiglia affidataria e non riusciamo a trovare i tuoi genitori.” Risponde, contando sulla punta delle dita ciò che dice.
“Sinceramente, inizio a sospettare che tu ci abbia dato dei nomi falsi.” Mi confessa.
Mi scappa un verso di scherno.
Ovviamente ho dato dei nomi falsi, non sono mica scemo.
C’è un motivo se vivo in giro da quasi due anni.
Accorgendomi dello sguardo indagatore che mi rivolge l’uomo, mi stringo ancora una volta nelle spalle.
“Che dirle, se i servizi sociali non riescono a fare il proprio lavoro, non è mica colpa mia.”
Quasi.
Non del tutto.
Potrei averci messo un po’ di mio... forse.
A giudicare dalla sua espressione, non penso di averlo convinto.
“Quindi, che vuol dire? Non posso stare da voi?” Domando, cercando di tornare al discorso principale.
“Non è quello che ho detto...” Replica, ricominciando a difendersi.
“No, non l’ha detto. L’ha lasciato intendere.” Specifico, senza perdere la pazienza.
Winterfield si copre gli occhi con le mani.
“Ti prego, Noah. Non mettermi le parole in bocca.” Mi chiede spazientito.
Va bene, meglio smetterla. Lo sto provocando troppo, non andremo avanti se non mi calmo.
Alzo una mano a mo’ di scuse e gli faccio segno di proseguire.
“Il rifugio... non è una situazione stabile. Noi offriamo solo un riparo, ma non possiamo tenere d’occhio tutti i ragazzi che vanno e vengono. Certo, è molto più sicuro della strada, ma non è una vera casa. E noi non siamo una famiglia.” Mi spiega.
Aspetto che finisca di parlare, prima di rispondere.
“Noi ti possiamo ospitare tranquillamente per tutto il tempo che vuoi, sia chiaro. Ma a te serve qualcosa di più. E altrettanto Alex, solo che si rifiuta di andare da qualsiasi parte finché non sarete insieme.” Continua, riprendendo fiato.
Ho la sensazione che quest’uomo sia un po’ ansioso: quando inizia a parlare, è una macchinetta.
Sempre con un gesto della mano, lo fermo.
“Va bene. Ci sto, accetto.” Affermo con sicurezza.
Winterfield rimane a bocca aperta, colto nell’atto di formulare una frase.
“Ci stai?” Mi domanda, per essere sicuro.
Annuisco.
Lo lascio spiazzato per un momento.
“Non ci sperava, vero?” Chiedo scherzoso.
“No. A essere sincero no, non molto.” Ribatte, ridacchiando nervosamente.
“Non sembravi propenso ad accettare. Considerando il fatto che hai rifiutato qualsiasi sistemazione e l’atteggiamento che hai avuto sia la prima volta nei nostri confronti, sia tutte le volte che Emma è venuta a trovarti, non pensavo avresti accolto la nostra proposta.” Aggiunge.
Alzo un angolo della bocca.
“Meglio non presupporre nulla, che ne dice? E mi scuserò con sua moglie. Non è stato giusto da parte mia trattarla in quel modo.”
Ricevo come risposta un sorriso di gratitudine.
“E poi... nessun altro posto ha Alex. E dire che, per il nostro primo mese di conoscenza, non sopportavo nemmeno la sua vista… adesso mi sento il suo fratello maggiore. Come cambiano la vita, vero?” Rifletto, pensando ancora alla nostra vita a casa Bennet, dove ho conosciuto la mia persona preferita.
Guardo l’orologio alle sue spalle. È passato circa un quarto d’ora da quando sono entrato in stanza.
“Visto che vivrai al rifugio, che ne dici di parlarmi un po’ di te?” Mi chiede Winterfield, riportandomi ancora una volta nella stanza.
“Cosa vuole sapere di me? Ha letto il fascicolo.” Ribatto, indicando la cartella fra noi.
L’uomo la prende in mano.
“Questa dice poco e nulla. Vorrei avere qualche informazione aggiuntiva da te.” Precisa.
Mi fermo un secondo a pensare.
“Ok. Mi chiamo Noah Bonham, ho sedici anni, il mio segno zodiacale è la vergine, amo i cani e le lunghe passeggiate sulla spiaggia...” Lo informo sarcasticamente.
“Ottima bio per il tuo account Grindr, ma che ne pensi di dirmi come sei finito nel sistema di affidamento?” Rincara.
Lo guardo un attimo in silenzio, valutando come rispondere.
“È successo. La vita si è messa in mezzo.” Ribatto infine, trovando il tavolo improvvisamente interessante.
In particolare una macchia sul tavolo, che cerco di eliminare con il pollice.
“La vita, eh? Per mia esperienza personale, la vita da sola non fa finire in casa-famiglia.” Commenta ironico.
“A volte sì. Nel mio caso, sì.” Rispondo, senza alzare lo sguardo.
Passa alla seconda domanda.
“E i tuoi genitori?”
Alzo le spalle.
“Da qualche parte nel mondo. O forse non più, chissà, le cose cambiano con il tempo.” Cerco di mantenere un tono neutro mentre parlo. Forse fin troppo neutro.
“Scappato di casa o buttato fuori?” Mi domanda, incrociando le braccia.
Alzo di nuovo le spalle.
“Qualcosa del genere.” Mormoro.
Winterfield non risponde, lascia che il silenzio cada fra noi.
“A quanto pare, Joseph Smith è più importante del loro unico figlio. Probabilmente, le apparenze sono più importanti di me e Joseph messi insieme.” Aggiungo, concludendo la frase con colpo di tosse e guardando nuovamente fuori.
“Famiglia di mormoni, eh? Ti hanno eliminato dalla foto di famiglia per la tua omosessualità?” Mi chiede senza mezzi termini.
“Già, stile Black. Bruciato via dall’albero di famiglia dipinto all’ingresso, però. Gli arazzi non vanno più di moda.” Commento, mostrandomi in tutto il mio orgoglio di potterhead.
L’uomo davanti a me riapre il mio fascicolo.
“Se non sbaglio anche i Bennet erano mormoni, giusto?” Mi domanda, alzando lo sguardo dalla cartella.
Annuisco.
“È per questo che sei scappato quando ti ho detto di essere mormone, trascinandoti via anche Alex?”
La sua deduzione mi spiazza.
Lo fisso in silenzio per qualche secondo, incapace di ribattere o proferire parola, per quanto valga.
Un po’ per sorpresa, un po’ per timore di espormi troppo.
Notando la mia immobilità, Winterfield riprende a parlare.
“Noah, non devi avere paura di-”
“Si è fatto tardi.” Lo interrompo.
L’uomo cerca nuovamente di rassicurarmi, ma non lo faccio continuare.
Non ho intenzione di affrontare la questione. Non ora, non qui.
“È meglio che vada. Fra un po’ si pranza.” Con questo, mi alzo e mi avvicino alla finestra, facendogli capire che la conversazione è finita.
Sento una sedia muoversi e i suoi passi allontanarsi.
“Allora, ci vediamo fra una settimana.” Mi saluta, ma non è ricambiato.
La porta si chiude alle mie spalle, mentre io torno a guardare il cielo, in quello spicchio di azzurro libero di nuvole, che mi fa provare nuovamente una profonda nostalgia.
 

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Capitolo 3
*** Waiting ***


*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve e un ben ritrovato a tutti! Il brano di questo capitolo è Waitingdi Tom Speight, di cui vi allego un live. Speight è un artista relativamente nuovo, mi pare non abbia pubblicato nemmeno un album completo, solo singoli. È una di quelle canzoni che ritengo felici, per i miei standard, semplicemente ti fa venire voglia di sdraiarti all'ombra di un qualsiasi albero, guardare il cielo e ascoltare la canzone in ripetizione fino alla nausea. Se questo non è indice di buona musica, non so cosa lo sia.

Vi auguro una buona lettura e vi do appuntamento a lunedì 7 maggio.
 
Capitolo 3

 
Con uno schiocco, il disegno si stacca dal muro.
Lo poggio dentro il quaderno aperto sul letto, per poi staccarne un altro.
“Quindi… oggi te ne vai?” Mi chiede una voce alla porta.
Mi giro verso il mio compagno di stanza.
Steve si avvicina, porgendomi una lettera.
Guardo prima il foglio di carta, poi lui, rivolgendogli un sopracciglio alzato.
Il ragazzo mi incita ad accettarla.
Preso dalla curiosità, la apro. Faccio in tempo a leggere ‘due mesi’ e ‘affezionato’, prima che Steve me la richiuda e la butti verso il quaderno, sopra i disegni.
“Leggila quando sarai fuori di qui. Da solo.” Mi ordina, sottolineando l’ultima parte.
Sopprimo un sorriso.
“Gay.” Lo prendo in giro.
Mi dà un colpetto in testa, spingendola piano.
“Sta parlando.” Ribatte, aiutandomi a raccogliere i miei miseri averi.
Qui in riformatorio fanno tutti i duri, pronti ad attaccare alla minima minaccia, ma in fondo siamo tutti ragazzini che cercano di sopravvivere al mondo.
Nessuno escluso.
Ok, forse escluso qualche sociopatico con tendenze assassine, ma la regola generale è quella.
Steve non è un’eccezione.
Il ragazzo mi porge gli ultimi disegni, le ultime foto, le ultime lettere che avevo attaccato al muro e mi aiuta a posarle in una scatola, insieme ai miei altri oggetti personali.
Sollevandola, ci avviamo in corridoio, dove mi aspetta Jared.
“Non dimenticarti della promessa appena metti piede nel mondo libero. Va bene?” Mi sussurra, mentre siamo ancora fuori dalla portata di orecchie indiscrete.
“Non potrei mai. Un giorno apriremo la Freak Ink, hai la mia parola. Non esisterà tatuato in tutta Salt Lake City che non sia passato dal nostro negozio di tatuaggi. Porrai la tua firma sulle chiappe di centinaia di persone, amico mio.” Lo rassicuro, con un mezzo sorriso.
Steve scuote la testa.
“Magari per il nome ne riparliamo, che ne dici?” Mi propone, non tanto scherzoso.
Indosso un broncio esagerato, giusto per enfatizzare il mio cipiglio.
“Che ha che non va il nome Freak Ink?” Chiedo offeso.
“C’è che non si può sentire! No, non se ne parla, useremo un altro nome.” Risponde Steve, scoppiando a ridere.
Mi stringo nelle spalle, lasciando cadere la questione.
Jared apre la porta sul cortile, oltre la quale Steve non può passare, ora come ora.
In teoria non potrebbe nemmeno essere qui, dovrebbe essere in classe a fare matematica, ma le guardie hanno fatto un’eccezione, visto che sono stato il suo compagno di stanza per due mesi.
“Non scomparire, ok?” Mi fa promettere, spostando il peso da un piede all’altro.
Annuisco, rivolgendogli un sorriso rincuorante.
“Ti chiamo almeno una volta a settimana. Se non chiamo, sono morto, oppure non ho accesso a un telefono... nel caso, aspettati un piccione viaggiatore.” Lo rassicuro.
Con un ultimo cenno della mano, esco dall’edificio, sentendo la porta chiudersi alle mie spalle.
Chiusa una porta, si dice, si apre un portone.
Nel mio caso, un cancello verso il mondo reale.
Fuori, appoggiato a una Toyota bianca, mi aspetta Winterfield.
Ha mantenuto fede alla sua parola.
Non poteva fare altrimenti, credo, ieri il mio assistente sociale, di cui non ho intenzione di imparare il nome, mi ha assicurato che tutte le carte sono state firmate.
Ormai è ufficiale: per i prossimi due anni, vivrò al rifugio dei Winterfield, a meno di complicazioni, ovviamente.
Nel vedermi, l’uomo mi saluta e si avvicina per prendere la scatola.
“Ciao, Noah. Come va? Felice di essere di nuovo un uomo libero?” Mi chiede, fin troppo contento.
Come risposta riceve solo una scrollata di spalle, sono troppo intento a salutare Jared, che non perde tempo a farmi il discorso.
Sapete, no?
Il discorso: ‘sta attento, non tornare qua, non fare mosse azzardate, rispetta le regole, ascolta i tuoi tutori’, cose così.
E io lì ad annuire meccanicamente, a rassicurare, a rispondere a monosillabi, con la sola voglia di fermarlo, salutarlo adeguatamente e andarmene via da questo posto.
Ma no, devo sorbirmi tutta la tiritera e fare il bravo ragazzo che ascolta diligentemente.
Dopo cinque minuti di ‘se ti rivedo ancora una volta qui, non ti rivolgerò la parola’ e altre simpatiche minacce, mi concede il permesso di salire in macchina.
Mi siedo sul sedile davanti, Winterfield occupa il posto del guidatore.
Ingrana la retromarcia e usciamo dal parcheggio.
Dal finestrino vedo scorrere le finestre del riformatorio, dietro le quali scorgo le figure che mi hanno accompagnato in questi mesi.
Una in particolare, nella penultima finestra del secondo piano, quella dell’aula di matematica, sembra salutarmi con la mano.
Sarà una mia impressione, ma questo non m’impedisce di ricambiare il saluto.
Dopo qualche tentativo - a vuoto – da parte di Winterfield di avviare una qualsivoglia conversazione, il viaggio prosegue relativamente in silenzio, con la radio come sottofondo.
Sulle note di The Boxer, di Simon & Garfunkel, percorriamo le vie della città, mentre le villette residenziali, con i loro giardinetti e i loro alberi tutti uguali, ci guardano impassibili, quasi giudicanti.
Fortunatamente, la strada non è tanta.
Dopo una decina di minuti Winterfield accosta davanti a una casa, che da fuori sembra come tutte le altre, ma differisce dal quartiere per un elemento importantissimo.
Sulle scale che portano al pianerottolo, Alex mi sta aspettando, con la testa sostenuta da una mano, mentre le dita dell’altra tamburellano nervosamente.
Quando ci vede, si alza e corre incontro alla macchina.
Non faccio in tempo ad aprire la portiera che sento due braccia stringermi all’altezza del petto e dei capelli ricci solleticarmi la guancia.
Colto alla sprovvista, do ad Alex una pacca sulla schiena.
“Ciao anche a te.” Mi esce lievemente soffocato, a causa della mancanza d’aria.
Alex non risponde immediatamente, sento che si blocca un attimo.
E quell’attimo si prolunga penosamente, senza alcun riscontro da parte della persona a me ancora attaccata.
Ciao? Sei serio? Non ci vediamo da tipo... secoli e tu riesci solo a dire ciao?” Sbotta, alla fine.
Ancor più perplesso di prima, non trovo parole di conforto.
“Ma quando mai nella vita? Non è vero che non ci vediamo da mesi, mi hai fatto visita la settimana scorsa!” Faccio notare.
Bravo, Noah. Delicatissimo, come al solito tuo.
“... per come mi hai risposto, dovrei staccarmi. D’altro canto, non stiamo assieme in condizioni normali da troppo tempo.” Pensa ad alta voce, valutando le due opzioni.
Sto per controbattere, ma un ciuffo di capelli mi mette a tacere, entrandomi in bocca.
“Zitto e abbracciami.” Mi ordina.
E che altro posso fare se non obbedire con un non tanto velato piacere?
Iniziamo a dondolare ritmicamente.
“Mi sei mancato.” Sussurra, con la guancia poggiata sulla mia spalla.
“Anche io mi sarei mancato, se fossi in te.” Affermo, con un sarcasmo così perfetto da guadagnarmi uno scappellotto.
“Ahi. Ok, me lo sono meritato.” Riconosco, sciogliendo l’abbraccio.
Alex mi guarda con un sorriso malizioso.
“Ci puoi scommettere le chiappette che te lo sei meritato. Non vedevi l’ora di uscire da lì per irritarmi, vero, maleducato?” Mi prende in giro.
Assumo un’espressione confusa.
“In che senso... perché maleducato? Che c’entra adesso l’educazione?”
Alex scuote la testa.
“Lascia perdere, era una citazione che effettivamente non puoi capire.” Dice, scacciando l’argomento con la mano.
Ovviamente, io non demordo e chiedo di spiegarsi.
“Mi stavo riferendo a quest’intervista che ho visto...”
E così m’inizia a parlare di questa band britannica con cui si sta fissando e che, ne ho l’impressione, mi riproporrà più volte, di come pensasse che il cantante fosse una donna, finché non ha cercato i nomi, fino a uscire il suo cellulare e mostrarmi l’intervista in questione.
Il tutto mentre prendo lo scatolone dal portabagagli ed entriamo in casa.
Aprendo la porta d’ingresso, mi si rivela un vasto salone dai toni chiari, spezzato da elementi di legno color mogano.
È il mio materiale preferito, il legno scuro, dà un tono accogliente anche alla più asettica delle strutture.
La casa in cui stavamo prima aveva tutti i mobili in legno scuro, ma anche quelli non sono riusciti a rendere confortevole il nostro soggiorno.
Poggiandomi una mano sulla spalla, Winterfield mi guida verso una scala, anch’essa in legno, che porta al piano superiore, dove presumo si trovino le stanze.
Camminiamo per un corridoio tappezzato di porte.
I nostri passi, già attutiti da una vecchia moquette verde, sono sovrastati dalle urla irate di adolescenti troppo concentrati nel loro futile litigio per occuparsi di noi.
Winterfield mi prende lo scatolone dalle mani e lo porge ad Alex, indicando l’ultima porta a destra, dove la mia persona preferita scompare prontamente.
Sto per fare lo stesso, ma l’uomo mi ferma.
Poi bussa alla porta aperta da cui provengono gli schiamazzi, richiamando l’attenzione delle due parti in causa.
“Qual è il problema?” Chiede con voce paterna, dopo che il ragazzo e la ragazza in questione hanno finalmente fatto silenzio.
I due cercano di spiegare la situazione, ma non hanno la pazienza di ascoltarsi l’un l’altra.
Alzando una mano, l’uomo li ferma.
“Uno per volta, se non vi dispiace. Audrie, a te l’onore. Cosa c’è?”
Winterfield indica una ragazza dalla pelle scura, poco più grande di me. Indossa un abito a fiori arancioni che, devo dire, le complimenta l’incarnato.
Audrie, se ho ben capito il nome, si scosta i capelli raccolti in treccine con un movimento armonioso della mano, per poi incrociare le braccia e lanciare uno sguardo poco cordiale alla sua controparte.
“C’è che Sayid non sa tenere le mani lontane dalla mia roba.” Inizia a spiegare arrabbiata, ma è interrotta dal diretto interessato.
“Quante volte te lo devo dire? Non ho preso io il tuo quaderno. Che interessa a me di quello che pensi?” Sbotta il ragazzo, Sayid.
Il gelo cala nella stanza.
Sayid, comprendendo la situazione, porta le mani avanti.
“Ok, mi sono sentito, mi è uscito male. Riavvolgiamo un secondo. A me non importa quello che scrivi...” Cerca di rimediare, facendo più danno che altro.
Il ragazzo si copre la faccia con le mani, emettendo un verso gutturale di frustrazione.
“Oh mio... ma oggi che ho? Voglio dire che a me non interessa leggere i tuoi segreti. A me non interessa il tuo quaderno!” Conclude irritato, il tono della voce leggermente alzato.
Quando Audrie sta per tornare alla carica, Winterfield s’intromette.
“Va bene, ho sentito abbastanza. Appena finisco con Noah, vediamoci tutti in salotto. Chiamo una riunione d’emergenza.” Dichiara, non lasciando spazio a ulteriori discussioni.
Audrie rimane perplessa un attimo.
“Chi è Noah?” Domanda.
A quanto pare, non mi ha visto.
Non le do nemmeno torto: con la sua stazza, l’uomo praticamente mi copre.
Certo, c’è da dire che io non sia un gigante... in mia difesa, ancora sto crescendo!
Winterfield m’indica con un pollice, i due ragazzi si chinano di lato per guardarmi.
Imbarazzato per l’improvvisa attenzione, riesco solo a salutare con un cenno della mano, ricambiato prontamente dai due, ancora piegati di lato come la torre pendente di Pisa.
“Ci vediamo sotto fra cinque minuti, avvertite gli altri.” Ordina il padrone di casa, per poi voltare le spalle e avviarsi verso la stanza, facendomi segno di seguirlo.
Inshallah.” Risponde Sayid con noncuranza.
Winterfield si blocca sul posto. Lentamente, si gira a guardare il ragazzo.
“È un ordine, Sayid. Niente Inshallah.” Ribatte categorico.
Il ragazzo alza gli occhi al cielo.
“Non sai neanche cosa vuol dire...” Replica scocciato.
“L’ho sentito abbastanza spesso con quel tono per sapere cosa voglia dire. E questa volta non si discute, farai come ti ho detto. Adesso scendete e chiamate tutti.” Con questo, Winterfield gira i tacchi e mi tira una manica per farmi muovere.
Entriamo in stanza, dove Alex sta già attaccando i miei disegni.
“Noah, ho trovato una lettera nella scatola... te l’ho messa sul letto.” M’informa, senza girarsi.
“Alex, stiamo facendo una riunione d’emergenza, potresti iniziare a scendere, per favore? Vi raggiungeremo fra un attimo, il tempo che spiego a Noah come funziona il tutto.” Interviene Winterfield, tenendo la porta aperta per fare uscire Alex.
La mia persona preferita mi lancia uno sguardo perplesso.
Per risposta, mi stringo nelle spalle e faccio segno di andare e Alex, con ancora un’espressione confusa sul viso, obbedisce.
Quando esce, l’uomo chiude gentilmente la porta, poi va verso la scrivania, che noto solamente adesso, e vi si appoggia, spostando tutta la sua attenzione su di me.
Io, dal canto mio, preferisco sedermi sul letto su cui è poggiata la mia bella scatola.
“Scusa il trambusto, è così ogni giorno.” Inizia Winterfield, con tono sarcastico.
Scrollo la testa, facendogli capire che non si deve preoccupare.
Dopo un attimo di silenzio, in cui aspetta una risata per la battuta o, almeno, una risposta, l’uomo si sfrega le mani.
“Bene, abbiamo poco tempo. Per ora ti spiego l’essenziale, il resto lo lascio a domani, quando sarai più riposato. Immagino tu voglia recuperare il tempo perso con Alex, oggi. Quindi, velocemente: questa sarà la tua stanza per i prossimi due anni, la dividerai con Alex. Come avrai notato, le altre stanze sono divise da tre o più ragazzi, mentre questa è riservata a voi due soli...”
No, non ci avevo fatto assolutamente caso, in verità.
Ma questo non lo dico, preferisco fargli finire il discorso.
“Come ben saprai, non è possibile dare l’affidamento a un rifugio. I rifugi non sono case famiglie e questo, in particolare, è sovvenzionato in minima parte dalla città, nonostante sia ufficialmente e legalmente riconosciuto come rifugio per minorenni senza fissa dimora. Io e mia moglie lo abbiamo aperto da privati e come tale lo gestiamo, insieme a qualche nostro amico. Viviamo di donazioni, ma, come ben potrai intuire, non sono in molti a voler dare i propri soldi a una casa del genere. Quindi ognuno dei nostri ospiti ha il compito di mantenere la struttura.” Continua serio, senza distogliere lo sguardo dai miei occhi.
“Questo vuol dire: pulire, lavare, mettere in ordine, cucinare per sé e per gli altri, in generale cercare di non rompere nulla e mantenere un ambiente pulito e sicuro per tutti. Mi capisci?” Interrompe la sua spiegazione, finché non rispondo positivamente alla sua domanda.
“Tornando al punto centrale, tu e Alex non siete semplici ospiti del rifugio: siete sotto la tutela mia e di mia moglie. Noi due siamo i vostri genitori affidatari. E per quanto non ti possa piacere...” Aggiunge, notando la mia espressione contrariata.
“... questa è la soluzione migliore cui i vostri assistenti sociali hanno potuto pensare, viste le vostre resistenze.” Afferma, con tono ovvio.
Mi mordo l’interno della guancia, un tic nervoso che mi è rimasto come souvenir dei miei giorni a casa Bennet.
“Perché hai chiesto il nostro affidamento? Perché noi due e non tutto il resto dei tuoi ‘ospiti’?” Chiedo, mimando le virgolette.
La domanda mi scappa dalle labbra, prima che possa frenarla.
Winterfield, semplicemente, sorride.
“Diciamo che... Alex sa essere molto convincente, quando vuole.” Risponde vago.
Non la bevo, mi sta nascondendo qualcosa, lo sento.
Questa faccenda mi puzza.
Winterfield, soddisfatto della chiacchierata, torna alla porta.
“Adesso, se non ti dispiace, dovremmo scendere. Potrai sistemarti alla fine della riunione, d’accordo?” Mi domanda, con tono cordiale.
Vorrei oppormi, vorrei urlare che non era questo l’accordo, che non ho mai accettato di pormi sotto la loro custodia, ma di aver solo chiesto un posto dove dormire e un tetto sopra la testa, senza essere per forza legato a un luogo, libero e capace di prendere baracca e burattini e andarmene quando mi pare.
Vorrei urlare all’inganno, alzarmi e tirargli un pugno in faccia.
Ma, fortunatamente, la mia forza di volontà è più forte del mio istinto.
Invece di fare una scenata, annuisco, mi alzo e, con un’ultima occhiata alle mie cose e alla lettera che vorrei così disperatamente leggere, scendo insieme al padrone di casa.
Riuniti in soggiorno, seduti su sedie, divani, poltrone e cuscini per terra, si trovano una quindicina fra ragazzi e adulti, presumibilmente gli amici di cui Winterfield parlava poco fa.
Non appena mi vede comparire sulle scale, Alex mi fa cenno di sedermi al suo fianco. Noto con piacere che mi ha salvato un posto, meglio così.
Sotto gli sguardi curiosi dei presenti in sala, scavalco un paio di adolescenti foruncolosi per raggiungere la mia persona preferita.
Winterfield, invece, va dritto verso il camino, al quale si poggia, guardando tutti dall’alto.
A quanto pare, all’uomo non piace sedersi.
Con un solo gesto della mano, riesce a far calare il silenzio nella stanza.
Compiaciuto di questa capacità, inizia il suo discorso.
“Vi starete chiedendo a cosa sia dovuta questa riunione d’emergenza. Senza perderci in chiacchiere, il fatto è questo: è scomparso il quaderno di Audrie, qualcuno l’ha preso.” Afferma l’uomo, guardando i ragazzi negli occhi a uno a uno.
La vittima alza una mano.
“Il quaderno non è scomparso.” Dice Audrie, senza aspettare che Winterfield le dia la parola.
L’uomo la guarda perplessa.
“... Non ho capito. Se il quaderno non è scomparso, allora qual è il problema, Audrie?” Le chiede spazientito.
La ragazza si alza in piedi.
“Ho trovato il mio quaderno sul comodino, ma sono assolutamente certa di averlo lasciato sulla scrivania prima di scendere per pranzo. Qualcuno l’ha preso e l’ha letto. E sono sicurissima che sia stato tu, Sayid. Eri l’unico in camera prima di pranzo!” Lo accusa la ragazza, alzando la voce.
Anche Sayid si alza di scatto, è a dir poco alterato.
Boos tizi, Audrie! Ti ho detto che non sono stato io a prendere il tuo quaderno. Che ci guadagno a leggerlo? È solo una perdita di tempo, non sei neanche ricattabile.” Sbotta seccato, avvicinandosi pericolosamente alla ragazza.
Sono io o c’è odore di rissa nell’aria?
Prima che la situazione degeneri, una ragazzina che non può avere più dell’età di Alex, con occhiali più grandi del suo viso e gracile come uno stecchino, si frappone ai due litiganti.
“O vi calmate o giuro sulla tomba di mia madre ancora viva che vi pesto a sangue. Non scherzo. Sedetevi.” Impartisce con un tono così autorevole e una voce così potente da lasciarmi allibito.
Dove sono finito?
Nella sala piomba, ancora una volta, il silenzio, interrotto da un colpo di tosse di Winterfield.
“Grazie mille, Heather. Magari la prossima volta cerchiamo di non usare parole o toni forti. E di non giurare sulla tomba di persone vive. Né morte. Proviamo a non giurare sulla tomba delle persone in generale, che ne dici?” Propone Winterfield, sbalordito quanto me.
La ragazzina annuisce, si siede e riprende tranquillamente parola.
“E poi, non è stato Sayid. Ho spostato io il tuo quaderno, pensavo fosse il mio, non avevo letto il nome sulla copertina. Ma non l’ho aperto, te lo assicuro. Non sono un’impicciona.” Aggiunge, in tono più calmo.
Audrie la guarda per un attimo, come ad assicurarsi della sincerità delle sue parole.
Contenta dell’analisi, sospira.
“Tranquilla Heather, non fa niente. Mi ha dato solo fastidio il pensiero che qualcuno avesse messo le mani sulle mie cose, ma ti credo. La prossima volta, però, fa attenzione.” Con questo, la ragazza lascia cadere la discussione, tornando a sedersi come se non fosse successo nulla.
Winterfield, notando le acque calmarsi, con tono cordiale recupera l’attenzione della sala.
“Direi che il caso è chiuso. A questo punto, Audrie, non pensi siano doverose delle scuse a Sayid?” Chiede, con un sorriso che tradisce la sua speranza di non aver fatto il passo falso che fa scoppiare la terza guerra mondiale.
Ma Audrie si limita a scrollare le spalle, girarsi velocemente verso la vittima di calunnie e pronunciare delle brevi e superficiali scuse, accettate dal ragazzo più per amore di pace che per soddisfazione.
“Altro punto del giorno, il nostro nuovo arrivato: Noah.” Esclama Winterfield, indicandomi.
Gli occhi di tutta la sala si girano verso di me. E io, ancora una volta in soggezione, saluto meccanicamente.
Lo ammetto: non mi piace essere al centro dell’attenzione, preferisco rintanarmi nel mio angolino in penombra a osservare il mondo vivere e andare avanti, senza fari puntati addosso.
“Noah sarà un’aggiunta stabile della nostra famiglia. Come Alex, Emma e io ne abbiamo la custodia.” Continua l’uomo, raggiungendo sua moglie e cingendole la vita con un braccio.
Un momento… la settimana scorsa aveva detto che questa non era una famiglia, come mai questo cambio d’atteggiamento?
“Noah, questi sono Corbin, Patrick e Anne, le persone che hanno reso possibile l’apertura del centro.” Aggiunge, indicando i tre adulti che avevo scorto dalle scale.
“E questi sono i nostri residenti. Ragazzi, per favore, presentatevi.” Chiede al resto della combriccola.
E giù con i nomi che non imparerò per almeno una settimana, perché la mia mente, apparentemente, si rifiuta di apprendere un qualsiasi nome composto da più di una sillaba. Ma tranquilli, ha anche problemi con quelli monosillabici.
Quando il mormorio d’informazioni si è acquietato, Winterfield batte le mani.
“Bene, penso abbiamo affrontato tutti i problemi. Qualcuno ha qualcosa da aggiungere?” Chiede, vagando con lo sguardo per il salotto.
Nessuno si propone.
“Allora penso che la riunione sia conclusa, potete andare nelle vostre camere. Audrie, Jeremy, oggi siete di turno alla cucina insieme a Corbin, vi conviene raggiungerlo, si è fatto tardi. Ricordo a tutti che la cena sarà pronta per le sei e mezza, quindi...” si ferma un attimo a guardare l’orologio, “...fra un’ora. Siate puntuali.” Detto questo, la massa di ormoni si alza e si disperde, mentre Alex mi tira per una manica verso la nostra camera.
Chiacchierando del più e del meno, passiamo la nostra ora di libertà a sistemare quello che ho portato dal riformatorio.
Con mio piacere, noto che nell’armadio della stanza sono appesi e piegati dei vestiti, quasi tutti della mia taglia, qualcuno un po’ più grande.
Alex m’informa che i Winterfield, dopo aver avuto la conferma per la mia custodia e sapendo della mia carenza di vestiario, armati di vaghe indicazioni su taglia, gusto e tanta buona volontà, sono andati in giro per negozi, tuffandosi in una breve, ma intensa, sessione di acquisti.
Passando in rassegna l’armadio, devo ammettere che hanno un certo occhio per l’abbigliamento.
Dopo quasi un’ora di lavoro e scherzi, posso finalmente buttarmi sul letto a riposare, almeno per cinque minuti.
Quando la mia schiena tocca il materasso, sento un lamento di carta stropicciata provenire da sotto di me.
Alzo leggermente il fianco ed estraggo quella famosa lettera che ho abbandonato sul letto prima della riunione e di cui, ovviamente, mi sono completamente dimenticato.
La stendo alla bene e meglio e, tenendola fra le mani in alto, davanti agli occhi, inizio a leggerla.
Notando il mio sorriso, Alex si avvicina.
“Steve era il tuo compagno di stanza, giusto?” Chiede, chinando la testa vicino alla mia per leggere meglio.
Ritraggo istintivamente la lettera, nascondendola di lato per non farne leggere il contenuto.
“Sì, era il mio compagno di cella.” Rispondo, con il sorriso ancora sulle labbra.
Alex si avvicina ancora di più, sedendosi sul mio letto.
“Sorridi troppo, qua c’è qualcosa che non quadra. È il tuo ragazzo?” Torna a domandare, senza mezzi termini.
Sento improvvisamente caldo.
“No che non è il mio ragazzo. È solo il mio compagno di cella.” Ribatto, cercando di mantenere un tono calmo.
Alex assume un sorriso malizioso.
“Noah e Steve, seduti sopra un ramo...” Inizia a canticchiare.
Neanche il tempo di un’altra strofa che, avendo visto la mia espressione, inizia a correre, cantando a squarciagola per i corridoi, e io dietro a inseguire, abbandonando ancora una volta la lettera sul letto.
“Caro Noah,
sai che non so cosa scrivere? Probabilmente questa è una delle prime lettere che faccio, se non la prima, una delle poche che ho mai fatto e che farò in vita mia. Tuttavia, questa è un’occasione speciale e, di conseguenza, serve un gesto speciale.
Saranno stati anche due mesi, ma sento come se ne fossero passati mille e nessuno contemporaneamente. In così poco tempo mi sono affezionato a te come se ti conoscessi da tutta la vita, come se fossimo cresciuti insieme. Non ci sono parole per dire quanto hai fatto per me, qua dentro. Quando ero triste, stanco di tutto e di tutti, pronto a rinunciare al mondo, tu eri lì, che m’impedivi di gettare la spugna, per darmi una spalla su cui piangere o un appoggio su cui reggermi. Non conosco abbastanza bene la lingua inglese per ringraziarti adeguatamente, ma ci proverò lo stesso. Grazie a quel dizionario che mi hai regalato (regalo sarcastico, tra l’altro, rivelatosi molto utile), il mio inglese è migliorato abbastanza, non molto, può ancora migliorare. Ancora mi chiedo se si siano accorti della sua sparizione, in biblioteca.
Spero davvero che, una volta libero, non ti dimenticherai del tuo fratello dietro le sbarre. Conto sulla tua telefonata settimanale o visita occasionale, chiamami appena puoi, così mi segno il numero di telefono a cui ti posso contattare. No, non ti libererai così facilmente di me, è una promessa (o una minaccia, dipende da che lato la guardi). E dobbiamo riparlare di quel negozio di tatuaggi che abbiamo programmato di aprire, una volta maggiorenni. Ci conto davvero su quel lavoro. Voglio vedere i tuoi disegni diventare famosi, così potrò dire che una volta, quell’artista, era soltanto un ragazzino con la paura del buio e la fobia degli spazi chiusi. E che io conoscevo quel ragazzino e che l’ho aiutato in qualche modo, spero, a sopravvivere in questo mondo di squali.
Voglio vederti brillare, diventare qualcuno, fare del bene. Io credo in te, non sei soltanto una percentuale. Tu sei Noah, non dimenticarlo mai.
Con affetto,
Steve.


P.s. Il prossimo cognome falso sceglilo meglio, Bonham si capisce subito che non è il tuo cognome, se conosci un minimo di musica. E sì, lo so che ci sono persone con quel cognome, ma tu non sei una di quelle, ammettiamolo. Un consiglio: se proprio vuoi un cognome tuo, inventane uno tu.”
 

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Capitolo 4
*** Cough Cough ***


*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve miei cari lettori e bentornati a un nuovo capitolo. La canzone del titolo è Cough Cough degli Everything Everything, una band indie rock britannica stanziata a Manchester. Il brano in questione è il singolo, appartenente al secondo album Arc, che li ha portati alla notorietà in ambito europeo.
Godetevi la lettura e la canzone, io vi do appuntamento al 21 maggio con il quinto capitolo.


 
Capitolo 4

 
“Sto morendo di fame, sbrigati!” Mi urla Alex dalla porta, spostando il peso da un piede all’altro mentre aspetta che finisca di cambiarmi.
Mi lego molto attentamente i lacci delle scarpe.
“Oh mio Dio, potresti essere più lento?” Sbuffa per l’esasperazione.
Per tutta risposta, indosso la maglietta il più lentamente possibile, sbagliando diverse volte il buco per la testa.
Mentre sono ancora – volontariamente – incastrato nella trappola di tessuto, delle mani afferrano con forza la T-shirt e la sistemano.
“C’è chi è morto aspettandoti.” Farfuglia Alex, mentre mi fa alzare tirandomi per le braccia, per poi andare verso il corridoio.
Non vorrei essere così fastidioso... vorrei essere più fastidioso. Così, senza un particolare motivo se non quello di rimediare alla mia noia.
Quindi non mi muovo.
Quando Alex se ne accorge, emette un suono molto più simile al verso di un wookiee che a un qualcosa prodotto da corde vocali umane.
“Ma sei serio?” Sbotta, sgranando gli occhi.
Alzo le spalle, incrociando le braccia.
Pestando i piedi, si porta dietro di me e inizia a spingermi.
Con fare drammatico, mi porto una mano al petto e mi lascio cadere con tutto il mio peso sulla sua povera figura.
“La forza di gravità mi schiaccia!” Affermo melodrammatico.
“Noah, smettila!” Mi urla Alex da sotto le mie spalle.
“È più forte di me...” Continuo, spostando la mano sulla fronte.
Qualcuno, alla porta si schiarisce la gola.
Voltiamo contemporaneamente lo sguardo per vedere di chi si tratti: è Emma, la moglie di Winterfield, che, poggiata alla porta con le mani conserte, assiste alla scena.
“Lilo, Nani, non vorrei interrompervi, ma è pronto a tavola.” Ci informa con un sorriso, per poi uscire di scena con una piroetta.
In questa casa tutti sono troppo felici per i miei gusti.
Alex si sposta da sotto il mio corpo, lasciandomi cadere a terra.
“Ti sto lasciando qui.” Mi dice, raggiungendo la porta in due falcate.
“Te la sei presa veramente?” Chiedo ad Alex, scattando in piedi.
Non mi risponde, continua a camminare in corridoio, con me che cerco di recuperare la distanza.
“E dai, Alex, era solo uno scherzo! Te la sei presa?” Domando nuovamente, finalmente al suo fianco.
“No, non me la sono presa.” Ribatte, con voce irritata.
Aggrotto le sopracciglia.
“Dal tono non sembra.” Borbotto.
Ancora una volta non mi risponde, ma continua a camminare.
“Si può sapere che hai, allora?” Chiedo spazientito.
Alex si ferma di scatto e si gira verso di me, facendomi sbattere contro la sua spalla. Mi massaggio il braccio.
“Ho fame!” Si sfoga, allargando le braccia.
Alzo le mani per placare la furia, tuttavia questa non mi dà conto e scende le scale senza aspettarmi.
Dimentico sempre che si arrabbia quando ha fame.
Alla fin fine, non è il mio personale gremlin al rovescio senza un motivo: se non sfamo Alex entro mezzanotte, diventa una belva.
“Ti muovi o no?” Mi chiama l’imputato dalla fine delle scale, dandomi la spinta necessaria per premere l’acceleratore.
Dalla stanza da pranzo proviene il brusio delle voci di una dozzina di ragazzi. La luce di un arancione artificiale m’investe quando attraverso l’arco che la divide dal corridoio.
Nella stanza ci sono due tavoli rettangolari, apparecchiati a modo da alcuni abitanti della casa, ancora intenti a passare fra le sedie con le posate in mano.
Winterfield è seduto al tavolo alla mia sinistra, sotto un poster incorniciato con una di quelle frasi motivanti, che se ci avessero messo la foto del gattino attaccato al filo con la scritta Hang in there avrebbero fatto più figura.
Con la mano ci fa segno di prendere posto al tavolo insieme a lui e a sua moglie, che si sta sedendo al suo fianco.
Alex e io andiamo quindi a formare questo bel quadretto della non così tradizionale e non poi così felice famiglia americana.
La mia persona preferita prende quindi posto alla destra della donna, con me a seguire. Dall’altro lato del tavolo, noto con piacere, sono già seduti Sayid, quella ragazzina con gli occhiali che ha preso la parola durante la riunione, di cui non ricordo il nome, e un’altra adolescente che sono sicuro di non conoscere, i capelli raccolti tirati indietro da un foulard azzurro, le labbra rosse e un’aria vintage, tanto che potrebbe benissimo provenire direttamente dagli anni ‘50.
Finalmente seduto comodamente, saluto tutti.
Sayid si sporge sul tavolo, sfoggiando un sorriso canzonatorio.
“Benvenuto al tavolo dei popolari!” Mi accoglie sarcastico.
”Oh, wow, che onore… non mi sono mai seduto in prima classe. Anche se credevo che solo gli sfigati mangiassero con il preside.” Ribatto ironico, sfoggiando un ghigno a mezza bocca.
Il ragazzo torna a poggiarsi allo schienale, portando le mani dietro la testa.
”Non in questo film, amico mio. Qui solo la crême de la crême siede con i piani alti.” Replica disinvolto.
“E, t’informo, io e le mie ragazze...” aggiunge, indicando le commensali di cui non ricordo il nome, “...abbiamo deciso di invitarti a pranzare con noi per il resto della settimana.” Dichiara, con il vago tono scherzoso di chi spera si riconosca la citazione.
Alzo un sopracciglio, mentre il mio sorriso si allarga.
“Mh-mh, scommetto che il venerdì ci vestiamo di rosa, vero?” Replico ridacchiando.
”Indovinato.” Conferma lui, facendomi l’occhiolino.
Flirtare usando citazioni di Mean Girls? Il ragazzo sa il fatto suo.
Il nostro contatto visivo è interrotto dal braccio di un altro abitante della casa, che poggia al centro del tavolo un piatto pieno di purè.
Mi giro perplesso verso Alex, chiedendo silenziosamente una spiegazione.
Non è lui a darmela.
“Come ti avevo già spiegato, in questa casa ci dividiamo i compiti. Stasera è toccato ad Audrie, Jeremy e Corbin cucinare e, come vedi, portare a tavola le pietanze, quindi qualcun altro sparecchierà e laverà i piatti.” M’informa Winterfield, prendendo un piatto con della carne e servendosi.
“Quel qualcuno sarete tu, Alex e Marlene.” Aggiunge, indicando con la testa la ragazza seduta accanto a Sayid, quella che non conosco.
Alzo un sopracciglio.
“Che fine ha fatto il ’recuperare il tempo perso con Alex’?” Chiedo, ricordando ciò che mi ha detto in camera.
Winterfield mi sorride tranquillo.
“Sono sicuro che avrete tutto il tempo di parlare mentre lavate i piatti. Pollo?” Mi chiede, passandomi il piatto.
Scrollo le spalle e accetto la portata.
Sinceramente? Sono abituato a lavorare in casa, non mi cambia molto lavare i piatti stasera o domani. L’importante è farlo in buona compagnia o con un ottimo sottofondo musicale.
Quando tutti ci siamo serviti a piacimento, prendo la forchetta in mano, pronto ad addentare il primo boccone decente dopo mesi di sofferenza... ma un calcio proveniente dalla mia sinistra mi ferma.
Poso malamente la forchetta sul piatto, quasi lanciandola, e mi volto con tutto il busto verso Alex.
“E questo per che cos’era?” Chiedo irritato.
Già mi preparavo ad assaporare del cibo vero.
Alex punta un pollice alla sua destra, segnalandomi di prestare attenzione a ciò che sta succedendo.
Alzo gli occhi al cielo e obbedisco.
I Winterfield si tengono per mano, hanno la testa abbassata e gli occhi chiusi.
“Signore, benedici il cibo su questa tavola, offerto dalla Tua grazia e gentilmente preparato dai nostri fratelli Corbin, Jeremy e Audrie. Possa la Tua benevolenza e quella del Tuo figlio proteggerci tutti, indiscriminatamente dal nostro genere, orientamento sessuale, religione o colore della pelle.” Inizia lui, a voce alta, mentre nella sala cala il silenzio.
Alex non proferisce parola. Non è credente, ma crede nel rispetto della fede altrui.
Guardo Sayid, di cui non so di preciso la religione.
Non vorrei presupporre, visto che, da quanto ho capito, proviene da una famiglia araba o così presumo, visti i termini che gli scappano. Mi pare abbia detto Inshallah, che, da quanto ricordo, vorrebbe dire ‘se così vuole Allah’ o qualcosa del genere, quindi credo sia musulmano. A meno che non lo dica come io e Alex diciamo ‘oh mio dio’, ovvero come esclamazione, più che come vera espressione di fede.
Le mie teorie sono interrotte quando sento il mio nome.
“... e accogli Noah, che da oggi si è unito alla nostra famiglia. Possa Tu illuminare il suo cammino, come hai fatto con il Profeta. Amen.” Conclude, in un coro di echi provenienti da almeno la metà dei presenti.
È sorprendente come alcuni di questi ragazzi, rifiutati dalla comunità mormone, ancora credano nella parola di Joseph Smith.
Finalmente inizia quell’agognato rumorio di posate e chiacchiericcio tipico di una mensa, a cui sono più che contento di unirmi.
Qualcuno ha detto che la prima volta non si scorda mai. Non so chi sia stato, ma ha perfettamente ragione: nel mio caso, il primo morso di cibo fatto in casa non si scorda mai.
È da un bel po’ che non mangio un pasto decente, contando il riformatorio e la nostra piccola esperienza nella selva del parco.
Non ho parole per unirmi alla conversazione iniziata dalla mia persona preferita, rispondo con mugugni, suoni e segni per non smettere di mangiare.
Alex mi guarda con un accenno di disgusto, misto a divertimento.
“Noah, sembra che non tocchi cibo da anni.” Commenta, guardandomi.
Gli faccio segno che, più o meno, è così. Alza gli occhi al cielo, ma dalla sua espressione capisco che ha fatto quattro conti.
“Va bene, posso capire perché stai divorando quel povero pennuto.” Continua, scuotendo la testa.
“Eppure dai Bennet non si mangiava così male.” Pensa ad alta voce.
Mi scappa una risata amara.
“Dai Bennet non si mangiava male perché cucinavamo noi.” Specifico, fra un boccone e l’altro.
Alex alza le spalle.
“Touché.” Ammette, riprendendo a mangiare come se nulla fosse.
Quando il mio piatto è vuoto e luccicante, ovvero due minuti dopo, mi poggio allo schienale sazio e soddisfatto.
A differenza mia, un commensale in particolare continua a girare il cibo nel suo piatto con la forchetta. Sayid, il ragazzo in questione, infilza un pomodorino, lo alza e lo analizza, per poi farlo ricadere sul piatto.
“Non ti sta piacendo la cena?” Domanda Emma preoccupata.
La considerazione di questa donna è irritante.
Sayid scuote la testa
“È tutto buono e via dicendo... ma sapete cosa ci vorrebbe?” Chiede a nessuno in particolare.
“Cosa?” Chiedo a mia volta, poggiando la testa sulle mani incrociate. Riesco a sentire il peso delle occhiatacce lanciatemi dai miei convitati.
Sayid alza le mani, come se tenesse del cibo immaginario.
“Una bella pita e una ciotola di humus!” Afferma, con occhi sognanti.
Un sospiro sofferto si alza dal tavolo.
“Certo che ami l’humus, eh? Proprio lo adori.” Commenta spazientita la ragazza seduta accanto a lui (Marlene?).
Sayid annuisce convinto.
“L’humus non discrimina, ok? Sta bene con tutto. È stato creato per portare la pace nel mondo e unire l’umanità. È un dono di Allah e come tale va apprezzato.” Sostiene fermamente, colpendo il tavolo con un pugno.
“E sono abbastanza sicuro che sia patrimonio nazionale in Libano.” Aggiunge pensieroso.
Marlene – anche se sto sbagliando il nome, ormai la conosco come Marlene e così la ricorderò – gli dà un colpo con il gomito, a mo’ di scherzo.
Ora ho le mie risposte: è libanese. O meglio, presumo abbia origini libanesi, visto che il suo accento è tipico dello Utah.
In mezzo alla risata, Sayid si blocca di colpo, tornando serio. Il suo sguardo passa alle mie spalle, seguendo qualcosa.
Girandomi, vedo Audrie passarmi dietro e andare verso la cucina.
Se l’ho notato io, ad Alex non sarà scappato sicuro.
Difatti...
“Sayid, hai risolto la situazione con Audrie?” Domanda cautamente, attirando l’attenzione del ragazzo, che si stringe nelle spalle.
“Ancora no... ma non durerà per molto. Non dura mai per molto.” Ci rassicura con un sorriso.
Mi lascia un secondo perplesso.
“Scusami se chiedo, ma come mai se l’è presa tanto per un quaderno?” Domando, sperando di non risultare inopportuno.
La ragazza con gli occhiali si schiarisce la gola.
“Non è un quaderno qualsiasi. È il quaderno.” Spiega, sottolineando l’ultima frase come se, da quella, dovessi capire tutta la situazione.
Mi lascia più confuso di prima.
Emma, con uno di quei sorrisi rassicuranti che mi fanno accapponare la pelle, prende la parola.
“Quando una nuova persona chiede di essere ospitata nel rifugio per un lungo periodo, ci mettiamo in contatto con degli assistenti sociali per cercare una sistemazione permanente. Nel frattempo, mentre soggiornano qua, Anne, la nostra amica terapeuta che hai conosciuto alla riunione, si occupa della loro salute mentale: a ognuno dà un quaderno in cui esprimere i propri sentimenti e le proprie frustrazioni, così da monitorare gli sbalzi d’umore. Fa parte della terapia che offriamo.” Mi spiega senza perdere il suo sorriso e con una dizione a dir poco impeccabile.
È estremamente inquietante.
So che, in teoria, il suo tono dovrebbe essere rassicurante… ma, per esperienza, mi fa rabbrividire.
“Devo ammettere che questo rifugio non è come m’immaginavo.” Sostengo, facendomi scappare una risatina nervosa.
Emma mi sta ancora fissando sorridente.
Vi prego, fatela smettere.
“Sembra più una casa famiglia, lo gestite in modo strano.” Continuo, facendo un respiro profondo.
Come se avesse sentito la mia supplica, abbassa lo sguardo, così come il suo volto diventa neutro.
Winterfield, nel vederla, le accarezza un braccio delicatamente.
“Vedi, l’idea iniziale era proprio quella: gestire una casa famiglia. Ma la situazione si è complicata, quando...” Interrompe la spiegazione, tornando a guardare sua moglie.
Inclino leggermente la testa, aspettando che vada avanti.
Tuttavia non riprende la parola.
“Quando mio fratello è stato buttato fuori di casa.” Finisce Emma, per suo marito.
Al tavolo cala una cappa di disagio.
So che questa storia non avrà un lieto fine. Forse è meglio non farla continuare, si vede chiaramente che non è un ricordo piacevole.
“Sai, siamo cresciuti in una comunità mormone, io e Josh ci siamo conosciuti in chiesa quando eravamo piccoli. Siamo cresciuti insieme, noi tre. Mio fratello... ha scoperto molto presto di non essere attratto dalle donne. Stiamo parlando di una decina di anni fa, ormai. Appena i nostri genitori se ne sono resi conto lo hanno cacciato di casa. Ai tempi, io e Josh eravamo in missione nel New Hampshire, un po’ lontani... quando abbiamo saputo dell’accaduto, era troppo tardi. Siamo tornati a Salt Lake City, ma non siamo riusciti a trovarlo. Qualche mese dopo, la polizia ci ha contattati: avevano trovate il cadavere di un diciassettenne che corrispondeva alla descrizione fatta da me quando ho denunciato la scomparsa. Mi hanno chiesto di identificare il cadavere...” Si ferma un momento per ricomporsi.
“Non abbiamo mai scoperto la causa della morte. Non passa giorno in cui i miei genitori non si sentano in colpa per la morte del figlio. E non passa giorno in cui non pianga la perdita di mio fratello. Per lui abbiamo deciso di creare il rifugio, che porta il suo nome: Aaron Peterson.” Conclude, poggiando la schiena al marito, mentre questi le cinge la spalle con le braccia.
“Abbiamo sempre voluto aiutare il prossimo, dare un’opportunità e una famiglia a chi non è mai stato così fortunato da averla. Quando è avvenuta questa tragedia, ci è sembrato ovvio cosa fare. Per dieci anni abbiamo lottato per ottenere i finanziamenti e, alla fine, ce l’abbiamo fatta. Ma ci siamo ripromessi di essere più di un rifugio per senza tetto, di un posto in cui dormire. Abbiamo deciso di creare un ambiente sicuro per quei ragazzi rifiutati dagli altri. Speriamo, in qualche modo, di esserci riusciti.” Prosegue Winterfield, poggiando il mento sul capo di Emma.
Marlene annuisce con convinzione.
“Credo di parlare per tutti quando dico che ci siete riusciti, Josh.” Sostiene, accompagnata da un mormorio d’approvazione.
I coniugi le sorridono grati, ma la malinconia è ancora evidente nei loro occhi.
E io, ancora una volta, vorrei sotterrarmi. Perché ho l’abilità di rendere spiacevole una situazione altrimenti gradevole?
Mi dispiace tantissimo per Emma, vorrei non aver fatto quel commento.
Però è un bene sapere certe cose.
Con un colpo di tosse, Winterfield decide di chiudere la questione.
“Direi che si è fatto tardi. Visto che abbiamo finito tutti di mangiare, che ne dite di lavare i piatti?” Chiede, rivolgendosi a me, Alex e Marlene.
Felice come non mai di mettere le mani a mollo, mi rimbocco le maniche e inizio a sparecchiare.
Marlene va dritta al grande lavandino, mentre Alex e io raccogliamo i piatti da portarle, zigzagando fra le persone intente ad alzarsi da tavola.
Alcuni di questi si mettono a studiare in soggiorno, mentre altri si occupano di pulire il resto della casa.
Con la spugnetta in mano, iniziamo a lavorare.
Fra una battuta e l’altra, finisco con il raccontare degli episodi del riformatorio, giusto un paio di avventure non molto avventurose in cui siamo andati a incappare Steve e io.
“... così, Steve inizia a correre e a urlarmi di fare lo stesso. Io non avevo capito assolutamente nulla di quello che stava succedendo. E mi ritrovo a guardare questo ragazzo che sfreccia per il corridoio urlando a squarciagola, inseguito da almeno tre guardie piene di punture d’ape. Vi chiederete dove mai abbia trovato un alveare e perché diavolo gli sia sembrata una buona idea buttarlo a terra nel bel mezzo della sala ricreativa. E sapete che mi ha risposto quando gliel’ho chiesto?” Domando, indicando i miei interlocutori con un cucchiaio.
Scuotono la testa.
“Che aveva voglia di miele. Aveva voglia di miele.” Ripeto, mimando con le mani un’esplosione vicino le mie tempie.
Alex e Marlene scoppiano a ridere.
“È pazzo, ve lo dico io. Ma lo adoro. Voi, invece? Che è successo di bello in questi mesi?” Chiedo curioso, riprendendo a lavare.
Alex fa spallucce.
“Ma niente di che, ti devo dire. È un continuo viavai di gente, qui. Di buono c’è che ho ripreso ad andare a scuola. Ah, me ne stavo dimenticando, guarda!” Posa la spugnetta, si asciuga alla bene e meglio le mani su uno straccio e si alza la maglietta, scoprendo una specie di canottiera nera, di quelle che comprimono.
“I Winterfield mi hanno comprato un binder, di quelli buoni, però, che non irritano troppo la pelle.” Afferma, la felicità visibile sul suo volto.
Non posso fare a meno di essere contento a mia volta.
“Alex, è fantastico! Finalmente hai smesso di usare la fasciatura, ti stavi rovinando con le bende.” Ammetto, contento dell’upgrade.
Alex annuisce con convinzione, abbassando nuovamente la maglietta e riprendendo a lavare.
“Marlene, invece, è relativamente nuova. Sta qui da qualche settimana.” Aggiunge, indicando la ragazza, che fa un cenno con la mano per confermare.
“So già che mi pentirò di questa domanda... ma qual è la tua storia?” Chiedo esitante.
Vorrei evitare certe domande, però ho finito gli argomenti da trattare e odio i silenzi imbarazzanti.
Se fossi da solo con Alex, va bene, non ci farebbe nulla, ma se c’è anche solo un’altra persona, allora no.
E odio le conversazioni spicciole: ‘oggi tira un vento tremendo’, ‘non ci sono più le mezze stagioni’, ‘come va la scuola?’, ‘hai risolto il problema con quel rash che ti sei ritrovato sul...’
No, proprio non mi vanno.
Marlene alza le spalle.
“Piccola storia triste di un’adolescente come mille: genitori divorziati, padre da qualche parte del mondo con la nuova famiglia, madre risposata, patrigno omofobo e stronzo in generale. Gli spintoni, gli schiaffi e gli insulti posso sopportarli, ma quando è passato alle maniere più pesanti, non ci ho visto più. E mia madre a fare la cieca e la sorda, troppo occupata con la nuova bambina per prestare attenzione a cosa succedeva nel resto della casa. Sempre ‘Bobby qui, Bobby là’ e ‘lo fa per il tuo bene, hai sviluppato un caratterino’. Ho sviluppato un caratterino, che razza di motivazione è mai questa? Quanto può essere efficace il lavaggio del cervello per rendere una persona così ottusa?” Risponde, lavando sempre più energicamente una macchia di salsa.
Fa un respiro profondo per calmarsi e posa il piatto nel lavandino, per poi asciugarsi la fronte con una mano guantata.
“Voi, invece? Come mai siete qua? Perché siete in affidamento?” Domanda, per sviare il discorso.
Alex alza le spalle.
“La casa in cui stavamo prima non era l’ideale. Prova a pensare al tuo Bob, a sdoppiarlo e a renderlo un tantino più violento. Anche noi ci siamo stancati della situazione e ce ne siamo andati. Per farla breve, abbiamo vissuto per un periodo per strada, a Liberty park, e poi i Winterfield hanno praticamente mandato in galera Noah.” Si ferma un secondo, notando l’espressione perplessa di Marlene.
“Non ne avevano l’intenzione, sia chiaro. Volevano aiutarci, ma si sono rivolti alla polizia e... beh, Noah aveva già una fedina penale, il furto a un 7-eleven e l’intrusione a Liberty park non hanno aiutato. A quel punto, penso che i Winterfield siano stati mangiati dal senso di colpa e abbiano richiesto il nostro affidamento. Almeno, così presumo, perché non vedo altra spiegazione logica. Ma se chiedi come siamo finiti nel sistema di affidamento, sia mia madre sia mio padre sono in carcere e non ne usciranno per un bel po’. Droga, brutto affare. Nessuno si poteva prendere cura di me e hanno scelto i Bennet. Noah, invece... Noah, tu?” Domanda, voltandosi verso di me.
“Non mi hai mai detto con precisione come sei finito dai Bennet...” Continua, ma intervengo prima che possa aggiungere altro.
“Te l’ho raccontato! Sono stato buttato fuori di casa perché gay e sono finito da loro.” Affermo stizzito.
Alex alza gli occhi al cielo.
“Va bene, ma, adesso che ci penso, non so quasi nulla della tua vita prima dei Bennet. Non so nemmeno da che città provieni, se sei davvero di Riverton.” Aggiunge, chiedendo una spiegazione esauriente.
“Dai, Noah. Racconta.” Rincara Marlene.
Scuoto la testa.
“Perché no?” Chiede Alex.
“Perché non voglio! Cos’è adesso tutto questo interesse per le mie origini? Vuoi sapere pure in che clinica sono nato o dove mi sono rotto il braccio?” Replico irritato.
Alex sussulta al mio tono.
“Scusa, non volevo farti arrabbiare.” Mormora sommessamente.
Mi stringo nelle spalle, ma non rispondo.
Lascio che tra noi cali il silenzio, così da far capire che non ho la minima intenzione di spiegare oltre.
E nel silenzio finiamo di lavare i piatti, senza più dire nulla, se non qualche parola di cortesia.
Posata l’ultima stoviglia, mi asciugo le mani e mi congedo, augurando una buona nottata, e filo in camera.
Sul letto, sopra il copriletto blu, trovo un quaderno verde, di quelli con la copertina mimetica con un riquadro bianco al centro.
E dentro questo riquadro, in una grafia elegante, c’è scritto il mio nome.
Mi siedo sul letto a osservarlo.
Non passa molto, prima che dei passi mi raggiungono.
“Ti sei arrabbiato molto? Scusa se ho insistito...”
Alzo lo sguardo verso la mia persona preferita.
Alex ha il capo chino, sta in piedi davanti a me, ma non mi guarda negli occhi.
Abbozzo un sorriso, cercando la sua attenzione.
“Non ci pensare, non è niente, ora passa.” Dico rassicurante.
Alex annuisce e si va a sedere sul suo letto.
“Anche se, lo sai, puoi dirmi tutto... cioè, io non giudico.” Aggiunge cautamente.
Sorrido e scuoto la testa.
“Non te la prendere, non è il momento adatto. Magari un giorno, ma oggi proprio no, sono stanco.” Spiego, cercando di essere il più rasserenante possibile.
Alex annuisce e inizia a cambiarsi. Mentre si sveste, dalla tasca dei suoi pantaloni cade un telefono.
Proprio in questo momento, mi ricordo di una cosa.
“Alex, posso fare una chiamata dal tuo cellulare? Ti avverto, è a carico dell’emittente.” Chiedo, nella speranza di una risposta positiva.
Alex prende il cellulare e me lo porge.
Ringrazio con un cenno del capo, mentre compongo il numero.
Dall’altro capo della cornetta risponde un addetto del centralino, che mi chiede per chi sia la chiamata. Dopo qualche minuto, sento una voce piacevolmente familiare.
“Allora non te ne sei dimenticato!” Mi risponde contento Steve.
“Come avrei potuto? Alla fin fine, sei il futuro co-proprietario del mio negozio.” Ribatto con un ghigno, tranquillamente percepibile dalla mia voce.
“Sei proprio un uomo di parola, Noah Bonham.” Afferma.
“Così mi hanno detto.” Replico, portandomi una mano al petto.
“E dimmi: cosa si prova a essere liberi?” Mi domanda, chiedendo implicitamente di raccontare la giornata.
E così inizio per filo e per segno il riassunto di quello che è successo, finché non metto in vivavoce per far partecipare pure Alex, così da tenere una conferenza a tre nel bel mezzo della serata.
Verso la fine della telefonata, Winterfield passa dalla nostra stanza per avvertirci che è ora di spegnere la luce.
“Il tutto è... particolare. Ma siete felici? Sei felice, Noah? O meglio, ti senti al sicuro?” Mi domanda di punto in bianco.
Preso alla sprovvista, non so cosa rispondere.
“Sinceramente? Non so cosa dirti, Steve... ancora ho passato solo mezza giornata in questa casa.” Ribatto, cercando le parole.
“Fidati del tuo istinto.” Replica lui.
Ridacchio.
“Il mio istinto mi dice continuamente di scappare.” Lo informo, con un sorrisino amaro.
Segue un attimo di silenzio.
“Allora segui l’istinto di Alex, sembra più affidabile di te.” Afferma serio.
Alzo gli occhi al cielo con così tanta espressività che sono sicuro l’abbia percepito pure lui.
“Ora devo andare Noah, mi stanno facendo segno di staccare.” Mi avverte.
“Anche noi, Winterfield è già passato due volte. Ci sentiamo appena possibile, Steve.” Lo saluto.
“Va bene, non ti dimenticare di me! Buonanotte.” Ci augura.
Ricambiamo all’unisono e chiudiamo la chiamata.
Con un sorriso sereno, finalmente riacquistata la calma, ci auguriamo buonanotte a vicenda e andiamo a letto, dopo aver spento la luce.

 

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Capitolo 5
*** Black Smoke Rising ***


*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve a tutti e ben ritrovati. La canzone di questo capitolo è Black Smoke Rising dei Greta Van Fleet, un giovane gruppo di un paesino sperduto nel cuore del Michigan, formato da tre fratelli e un amico del liceo. Questi ragazzi, che fino a ora hanno fatto uscire solo un double EP, vengono considerati i Led Zeppelin 2.0, paragone nato soprattutto per la voce del cantante, Josh Kiszka, tanto che lo stesso Plant riconosce la somiglianza fra la sua voce e quella del ventiduenne. Sì, perché qua parliamo di un'età media di 20 anni, con i più grandi, i gemelli Josh (cantante) e Jake (chitarra), appena entrati nei loro 22 anni e i più piccoli, il terzo fratello Sam (basso) e Dan (batteria), rispettivamente di 19 e 18 anni. Il gruppo è ovviamente influenzato dalle leggende dell'hard rock, ma anche dal blues e dal jazz, creando un sound nostalgico più vicino agli anni '70 che al terzo millennio. Con tutta una carriera davanti, nonostante le esperienze di un tour europeo sold out e il main act al coachella, hanno tutto il tempo del mondo per sperimentare e trovare il proprio sound. Consigliatissimi e, di sicuro, da tenere d'occhio.

 
Capitolo 5

 
“Non è la tua guerra,
non son le tue azioni,
non sono tuoi i pensieri,
né le parole,
sono le loro sulla tua lingua,
colpi di mortaio in mezzo alla piazza.
Non è il tuo volere a premere il grilletto,
ma il sangue che ti tinge il volto,
correva libero e pulsava di vita,
adesso
una bambina vi si specchia ai suoi piedi.
Senza innocenza,
senza risate,
la musica tace,
il mondo ha paura.
Quando le stelle ti guardan negli occhi,
dimmi: n’è valsa davvero la pena?
Era davvero il tuo dio a parlare?
A quale scopo vuoi morire?
Sappi che un altro ha preso il suo posto,
si chiama potere,
si chiama denaro.
Una pedina sulla scacchiera,
una marionetta giostrata da un’ombra,
oggi la vita vale di meno,
meno di carta,
meno dell’oro.
Abbandoni pensieri,
abbandoni parole,
abbandoni libertà, casa, famiglia,
abbandoni la vita credendo nel nulla,
il loro passato sulle tue spalle,
il loro futuro sulla tua lama.”
Una mano mi strappa il quaderno da sotto la penna.
“Noah, mi stai ascoltando?” Mi chiede una voce.
Mi giro di scatto, facendo peso sui gomiti ormai affossati fra l’erba.
Trovo Sayid, che mi guarda spettante con il mio quaderno in mano.
Mi alzo per cercare di riprenderlo, ma Sayid lo mette fuori dalla mia portata, continuando a girare pur di non farmici arrivare.
“Sayid, smettila, non è divertente.” Lo rimprovero.
Il ragazzo si ferma e mi guarda negli occhi.
“È da dieci minuti che parlo e tu non mi ascolti.” Si lamenta.
Mi passo una mano sul viso, sospirando sonoramente.
È passata solo una settimana, ma già ho formato un gruppetto con il ragazzo qui presente, la mia persona preferita, Marlene e Audrie.
Fra tutti, Sayid è di sicuro quello che richiede più attenzioni. Potrei definirlo una prima donna, ma io stesso lo sono, quindi non posso giudicare.
“Stavo scrivendo.” Rispondo per discolparmi.
“Questo lo vedo.” Ribatte secco, sventolando il quaderno per farmi notare l’ovvietà.
“Si può sapere cosa scrivi di tanto interessante da non calcolarmi?” Domanda, aprendo il quaderno.
Approfitto del momento di distrazione per strapparglielo dalle mani.
“Mai sentito parlare di ‘farsi gli affari propri’?” Sbotto, girandomi.
Da sopra la spalla, Sayid mi riprende nuovamente il quaderno dalle mani.
Fisso interdetto le mie mani vuote.
“No, mai.” Mi risponde tranquillamente.
Mi volto di scatto, lo colgo ad aprire nuovamente il quaderno.
M’irrigidisco per non urlare, tuttavia il mio volto tradisce le mie intenzioni.
E la mia lingua non collabora.
“Oh mio Dio, sei incredibilmente irritante, fastidioso, esasperante, cocciuto-“
“Ma ho anche dei difetti!” M’interrompe lui, lasciandomi di stucco.
Non so come rispondere a questa sua uscita.
Sbatto velocemente le palpebre, per processare la situazione.
“Cosa… no...” Replico spaesato.
Si porta una mano sul petto.
“Oh, stai dicendo che non ho difetti? Che carino.” Commenta, con un sorrisino.
“...No.” Ripeto, con la stessa intonazione confusa.
Lo ammetto: quella battuta mi ha stordito.
Sayid attira la mia attenzione scuotendo il quaderno.
“Posso?” Chiede lentamente.
Annuisco, ancora frastornato.
Così torniamo a sederci sull’erba, mentre Sayid legge.
Finalmente tornato in me, rimango in silenzio, in imbarazzo e in tensione. Di solito non faccio leggere i miei scritti a nessuno, solo ad Alex, ovviamente.
È strano stare accanto a qualcuno che giudica una tua opera.
“Interessante.” Commenta, facendomi trasalire.
Ero così immerso nel mio disagio che non mi aspettavo parlasse.
“Dovresti pubblicarlo da qualche parte, a parer mio. Non è per niente male.” Continua, chiudendo il quaderno.
Scuoto la testa.
“Non so...” Ribatto, poco convinto.
“Perché no? Insomma, secondo me merita di essere letto.” Replica.
“E chissà, magari se pubblichi altri contenuti su siti adatti, potresti anche attirare l’attenzione di qualcuno.” Prosegue, cercando di convincermi.
Mi scappa una risata sarcastica.
“Certo, come no.” Dico fra me e me.
Sayid mi spinge con la spalla.
“Che ne sai? Questo potrebbe essere il momento che spinge il prossimo grande della letteratura americana a svelarsi al mondo. Potresti diventare famoso!” Riprende lui, tutto convinto.
Scuoto nuovamente la testa, grattandomi la nuca.
“Sai, tutti vogliono essere il prossimo Aristotele, ma il 99,9% non sarà altro che una Lauren Kate.” Ribatto sprezzante, alzando le spalle.
“Chi?” Mi chiede Sayid.
Mi giro verso di lui.
“Appunto.” Rispondo serio.
“La verità è che l’essere umano contemporaneo riceve così tante informazioni, nell’arco della giornata, che non è capace di trattenerle tutte. Dimentica, com’è giusto che sia con quel carico d’input.” Continuo, spiegando la mia teoria.
Mi alzo in piedi, indicando a braccia aperte intorno a me.
“In questo momento, in tutto il mondo sono create migliaia, no... centinaia di migliaia di opere. E solo una misera frazione, che è comunque un numero a sei zeri, troverà la luce. E sai quante se ne ricorderanno, fra dieci anni, in ogni paese?” Domando retorico al mio interlocutore, che scuote la testa senza proferire parola.
Alzo un dito.
“Una. O due, se siamo fortunati. Molto spesso nemmeno quelli.” Concludo, abbassando sconfitto le braccia.
Sayid mi guarda socchiudendo gli occhi, per ripararsi dai raggi del sole.
“Sono numeri attendibili o... a quali studi ti stai rivolgendo?” Mi chiede, agitando una mano e scuotendo la testa.
Lo guardo perplesso, tutto quel movimento mi disorienta.
“Non è questo il... ti stai fermo?” Sbotto, bloccandogli il polso.
“Non è questo il punto del mio discorso. Voglio dire che con l’eccesso di materiale mediatico che invade le nostre vite, è difficile spiccare tra la folla. La fama non vale nulla, quand’è temporanea. Un giorno tutti sanno il tuo nome, quello dopo nemmeno tu sai chi sei. Finisci nella catasta di dimenticati che quelli come noi usano per scaldarsi, bruciando letteralmente il lavoro di una vita. E, molto probabilmente, anche l’autore stesso finirà a mangiare le pagine del proprio libro, fra una pausa e l’altra del suo lavoro part-time sottopagato, mentre i suoi colleghi lo guardano sprezzanti dall’alto delle loro ville, sorrette da mattoni di sabbia. ‘Ti avevamo avvertito’, dicono, ‘non osare, non criticare, non fomentare. La rivoluzione non paga’. Ma cosa c’è di bello nel piegarsi al volere degli altri, a sfamare un mondo degenere con moine e complimenti? Cosa ti rimane dopo che una folata di vento ha spazzato via la tua villa? Puoi dire di aver cambiato, seppur per un secondo, la visione del mondo di qualcuno?”.
Lascio andare il braccio di Sayid e mi butto a sedere al suo fianco.
“Io non voglio soldi, né una gran villa, né la fama. Voglio solo che la gente apra gli occhi e si accorga della realtà che ci circonda. Sono stanco dell’omertà della gente e il finto perbenismo mi nausea. Non riesco più a vivere in una comunità generosa solo davanti alle telecamere.” Concludo, guardando la recinzione in legno.
Sayid è perplesso, continua ad aprire la bocca e a richiuderla, come se non sapesse in che modo formulare la domanda.
“Ma non avevi detto che vogliamo tutti essere il prossimo Aristotele? E, tra l’altro, Aristotele non era un filosofo, scusa? Omero non sarebbe un paragone più azzeccato?” Si decide a chiedermi.
Alzo le spalle.
“Certo che sei puntiglioso, eh? Adesso posso riavere il mio quaderno?” Domando, mettendo una mano avanti per reclamare ciò che è mio.
Sayid va per porgermi il quaderno, ma prima che possa prenderlo, lo tira indietro.
“A una condizione.” Dice, sollevando un dito.
Per tutta risposta, alzo un sopracciglio.
“Farai leggere ciò che hai scritto a qualcuno. Se tieni per te il tuo lavoro, non potrai certo cambiare lo status quo.” Propone come clausola.
Ci penso su un attimo, giusto per creare un minimo di suspense.
“Potresti non avere tutti i torti...” Ammetto alla fine.
Finalmente, mi restituisce il quaderno.
Appena chiudo le dita intorno alla copertina, mi alzo in piedi.
“Comunque, tu sei qualcuno. E fino a prova contraria, hai letto ciò che ho scritto. Quindi, tecnicamente, ho già adempiuto le condizioni.” Affermo, riparando il quaderno dietro la schiena.
Sayid sgrana gli occhi.
“Aspetta, non era quello che intendevo!” Ribatte, alzandosi di scatto.
Scrollo le spalle.
“Fatti tuoi, la prossima volta articola bene!” Lo prendo in giro, sfoderando un ghigno.
“Ma vista la mia immensa magnanimità...”
“E modestia...” Commenta sottovoce, interrompendomi.
Gli lancio un’occhiataccia.
“... accetterò il tuo consiglio.” Concludo.
A Sayid scappa un verso di scherno.
“Anche perché andrebbe a tuo discapito. Sarebbe abbastanza infantile sabotare una possibile carriera giusto per non dare soddisfazioni a qualcuno.” Considera.
Faccio ondeggiare la testa a destra e a sinistra, come a soppesare il suo commento.
“Eh, ma io sono abbastanza infantile.” Ammetto scherzoso.
Il ragazzo scuote la testa, ridacchiando sotto i baffi.
Nel silenzio che si è venuto a creare una volta calmati, sentiamo delle urla provenire da davanti casa.
Sono urla arrabbiate, che sanno di sangue.
Avendo riconosciuto una delle voci, io e Sayid ci guardiamo preoccupati.
Senza pensarci due volte, ci mettiamo a correre per raggiungere la provenienza dei suoni.
Sul marciapiede, tenuta per le braccia da Corbin e Marlene, Audrie urla insulti in faccia a un’altra ragazza che non conosco, ma che sono sicuro di aver visto nel vicinato. Questa è accompagnata da un gruppetto di suoi coetanei, che la incitano ad andarsene. Ma lei non sente ragioni, rispondendo a tono alle ingiurie.
Prendendo Audrie per le braccia, io, Sayid e Corbin riusciamo a trascinarla in casa, ma questo non le impedisce di urlare le ultime offese.
“Non finisce qui!” Minaccia la ragazza, poco prima che Marlene chiuda la porta d’ingresso.
Dalle scale e dalle altre stanze si affaccia il resto dei ragazzi, attratti dalle urla. Dal suo studio arriva pure Emma.
“Si può sapere cosa sta succedendo?” Chiede con un tono che non le ho mai sentito prima.
Corbin porta Audrie in salotto, tenendola per un braccio.
La ragazza, con uno strattone, si libera dalla presa.
“So camminare da sola.” Protesta secca, sedendosi sul divano con braccia incrociate e gambe accavallate.
“Audrie, mi aspetto una spiegazione.” Ribatte l’uomo, ponendosi in piedi davanti a lei.
La ragazza si mette a sedere di scatto in punta di divano.
“Quella tr-“
“Linguaggio.” La interrompe gelida Emma, fulminandola con lo sguardo.
Audrie, con la bocca ancora aperta dopo l’interruzione, ricambia lo sguardo.
“Quella... bella persona della nostra vicina ha dato a me e a Marlene delle lesbiche.” Spiega freddamente.
Il silenzio cala nella stanza.
Sayid, dalla porta, indica le due ragazze in questione.
“Audrie... voi siete lesbiche. Vi state letteralmente frequentando, l’altro giorno vi ho pure interrotte mentre... lasciamo perdere.” Si blocca, notando l’espressione dei due adulti.
“Genio, hai scoperto l’acqua calda. Non è cos’ha detto, ma come l’ha detto. L’avresti dovuta sentire quella... persona. L’ha detto con lo stesso disgusto di chi trova un ratto morto in cantina.” Replica Audrie, non curandosi di nascondere il disprezzo.
Emma si passa una mano sul volto.
“Audrie, quello che ha fatto non è giusto, ma di sicuro non è nemmeno un buon motivo per insultare il vicinato.” Afferma stanca.
“Se ne meriterebbe anche di peggio, quella.” Sbotta la ragazza, indicando con la mano fuori dalla finestra.
Emma sospira sonoramente.
“Audrie, forse non stai capendo la gravità della situazione. Sei fortunata che c’era Corbin a fermarti. Se foste passate alle mani, avrebbero potuto sporgere denuncia.” Ribatte la donna, allarmata.
A quest’affermazione, Audrie non risponde. Si calma e torna a poggiare la schiena sul divano, con le spalle incurvate.
Finalmente la gravità della situazione l’ha colpita.
“Se ti fossi fatta male... accidenti a me e alle cuffie. Se ti avessi sentita prima, sarei intervenuta.” Borbotta Emma, massaggiandosi la fronte.
“Mi dispiace, Emma, però non potevo stare in silenzio! Non è la prima volta che fanno commenti del genere... o peggio...” Cerca di discolparsi Audrie.
Emma la guarda sbigottita.
“Perché non mi hai detto nulla?” Le chiede. Avverto una sfumatura di dolore nelle sue parole.
Audrie alza le spalle.
“Non è la tua battaglia, Emma. Hai già abbastanza a cui pensare, non ti servono altri problemi.”
Emma scuote la testa.
“Questi sono miei problemi, Audrie. Se i vicini aggrediscono verbalmente, dobbiamo fare qualcosa. E no, non intendo picchiarli. Questa storia deve finire. Appena tornano Josh, Patrick e Anne, noi adulti decideremo il da farsi. Per ora tornate a fare quello che stavate facendo, lo spettacolo è finito.” Dice a gran voce, rivolgendosi a tutti i presenti.
Quando Audrie si alza, Emma la indica.
“Non pensare di cavartela così facilmente. Ci saranno punizioni, signorina. Ne parlerò con gli altri, intanto vai in camera e non uscirne.” Aggiunge, per poi tornare nel suo studio.
A testa bassa, la ragazza ubbidisce. Non alza gli occhi nemmeno quando passa accanto a me e a Sayid.
“Non ho mai visto Emma così arrabbiata.” Afferma una voce direttamente nel mio orecchio, facendomi trasalire e gridare per lo spavento.
Mi giro verso il suono e vedo la faccia di Alex a un pollice dal mio naso.
“Alex, spazio vitale.” Dico, ritraendomi di scatto.
Sarà pure la mia persona preferita, ma non ho bisogno di qualcuno che mi fiati sul collo.
“Ma che spazio vitale? Non esiste alcuno spazio personale fra noi due, è già tanto se non condividiamo il letto.” Si lamenta, alzando gli occhi al cielo.
Scuoto la testa, lasciando cadere la questione.
Senza dire nulla, mi dirigo al piano superiore, seguito da Alex e Sayid. La porta di Audrie è chiusa, da dentro non proviene nessun rumore. Alzo la mano per bussare, ma l’indecisione mi ferma a mezz’aria. Notando il mio tentennamento, il ragazzo libanese prende in mano la situazione.
Con la nocca dell’indice, bussa alla porta due volte, accostandovi l’orecchio.
“Audrie? Siamo Alex, Noah e io. Possiamo entrare?” Domanda al legno freddo davanti a lui.
Per qualche momento non riceviamo alcuna risposta.
Ci guardiamo preoccupati, incerti se lasciar stare o riprovare.
Quando stiamo per andarcene, la porta si apre.
Marlene, con la testa, ci fa segno di entrare. Quindi lascia la porta aperta e si va a sedere di fianco alla sua... ragazza? Non so se la posso definire così, ancora non è nulla di serio, a quanto pare si stanno solo frequentando.
Lascio entrare i miei compagni, chiudendo la porta dietro di me.
Nella stanza, solitamente caotica, regna un silenzio pesante. Il sole pomeridiano entra dalle tende azzurre, di un tessuto così leggero da sembrare trasparente, e illumina la nuca di Audrie, seduta sul letto con la schiena curva. Il capo chino le lascia cadere i capelli davanti al viso, accentuando l’ombra già esistente nella sua espressione.
“State bene, ragazze?” Chiede Alex, andandosi a sedere ai piedi del letto accanto alla gamba di Audrie, lasciata penzoloni fuori dal materasso.
Io e Sayid ci sediamo sul letto di quest’ultimo, giusto sotto quello di Heather. Poggio la testa alla scaletta del letto a castello, mentre guardo Marlene annuire alla domanda di Alex.
Audrie non risponde, sta in silenzio a giocherellare con un pezzo di filo strappato, presumibilmente, da uno dei buchi dei suoi jeans.
Strappa un filo con violenza, se lo arrotola fra le dita e tira fino a spezzarlo.
E di nuovo strappa un altro filo con altrettanta brutalità, finché la stanza non è invasa dalle urla di dolore del tessuto.
“Audrie...” La chiama Marlene, fermandole delicatamente le mani. La ragazza guarda le loro mani congiunte, impassibile in volto.
“Perché combino sempre casini? Perché faccio sempre la cosa sbagliata?” Sussurra, senza alzare lo sguardo.
Alex le poggia la testa sulla gamba.
“Tutti facciamo delle scelte sbagliate, Audrie. Non ti fustigare per una situazione del genere. “ Ribatte, cercando di dare alla sua voce un tono consolante.
La ragazza ride amaramente, scuotendo la testa.
“Ma voi riuscite a fermarvi quando capite che, forse, quello che state facendo non è poi così intelligente. Io no, continuo finché qualcuno non me lo fa notare... a volte anche se me lo fanno notare, semplicemente perché non ho un freno.” Prosegue, raccogliendo i pezzi di filo e gettandoli a terra.
Li osservo cadere lentamente sul pavimento, incuranti della furia con cui sono stati lanciati.
“Sono troppo impulsiva.” Sentenzia, stringendosi afflitta nelle spalle.
Marlene le accarezza il braccio per confortarla, ma Audrie la guarda male.
“Questo sarebbe il momento in cui mi dici ‘no, ma cosa pensi? Sei perfetta, non hai alcun difetto’.” Le suggerisce, con uno sguardo non proprio piacevole.
Marlene ricambia con un sorriso rammaricato.
“Oh, Audrie... meno male che sei bella.” La prende in giro, guadagnandosi uno spintone.
La ragazza le fa il verso.
“Ecco cosa mi merito per difendere l’onore di una donzella!” Afferma, portandosi tragicamente una mano alla fronte.
Riesco a sentire il collettivo alzarsi degli occhi presenti nella stanza, nella casa, nel resto del quartiere, vicini odiosi compresi.
“E chi ti ha detto che avevo bisogno di aiuto?” Domanda Marlene, gonfiando il petto.
Vedo che si è ripresa presto, Audrie. A meno che la comicità non sia il suo modo di affrontare le situazioni negative.
“Ma veramente... non dovresti reagire in quel modo, con i vicini. Già non sono felicissimi di averci qui.” Continua Marlene.
Sayid scoppia a ridere.
“Questo, mia cara, è un eufemismo.” Afferma amaro.
“Quando hanno aperto il rifugio nel loro bel quartiere di mormoni buoni e rispettabili, non erano molto felici. Quando hanno scoperto che non solo avrebbe ospitato ragazzini senzatetto, ma che sarebbe anche stato riservato alla comunità LGBT... diciamo che hanno passato qualche ora in più a pregare. Dopo la storia di Leo, ancora mi chiedo come non ci siamo ritrovati persino Joseph Smith alla porta, con tanto di forcone in mano.” Continua, con naturalezza.
“Chi è Leo?” Chiedo perplesso, guardando prima il ragazzo, poi il resto dei compresenti.
Alex si batte una mano sulla fronte.
“Vero, tu ancora non c’eri per il caso Leo. In pratica questo ragazzo, Leo, è stato in questo rifugio per un po’, il mese scorso. A quanto pare, in quel poco tempo che ha passato qui, si è dato da fare spacciando. Niente di grosso, solo marijuana, ma uno dei suoi clienti era un ragazzo del vicinato. Sta di fatto che un giorno, per una soffiata anonima, si è presentata la polizia al rifugio e l’hanno arrestato. Non passano nemmeno due giorni che i genitori di quel ragazzo hanno scoperto il figlio a fumare. Hanno fatto due più due e si sono venuti a lamentare con Josh ed Emma. Da quel momento, tutto il quartiere se l’è legata al dito e i Winterfield hanno perso il rispetto del vicinato. In poche parole, l’errore di un ragazzo ha reso la situazione difficile per tutti.” Spiega la mia persona preferita, cercando di riassumere il più possibile la situazione.
Audrie impallidisce.
“Oh mio Dio, sono il prossimo Leo.” Sussurra presa dal panico.
Marlene le dà un colpetto in testa e la abbraccia.
“Ma che dici, cretina? Non sei il prossimo Leo.” Afferma per consolarla.
Sayid si gira verso di me e mi mima con la bocca: “Sì, è il prossimo Leo.”
Alex non presta attenzione a ciò che sta succedendo, ma si perde nei suoi pensieri.
“È stato mandato nel tuo stesso riformatorio, se non sbaglio.” M’informa.
“Salt Lake Valley Juvenile Detention Center?” Domando sorpreso, cercando di ricordare se abbia mai incontrato un Leo, durante la mia permanenza.
Alex annuisce e prende il cellulare per farmi vedere una foto del ragazzo.
“Ti dice nulla?” Chiede. Scuoto la testa.
Nada. Sarà stato in un’altra unità, non l’ho mai visto.” Ribatto, sicuro di non conoscerlo.
“Il riformatorio è... enorme. A stento conoscevo i ragazzi della mia unità, figuriamoci quelli delle altre.” Aggiungo, rispondendo alla domanda silenziosa di Sayid.
“E là finirò io... per aggressione, ne sono sicura.” Continua Audrie, scendendo sempre di più nella spirale di negatività che i suoi pensieri le impongono.
La nostra discussione è interrotta dal rumore secco di nocche sul legno. Dopo essere stati invitati a entrare, i coniugi Winterfield aprono la porta.
Che velocità.
“Scusateci ragazzi, ma dovremmo parlare in privato con Audrie. Potete lasciarci soli, per favore?” Chiede cortesemente l’uomo.
In un coro di assensi, ci alziamo e usciamo dalla camera. Marlene, prima di chiudere la porta, rivolge un ultimo sguardo alla ragazza, augurandole silenziosamente buona fortuna.
“Io sto scendendo, oggi sono di turno in cucina.” Ci informa Sayid, stiracchiandosi. Ci saluta con la mano e si avvia al piano di sotto, senza aspettare una nostra risposta.
Lo seguo con lo sguardo.
“Penso che andrò a studiare, ci vediamo dopo ragazzi.” Ci avvisa Marlene, indicando la sua stanza con il pollice.
“Sicura? Non vuoi compagnia?” Chiede Alex.
“No, tranquilli. Ci vediamo a cena.” Ci saluta, prima di andare nella sua stanza.
Alex si gira verso di me, con sguardo preoccupato. Io mi stringo nelle spalle e faccio segno di andare in camera.
Chiusa la porta, la mia persona preferita si butta sul suo letto.
“Mentre Sayid scendeva le scale gli hai guardato il culo, vero?” Mi chiede di punto in bianco.
“Già.” Ammetto, sfregandomi il naso.
“Prevedibile.” Commenta.
Si alza sul letto, poggiandosi su un gomito.
“E quindi, qual è la storia fra voi due?” Mi domanda.
Alzo le spalle.
“In che senso?” Ribatto, fingendo di non capire.
“Lo sai in che senso. Vi state frequentando o roba del genere? Ultimamente avete passato un bel po’ di tempo insieme.” Aggiunge, guardando altrove.
La sua reazione mi fa nascere un ghigno a mezza bocca.
“La gelosia è una brutta bestia, Alex.”
Alex sbuffa.
“Non è gelosia ma curiosità. Lo sai che un qualsiasi candidato deve, prima di tutto, passare la mia valutazione.” Spiega, come se fosse ovvio.
Ridacchio.
“Va bene, vedrò di invitarlo a cena per fartelo conoscere meglio, mamma.” Scherzo, meritandomi un cuscino in faccia.
“Lo faccio per il tuo bene, hai dei gusti terribili in fatto di uomini, ti circondi di persone non proprio ideali.”
Guardo Alex negli occhi.
“Ti ricordo che ho scelto te.” Rispondo in tono serio.
Alex si passa una mano fra i capelli.
“Sono l’eccezione che conferma la regola.” Riconosce con sicurezza.
Scuoto la testa.
“La tua modestia è incredibile, per questo sei la mia persona preferita.” Replico sarcastico.
“Lo so.” Ammette, scrollando una spalla e facendomi alzare per l’ennesima volta gli occhi al cielo.
Lasciando cadere la questione, compongo il numero del riformatorio sul mio nuovissimo cellulare... del 2011, che a stento non ha i tasti.
Sono comunque grato ai Winterfield per avermi comprato un apparecchio che funzioni. E, fortunatamente, ho pure un’ottima promozione, altrimenti non potrei permettermi nemmeno di fare uno squillo a Steve e riattaccare.
Seguo i soliti passaggi e riesco a mettermi in contatto con il mio ex-coinquilino.
Hola, Noahcito. ¿Qué pasa?“ Mi domanda con un finto accento messicano.
“Da quando parli spagnolo?” Gli chiedo.
“Da quando il mio compagno di stanza è lo stereotipo vivente del messicano-statunitense di seconda generazione, chico. Davvero: si chiama Juan e si allena ventiquattr’ore su ventiquattro. È irritante, i suoi addominali mi bullizzano, mi chiamano ciccione.” Mi spiega sarcastico, facendomi ridere.
Alex mi si avvicina e mi fa segnale di mettere in vivavoce.
Obbedisco.
“Noah ha il ragazzo.” Urla al telefono.
Mi allontano di scatto, guardando sorpreso Alex, che ricambia con un ghigno.
“Davvero? E chi è? Sayid?” Urla di rimando Steve.
Guardo altrettanto sorpreso il telefono.
“Non è il mio ragazzo!” Mi difendo, forse a voce un po’ troppo alta.
“Poco fa, mentre Sayid scendeva le scale...”
“Fammi indovinare,” interrompe Steve, “gli ha guardato il culo?”
“Già.” Risponde Alex.
“Prevedibile.” Mi prende in giro il ragazzo dall’altra parte della cornetta.
“No, va bene così, io sono fuori.” Affermo esasperato.
Lascio cadere il telefono sul letto e mi alzo, con le mani sollevate.
Continuano per qualche minuto a prendermi in giro.
“Dai, non te la prendere, stiamo scherzando! Comunque, la prossima settimana lo voglio conoscere.” Queste ultime parole attirano la mia attenzione.
In due falcate, torno a buttarmi sul letto e prendo in mano il cellulare.
“La prossima settimana?” Chiedo perplesso.
“Sì, devi avere la mia approva... ti sei dimenticato che esco martedì prossimo, vero?” Mi domanda atono.
Apro il calendario sul cellulare. Nel giorno che segna martedì 24 ottobre, una scritta in rosso mi avvisa del rilascio di Steve.
“... non vale, però. Non so nemmeno che giorno è oggi!” Cerco di discolparmi.
Steve sospira sonoramente.
“Sempre fuori dal mondo, tu. Comunque, penso che il giorno dopo verrò a trovarvi, scrivitelo da qualche parte... anzi, lascia perdere. Alex, segnatelo tu.” Istruisce il ragazzo, ricevendo un assenso dalla persona accanto a me.
“Potrei sentirmi offeso.” Affermo, portandomi una mano sul petto.
“Solo la realtà, Noah. Comunque devo andare, mi hai interrotto nel bel mezzo di una partita di basket, siamo sotto di un bel po’... e per quanto adori parlare con voi due, tengo anche alla mia incolumità. Se voglio arrivare integro a martedì prossimo, non posso permettermi di essere la causa di una rissa. Ci sentiamo presto.” Ci saluta sbrigativo.
Ricambiamo il saluto e chiudo la chiamata, buttando il cellulare sul comodino.
Di comune accordo, io e Alex decidiamo di dedicarci ad altro, per ammazzare il tempo rimasto fino alla cena.
 

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Capitolo 6
*** Maghawir ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve e ben ritrovati! Il brano di oggi è Maghawir dei Mashrou' Leila, una band indie rock di Beirut, Libano. Il sound di questa band incorpora influenze elttroniche e britpop a un violino niente male, affrontando tematiche politiche e sociali, comprese le problematiche LGBTQ+ presenti in Libano, tema molto a cuore del cantante Hamed Sinno, apertamente gay. A causa di queste tematiche e della figura di Sinno, il gruppo è stato bandito da alcuni paesi arabi e combatte contro la censura, non avendo alcuna visibilità nelle radio nazionali, ma godendo un gran seguito oltreoceano, nonostante le canzoni in lingua araba. Il brano in questione affronta il tema delle sparatorie nei nightclub e della toxic masculinity, il concetto di virilità nociva, sconosciuto in Italia.
Vi auguro un buon proseguimento di lettura e al prossimo capitolo.

 
Capitolo 6


“Noah, vieni a vedere!” Mi chiama Alex dalla finestra.
Poso il libro che stavo leggendo e mi alzo svogliatamente dal letto.
La mia persona preferita mi fa segno con la mano di sbrigarmi.
Indica in basso, verso l’ingresso.
Mi sporgo per guardare.
Sul vialetto, con passo a dir poco irritato, si avvicina una coppia sulla cinquantina.
L’uomo alza il pugno e bussa energicamente, per poi incrociare le braccia e piazzarsi a gambe aperte, ben piantate sul pianerottolo.
Posa autoritaria, non promette nulla di buono.
Raggiungo la levetta e sblocco la finestra, alzandola con l’aiuto di Alex. Mi sporgo fuori per vedere meglio, ma non tanto da essere visto.
La porta d’ingresso si apre.
“I coniugi Paget. A che devo questo piacere?” Chiede la voce di Winterfield.
Non lo riesco a vedere, ma ho il sentore che stia imitando la posizione dell’uomo sotto i miei occhi. Paget, l’ha chiamato.
“Penso tu sappia benissimo perché siamo qui.” Risponde gelido l’uomo.
“Ti avevamo avvertito: un altro passo falso e avremmo preso provvedimenti. A quanto pare non sei capace di gestire i tuoi randagi, Winterfield. Prenderemo la situazione in mano e la risolveremo una volta per tutte.” Sbraita Paget, pungolando Josh sul petto, a giudicare dal movimento del braccio.
“T’invito a rispettare i miei ospiti, Clayton. Non osare chiamarli più in quel modo. Sono ragazzi, per amor del cielo, non animali.” Replica tagliente il proprietario del rifugio, facendo arretrare l’uomo.
Nondimeno, questo torna alla carica.
“Questo si sono dimostrati, Winterfield: animali, persino rabbici. Quella selvaggia che ha aggredito nostra figlia avrebbe potuto picchiarla. Non c’è posto per le tue bestie, in questo quartiere. Se ne devono andare, Winterfield, o li manderemo via noi. Dobbiamo proteggere i nostri figli… questo rifugio deve chiudere!” Riprende Paget, urlando a gran voce.
“Che sta succedendo?” Chiede Sayid dalla porta della camera, facendoci sussultare.
Sbatto la testa sul telaio della finestra cercando di rientrare il più in fretta possibile.
Mi porto un dito alle labbra per segnalargli di far silenzio e, con la testa, indico fuori.
Sayid si avvicina e guarda fuori dalla finestra aperta, dalla quale entrano le urla irate dei due adulti.
Il ragazzo accanto a me fischia.
“Non è il padre di quella ragazza che ha insultato Marlene e Audrie?” Mi domanda, voltandosi verso di me.
Faccio spallucce.
“Questa è la volta buona che Winterfield gli tira un pugno.” Commenta Alex.
“Guardatelo, sta fremendo dalla voglia di mettergli le mani addosso.” Continua, scuotendo la testa.
L’azione si sposta nel mezzo del vialetto, Winterfield sta cercando di scacciare i coniugi dalla sua proprietà.
“Quindi non è la prima volta che succede, vero? Pensavo fossi io a portar sfortuna.” Replico sarcastico.
“No, non è la prima volta, ma di sicuro è la più seria.” M’informa Alex, allontanandosi dalla finestra.
Si gratta i capelli, cercando di concentrarsi.
“Non la vedo bene, stavolta, non la vedo proprio bene.”  Aggiunge, portando alla bocca il pollice e rosicchiando nervosamente l’unghia.
“Alex, calmati. Vedrai che si risolverà tutto.” Affermo consolante, avvicinandomi alla mia persona preferita.
Alex si sfrega la fronte.
“Non credo, Noah. Hai sentito Paget, vogliono far chiudere il rifugio! E se ci riescono?” Domanda ansiosamente, alzando la voce.
Scuoto la testa.
“Sono solo due persone, il municipio nemmeno prenderà in considerazione la proposta.” Replico convinto.
Sayid sospira profondamente.
“Noah… non sono solo due persone, ma quasi tutto il quartiere. È da quando il centro ha aperto che cercano di farlo chiudere. Questa volta devo dare ragione ad Alex: la situazione non si prospetta delle migliori.” Ribadisce il ragazzo, cupo in viso.
Ridacchio nervoso.
“Dai, vedrete che si sistemerà tutto. Fra qualche giorno avranno anche dimenticato l’accaduto… state solo gonfiando la cosa.” Affermo ostentando sicurezza.
Sayid stringe le labbra, incrociando le braccia.
“Spero tu abbia ragione, Noah.” Mi dice serio.
Mi dà un colpetto sulla spalla, mentre mi passa accanto.
“Lo spero anch’io…” Sussurro a denti stretti.
La verità è che non so cosa succederà. In cuor mio spero che la situazione si sistemi, ma so perfettamente che non sarà così facile. Da come Winterfield ha perso le staffe, la vedo proprio brutta.
Prenderanno seriamente vie legali?
E se chiudono il rifugio… dove finiranno tutti? Sì, insomma, Alex e io non avremo problemi, alla fine siamo in affidamento, però gli altri non hanno una casa in cui stare o dove tornare, altrimenti non sarebbero qui.
È vero: alla società non interessano i senzatetto, siamo gli invisibili. Quante volte una persona passa accanto a un barbone senza degnarlo di uno sguardo, fingendo volontariamente di non vederlo per non ricordarsi della miseria in cui versa il 17% della popolazione dello Utah?
È molto più facile e veloce ignorare il problema, quando la soluzione non è immediata, non importa se nel frattempo la gente muore per strada di stenti o uccisa in qualche rissa per l’ultimo pezzo di pane trovato nella spazzatura. Alla fin fine, siamo animali, che cambia se stiamo in un canile o per strada?
A volte sento di valere meno di un animale.
Quando vedo quanta pena si dia la gente per adottare un gattino senza famiglia, mentre io, un essere umano come gli altri, vengo buttato fuori da un negozio e mandato via a calci dalla mia postazione davanti la vetrina di un bar, dove sto cercando di racimolare uno o due dollari per comprarmi da mangiare… allora mi sento meno importante del marciapiede su cui il proprietario del bar sputa per disgusto.
Non mi degna nemmeno di quel gesto di disprezzo, lo rivolge al pavimento, come se non esistessi.
Ma davanti le fotocamere dei telefonini, tutti improvvisamente diventano Madre Teresa di Calcutta scesa in terra ad aiutare i bisognosi, con le loro banconote finte tese verso la mano del mendicante più fotogenico. Tuttavia, quando la telecamera smette di girare, il povero torna a essere parte del paesaggio urbano, la Madre Teresa di turno si rivela essere l’ex-collega che è riuscito a mantenere il posto di lavoro.
Così gira il mondo, così continuerà a girare. L’essere umano si è desensibilizzato alla sofferenza, la povertà è diventata normale e nemmeno vende in televisione, quando si trova nel proprio paese, perché alle emittenti non interessa mostrare il lato misero della città, non giova al turismo. La violenza sì, quella fa gola, sazia il desiderio morboso della gente.
Un senzatetto diventa interessante solo accanto a una celebrità o da morto.
Molte volte, nemmeno in quest’ultimo caso.
E le celebrità sono più impegnate nei paesi esteri a sud dell’equatore, fanno più esotico.
Scuoto la testa, lasciando cadere il mio papabile discorso da attivista.
“Dai, Alex, scendiamo a vedere se hanno bisogno d’aiuto.” Propongo alla mia persona preferita, massaggiandomi il collo nel punto che mi si contrae quando mi agito.
 
“Ne conto due.” Afferma Marlene, allungando la testa per vedere meglio.
Sayid le da un colpetto con il gomito, indicando la curva della strada.
“Tre, se ne sta aggiungendo un altro.” Ci informa con tono neutro.
“Secondo voi quanti se ne presenteranno oggi?” Chiede annoiata Heather, tamburellando le dita sulle ginocchia a ritmo di una canzone che può sentire solo lei.
“Tre giorni fa erano solo i Paget e se ne sono aggiunti quattro al giorno…” Inizia Audrie, facendo un calcolo veloce sulla punta delle dita.
“Se la crescita è costante, direi quattordici.” Conclude, soddisfatta del proprio lavoro.
“Quante famiglie ci sono nel vicinato?” Chiede Alex, aggrottando le sopracciglia.
Alzo le spalle.
“Una cinquantina? Non so. Per vicinato conti solo la nostra strada o tutto il quartiere?” Domando a mia volta.
Alex mi risponde alzando le spalle.
A quanto pare, la situazione non si è risolta da sola, le persone non hanno dimenticato la discussione dopo un paio di giorni.
I Paget sono riusciti a coinvolgere nella loro causa i vicini di casa. Già il giorno dopo, più famiglie hanno deciso di seguire il loro esempio.
Così, adesso, ci ritroviamo un bel gruppetto di persone riunite nel giardino di casa Paget per un “barbecue diversamente amichevole”, come l’ha definito ieri Marlene, con tanto di cartelli, slogan e sit-in silenziosi.
Essendo l’unica che si affaccia sul fronte, la nostra camera è diventata, di conseguenza, la postazione preferita dai nostri amici per spiare e commentare la protesta.
Alex e io abbiamo una mezza idea di aprire una sorta di club, munito di rinfresco, tavolini e binocoli. Ingresso gratuito, ma sono apprezzate le donazioni in cibo o monetarie.
“Oggi saranno più di quattordici, me lo sento.” Afferma Sayid, aggiungendo una barretta di cioccolato al montepremi sulla scrivania.
“Mi serve un numero preciso, tesoro. Non puoi piazzare una puntata così vaga.” Ribatto, andando a prendere il foglio delle scommesse.
“Segnami sedici, allora.” Specifica, battendo un dito sul foglio.
A uno a uno, segno tutte le puntate.
“Perfetto, ricordo a tutti che potete cambiare la scommessa fino alle otto di sera, il montepremi verrà assegnato dopo un’ora dalla chiusura delle scommesse. La tassa di commissione ammonta a…” Muovo gli snack con la gomma della matita, per vedere meglio cosa mi ritrovi sulla scrivania.
“Un pacchetto di Skittles e uno di peanut butter cups di questa sottomarca improponibile. Va bene a tutti?” Domando, aspettando l’approvazione delle persone in gioco.
Mi risponde un coro di “sì” e “va bene”.
“Ragazzi, domanda seria: ma perché Josh non chiama la polizia per mandarli via?” Chiede Marlene, tornando a guardare fuori.
“Non può chiamare la polizia. Tecnicamente, non stanno violando nessuna legge: sono sulla proprietà dei Paget sotto loro invito e seguendo le loro regole… anche se la protesta si spostasse in strada, sarebbero protetti dalla legge. Stanno esercitando il loro diritto di protestare in modo pacifico, senza ricorrere alla violenza, la polizia non può intervenire.” Spiega Heather, guardando il cellulare.
Audrie ridacchia.
“Ragazza mia, più ti conosco, più penso dovresti studiare legge. Come sai queste cose?” Le chiede, sedendosi accanto a lei sul letto.
Heather indica il cellulare.
Aclu.org. Chiunque disponga di un accesso a internet può cercare queste cose.” Risponde, scrollando le spalle.
“Però non tutti hanno l’istinto di cercarle.” Ribatte Marlene.
Heather alza le spalle.
Touché.” Ammette con nonchalance.
“Non ci credo… ragazzi, venite a vedere!” Ci chiama improvvisamente Sayid, facendo segno con la mano di avvicinarsi alla finestra.
Quando ci siamo radunati tutti intorno a lui, il ragazzo indica il giardino dei dirimpettai, dove alcuni nuovi arrivati si stanno piazzando. Alcuni di loro hanno in mano dei cartelli multicolori - tutti delle stesse gradazioni di arancione, giallo e verde – con delle scritte in nero.
“Qualcuno riesce a leggerli?” Chiede Audrie, strizzando gli occhi per mettere a fuoco.
Heather la scosta per avere una visuale migliore.
“E tu che ci provi a fare, con quei fondi di bottiglia?” Le domanda Audrie, indicando gli occhiali che indossa la ragazzina.
“Non so se hai presente come funzionino gli occhiali, ma è proprio grazie a questi fondi di bottiglia che ci vedo bene… “ Ribatte lei, stizzita.
Scuotendo la testa, torna a guardare fuori dalla finestra.
“‘Andrete all’inferno’;  ‘Pentitevi o morite’; ‘L’America è spacciata’; ‘Dio odia’… no, questa non la leggo tutta.” Commenta, raddrizzandosi.
“Chiesa battista di Westboro…” Deduco amaro.
Heather conferma.
Alex si allontana di scatto dalla finestra.
“Si può sapere che ci fanno qui… una volta non erano contrari alla Chiesa mormone? E perché i Winterfield non fanno niente?” Domando arrabbiato, gesticolando verso i nostri vicini.
“Fanno parte della Chiesa battista di Westboro, per loro va bene qualsiasi protesta contro la comunità LGBTQ.” Spiega Sayid, con tono ovvio.
Pensa un secondo a cos’ha appena detto e ridacchia. Aggrotto le sopracciglia.
“Ormai riesco a dirla velocemente, la sigla. Viene quasi naturale.” Specifica, alzando le spalle.
Alzo gli occhi al cielo.
Si diverte con poco il ragazzo.
Alex, con in mano il cellulare, torna alla finestra e la apre. Vedo che armeggia con il dispositivo, spostandosi per avere una visuale migliore.
“Che stai facendo?” Domando perplesso.
“Un video da mettere su Twitter.” Spiega, fermandosi dopo aver trovato la posizione adatta, così da riprendere sia me che la folla di manifestanti nel giardino opposto.
“Ok. Noah, tu mi farai da reporter, va bene?” M’informa attraverso una domanda retorica.
“Toglimi quell’affare dalla faccia.” Ribatto, spostando malamente il cellulare, che quasi cade.
Alex assume un’espressione infastidita.
“Dai, Noah! Il mondo deve sapere cosa sta succedendo, ne ha bisogno. E tu hai una voce espressiva, la gente ti ascolta quando parli.” Cerca di convincermi.
Le sue parole mi fanno tentennare.
Sayid, notando la mia esitazione, mi mette un braccio intorno al collo.
“Su, Noah, fallo per tutti noi, sii la voce del popolo. Qualche tempo fa mi hai detto che volevi aiutare la gente ad aprire gli occhi, ricordi? Beh, questa è la tua opportunità!” M’incoraggia, guardandomi negli occhi.
Lo ammetto, la vicinanza mi intimidisce.
“Non è che avessi proprio detto così… però…” Cerco di difendermi.
A un cenno di Alex, Sayid si allontana.
“Troppo tardi, il video partirà fra tre… due…” Afferma, mandandomi in agitazione.
Velocemente mi aggiusto i capelli e mi schiarisco la gola.
Alex mi segnala ‘azione’.
Faccio un respiro profondo.
“Salt Lake City, Milton Ave, rifugio Aaron Peterson per la gioventù LGBTQ. Quella che state per vedere è la reazione del vicinato all’esistenza di questa casa.” Improvviso, indicando il giardino dei Paget.
Alex sposta l’attenzione sulla folla.
“Sono ormai tre giorni che i nostri vicini protestano per far chiudere il rifugio, la nostra unica casa. La maggior parte di loro sono membri della ‘Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni', ma oggi a loro si sono uniti dei rappresentanti della Chiesa battista di Westboro.” Continuo, mentre Alex fa uno zoom sui cartelloni, riprendendo tutte le urla degli ultimi arrivati.
“Ci chiamano froci e ci dicono che andremo all’inferno per la nostra natura. Non ci accettano perché siamo diversi, ci vogliono mandare via perché siamo contro la loro ideologia, perché il lavaggio mentale cui sono stati sottoposti li ha portati a odiare il prossimo.” M’interrompo un momento per cercare le parole.
Guardo la folla, mi concentro sui loro volti arrabbiati.
Come fa una persona a convivere con tutto quell’odio?
Nemmeno io ne provo tanto, nonostante abbia tutte le ragioni per essere più arrabbiato di loro.
Alex riporta la telecamera su di me.
“La bibbia, il loro libro sacro, non suggerisce il contrario? È vero, dice pure che l’omosessualità è peccato, ma così anche la blasfemia, l’imprecazione, l’odio, la rabbia, la spietatezza, l’adulterio, le volgarità, le menzogne, l’ipocrisia, la disonestà, la gelosia, l’invidia, il materialismo, il desiderio di soldi o potere. Insomma… anche l’ingordigia è peccato, ma di sicuro non vediamo una folla inferocita fuori da King Buffet!” Proseguo, alzando la voce per l’irritazione.
Chiudo gli occhi per calmarmi. Altro respiro profondo.
Quando li riapro, guardo dritto nella telecamera.
“Siamo già stati rifiutati dalle nostre famiglie e dal sistema, non privateci anche della sicurezza di un tetto sopra la testa.” Concludo supplicante.
Alex ferma il video e abbassa lentamente la telecamera.
Sento il peso di tutti gli occhi nella camera.
Tossicchio e abbasso lo sguardo per l’imbarazzo.
“Va bene così o ne facciamo un’altra?” Chiedo, rialzando gli occhi e facendoli vagare nella stanza.
Alex scuote la testa, armeggiando con il cellulare.
“No, buono così. Lo carico su Twitter e vediamo come va.” M’informa, senza guardarmi.
Leggo un’ultima volta i cartelli di fronte.
‘Dio odia i froci’.
Ho un’idea.
Mi allontano dalla finestra e, senza avvertire nessuno, scendo un secondo al piano inferiore. Tornato su, porto con me un cartellone. Scrivo velocemente con un pennarello nero, prendo dello scotch resistente e torno alla finestra.
“Sayid, dammi una mano ad appendere questo.” Chiedo al ragazzo, iniziando a strappare dei lunghi pezzi di scotch.
Cinque minuti e un quarto di confezione di nastro adesivo dopo, il cartello pende irriverentemente fuori dalla nostra finestra.
“Che ci hai scritto sopra?” Mi domanda Marlene, avvicinandosi curiosa alla mia opera d’arte per ammirarla.
Ghigno soddisfatto.
“‘In questa casa veneriamo solo Nostro Signore Sauron’.” Rispondo contento.
Dopo qualche secondo di silenzio, Marlene scoppia a ridere.
“Nerd.” Commenta Audrie.
Le lancio uno sguardo di sfida.
They’re taking the hobbit to Isengard.” Canto, aspettando una reazione.
Audrie cerca di trattenersi. A giudicare dalla sua espressione non sta facendo un buon lavoro.
“…to Isengard-gard-gard.” Risponde la ragazza, cedendo al desiderio di continuare la canzone.
Il mio sorriso si allarga.
“Smettila, non vuol dire niente. È un meme, tutti conoscono quel video.” Si difende stizzita.
Metto una mano sul fianco, spostando il peso su una gamba.
“Certo, tutti così dicono.” Ribatto sarcastico.
Mi arriva un cuscino addosso.
“Attento, la tua omosessualità si sta facendo vedere.” Mi stuzzica la ragazza, ridacchiando.
Le rilancio il cuscino.
“E che metta su uno spettacolo, allora! Diventerò il Mika dei poveri.” Ribatto.
Sayid scoppia a ridere.
“Ti piacerebbe! Scusa, ma è fuori dalla tua portata.” Commenta, scuotendo la testa.
Incrocio le braccia, spostando il peso sull’altra gamba.
“Perché, cos’ho in meno di lui?” Domando.
Sayid sorride, notando la punta di gelosia nella mia voce.
Habibi, sai che ti adoro, ma quando canti mi viene da piangere… e non nel senso positivo.” Mi spiega, mettendomi una mano sulla guancia.
Vorrei rispondere, ma non posso dargli torto.
È vero: non riuscirei a prendere la nota giusta nemmeno per sbaglio.
“E poi… è libanese.” Aggiunge, alzando le spalle.
Alzo gli occhi al cielo.
“È vero! Siamo dappertutto, non potete sfuggirci.” Ribatte, dandomi un buffetto sulla guancia.
“Buon per voi che i libanesi abbiano dei geni superiori!” Scherza, rivolgendosi a tutta la stanza.
Qualcuno gli tira un cuscino, che riesce a schivare senza particolari sforzi.
Ma il divertimento non dura a lungo.
Nemmeno una decina di minuti e, in camera nostra, entra Winterfield, senza bussare e infuriato come non mai, facendo sussultare tutti i presenti.
“Toglietelo immediatamente.” Ordina gelido.
Alex e io ci guardiamo confusi.
Nei suoi occhi riesco a vedere un’ombra di paura.
E non posso fare a meno di essere d’accordo con la mia persona preferita.
“Il cartellone. Toglietelo. Ora.” Impartisce, urlando e indicando la finestra.
Ci alziamo di scatto per andare a togliere lo striscione.
Chiusa l’imposta, Winterfield attraversa la stanza in due falcate e ci strappa di mano il cartellone.
Faccio istintivamente un passo avanti per proteggere Alex, mettendomi fra la mia persona preferita e l’uomo.
“Non avete idea di quello che sta succedendo. Non vi dovete azzardare più.” Continua a strillare Winterfield in preda all’ira.
L’uomo strappa a metà il cartellone e lo butta a terra.
Stringo i pugni, pronto a rispondere nel caso la situazione ci scappi di mano.
Winterfield se ne accorge. Respira profondamente per calmarsi.
“Non dovete rispondere, né aizzare quelle persone. Se succederà di nuovo una cosa del genere, ci saranno provvedimenti severi, mi avete capito?” Continua abbassando il tono, ma mantenendo quella furia fredda nella voce.
Lo guardo negli occhi, ma non parlo.
“Avete capito?” Urla quando non arriva una risposta, facendoci sussultare ancora una volta.
Annuisco riluttante, senza abbassare lo sguardo.
Mi obbligo a sostenerlo.
Winterfield, osservando la nostra espressione di fiere in gabbia, prende atto di cos’è successo.
Si passa una mano fra i capelli e indica febbricitante i pezzi di cartoncino sul pavimento.
“Raccogliete queste cose da terra.” Ci chiede, ormai senza voce.
Prima di uscire dalla stanza, ci lancia un ultimo sguardo, come se volesse aggiungere qualcosa.
Ma non riesce a dire nulla.
Abbassa gli occhi, saluta tutti con un cenno del capo e chiude la porta.
Quando sentiamo lo scatto della serratura, riesco a percepire Alex rilassarsi.
Io chiudo gli occhi, abbassando le braccia che avevo alzato per riparare Alex.
Mi passo una mano sul volto.
“Noah, Alex…” Inizia a dire Sayid avvicinandosi, ma lo interrompo.
“Uscite tutti da qui.” Ordino atono.
I ragazzi non sanno come reagire.
“Noah…” Mi chiama Audrie.
Non ascolto nessuno.
Mi dirigo alla scrivania, raccolgo tutti i dolciumi che ci sono sopra e li consegno alla ragazza, che intanto mi aveva seguito.
“Spartitevi il montepremi, la scommessa è annullata.” Continuo, dirigendomi verso la porta e aprendola.
E così, la tengo aperta finché non escono tutti, lanciandomi ciascuno degli sguardi preoccupati.
Sayid è l’ultimo a uscire. Prima di mettere piede fuori dalla stanza, mi posa una mano sul braccio.
Mi sottraggo al contatto, continuando a guardare a terra.
Il ragazzo capisce l’antifona, saluta Alex con un cenno del capo e va in corridoio, permettendomi di sbattergli la porta alle spalle.
Finalmente, rialzo lo sguardo, incontrando quello di Alex.
“Stai bene?” Domando.
Alex annuisce.
Di comune accordo silente, ci sediamo sul mio letto, spalla contro spalla. Abbraccio la mia persona preferita, riposando la guancia sui suoi capelli.
“Per un momento, mi è sembrato di essere di nuovo a casa Bennet.” Sussurra, lo sguardo perso nel vuoto.
Stringo le labbra.
“Alex, se mai dovesse…”
“Non lo farebbe mai.” M’interrompe, con tono categorico.
Sospiro.
“Ma semmai, per puro errore, dovesse perdere la pazienza e alzare le mani su di te… smontiamo baracca e burattini e ce ne andiamo, capito?” Domando, sperando che comprenda l’urgenza della situazione.
Scuote la testa.
“Noah, non possiamo scappare per sempre.” Ribatte.
Rido amaro.
“Non abbiamo abbandonato tutto quello che avevamo per finire in un’altra famiglia violenta. Alex, i ragazzi in affidamento non vengono difesi dalle autorità, dobbiamo proteggerci a vicenda, perché nessuno lo farà per noi. Insomma… alcuni vengono letteralmente persi nel sistema. Stiamo parlando di bambini di cui non si ha più notizia. Molti sono uccisi, per la negligenza delle autorità…” Spiego, scansandomi per guardare la mia persona preferita negli occhi.
Per un secondo, solo per un attimo, il ricordo di Alex a terra, immobile e senza coscienza mi passa davanti agli occhi.
C’era così tanto sangue…
“Non posso permetterlo, Alex. Non posso.” Affermo angosciato.
Alex mi mette una mano sulla spalla.
“Sono davvero stanco di avere sempre paura… non ce la faccio più, sto per cedere…” Aggiungo, trattenendo le lacrime.
Piangere non serve a nulla, piangere non ha mai risolto niente.
Non mi fa sentire nemmeno meglio, dopo mi sento le guance appiccicose, la bocca impastata e il senso di colpa che urla.
No, piangere non mi servirebbe a niente.
“Si sistemerà tutto, Noah, vedrai.” Mi rassicura Alex, poggiando nuovamente la testa sulla mia spalla.
Abbasso lo sguardo e sorrido, rincuorato solo un po’ dal pensiero di non essere solo nella mia angoscia, che comunque continua a stringermi lo stomaco.
Quando non si ha nulla da perdere, se non una sola persona, la sola possibilità di perderla terrorizza molto di più che mettere a rischio la propria vita.
Il momento viene interrotto dalla suoneria del cellulare di Alex.
La persona in questione prende l’apparecchio e lo controlla, mentre io mi ricompongo.
Guardando lo schermo, Alex si stupisce.
Mi avvicino per vedere come mai. Gira il cellulare per farmi vedere.
“A quanto pare, o piaci alla gente o la storia attira.” M’informa, mostrandomi i settantadue like e la ventina di retweet.
Ci guardiamo negli occhi.
“È su internet, potenzialmente potrebbero vederlo tutti. “ Continua, sorridendo.
Annuisco, prendendo atto di quello che ha appena detto.
Potrebbero vederlo tutti, ci potrebbero aiutare. Se il video venisse condiviso abbastanza, qualcuno potrebbe unirsi dalla nostra parte e, allora, non saremmo da soli a combattere la battaglia.
Il mio sorriso muore.
Potrebbero vederlo tutti coloro che hanno una connessione a internet.
Incluse persone con cui non vorrei più avere a che fare.
E io ho dato l’indirizzo.
In che guaio mi sono cacciato?
 

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Capitolo 7
*** High Hopes ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e ben trovati. Il brano di oggi è High Hopes, ultimo singolo del nientepopodimeno che il cuore, l'anima, l'unico (nel senso, unico membro del gruppo) frontman (inteso come uomo dotato di una fronte sproporzionata) dei Panic! at the Disco: Brendon Urie. La canone è tratta dall'album che uscirà venerdì, Pray for the Wicked, secondo progetto (quasi) da solista, ancora sotto il nome della band. È un brano ambizioso, che mostra in tutta la sua bellezza due/tre delle quasi cinque ottave che si ritrova in gola quell'uomo.
Vi auguro una buona lettura e al prossimo capitolo, che quasi sicuramente tarderà a causa del tirocinio. Stay tuned.


 
Capitolo 7


“Noah, a che ora ha detto che arriva?” Mi chiede nuovamente Alex, guardandosi intorno.
Alzo le spalle, continuando a guardare il cielo.
“Per la decima volta: alle quattro.” Rispondo pazientemente, cercando di mantenere la calma.
Alex si gira verso di me, guardandomi dall’alto in basso.
Non metaforicamente.
Io, dato che sono nato stanco e vivo per riposare, mi sono sdraiato sul tavolo da picnic. La mia persona preferita, invece, a stento non fa avanti e indietro per ammazzare la noia.
“E che ore sono adesso?” Mi domanda, quasi vomitando le parole.
Sospiro sonoramente.
“Ancora le quattro meno dieci.” Ribatto, coprendomi gli occhi con il braccio.
“Come fai a esserne certo? Non hai nemmeno guardato l’orologio!” Protesta.
Mi alzo di scatto per afferrare le sue spalle, ma la velocità mi fa girare la testa. Mi sorreggo sulla struttura in legno per non cadere.
“Tutto bene?” Mi domanda con voce preoccupata.
Annuisco, aspettando che la vista ritorni.
Ormai ci sono abituato, mi capita piuttosto spesso negli ultimi tempi.
“Alex, calmati. Sarà qui fra poco, ne sono sicuro.” Affermo, finalmente del tutto cosciente.
La mia persona preferita, come l’infante che è, si mette a battere i piedi e a sbuffare per protestare.
Quando fa così, non so come reagire.
Ogni tanto ha questi colpi d’infantilismo acuto, in cui ti chiedi se tu non sia in realtà un babysitter.
Alzo due dita.
“Ti do due anni mentali, solo perché sono buono. Uno e mezzo, pensandoci bene. Ora basta fare capricci, altrimenti niente gelato.” Continuo, assumendo il tono di un padre che sgrida i propri figli.
Alex smette immediatamente di lamentarsi.
“Dopo prendiamo il gelato?” Domanda con tono serio.
Alzo un sopracciglio.
“Solo se smetti di fare così.” Pongo come condizione.
Questo è tutto quello che serve per far calmare subito Alex, basta nominare del cibo e diventa docile come un agnellino.
“Perché non l’hai detto subito?” Borbotta, prendendo il cellulare e guardando lo schermo.
Scuoto la testa, incapace di arrabbiarmi.
Torno a sedermi e a guardare le famiglie raccolte nel parco subito dopo la fine della scuola.
Un pallone, lanciato fino al nostro tavolo, colpisce delicatamente il piede di Alex. La mia persona preferita si china a prenderlo e lo porge a questa bimbetta adorabile, con tanto di treccine e apparecchio ai denti, sorridendole cordialmente.
E quella bimba che fa?
Strappa di mano il pallone, fa una linguaccia ad Alex e dice, con la sua vocina acuta: “È il mio pallone. Trovatene uno tuo, pezzente!”, lasciando quel povero essere umano senza parole.
Scoppio a ridere, proprio non mi trattengo.
Alex si gira verso di me con sguardo di ghiaccio.
“Smettila.” Sputa fra i denti.
Cerco di trattenere le risate, mascherandole con un colpo di tosse.
“Mi ha detto pezzente? Ma dove ha imparato una parola del genere?” Domanda ad alta voce a nessuno in particolare.
Mi stringo nelle spalle.
“Genitori?” Propongo, guardando la bambina trotterellare verso due adulti vestiti di tutto punto. I classici medio-borghesi, come se ne ritrovano a decine in questo quartiere.
“Io alla sua età credevo esistesse un albero delle caramelle, figuriamoci conoscere certi termini…” Continua, scuotendo la testa.
Rido canzonatorio.
“Non è che tu abbia mai brillato per intelligenza.” Ribatto con un sorrisino, meritandomi una gomitata nelle costole.
“Sei simpatico quanto un dito nel-“ Interrompo Alex, indicando con la testa un gruppo di ragazzi vicini a noi, non così tanto da capire cosa stiano dicendo, ma abbastanza da vedere cosa stiano facendo.
“È una mia impressione o quelli stanno parlando di noi?” Domando curioso.
Alex si sporge un po’, giusto per vedere meglio.
“Chi? Quelli?” Mi chiede, indicando il gruppo.
Indice che abbasso immediatamente, fra parentesi, per non essere scoperto.
“Sì, loro. Non indicare, ti farai scoprire.” Sussurro, cercando di sembrare il meno sospettoso possibile.
Certo, perché due persone che bisbigliano fitti fitti e indicano gente a caso ovviamente stanno parlando del tempo.
Alex alza gli occhi al cielo.
“Probabilmente avranno visto la scena con quella figlia di Satana, non diventare paranoico.” Afferma, tornando a guardare il cellulare.
Alzo nuovamente un sopracciglio.
“Soltanto perché si è rivolta sgarbatamente, non la definirei una figlia di Satana.” Ribatto.
“Non è figlia di Satana perché si è rivolta male, ma perché è una bambina.” Specifica, con tono ovvio.
Ridacchio.
“Ma anche tu eri una bambina, una volta.” Faccio notare.
“Non hai prove. Io non ero una bambina, ma un piccolo adulto, c’è differenza.” Si difende.
“E di sicuro non un figlio di Satana come-“
“Vuoi smettere di parlare di Satana?” M’immetto, prima che possa finire la frase.
“Perché parlate di Satana, mi devo preoccupare? Che mi sono perso?” Domanda una voce alle mie spalle.
Mi giro, ritrovandomi uno Steve perplesso davanti.
Lanciando un'occhiataccia ad Alex, scuoto la testa.
"Lascia perdere, lunga storia. Come stai? Ti trovo…” Non riesco a continuare, lo guardo dalla testa ai piedi.
Sono passate all’incirca dall'ultima volta che l'ho visto.
"Più alto?" Mi suggerisce, facendomi rompere la contemplazione in una risata nervosa.
"Sì, più alto, esatto." Rispondo, grattandomi la nuca.
"E i capelli... Insomma, ti... ti stanno bene." Aggiungo, puntando alla sua doppia base e cercando di non smascherare il mio dissenso.
Steve sorride sotto i baffi.
"Non ti piacciono, vero?" Mi chiede, scherzando.
"Li detesto!" Ammetto, scoppiando a ridere.
"Avevi dei capelli così belli, ora sono..." Aggiungo, continuando a indicare la sua testa.
"Non ti preoccupare, ricresceranno." Mi rassicura, ammiccando.
Alex ci interrompe giusto in tempo, mettendomi un braccio al collo.
"Se voi ragazzi avete finito di flirtare, c'è un gelato che ci aspetta." C’informa con tono canzonatorio.
Alzo gli occhi al cielo, mentre la mia persona preferita mi lascia andare e saluta Steve.
"Finalmente posso dare un volto alla tua voce! È un piacere vederti, Alex." Afferma Steve, iniziando una di quelle strette di mano che si fanno fra amici, niente di complicato.
"Ti immaginavo in modo diverso, a dire la verità." Continua, guardando Alex dalla testa ai piedi.
"Non nel senso negativo del termine, sia chiaro." Aggiunge velocemente, alzando la mano.
Alex scuote la testa, con un sorriso divertito.
"Tranquillo, me lo dicono tutti." Spiega, stringendosi nelle spalle.
"Noah mi ha spiegato qualcosa in anticipo, quindi è da un po' che ho il dubbio: che pronome devo usare?" Chiede il ragazzo, tornando serio.
Alex s’illumina.
"Vai di neutro." Afferma con la felicità di chi è consapevole di parlare con una persona rispettosa.
Steve annuisce soddisfatto e si sfrega le mani.
"Quindi… questo gelato?" Domanda, leccandosi le labbra.
"Da questa parte, signori." Rispondo, indicando il sentiero di fronte a noi che porta all’uscita del parco.
"Vi avverto: il primo che tenta, anzi no, che solo pensa di assaggiare il mio gelato... È un uomo morto. Non scherzo. Mordo." Ci minaccia Alex, aprendo la porta della gelateria.
Steve mi rivolge uno sguardo confuso, chiedendomi silenziosamente se stia scherzando.
Non rispondo, ma alzo un sopracciglio, tenendogli la porta e invitandolo a entrare con un cenno del capo.
"Quindi, se ci tenete alle dita, siete avvisati. Chi ordina per primo?" Domanda, girandosi verso di noi e intrecciando le dita per assumere un'aria innocente.
"Penso si debba ordinare direttamente al tavolo." Fa notare il mio ex-coinquilino.
Di comune accordo, i miei due amici prendono posto a un tavolo retrò vicino alla finestra, di quelli che si vedono nei film anni '50, con tanto di rivestimento in pelle rossa. Io, invece, mi dirigo al tabellone per controllare i prezzi.
E mentre sono intento nella mia analisi, sento qualcuno bisbigliare emozionato in una panca vicina. Sposto lo sguardo senza muovere la testa, attirato dalla foga con cui questa ragazza parla al padre. I due sono chini sul tavolo, lanciano occhiate fugaci nella mia direzione generale e continuano a parlare. Mi giro in direzione del loro sguardo, pensando che stia succedendo qualcosa, però ritrovo solo la normalità dell'entrata, così come ci ha accolto qualche minuto fa.
Che stiano parlando di me?
Mi volto nuovamente verso i due, ma pare che abbiano smesso di parlare e siano tornati ai piatti quasi vuoti.
Scuoto la testa, concentrandomi di nuovo sul tabellone di fronte a me.
Sto diventando paranoico.
Ovviamente non stavano parlando di me, perché mai dovrebbero farlo?
Mi allontano dal listino prezzi deciso a prendere il solito cono al cioccolato, ma a metà strada dal mio tavolo una mano mi tocca la spalla, facendomi voltare curioso. È la ragazza di prima che, insieme a suo padre, si avvia verso l'uscita.
Mi saluta con la mano, sorridendomi.
Confuso, la saluto di rimando.
Raggiunge il padre, fermo davanti la cassa, ed escono dalla gelateria.
"Chi era quella che ti ha salutato?" mi domanda Alex, quando mi siedo alla sua destra.
Mi stringo nelle spalle.
"Non lo so..." Rispondo perplesso.
"La conosci?" Aggiunge Steve.
Scuoto la testa.
"Non ne ho idea, forse sì? Prima mi sono accorto che stava parlando di me con suo padre... Almeno credo. Non so, probabilmente la conosco e mi sono dimenticato di lei, non sarebbe la prima volta." Spiego velocemente, in imbarazzo per l'attenzione.
Steve e Alex si guardano dubbiosi, ma lasciano cadere la questione con una scrollata di spalle.
Ordiniamo i gelati e ci mettiamo a parlare del più e del meno, Steve ci aggiorna su cosa mi sia perso durante le ultime due settimane al riformatorio.
"Non sto scherzando, a Berkley per la rabbia stava esplodendo quella vena sulla tempia! Si vedeva palesemente che voleva alzarmi le mani. Ma ormai sono maggiorenne, non potevano più tenermi in gabbia." Spiega il ragazzo, ridendo al ricordo.
"Sei un pazzo!" Commenta Alex, unendosi alle risate.
Scuoto il capo, disapprovante.
"Amico, devi fare attenzione adesso. Devi mettere la testa a posto, non puoi litigare e insultare i poliziotti, ti potrebbero arrestare per oltraggio a pubblico ufficiale. Come hai detto tu, sei maggiorenne, finiresti veramente in galera." Lo rimprovero, con tono grave.
Steve alza gli occhi al cielo.
"Non ti preoccupare, mamma, so badare a me stesso. E poi non ho la minima intenzione di tornare in gabbia, nossignore. Voglio vivere come un uomo libero, trovare un lavoro decente e mettere pianta stabile. Sono stanco di avere le sbarre alla finestra." Mi rassicura, girando il cucchiaino nella coppetta.
Sospiro.
"Lo so quello che stai pensando: nessuno assume una persona con precedenti, soprattutto se sono furto e rissa. Però non ti preoccupare, ho già un aggancio. Andrò a lavorare con mio fratello nel suo ristorante, giusto per raccogliere i soldi, e poi, quando avrò racimolato il necessario, apriremo quel negozio di tatuaggi. Diventeremo più famosi di Kat Von D, te lo assicuro." Afferma, offrendo il bicchiere d'acqua per un brindisi.
"Avremo il nostro programma televisivo, gli spettatori dimenticheranno Tattoo Inc." Ribatto io, facendo tintinnare il bicchiere contro il suo.
Ci sorridiamo complici, mentre Alex propone di chiedere il conto e tornare a casa.
Chiama la cameriera, che arriva con il taccuino in mano.
"Oh, un signore ha già pagato il vostro conto, non preoccupatevi." C’informa con un sorriso cordiale sulle labbra.
Ci guardiamo disorientati, intanto che la cameriera si allontana, chiamata da altri clienti.
Mi alzo velocemente e la blocco, quasi inciampando sulla panca per la fretta.
"Mi scusi, di che signore sta parlando?" Le domande, aspettando che le macchie si dissolvano dalla mia vista.
"Era nel tavolo all'angolo, insieme a sua figlia. Ha pagato una mezzoretta fa. Oh, vero, vi augura anche buona fortuna!" Aggiunge, per poi tornare ai suoi clienti.
Steve e Alex si alzano e insieme usciamo dalla gelateria, più confusi di prima.
"In che senso 'buona fortuna'?" Domanda Alex, stranito.
Mi stringo nelle spalle.
"Noah, sei sicuro di non conoscere quella ragazza?" Mi domanda nuovamente Steve.
"Ma no, ti dico che non ricordo! Insomma..." Rispondo agitato, a disagio per la situazione.
"Non ha senso. Tutta questa storia non ha senso." Concludo, alzando le braccia al cielo, incapace di risolvere il rompicapo.
"Torniamo a casa, su." Ci esorta Alex, velocizzando il passo.
Girato l'angolo, vediamo l’orda di protestanti giusto fuori dalla proprietà dei Winterfield. In una settimana si sono moltiplicati come i ratti, anche più velocemente. E la disinfestazione è altrettanto difficile. Penso che, ormai, i coniugi se ne siano fatti una ragione, neanche ci fanno caso. Così anche i miei coinquilini temporanei, li ignorano e basta, andando avanti con la propria vita. Ogni tanto uno o due ragazzi si mettono a chiacchierare e cercano di ragionare con loro, ma ricevono solo insulti e parole d’odio.
C'è poco da fare: con persone così indottrinate e convinte di essere nel giusto non si può parlare, prima lo si capisce, meglio è.
Abituato come sono ad avere la porta di casa sbarrata, quasi mi dimentico che non sia una situazione ordinaria. La reazione di Steve me lo ricorda.
“Sapevo che stessero protestando davanti al rifugio, ma non immaginavo che la situazione fosse così drastica…” Commenta sorpreso, indicando le persone dietro i cartelli, quelle sedute sul prato dei Paget e altre stese in fila al limite del giardino della proprietà, a formare una sorta di recinto umano.
Mi stringo nelle spalle, indeciso su come rispondere.
“Tu ignorale. Se dai loro conto, li fai vincere. Ricorda che lo scopo della protesta è attirare l'attenzione, togli quella e diventa un campeggio leggermente diverso.” Spiega Alex con nonchalance.
Ci avviciniamo alla fila di protestanti, che ci ostruiscono il cammino con la loro presenza. Quando ci vedono, alcuni si mettono a urlare slogan già riportati sui cartelloni, sventolandoceli davanti al naso per sottolineare la loro indignazione. Li guardo inespressivo negli occhi, tutti, a uno a uno. Non c'è umanità in quelle pupille, non un briciolo di gentilezza, solo uno sguardo ferino illuminato di odio e rancore e irrazionalità. Non le vedo come persone, ai miei occhi hanno perso il loro status, sono diventate presenze di quei fumetti che leggevamo qualche tempo fa con Alex, pensando che una ferocia simile potesse essere solo inventata.
Solo ora capisco che la fantasia, in qualsiasi sua forma, presenta sempre uno sfondo di realismo.
“Se volete entrare, dovrete passare sui nostri corpi, progenie del demonio!” Urla l'uomo sdraiato davanti ai miei piedi.
Progenie del demonio?
Non sapevo di essere tornato al XV secolo… d'altro canto, tenendo conto per cosa stiano protestando, non dovrei stupirmi.
Mi giro a guardare i miei due amici, che mi osservano in attesa di una mia reazione. E io, semplicemente, scrollo le spalle e scavalco il protestante, facendo poi segno agli altri di seguirmi.
L'uomo in questione si alza allibito e, rosso in faccia per l'umiliazione, ci urla contro insulti.
“Come osate trattarci così? Siamo esseri umani.” Si lamenta fra le grida di dissenso per le nostre azioni riprovevoli.
“Siamo cittadini attivi di Salt Lake City, dovete portarci rispetto, randagi che non siete altro!” Prosegue, urlandoci contro.
Lo guardo inespressivo, con la stessa attenzione che si riserva alla pubblicità di YouTube prima di un video, nell'attesa che spunti l'opzione per saltarla.
Quando l'uomo chiude la bocca e finisce di lagnarsi, mi volto verso la porta di casa senza degnarlo di una risposta.
Steve, dal canto suo, non la prende bene come noi.
Fa un passo avanti, pronto a iniziare un diss, di quelli di cui abbiamo avuto esperienza in riformatorio, ma lo fermo dandogli di nascosto una gomitata sulle costole, che lo fa desistere dai suoi intenti.
Alex mi lancia un'occhiata confusa. Indico con un cenno della testa una finestra al piano superiore, dalla quale s’intravede la sagoma di Winterfield, intento a monitorare la situazione.
La mia persona preferita annuisce, avendo capito il perché delle mie azioni. Non vorrei che l'uomo avesse un altro scatto d'ira, sento che non riuscirei a sopportarlo. Da quando ha fatto quella scenata, sono stato in continuo stato di vigilanza, pronto a mettere al riparo Alex al minimo segno di agitazione da parte dell'uomo.
Non importa se io sono in pericolo, ma non voglio che Alex sia in pericolo per colpa mia.
Non di nuovo, non posso permettere che succeda.
Proprio per evitare episodi del genere, sono diventato molto più cauto nelle mie azioni, uscendo solo quando necessario per non incappare nei protestanti e, di conseguenza, reagire alle loro provocazioni. Evito il più possibile di stare in compagnia di Winterfield, che Alex stia da solo nella stessa stanza con l'uomo… in generale, siamo rimasti molto nella nostra camera, durante l'ultima settimana, accettando visite dai nostri amici, ma non scommettendo più e cercando di distrarci per non pensare a ciò che succede fuori dalla finestra.
“Non mi sentite, per caso? Oppure non avete coraggio di accettare le conseguenze del vostro stile di vita? Marcirete all'inferno, se non vi pentite. All'inferno, dico io, e non vi permetteremo di contagiare i nostri figli con le vostre scelte, diavoli tentatori. Giratevi e affrontate la realtà!” Prosegue l'uomo, alzandosi da terra e venendo verso di noi.
Mi mordo le guance, cercando disperatamente di aprire la porta prima che l'uomo ci raggiunga e finisca in rissa.
Sento Steve irrigidirsi, non voglio che la situazione degeneri.
Lo so, mi ha promesso di rimanere sulla retta via e mi dovrei fidare di lui, ma quando si tratta dei suoi amici, non pensa due volte a mettersi in pericolo.
Finalmente, con uno scatto si apre la serratura. Spingo Alex e Steve all'interno, chiudendomi la porta alle spalle, proprio davanti alla faccia del manifestante. L'uomo, non contento, prende a battere i pugni sulla porta, continuando a esortarci a uscire e ad affrontarlo.
“Ma che stai facendo? Dobbiamo reagire, dobbiamo-“ Inizia Steve, indicando freneticamente la porta.
“No. Non faremo niente. Ignora i colpi e andiamo nella nostra stanza.” Lo interrompo gelido, non lasciando spazio a opposizioni.
“E quindi ti lascio insultare a quel modo? Dov'è finita la tua dignità, Noah?” Mi rimprovera il ragazzo, cercando di farmi ragionare.
“Non è una questione di dignità, Steve. Non possiamo reagire, dobbiamo rimanere nella parte della giustizia. Ti pare che non voglia reagire? Mi sono letteralmente masticato una guancia per non sputargli in faccia. Non puoi neanche immaginare quanto lo voglia prendere a pugni, ma non ho intenzione di abbassarmi al suo livello!” Urlo in risposta, tanto forte da farmi sentire anche fuori, visto l'intensificarsi dei battiti sul legno d'ingresso e delle grida del protestante.
Steve apre la bocca per rispondere, ma non gliene do occasione.
“Devo prendere scelte che al momento non puoi capire, Steve. Ti chiedo di fidarti di me.” Continuo con tono tanto fermo da farlo desistere.
Con mio sollievo, Steve serra le labbra e annuisce.
“Saliamo in camera?” Propone Alex, cercando di spezzare la tensione.
In corridoio, veniamo fermati dal resto del nostro gruppo, munito di casse da computer, sedie sdraio, ombrellone e limonata in busta.
“Oh, siete tornati?” Chiede Sayid sorpreso.
Alzo un sopracciglio.
“No, in realtà siamo ologrammi, non si vede?” Ribatto sarcastico.
Sayid ha questo vizio di sottolineare l'ovvio.
“Molto spiritoso, Noah. E chi è il tuo amico?” Domanda, scrutando dalla testa ai piedi il mio ex-coinquilino, che porge la mano al ragazzo libanese.
“Steve. Ero il compagno di cella di Noah.” Si presenta, ricevendo un'occhiata sospettosa da Sayid.
“Capisco. Sayid.” Risponde lui, guardando Steve negli occhi.
È impressione mia o l'aria si è fatta stranamente pesante?
Steve mi guarda di traverso, mimando con le labbra ad Alex: “Quel Sayid?”
Alex annuisce con convinzione, ghignando sotto i baffi che non ha.
“È un piacere conoscerti, Noah mi ha parlato di te.” Ribatte Steve, lasciando Sayid piacevolmente sorpreso.
“Davvero? Il piacere è tutto mio, allora.” Ribatte il ragazzo, alleggerito dalla tensione.
M’intrometto nella conversazione, prima che per me diventi imbarazzante.
“Che fate con tutta quella roba?” Domando, indicando gli oggetti che tengono in mano.
Audrie si stringe nelle spalle.
“Abbiamo pensato di goderci un po’ di musica in giardino.” Spiega innocentemente.
La guardo scettica.
“Veramente? E cosa ascolterete, se posso saperlo?” Domando sospettoso.
“Una playlist di Heather, nulla di che…” Risponde la ragazza, sorridendo maliziosa.
Le faccio segno con la mano di specificare.
“Un po' di Tomboy, Village People, Sam Smith, Macklemore, Hayley Kioko… forse anche Katy Perry.” Ribatte Marlene, contando gli artisti sulle dita.
Sospiro sonoramente, premendomi la radice del naso fra due dita.
“Giuro sul Dio in cui non credo che se sparate a tutto volume Ok 2 B Gay, non vi faccio entrare più in casa.” Li minaccio, indicandoli singolarmente.
“E la limonata liofilizzata?” Chiede Alex, notando solo ora la busta.
“Fuori fa caldo e siamo troppo pigri per spremere limoni.” Spiega Sayid, scrollando le spalle.
“Vi volete unire a noi?” Aggiunge Audrie, mettendomi un braccio al collo, che sposto immediatamente.
“Eh… No. Non voglio finire nei guai, grazie mille.” Rifiuto, incrociando le braccia.
“Finire nei guai? Non stiamo facendo nulla di male!” Si lamenta Sayid, ricevendo uno sguardo di rimprovero.
“È una chiara provocazione rivolta ai manifestanti. Avete sentito Winterfield, non dovete interagire con loro.” Replico, serio in volto.
Odio essere il guastafeste di turno, ma qualcuno deve avere un minimo di senno.
“Come ti pare…” Sbuffa il ragazzo, facendo segno agli altri di uscire.
Non fanno due passi che Winterfield si catapulta in corridoio, ci sorpassa ed esce in giardino, lasciando la porta di casa aperta.
Curiosi di scoprire cosa stia succedendo, lo seguiamo di corsa.
“Andate immediatamente via dalla nostra proprietà, prima che chiami la polizia!” Urla a un gruppetto di persone sul nostro prato, due donne e un uomo, per essere precisi.
Due di loro hanno in mano una telecamera e un microfono, mentre una indossa delle cuffie e smanetta con un tablet. La donna con il microfono sta parlando, mentre l'uomo con la telecamera inquadra la folla di protestanti.
Giornalisti.
Quando vedono arrivare Winterfield, puntano la telecamera sull'uomo.
“È lei il proprietario del rifugio? Può lasciare un commento?” Chiede la giornalista, puntando il microfono sotto il naso di Winterfield.
“Non ho nulla da dirvi. Andatevene subito dalla nostra proprietà.” Ripete, mettendo una mano dietro le spalle della donna per spingerla delicatamente fuori dal giardino.
Osservo la scena dalla porta d’ingresso, fermo come una statua. Succede tutto contemporaneamente: i giornalisti e Winterfield, le urla dei protestanti, i miei amici che commentano la scena bisbigliando.
I rumori mi assalgono, sovraccaricando sensorialmente il mio cervello.
La mia attenzione salta da un gruppo all'altro, incapace di concentrarsi su una cosa sola.
È disorientante.
La giornalista ci guarda da sopra la spalla.
Vedo il suo volto illuminarsi.
Liberandosi dalla presa di Winterfield e non prestando orecchio alle sue proteste, ci viene incontro.
“Tu sei il ragazzo del video, ho ragione? Come ti chiami?” Domanda, porgendomi il microfono.
Senza preavviso, mi ritrovo ancora una volta involontariamente davanti a una telecamera.
“Io… Uh…” Balbetto, osservando in successione la giornalista, la telecamera, Winterfield e i protestanti, per poi tornare nuovamente sulla giornalista. 
Mi hanno preso alla sprovvista, sto entrando nel panico.
La testa mi gira, sento il sangue inondarmi il viso.
Odio essere al centro dell'attenzione.
“Noah…” Riesco a rispondere, prima che Winterfield si ponga fra me e la giornalista, intimandola di lasciarci in pace.
“Noah, come ti fa sentire questa situazione? Come voce della causa, hai qualcosa da dire?” Continua la giornalista, ignorando l'uomo.
Winterfield decide, quindi, di farci rientrare.
Cerca di spingermi dentro.
Tutto d’un tratto, capisco perfettamente l'atto di quell'uomo in gelateria e tutti gli sguardi, i sussurri e i saluti che ho ricevuto oggi.
Riesco a liberarmi e a prendere il microfono.
Piantandomi saldamente sui piedi, guardo fisso in telecamera, non facendo caso allo sguardo di rimprovero di Winterfield.
“Vorrei solo ringraziare chi ci sta vicino, dimostrandolo con i piccoli gesti. Fra tutto questo odio a cui siamo sottoposti quotidianamente, le vostre voci ci danno la forza di andare avanti. Chiediamo soltanto un po’ di pace e un minimo di stabilità, come dovrebbe essere diritto di tutti i ragazzi, noi inclusi.
Non capisco quale sia la differenza fra noi e i vostri figli, forse una delle parti è stata più fortunata dell'altra, francamente non so quale, vedendo la reazione degli adulti intorno a me.
Non sono un oratore, sono solo un ragazzo che si è stancato di non avere potere sulla propria vita, di essere parte passiva del sistema, qualunque esso sia. Vorrei evitare che la situazione degeneri ulteriormente.
Per favore, lasciateci vivere in pace. Non ho altro d’aggiungere.” Concludo, restituendo il microfono alla giornalista e rientrando in casa, per poi collassare a terra quando la porta si chiude e l'adrenalina porta via con sé ogni forza che mi è rimasta per stare in piedi.
 

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Capitolo 8
*** Us ***


*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve a tutti e ben ritrovati~! Sono riuscita a far uscire il capitolo in tempo, mi sento una professionista. Allora, il brano di oggi è Us, ultimo singolo dell'inglese James Bay. Gli amanti della danza, e non, lo conosceranno per la sua Let it go, canzone usata in un video del canale youtube DanceOn, che ha fatto più di undici milioni di visualizzazioni.
Che dire, vi lascio alla lettura e all'ascolto!
Al prossimo capitolo.


 
Capitolo 8


“Non ti azzardare.” Minaccio Sayid, indicandolo.
Il ragazzo ha in mano un cucchiaio, un sorriso sulle labbra e nella testa, sicuramente, cattive intenzioni. Mette due dita sotto l’acqua, che scorre fuori dal rubinetto del lavandino.
“Su, Noah, non avevi detto di sentire caldo?” Mi stuzzica, avvicinando pericolosamente il cucchiaio al getto.
“Provaci e giuro su non so quale dio che ti butto il cellulare nel gabinetto.” Continuo, allontanandomi dal lavandino per precauzione.
Sono passate due settimane da quell’intervista, ormai siamo a novembre.
Dopo cena, Sayid e io siamo stati messi a lavare le stoviglie, anche se, devo ammettere, abbiamo fatto ben poco finora.
Il ragazzo, preoccupato per l’intimidazione, diminuisce il getto, prende la spugna in mano e torna a lavare il cucchiaio scuotendo la testa.
Finalmente al sicuro, mi avvicino e riprendo a fare il mio lavoro.
Dopo qualche minuto di sacrosanto silenzio, di quei pochi che riesco a godermi in questa casa, mi ritrovo costretto a parlare: ho finito il sapone per i piatti.
“Sayid, mi puoi passare il sapone?” Chiedo al ragazzo, allungando la mano senza guardarlo, in cerca della bottiglia del prodotto.
“Ti stavo per chiedere la stessa cosa, in realtà.” Mi risponde, agitando il contenitore di plastica vuoto.
Mi asciugo le mani e vado all’armadietto, dove teniamo i prodotti per le pulizie.
All’interno trovo una landa desolata, interrotta da uno spray contro gli insetti e una bottiglia di ammorbidente quasi vuota, che svettano come obelischi nel deserto.
Richiudo le ante, tornando al lavello.
“Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo fatto la spesa? Non è rimasto più nulla.” Faccio notare al mio compagno di faccende domestiche.
Sayid alza le spalle.
“Anche il frigo è quasi vuoto… e questa spugnetta si sta disintegrando.” Afferma alzando una spugnetta gialla, che somiglia molto a un foglio scritto in braille.
“Sembra di vivere nell’appartamento di un universitario, non mi stupirei se domani facessimo colazione con del ramen liofilizzato.” Commenta, gettando la spugna nel lavello.
Mi passo una mano fra i capelli, guardandomi intorno.
Adesso che ci faccio caso, noto che una gamba del tavolo a noi vicino poggia su una pila di libri, che ai piedi di uno dei divani si trovano residui di gommapiuma, che al lampadario tre lampadine su cinque sono fulminate.
Dai muri si sta staccando la carta da parati, sul soffitto è apparsa una macchia di umidità, la serratura della porta che dà sul giardino posteriore è difettosa, il manico della scopa è tenuto insieme da del nastro isolante.
Qui c’è qualcosa che non quadra.
“Vado ad avvertire i Winterfield, torno fra poco.” Avviso Sayid, mettendogli una mano sulla spalla mentre gli passo accanto. Ricevo la sua approvazione e mi avvio verso lo studio, dove si sono ritirati i coniugi.
Arrivato in corridoio, riesco a sentire le voci dei due provenire da una porta socchiusa. Dal tono, penso stiano discutendo di affari importanti.
Non vorrei tornare indietro a mani vuote, potrei anche dimenticarmene, preferisco aspettare.
“Cinque minuti,” mi riprometto, “cinque minuti e, se non hanno finito, torno da Sayid.”
Lo ammetto: sono anche curioso di sapere di cosa stiano discutendo.
Così mi poggio al muro su cui è ancorata la porta, proprio accanto allo stipite. Con le braccia giunte dietro la schiena, le gambe incrociate e l’orecchio teso verso lo spiraglio, che proietta una striscia luminosa sulla scura parete adiacente, cerco di dare un senso a ciò che dicono.
“… non ce lo possiamo permettere, Emma. Onestamente, non so cosa fare.” Afferma la voce di Winterfield. Sento un accenno di sconfitta in quelle parole.
“Non è rimasto proprio niente?” Domanda speranzosa la voce più acuta della donna.
Un sospiro.
“Nulla. Nichts. Zero. Abbiamo finito tutti i soldi due settimane fa… e il prossimo assegno arriverà a inizio mese.” Prosegue.
Una sedia stride sul pavimento, dei passi.
“Sarà comunque una miseria, a stento ci basterà per la spesa. Davvero, non so come fare, le spese sono troppe e i fondi che ci danno sono insufficienti. E adesso abbiamo pure l’avvocato da pagare.” Ribatte l’uomo, assumendo un tono disperato.
Non la vedo bene, proprio no.
Scivolo sul pavimento, sedendomi a terra. Contro l’entrata del corridoio, si staglia la figura di Sayid, che mi guarda confuso.
Sta per dire qualcosa, ma gli faccio segno di tacere e di avvicinarsi.
Il ragazzo obbedisce, sedendosi al mio fianco.
“Emma, dobbiamo affrontare la realtà: non ci possiamo permettere di tenere aperto il rifugio. Non abbiamo i soldi, non abbiamo i mezzi e nessuno ci aiuta. Abbiamo tutti altri lavori cui badare, Patrick e Anne stanno anche mettendo su famiglia, più di tanto non posso chiedere di spendere per la casa. Se non troviamo i soldi al più presto…” Aggiunge Winterfield, lasciando la frase sospesa.
“Cosa? Chiuderemo il rifugio, butteremo i ragazzi in strada? Josh, non ci starai pensando seriamente?” Domanda preoccupata Emma.
Un altro sospiro.
“Non lo so, Emma… non lo so. Ma non ci possiamo permettere di lasciare il rifugio aperto e portare avanti una causa in tribunale, non abbiamo abbastanza soldi.” Afferma, con tono che non ammette repliche.
Non riesco più a stare fermo, mi alzo da terra e faccio segno a Sayid di tornare in cucina. Il ragazzo mi segue e finiamo di lavare i piatti in silenzio, nessuno dei due sa cosa dire a proposito di quanto abbiamo appena sentito.
Posata l’ultima forchetta, Sayid si china verso di me.
“Credi davvero che chiuderanno il rifugio?” Mi domanda cautamente a voce bassa, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno stia ascoltando.
Alzo le spalle, non so che rispondere.
La verità è che sto già pensando a un piano, gli ingranaggi si sono messi in moto per trovare una soluzione. Non sto ascoltando chi ho intorno, sto solo cercando una scappatoia per uscire da questa situazione. Analizziamola: il problema è finanziario, non abbiamo abbastanza soldi per mandare avanti la casa e pagare, insieme, l’avvocato. La soluzione sarebbe semplice, basterebbe eliminare uno dei due problemi… ma quale?
Da una parte, non vorrei che la casa chiudesse, ovviamente; dall’altra, i Paget, che hanno chiesto la revoca della licenza dei Winterfield, non sono disposti a ritrattare.
E se la licenza venisse revocata, il rifugio chiuderebbe.
Quindi, che fare?
Pensa, cervello, pensa.
Mi appoggio al lavandino, ondeggiando avanti e indietro nello sforzo di pensare fuori dagli schemi.
Dobbiamo eliminare un problema, quale?
Alzo la testa di scatto quando percepisco l’idea.
“E se non eliminassimo uno dei problemi, ma il problema?” Chiedo fra me e me.
Sayid aggrotta le sopracciglia, guardandomi confuso.
“Di che stai parlando?” Mi chiede.
Mi giro verso di lui, ricordandomi di aver solo pensato la maggior parte del discorso. Effettivamente l’avrò preso alla sprovvista con questa mia domanda retorica.
Mi avvicino a lui, per sussurrare la mia riflessione.
“I Winterfield stavano parlando di chiudere il rifugio perché non hanno i soldi per mandarlo avanti e pagare un avvocato contemporaneamente. E se procurassimo noi i soldi, invece di aspettare che gli altri risolvano il problema?” Spiego, cercando di non farmi sentire.
“E come vorresti fare?” Ribatte lui, intrigato dalla mia idea.
Sento dei passi dietro di noi. Mi guardo intorno: i Winterfield si sono seduti sul divano. So che dovrei parlarne anche con loro, ma preferisco prima avere un piano completo e degli aiutanti.
“Non qui. Andiamo in camera mia, voglio parlarne anche con Alex.” Rispondo, asciugandomi ulteriormente le mani e lanciando lo straccio sul bordo del lavello.
Passando davanti alla coppia, salutiamo e auguriamo una buona serata.
Quindi corriamo su per le scale e attraversiamo il corridoio in quattro falcate. Entriamo nella camera chiudendoci la porta alle spalle.
Alex è sul suo letto, sta leggendo una rivista di musica, mentre ascolta qualcosa con le cuffie. Mi avvicino e gliele strappo dalle orecchie.
“Ma sei scemo?” Mi domanda con voce irata, mettendosi a sedere sul letto.
“Scusa, ma non abbiamo tempo per essere delicati, i ragazzi rischiano di tornare per strada.” Dico, mettendomi a sedere sul mio letto.
“In che senso?” Chiede, spostando lo sguardo tra me e Sayid.
“Nel senso che forse chiudono il rifugio, sempre che non facciamo qualcosa. E io ho avuto un’idea.” Spiego velocemente, attirando la sua attenzione.
“Sapete di come non posso fare due passi per strada senza essere fermato da qualcuno che mi chiede una foto o che mi urla parole d’incitazione? Bene, perché non sfruttarlo?” Continuo, guardandoli sorridente.
Sanno benissimo quanto mi dia fastidio tutta quest’attenzione, di come esca sempre meno di casa per paura di essere riconosciuto. Però, siccome ormai ho questa fama, tanto vale sfruttarla per aiutare i miei amici, giusto?
“Voglio lanciare un crowdfunding per finanziare il rifugio, così da poterlo mantenere aperto. Intanto che vengono raccolte le donazioni, propongo di trovare un lavoro, in modo da raccogliere qualche soldo per la spesa e roba del genere. Che ne dite?” Suggerisco speranzoso.
I due si voltano a guardarsi, ma non mi fanno aspettare tanto per una risposta affermativa.
“Perfetto! Alex, sai come iniziare una campagna, quali siti utilizzare?” Domando, deciso a mettermi già all’opera stasera.
“Potremmo usare uno di quei siti di cui condividono i link su Twitter.” Ribatte, prendendo il telefono.
Mi siedo al suo fianco, mentre cerchiamo insieme un sito adatto alla nostra circostanza. Creata la campagna in una decina di minuti e scritta la descrizione, Alex mi punta una luce addosso.
“Magnifico, che ne dici di girare un video in cui pubblicizzi la campagna?” Mi propone, mettendomi davanti la telecamera del cellulare.
Vorrei ribattere, tuttavia non me ne dà il tempo.
“Troppo tardi, inizierò a riprendere fra tre… due…” M’informa, come suo solito.
Alzo gli occhi al cielo, ma eseguo il video come di comando.
Nulla di complicato: semplicemente ringrazio per l’attenzione e chiedo di andare sul sito a donare qualcosina.
Alex è felice del risultato, lo considera un ‘buona la prima’.
“Perfetto. Allora, domani alziamoci presto e andiamo a cercare lavoro. Sayid, puoi avvertire anche Audrie? Lei ha sedici anni, se non sbaglio, può cercare qualcosa con una paga un po’ più alta rispetto ad Alex, Heather e Marlene.  Avvisa pure loro, comunque.” Gli chiedo, accompagnandolo alla porta.
“Va bene. Vuoi essere accompagnato, domani?” Mi propone, poggiandosi allo stipite.
Accosto la testa alla porta, considerando seriamente di accettare la sua compagnia.
“Se ne abbiamo il tempo, ti offro anche il gelato.” Aggiunge, ghignando.
Alzo gli occhi al cielo.
Sa quanto sia goloso, non posso rifiutare un gelato.
“Con piacere. Sveglia alle sei, per le sette usciamo da qui. Sii puntuale.” Gli raccomando, chiudendo la porta e augurando una buona notte.
Quando mi volto, trovo Alex a guardarmi con aria divertita.
“Che c’è?” Chiedo sulla difensiva.
“Hai appena detto a un libanese di essere puntuale, tanto vale che chiedi a Paget di sposarti.” Scherza.
Non ha tutti i torti. Non so se sia perché è libanese o se è così di natura, sta di fatto che Sayid non è mai stato puntuale, in questo mese che l’ho conosciuto.
Non sarebbe puntuale nemmeno al suo funerale, probabilmente.
“Secondo te perché gli ho detto che l’appuntamento è un’ora prima?” Chiedo sarcastico.
Alex si mette a ridere.
“Allora non sei così scemo come pensavo!” Ribatte, guadagnandosi una cuscinata in faccia.
“Rilanciami il cuscino e vai a letto, Alex. Domani sarà una lunga giornata.” Affermo, scuotendo la testa.
Preso il cuscino, mi corico e spengo la luce senza aspettare una sua risposta.
“Non è possibile che, su una ventina di annunci, nessuno ci abbia accettati. Secondo te come mai?” Mi domanda Sayid, asciugandosi il sudore dalla fronte.
Per essere l’inizio di novembre, oggi è una giornata particolarmente calda.
Bello questo riscaldamento globale.
“Probabilmente per la mia fedina penale. Diciamo che non tutti vorrebbero assumere un potenziale ladro.” Commento amaramente.
“Per quanto mi riguarda, secondo me sono razzisti. Vedono un ragazzo di colore con tratti mediorientali e, presumibilmente, musulmano e pensano subito a un terrorista.
Ti pare che possa farmi esplodere? L’unica bomba che mi riguarda è il mio aspetto, quello sì che è micidiale.” Ribatte, specchiandosi in una vetrina, mentre vi passiamo davanti.
“Modesto, il ragazzo.” Noto, ridacchiando.
“Solo realista.” Replica, scrollando le spalle.
Alzo gli occhi al cielo, ignorando l’ultimo commento. Il ragazzo capisce l’antifona e torna al cellulare a cercare altri annunci lavorativi.
“Se sei interessato, cercano manodopera in un minimarket.” M’informa dopo qualche minuto di silenzio.
Mi avvicino curioso, cercando di leggere le informazioni.
“Dove si trova?”
Sayid scrolla fino in fondo per leggere le informazioni di contatto.
“È a cinque minuti da qui, ci passiamo? Si trova sulla S 200 E, è un 7-Eleven.” Mi risponde, posando il cellulare.
Quasi mi strozzo, a sentire l’indirizzo.
“La S 200 E? Quello all’angolo con l’800 S?” Domando, sperando di sbagliarmi.
Per mio grandissimo dispiacere, Sayid annuisce.
“N-non c’è nessun altro annuncio?” Chiedo nuovamente, pur conoscendo già la risposta in cuor mio.
Il ragazzo scrolla la testa.
“Per qualcuno senza nessuna esperienza: no, mi dispiace. Ce ne sarebbero un altro paio in alcuni locali, però chiedono almeno due anni di esperienza lavorativa analoga. Io potrei provare, ma per te questo è l’ultimo.”
Mi spiega, tornando a camminare.
Lo seguo in silenzio, con la testa china.
“Qual è il problema, Noah?” Mi domanda, addolcendo la voce.
Mi stringo nelle spalle, senza alzare lo sguardo.
“Non mi assumeranno mai… è il negozio in cui ho rubato, il titolare mi ha denunciato.” Spiego, continuando a guardarmi i piedi.
“Non posso aiutare i Winterfield, non posso fare molto. Se dovessero chiudere il rifugio, sarebbe colpa mia e di quell’errore commesso a luglio. Una sola azione per garantire la sopravvivenza mia e di Alex potrebbe costare la casa a voi ragazzi.” Aggiungo, timoroso della sua reazione.
Sayid sospira teatralmente e mi prende per le spalle.
“E poi sarei io l’egocentrico? Smettila con queste stronzate autocommiserative e tirati su. È ora di trovarsi un lavoro.” Afferma, spingendomi con cautela per farmi camminare.
Non passano minuti prima di venire fermati da un gruppetto di ragazzi. Mi riconoscono dal video, mi dicono che cercheranno di donare qualcosina per la causa e mi chiedono delle foto.
“Per caso conoscete qualcuno che assume?” Chiedo a ciascuno, ma tutti mi rispondono la stessa cosa: no, mi dispiace.
Solo uno mi reindirizza allo stesso 7-Eleven che vorrei evitar.
Mi sa che è destino.
Sconfitto, decido di avviarmi insieme a Sayid al minimarket, sperando nella clemenza del titolare.
Dire che l’uomo fosse scontento di vedermi è un eufemismo.
Varcata la soglia del negozio cartoonesco, il commesso alla cassa esce da dietro il bancone e corre nel retro a chiamare il titolare. Tornano in due, l’uomo più anziano mi viene direttamente incontro, mentre l’altro, che avrà passato da poco la pubertà, riprende possesso della sua postazione.
“Esci immediatamente da qui o giuro su Dio che chiamo la polizia.” Mi minaccia, indicando furiosamente la porta e cercando di spingermi malamente.
Sayid si frappone tra noi due, tentando di calmare l’uomo.
“Per favore, non siamo qui per cercare rogne. Il mio amico, Noah, sta cercando un lavoro.” Spiega il ragazzo, chiedendo comprensione con gli occhi.
“E perché mai dovrei assumerlo, dopo quello che ha fatto?” Ribatte l’uomo, a ragione.
Non posso dargli torto, quale pazzo assumerebbe il ladro che ha fatto incarcerare?
Mi mordo il labbro, provando a regolare il respiro.
“Le posso parlare in privato?” Domando d’un tratto, interrompendo la difesa del mio amico.
Il titolare mi guarda dall’alto in basso, chiedendosi se faccia sul serio. Quando capisce che sì, sto chiedendo davvero un colloquio, fa un passo indietro e mi osserva in silenzio.
Sta valutando seriamente la mia richiesta.
O è un pazzo… o gli faccio pena? Non so quale delle due sia peggiore, onestamente.
E dopo interminabili minuti di silenzio in cui mi squadra dalla testa ai piedi, m’indica con un cenno del capo il suo ufficio.
Un colloquio, ha accettato.
“Aspettami qui, torno fra poco.” Avverto Sayid bisbigliando, mentre lo sorpasso per seguire il titolare nella stanza.
L’uomo si siede dietro la sua scrivania, chiedendomi di chiudere la porta. Obbedisco e rimango fermo in piedi, finché non mi offre la sedia in gommapiuma bucherellata che mi ritrovo davanti.
Rimaniamo qualche secondo a fissarci. Il ronzio del neon sopra le nostre teste e il brusio della radio nell’altra stanza ci fanno da sottofondo.
“Fammi cambiare idea.” Mi sfida il direttore, infrangendo il silenzio.
Continuo a guardarlo inespressivo, pensando a cosa dire.
Potrei tranquillamente presentare i miei pregi, elogiarmi e concedermi a tutti quei cliché che si dicono in questi casi, ma so per certo che non funzionerebbe.
Non lo convincerei.
No, qui serve solo la verità nuda e cruda, accompagnata da una sana onestà.
“Va bene…” Inizio, facendo un respiro profondo.
“Mi sono pentito delle mie azioni… insomma, mi ero già pentito mentre le facevo. Stavo pensando alla sopravvivenza mia e di una persona a me cara. Conosce la mia precedente situazione.
Non ho intenzione di ricadere negli stessi errori, non ne ho bisogno. Quello che mi serve è un lavoro, ma qui non si tratta di guadagnare soldi per me. Conosce il rifugio Aaron Peterson, sulla Milton Ave?” Chiedo, cercando di spiegare il tutto come meglio posso.
“Sì. E conosco pure quello che state facendo per tenerlo aperto, ho seguito il caso sui telegiornali.” Mi risponde, cogliendomi alla sprovvista.
Mi metto a sedere dritto, non sapendo cosa ribattere.
“Davvero?” Domando sbalordito.
L’uomo annuisce.
“E ho visto pure i tuoi video, quelli che hai caricato su Twitter. Quindi mi chiedo: perché stai cercando così disperatamente un lavoro, se già stai usando la tua fama per ricevere aiuto?” Rincara atono. Sento una punta di rimprovero, anche se penso di averla solo immaginata.
Mi gratto la nuca, a disagio per la domanda.
In realtà sento questo crowdfunding come una forma di elemosina 3.0, portata avanti sfruttando i miei 15 minuti di gloria. E so perfettamente che non è così, ma non posso sentirmi altrimenti.
“Se non lavorassi, se non facessi anche altro per aiutare come posso, allora non riuscirei a perdonarmelo. Non sappiamo quanto riusciremo a raccogliere, nemmeno entro quando, ma ci servono quei soldi il prima possibile. E poi, uno stipendio, seppur di un lavoro part-time, è più affidabile delle donazioni degli sconosciuti, per quanto in buona fede.” Rispondo, guardandomi le mani.
Mi mordo nuovamente il labbro screpolato, saranno ore che non bevo.
“Per favore, mi dia una seconda possibilità. Se non per me, almeno per togliere altri ragazzi dalla strada.” Lo prego, abbassando la voce.
Non vorrei piegarmi a tanto: implorare una persona, non l’avrei mai fatto se fossi solo io in pericolo. Eppure non posso permettere che altre persone rischino di perdere di nuovo la casa.
Ho bisogno di questo lavoro, ma questo non lo dirò mai esplicitamente ad alta voce.
L’uomo mi osserva a braccia conserte, con la schiena poggiata sulla sedia. I miei occhi si alzano a leggere la targhetta, poggiata in bella mostra sulla sua scrivania: direttore del negozio Matthew Cox.
“Se alla fine della giornata manca anche solo un centesimo, ti riterrò responsabile e non esiterò a denunciarti. È chiaro?” Mi domanda, guardandomi negli occhi.
Quando annuisco, questa volta, non abbasso lo sguardo.
Schiarendosi la voce, il direttore si alza e mi offre la mano, che accetto volentieri.
“Benvenuto a bordo, allora. Puoi incominciare anche domani, ma i tuoi tutori devono firmare. Torna qui domani con loro.” Mi comunica, accompagnandomi alla porta.
“Noah, giusto?” Domanda, per essere sicuro.
Annuisco.
“Non farmi pentire di questa scelta.” Mi raccomanda serio.
Annuisco nuovamente, uscendo dall’ufficio.
Raggiungo Sayid e, insieme, ci avviamo verso il rifugio.
Durante tutto il tragitto continua a chiedermi come sia riuscito a fargli cambiare idea, ma io non rispondo. Lo ammetto, un po’ è per tenerlo sulle spine, un po’ per la sete che sto soffrendo.
C’è caldo, abbiamo camminato tutto il giorno sotto il sole, non abbiamo bevuto, non mangio da stamattina e sono stanco, sia mentalmente sia fisicamente.
Voglio solo tornare a casa e buttarmi sul letto, non chiedo molto.
Ma siccome, a quanto pare, ho fatto qualche torto imperdonabile a qualche divinità, ovviamente troviamo Alex a litigare con i manifestanti.
Dico io, non si possono avere cinque minuti di pace in questa casa?
No, vero?
Nella mia vita passata dovevo essere un assassino, ne sono sicuro, altrimenti non si spiega questa mia sfortuna.
Sospirando, ci avviciniamo al gruppetto di protestanti davanti alla mia persona preferita, che in questo momento vorrei prendere a pugni, perché quante volte ho ripetuto che non si deve avvicinare a loro? Mi sa che parlo con il muro.
E giuro pure che ho le migliori intenzioni di questo mondo, quando decido di intervenire per sedare il disturbo… ma poi sento quella frase.
“Se il Signore non farà nulla per eliminarvi, entreremo noi in azione. Pentitevi, perché la vostra ora sta arrivando. E tu sarai la prima vittima della Sua collera, te lo assicuro.” Sputa velenosamente un membro della chiesa battista di Westboro, lanciando il cartello di lato e avvicinandosi pericolosamente ad Alex.
È la goccia che fa traboccare il vaso.
In un battito di ciglia, mi ritrovo fra quell’uomo e una delle poche ragioni per le quali sono ancora vivo.
Un respiro, e sto spingendo quella bestia con tutta la forza che mi ritrovo.
Il tempo di un pensiero, e sento un dolore pungente sul lato sinistro del volto.
Qualcuno mi tiene, qualcuno urla, ma io non capisco cosa stia succedendo.
Non ragiono più, ho smesso di respirare, il mondo mi gira intorno.
Davanti al viso, mi balena l’espressione preoccupata di un uomo.
Non so chi sia, ma è l’ultima immagine che vedo prima di perdere i sensi.
 

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Capitolo 9
*** terrified ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e bentornati a questo nuovo capitolo. La canzone eponima è terrifieddi Isaac Gracie. Cantautore britannico, ha raggiunto fama europea con il suo singolo The death of you & i, che ricorda molto gli ultimi nirvana. terrified, al contrario, è una ballad malinconica che esprime la paura di non essere all'altezza, di non riuscire a raggiungere il proprio scopo.
Vi auguro una buona lettura e una buona giornata.



 
Capitolo 9

 
Un brusio mi risveglia.
È così lontano, etereo, non riesco a capire di cosa si tratti.
Mi concentro su questo rumore che mi circonda, che sembra provenire da tutti gli angoli del mondo e da nessun posto in particolare.
Come se fosse auto-generato, come se fosse naturale e me lo aspettassi.
Sono urla.
Le riesco a sentire, adesso.
Sono chiaramente urla.
E conosco pure la persona che le sta emettendo.
Qualcuno risponde con altrettanta rabbia.
Perché stanno gridando? Cosa c’è di così importante da causare tanto chiasso?
Finalmente riesco a trovare una direzione, a riemergere dal mio stato di profonda confusione.
Apro gli occhi molto lentamente, girando la testa verso la voce della mia persona preferita.
Nella foschia che mi acceca parzialmente, riesco a distinguere Alex.
È sulle punte, sta indicando minacciosamente qualcuno, ha il viso contrito in una smorfia di collera.
Non mi piace vedere questa sua parte. Voglio che sia felice, non in preda alla rabbia.
L’ira porta al rancore, il rancore all’odio, l’odio alla violenza, e io non voglio che arrivi a quello stadio per nulla al mondo.
In più, l’odio è una perdita di tempo e uno spreco di energie.
È pericoloso: se si lascia crescere, fa marcire ciò che c’è di buono in ognuno di noi.
Sarebbe più conveniente perdonare e andare avanti.
Il perdono fa raggiungere il nirvana.
Certo, non è facile accettare le scuse di qualcuno, men che meno andare oltre e lasciarsi alle spalle l’accaduto… forse per questo c’è tanto odio nel mondo: è molto più facile odiare una persona e renderla un’entità a parte, invece di umanizzarla e perdonarla.
Tuttavia sono dell’idea che il passato non si possa cambiare, tanto vale mettersi il cuore in pace. Invece il presente e il futuro sono ancora da scrivere, meglio lavorare su quelli.
E con l’andare avanti, non intendo mica dimenticare.
No, assolutamente no, altrimenti non s’imparerebbe dagli errori.
Ma il passato non dev’essere nemmeno usato contro qualcuno, sarebbe da ipocriti. Tutti sbagliamo, nella nostra vita, perché dovremmo farlo pesare ad altre persone?
Perdonare, ma non dimenticare.
È quello che cerco di fare ultimamente, con molta difficoltà.
Perdonare, ma non dimenticare.
Continuo a ripeterlo, mentre osservo il mondo diventare un po’ più chiaro.
Il mantra di questo mio delirio.
Come sono arrivato a questa frase?
Un altro urlo di Alex mi dà la risposta.
Riporto lo sguardo in alto, concentrandomi sul cielo sopra di me.
Ricordo, qualche tempo fa, di aver provato una profonda nostalgia per il cielo.
Per quello stesso spicchio di azzurro che adesso mi vedo sbarrato da una figura.
“Si sta svegliando? Riesci a sentirmi?” Mi domanda l’ombra sopra di me.
Annuisco debolmente.
Provo a tirarmi su a sedere, però incontro resistenza: qualcuno mi sta tenendo i piedi in aria.
La persona se ne accorge e mi accompagna le gambe a terra, girandomi intorno per prendermi per le spalle.
Mi tocco la fronte, umida al tatto.
Mi asciugo il sudore con la mano, riportandola poi a terra per mantenere l’equilibrio.
“Dove sono?” Chiedo, con la bocca impastata per la sete.
“Sei nel nostro giardino, ragazzo.” Mi risponde una voce maschile, vicina al mio orecchio. È l’uomo che mi sta sorreggendo per le spalle.
Mi volto per capire chi sia.
Retrocedo di scatto quando mi ritrovo il viso di Paget a pochi centimetri dal mio.
La sua presa è l’unica cosa che m’impedisce di finire nuovamente con la faccia a terra.
“Piano, ragazzo, non fare movimenti inconsulti.” Mi consiglia, rimettendomi dritto.
Lo guardo confuso.
Che stia sognando?
Paget che mi aiuta?
“Che è successo?” Chiedo basito, dando voce ai miei pensieri.
Paget ricambia compassionevole il mio sguardo.
Compassionevole? Ora sono sicuro di star sognando.
“Hai ricevuto un pugno da Mayers, sei svenuto.” Mi spiega, girando lo sguardo verso una donna che ci sta raggiungendo.
Sua moglie, la signora Paget.
La donna si china.
“Ti sei svegliato? Come ti senti?” Mi domanda, guardandomi attentamente gli occhi.
Non ho il tempo di rispondere che sento altri passi avvicinarsi.
“Noah!” Urla Alex, accorgendosi della mia condizione.
La mia persona preferita, accompagnata da Sayid, s’inginocchia accanto a me. Mi prende il viso fra le mani e me lo forza nella sua direzione per osservarmi bene.
L’improvviso cambio di prospettiva mi fa girare la testa.
Chiudo gli occhi per fermare il mondo dal ribaltarsi, inghiottendo a vuoto. Vedendo la mia reazione, Alex mi lascia andare la faccia.
“Scusa.” Si affretta a dire.
Scuoto la testa e riapro gli occhi.
La signora Paget poggia una mano sulla spalla del marito per attirare la sua attenzione.
“Forse è meglio se lo accompagni a casa, non penso riesca a camminare da solo ancora. E non vorrei che rimanesse seduto sotto il sole.” Gli propone.
Al signor Paget basta uno sguardo per darle ragione.
“Va bene. Alziamoci molto lentamente, ok?” Mi domanda, passandomi un braccio sotto le ascelle.
Aspetta che acconsenta, prima di tirarmi su in piedi.
Il terreno non mi è mai sembrato così lontano.
Le mie gambe cedono immediatamente sotto il mio peso, costringendomi ad accasciarmi contro l’uomo.
“Non credo riuscirai ad arrivare a casa, ho ragione?” Domanda più a se stesso che a me.
Così, sostenuto come un fantoccio dall’uomo che vorrebbe privarci della nostra dimora, seguiti dalla non tanto allegra combriccola, risaliamo velocemente il vialetto ed entriamo in casa Paget.
L’uomo mi porta in soggiorno, dove collasso sul divano.
Per un momento, poggiando la mano sul morbido della seduta, sento il mondo crollarmi sul capo.
Mi stendo a fatica, il signor Paget mi aiuta a sollevare le gambe sul bracciolo, così che il sangue possa completare il suo ciclo con più facilità.
“Kristin, prendi il misuratore della pressione. E anche dell’acqua fresca e del ghiaccio, se non ti dispiace.” Chiede alla moglie, frugando nella stanza in cerca di qualcosa.
Lo sento camminare fra i mobili, borbottare qualcosa sotto voce. I suoni mi provengono a ondate, prima cristallini, perfettamente definiti, poi ovattati, come provenienti dal fondo di un pozzo.
Con un bip meccanico, sento una folata di aria fredda invadere la stanza. Mi fa venire i brividi.
Un tintinnio di vetro mi fa riaprire gli occhi, vedo la signora Paget posare sul tavolino un bicchiere e una bottiglia d’acqua, cristallizzata dalla brina.
La figura della donna invade il mio campo visivo, sedendosi accanto alla bottiglia. Sulle sue gambe poggia un macchinario, uno di quelli che si vedono negli studi medici.
La donna mi avvicina il sacchetto del ghiaccio alla parte sinistra del viso, mi porta la mia stessa mano a sorreggerlo e prende l’altro braccio delicatamente, avvicinandolo al macchinario. V’infila una fascia, che chiude all’altezza del gomito, e preme un pulsante sull’apparecchio.
La fascia stringe, si gonfia, preme giusto sopra l’incavo del mio braccio.
Osservo la scena inerme, comprendendo vagamente cosa stia succedendo.
La donna tiene gli occhi fissi sul piccolo monitor, legge attentamente i numeri e i simboli che vi compaiono.
Sgonfiata la fascia, me la toglie con un movimento fluido.
“Ha la pressione sotto i piedi.” Sentenzia con tono pragmatico, porgendo l’apparecchio al marito.
“Per caso hai problemi cardiaci, ragazzo?” Mi domanda l’uomo, posando il macchinario in uno stipo.
Scuoto la testa.
In realtà, sono sempre stato in ottima forma. Eppure, ultimamente, ho provato diversi giramenti di testa.
Non mi è mai successo, sto iniziando a preoccuparmi… forse dovrei prendermi cura di me stesso. Sì, insomma, stressarmi di meno, rimanere idratato e incominciare un qualche sport.
È quello che vorrei rispondere, ma dall’aridità della mia bocca riesco a emettere solo: “Acqua…”
La signora Paget, all’inizio, non riesce a capire cosa stia dicendo, tanto la parola è biascicata, ma quando dà senso ai miei mormorii mi porge il bicchiere.
Il signor Paget mi aiuta ad assumere una posizione più consona, così che il liquido non finisca sul pavimento.
“Abbiamo camminato tutta la mattina sotto il sole, non beve dalle otto…” Spiega Sayid, fermo sotto l’arco del salotto.
Il signor Paget annuisce, mentre riposa il bicchiere sul tavolino.
Ogni sorso di quell’acqua è un’esperienza paradisiaca.
Con un minimo di appagamento, chiudo gli occhi e lascio che il signor Paget mi poggi allo schienale del divano.
La testa mi gira ancora, la vista non aiuta.
“Ti preparo un panino?” Mi domanda la donna, inclinando cordialmente la testa di lato.
Il solo pensiero di qualcosa di commestibile mi causa un’intensa sensazione di nausea. Mi copro la bocca con una mano, scuotendo la testa.
“Dovresti mangiare qualcosa, Noah. In qualche modo devi alzare la pressione.” Mi suggerisce Alex, ancora in piedi accanto a Sayid.
“Mi viene da vomitare.” Ribatto in un mormorio.
La signora Paget mi mette una mano sulla spalla, spingendomi a riaprire gli occhi. Riesco a percepire una comprensione materna, di quelle che si sviluppano con il tempo.
“Penso di avere delle focaccine in cucina. Sono semplici, solo pane e sale. Ne preferiresti una?” Mi chiede, sorridendo.
Indeciso, guardo Alex per avere un consiglio. Mi dà il suo assenso, convincendomi ad accettare l’offerta della donna.
Questa si alza e scompare dal salotto.
”Bene, qualcuno di voi due può andare ad avvertire Josh? Non vorrei che si preoccupasse.” Propone il signor Paget, facendo saettare lo sguardo fra i miei due amici.
Sayid dà una gomitata ad Alex, facendo segno di seguirlo. La mia persona preferita sgrana gli occhi, avvicinandosi al divano.
“Non lo lascio solo, non esiste!” Afferma, incrociando le braccia.
“Alex, non è il momento.” Ribatte il ragazzo, attraversando la stanza per afferrare il braccio della controparte, che si libera immediatamente con uno strattone.
“No, Sayid. Io rimango con Noah.” Rincara con serietà, facendo capire di non avere alcuna intenzione di muoversi dalla sua postazione di guardia.
Il ragazzo libanese sospira sonoramente, alzando gli occhi al cielo.
“Se posso permettermi, in questo momento il tuo amico ha bisogno di riposo. Ti assicuro che non corre nessun pericolo, ma se preferisci rimanere a fargli compagnia, non ti costringerò ad andare.” Commenta Paget, sedendosi sulla poltrona a fianco del divano.
Alex annuisce, pensando a quale scelta seguire.
Attiro la sua attenzione, posando una mano sul suo braccio.
“Alex, calmati, puoi andare, sto meglio. Per quanto mi faccia piacere la tua compagnia, preferisco che tu vada con Sayid per spiegare bene l’accaduto a Winterfield. Noi siamo arrivati dopo, tu conosci tutta la storia.” Suggerisco alla mia persona preferita.
“E poi… vorrei parlare con il signor Paget. Da soli.” Aggiungo, fermando una sua protesta.
Alex mi guarda negli occhi, tentando di capire le mie intenzioni.
Annuisce e raggiunge il nostro amico.
“Torniamo subito. Se ci fosse bisogno di qualsiasi cosa, chiamami.” Mi chiede, prima di uscire dalla casa.
Quando la porta si chiude, sento i muscoli rilassarsi, per poi contrarsi nuovamente percependo il peso di un silenzio imbarazzante calare nel soggiorno come una cortina di fumo.
La signora Paget, senza dire una parola, entra e posa le focaccine sul tavolino, abbandonando subito la stanza.
Il ticchettio di un vecchio orologio a pendolo scandisce i secondi, che sembrano rallentare a ogni oscillazione.
Vedendomi rimanere immobile, Paget prende il piatto e me lo porge, così che prenda qualcosa da mangiare.
Lo ringrazio con un cenno del capo, sperando in cuor mio che sia lui ad avviare una discussione di cui nemmeno conosce l’argomento.
Concentrando lo sguardo sulla focaccina che ho in mano, la addento.
Il signor Paget si schiarisce la voce.
“Quindi, di cosa volevi parlarmi?” Mi chiede, rompendo finalmente il silenzio.
Alzo gli occhi su di lui, masticando sommessamente.
Mi pulisco la bocca, togliendo delle briciole con il pollice, e ingoio il boccone.
Non è educato parlare a bocca piena.
Da dove incominciare?
Schiudo le labbra per dire qualcosa, ma nello stesso momento in cui prendo fiato, l’inizio del mio discorso mi sembra così sbagliato da farmi desistere.
Guardo spaesato l’uomo davanti a me, cercando qualcosa di più consono. Ma nulla, non trovo assolutamente nulla.
Sconfitto, poso la focaccina su un tovagliolo, il sacchetto di ghiaccio, che ancora tenevo in mano, accanto la bottiglia d’acqua e sposto lo sguardo sulle mani.
Onestamente, non so che dire. Ho così tante domande da voler porre, che non so quale sia la più adatta. I pensieri si accavallano, creando solo un’immensa confusione.
Adesso non so più.
Non ricordo cosa volessi domandare, non ricordo di cosa volessi parlare, so soltanto che provo un’intensa curiosità.
Perché mi trovo qui, nella casa dell’uomo che vuole rovinare la vita dei miei amici? Perché sono seduto sul suo divano, a mangiare il cibo che ha cucinato sua moglie?
“Perché mi ha aiutato?” Chiedo, non accorgendomi di aver pensato ad alta voce.
Paget sorride, scuotendo la testa.
“Perché non avrei dovuto?” Ribatte, alzando le spalle.
Mi mordo l’interno della guancia, pensando a una qualche risposta sincera che non sappia d’insulto.
“Lei ci odia… odia le persone come me, vuole far chiudere il rifugio.” Dico alla fine, non trovando di meglio.
L’uomo sospira, sistemandosi meglio sulla sedia.
“Odiare… è una parola grossa, ragazzo.”
“Noah.” Lo interrompo.
Mi dà fastidio quando mi chiamano ragazzo.
Bennet mi chiamava ragazzo.
Paget rimane interdetto, ma si riprende subito.
“Noah. Le persone… dicono cose di cui si pentono, quando sono arrabbiate. E quando la nostra bambina è tornata a casa sconvolta dopo lo scontro con la tua amica, ci siamo preoccupati, perché non è la prima volta che succede. Devi capire che stiamo cercando solo di proteggere i nostri figli, è successo di peggio in precedenza, penso che tu ne sia al corrente.” Mi spiega, scandendo bene le parole.
Alzo un sopracciglio.
“Lei non sa cos’è successo, vero? Non sa perché sua figlia ha litigato con Audrie?” Deduco, scrutandogli il viso alla ricerca di una reazione che mi dimostri il contrario.
È perplesso.
No, non sa nulla.
“Sua figlia ha insultato due mie amiche, fra cui la ragazza con cui ha litigato, perché hanno una relazione. Presumo l’abbia imparato da lei, vedendo come si è comportato con Winterfield il giorno dopo.” Aggiungo, ricordando le urla e gli insulti di quel pomeriggio.
Paget sospira di nuovo, cercando di mantenere la calma.
“Come ho già spiegato, le persone dicono cose di cui si pentono, quando sono arrabbiate. Lo so, non è un buon motivo per comportarsi a quel modo e ti chiedo profondamente scusa.” Replica.
È dispiaciuto, le sue scuse sembrano sincere.
Stringo le labbra, abbassando nuovamente lo sguardo.
“Perché mi ha aiutato, quindi?” Rincaro, non capendo.
Paget si siede sul bordo della poltrona, poggiando i gomiti sulle proprie ginocchia.
“Quando ti ho visto collassare a terra, non ho visto una minaccia per i nostri figli. Ho visto semplicemente un ragazzo bisognoso di aiuto. Non potevo stare con le mani in mano, quale persona sana di mente non sarebbe intervenuta?” Si giustifica, lasciandomi interdetto.
Imito la sua posizione.
“Signor Paget, come me anche tutte le persone del rifugio sono ragazzi bisognosi di aiuto. Alcuni sono poco più che bambini. Se il rifugio chiudesse, non avrebbero un posto dove andare, tornerebbero per strada. Si trovano in quella casa perché le loro famiglie li hanno rifiutati. Per favore, capisco perfettamente che vuole proteggere i suoi figli, ma questo non è il modo giusto per farlo. Ci dev’essere un modo per accontentare ambedue le parti. C’è sempre un altro modo.” Rispondo, cercando di essere il più chiaro possibile.
Questa potrebbe essere la soluzione ai nostri problemi, me la devo giocare bene.
Paget mi osserva. Noto una strana luce nei suoi occhi, ma non promette nessun pericolo.
Che ci stia pensando?
“La prego, ritiri la domanda per la revoca. Possiamo trovare una soluzione che venga incontro a entrambi. Per favore…” Lo supplico, sperando in cuor mio che ceda.
Ancora una volta, osserva senza rispondere. Tuttavia, anche se non parla, i suoi occhi urlano: sono riuscito a farlo dubitare delle sue scelte.
Sta per riprendere la parola quando suona il campanello.
La signora Paget va ad aprire, trovando un Winterfield particolarmente preoccupato.
“Noah, stai bene?” Mi domanda senza nemmeno avermi visto.
Entra in salotto come una saetta, accompagnato dai miei due amici. A una mia risposta positiva, va dal signor Paget.
“Clayton, grazie mille per averlo aiutato. Sono in debito.” Lo ringrazia, stringendogli la mano vigorosamente.
“Ma ti pare, Josh? È stato un piacere essere di aiuto. Abbiamo anche avuto il tempo per un bel discorso, noi due.” Risponde, guardandomi da sopra la spalla di Winterfield.
Quest’ultimo segue il suo sguardo.
Lo saluto con la mano.
“Se volete sporre denuncia a Mayers, l’uomo che l’ha colpito, sarò più che felice di fare da testimone.” Aggiunge, attirando nuovamente l’attenzione del mio tutore.
L’uomo si gratta la nuca, pensando che fare.
“Credo che debba decidere Noah, in questo caso. I ragazzi sanno che non si devono avvicinare a quelli della chiesa di Westboro, ma, da quanto ho capito, Noah ha agito in buona fede per difendere un’altra persona. Quindi ci vuoi pensare, Noah?” Mi domanda, addolcendo il tono della voce per non spaventarmi.
Immagino si sia preoccupato sul serio per me, questa volta.
Tentenno un attimo.
“Non lo so. Da una parte, ne ho abbastanza di polizia, cause e quant’altro. Dall’altra, se non lo fermo io potrebbe far del male ad altre persone.” Ragiono, vagliando le due opzioni.
“Secondo me ci dovresti dormire sopra.” Propone Sayid, intromettendosi nel discorso.
Paget sorride, poggiandomi una mano sulla spalla.
“Il tuo amico ha ragione: la notte porta consiglio.” Afferma.
Mi mordo nuovamente l’interno della guancia, nervoso.
“E così sia…” Concordo alla fine, alzandomi dal divano. Sayid e Alex mi vengono incontro per controllare che non cada.
“Ragazzi, andate a casa, io devo scambiare due parole con i coniugi Paget. Vi raggiungo quando finisco, va bene?” Ci istruisce Winterfield, accompagnandoci alla porta.
“E non interagite con alcun manifestante, avete capito? Dritti a casa, vorrei evitare possibili aggressioni.” Aggiunge, guardandoci negli occhi a uno a uno.
Annuiamo in sincrono, uscendo sul vialetto.
Come da comando, andiamo dritti a casa, senza dar conto a nessuno. Finalmente in salvo, tiriamo un sospiro di sollievo.
“Andiamo in camera, ragazzi” CI propone Alex.
Siccome non abbiamo un momento di pace, come se qualche divinità avesse percepito il nostro desiderio di riposo, ecco arrivare Emma, tutta preoccupata.
“Noah, stai bene? Ci hai fatto prendere un accidente.” Afferma, posandomi una mano sulla guancia.
“Scusa, non è che svenire fosse proprio nei miei piani…” Ribatto sarcastico.
Emma stringe le labbra, guardandomi addolorata.
Non ci posso fare nulla, è più forte di me: io non parlo lingue umane, parlo sarcasmo.
“Lo so. Vai a riposarti, ti chiamo io quando è pronto a tavola.” Risponde, dandomi un altro buffetto sulla guancia.
Questa donna sta iniziando a starmi simpatica, gli dei sanno che non permetto a nessuno di comportarsi così, a meno che non mi fidi.
Ci avviamo verso le scale.
“Dove stai andando, Alex? Hai dimenticato che è il tuo turno in cucina?” Domanda la donna, prendendo Alex per un braccio.
“Ma… ma Emma!” Si lamenta, indicandomi.
“Niente ma. Sayid può tranquillamente accompagnarlo da solo in camera. Tu vieni a lavorare.” Gli ordina, non lasciando spazio ad altre proteste.
Con uno sguardo pietoso, la mia persona preferita si avvia in cucina.
“Cenerella, Cenerella…” Canta Sayid con voce stridula, meritandosi un dito medio da Alex.
Sono sicuro di aver sentito qualche borbottio provenire dal suo tragitto, non so se Emma non li abbia sentiti o semplicemente ignorati.
In ogni caso, ci lascia liberi di raggiungere il piano superiore.
Stendersi sul materasso non è mai stato così appagante.
Yallah, fammi spazio, ti devo fare vedere una cosa.” Mi dice Sayid, dandomi dei colpetti sul fianco.
Obbedisco, strisciando in quel posto paradisiaco fra il materasso e il muro fresco. Il ragazzo si siede accanto a me, tirando fuori dalla tasca il suo cellulare. Va su Twitter e fa partire un video.
Incuriosito, mi metto a sedere.
Nel video, ripreso da sopra la spalla di un protestante, a giudicare dall’angolatura, si vede Alex mentre discute con quell’uomo, Mayers.
“Uno dei protestanti era in diretta su Instagram quando è successo il tutto. Il poveretto non è riuscito a cancellare il video, che qualcuno l’ha scaricato e ricaricato su Twitter. Mi sa che fai tendenza.” Mi spiega.
Non riesco a distogliere lo sguardo dall’apparecchio.
Si sente la minaccia dell’uomo, si vede che butta a terra il cartellone e che si avvicina pericolosamente ad Alex. Ed ecco che entro in scena io, con l’ira negli occhi, e spingo Mayers, facendolo barcollare all’indietro. Infine il pugno.
Il rumore secco, che si sente quando le sue nocche collidono con il mio viso, è surreale.
Alex e Sayid mi tengono per le spalle, per le braccia, per il petto. Il signor Paget si mette fra me e quell’uomo, allontanandolo.
Mi guardo cadere a terra, privo di sensi, le persone che prima si allontanano sorprese, poi si ammassano sopra di me impaurite.
Il video finisce.
“Quello… non sono io… non posso essere io.” Balbetto confuso.
Nel vedere quelle immagini, provo un senso di dissociazione.
Quello non sono io, non ho mai visto una luce così sinistra nei miei occhi. Era lo sguardo di una bestia, non era il mio.
Lo sguardo di qualcuno che voleva fare del male a un’altra persona.
Cosa mi hanno fatto diventare? Non sono mai stato così…
“Dovremmo scrivere un tweet sull’account che abbiamo creato ieri, quello per pubblicizzare il crowdfunding. Sì, insomma, per spiegare l’accaduto e far sapere che stai bene.” Mi propone, entrando sull’account che abbiamo in comune con Alex.
Annuisco, pensando ancora a quanto accaduto.
“Che scrivo?” Mi domanda, riscuotendomi dal mio mondo.
Alzo le spalle.
“Non so… ‘sto bene, grazie per la preoccupazione, ho solo avuto un calo di pressione per il caldo e lo stress, ma ora sto riposando’. Penso vada bene.” Rispondo distrattamente.
Sayid scrive il tutto con vari versi di approvazione, pubblica e posa il cellulare.
Mi osserva attentamente.
“Sicuro di sentirti bene?” Mi domanda impensierito.
Per la terza volta, oggi, mi mordo l’interno delle guance, mentre scuoto la testa.
“Non ce la faccio, Sayid. È troppo per me.” Confesso, il panico tangibile nella mia voce.
“Insomma, qualsiasi cosa faccia viene ripresa e caricata per essere vista da non so nemmeno quanta gente. Non voglio! Vorrei avere un po’ di tranquillità, per una volta. Me lo merito, no? Un po’ di tranquillità. Sono troppo esposto, non me lo posso permettere. E la pressione è troppa… insomma, non sono adatto a essere il volto di una causa, non ce la faccio più, Sayid! Non riesco a reggere il peso di qualcosa di così importante da solo, sulle mie spalle… non posso… non ce la faccio. Te l’ho detto che non è la prima volta che mi sento mancare? Non sono mai svenuto in vita mia e questa è la terza volta in un mese che collasso. Il mio corpo si sta rivoltando. Cioè, io sono introverso, non è nella mia natura ricevere tanta attenzione!” Mi sfogo, buttandomi di nuovo a sedere.
“Non ce la faccio più. Vorrei che questa storia finisse.” Aggiungo, massaggiandomi le tempie.
Sayid sospira sonoramente, alzando gli occhi il più possibile.
“Wow, per essere introverso sei una prima donna con i fiocchi. Sì, va bene, sei il ’volto’ della causa… ma cosa ti fa pensare che tu sia solo, in questa lotta?” Ribatte, incrociando le braccia.
“Ti sei guardato intorno, ultimamente? Non devi affrontare tutto da solo, ci siamo io, Alex, Marlene, Audrie, Heather e anche i Winterfield e tutte le persone che ci supportano. Se hai bisogno di aiuto, chiedilo! Smettila di fare la Giovanna d’Arco di turno e dividi il lavoro con noi. Siamo una squadra e combatteremo insieme fino alla fine, ricordatelo quando ti vengono questi istinti shakespeariani.” Mi rimprovera con veemenza.
La passione di questo ragazzo è ammirabile, devo dire. Le sue parole, per quanto dure, mi rasserenano.
“Tu mi tieni ancorato, Sayid. Cosa farei senza di te?” Gli domando, guardandolo negli occhi.
Il ragazzo ghigna compiaciuto.
“Staresti perennemente in un angolino a piangere in posizione fetale, probabilmente. O uccideresti qualcuno, per poi iniziare un monologo tragico degno di quel melodrammatico che sei.” Risponde, prendendomi in giro.
Ridacchio, pensando a quanto potrebbe essere vero.
Rimaniamo in silenzio a guardarci per qualche secondo, qualche minuto, forse per giorni interi. Senza dire una parola, ma non a disagio, semplicemente ad ammirarci l’un l’altro.
Lo vedo concentrarsi sui miei lineamenti, sulle mie labbra in particolare, e una verità mi si pone davanti.
“Sayid… con tutto quello che sta succedendo, non sono pronto per una relazione. Scusa…” Ammetto, sperando non si arrabbi.
Con mia sorpresa, sorride calmo.
“Lo so, lo immaginavo. Ma non mi preoccupo: quando sarai pronto, io ci sarò. Forse. A meno che non trovi qualcuno più attraente.” Ribatte scherzoso.
“Impossibile, lo sappiamo tutti e due.” Replico sarcastico.
Arriccia il naso.
“Non ne sarei così sicuro. Quindi, niente imbarazzi, va bene? Per ora, mi va bene essere amici.” Mi suggerisce, continuando a sorridere.
“Grazie mille, Sayid. Davvero.” Dico dal cuore, la gratitudine visibile nel mio sorriso.
Sayid ricambia, per poi sospirare con una nota di malinconia.
“Ma se dovesse capitare, metterci insieme… andrebbe bene?” Mi chiede speranzoso.
Rifletto un attimo, pensando alla possibilità.
Alla fine, annuisco.
Sayid sorride, rassicurato dalla mia risposta.
“Allora, se dovesse capitare.” Afferma, sicuro di sé.
“Se dovesse capitare.” Ripeto, sbadigliando.
Lo sguardo del ragazzo si addolcisce.
“Riposati, ti sveglio io quando si deve mangiare.” Mi propone, mettendo una mano nello spazio di materasso fra il mio fianco e il braccio.
“Se provi a baciarmi, ti denuncio.” Lo avverto, serio nel tono.
Alza un sopracciglio.
“Tranquillo, non corri pericolo. Trovo che il consenso sia più attraente.” Ribatte, ghignando.
Sentita quest’ultima battuta, chiudo gli occhi rasserenato, con il cuore leggero della sensazione di essere, anche se temporaneamente, al sicuro.
 

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Capitolo 10
*** Devil ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e ben tornati~ Il brano di oggi è Devil, uno dei singoli dell'ultimo album degli Shinedown: Attention Attention. Gli Shinedown sono un gruppo alternative rock/metal statunitense, classe 2001. Attention Attention è un concept album strutturato come la storia dell'evoluzione di una persona che dal suo stato originario di negatività e depressione riesce, andando avanti con i brani, a liberarsi di queste emozioni negative e a diventare un nuovo individio; lo si può considerare un album di crescita personale, rimanendo in tema. Devil è il secondo brano dell'album.
Vi auguro una buona lettura!


 
Capitolo 10


“Noah?” Mi domanda una voce gentile dalla profondità dei miei ricordi.
Alzo la testa lentamente, liberandomi dalle braccia in cui l’avevo fatta sprofondare.
Alex è in ginocchio difronte a me, cerca di approcciarsi cautamente.
Dietro la sua figura scorgo degli alberi. Sciolgo la posizione accovacciata con cui mi sono risvegliato, guardandomi intorno spaesato. Sono seduto sull’erba, ai piedi di una costruzione in pietra. Accanto a noi si trova un ponte di legno, che corre sopra un laghetto artificiale.
Liberty Park.
Siamo a Liberty Park.
Perché mi trovo qui? Come ci sono finito?
L’ultima cosa che ricordo è che stavo tornando da lavoro, per qualche motivo mi aveva accompagnato il signor Cox… poi, più nulla.
Sarà stato ore fa, il sole dev’essere già calato da un bel po’.
“Noah, andiamo a casa?” Mi chiede nuovamente Alex, addolcendo il tono.
Apro la bocca per parlare, ma non riesco a pensare.
Ho la lingua impastata, gli occhi stanchi, il naso irritato, un atroce mal di testa.
Mi tocco le guance: sono bagnate.
Ho pianto.
Porto gli occhi sulle mani, per avere una conferma della mia supposizione. Girandole, trovo le nocche rosse ed escoriate.
Le osservo, incapace di ricordare.
Alex mi prende le mani delicatamente e mi tira in piedi con estrema gentilezza.
“Andiamo, si è fatto tardi.” Mi dice, guidandomi verso l’uscita.
La luce proveniente dalle finestre illumina la strada, allungando le ombre per miglia e miglia ancora.
Contro il cielo notturno, la sagoma del rifugio mi sembra meno accogliente del solito.
Non mi sento al sicuro.
Anche meno delle altre volte. Non per i manifestanti, per le belve di Westboro o per una probabile punizione, perché qualsiasi cosa sia successa, le mie nocche mi dicono che ci saranno conseguenze.
No, questa volta è un qualcosa di esterno a tutta la faccenda. Questa volta è qualcosa di più complicato.
Tenendo ancora la mano di Alex, entriamo in casa.
Appena chiudiamo la porta, sento il peso di una trentina di occhi calare su di me. Le teste si girano in sincrono, il brusio si ammutolisce con uno schiocco.
Nessuno osa parlarmi. Tutti mi osservano.
La tensione è palpabile.
Mi mordo l’interno della guancia, trovandola già scavata e dolorante.
Con uno scatto, lascio andare la mano della mia persona preferita e incrocio le braccia sullo stomaco, come se qualcuno potesse trafiggermelo da un momento all’altro. Sento già la lama affilata dell’ansia affondare, perforarmi gli intestini e farsi strada nella colonna vertebrale, trapassarmi da lato a lato.
Completamente a disagio, raggiungo rapidamente le scale per scappare nel rifugio di camera mia.
Vorrei rimanere completamente da solo, parlare con il mio riflesso, interrogarlo sul pomeriggio. Lui saprà cos’è successo, lui era lì.
E, perché no, anche con Dio. Lui dovrebbe vedere tutto, giusto? Mi avrà seguito anche a Liberty Park, avrà assistito alle mie azioni, è testimone di ciò che ho fatto. Potrei chiedere a lui.
Il momento di fede finisce com’è iniziato.
Anche volendo, non mi risponderebbe. Non l’ha mai fatto quando lo pregavo perché la polizia intervenisse, che ci portassero via. Quante notti ho passato insonni, con gli occhi verso il soffitto, a implorargli aiuto?
A nessuno interessa dei randagi, men che meno alle divinità. A chi avrebbero creduto: a un ragazzo senza passato o a un caposaldo della comunità?
Devo ricordare da solo, mi devo sforzare.
Fortunatamente, non sono solo.
Dopo due colpi, la porta si apre. Il viso preoccupato di Marlene fa capolino dietro il legno, controlla se sia possibile entrare.
La invito con un movimento della mano.
Il risultato somiglia a quella gag dei clown nella macchinetta: me ne aspettavo uno, ne spuntano una mezza dozzina.
I ragazzi si sparpagliano per la stanza, sedendosi sui letti e sul pavimento, tutti con religioso silenzio.
Sistematisi, mi osservano e io li osservo di rimando.
Sono preoccupati per me, ma non sanno che dire. Mi sembra che il silenzio imbarazzante regni padrone nella mia vita, finché non scoppia il caos. Non c’è una via di mezzo: o l’assenza completa di suono o il rumore della guerra.
Sayid si schiarisce la gola, attirando la mia attenzione.
“Quindi… che è successo?” Mi domanda, dando voce ai pensieri degli altri ragazzi.
Bella domanda, se lo stanno chiedendo tutti in sala.
Lo guardo attentamente, cercando di ricordare.
E più mi sforzo, più i miei occhi si aprono, fino a farmi esplodere.
“Non lo so! Non lo so. È quello che vorrei capire!” Urlo, facendoli sussultare.
Getto la faccia fra le mani, mentre lascio che cali nuovamente il silenzio.
Sayid mi fissa esterrefatto, non sa cosa dire.
“Sì, però calmati, eh!” Ribatte alla fine, portando una mano avanti, da grandissima diva che è.
Alzo gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
“Magari… se ripercorressi la giornata, ricorderesti qualcosa in più.” Propone Heather, stringendosi nelle spalle.
Non è un’idea malvagia, a dirla tutta.
Annuisco lentamente, ormai troppo stanco per fare altro.
“Va bene, fatemi pensare…”
Se fosse una sceneggiatura, la didascalia leggerebbe: INT. RIFUGIO AARON PETERSON – MATTINA.
Dopo la colazione salgo le scale per andare a prendere il cellulare, prima di avviarmi per il lavoro. La mia corsa è presto frenata dal suono di pianti e di sussurri, provenienti da una stanza alla mia sinistra.
È la stanza di Marlene.
Mi fermo davanti alla porta, girando la testa a fissarla. Ed eccola che si apre, lasciando uscire Audrie. La ragazza pare non accorgersi di me, cammina svelta, lascia la porta aperta e mi sorpassa. Ha un’espressione preoccupante, insieme grave e infelice.
La proprietaria della stanza raggiunge la porta. Riesco a intravedere per un attimo il suo viso, prima che serri il legno: sta piangendo sommessamente, guardando in basso, ferita.
È successo qualcosa.
Vorrei accertarmi che stia bene, ma qualcosa mi dice che, in questo momento, preferisca rimanere da sola. Quindi mi volto e raggiungo la stanza dell’altra ragazza, bussando tre volte.
Dall’altra parte non risponde nessuno. Aspetto qualche minuto, chiedendo se vada tutto bene, cercando di rassicurare la ragazza, offrendole una spalla su cui piangere o un orecchio gentile.
Ma niente, nessuna risposta.
Forse anche lei ha bisogno di rimanere da sola. Avranno litigato, devono solo calmarsi.
Sì, sarà stato sicuramente questo, quando sarò tornato si sarà sistemato tutto.
Decido di recuperare il mio cellulare e andare a lavoro, Cox non ama i ritardatari e io sto già cercando di fargli cambiare idea su di me. Già, arrivare in ritardo non mi aiuterebbe proprio.
Nonostante i miei buoni propositi di rimanere concentrato, non fare soste e raggiungere il 7-Eleven in tempo… non riesco a resistere a un cucciolo corgi incontrato per strada.
Sono solo un uomo, va bene? Non ho il cuore di pietra.
Fortunatamente, sono abituato a correre. Di solito sono inseguito, ma son dettagli.
Così riesco ad attraversare l’uscio quando le lancette dell’orologio appeso dietro il bancone segnano le nove. La puntualità non è mai stata il mio forte, per questo mi congratulo da solo, dandomi delle pacche sulle spalle e stringendomi la mano.
Cox mi saluta con un cenno del capo, contento di vedermi già a lavoro, e m’impartisce gli incarichi del giorno.
“Bada che per le sei dovrai sostituire Travis. Ha una visita medica, deve andare via prima.” M’informa, porgendomi l’etichettatrice e uno scatolone di sottaceti.
Annuisco, facendo il giocoliere con gli oggetti ricevuti, sperando di non ricreare la scena dell’ascensore di Shining con la salamoia.
Dopo aver etichettato ogni singolo barattolo, averli messi sullo scaffale a uno a uno, averli tolti dallo scaffale e rimessi su quello giusto in tre perfette file, mi ritrovo con un mocio in mano a pulire la corsia tre.
Sì, avete capito bene: abbiamo la bellezza di tre corsie in questo mini-market. Non siamo mica quella topaia ad angolo su State st, che credete?
La pausa pranzo arriva presto, il pomeriggio scorre lento.
“Noah, io sto andando. Mi dai il cambio alla cassa?” Mi chiede Travis, riscuotendomi dal fresco piacevole della cella frigorifera, che sto riempiendo di cartoni di latte.
Lo saluto con la mano e chiudo lo sportello, riportando la scatola di cartone nel retro. Prendo posto dietro il bancone, tamburellando sulla plastica in attesa di qualche cliente.
Ogni tanto Cox esce dal suo studio, controlla che vada tutto bene, fa un giro delle corsie per vedere se serva qualcosa e torna nel suo studio, lanciandomi un’ultima occhiata per accertarsi che stia lavorando.
Per un’ora non ho niente di meglio da fare che giocare con una matita e leggere le riviste in mostra sugli scaffali. Vorrei evitare di usare il cellulare, la mia psiche chiede una pausa dalla realtà del rifugio. Almeno quando sono a lavoro, vorrei stare in pace.
Di tanto in tanto arriva qualche cliente, compra uno o due snack ed esce senza salutare. Noi americani abbiamo un problema, l’acquisto più salutare di oggi è stato una confezione di carne essiccata… il che è tutto dire.
Mentre leggo un articolo dell’ultimo numero di Rolling Stone, la quarta rivista a cui mi dedico, un cliente poggia sul bancone un cartone di latte.
Lo passo sotto lo scanner e tendo la mano per prendere i soldi, il tutto senza staccare gli occhi dalla cassa, su cui sto battendo la combinazione per aprire la cassetta.
Prendo il resto e glielo porgo.
“Ecco a lei, le auguro una buona giorna…” Le parole mi muoiono in gola quando alzo lo sguardo.
Davanti a me, come fosse un’apparizione, trovo un volto che non avrei mai pensato d’incontrare nuovamente.
Guardo quei lineamenti così familiari, che ritrovo ogni mattina nello specchio.
Il naso, le sopracciglia, la curva della mascella.
Mio padre.
“Ciao, Noah.” Mi saluta con un sorriso nervoso.
Non riesco a rispondere, sono pietrificato.
Cosa ci fa qui?
L’aria si fa improvvisamente pesante, il cuore mi martella nel petto.
Fa silenzio, non parlare, lascia il cuore rivelatore a Edgar Allan Poe.
Perché è qui?
Mio padre inizia a parlarmi, ma io lo sento a tratti.
“So che sono l’ultima persona che vorresti vedere… ma, per favore, possiamo parlare?” M’implora, sfoggiando un sorriso nervoso.
Trattengo il fiato.
O forse è il respiro che non vuole uscire.
Se sto immobile, m’ignorerà come fanno gli animali?
Nel non vedermi reagire, i suoi occhi si fanno disperati.
“Ti prego… mi dispiace. Giuro, mi dispiace.” Riprende, l’urgenza chiara nei suoi modi.
“Erano anni che volevo cercarti… io…”
Non lo voglio sentire.
Non voglio essere qui.
Un colpo di tosse lo interrompe, facendolo voltare verso l’ufficio di Cox.
“Va tutto bene? Posso aiutarla?” Chiede l’uomo, frapponendosi con nonchalance fra me e mio padre.
Quest’ultimo drizza la schiena, guardando il direttore negli occhi.
“E tutto a posto, Noah è mio figlio.” Lo informa, con il tono neutro di chi non è felice dell’intrusione.
Il direttore osserva prima lui, poi me, soffermandosi ad analizzare la mia reazione.
“Capisco… ma non penso che il ragazzo sia contento di vederla qui. Potrei chiederle gentilmente di uscire dal negozio, se ha finito i suoi acquisti?” Gli chiede, porgendogli il cartone di latte.
L’uomo sta per ribattere, però il direttore non gliene dà il tempo.
“Questo è un luogo di lavoro, sono sicuro potrete riprendere i vostri discorsi privati da qualche altra parte, a tempo debito e se il ragazzo vorrà. Per ora, le chiedo di prendere il suo resto e andare.” Ribatte Cox, mantenendo uno sguardo severo.
L’uomo chiude la bocca, non risponde. Mi lancia un’altra occhiata, che non riesco a ricambiare, saluta con un cenno de capo ed esce dal negozio.
Lo osservo andare via, attraversare la strada e guardare nella nostra direzione.
Nonostante non sia fisicamente qui, non mi rilasso. I miei pugni sono ancora stretti, i muscoli più tesi di prima, la mia mente avvolta da una foschia di domande.
Cox mi mette una mano sulla spalla per di riportarmi sulla terra.
“Noah, potresti farmi un favore personale? Alla fine del turno, potresti rimanere, così ti accompagno personalmente a casa?” Mi domanda, pregandomi con gli occhi.
Abbasso lo sguardo sulla sua mano, che ritrae lentamente.
“Non mi perdonerei mai se ti succedesse qualcosa. So che riusciresti a difenderti, ma sarei più tranquillo sapendoti a casa sano e salvo.” Aggiunge, ritornando nel suo ufficio.
Annuisco, rendendomi conto delle buone intenzioni del direttore.
La capacità di perdono di quest’uomo è incredibile. Fino alla settimana scorsa mi vedeva solo come un ladro che aveva fatto arrestare e mandare in riformatorio, ora si preoccupa per me.
Mi rincuora sapere che esistono persone del genere.
Chiusa la serranda del negozio, entriamo in macchina e mi accompagna al rifugio. Il viaggio di ritorno passa in silenzio, come quando Winterfield mi è venuto a prendere in riformatorio.
La prima volta che qualcuno mi ha portato al rifugio in macchina.
Ironico come le situazioni si evolvano.
Non ho nemmeno bisogno di indicare la strada in cui svoltare, la fila di manifestanti segna la via. Ormai sono diventati parte del paesaggio, come i nani da giardino nella proprietà del vicino.
Anche se, stavolta, un’aggiunta rompe il ritmo cui mi sono abituato.
Mio padre, vedendo la macchina avvicinarsi, si alza dal marciapiede dove si era seduto. Nello scorgere anche Cox, le sue speranze si spezzano.
Come in preda a un sortilegio, esco dalla macchina prima ancora che si fermi completamente e…
“…E qui smetto di ricordare.” Concludo il mio racconto, più confuso di prima.
I ragazzi si scambiano degli sguardi eloquenti.
Loro sanno cos’è successo dopo.
“Per favore, ditemi cos’ho fatto.” Li imploro, desideroso di sapere. Insomma, è la mia vita, dovrei essere a conoscenza di ciò che ho fatto!
“Noi eravamo in casa, quando è iniziato il tutto.” Spiega Alex, cercando le parole adatte.
“Abbiamo sentito delle grida e siamo corsi a vedere cosa stesse succedendo. Pensavamo avessi avuto un altro scontro con quelli della Westboro, per quanto eri arrabbiato, stavolta Josh era pronto a intervenire. Ti abbiamo trovato in giardino a urlare contro quell’uomo, tuo padre. Non riusciva a rispondere, nessuno riusciva a dire una parola, ma avevi attirato l’attenzione di tutti. Gli dicevi che non lo volevi più vedere, non volevi sentire cos’avesse da dire, che ti doveva lasciare in pace.” Continua, sospirando.
Si gratta la nuca, a disagio.
Ho fatto un altro dramma, quindi. Non mi stupirebbe se qualcuno l’avesse filmato e caricato su internet. Già immagino i titoli da clickbait: ‘attivista omosessuale si scaglia contro povera vittima’, o qualcosa del genere.
A volte ho lo strano istinto di abbandonare tutto e diventare un monaco tibetano.
“Non so, penso ti sia accorto di essere nuovamente al centro dell’attenzione… di punto in bianco, ti sei bloccato, ti sei girato e sei scappato via. Tuo padre ti è corso dietro, ma non sappiamo cosa sia successo da quel momento in poi. È stato tre ore fa.” Conclude, non sapendo più che dire.
So che, in questo momento, mi vorrebbe urlare contro per aver causato tanta preoccupazione, ma non riesce a trovare la forza di farlo, a mio parere.
“Abbiamo passato tre ore a cercarti. Alla fine Alex ha avuto l’idea di andare a Liberty Park. Pensava ti avrebbe trovato lì… e così è stato, fortunatamente.” Aggiunge Sayid, stringendo la spalla della mia persona preferita.
Abbasso lo sguardo sulle mie nocche, rosse ed escoriate. Nessuno sa cosa sia successo da quel momento in poi.
Ho paura di ritrovare mio padre con qualche livido, ormai non mi fido più di me.
Mi alzo dal letto, vado a guardare fuori dalla finestra. Nel giardino di fronte non c’è più nessuno, sono andati tutti alle proprie case per riposarsi, in vista di un’altra lunga giornata.
Non hanno delle vite, quelli della Westboro?
“Onestamente, ragazzi… non so che fare. Sono stanco, vorrei solo che tutta questa situazione finisse, prima d’impazzire del tutto.” Mi volto, poggiandomi con la schiena sul vetro.
“Che faccio? Io non voglio parlare con mio padre, non ci riesco! Ogni volta che lo guardo, rivedo lo stesso disprezzo con cui mi ha buttato fuori di casa. Però…” Lascio la frase sospesa, non riuscendo ad articolare ciò che provo.
Scuoto la testa, mordendomi nuovamente l’interno della guancia.
“Datemi un consiglio, vi prego. Non so che fare.” Ammetto, schiarendomi la gola e guardando un punto fisso.
“Sai, non ti ho mai detto la mia storia.” Interviene Sayid, attirando l’attenzione della stanza.
“Cosa c’entra?” Chiedo stanco, non cogliendo il nesso.
Il ragazzo alza gli occhi al cielo.
“Volevi un consiglio? Te lo sto dando.”
“Ok, ma perché devi partire dalla creazione dell’universo?” Commento impaziente.
“Tu zitto e ascoltami.” Ribatte stizzito, facendomi segno di tacere.
Alzo le mani, per fargli capire di avere il via libera. Si passa le dita fra i capelli, aggiustando un ciuffo che gli era caduto sulla fronte.
“Grazie. Allora: i miei genitori sono libanesi, nati e cresciuti a Beirut. Subito dopo essersi sposati, hanno deciso di trasferirsi in America, dato che i siriani erano ancora presenti in città.
I miei genitori sono cristiani convinti e hanno vissuto in pieno la guerra civile fra cristiani e musulmani. Questo è avvenuto prima che nascessi, ma devi tenerlo in considerazione, perché ha formato la loro mentalità.
Hanno scelto Salt Lake City, una città relativamente tranquilla, e hanno messo radici. Però non si sono mai scordati del loro passato, hanno cresciuto sia me che mia sorella secondo la cultura libanese, tanto che entrambi siamo bilingue dalla nascita, parliamo inglese e arabo… o meglio, il dialetto parlato in Libano. Perciò sono stato sempre a conoscenza della mia cultura d’origine, ma qualche anno fa ho deciso di avvicinarmici ancora di più: ne ho studiato la storia, ho visto film, ascoltato musica e sono stato attratto da quella religione che tanto odiano i miei genitori. Intanto avevo anche capito di essere omosessuale, quindi… sì, cioè, quello è d’aggiungere all’equazione.” Ci spiega, alzandosi da terra e avvicinandosi a me.
“Loro avevano già il sentore che non mi piacessero le donne, insomma, avevo poster dei Mashrou' Leila fino al soffitto, ma quando hanno trovato un corano accanto all'altarino che avevo costruito per Hamed Sinno, icona gay del Libano… hanno deciso che non potevo più rimanere in casa.
Diciamo che l’addio non è stato dei migliori, anche perché fino a quel momento eravamo una famiglia molto unita. E, conoscendomi, probabilmente farei una scenata peggiore di quella che hai fatto tu, se mi trovassi nelle tue stesse condizioni.
Ma so anche che, in cuor mio, non li posso cancellare. Non li voglio buttar fuori dalla mia vita! Alla fin fine, per quanto possa non volerlo, sono parte di me, esisto grazie a loro ed è anche per loro se sono come sono adesso.
E tuo padre si è chiaramente pentito di come ha affrontato la situazione. Insomma, se fosse venuto a cercarti per darti il colpo di grazia, ovviamente ti direi di stargli il più lontano possibile.
Ma non è questo il caso.
Quindi il mio consiglio è questo: parlagli, non lo eliminare dalla tua esistenza. Un giorno, chi lo sa, potresti anche rimpiangere di non avergli dato una possibilità.” Conclude il ragazzo, guardandomi negli occhi.
Ricambio lo sguardo, decidendo se accettare il suo consiglio.
Però non è così facile, non è una scelta da prendere alla leggera.
“Non lo so… ho bisogno di tempo.” Rispondo, andando alla porta e aprendola, per farli uscire.
“Ci stai buttando fuori da camera tua?” Domanda Audrie, alzandosi dal pavimento.
Annuisco, evitando di guardarla.
Le ragazze escono a una a una in silenzio. Solo Audrie si ferma per alzarmi la testa con un dito.
“Non siamo arrabbiati con te, Noah. Vogliamo solo assicurarci che tu stia bene.” Mi rincuora, prima di uscire dalla stanza.
Sayid mi si avvicina, mi poggia una mano sulla guancia.
“Pensaci bene, ok?” Mi propone, accarezzandomi lo zigomo con il pollice.
Annuisco ancora una volta e gli rivolgo un mezzo sorriso, per poi chiudergli la porta alle spalle e sedermi sul mio letto, afflitto da una delle scelte più difficile che mi sia trovato davanti.
 

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Capitolo 11
*** Dark Side of Me ***


*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve a tutti e bentornati. Il brano eponimo è Dark Side of Medel gruppo indie australiano Carvel. La band, in giro dal 2015, non ha ancora pubblicato un album intero. Questa canzone in particolare ha una chitarra molto piacevole, consigliata agli amanti dello strumento.
Vi auguro una buona lettura.


 
Capitolo 11


Sospiro sonoramente nella solennità della chiesa vuota.
Alzo la fronte dallo schienale della panca davanti a me, posando il mento sulle braccia incrociate e lo sguardo sulla semplice croce di legno, appesa dietro il leggio dove il pastore è solito tenere il suo sermone domenicale.
Almeno così immagino in base alla mia esperienza, non ho idea di come mandino avanti la messa in questa chiesa, non ci ho mai assistito.
Tra l’altro questa è appena la seconda volta che entro qua.
Ricordo la prima come fosse ieri: mi stavo nascondendo da Cox, in quel giorno che sembra appartenere a secoli fa.
Quasi mi mancano quei tempi. Allora non dovevo fare altro che preoccuparmi di sopravvivere - come se non avessi detto nulla -, ma adesso…
Incredibile da credere, eppure la mia vita si è complicata ancora di più.
A dire la verità, non so perché sia venuto in questa chiesa. I miei piedi mi hanno portato automaticamente qui, dopo il lavoro.
Dopo che mio padre ha tentato nuovamente di parlarmi.
Fortunatamente, non ho notato alcun livido sul suo corpo, o meglio, sulla parte visibile del suo corpo. Mi sa che, in un momento di rabbia, il pugno sia finito contro qualcosa di più duro.
Come cemento.
Un muro.
La sua volontà di ricucire i rapporti.
Ci siamo capiti, insomma: non l’ho colpito.
Anche nel momento di rabbia più intensa preferisco far del male a me stesso che ad altre persone.
Il solo pensiero mi nausea, ne ho abbastanza di violenza, ne ho fatto il pieno in questi anni.
Eppure…
Mi passo una mano sul viso, cercando di cancellare l’ombra dei ricordi.
È allora che dei passi, così cauti da farmi chiedere se li abbia immaginati, interrompono il mio viaggio verso l’inferno.
Volto lentamente la testa verso il rumore, guardando da sopra le spalle incurvate.
Un uomo dalla camicia nera e il colletto bianco raggiunge la mia panca e, senza chiedere il permesso, prende posto accanto a me.
Sul viso sfoggia un sorriso pacifico, come se la sua mente appartenesse a un universo diverso rispetto al mio, dove i problemi terrestri non sembrano poi così gravi e la soluzione è data da una forza superiore.
A volte penso a quanto possa essere facile la vita di un pastore, la cui preoccupazione maggiore è ricordare il discorso preparato la sera prima.
A volte vorrei diventare io stesso un pastore. O un monaco tibetano. O un prete cattolico, un rabbino, un brahmana come Govinda, o ancora un muezzin, così da poter gridare dall’alto di una torre cinque volte al giorno con la scusa di richiamare alla preghiera.
Non è la fede a farmi gola, ma la promessa di una vita semplice, lontana da problemi mondani quali popolarità, piattaforme e social media.
Poi ricordo che anche il papa twitta almeno una volta a settimana e mi chiedo se tale vita non sia diventata solo una fantasia, invece che una possibilità.
Nel deserto c’è Wi-Fi? Nella foresta il cellulare prende, forse le caverne fanno perdere il segnale.
“Sei tornato.”
Non una domanda, ma un dato di fatto.
Ora che lo osservo bene, il suo sorriso nasconde un accenno di sicurezza. Sapeva che sarei tornato, prima o poi.
“Ce ne hai messo di tempo.” Aggiunge, voltandosi verso di me.
Non gli rispondo, torno a guardare avanti.
Non so perché faccia così, una parte dentro di me non vuole dargliela vinta, ammettere di aver bisogno di aiuto e di essere entrato in chiesa in cerca di quell’aiuto.
Quanto può essere disperato un ateo per farlo?
Inizio a dubitare delle mie convinzioni, a essere sincero.
“Ti rivelerò un segreto, figlio mio: i pastori sono particolarmente bravi ad ascoltare. Non quanto i preti cattolici, che si allenano in confessionale, ma nemmeno noi siamo malaccio.” Mi propone, chinandosi per bisbigliare.
“Noah. Mi chiamo Noah.” Lo riprendo, senza togliere gli occhi dalla croce. Alla luce soffusa delle lampade fulminate, ha un che d’ipnotico.
Ne ho abbastanza di padri, figli, sangue e nomignoli.
Io sono Noah. Voglio essere riconosciuto per la mia identità, non per l’appartenenza ad altre persone.
Al suo ennesimo sorriso, mi metto a sedere dritto.
“Ok, la situazione è questa: una persona che non volevo più vedere si è ripresentata nella mia vita, chiedendo perdono per un torto che mi ha fatto. Sono indeciso se provare a perdonarla e riallacciare i rapporti, perdonarla e non parlarle più… o lasciare le cose come stanno.” Spiego, cercando di non entrare nel dettaglio.
L’uomo si tocca il mento, passando le dita sul residuo di barba rimasto dopo essersi rasato.
“Sei rimasto molto vago, Noah. Mi serve qualche particolare in più, altrimenti non potrò darti alcun consiglio.” Sentenzia, incrociando le braccia.
“Non le ho chiesto alcun consiglio.” Rispondo glaciale, mimando la sua posizione.
Il pastore sorride.
“Se avessi voluto solo sfogarti, non saresti venuto qua. Mi sbaglio?” Domanda retoricamente.
Mi mordo d’istinto l’interno della guancia.
Un giorno la lingua la passerà da parte a parte, me lo sento. Tanto vale farmi mettere un dilatatore.
Non vorrei dire nulla, sono anni che mantengo il segreto per non essere rintracciato, ma ormai…
“… ormai che importanza ha?” Mi lascio scappare, dando voce, ancora una volta, ai miei pensieri.
L’uomo mi guarda paziente, fermo nella sua calma pacata.
“È mio padre.” Ammetto, concentrandomi sulle linee del palmo sinistro, che traccio con il pollice dell’altra mano.
“Lui…” Lascio che la frase muoia in un sospiro, prima ancora di essere formulata.
Mi massaggio il collo, cercando di sciogliere i muscoli in tensione.
“È una situazione complicata.” Confesso, non trovando parole migliori.
“Io ho tempo.” Ribatte il pastore, mettendosi più comodo.
Lo osservo trovare la posizione giusta, divertito dalla sua tenacia.
“Mi sta invitando a raccontarle la storia della mia vita, per caso? Perché quello dovrei fare, per spiegarle bene il tutto.” Lo avverto, il sarcasmo messo da parte per una volta.
“Vado a prendere i popcorn?” Risponde lui, prendendo al balzo il tono che avevo abbandonato.
Lo guardo di traverso, un po’ come a chiedergli se sia serio.
“… va bene, cercherò di essere sintetico, ma non prometto nulla.” Replico.
Prendo un respiro profondo e mi preparo a ricostruire la storia, mettendo in sequenza i ricordi.
Questa volta nessuna invenzione, sono stanco di fingere.
“Sono nato a Mapleton, una cittadina a sud di Provo, in una pacifica famiglia mormone. Già da questo dovrebbe capire tutto sui miei genitori: classica gente di provincia, cresciuta nel timore di Dio, con diversi anni di volontariato ed esperienza come missionari in diverse città, come tutti i mormoni che si rispettino.  Sono stato educato alla fede, ogni domenica ero in chiesa, pregavo sempre prima dei pasti e prima di andare a letto. Ero il perfetto figlio mormone della perfetta famiglia mormone, pensi che condivido pure il cognome con il fondatore, non mi sorprenderebbe se ne fossi discendente!
Andava tutto bene, non disobbedivo mai, non mi hanno mai messo in castigo, non ho mai dato loro motivo di essere delusi… finché non ho dato il primo bacio a un John, invece di una Joanne.
Mettiamo un momento da parte tutti i pensieri auto-critici che hanno portato a odiarmi per un periodo, perché quella è un’altra storia.
Ovviamente non sono stato io ad aggiornare i miei genitori sulla mia nuova scoperta, come avrei potuto? Sapevo perfettamente come la pensavano al riguardo. Oh, no… è stata la figlia della mia vicina, la ragazza ci aveva visti in atteggiamenti poco consoni alla nostra religione. Nulla di scabroso, sia chiaro, solo un innocente bacio. E solo quello è bastato a far crollare anni di stabilità.
S’immagina che bel rientro a casa? Subito dopo la scuola mi hanno fatto sedere sulla poltrona, loro due sul divano a fare muro contro di me. Mancava solo una luce puntata addosso e l’avrei potuto definire un interrogatorio da manuale, di quelli che si vedono in televisione.
Quando non ho confutato il pettegolezzo, mia madre è scoppiata a piangere. Continuava a ripetere che sarei andato all’inferno, che dovevano curarmi, che mi avrebbero potuto mandare in un centro di recupero. Ha presente quali intendo, no? Quelli dove ti torturano per ‘far passare l’omosessualità con le preghiere’.
Sapevo già a cosa sarei andato incontro, non volevo. Insomma... ero seriamente convinto che mi sarebbe passata quando avessi trovato una ragazza, magari era solo una cosa temporanea, un prurito che avevo grattato, non servivano misure così drastiche.
Ovviamente così non è stato, sono ancora gay, ma allora ci speravo.
Così ho rifiutato la loro soluzione.
I miei genitori si sono infuriati, mia madre sembrava una belva. Mi urlava contro, mi spingeva, m’insultava. Oh sì, non si è risparmiata.
Mio padre… la sua è stata una rabbia gelida, di quelle che ti rendono la faccia un blocco di marmo.
Quando sono stato buttato di peso fuori di casa, era ormai sera. Mi ricordo di aver strisciato il gomito contro l’asfalto del vialetto, di averci lasciato un pezzo di pelle. Se guarda bene, si vede la cicatrice, poi si è infettato un poco.”
Faccio una pausa per mostrargli il segno. La cicatrice è appena percettibile: tre sottili linee bianche giusto sopra l’osso.
“La prima di una lunga serie.
Avevo quattordici anni.
In un modo o nell’altro, qualche settimana dopo sono finito a Riverton. E lì sono finito nel sistema d’affidamento. Per i primi tempi sono stato sballottato in una decina di case diverse, c’era sempre qualcosa che non andava: troppi ragazzi, troppo rumore, troppo arrabbiato, troppo omosessuale. Poi sono finito dai Bennet, dove ho conosciuto la mia persona preferita. Allora non aveva ancora fatto coming out con nessuno, era solo una tredicenne magrolina, con gli occhi più grandi della faccia. Si chiamava Alexis, da qui il nome che usa al momento.
I Bennet… quel periodo è stato un inferno. Forse avrei preferito l’inferno promesso dai miei genitori, invece di Riverton. Al signor Bennet piaceva la cinghia, la signora Bennet non aveva pazienza, ma aveva accesso a una riserva di prodotti per la casa, a nessuno andava mai bene niente, faccia due più due.
Può giocare un campionato di tris sulla mia schiena.
Penso di aver passato più tempo inconscio, in quella casa, che da sveglio. Non sono mai svenuto prima di entrare dai Bennet, mai.
Ma a volte il dolore era insopportabile, a volte la stanchezza era troppa o il fiato mancava.
Sa che se mischia ammoniaca e candeggina ottiene dei vapori molto tossici, che anche in piccole quantità possono causare danni seri?
Io lo so bene, una volta sono finito all’ospedale per edema polmonare. Meno male che se ne sono accorti subito, un cadavere sulla testa nuoce alla reputazione di chiunque.
Ancora mi chiedo come siano riusciti a ottenere la licenza per l’affidamento. Immagino che essere uno dei pilastri della comunità religiosa abbia i suoi vantaggi…
I ragazzi in affidamento lo irritavano, io e Alex in primis, forse perché siamo diversi, non so, è solo una supposizione.
Ma gli assegni dello stato sono troppo comodi per rinunciarvi, no?
Quando Alex ha avuto la bellissima idea di prendere una forbice e tagliarsi i capelli alla maschietto, ‘per un look più androgino’… il signor Bennet è esploso.
Il fatto è questo: non m’interessa se fai del male a me, posso sopportarlo. Davvero, puoi picchiarmi a sangue, sputare sui miei resti, trattarmi come un animale. Non m’importa.
Ma prova a toccare qualcuno a cui voglio bene…
In quell’anno e mezzo ho fatto di tutto per proteggere Alex, di tutto. Ho preso la mia dose di bastonate e anche la sua, pur di salvare la mia persona preferita. Faceva arrabbiare Bennet? Allora io lo facevo arrabbiare di più. Rompeva un piatto? Io me ne assumevo la colpa.
Caso vuole che quel giorno il club di giornalismo fosse finito prima, quindi Alex aveva avuto la malsana idea di tornare a casa e fare quello che ha fatto, mentre io mi trovavo ancora a scuola. Non so perché, ma tutte le cose peggiori avvengono al rientro da scuola.
Alex era in soggiorno, senza sensi, a terra. C’era così tanto sangue…
Ho chiamato immediatamente un Uber per andare in ospedale, portando il corpo della mia persona preferita in braccio. Perché non un’ambulanza, si starà chiedendo. Lo sa quanto costano le ambulanze? Non ho mai avuto tutti questi soldi e i Bennet non volevano sborsare. Ho urlato e urlato per convincerli a chiamare un’ambulanza, ma hanno voltato le spalle dicendo che non era nulla cui io non fossi sopravvissuto. Se ce l’avevo fatta io, ce l’avrebbe fatta anche Alex, questa era la loro logica. Nemmeno mi aveva colpito per avergli urlato contro, secondo me sapeva di aver esagerato, quella volta.
In ospedale mi hanno fatto mille domande e io ho risposto a tutto. Nessuna menzogna, ho detto alla polizia la pura e semplice verità.
Non mi hanno creduto. I Bennet avevano dato la colpa a un qualche spacciatore, venuto a casa per riscuotere un debito con Alex. Questi maledetti randagi non imparano mai.
Che cliché.
E la polizia se l’è bevuta. Uno spacciatore… a Riverton. Alex che fa affari con uno spacciatore.
Secondo me ci hanno voluto credere, perché non è possibile che le forze dell’ordine abbiano elementi così stupidi. Era semplicemente una scusa più comoda, meno indagini da fare. Nessuno vuole aprire un caso per maltrattamento, va troppo per le lunghe.
Una settimana dopo, quando Alex camminava di nuovo abbastanza bene per affrontare un viaggio, abbiamo preso baracca e burattini e ce ne siamo andati. Fortunatamente le gambe non erano rotte, altrimenti sarebbe stato un bel problema scappare. Non ero abbastanza forte da portare un corpo sulle spalle, non importa appartenesse a una persona di a stento cento libbre.
Il resto è storia nota: siamo rimasti a Liberty Park per qualche tempo, sono finito in riformatorio e adesso stiamo dai Winterfield.” Concludo il racconto, portando un ginocchio al petto.
Fisso ancora una volta il crocifisso, che sembra giudicarmi dall’alto della sua solennità.
“Per un periodo ho dubitato anche di essere umano… quando ti trattano come un animale, il dubbio sorge spontaneo. Cos’ho fatto io per meritarlo?” Chiedo al pastore, girandomi nella sua direzione.
“Lei lo sa? Mi dica, allora: cos’ho fatto di male? L’unico crimine che ho commesso è essere nato. Ma anche gli altri sono nati, cos’hanno loro di diverso per godere di privilegi che a me sono stati negati? Di una casa sicura, di stabilità, di serenità? Perché io devo andare a letto con la paura di non sopravvivere alla notte?
Se non mi avessero buttato fuori di casa, se mio padre si fosse opposto a mia madre, invece di assecondarla, non sarei qui a implorarla per una risposta. “ Aggiungo, inghiottendo un singhiozzo.
Il pastore mi sorride incoraggiante. Anche con un po’ di pietà, ma lascio correre il dettaglio.
“D’altro canto, se non fossi finito dai Bennet non avresti conosciuto Alex, non avresti potuto salvarlo. Non tutto il male vien per nuocere.” Commenta.
Rido sarcastico.
“Facile a dirsi quando il male non tocca te. E Alex non è un lui, è… lasci perdere, troppo lunga da spiegare.” Ribatto, scuotendo la testa.
“Ma c’è un fondo di verità nel detto, non è vero? Sai, Noah, il male prima o poi colpisce tutti. Non importa quanto la tua vita sia bella, quanta fortuna tu abbia. Il successo di una vita non si misura in base a quanto una persona sia felice, ma a cosa questa persona riesce a cavare dalla situazione in cui si trova. In questo momento hai la possibilità di fare del bene per altre persone nella tua stessa condizione, puoi aiutare ragazzi che devono affrontare i propri ‘Bennet’, puoi dare una voce a chi non ce l’ha.
E puoi perdonare.
Tutte le persone sbagliano, tutte, nessuno escluso.
Tuo padre avrà riconosciuto i propri errori e se ne sarà pentito. Immagino ti sia familiare la parabola del figliol prodigo…”
“Abbastanza.” Confermo.
“Perfetto, non ho bisogno di raccontartela. Tuo padre è il protagonista, riuscirai ad accoglierlo a braccia aperte?
Ricorda le mie parole, Noah: il mondo può toglierti tutto - casa, famiglia, amici, beni materiali e anche la libertà fisica -, ma lotta con tutte le tue forze per conservare la forza di amare, immaginare e perdonare, perché quando perderai anche quelle, allora avrai perso la vera libertà e potrai definirti sconfitto. Fino a quel momento, combatti.” Con questo consiglio, il pastore si alza ed esce sul corridoio.
“Grazie, padre. Davvero, la ringrazio di cuore.” Sussurro, girandomi finalmente a guardarlo.
Il pastore sorride ancora una volta.
“Dovere. Spero di rivederti qualche domenica.” Risponde.
Sorrido a mia volta, scuotendo la testa.
“Di domenica non credo, però anch’io spero di rivederla presto.” Ribatto, seguendo il pastore alla porta d’ingresso.
Credo che questo sia l’inizio di una nuova amicizia. Almeno, così vorrei che fosse.
Con un ultimo cenno del capo, saluto il pastore ed esco dalla chiesa.
Direzione: casa.
Si è fatto buio, non vorrei che gli altri si preoccupassero.
Riesco a sentire i singhiozzi già dal corridoio.
Qualcuno tira su con il naso, qualcuno mormora qualcosa, tutto è attutito dalla porta di legno che mi separa dalla mia camera.
Che Alex stia piangendo?
Perché mai dovrebbe piangere? Cos’è successo?
Cautamente, afferro la maniglia e mi accingo a far chiarezza sul mistero.
Sul letto della mia persona preferita, posto dirimpetto rispetto alla porta, Marlene sta piangendo sommessamente mentre Alex, abbracciandola, cerca di rincuorarla.
Io rimango sull’uscio, imbambolato per la sorpresa.
Nessuno si accorge della mia presenza.
Lo ammetto: non me l’aspettavo.
Se Marlene si trova in questo stato, vuol dire che ancora non ha risolto con Audrie. La situazione dev’essere più grave di quanto immaginassi.
Mi avvicino cautamente alle due figure, chinandomi all’altezza della ragazza per guardarla negli occhi.
“Marlene, va tutto bene?” Le domando, tentando di attirare la sua attenzione senza spaventarla.
La ragazza mi guarda per un momento, prima di scoppiare di nuovo a piangere.
Missione fallita.
Con lo sguardo cerco Alex, implorando una spiegazione.
La mia persona preferita si limita a stringere ancora più intensamente la ragazza, posando il mento sulla sua testa.
“Andrà tutto bene, Marlene. Siamo qui per te.” Le sussurra, cullandola dolcemente.
La gonna del vestito di Marlene, uno di quei vestiti stile ‘anni Cinquanta' di colore rosso, mi sfiora le ginocchia. Lo scanso per farmi posto accanto a lei.
Il materasso si piega sotto il mio peso, facendo incurvare impercettibilmente la ragazza verso di me.
Le metto una mano sulla schiena, passandogliela su e giù in un movimento lento e ritmico. Di solito questo mi tranquillizza, non so che effetto abbia su di lei, ma tanto vale provare.
“Marlene, parlami. Qualcosa non va?” Le sussurro.
Qualcosa non va? Che domanda cretina, Noah. È ovvio che c’è qualcosa che non va, altrimenti non sarebbe in camera tua a singhiozzare.
Stranamente, la banalità funziona per farla parlare.
La ragazza si gira e mi osserva con sguardo malinconico. I suoi occhi, nei quali si riflettono le ciglia rivestite di mascara, sono ancora bagnati di lacrime.
“Noah… sono un uomo.”
…aspettate un attimo.
Cosa?
La fisso imbambolato, colto alla sprovvista.
“Come, scusa? Puoi ripetere?” Domando, scuotendo la testa per riprendermi.
“Sono un uomo.” Confessa nuovamente.
Dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte e aver fatto tutti i calcoli e i collegamenti possibili, guardo prima Alex, poi Marlene.
“Momento… nel senso che sei nata uomo?” Chiedo, implicando una spiegazione più esaustiva.
Alex scuote la testa.
“No. Sono nata donna, ma so di essere un uomo.” Specifica, tirando su con il naso.
Penso avesse già messo in conto le domande.
FtoM, Noah. Female to male. Ragazzo transgender, in questo senso.” Chiarifica Alex, notando la mia espressione ancora confusa.
Se fossi il personaggio di un cartone, una lampadina mi s’illuminerebbe sopra la testa.
“Ah, ok, ho capito… un po’ come Alex, giusto? Quindi, devo usare i pronomi neutri anche per te?” Replico, felice di aver compreso la situazione.
Alex alza gli occhi al cielo.
“No, io sono non-binary, è diverso.” Ribatte la mia persona preferita, con voce irritata.
“Qual è la differenza, allora?” Domando, mettendomi sulla difensiva.
“Andiamo, Noah… ho passato diversi pomeriggi a spiegartelo!” Si lamenta.
Mi stringo nelle spalle, non so che dire.
Non può semplicemente spiegarmelo in parole povere?
Alex sospira, passandosi una mano sul volto.
“Tutt’e due siamo biologicamente femmine, ma Marlene si identifica nel genere maschile, io rifiuto la binarietà uomo/donna e m’identifico nel mezzo, all’incirca. Quindi io uso pronomi neutri, Marlene pronomi maschili. Qui sta la differenza.” Chiarisce, cercando di sintetizzare il più possibile.
La lezione sul genere è finita e, stavolta, ho quasi capito.
“Quindi… cos’hai intenzione di fare, adesso?” Domando alla ragazza.
Ragazzo.
Marlene.
Accidenti, so già che sbaglierò spesso nei prossimi mesi, mi devo abituare.
“Terapia ormonale… ne ho già parlato con Anne, mi sta indirizzando da un medico specializzato, così potrò iniziare a prendere testosterone. Ovviamente non subito, mi ha avvertito che passerà un po’ di tempo. Non ho capito bene come funziona, ma dovrò fare diverse analisi e un periodo di bloccanti ormonali, prima di poter prendere il testosterone. Da quanto ho capito, guardando video su Youtube, sarà un po’ come mettere in pausa la pubertà, per poi dare al mio corpo gli ormoni giusti e riprenderla come un ragazzo, invece che come una ragazza. Quindi… niente più estrogeni, per me.” M’informa Marlene.
“Poi cambierò legalmente nome e genere, ma questo non so come si faccia, mi dovranno aiutare Emma e Josh.” Aggiunge, guardandosi le mani.
Chissà quanto ci avrà pensato, per avere un piano quasi completo.
“E l’operazione?” Domando incuriosito.
Marlene ridacchia.
“Di quale operazione stai parlando? Ce ne sono diverse, in questo caso.” Ribatte con il sorriso ancora sulle labbra.
“Sì… insomma… l’operazione….” Continuo, indicando la gonna e grattandomi la testa imbarazzato.
Certe domande metterebbero a disagio chiunque, ma non lei.
Lui.
Insomma.
È difficile cambiare pronomi da un giorno all’altro, mi serve tempo.
Meglio non usarne per un po’.
Marlene si stringe nelle spalle.
“Non so, ancora non ho deciso… è molto costosa, ora come ora non me la posso permettere. Di sicuro voglio togliermi queste.” Dice, prendendosi i seni tra le mani.
“Non aiutano la mia disforia di genere. Poi… chi lo sa, dipende come il mio corpo reagisce agli ormoni.” Conclude, buttandosi a stendere sul letto.
“E… l’hai detto ad Audrie?” Chiedo esitante, conoscendo già la risposta.
Marlene annuisce.
“Non l’ha presa bene, vero?” Rincaro la dose.
Sento nuovamente un singhiozzo. Alex si stende accanto al ragazzo, prendendogli la mano.
Un giorno mi prenderò a calci da solo, me lo sento.
Ho il potere di non aver completamente tatto.
Marlene respira profondamente per calmarsi, l’aria entra nella sua gola con un rantolio.
“Per ora siamo in pausa… mi ha detto che le serve tempo.” Spiega, asciugandosi le lacrime, per poi pulirsi le dita.
“Ancora non ha deciso se continuare la relazione... ho così tanta paura, Noah. Io… io vorrei continuare a stare con lei. Però devo rispettare la sua decisione, non posso costringerla a continuare una relazione che non vuole portare avanti. Anche di questo consiste un rapporto: rispetto reciproco. Lei non mi ha chiesto di non fare la transizione, io non le chiederò di rimanere con me, se non vuole.” Si ferma un attimo a riprendere fiato.
Alza gli occhi al cielo per fermare le lacrime.
“Perché è tutto così difficile?” Mormora fra sé e sé.
Si copre gli occhi con le braccia, il suo respiro è smorzato da sospiri.
Alex stringe la mano, invitandomi a fare altrettanto.
“Marlene, provo un orgoglio smisurato per te. Grazie mille per avercelo detto, sono felice che ti fidi di noi a tal punto. Non sarà facile, te lo assicuro, ma non sei da solo. Hai tutto il nostro supporto, vero Noah?” Dichiara incoraggiante Alex, voltandosi verso di me.
Confermo, aiutando Marlene a tirarsi su.
“Grazie, ragazzi. Vi voglio bene.” Sussurra, abbracciandoci.
Alex sa usare sempre le parole giuste, sono contento che sia la mia persona preferita.
Rimaniamo così: legati in tre in questo limbo, lasciando che la tristezza e i problemi si ritirino, per almeno il tempo di un abbraccio.
 

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Capitolo 12
*** Moth ***


*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve a tutti e ben ritrovati. Il brano di questo capitolo è Moth, singolo degli Hellyeah tratto dall'album Blood for blood. Gli Hellyeah sono un cosiddetto "supergruppo", una band formata da artisti provenienti da altri gruppi famosi, in questo caso parliamo di Chad Gray, voce dei Mudvayne, Tom Maxwell, chitarrista dei Nothingface, Kyle Sanders, bassista dei Bloodsimple, e, fino alla sua morte lo scorso giugno, Vinnie Paul, batterista dei Pantera. 
Consigliatissimo anche il singolo precedente, Hush, un brano che parla dell'infanzia di Gray, cresciuto in una famiglia violenta.
Qui vi lascio il video (in inglese) in cui vengono spiegati alcuni termini che usa Sayid, propri del dialetto libanese.
Vi auguro una buona lettura.


 
Capitolo 12


Nuovo giorno, altra avventura.
Con questo pensiero mi alzo dal letto e mi preparo ad affrontare, ancora una volta, un mondo che inizia a starmi stretto.
Dopo le novità di due giorni fa non ho avuto né la concentrazione, né la forza di affrontare mio padre. Ieri Winterfield mi ha detto che era venuto a cercarmi, voleva parlare… ma, davvero, non ce la facevo.
Avevo ancora bisogno di pensare.
“Riuscirai mai a perdonarlo, a riallacciare i rapporti?” Mi ha chiesto ieri sera l’uomo, poggiato alla scrivania della mia stanza.
Io ho fatto spallucce e ho risposto che la possibilità non era da scartare.
Entrambi sapevamo benissimo che stavo solo rimandando il problema.
Non volevo affrontare mio padre, era chiaro. Quando una situazione rimane in stallo, com’è in questo momento il rapporto tra noi due, non può certo migliorare… ma non può nemmeno peggiorare. Mi piace l’idea di poter scegliere, di avere, almeno per una volta, il controllo.
Finito di vestirmi, scendo al piano inferiore per una colazione veloce prima del lavoro.
Quando chiuderanno la causa, spero di poter studiare di nuovo per prendere il GED.
Non ho mai voluto abbandonare la scuola, avevo pianificato di diplomarmi con voti alti, entrare in una buona università e laurearmi in letteratura inglese.
Per ora, quel sogno è messo da parte. Non vi rinuncerò tanto facilmente, sia chiaro, ma non me lo posso permettere, ora come ora.
Non posso studiare e lavorare contemporaneamente, se voglio aiutare i Winterfield ed evitare che il rifugio chiuda, i soldi hanno la priorità.
A volte si devono fare sacrifici.
Già dal corridoio riesco a sentire i rumori mattutini, provenienti dalla sala da pranzo: una sinfonia di posate, stoviglie e chiacchiere assonnate.
Noto che alle solite voci se n’è aggiunta una nuova.
Come una falena attratta dal fuoco, mi precipito giù per le scale, dritto in cucina, logorato dalla voglia di sfatare la mia supposizione.
Purtroppo, è confermata.
Un incubo.
Dev’essere un incubo.
Non mi sono svegliato, stamattina, sto ancora sognando.
Fra Sayid e Marlene, intento a cucinare e dialogare pacificamente, trovo la figura di mio padre.
Sentendo i miei passi, l’uomo si volta, si accorge della mia presenza e mi saluta con la mano, sorridendo incerto.
Riesco a scuotermi quasi immediatamente dallo stato di pietrificazione indotto dalla sorpresa, per poi marciare verso il tavolo dove Winterfield sta consumando la colazione, interromperlo sgarbatamente e tirarlo di peso nel salotto, dove mi preparo a urlargli contro.
“Che ci fa lui qui?” Domando visibilmente irritato, braccia incrociate e tutto il resto.
Sono sicuro che ci sia il suo zampino di mezzo.
L’uomo si sporge per osservare mio padre in cucina.
“Cucina la colazione a quanto pare.” Risponde calmo, tornando al suo posto.
“No, intendo: cosa ci fa lui qui?” Chiedo nuovamente, ponendo l’enfasi sull’ultima parola e allargando le braccia per indicare la stanza.
Con nonchalance, Winterfield si stringe nelle spalle.
“Dà una mano.”
Mi cadono le braccia.
“…dà una mano? Per caso gliel’hai permesso tu?” Ribatto, abbassando il tono della voce.
L’uomo annuisce convinto, incrociando le braccia.
Faccio un respiro profondo per calmarmi. Porto le mani giunte davanti alla faccia e le abbasso di scatto per indicarlo, per poi stringerle nuovamente a pugno.
Tutto questo senza guardarlo in faccia, ovviamente, perché altrimenti lo prenderei a manate.
Altro respiro profondo.
"Si può sapere che ti è venuto in mente?" Riprendo, la mia voce tradisce una rabbia silenziosa.
"Ieri avevi detto che volevi riallacciare i rapporti." Afferma lui, un sopracciglio alzato in segno di sfida.
"Na-ah! Avevo detto che ci avrei pensato, è diverso." Ribatto, indicandolo pericolosamente.
"E tuo padre si era già proposto per aiutarci, sia legalmente che fisicamente, ho fatto due più due. Perché non mi hai detto che è un avvocato?" Mi chiede accusatorio.
"Dimmi un po’: a scuola facevi schifo in matematica, ho ragione?" Commento sprezzante, ignorando volutamente la domanda.
Winterfield si preme gli occhi.
Questo è il suo modo di mantenere la pazienza e non urlarmi contro.
"Noah, qual è il problema?" Mi domanda stanco.
Ridacchio nervosamente.
"Qual è... Te lo dico io qual è il problema, Winterfield: questa dovrebbe essere una casa sicura e tranquilla, ma con lui intorno non mi sento tranquillo, men che meno sicuro." Spiego, la voce ridotta a un sussurro di rabbia.
Winterfield mi prende per le spalle, però mi scanso immediatamente. Ormai dovrebbe aver capito che odio essere toccato quando sono arrabbiato.
"Noah, tu sei al sicuro. So per certo che non corri alcun rischio con tuo padre in casa." Mi rassicura lui, abbassando la voce per non farsi sentire.
Lo guardo di sottecchi.
"Come lo sai?" Gli chiedo.
Una domanda così semplice che esige una risposta articolata.
"Lo so e basta. Ti pare che l'avrei fatto entrare se pensassi sia una minaccia? Non ti metterei mai volutamente in pericolo. L'uomo si è pentito sinceramente, dagli una possibilità."
Mi supplica con gli occhi.
Scuoto la testa.
"Certo che con te è una continua terapia espositiva..." Mormoro, guardando a terra.
"Comunque... Io vi sento, sapete?" Afferma una voce proveniente dall’arco.
Ci giriamo in sincrono, colti in flagrante.
Mio padre si avvicina lentamente, attento a non versare il contenuto del piatto che tiene in mano.
Me lo mostra contento.
"Ho fatto il pan di banane, il tuo preferito." M’informa, porgendomi il piatto.
Lo guardo diffidente, facendo saettare gli occhi fra il dolce e l’uomo che me lo offre.
"Stai cercando di comprare il mio affetto con il cibo?" Lo accuso, mantenendo un tono neutro.
"Quindi non ne vuoi?" Mi domanda, allargando le labbra nel sorriso malizioso di chi conosce perfettamente le debolezze del proprio interlocutore.
Gli lancio un’occhiataccia, serrando ancora di più le braccia.
Mio padre, di rimando, alza le spalle e posa il piatto sul tavolino da caffè, voltandosi per tornare in cucina.
Approfitto del suo attimo di distrazione per prendere le fette di dolce.
È più forte di me: non gliela voglio dar vinta, ma non riesco a resistere al pan di banane.
Addento una fetta.
Mio padre si gira nuovamente, cogliendomi, ancora una volta, con le mani nel sacco. Oggi non riesco a essere discreto.
Allontano la fetta dalla bocca, la poso sul piatto e mi pulisco le labbra dalle briciole.
Nell’osservarmi, l’uomo sorride soddisfatto.
"Smettila. Non vuol dire nulla, sono in ritardo per il lavoro e questa è una colazione veloce." Mi difendo, prendendo il dolce dal piattino e andando verso la porta.
"Non ti lavi i denti dopo aver mangiato? Almeno portati un pacco di gomme, non vorrai uccidere qualcuno." Ribatte mio padre, senza muoversi dal suo posto.
Lo sento ridere sommessamente.
"Non è cambiato di una virgola, orgoglioso come sempre." Aggiunge mormorando.
Per tutta risposta, senza voltarmi, da sopra la spalla alzo un dito medio, rivolgendolo ai due uomini.
Silenzio i rimproveri chiudendo la porta d’ingresso.
Vengo illuminato dalla pallida luce del sole quasi invernale. Se non fosse per quelle due persone nel giardino di fronte, la strada sarebbe deserta.
Le due figure mi salutano sorridenti e io ricambio, grato di quel piccolo gesto gentile.
A volte anche la più piccola gentilezza può cambiare la giornata.
I miei piedi calpestano il cemento del vialetto, mentre mi allontano dal porticato, finché non incontrano qualcosa di scivoloso.
La mia scarpa destra, una di quelle Converse rotte e usate che non si buttano mai, slitta per un attimo.
Non cado, ma non perdo neanche l’equilibrio.
Abbasso gli occhi per vedere cos’abbia calpestato. Il mio sguardo viene subito colto da della vernice rossa sotto le suole bianche delle mie scarpe.
Incuriosito, vado sul marciapiede, senza staccare gli occhi dal cemento.
Rivolto verso la casa, alzo lo sguardo.
La bocca si apre dallo sgomento, i miei occhi si sgranano dall’orrore.
A lettere maiuscole, rosse contro il legno chiaro, una frase attraversa in diagonale la porta.
“Andatevene o bruciate.” Leggo in mente.
Andatevene o bruciate, urla la minaccia.
Inorridito, riesco finalmente a dare un significato alle linee sul vialetto, che si uniscono a formare il disegno di una casa in fiamme, dalle cui finestre sporgono degli omini stilizzati con la bocca spalancata in un urlo di terrore.
Un botto assordante alla mia destra mi fa gridare per la paura e indietreggiare sconvolto, disorientandomi ancora di più.
Istintivamente porto le mani avanti per proteggere il viso, ma non chiudo gli occhi.
Fra le dita riesco a vedere la buca delle lettere sfigurata, il suo metallo aperto in un fiore dai petali affilati. L’esplosione veniva dal suo interno.
Con la coda dell’occhio scorgo quelle due persone, quelle due stesse persone che poco fa mi hanno salutato così cordialmente, scappare dal luogo del crimine.
Un picco di adrenalina mi mantiene lucido, permettendomi di collegare gli avvenimenti.
Sono stati loro.
Non so come, ma sono sicuro che abbiano aspettato che uscissi da casa e dessi loro le spalle per causare l’esplosione.
E so anche per certo che siano loro i mandanti della minaccia.
Tuttavia, lo shock non mi permette di muovermi o gridare la mia accusa, quindi le due persone, un uomo e una donna, possono abbandonare la strada senza attirare l’attenzione di chi accorre allarmato per il rumore.
Mio padre, i Winterfield e i coniugi Paget, per essere precisi.
Gli adulti mi raggiungono, tempestandomi di domande per assicurarsi della mia salute, creando un muro fra me e i colpevoli, facendomeli perdere di vista.
Non riesco a parlare, li guardo a uno a uno con le pupille dilatate dalla paura.
Così come sono iniziate, le domande finiscono e tutti aspettano in silenzio che risponda.
Boccheggio per qualche secondo, incapace di formare una frase di senso compiuto, finché non mi decido a indicare la casa violata.
Cinque teste si girano incuriosite a seguire il mio dito. Riesco a discernere il momento esatto in cui ognuno si accorge della scritta.
Winterfield fa un passo avanti, l’espressione indecifrabile, analizza attentamente tutti gli elementi.
Poi si gira di scatto, viene da me e mi prende le spalle.
“Noah, hai visto chi è stato?” Mi domanda serio.
Io torno a guardare la strada, dove un attimo prima si trovava quella coppia.
L’uomo mi scuote per attirare la mia attenzione, Emma gli mette una mano sul braccio per farlo smettere.
Lo guardo dritto negli occhi, una luce di rabbia lo illumina.
“Allora?” Chiede, alzando la voce.
Annuisco.
Arriccia le labbra, calmandosi un attimo.
“Chiamiamo la polizia.” Mi ordina, lasciandomi andare.
“E oggi non andrai al lavoro, Noah. Avverti il signor Cox.” Aggiunge, voltandosi per tornare in casa a prendere il cellulare.
Quest’ultimo comando mi riscuote dal mio stato di shock.
“Cosa? No, Winterfield, aspetta… ci servono quei soldi.” Mi oppongo, riuscendo ad afferrargli in tempo il braccio.
L’uomo abbassa uno sguardo disapprovante su di me.
“Non ti permetterò di metterti in pericolo per una giornata di salario minimo. È fuori discussione.” Ribatte con il tono di chi non ammette proteste.
“Senti… chiameremo la polizia, ma non posso perdere una giornata intera di lavoro, va bene? Ti giuro che starò attento, non farò nulla di azzardato.” Prometto, nella vana speranza che ceda.
Winterfield scuote la testa.
“E poi sarei in mezzo alla gente, con telecamere di sicurezza puntate addosso e un adulto che potrebbe intervenire in caso di pericolo. Tecnicamente sarei più al sicuro a lavoro che da solo in una casa presa di mira da manifestanti e vandali, non credi?” Continuo, cercando altri vantaggi nell’andare al 7-Eleven.
Tutto, pur di non stare da solo con mio padre.
Non ce la faccio, ancora. Preferirei essere attaccato con un coltello.
Con una pistola non so, ma con un coltello sì, potrei schivarlo facilmente, non sarebbe la prima volta.
Winterfield si gratta la testa, sospirando.
Ottimo segno.
“Va bene, ma tienimi aggiornato qualsiasi cosa succeda. Anzi, manda un messaggio ogni due ore… facciamo così: oggi pomeriggio verrà qualcuno a vedere se stai bene, intesi?” Mi propone per venirci incontro.
Accetto senza esitazioni e, mentre Winterfield va a prendere il cellulare, chiamo il mio datore di lavoro per informarlo degli ultimi avvenimenti.
Ora che ci penso, avrei potuto chiamare io la polizia. Oh beh, ormai è andata.
Contrariamente a quanto previsto, Cox non si lamenta, anzi… si preoccupa. Mi dice di fare attenzione e anche lui mi consiglia di passare la giornata a casa.
Mi offre una giornata di ferie pagate, pur di non farmi correre rischi.
Rifiuto l’offerta e chiudo la chiamata, non dopo aver salutato.
I miei genitori avranno anche cresciuto un ladro, un criminale e un bugiardo, ma non un maleducato.
Un perfetto Arsenio Lupin, in poche parole.
La volante non tarda ad arrivare.
Dalla macchina scendono due poliziotti, uno dell’età di Josh, l’altro coetaneo di mio padre. I due mi si presentano, ma dimentico i loro nomi subito dopo aver stretto la mano.
Il più giovane passa quindi a scattare le foto della scena, dalle finestre del piano superiore vedo i ragazzi, pronti per andare a scuola, spiare dalle finestre.
Alex mi chiede con lo sguardo una spiegazione, io rispondo segnando “dopo”: una L formata con pollice e indice, in cui quest’ultimo si abbassa.
Mi risponde con un pollice alzato.
Abbiamo fatto bene a imparare le parole-base della lingua dei segni.
Essendo l’unico testimone oculare, il poliziotto più anziano m’invita a seguirlo in stazione per prendere la deposizione.
Nonostante le richieste di mio padre, solo io e Winterfield siamo in macchina.
La stazione in questione è la centrale sulla 300E, vicino Liberty Park. Posizione molto comoda, così non devo fare molta strada per andare al 7-Eleven.
Si tratta di un edificio enorme, tappezzato di finestre, molto più simile a un museo di arte moderna che a un ufficio statale.
Entriamo nell’atrio luminoso, sul quale si affaccia una balconata semicircolare. Alla nostra sinistra troviamo una piccola esposizione di oggetti e due moto bianche. Saliamo le scale dalla ringhiera di vetro, seguendo il poliziotto nel suo cubicolo.
Sulle pareti del corridoio sono appesi delle stampe in bianco e nero. Quest’edificio non smette mai di stupirmi: più mi guardo intorno, meno riesco a credere che questa sia una stazione di polizia.
L’ultima volta non mi sono goduto la vista, diciamo che lo apprezzo di più senza le manette ai polsi.
L’agente si siede dietro un computer e ci indica le poltroncine davanti alla scrivania.
Inizia scrivendo i miei dati, per poi passare alla denuncia.
“A questo punto mi sono girato e ho trovato quella scritta sulla porta.” Spiego, osservando le dita muoversi sulla tastiera.
“E cosa diceva la scritta?” Domanda con fare annoiato.
“Andatevene o bruciate.” Rispondo immediatamente, assicurandomi che scriva la minaccia sul fascicolo.
“Subito dopo è esplosa la cassetta delle lettere.” Aggiungo, sporgendomi sulla scrivania, curioso di vedere a che punto sia arrivato.
“E ha detto di aver visto i colpevoli.” Continua l’agente, alzando gli occhi su di me.
Torno a sedermi composto sulla sedia.
“Sì: un uomo e una donna.”
L’uomo annuisce, tornando a battere la tastiera.
“Me li può descrivere? Segni particolari?” Chiede senza scollare gli occhi dal monitor.
Ci penso su, cercando di riportare in mente le vicende di poco fa.
I due che mi hanno salutato… che aspetto avevano?
“Io… non lo so, non me li ricordo. Insomma, credevo fossero solo gente che passava o qualche follower di Twitter, non immaginavo avessero cattive intenzioni. Mi hanno salutato, ma non è la prima volta che degli estranei mi salutano, quindi non ci ho dato più di tanto peso.” Mi giustifico.
Da quando è esplosa la notizia, non capita di rado che persone a caso mi salutino, riconoscendomi dal telegiornale o da Twitter.
“E li ha visti in atto…” Prosegue.
Sono costretto a interromperlo.
“Ecco… no, non li ho visti in atto…” Spiego esitante, guadagnandomi un’occhiata confusa dall’agente.
“Allora come fa a sapere che si trattasse dei colpevoli?” Mi domanda in tono accusatorio.
“Prima di tutto, non mi hanno avvertito. Stavano guardando me, mi hanno salutato, ma non mi hanno indicato la casa. Secondo, appena mi sono girato è esplosa la cassetta delle lettere e li ho visti scappare verso la 1100 E. Non può essere un caso che l’esplosione sia avvenuta quando ho dato loro le spalle, ci doveva essere qualcuno a guardare e quei due erano gli unici nei paraggi, oltre me.” Espongo la mia teoria, cercando di non alterarmi.
L’uomo gira la sua sedia, adesso è posizionato frontalmente a noi. Incrocia le mani sul tavolo e si china lievemente in avanti.
“Ammettendo che siano state queste persone che sta accusando, sa anche quale sarebbe il movente?” Mi domanda, chinando la testa di lato, come se stesse parlando con un bambino.
Incrocio le braccia al petto, sedendomi lontano da lui.
“Omofobia. Questo è un crimine d’odio. Non è la prima volta che ricevo minacce…” Ammetto, lanciando un’occhiata a Winterfield, che sembra sorpreso.
“Internet è la terra di nessuno, chiunque può scrivere ciò che vuole… e dovreste vedere la casella dei messaggi privati dell’account Twitter della causa e del mio profilo privato. Ma è la prima IRL, la prima minaccia reale.” Continuo, scuotendo la testa.
Non riesco a capacitarmene.
“Da quanto tempo riceve minacce?” Riprende a domandare l’agente.
“All’incirca da quando ho aperto l’account. Quindi… da due settimane?” Replico dopo un conto veloce.
Il poliziotto aggrotta le sopracciglia.
“E non ha pensato di denunciare il fatto?” Chiede, a mo’ di rimprovero.
“Finora non ho dato peso ai commenti e ai messaggi, pensavo fossero solo opera di leoni da tastiera… non avrei mai pensato potessero trasformarsi in un pericolo reale.” Mi giustifico, stringendomi nelle spalle.
“E non ha nemmeno pensato di, non so, chiudere l’account e non attirare l’attenzione, per un po’?” Domanda nuovamente con tono incerto.
“Insomma… siccome la vostra ‘causa’ attira questo genere di reazioni, non ha pensato di abbandonarla o, quanto meno, essere più cauto?” Aggiunge, cercando di difendersi dai nostri sguardi disapprovanti.
“Sta per caso insinuando che il ragazzo se la sia cercata?” S’intromette Winterfield, drizzandosi sulla sedia.
Il poliziotto mette una mano avanti.
“Non ho detto questo, ma se il ragazzo avesse compreso i segnali…”
A queste parole, Josh si alza e sbatte le mani sul tavolo, facendomi sussultare.
“Come polizia, è compito vostro proteggere i cittadini e punire chi compie reati. Lei ha davanti un palese reato d’odio e sta cercando di scaricare la colpa sulla vittima, le pare il modo di fare il suo dovere?”  Contesta a gran voce, attirando l’interesse delle persone attorno a noi.
L’agente se ne accorge, si alza dalla sedia e imita la posizione del mio tutore.
“La prego di moderare i toni e pensare bene a ciò che dirà, le ricordo che sta parlando con un pubblico ufficiale.” Sibila l’uomo, guardando Winterfield dritto negli occhi per intimidirlo.
Purtroppo per lui, non riesce nel suo intento.
“Agendo in questo modo sta rifiutando di fare il suo lavoro. Siamo in presenza di testimoni, potrei tranquillamente citarla in giudizio per questo.” Lo intima Josh, avvicinandosi al suo viso.
Li osservo in silenzio, mortificato. Anche un po’ deluso, a essere sincero.
Non ho mai avuto un buon rapporto con la giustizia, ho rinunciato da tempo a cercare aiuto dalla polizia, tuttavia non posso che rimanerci male, vedendo i miei pregiudizi confermati.
Ma, con la fedina penale che mi ritrovo, non posso fare molto. Una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale mi rimanderebbe sicuramente in riformatorio.
Quindi non dico nulla, chino la testa e mi concentro sul palmo della mano sinistra, affondandovi l’unghia per distrarmi.
Il dolore che ne scaturisce, per quanto più simile a un fastidio, riesce a darmi la forza per contenermi.
Le intimidazioni di Winterfield riescono a richiamare un altro agente, che interviene per sedare la discussione.
“Tutto bene qui?” Domanda, ponendo una mano sulla spalla del mio tutore e l’altra sulla mia.
Non alzo la testa, continuo a lasciare segni sul mio palmo.
Winterfield gli spiega la situazione e l’agente, dopo aver lanciato un’occhiataccia al suo collega, decide di prendere il caso, chiedendoci di seguirlo alla sua scrivania.
Immagino sia di un grado più alto, giacché il poliziotto che si stava occupando di noi non batte ciglio.
Con la voce ridotta a un filo a causa della rabbia, riesco finalmente a denunciare il reato e a uscire dalla centrale, che adesso assomiglia più a uno di quegli edifici in cui lavorano i cattivi dei film.
Il viaggio verso il 7-Eleven non è dei migliori.
Winterfield mi lascia davanti alla porta, approfittandone per fare benzina.
“Ti vengo a prendere quando hai finito, va bene?” Mi avvisa, guardandomi entrare a lavoro.
Alzo un pollice poco prima che le porte automatiche si chiudano.
Oggi Cox si comporta più gentilmente del solito. Vedendomi alterato, cerca di distrarmi parlando del più e del meno. Peccato che non sia in vena di chiacchiere.
Quando comprende che ho bisogno di stare da solo per calmarmi, mi mette a fare inventario sul retro, così che non abbia a che fare con i clienti.
Mossa astuta per cui sono grato.
Il resto della mattinata passa lentamente, sembra quasi un’agonia: da una parte sono in solitudine come volevo, dall’altra sono in compagnia dei miei pensieri e libero di rimuginare quanto voglio sull’accaduto.
Mi rifugio disperatamente nelle liste, contando tre volte ogni oggetto presente nella stanza affollata.
Il diversivo non dura a lungo, per l’ora di pranzo ho già finito.
Così mi trovo nuovamente fra i corridoi del minimarket a fare i lavori più disparati. Con il passare delle ore, le emozioni si attenuano, ma non scompaiono. Rimangono sempre in quell’angolo del cervello, come dei tamburi tribali in sottofondo.
Come promesso, nel pomeriggio entra un fugace sollievo dai miei affanni. Il ragazzo va alla cassa e domanda qualcosa al mio collega, che indica nella mia direzione.
Io sono inginocchiato davanti a uno scaffale con una scatola accanto, come se stessi pregando gli spaghetti in scatola per un miracolo.
Con un barattolo ancora in mano, alzo lo sguardo.
“Che carino, ti stai già proponendo?” Mi domanda il ragazzo libanese, prendendomi in giro.
Riesce a strapparmi un sorriso.
“Quando lo farò, sarà con una ciotola di hummus, di certo non con una confezione di Spaghetti ‘O’s’.” Replico, alzandomi in piedi e pulendo i pantaloni con le mani.
“Ah, yo’borne. Certo che mi conosci bene.” Ribatte Sayid, avvicinandosi flirtante.
Mi poggio sullo scaffale con le braccia conserte, facendo attenzione a non far cadere nulla.
“Quindi Winterfield ha mandato te, per controllarmi.” Deduco, guardandolo dall’alto in basso.
Il ragazzo scuote la testa, imitando la mia posizione.
“No, mi sono offerto volontario.” Ribatte, mordendosi il labbro.
Sciolgo le braccia.
Ci sta provando apertamente… e devo dire che non mi dispiace.
“Stai bene?” Mi domanda, chinando la testa.
Annuisco.
“Sto meglio, ora che parlo con te.” Rispondo, sorridendogli e mettendogli una mano sul braccio.
Anche la rabbia si è acquietata, per un attimo.
Ma solo per un attimo.
Un commento di troppo da parte di un cliente dall’altro lato dello scaffale la fa rimontare.
“Disgustoso. Anche in pubblico…”
L’uomo, che va sulla cinquantina, sta guardando ripugnato un pacchetto di patatine, riesco a vederlo da sopra l’espositore.
“Come, scusi?” Domando incuriosito, facendo finta di non aver sentito bene.
L’uomo alza lo sguardo su di noi, come se si fosse accorto adesso della nostra presenza.
“Potreste anche evitare, sapete?” Ribatte, tornando a guardare il suo pacchetto di patatine.
Sto per fare il giro del corridoio per raggiungerlo, ma Sayid mi afferra un braccio, trattenendomi.
“Lascia perdere.” Mi consiglia, tirandomi verso la cassa.
“Non ho capito: cosa potremmo evitare?” Torno alla carica, alzando un po’ la voce.
L’uomo ha finalmente posato il pacchetto di patatine, spostando tutta la sua attenzione su noi due.
“Non m’importa cosa tu o il tuo amichetto facciate a casa vostra, ma in pubblico potreste anche risparmiarvi certe effusioni. È disgustoso, mi fate venire la nausea.” Sibila, sputando veleno sugli articoli in vendita.
“Le persone come lei mi fanno venire la nausea. Sa, Joe Rogan una volta ha detto, cito testuali parole, che gli omofobi o sono cretini o, segretamente, hanno paura che il cazzo sia delizioso.” Replico, un sorriso di sfida sulle labbra.
L’uomo ha l’aria di chi è pronto ad attaccare. Onestamente, non aspetto altro.
Che si faccia avanti, vediamo quant’è forte, vediamo se ha il coraggio di eliminare il problema di persona.
Sayid continua a tirarmi verso la cassa, ma io faccio resistenza.
Voglio sangue, il mio, il suo, non importa.
Mi ero stancato della violenza.
Eppure oggi voglio sangue.
Yallah, Noah, andiamo.” Mi prega il ragazzo.
L’uomo guarda prima me, poi Sayid.
“Su, Noah, ti conviene seguire il tuo amico, prima che chiami la polizia. Scommetto che tu e il terrorista siete pure clandestini, vogliamo scoprirlo?” Domanda con un ghigno malvagio, sporgendosi da sopra l’espositore.
È arrivata la mia occasione.
Prima che l’uomo si possa ritrarre, gli ho già sferrato un pugno. La violenza è accompagnata da una sinfonia di latta su linoleum, i barattoli cadono dall’ultimo scaffale, abbattuti dalla veemenza con cui il mio corpo si è lanciato sul mobile.
Qualcuno mi prende per le spalle e mi allontana a forza dall’espositore, ma riesco a liberarmi e a tornare alla carica. Le mie mani cercano di colpire l’uomo, di graffiarlo, sfregiarlo, cercano oggetti da lanciargli in testa.
La mania non dura che qualche secondo, chiunque sia intervenuto prima riesce nuovamente ad afferrarmi e a bloccarmi sul pavimento, circondato da un’aura di spaghetti e zuppe in scatola.
Mi dimeno sotto il peso della persona e, non so come, riesco a sgusciare fuori, pronto a riprendere da dove sono stato interrotto.
Vengo sollevato di peso e portato via dalla scena del delitto, giù per il corridoio, dritto nell’ufficio del direttore, mentre mi agito spasmodicamente, provando a colpire chiunque si sia permesso di fermare la mia giustizia privata.
La porta si chiude con un botto e sono lasciato andare. Mi precipito verso la libertà, ma quella persona blocca l’unica via d’uscita con il suo corpo.
“Ho detto basta!” Tuona la voce di Cox.
Mi blocco sul posto, ansimando per lo sforzo, finalmente cosciente di chi mi trovi davanti.
La figura del direttore torreggia contro la porta, mi guarda a dir poco infuriato.
Il mio petto si alza e si abbassa affannosamente. Inghiotto a vuoto, cercando di calmare il respiro.
Cox si passa una mano fra i capelli.
La lampada dell’ufficio sfarfalla, proiettando nella stanza un’intermittenza di ombre. L’aria è densa dell’odore di carta, di compensato, di sudore.
Di delusione.
L’uomo sospira profondamente, riprendendosi.
“Sapevo che sarebbe stato un errore assumerti…” Mormora fra sé e sé.
Con ogni sillaba sento un brivido sulla schiena, dove le gocce di sudore lasciano la loro scia.
“Mi dispiace, Bonham, ti avevo avvertito.” Borbotta nolente.
Sento il sangue defluire dal viso, mentre l’affanno riprende più forte di prima.
“Sei licenziato.”
Il respiro mi muore in gola.
Un colpo al cuore.
Una lama.
Il vuoto nel petto.
Il ronzio della luce al neon si propaga nella stanza, mi entra nelle orecchie, rimbomba nella testa, non mi fa pensare.
Mi guardo intorno per cercare una via di fuga, che so non esistere.
“Devo chiamare i tuoi tutori… e la polizia.” Mi avvisa la sua voce, lontana chilometri.
Mette una mano sulla maniglia della porta.
La gira.
“Signor… la prego…” Supplico con un filo di voce.
“Rimarrai chiuso qua dentro finché non saranno arrivati.” Sentenzia, guardando a terra.
Senza un’altra parola, un altro sguardo, esce chiudendosi la porta alle spalle.
Mi fiondo sul legno, battendo per attirare la sua attenzione, pregandolo di tornare e di lasciarmi spiegare.
Non è finita qui, non può finire qui.
Mi stacco dalla porta, giro per la stanza cercando di dare un senso a ciò che è successo.
Non posso aver mandato tutto all’aria… di nuovo.
La realtà mi piomba sul capo senza clemenza.
Io… ho rovinato tutto.
Osservo il muro di mattoni grigi scoperti.
Un muro così spoglio che sembra canzonarmi.
E nel muro si forma la faccia di quell’uomo.
Mi deride, sogghigna contento.
Mi ci avvicino.
Il suo viso si tramuta nel mio, l’espressione rimane la stessa.
Le labbra si muovono: “soddisfatto?”
Sferro un pugno verso quella faccia, ma colpisco solo freddi e duri mattoni.
Colpisco di nuovo.
E ancora una volta.
E ancora, finché le ossa non mi dolgono e il grigio non si macchia di rosso.
E anche quello mi prende in giro, con il suo continuo sollecito: “Volevi sangue? Adesso lo hai ottenuto.”
Mi volto dall’altro lato per non dargli conto, poggiando la schiena sulla macchia.
Mi lascio scivolare per terra, tenendomi la mano dolorante.
Sbatto la testa a muro con tutta la forza che ho, con l’intenzione di aprirla in due.
Chiudo gli occhi, lascio che le lacrime mi cadano in grembo.
Alzo il volto al cielo e urlo.

 

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Capitolo 13
*** My Blood ***


*Angolo dell'autrice*
E quindi sono passati due/tre mesi? Come vola il tempo, verro? 
... va bene, mi dispiace.
E buonsalve a chi non mi ha ancora abbandonata! Chi ve l'ha fatto fare? 
Scherzi a parte, v'informo che ho corretto e ricaricato tutti i capitoli. Non ci sono stati grandissimi cambiamenti, ho solo aggiunto la nazionalità di Noah (o meglio, della sua famiglia, che si capirà meglio in questo capitolo) e ho slittato il discorso del padre qui, invece del decimo capitolo, dove mi sembrava troppo forzato. 
La canzone del titolo è My Blood, ultimo singolo dei Twenty One Pilots, direttamente dal loro nuovo album, Trench. Si tratta di una canzone abbastanza lenta, tenendo in conto il loro standard, che Tyler Joseph (cantante) ha scritto per suo fratello. Video molto bello che ricorda vagamente una la forest fic, uscito i primi dell'ottobre scorso. 
Non vi trattengo oltre, come al solito segnalate pure qualsiasi errore troviate.
Buona lettura e grazie della pazienza.


 
Capitolo 13


“Dobbiamo fare qualcosa.”
Fisso l’oscurità davanti a me.
Il peso del piumone esercita una pressione gradevole sul mio corpo, è rassicurante quanto un abbraccio, mi fa desistere dall’alzarmi.
“Ormai è così da giorni, dobbiamo intervenire.”
Le tende oscuranti sono chiuse, sbarrano l’accesso alla luce.
La porta serrata attutisce i rumori della casa.
“Stuart, ascolta…”
La mia stanza è diventata una bolla extra-spaziotemporale in cui mi sono rifugiato negli ultimi giorni. Non so nemmeno quanto tempo sia passato, a dire la verità. Ogni volta che Alex entra in stanza, o sto dormendo o sono semplicemente troppo concentrato a guardare il muro per prestare attenzione alla realtà.
“No, Josh, tu ascolta: si tratta di mio figlio. Lo conosco, so come trattare questa situazione.”
Non ho neanche la forza di pensare.
Probabilmente è una fortuna, non riuscire a pensare.
Non immagino nemmeno cosa la mia mente abbia in serbo per me, dopo quello che ho combinato al 7-Eleven.
La vergogna mi fa affondare il viso nel cuscino, cerco di soffocare i sensi di colpa, di eliminare il ricordo.
Non ero io. Quello non ero io.
Io non sono capace di tanta violenza.
Il sangue mi risuona nelle orecchie, la voce di Cox mi fa perdere ancora un battito.
“Sarà pure tuo figlio, ma di sicuro non è lo stesso ragazzo che conoscevi.”
Mi tiro la coperta sopra la testa, cercando di silenziare le voci già ovattate dall’uscio serrato.
Per quanto vorrei che regnasse il silenzio, la mia curiosità mi spinge a prestare attenzione alle parole dei due uomini in corridoio.
“Lo so… però non può stare così. Non si alza dal letto da giorni, non parla con nessuno, non mangia, beve a stento...”
La voce di mio padre si fa via via più flebile.
“Dobbiamo fare qualcosa, Josh.” Implora l’uomo.
Segue qualche secondo di silenzio.
“…va bene.”
Si sentono dei passi in corridoio, si avvicinano alla porta.
La serratura scatta, e i passi entrano nella stanza, l’attraversano, si fermano ai piedi del mio letto.
Il materasso s’inclina sotto il peso di un uomo.
La porta si chiude, una mano mi tocca la spalla.
“Noah?” Domanda incerta la voce di mio padre.
Non rispondo, non ho la forza di rispondere.
Spero solo che la coperta sulla testa gli faccia capire che non ho intenzione di essere disturbato.
Lui, imperterrito, mi stringe la spalla.
“Noah, per favore… parlami.” Sussurra supplicante.
Al mio tacito rifiuto, sospira.
Non è uno di quei sospiri sarcastici di Alex, o uno di quelli esagerati di Sayid.
Non è nemmeno il sospiro arrabbiato di Audrie, né paziente di Marlene, né irrisorio di Steve.
È il sospiro degli adulti, uno di quelli che esprime tutta la stanchezza di anni di preoccupazione e lavoro e fatica.
“Senti… so che probabilmente, anzi, sicuramente sono l’ultima persona con cui vorresti parlare al momento… ma ti chiedo di mettere di lato il risentimento, almeno per un attimo, e di ascoltarmi.”
E di nuovo, solo silenzio.
Lo interpreta come un consenso.
“Per prima cosa, delle scuse sono d’obbligo. Non posso rimediare al dolore che ti ho inflitto quasi tre anni fa, e la sola consapevolezza mi uccide. Sei mio figlio, non avrei mai creduto di poter fare proprio a te una cosa simile. A nessuno, in realtà.”
Si ferma un momento, esitante su come continuare.
Emette un improvviso risolino, che mi fa abbassare la coperta all’altezza del naso, giusto per guardarlo.
La stanza è in penombra, schiarita lievemente solo dalla luce che filtra da sotto la porta e dai bordi della tenda.
Una striscia luminosa in particolare ricade verticalmente sul volto di mio padre, fra l’occhio destro e il suo naso.
La sua espressione mi ricorda tanto una di quelle statue antiche in marmo che vedevo sui libri di scuola, che ora si trova in uno di quei musei europei che tutti vogliono visitare, giusto per togliersi lo sfizio di dire “sono stato qui, sono stato lì” e apparire più colti di quanto siano realmente.
“Sai… la prima volta che ti ho preso in braccio, ancora in ospedale, ho giurato davanti a Dio e al profeta che ti avrei protetto con tutte le mie forze. Che ironia, vero?” Commenta amaro.
Si schiarisce la gola e si passa una mano sul viso.
“Ti devo una spiegazione. Io… ti devo una spiegazione, sì.” Continua, sistemandosi freneticamente sul letto.
“Io… quando è successo il fatto, quella sera… non so cosa mi sia preso. Non stavo pensando, è questa la verità. Ero così… frastornato.”
Mentre parla, mio padre mi dà le spalle, non riesco a vedere il suo volto. Si è messo in questa posizione a posta per non farmi vedere i suoi occhi. Tuttavia, non ne ho bisogno.
La voce lo tradisce.
“Non posso giustificare il mio comportamento. Non importa ciò in cui credo… in cui credevo. Non importa nemmeno cosa pensano gli altri. Tu sei mio figlio, non dovrebbe contare nient’altro. Ma questo non lo capivo allora. Quando si ha la testa dura come la mia, serve un bel colpo per imparare la lezione.”
Ascolto in silenzio, troppo stanco per rimuginare sulle sue parole.
“Me ne sono pentito subito, sai? Ho iniziato a cercarti in lungo e in largo, ma di te nessuna traccia. Immagino che quando una persona voglia scomparire, trovi il modo per farlo. Ho passato mesi interi a chiedere di te in giro per lo stato, mesi! Alla fine ho dovuto rinunciare, sono tornato da tua madre solo per rendermi conto di aver attraversato quella porta come un altro uomo. La perdita di un figlio lascia un vuoto incolmabile, nel nostro caso lei ha creato un muro di convinzioni, che non sono riuscito a demolire.
Non è colpa tua, sia chiaro. Sono stato io a cambiare, non riuscivo più a vivere sotto quel tetto con la consapevolezza che tua madre fosse così ostinata nelle sue credenze da rinunciare al proprio figlio.
Io non volevo vivere nella menzogna, fingere che non fosse accaduto niente, di averti mandato a studiare in collegio. Volevo riaverti, assicurarmi che stessi bene, dovunque tu fossi.
Quando avete pubblicato il video, avevo quasi perso le speranze. Sembrava un segno dal cielo, finalmente sapevo dov’eri. A proposito, non dovresti divulgare certe informazioni su internet, non è sicuro.” Mi rimprovera, interrompendo il suo discorso.
Ma lo fa con un sorrisino, probabilmente è solo felice di poterlo fare, di essere di nuovo con me, di parlarmi.
“Il giorno prima di incontrarti al 7-Eleven sono andato al rifugio, sai? Ti ho visto in giardino, stavi parlando con un ragazzo, Sayid, sembravi felice. Io… non volevo rovinare quel momento. Vederti sorridere e scherzare… non potevo turbarti. Quindi sono rimasto lì, a guardarti, finché non sei rientrato. Devo ammettere di aver origliato la vostra conversazione, così ho saputo dove lavoravi.
Mi scuso nuovamente per quella mia visita improvvisa, capisco quanto ti abbia sconvolto. Insomma… non ci vedevamo da due anni e l’addio non è stato dei migliori.
Avrei voluto presentarmi in modo più consono qualche altro giorno, avvisando i tuoi tutori, ma riuscivo a pensare solo a te. E passeggiando per schiarirmi le idee, sono arrivato in quella zona.
Il resto è storia.” Conclude con un sospiro mozzato.
Si volta a guardarmi, io ricambio con una certa emozione, sbirciando da sotto le coperte.
Mentirei se dicessi di non aver immaginato, più di una volta pure, mio padre entrare a casa dei Bennet, stendere con un pugno quell’uomo e farmi un discorso del genere.
Quando andava tutto storto, quando la realtà diventava insostenibile, quella era la fantasia in cui mi rifugiavo.
“Non pretendo il tuo perdono, molto probabilmente non me lo merito nemmeno. Ti chiedo solo un’altra possibilità, una chance per fare ammenda.” Mi domanda, girandosi verso di me.
“Tutto qui.” Aggiunge con voce strozzata.
Sentire la disperazione nella voce di mio padre è la goccia che fa traboccare il vaso.
Non riesco più a trattenermi, scoppio a piangere.
Frigno come un bambino, cedendo finalmente alle tensioni accumulate negli ultimi giorni, mesi, anni.
Mio padre mi tira a sé e mi abbraccia, passandomi ritmicamente una mano sulla schiena. Quel movimento mi ha sempre rilassato, lo sa bene.
“Ho fatto una cazzata, papà. Ho rovinato tutto.” Ripeto fra i singhiozzi, stringendolo come se ne dipendesse della mia vita.
“Andrà tutto bene, Noah. Sistemeremo tutto.” Cerca di rincuorarmi, poggiandomi una guancia sulla testa.
“Non è vero, non si può! Mi odiano tutti.” Ribatto, le mie parole a stento comprensibili.
Mio padre mi scosta delicatamente, così da guardarmi in faccia.
“Chi te l’ha detto?” Mi domanda serio.
Tiro su con il naso, non riesco a ricambiare il suo sguardo.
Odio piangere.
Non mi fa sentire meglio, mi fa sentire miserabile.
“Su Twitter. La pagina sta perdendo follower e hanno iniziato a insultarmi. I giornali dicono che sono instabile e pericoloso…” Confesso, poggiando la fronte sulla sua spalla.
"E tu non andare su Twitter, per un po'." Ribatte lui, alzando le spalle come se non si trattasse di un grave problema.
"Ignorare il problema non lo risolve, papà. Anche se non andassi su Twitter per mesi, la pagina continuerebbe a perdere follower e le persone non finanzierebbero più la causa. E quelli di Westboro avrebbero più sostenitori..." Mi lamento, alzando la testa dalla sua spalla.
"Sono abbastanza sicuro che la Chiesa di Westboro non acquisterebbe altri sostenitori neanche se tu fossi Charles Manson." Ribatte mio padre, cercando di sdrammatizzare.
Sospiro gravemente, infastidito dalla sua comicità.
"Sai cosa intendo: più persone a favore della chiusura del rifugio. E, in ogni caso, non avremmo abbastanza soldi per portare avanti una causa giudiziaria e mantenere aperta la casa."
L'uomo alza una mano per interrompermi.
"Di questo non ti devi preoccupare, Noah. In realtà, non dovresti pensare a nessuna di queste cose. Sei ancora un ragazzino, dovresti essere impegnato nello studio, non farti carico da solo di salvare altre persone.
Ricorda che il tuo vecchio padre qui presente è un avvocato più che decente. E non dovrete pagare un dollaro per il mio servizio, è il minimo che possa fare." Afferma, ostentando sicurezza.
Lo osservo un attimo, squadrandolo dalla testa ai piedi.
Noto solo adesso quanto sia invecchiato in due anni: lo spiraglio di luce mette in risalto delle striature bianche sul suo sopracciglio, incorniciato da una serie di rughe che immagino convergere al centro degli occhi e di nuovo sulla fronte, a giudicare dalle increspature che riesco a vedere; l'attaccatura dei capelli è più alta di quanto mi ricordassi e sulla pelle bianca, che non ho ereditato, si intravedono delle macchioline causate da anni di esposizione al sole.
"Quindi... i nostri problemi si sono risolti perché è arrivato 'il grande uomo forzuto'?" Domando sarcastico.
"Più o meno." Risponde con nonchalance.
Annuisco ironico.
"E quand'è che inizierò a parlare con gli animali? Perché non vedo l'ora che gli uccellini di bosco mi puliscano la camera." Commento, causando l'ilarità di mio padre.
"No, no, davvero. Sono stato abbandonato, ho vissuto con un patrigno cattivo, sono stato aiutato da diverse fatine buone e adesso è spuntato  anche un uomo a salvarmi. Anni di sofferenza per capire che, in realtà, sono una principessa Disney. Già, sono Cenerentola 2.0 con converse in ecopelle."
Il tono da stand-up comedian è sempre stato il suo tallone d'Achille, l'uomo non riesce a resistere a delle battute recitate con un sarcasmo esagerato.
Aspetto che si calmi, prima di riprendere a parlare.
"Sappi che, anche se scherzo, non ti ho ancora perdonato." Metto in chiaro, giocherellando con un filo del piumone.
Devo ricordare a Winterfield di comprarne di nuovi, quando sarà tutto finito.
"Ne sono consapevole." Ammette mio padre in un sussurro.
Mi poggia una mano sulla spalla, che non allontano, ma guardo male.
"Però, è sempre un inizio." Aggiunge con la speranza nella voce.
Ritrae la mano e si schiarisce la gola.
"A proposito d'inizio, che ne dici di cominciare una terapia con Annie? Sai, no, l'amica di Josh." Mi propone cauto, analizzando la mia reazione.
"Parlare con un professionista potrebbe aiutarti a gestire la rabbia." spiega, notando il mio tentennamento.
"Non so... Insomma, non è che non ci abbia pensato, però..." Ribatto incerto.
Non continuo la frase, non riesco a mettere in ordine i pensieri per esprimere ciò che provo.
Mi mordo l'interno della guancia.
"Però... Cosa?" Incalza mio padre.
Alzo gli occhi su di lui.
Il pensiero è svanito, non riesco a recuperarlo.
Faccio spallucce.
"Non lo so." Rispondo, tornando a tormentare il piumone.
"Noah, vuoi aiutare i tuoi amici, giusto?"
Annuisco.
"Allora devi prima pensare a te stesso. Ti ricordi quando siamo andati a trovare i nonni a San Cristóbal? Ti ricordi che sull'aereo hai letto le istruzioni di salvataggio e c'era scritto che prima di aiutare gli altri, devi indossare la mascherina?" Si ferma per aspettare un mio cenno di assenso.
"Bene, è la stessa cosa: se prima non pensi alla tua salute, non puoi aiutare chi ti sta a cuore." Spiega in modo abbastanza convincente.
"Che ne dici? Non ti chiedo d'impegnarti in anni di terapia, solo di provarla e vedere se Annie va bene per te."
Alzo di nuovo le spalle.
"E se non mi trovo bene?" Mormoro.
"Allora cambieremo terapista, se vorrai continuare a provare. Devi capire, Noah, che gli psicologi sono tanti e non sempre sono quelli giusti per noi. La psicologia è come l'amore: se non ci si trova bene con un determinato psicologo, non è la terapia a non funzionare, semplicemente ci si è ritrovati con la persona sbagliata per noi."
Non è cambiato di una virgola, mio padre: sa sempre come spiegarmi le cose in modo che le comprenda.
"Quindi?" Domanda, dopo qualche secondo di silenzio.
"Va bene." Confermo, annuendo stanco.
"Va bene? Perfetto." Risponde con un sorriso.
Mi avvicina la testa per darmi un bacio sui capelli, spingendola con una mano.
"Ora vatti a lavare. Puzzi di morto." Commenta, uscendo dalla stanza.

"Avevi detto di averlo convinto!"
Mi giro dall'altro lato, sistemando le coperte sotto le gambe.
Dopo la visita di mio padre, ieri, mi sono alzato e mi sono lavato, sono sceso in cucina e sono riuscito a mangiare qualche boccone a cena... Finché non ho rivisto Sayid.
Immagini del 7-Eleven mi sono tornate in mente, lo stomaco mi si è chiuso e non ho potuto mangiare oltre.
Sono tornato in camera mia, nel mio letto, nella sicurezza del buio.
"Ero sicuro sarebbe uscito definitivamente dalla stanza. Insomma..." Segue un sospiro.
Sento dei passi avvicinarsi alla porta.
"Audrie, che fai?" Domanda la voce di Alex, più vicina di quanto m'aspettassi.
"Se non uscirà da solo, lo farò uscire io."
Con questo, la porta si spalanca.
Mi alzo dal letto, poggiandomi sul gomito destro.
"Audrie?" La chiamo sorpreso.
La ragazza mi ignora, va dritta verso la finestra e la libera dalle tende.
La luce invade la stanza, costringendomi a coprire gli occhi per non rimanere accecato.
"Ok, tesoro. È tempo di alzarsi." Afferma, percorrendo la distanza fra la finestra e il letto.
Mi tende una mano, che non accetto.
"Vattene, Audrie." Ribatto, tornando a stendermi sotto le coperte.
Imperterrita, la ragazza mi scopre con un movimento fluido, facendo cadere a terra il mio scudo.
"Alzati, testa di banana." Torna alla carica, perdendo anche quella minima traccia di dolcezza con cui mi si era rivolta prima.
Lo ammetto, la mia reazione non è delle migliori.
Prima che qualsiasi imprecazione possa sfuggirmi dalle labbra, in camera entrano anche gli altri ragazzi, guidati con incertezza da Alex.
"Questo è un intervento, bello mio." Dichiara Audrie, posizionandosi davanti a me con le braccia incrociate.
Li guardo a uno a uno, cercando di capire se stiano scherzando.
Noto solo ora che Marlene ha tagliato i capelli, adesso esibisce un taglio corto con riga laterale: semplice ed elegante, le si addice. Mi chiedo perché abbia deciso di tagliarli così corti, però.
Torno a guardare la ragazza di colore davanti a me.
"Mi stai prendendo in giro, vero? Ti sembra una sitcom? Non sapevo di essere stato teletrasportato in un appartamento a New York." Ribatto sarcastico.
Audrie si avvicina minacciosa. Mi ritraggo sul letto, nel timore di ricevere un pugno in faccia.
Lei si china, si ferma accanto al mio orecchio, riesco a sentire il suo respiro sulla guancia.
"Se non esci da questa stanza, giuro su quanto ho di più caro che ti prendiamo di peso e ti portiamo in giardino come un maiale legato allo spiedo." Sussurra fredda.
Si allontana quel poco che basta per guardarmi negli occhi.
"Sono stata chiara?" Domanda.
Non rispondo. Ha una luce negli occhi che non penso d'aver mai visto in una persona sana.
A una mia mancata risposta, si drizza e schiocca le dita.
"Prendetelo."
Come delle vittime di un lavaggio cerebrale, Sayid e Marlene mi afferrano per le braccia, costringendomi in piedi.
"Ragazzi, smettetela, sono serio." Ordino, liberandomi dalla presa con uno strattone.
Alex si avvicina, portando le mani avanti.
Guardo di sbieco la mia persona preferita, pronto a lottare se costretto.
"Noah, per favore, non puoi rimanere chiuso in camera per il resto della tua vita. Va bene, hai fatto una cazzata..."
"Grazie mille." Interrompo pungente.
"Sta zitto e fammi finire." Mi riprende Alex, alzando una mano. "Capisco che te ne sia pentito amaramente e ci sta pure questo tuo episodio depressivo... Ma adesso basta. Ti abbiamo lasciato spazio, ti abbiamo dato tempo per riprenderti, però non possiamo lasciarti cadere malato, perché questo succederà se continui così." Mi avverte, prendendomi per un braccio.
"Quindi, adesso ti vai a fare una doccia degna di questo nome, ci raggiungi in giardino e domani inizi la terapia con Annie. Tutto chiaro?"
Mi sa più di domanda retorica.
Sostenendo il contatto visivo, annuisco.
Alex sfoggia un sorriso soddisfatto.
"Ci vediamo sotto, ok?"
"Ok." Rispondo, uscendo dalla porta che Sayid tiene aperta per farmi passare.

Il fresco di novembre mi accoglie. Dopo giorni rinchiuso in camera, uscire in giardino mi sa di viaggio. Come se stessi entrando in una dimensione parallela, che non obbedisce alle regole del mio reale.
La luce arancione del tramonto sembra più vivida del solito, i profumi più forti, l'aria più frizzante, i suoni più nitidi.
Dopo essermi abituato a 360p, sto sperimentando il mondo in 4K.
Il cambiamento mi dà alla testa, Alex si avvicina per darmi una mano a scendere dal portico.
Mi sento un ex-galeotto finalmente in libertà, non mi aspettavo una simile reazione.
Al centro del verde i ragazzi hanno piazzato diverse coperte, su cui sono seduti Marlene, Audrie, Heather, Sayid e, con mio grande stupore, Steve.
Alex mi prende per mano e mi conduce su una coperta blu scuro, che solo ora riconosco come il suo copriletto. Sayid si sposta per farci spazio, io mi siedo al suo fianco.
"Chi non muore si rivede." Mi saluta Steve dall'altro lato del cerchio, dandomi una pedata scherzosa al piede.
"A volte ritornano." Ribatte Sayid, girandosi a guardarmi.
Alzo gli occhi al cielo, imbarazzato.
"E chi si fa i fatti suoi, campa 100 anni. Avete finito con la fiera dei proverbi?” Li canzono, ricambiando il calcio.
“Com’è essere di nuovo nel mondo reale? Avevi dimenticato di che colore fosse il cielo?” Domanda Heather immediatamente, dirottando la mia attenzione alla stessa velocità di chi fa zapping per noia.
“Dai, non mi sono chiuso in stanza per così tanto tempo.” Mi lamento, alzando gli occhi al cielo per assicurarmi di vederlo azzurro.
Audrie emette una risata nasale.
“Non sei… ti davamo già per scomparso. Shane era seriamente convinto-“
“Chi è Shane?” La interrompo perplesso.
Audrie, ancora con la bocca aperta a metà frase, alza un sopracciglio.
“Prima di tutto: maleducato. Non s’interrompono le persone. Secondo…” indica Marlene, “lui è Shane.”
Guardo il diretto interessato, ancora più confuso di prima.
“Che mi sono per… oh. Aspetta. Giusto. Vero, scusami Marlene…” Balbetto per l’imbarazzo, ricordandomi improvvisamente degli ultimi avvenimenti.
“Shane.” Mi corregge lui, cercando di trattenere una risata.
“Shane. Scusa, l’avevo dimenticato.” Cerco di giustificarmi.
“Ce n’eravamo accorti.” Commenta Alex, facendomi venire un’improvvisa voglia di affondare la faccia in una bacinella d’acqua.
Da quand’è che fa tanto caldo a novembre?
Meglio cambiare argomento.
“Perché Shane?” Chiaramente ho smesso di pensare: questo non è cambiare argomento, Noah.
Marl- Shane alza le spalle.
“In onore di un youtuber che gli piace.” Risponde Heather, dandomi una vaga idea di chi potrebbe essere, idea che al momento non riesco a percepire perché sono troppo occupato a trattenermi dal prendere quel bicchiere davanti a me e versarmelo in faccia.
Voglio morire.
Non dovrei essere così imbarazzato da un piccolo errore quale l’aver dimenticato il cambio di genere di un mio amico. Sono cose che capitano tutti i giorni, no? È normale dimenticarlo.
Scusate un secondo, vado dentro a prendere qualcuno con migliori abilità sociali di me. Non so, per esempio il cuscino del divano.
Almeno il cuscino è comodo e si veste meglio.
“E ti piace il nome?” Chiedo, cercando di rimanere ancorato alla realtà per non sprofondare nel vortice della vergogna.
Ancora una volta, Shane fa spallucce.
“Meh. Probabilmente lo cambierò, non lo sento molto mio.” Risponde, cercando un contatto visivo che sicuramente non otterrà.
“Audrie, stavi dicendo?” Chiedo, sviando il discorso una volta per tutte.
La ragazza incrocia le braccia, chiaramente infastidita dall’essere stata interrotta per un paio di minuti abbondanti.
“Dicevo: Shane era fermamente convinto saresti diventato un hikikomori.”
“Salute.” Ribatto, non avendo assolutamente idea di cosa stia parlando.
Audrie scioglie le braccia.
Hikikomori. Ce l’hai presente, no?” Chiede con un pizzico di incredulità.
Certo, come se tutti sapessero cosa sia un… quello.
La indico, facendo ruotare il dito.
“Lo so che stai cercando di comunicarmi qualcosa. Parla normale, Audrie.”
Il suo sopracciglio, che era rimasto alzato, si solleva ancora di più. Manca poco che raggiunga l’attaccatura dei capelli.
Mi metto a carponi e, sporgendomi, glielo abbasso. Lei allontana di scatto la testa e mi dà un colpo sulla mano, intimandomi di tornare al mio posto.
“Hai presente quei giapponesi che si rinchiudono da soli in casa per anni?” Spiega, dopo essermi ricomposto.
Mi metto drammaticamente una mano sul petto, alzando le sopracciglia per ostentare affronto.
“Sono uscito in giardino per divertirmi e, onestamente, al momento mi sento abbastanza attaccato.” Dichiaro, citando palesemente una battuta morta e sepolta.
“Seriamente, aprendo la porta mi aspettavo te, messo in un angolino, illuminato solo dalla luce di un portatile.” Ribatte Audrie, scoppiando a ridere al pensiero.
“Se dovete insultarmi torno in camera.” Rispondo, alzandomi.
Sia Alex che Sayid mi trattengono per le braccia.
“Dai, stiamo scherzando. Siamo solo felici di riaverti fra noi.” Si scusa Alex, tirandomi verso il basso.
“E orgogliosi perché hai deciso di entrare in terapia.” Aggiunge Sayid, facendomi sedere definitivamente.
Mi lasciano andare.
“E sarai serio nell’impegno, vero?” Domanda Heather con lo stesso tono di una professoressa che minaccia l’alunno di bocciatura.
Sento tutti gli occhi su di me, mi guardo intorno, ancora una volta, imbarazzato.
In soggezione, annuisco.
“Sì… insomma… devo migliorare. Come posso portare avanti la causa se prima non sto bene?” Borbotto, cercando di ricordare ciò che mi ha detto mio padre.
Sayid sbuffa, facendomi sobbalzare.
“Dimentica la causa, Noah. Devi stare bene per te stesso!” Afferma, in un coro di “Esatto” e “Hai ragione”.
Sorrido, rincuorato dal supporto.
“Grazie, ragazzi.” Mormoro.
Vengo travolto dall’abbraccio dei miei amici. Hanno la stessa carica di un bisonte, mi ritrovo steso a terra schiacciato dai loro corpi.
Si alzano quando si accorgono che non riesco a respirare.
Morto soffocato dall’amore… letteralmente.
Sento la suoneria di un cellulare, Shane risponde. Si guarda alle spalle, si alza e va nel giardino frontale.
Torna dopo qualche minuto con due cartoni di pizza.
Alex si alza per aiutarlo.
“Dopo giorni che non mangi, farai meglio a finirne una da solo. Anche perché mi sono costate trenta dollari. Uscite i soldi, ragazzi.” Ordina, mostrando la mano.
Provo a dargli la mia parte, ma non accetta.
“Stiamo festeggiando per te. Oggi te la offro io.” Risponde alle mie lamentele, allontanandomi la mano.
La pizza viene distribuita.
“Ragazzi, non so come ringraziarvi.” Dico inebetito, incapace di mangiare senza prima mostrare la mia gratitudine.
“Non farlo, non serve.” Risponde Steve, rivolgendomi un occhiolino complice.
Quello stesso occhiolino che mi faceva quando decidevamo di fare qualcosa che non dovevamo fare. “Ci sono io a coprirti le spalle”, questo vuol dire.
“A giorni migliori!” Afferma Sayid, alzando la sua fetta di pizza come se fosse un calice di spumante.
“A giorni migliori!” Rispondiamo imitandolo.
Vorrei che questo momento non finisse mai: il giardino, la sera che avanza, il profumo della pizza, i miei amici intorno a me, la risata della mia persona preferita, Sayid al mio fianco, i nostri mignoli intrecciati.


Ed è lì che Cox, accompagnato da due agenti, apre la porta, risvegliandomi dalla mia fantasia e facendomi tornare nello studio dai mattoni scoperti macchiati del mio sangue.
 

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Capitolo 14
*** Kill Somebody ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve e bentornati! l brano di oggi è Kill Somebody, l'ultimo singolo del giovane cantante inglese Yungblud. Da poco ventenne, Yungblud, nato Dominic Harrison, ha raggiunto il successo grazie ai singoli Tin Pan Boy Falling Skies, contenuti nella colonna sonora della seconda stagione della serie prodotta da Netflix Thirteen Reasons Why (titolo italiano: Tredici). Ragazzo intelligente, "very opinionated" a detta sua, non ha paura di affrontare tematiche quali disturbi mentali, corruzione, industria farmacologica e violenze sessuali nelle sue canzoni, dallo stile genericamente inserito nell'alternative rock, che mischia hip-hop, rap, elettronica e rock.
Consiglio qualche sua intervista, se si riesce a comprendere il suo forte accento del nord (le T esistono, Dom amore mio... pronunciale).
Vi auguro una buona lettura!

Capitolo 14

Qualcuno ha rallentato le lancette.
Hanno preso l’orologio in legno sopra il comodino, quello che sembra essere stato costruito prima della casa – che molto probabilmente è stato costruito prima della casa – e ha deciso di giocare con la lancetta dei secondi.
Almeno così mi sembra.
Il corridoio del 7-Eleven non è mai stato così lungo.
Quando la porta dell’ufficio si chiude, riesco a vedere ogni testa voltarsi singolarmente, come se avessero deciso di girare un video musicale sul mio arresto.
Non vedo Sayid, dev’essere tornato a casa. Una parte di me ne è sollevata, non vorrei che mi vedesse in questo stato.
Se la CNN mi riprendesse in questo momento, non m’importerebbe.
Ma Sayid no, preferisco che sia tornato a casa.
Già immagino la scena.
Dietro le porte del negozio vedo sprazzi di legno, due divani, l’arco che apre sulla sala da pranzo. La stanza è illuminata da luci intermittenti.
Blu e rosso tingono la schiena di Sayid, mentre il ragazzo corre dentro casa, entra nel salotto, aggrappandosi alla colonna che lo separa dal corridoio per girare e non perdere l’equilibrio, e urla ai miei ignari amici gli ultimi avvenimenti.
“Hanno arrestato Noah!”
“Che vuol dire che hanno arrestato Noah?”
Le porte automatiche del negozio si aprono, lasciando che la luce intermittente m’illumini.
Un uomo, seduto in ambulanza, si volta a guardarmi, infastidendo l’infermiere che lo sta medicando.
“Ha aggredito una persona.”
Abbasso gli occhi, incapace di sostenere il suo sguardo.
È calato il sole, non mi ero accorto che fosse così tardi. D’altro canto, a novembre la giornata non dura molto.
La notte, al contrario, sembra non finire mai.
“E adesso?”
Lascio che la polizia mi conduca in questa passerella della vergogna, anche i paparazzi hanno cambiato colore al flash.
Un agente mi abbassa la testa per farmi entrare in macchina.
“Terzo reato, rischia la galera.”
La portiera si chiude con un cigolio metallico.
La centrale è incredibilmente bianca, asettica.
Senza tante cerimonie, i poliziotti mi trascinano nello stesso ufficio in cui sono stato qualche ora fa, alla stessa scrivania che Winterfield ha battuto più volte con le mani.
Ho il dispiacere di scoprire che l’agente di stamattina non ha finito il suo turno.
L’uomo mi squadra dalla testa ai piedi con un sorriso subdolo. Tuttavia, non ho né la forza né la voglia di alterargli la faccia.
Non ho voglia di fare nulla.
Non provo niente, assolutamente niente.
Anche la vergogna è diventata solo un fastidio, nemmeno così pressante ad essere sinceri.
Mi sono rassegnato al mio destino, è questa la verità.
Non è la prima volta che mi trovo in questa situazione, e molto probabilmente non sarà l’ultima. Passerò la mia vita in galera, se non mi do una regolata.
Mi verrebbe da incolpare l’universo, che mi lancia una sfida dopo l’altra, o anche ai miei genitori, che mi hanno spinto in questa situazione.
Ma sarebbe del vittimismo inutile.
Non posso controllare il comportamento delle altre persone, come non posso scegliere quali prove la vita mi proporrà. Però la mia reazione sì, quella posso controllarla eccome.
E questa volta ho sbagliato… di nuovo.
Faccio un errore dopo l’altro, si saranno sommati e questo ne è il risultato.
Devo cambiare rotta, se non voglio sprecare la mia vita fra le sbarre.
“Ma guarda chi si rivede, da quanto tempo!” Commenta l’agente con falsa allegria.
Non rispondo.
L’uomo inizia a battere al computer.
“Mi può ricordare il suo nome?” Domanda, le mani in attesa di una mia replica.
“Noah Smith.” Rispondo atono.
Il click della tastiera mi ricorda lo zampettare degli scarafaggi, di quelli che si sentono nei film quando ne fanno i primi piani nelle case abbandonate.
“A cosa dobbiamo il piacere di questa sua visita, signor Smith? Posso chiamarti Noah?” Chiede con superiorità, tornando a guardarmi fin troppo cordiale.
Mi stringo nelle spalle.
Potrebbe anche chiamarmi Roxanne, per quanto m’interessa al momento.
Noto con la coda dell’occhio una denuncia di fronte a lui, che il poliziotto cerca con poca voglia di nascondere sotto l’avambraccio.
Scorgo il mio nome in grassetto.
Mi chiedo quando l’abbiano presa, visto che la mia vittima non si trova in centrale.
Probabilmente non me ne sarò accorto io.
“Aggressione. Alle ore 16:42 l’imputato ha aggredito il signor Daniel Webb, colpendolo ripetutamente a mani nude e con barattoli di latta.” Spiega il collega che mi ha portato qui.
L’agente sospira drammaticamente, voltandosi a guardarmi.
“Brutta storia. Dimmi, Noah, che è successo?” Domanda con falso interesse.
Falsa allegria, falso interesse… falso, falso: tutto falso!
Se gli spiegassi la situazione, probabilmente riuscirebbe a coinvolgere anche altre persone.
“Mi ha insultato.” Rispondo, rimanendo sul vago.
L’agente inclina la testa di lato.
“Oh, ti ha insultato e quindi hai deciso di dargli un pugno, è andata così?”
Faccio nuovamente spallucce.
L’uomo torna al computer e scrive qualcosa.
“Da quanto vedo non è nemmeno il tuo primo reato. Hai già la nostra bonus card? Stai cercando di accumulare punti per vincere un orsacchiotto?” Mi prende in giro, scoppiando a ridere.
Il silenzio cala nella sala.
Il suo collega non lo trova divertente, io non provo nulla, un altro agente lo guarda male.
Notando il cambio d’atmosfera che ha generato la sua battuta, l’uomo si schiarisce la gola e torna serio.
“Dammi il numero dei tuoi tutori. Il caso verrà mandato a un giudice, che deciderà se avviare il processo.”  
Gli detto il numero e aspetto che li chiami.
Mentre parla al telefono, fisso il muro dietro di lui, lasciando che i rumori intorno a me mi sorpassino senza nemmeno accorgermene.
L’uomo riattacca.
“I tuoi tutori saranno qui a breve. Quando arriveranno, potrai andare con loro. Nella mattinata di domani il tuo caso verrà reindirizzato ai tuoi assistenti sociali, poi a un giudice. Adler, puoi fargli compagnia in sala d’attesa finché non arrivano i suoi tutori? Io ho del lavoro da sbrigare qui.” Ci congeda con un gesto della mano.
L’agente mi prende per un braccio e mi fa alzare, scortandomi nella sala adiacente in attesa dei Winterfield.
“Si può sapere che ti è saltato in mente?” Urla Winterfield appena chiudo lo sportello della macchina.
“Ovviamente non stava pensando!” Dà manforte mio padre, allacciandosi la cintura di sicurezza, seduto sul sedile del passeggero.
Emma non è venuta a prendermi, ha preferito rimanere al rifugio per calmare le acque.
Sarà troppo amareggiata per vedermi, me lo sento. Quando si arrabbia, la donna preferisce ignorare la causa finché non torna in sé.
Capisco perché lo faccia, ma la sua furia silente mi disturba più delle urla dei due uomini. È come se l’avessi delusa così tanto da costringerla a non riuscire a sostenere la mia vista.
Winterfield mette in moto, continuando a urlare rimproveri su rimproveri.
Qualcuno potrebbe dire per preoccupazione, a me sembra soltanto aggressività repressa.
Onestamente non mi sorprenderei se, sceso dalla macchina, mi arrivasse uno schiaffo da parte sua.
“L’avevo detto che dovevi rimanere a casa, oggi. L’avevo detto.” Continua imperterrito a ripeterlo, nonostante i tentativi di mio padre di parlare, come se specificarlo adesso cambiasse qualcosa.
Le voci dei due si uniscono in un tripudio di urla e suoni che non ho la forza di discernere.
Sono stanco.
Non dico nulla, guardo il paesaggio scorrere fuori dal finestrino, una canzone in testa lo accompagna.
Non so nemmeno come faccia a conoscerla, ma suona da quando la polizia è arrivata al 7-Eleven.
“Bribing the jury to keep me in jail, singing Tea for the Tillerman.” Sussurro, nella speranza che la canzone si fermi una volta espressa.
Gli uomini non mi sentono, sono troppo impegnati a elencare tutte le mie colpe e i loro possibili esiti per prestarmi attenzione.
“Se non finisci in riformatorio, stai sicuro che non uscirai dalla tua stanza per almeno un mese. E quel tuo amichetto dormirà con qualcun altro. Niente telefono, niente lavoro e niente amici per un mese. Questa volta hai proprio superato il limite.” Urla mio padre, voltandosi a guardarmi.
Ancora non sa che sono stato licenziato.
Niente social media e niente persone per un mese? Madre Gothel sta cercando di punirmi o di premiarmi?
“Solo una denuncia di aggressione ci mancava.” Mormora Winterfield, posteggiando nel vialetto di casa.
Scesi dalla macchina, mio padre non mi si avvicina. Ci saluta velocemente, affermando di dover andare a lavorare sul mio caso, di pensare a una soluzione.
Sarà il mio avvocato.
Prima di entrare nel rifugio, mi preparo a essere assaltato dai ragazzi.
Non voglio rispondere a nessuno.
Voglio solo andare a letto.
Come volevasi dimostrare, appena Winterfield apre la porta ritrovo il gruppo ad aspettarmi. Non intendo solo i miei amici, ma tutti i ragazzi ospiti della casa: ci sono persone sedute sulle scale, poggiate al muro, al parapetto che divide l’entrata dal salotto, in piedi al centro.
E tutti mi stanno fissando.
Winterfield cerca di metterli a lavorare, in fin dei conti la casa non si può bloccare per me.
Un’ombra femminile attraversa il corridoio in direzione della cucina.
Non si ferma, non si volta a guardarmi.
Avevo ragione.
Finalmente l’uomo riesce a disperdere la folla di curiosi, lasciandomi da solo nelle mani dei miei amici.
Nelle mani di Alex.
“Sei un immane coglione.” Erompe, mentre si alza dalle scale e si avvicina a me, facendomi arretrare di un passo.
“Wow. Alex, tesoro, non è così che si tranquillizzano le persone.” Commenta Audrie, frenando la furia per un braccio.
“Quante volte ti ho detto di andartene, quando qualcuno t’insulta, eh? Quante?” Continua, non prestando attenzione alla ragazza.
“Non è la prima volta?” Domanda Heather di punto in bianco.
“Prima a scuola, poi con Bennet e adesso anche qua. La libertà ti fa schifo, vero? Perché non mi sembri cretino.” Non risponde alla domanda di Heather, ormai non si può fermare.
È ovvio che Sayid abbia spiegato la situazione.
Li guardo tutti singolarmente. Mi soffermo su ogni viso, ogni espressione.
La realtà mi colpisce come una meteora.
Potrebbero rimanere senza casa, o andare in affidamento.
Non voglio che entrino nel sistema.
Non voglio che finiscano di nuovo in strada.
Non voglio.
“Mi dispiace.” Le parole mi escono in un sussurro, strozzate dall’onestà.
Mi gira la testa.
Cerco la porta per avere un sostegno, abbasso il capo e chiudo gli occhi.
Sento come se il mondo mi stesse crollando addosso. Non voglio vedere nessuno, non voglio sentire nessuno… vorrei solo andare a letto e finire questa giornata.
“Mi dispiace.” Ripeto, tenendomi la mano dolorante.
Dovrei farmela controllare, l’ematoma che si è formato non promette niente di buono.
“Non ho pensato a come… a come avrebbe potuto influenzare l’immagine del rifugio. Non stavo pensando completamente, a dire la verità. Adesso non so quante possibilità avremo di vincere la causa.” Mormoro, aprendo a stento le dita.
Mi sa proprio di averla rotta.
Sayid sbatte le mani contro lo scalino, facendomi alzare la testa di scatto.
“Onestamente, Noah, chi cazzo se ne frega della causa. Pare che qualsiasi cosa tu faccia, hai sempre il pallino del processo. Ti sta mangiando vivo. Lo vedi a che stato ti ha portato?” Afferma indicandomi.
Le sue parole hanno fatto calare il silenzio.
“Devi smetterla di pensare di dover salvare tutti. Non sei Superman… al massimo potresti essere Aquaman, ma non so quanto ti convenga se non sei Jason Momoa. Non che tu mi faccia schifo, ma Aquaman è abbastanza inutile.” Commenta, poggiandosi alla finestra accanto a me.
Alex si mette dall’altro lato.
“Sayid ha ragione, ti devi dare una regolata. Non importa come finirà la storia, cerca di trarne qualcosa di positivo, altrimenti…”
“Altrimenti ne uscirò pazzo.” Concludo il suo pensiero.
Alex annuisce.
Non posso dar loro torto. Cioè, potrei, ma riprenderebbero a urlare e sinceramente sono stanco e ho mal di testa, voglio andare a letto.
Sospiro e mi allontano dalla porta.
“Grazie mille ragazzi… ma, se non vi dispiace, vorrei andare a dormire. È stata una lunga giornata.”
“Noah Smith… io mi ricordo di te.” Afferma il giudice, guardandomi da sopra la denuncia.
Si passa una mano sul mento perfettamente rasato.
“Qualche mese fa, in estate. Furto e infrazione, giusto?” Chiede, cercando di ricordare.
Annuisco.
“Lo sapevo. Sbaglio o avevi un altro cognome?” Continua, quasi inorgoglito della propria memoria.
Non vorrei addentrarmi in quelle acque: dare un nome falso a polizia e corte costituisce un altro reato, peggiorerei una situazione già abbastanza grave.
Quindi, mi stringo nelle spalle.
“Lunga storia.” Mi limito a rispondere.
Il giudice mi lancia un’occhiata di sbieco, indeciso se approfondire o essere clemente. Non sono né il primo né l’ultimo ragazzo che dà un nome falso per proteggersi, chissà quanti ne ha visti.
Ma oggi sembra di buonumore, il ricordare lo fa sentire giovane.
“Terzo reato, quindi. Primo rissa, il secondo lo conosciamo e adesso aggressione. Non vi pare ci sia un filo conduttore?” Domanda retorico.
Mio padre mi poggia una mano sui capelli, accarezzandomeli e dandomi un buffetto sulla nuca.
“Lei è suo padre, giusto?” Chiede il giudice, notando il gesto.
Mio padre conferma.
“Le posso chiedere dove fosse durante l’ultima udienza? E come mai non c’è traccia del suo nome nella cartella che mi hanno consegnato gli assistenti sociali?”
Io e mio padre ci scambiamo uno sguardo eloquente.
“Lunga storia.” Rispondiamo insieme.
Il giudice storce la bocca.
“Già, una lunga storia che racconterete agli assistenti.” Ci ordina, posando la denuncia.
Unisce le mani avanti a sé.
“Allora, signor Smith, avendo suo figlio già precedentemente scontato un periodo di riformatorio, non posso fare altro se non portare il suo caso in tribunale. Credo si andrà per un altro mese e mezzo di detenzione, vista l’età di Noah, ma i giorni potrebbero variare in base alla valutazione psicologica per cui faremo richiesta. Si dovrà aggiungere anche un periodo di terapia, dal momento che suo figlio presenta evidenti problemi nel gestire l’aggressività, e un rimborso monetario per la vittima. Tutto chiaro?” Sentenzia, guardando prima me, poi mio padre.
Io annuisco, tuttavia l’uomo accanto a me non è così accondiscendente.
“Noah, potresti uscire un attimo, per favore? Vorrei parlare con l’onorevole.” Mi chiede con un sorriso rassicurante.
“Non è meglio che io stia qui? Dopotutto è del mio futuro che stiamo parlando.” Faccio notare, cercando appoggio nel giudice.
“Tranquillo, non prenderemo decisioni in tua assenza, se è questo che vuoi. Però la discussione che stiamo per affrontare non credo potrebbe interessarti.” Ribatte senza perdere la calma.
“Al contrario, penso m’interesserebbe molto. Sai com’è, in riformatorio ci dovrei finire io.” Replico, cercando di limitare al minimo il tono sarcastico.
Con gli occhi, mio padre mi fa capire di aver bisogno di serenità per raggiungere l’accordo migliore, serenità che interromperei ogni cinque minuti, a suo parere.
Vorrei dargli torto, ma non posso.
Odio che si parli di me come se non fossi nella stanza, ma in questo caso è inevitabile, tanto vale uscire.
Stringo i denti e mi alzo. Con un segno del capo saluto l’onorevole e imploro mio padre con lo sguardo di non prendere decisioni senza prima avermele proposte.
L’uomo mi tira in un abbraccio.
“Appena raggiungeremo un buon accordo, te lo proporrò. Fidati di me.” Mi sussurra, prima di lasciarmi andare.
Vado nella sala d’aspetto, dove Sayid, Audrie e Alex mi attendono seduti su una panchina.
“Quindi?” Domanda curioso il ragazzo libanese, facendomi posto.
Mi butto a sedere accanto a lui e faccio spallucce.
“Un mese e mezzo di riformatorio, probabilmente.” Mormoro.
Alex scatta in piedi.
“Un mese e-“ Urla.
Immediatamente, mi porto un dito alle labbra. Siamo pur sempre in un tribunale, non sta bene gridare.
“Un mese e mezzo di riformatorio?” Sussurra con rabbia.
Confermo con un cenno del capo.
“E in più, probabilmente, dovrò ripagare quell’uomo per danni morali o quello che è. E stanno chiedendo anche una valutazione psicologica.” Spiego, chinandomi in avanti e tenendomi la fronte con le mani.
“In effetti, una visita dallo psicologo ti ci vorrebbe” Commenta Sayid, stringendo le labbra.
Lo guardo male.
“Grazie mille.” Ribatto sarcastico.
Il ragazzo alza gli occhi al cielo.
“Non te la prendere a male, tutti i migliori sono pazzi.” Afferma, cercando di rincuorarmi.
Mi poggia una mano sulla schiena.
“Poi ci sei tu.” Aggiunge con un sorriso sghembo.
Scuoto la testa, trattenendo una risata. Non mi va di ridere ora, non qui. Lo so, non è un ragionamento logico, ma ogni tanto non voglio ridere anche se mi viene.
Rimaniamo per un attimo in silenzio, mentre il tribunale continua a svolgere la sua vita.
Gente che va e gente che viene, non sempre con i polsi liberi, ma in ogni caso tutti eleganti.
“Non sono una persona violenta, vero?” Domando di punto in bianco.
“No che non lo sei, tesoro.” Afferma subito Audrie, tirandomi in un abbraccio laterale.
Sì, insomma, quelli che si fanno a un solo braccio quando si vuole consolare qualcuno, ma non si è abbastanza coinvolti da alzarsi per un abbraccio normale.
“Meh, violento no…” Inizia Alex, tentennando.
I ragazzi rimangono perplessi.
“Ma sei abbastanza aggressivo. Però sei migliorato tanto.” Conclude la mia persona preferita, alzando due pollici d’incoraggiamento.
Mi porto una mano al petto.
“Io? Aggressivo? Ok, non mi faccio mettere i piedi in testa…” Cerco di discolparmi.
“Diciamo che non ti sai mordere la lingua e andartene quando serve.” Commenta Alex, alzando un sopracciglio.
La lingua no, ma le guance me le so mordere eccome. Vuoi vedere le cicatrici?
No, questo non lo posso dire.
“In qualche modo mi devo difendere!” Ribatto stizzito.
“Ci si può difendere anche in modo più calmo. E abbassa la voce, fra poco gridi.”
“È il mio… è il mio tono di voce.” Chiarisco, affievolendo la voce in un sussurro non così silenzioso.
“Se lo dici tu.” Ribatte, stringendosi nelle spalle.
Sospiro e mi passo una mano fra i capelli.
“Tuo padre?” Domanda Sayid, cambiando discorso.
“È dentro, sta cercando di accordarsi con il giudice.” Ribatto, guardandomi la mano fasciata.
Alla fine l’ho rotta davvero, ma non è una frattura grave.
“È bravo come avvocato?”
Faccio di nuovo spallucce.
Sembra un tic, di quante volte faccio questo gesto.
Mi analizzo la fasciatura, tracciando con il pollice ogni sovrapposizione.
“Forse mi farebbe bene un po’ di terapia.” Commento fra me e me.
“Sì, lo penso anch’io.” Concorda Audrie, passandomi una mano sulla nuca.
È un gesto che fa spesso, quando non sa che fare: poggia il polso sulla base del collo e immerge le dita nei capelli, muovendole su e giù, come quegli aggeggini per massaggiare lo scalpo.
Rimaniamo in silenzio finché la porta non si apre.
Mio padre esce con aria tesa, non promette niente di buono.
“Dopodomani farai una seduta con la dottoressa Payton. Martedì prossimo ci sarà l’udienza.” Afferma amaro.
Non è cambiato niente, non hanno trovato un altro accordo.
Annuisco stringendo le labbra, e mi alzo.
Mio padre si avvicina, mi mette una mano sulla schiena, passandola ritmicamente su e giù.
“Andiamo a casa, che ne dici?” Mi chiede, addolcendo il tono.
Annuisco di nuovo.
I ragazzi si alzano e insieme, chi abbattuto, chi perplesso, usciamo dal tribunale.

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Capitolo 15
*** Peace ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e BUON NATALE! Spero stiate passando bene le feste, a qualunque religione (o spiritualità, o assenza di fede)  apperteniate. Il brano di oggi è Peace, singolo del 2009 dello storico gruppo alternative rock Depeche Mode. Il gruppo è in giro dagli inizi degli anni '80, nella loro carriera si sono distinti per l'uso di Synth in canzoni dalla tonalità sul pop-rock o new wave. Con quasi quarant'anni di carriera alle spalle, il gruppo è stato uno dei capisaldi della scena britannica.
Vi auguro buona lettura!

 
Capitolo 15

 
“Per quanto possa essere brava nel mio mestiere, non so leggere la mente. Parlami, Noah. Stando in silenzio non aiuti me e, sicuramente, non migliori la tua situazione.”
Smetto di torturarmi le mani e la guardo impassibile.
La dottoressa cerca di rimanere composta, ma il tic della gamba tradisce la sua frustrazione.
Il ticchettio dell’orologio appeso al muro riempie la stanza, rispondendo perfettamente al ritmo della donna. La lancetta segna quasi la fine di questa tortura.
Mi concentro così profondamente su di esso da iniziare a sbattere le palpebre ogni tre secondi.
Penso che se ne accorga, data l’espressione perplessa sulla sua faccia.
Ha provato di tutto: il classico test delle macchie, farmi creare una storia breve a partire da alcune fotografie, infine farmi disegnare la mia famiglia.
Non è riuscita a scalfirmi.
“Cosa dovrei scrivere sul mio rapporto? Il paziente si rifiuta di parlare?” Domanda retoricamente.
Sì, scrivilo pure.
La dottoressa si passa una mano fra i capelli, aggiustandosi un ciuffo dietro l’orecchio.
“Parliamo dei tuoi amici. Avrai sicuramente degli amici, no?”
Mi stringo nelle spalle.
La donna sospira, posando il blocchetto degli appunti e la penna sul tavolo.
“Noah, sei consapevole del fatto che questa valutazione influenzerà la decisione del giudice, vero?”
Di nuovo, faccio spallucce.
“So che hai degli amici. Ho visto i video che circolano in rete. Parlami un po’ di quella persona che hai difeso quando sei svenuto. Ricordi quel video?”
“Che c’entra Alex?” Rispondo sgarbatamente, non lasciandole spazio per altre domande.
La donna alza le braccia al cielo in segno di vittoria, mascherando il gesto come se stesse stirando le braccia, alla vista della mia espressione decisamente poco felice.
“Sì! Parliamo di Alex, perfetto. Che rapporto hai con lui?” Chiede, riprendendo penna e blocco.
“Non è un lui.” Preciso atono.
La prendo alla sprovvista.
“Ah. Va bene, che rapporto hai con lei?” Si corregge, marcando il pronome secondo lei corretto.
“Non è una lei.” Replico, alzando gli occhi al cielo per mascherare un accenno di divertimento.
La dottoressa rimane perplessa.
“In che senso, scusa?” Domanda, il tono abbassato di almeno un’ottava.
Non-binary. Serve il neutro.” Rispondo semplicemente, come se fosse ovvio.
Lo è per me, ormai ci convivo. Anche perché ormai me lo sono fatto spiegare un centinaio di volte.
“Ok. Che rapporto hai con questa persona?” Riprende, sperando di non perdere l’occasione per farmi parlare.
Alzo le spalle.
“No, no, no! Parlami, ti prego!” M’implora la donna, allungandosi verso di me. Il risultato è una figura stesa sul tavolo come un islamico in preghiera.
Adesso inizia a farmi pena, questa povera donna. La sto torturando.
È chiaro come il sole che mi voglia aiutare… e poi sembra una brava persona, non mi sento a mio agio a trattarla così.
Mi schiarisco la gola, incrociando le braccia al petto.
“Ok, va bene. Cosa vuole sapere?”
La donna alza la testa di scatto, sul viso ha un’espressione sospettosa.
“Davvero?” Chiede per assicurarsi delle mie intenzioni.
Annuisco e le faccio segno con la mano di andare avanti.
La dottoressa torna a sedersi dritta, impugna bene la penna e mi guarda dritto negli occhi.
“Che rapporto hai con…” Tentenna, non sapendo bene quale pronome usare.
“Alex.”
“Alex, sì. Perché hai difeso quella persona?”
Mi prendo il tempo per ordinare i pensieri e formare una risposta completa. Nella mia testa c’è sempre quel piccolo neurone che m’implora di non rivelare nulla, urla che sto per commettere uno sbaglio, che è inutile confessarmi, perché tanto non cambierà nulla. L’altra parte di me, invece, vuole alleggerirsi del peso di questi pensieri.
Voglio liberarmi.
Dare sfogo alle mie sensazioni, d’altro canto, le renderà così incredibilmente reali.
Reali da far paura.
Non voglio che prendano corpo, ma se non le affronto di sicuro non me ne libererò mai.
Sono stanco.
Vorrei soltanto trovare un minimo di pace.
“Alex… è l’unica persona che, per molto tempo, mi ha trattato come un essere umano.” Formulo, fissando lo sguardo sul blocco di fogli in mano alla psicologa.
“È facile dimenticare chi siamo quando il mondo ti chiama con un nome diverso, ti considerano in modo diverso. Per anni ho creduto di essere un animale, perché così mi trattavano.
Sono stato buttato fuori di casa, emarginato, spintonato, picchiato, chiuso periodicamente a chiave in un ripostiglio e ignorato da tutti. A nessuno importava se stessi soffrendo, nemmeno all’agente sociale che si sarebbe dovuto accertare della mia sicurezza. Ma non Alex. No, la mia persona preferita in questo universo dimenticato da Dio ha sempre avuto una parola gentile per me, ha sempre saputo cosa fare per restituirmi, anche in minima parte, il sorriso.
Mi conosce meglio di tutti. Non che sia difficile conoscermi meglio degli altri, visto che non sanno molto di me.”
“Perché non ti apri facilmente con gli altri, esatto?” Commenta la dottoressa, approfittando di un momento di silenzio.
Ridacchio nervosamente e sposto lo sguardo verso il basso.
“Da che cosa l’ha capito?” Chiedo sarcastico, cercando di sdrammatizzare.
“Come mai, secondo te?”
Mi mordo l’interno della guancia.
Davvero, dovrei trovare un altro modo per calmarmi. Quando mi lavo i denti sputo sangue, e ho un vago sospetto che non provenga dalle gengive.
Mi stringo nelle spalle.
“Non lo so. Mi sento come se… se fossero tutti contro di me. Come se stessero fingendo di essere gentili con me per ottenere qualcosa, o per prendermi in giro. Se mi aprissi con gli altri, se mi mostrassi vulnerabile, ne approfitterebbero e mi farebbero del male.
È già successo una volta, cosa mi assicura che non capiterà di nuovo?”
La dottoressa scrive qualcosa sul blocchetto.
“E non hai timore che Alex potrebbe farti la stessa cosa, giusto?” Domanda senza alzare gli occhi dal foglio.
“Esatto. Con Alex ho la sensazione di poter essere più autentico, di non dover attivare lo scudo deflettore. Certo, non è che sappia ogni mio segreto, fino a qualche tempo fa non sapeva quasi niente della mia famiglia, nemmeno il mio vero cognome. Insomma… io mi fido, però s’immagina come potrei sentirmi se, invece, si rivelasse essere una persona completamente diversa? Nessuno può mai sapere cosa l’altro stia pensando.
Non lo so… a volte mi sento incredibilmente solo. Come se fossi l’unico a sapere del crollo della società e fossi costretto a vivere da sopravvissuto in una città abitata. Come se il resto dell’umanità vivesse in un universo parallelo dove tutto va bene ed è sicuro potersi fidare degli altri. Non sanno di cosa può essere capace l’essere umano. Lo immaginano, ma non lo sanno. E questa conoscenza mi soffoca, ad essere sincero.”
La dottoressa mi lascia parlare. Noto che sta scrivendo molto, chissà cosa diranno gli appunti.
“Il tuo tutore, Joshua Winterfield, ha notato che sei sempre in allerta. Posso chiederti il perché?”
Mi stringo nuovamente nelle spalle.
“Un’abitudine acquisita a Riverton, credo.”
Annuisce, posando un secondo la penna.
“Credi che da questo tuo stato di perenne allerta derivi la tua aggressività?”
Mi prende alla sprovvista.
“Sinceramente non ne ho idea.”
La dottoressa storce la bocca, chiedendosi quale domanda sia giusta da pormi per arrivare a una risposta chiara.
“Prima che i tuoi genitori ti mandassero via di casa, se mai stato coinvolto in risse… o hai mai avuto anche solo istinti aggressivi più forti del normale?” Mi chiede, mordendo il tappo della penna.
Un momento, mi sono perso.
“In che senso?” Ribatto confuso.
La donna agita la penna in aria, come a cercare le parole per spiegarsi meglio.
“Potrebbe posare la penna, per favore? Mi sta facendo venire l’ansia.” Sbotto, interrompendo il suo flusso di pensieri.
La psicologa guarda prima me, poi la penna. Torna a guardarmi, mentre posa lentamente la penna sul blocchetto degli appunti.
“Hai mai avuto l’istinto di fare del male a qualcuno di proposito? Non il pensiero, ma l’istinto.”
“Prima del sistema d’affidamento?” Chiarisco.
Annuisce.
Mi mordo l’interno della guancia, pensando a un tempo così lontano da farmi dubitare che appartenga a questa vita.
“No, mai.”
La dottoressa sorride, scrivendo qualcosa sul suo blocchetto.
Si alza dalla sedia e mi tende la mano.
“Penso di avere tutte le informazioni che mi servono. Buona giornata, Noah.”
Il ticchettio delle lancette riempie la stanza buia, schiarita dalla luce della luna che entra dalle finestre.
La sveglia sul comodino accanto a me non accenna a silenziarsi, avanza imperterrita verso il giorno del giudizio.
Metaforico e letterale.
Ad accompagnarla è il respiro regolare di Alex. Le sue spalle si alzano e si abbassano d'accordo, creando quel moto ondulatorio che governa l'universo.
Si alzano, si fermano, si abbassano, e dal primo passo ricominciano.
Osservo la sua figura, avvolta nelle coperte. Non vedrò quella sagoma per altri due mesi, forse tre, dipende dalla mia forza di volontà.
Una cosa è certa: tornerò in riformatorio.
Non voglio nemmeno pensare alla delusione di Jared, gli avevo promesso che non mi avrebbe più rivisto là dentro.
In più, adesso dove troverò i soldi per aprire il negozio di tatuaggi con Steve? Potrei chiedere a suo cugino se serva un lavapiatti, lo ha assunto subito dopo essere stato rilasciato, non penso abbia problemi.
Eccetto che Steve è di famiglia, io sono uno sconosciuto con tre reati a carico, tra cui furto.
Posso anche dire addio a quel sogno. Posso abbandonare il disegno, tanto a che serve? È meglio che mi prepari a una vita di mediocrità.
No, nemmeno a quella.
Mediocrità è avere un lavoro che si odia e ritrovarsi a quarant'anni a fare il sottosegretario di una compagnia telefonica in fallimento.
Io avrò fortuna a essere assunto a tempo pieno per servire nel diner in cui mangia quel sottosegretario il venerdì, quando ha voglia di avvicinarsi alla morte un boccone alla volta, visti i valori dei piatti che preparano.
Certo, anche gli ex-galeotti riescono a trovare un lavoro e forse nel campo dell'arte riuscirei anche a trovare qualcosa, ma non penso proprio avrei fortuna.
Mi alzo di scatto a sedere sul letto.
Ma che sto pensando? Piangersi addosso non cambierà niente, è inutile. Devo lavorare con la situazione che mi ritrovo, devo trovare una soluzione.
Cosa potrei fare per migliorare?
Pensa, Noah. Pensa.
Se andassi di nuovo in riformatorio, il mio futuro sarebbe più duro di quanto non sarebbe già stato.
Posso fare appello? Ne ho la possibilità?
Perché so per certo che domani il giudice mi darà da scontare almeno due mesi, ma potrei fare appello per legittima difesa?
No, non reggerebbe, sono stato il primo ad aggredirlo.
A meno che... Tecnicamente sono stato minacciato, Sayid testimone. E l'uomo mi ha minacciato perché stavo flirtando con un altro ragazzo in un luogo pubblico, questo è un chiaro crimine d'odio.
Potrei proporlo a mio padre!
Eppure, quanto reggerebbe questa scusa davanti a un giudice?
Peggiorerei la situazione, mi processerebbero come un adulto, con giuria e tutto il resto. E la giuria mi dichiarerebbe sicuramente colpevole: il mio episodio d'ira è stato filmato, i suoi commenti di odio invece non si sentono. Non si legge nemmeno il suo labiale, per quanto ne sanno potrei anche aver avuto una reazione esagerata a una sua decantazione mal eseguita de "La vecchia fattoria".
No, peggiorerei la situazione.
Allora che posso fare?
Non posso permettermi di tornare in riformatorio, ho già due reati a mio carico e un periodo in istituto.
In più, non ci voglio tornare. Non voglio trascorrere altri due mesi in quel posto dimenticato da Dio, privato della mia libertà.
Va bene, ho sbagliato, non avrei dovuto aggredire quell'uomo, avrei dovuto trattenermi. Me ne sono pentito immediatamente.
Ho già perso il mio lavoro, il rispetto degli adulti, l'appoggio dei sostenitori della causa e la mia dignità.
Non sono già stato punito a sufficienza?
Non basta la gogna mediatica a cui sono sottoposto da due giorni a questa parte?
Le uniche persone che ancora mi stanno accanto sono i miei amici... Ma non sono sicuro ci saranno a lungo.
Le persone vanno e vengono, è lo scorrere naturale della vita.
Succede qualcosa, oppure non succede niente, semplicemente si parla di meno, prima una volta la settimana, poi una al mese, poi solo per le feste. Arriverà un giorno in cui guarderò i loro profili e non penserò neanche di mandare un messaggio.
Prima o poi perderò anche loro, non conviene cercare il giubbotto di salvataggio negli altri.
Gli esseri umani sono inaffidabili, si deve trovare la propria salvezza in sé stessi. Non posso decidere cosa le altre persone facciano, ma posso dettare le mie azioni.
Perché dovrei lasciare che qualcun altro decreti il mio destino?
Che ne sa il giudice di quello che ho passato? Che ne sa come ci si sente a essere traditi dalle persone che dovrebbero proteggerti solo perché non rispondi alla loro idea di "figlio perfetto", solo perché sono nato diverso? Che ne sa il giudice di cosa voglia dire essere piazzato dallo stato, contro la tua volontà fra l'altro, in una casa estranea dove regna la violenza?
Che ne sa il giudice cosa voglia dire avere paura di non sopravvivere alla notte, o, peggio ancora, di avere il terrore di non riuscire a salvare l'unica persona a cui tieni veramente, che ti ha mostrato quel minimo di rispetto di cui tutti gli esseri viventi hanno diritto?
Che ne sa il giudice di quanto freddo faccia durante le notti primaverili qui nello Utah, del dover stare attento ai criminali che potrebbero ucciderti o farti del male mentre cerchi un minimo di riposo sopra un cartone?
Che ne sa il giudice di quanto si soffra a essere umiliati pubblicamente da giornali in televisione, articoli su social network, messaggi da sconosciuti e dita puntate per strada a causa di una fama che ti hanno praticamente imposto?
Nulla. Assolutamente nulla, ecco quanto ne sa.
E io dovrei lasciare che degli estranei decidano per me, precludendomi non solo la libertà, ma anche un tentativo a un futuro decente?
A quanto pare la strada è il mio destino: gira e rigira, è lì dove finisco sempre. Perché quella è più probabile che mi attenda, con questa seconda pena.
Con due reati e una sola pena in carcere avrei ancora una possibilità, vista la mia giovane età. Ma una seconda subito dopo essere uscito di riformatorio, tra l'altro per un reato già commesso?
Nessuno mi assumerebbe dopo.
No, non posso permettermi di essere rinchiuso nuovamente, assolutamente no.
Non mi rimane altra scelta.
Che si fotta il giudice.
Facendo meno rumore possibile, mi alzo dal letto e prendo il mio zaino, lo stesso che mi è servito per mesi da guardaroba, cuscino, comodino e cestino. Apro silenziosamente il mio cassetto e prendo quanti più vestiti riescano a entrare nello zaino, già occupato dal carica batterie del cellulare, dispositivo accoppiato e portafogli.
Lancio un'ultima occhiata ad Alex prima di uscire dalla stanza, salutando la mia persona preferita con la mano.
Attraverso la casa evitando le tavole che so essere scricchiolanti, arrivo fino allo studio dei Winterfield e apro il cassetto in cui hanno conservato i soldi guadagnati da me e Sayid fino ad ora.
Li abbiamo consegnati per pagare un avvocato o per essere aggiunti al budget della casa, ma ora serviranno più a me.
Prendo solo la mia parte, però. Nonostante la mia fedina penale, non sono un ladro: ho guadagnato questi soldi, quelli che non mi appartengono rimarranno qui.
Quando esco dalla porta posteriore, la chiudo lentamente per non far rumore, e mi avvio per la strada buia che ho percorso più volte in questi giorni. Mi avvio senza guardarmi indietro, così da non essere tentato di cambiare idea.
"Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, te ne vai senza dire una parola?"
Mi fermo in mezzo all'asfalto, bloccato come sotto un incantesimo da una voce fin troppo familiare.
Mi volto per affrontare la mia persona preferita.
"Non volevo svegliarti." Sussurro, sperando di non attirare l'attenzione di nessuno.
"Dove stai andando?" Mi domanda tagliente, ignorando le mie scuse.
Mi mordo la guancia, cosciente che la mia controparte stia soltanto chiedendo conferma delle sue supposizioni.
"Via." Rispondo alla fine, sistemandomi lo zaino in spalla.
"Via?" Domanda, assicurandosi di aver sentito bene.
Annuisco.
Alex si avvicina tempestivamente.
"Non puoi andartene, domani hai il processo!" Afferma, come a ricordarmi della mia imminente condanna.
"Non posso andare nemmeno al processo, mi rimanderanno in riformatorio!" Ribatto, facendo un passo indietro.
"E quindi vuoi scappare? Emetteranno un mandato d'arresto, se non ti presenti. Questo vuol dire che se venissi fermato da un poliziotto, ti porterebbero immediatamente in carcere. Non in riformatorio, Noah, in carcere. Hai sedici anni, ti possono benissimo processare come un maggiorenne." Mette in chiaro, afferrandomi per un braccio. "Non peggiorare la situazione, rientriamo in casa." Mi urge, tirandomi verso il rifugio.
Mi libero dalla sua presa.
"No, Alex. Non voglio tornare in riformatorio. Non me lo posso permettere."
"E cosa vorresti fare? In città ti conoscono tutti, di nome o d'aspetto."
Mi stringo nelle spalle, abbassando lo sguardo.
"Mi nasconderò finché non si calmano le acque. Conosco questa città come il palmo della mia mano, so come non farmi trovare. Poi cambierò nome, aspetto... Non so, magari mi tingerò i capelli, userò lenti a contatto colorate, ho tempo per pensarci!"
Alex mi guarda con espressione sconvolta, non riesce a credere alle sue orecchie.
"Noah, ma che stai dicendo?"
La sua sfiducia non mi colpisce, un po' me l'aspettavo.
Compiere un piano del genere da solo è complicato per una persona. Non impossibile, ma difficile. Molto, molto difficile.
Con l'aiuto di qualcuno, invece...
Rialzo lo sguardo, fissandolo sul viso della mia persona preferita.
"Alex, vieni con me." Propongo di punto in bianco.
Alex si blocca per la sorpresa.
Percorro la distanza fra noi due e stringo le sue spalle.
"Scappa con me. Vivremo solo noi due, come qualche mese fa, prima di questo casino. Tornerà tutto come prima."
Alex si risveglia dal suo torpore, allontanando le mie mani.
"Cosa? No." Sbotta, allontanandosi da me. "Lo sai quanto ho lottato per avere un tetto sulla testa e tre pasti sicuri al giorno. I Winterfield ci hanno accolto come se fossimo figli loro, non me ne andrò da una casa sicura per tornare a vivere per strada. E non lo farai nemmeno tu." Dichiara, puntandomi un dito contro.
Mi mordo nuovamente la guancia, cercando di rimanere calmo.
"Alex, non posso. Ti prego... Ti prego, vieni con me. Non abbandonarmi." imploro con voce spezzata.
La mia persona preferita scuote la testa.
"Mi dispiace Noah, stavolta non ti seguirò." Risponde irremovibile, incrociando le braccia.

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Capitolo 16
*** The Walker ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e bentornati! Il brano di oggi è The Walker, di Christine and the Queens. Nonostante il nome, non si tratta di un gruppo, ma di un progetto solista. Ebbene sì, Christine and the Queens è il nome d'arte della francese Héloïse Letissier, anche conosciuta semplicemente come Chris. The Walker è il singolo del suo nuovo album, Chris, uscito insieme a un drastico cambiamento nell'aspetto. La cantante androgina, nel suo disco, propone sia la versione francese che quella inglese di quasi tutte le canzoni, per un sound generale che ricorda molto il Michael Jackson di Dangerous, eccezion fatta per questa canzone.
Come sempre, vi auguro una buona lettura e vi lascio a questo cameo speciale.


Capitolo 16
 
 
Quando il sole spunta da dietro l'edificio della stazione, io sto già mettendo piede sul primo bus della mattina per Evanston, Wyoming. Sono le sette e mezza.
Dopo essere scappato di casa, ho pensato di nascondermi fino al mattino tra la folla che usciva dall'Area 51,il locale notturno vicino Pioneer Park. Lo so, non un grande nascondiglio, visto e considerato che non ci sarei nemmeno potuto entrare nel caso fossero venuti a cercarmi là, però volevo rimanere in zona, così da non perdere il bus.
In queste ore, ho pensato bene alla mia meta: Las Vegas, nel Nevada, è sempre stata una delle città messe in considerazione per una fuga… proprio per questo l'ho eliminata subito. Alex lo sa benissimo, l'avevamo scelta insieme.
Di rimanere nello Utah non se ne parla: qui mi conoscono tutti a causa di quei video. Vedendo come si è sviluppata la situazione, sarebbe stato meglio se, quel giorno, avessi buttato a terra il cellulare di Alex.
No, mi serviva una città a cui non avevo mai pensato, che fosse in un altro Stato, facile e veloce da raggiungere. Quindi, quale scelta migliore di Evanston, la prima città fuori dallo Utah, a circa un'ora e mezza di strada, con un bus in partenza alle prime ore del mattino?
L'uomo alla cassa stava per riconoscermi, fortuna che ho comprato il biglietto all'apertura, quando riuscivo a intravedere ancora le pieghe del cuscino sulla sua faccia.
Il bus va in direzione Cheyenne, ma fa una fermata a Evanston. Purtroppo per me, e per la mia asocialità, questo vuol dire posti quasi pieni.
Sono costretto a sedermi accanto a un ragazzo, messo scomposto con le gambe poggiate al finestrino. Si aggiusta immediatamente per farmi posto, riprendendo il suo zaino e posandolo sotto il sedile.
Non faccio in tempo a sedermi, che noto due figure fin troppo familiari passare accanto al bus. Mi calo quanto più possibile per non essere visto dal basso, attirando l'attenzione del ragazzo.
Questo osserva confuso prima me, poi i due uomini fuori dal finestrino, quindi poggia la schiena sul vetro, gettando un'ombra fino ai sedili adiacenti.
Pur essendo abbastanza esile, riesce a occupare la superficie giusta per nascondermi.
“Stai comodo là sotto?” Domanda con un sorriso.
“Comodissimo, grazie.” Rispondo sarcastico, cercando di non piegare troppo il collo.
“Puoi anche uscire da lì, sai?”
Scuoto un dito.
“Preferisco stare così per…”
L'autobus parte e il ragazzo alza un sopracciglio. Aspetto che il mezzo giri l'angolo, prima di sistemarmi sul sedile.
“Meglio?” Domanda, sedendosi composto.
Annuisco, sorridendo imbarazzato.
“Sta tranquillo. Non chiedo, sono affari tuoi.” Afferma, prendendo un libro dallo zaino e aprendolo.
“Perché mi hai aiutato, allora?”
Il ragazzo si stringe nelle spalle.
“Perché volevo.” È la sua risposta.
Non approfondisce, semplicemente si mette a leggere.
“Grazie.” Sussurro.
Annuisce, facendomi capire di aver sentito.
Il mio telefono inizia a squillare. Chiamata in arrivo da Winterfield.
Rifiuto la chiamata e cerco una distrazione.
“Scusa se te lo chiedo…” Mi giro verso di lui, il cellulare abbandonato sulle gambe.
“Dimmi pure.” Risponde, voltando la pagina del suo libro.
“Tu perché stai lasciando lo Utah?” Chiedo senza mezzi termini.
Non so da dove provenga questa domanda, se pura curiosità o un moto di cortesia. Dovremo passare un paio di ore seduti l'uno accanto all'altro, tanto vale fare conversazione.
“Vado all’Università del Wyoming.” Il ragazzo non si scompone, continua a leggere il suo volume, che solo ora noto essere un libro di testo.
Chi leggerebbe di propria volontà un mattone scritto a caratteri minuscoli, fornito di note a fondo pagina e appunti scritti a matita di lato? Per non contare le frasi sottolineate in evidenziatore verde. Va bene, potrebbe anche essere una storia interessante, uno di quei romanzi russi di autori dai nomi ugualmente impronunciabili… ma chiunque evidenzi un libro da leggere, non meriterebbe di averlo a portata di mano.
Poi sarei io il criminale?
“Davvero? Come mai non sei rimasto a Salt Lake City?”
Il ragazzo scrolla le spalle.
“Costava meno e… non sono di qua.” Ribatte, aggiustandosi sul sedile per illuminare meglio la pagina che sta leggendo.
“Perché eri a Salt Lake City?” Domando, preso in contropiede.
“Visitavo parenti.” Risponde, noncurante del mio tono inquisitorio.
“Ah… E poi, non pensi che risparmiare sulla tua educazione sia controproducente? Cosa studi?”
“Filosofia.”
Serro le labbra, cercando di non farmi scappare un commento poco gentile.
“… forse hai fatto bene a risparmiare.”
Trattenermi non è mai stato il mio forte.
Il ragazzo mette il segnalibro fra le pagine e chiude il volume, voltandosi con tutto il busto a guardarmi.
“Stai dicendo che è un vicolo cieco, che la mia laurea non mi darà da vivere?” Domanda, alzando un sopracciglio.
Come fa un solo muscolo a essere così espressivo?
“… no?” Tento, allontanandomi impercettibilmente da lui.
“È una domanda o una risposta?” Rincara, alzando ancora di più, se possibile, quella striscia di ansia.
“Quale opzione mi può salvare da una situazione imbarazzante?” Chiedo tutto d'un fiato.
Abbassa leggermente il capo, guardandomi dal basso verso l'alto.
Non so se l'aria inquietante sia causata dal sorriso, dal sopracciglio o dalla posizione della testa. Insomma… che scelga un solo elemento!
“Nessuna delle due, tanto vale essere sinceri.”
Esito ancora, cercando di capire se sia una trappola.
“Allora: non proprio con quelle esatte parole, ma il senso è quello. Ci rimani male se lo penso?”
Il ragazzo si ricompone e alza le spalle.
“Perché? Hai perfettamente ragione.” Risponde, riaprendo il libro.
Le sue parole mi spiazzano.
“Aspetta! Quindi, se sai di non avere possibilità di lavoro, perché pagare quel corso di studi? Che ne guadagni?” Domando allibito, squadrandolo dalla testa ai piedi.
“La capacità di pensare.”
… non ho capito.
“Come, scusa? In che senso?” Chiedo confuso.
“Nel senso che le persone hanno perso l'abilità di pensare. Crede di saperlo fare, ma in realtà gratta solo la superficie. Il nostro cervello è anestetizzato, siamo così abituati ad avere tutte le risposte subito, che non proviamo nemmeno l'impulso di arrivarci con le nostre forze. Abbiamo dimenticato come si pensa,  quindi ho deciso di impararlo da capo. È più facile di quanto si creda, in realtà, basta riservarsi qualche minuto per farlo. Di base, tuttavia, non abbiamo il tempo né la voglia di fare neanche quello. L'uomo medio moderno non sa più pensare e nemmeno ne ha voglia.”
Mentre parla, continua a gesticolare con il libro, come se quelle pagine possano dare enfasi al suo discorso. Mi perdo a guardare le sue mani agitarsi di qua e di là, smettendo di ascoltare a metà invettiva.
Quando finisce di parlare, gli rivolgo uno sguardo smarrito per qualche secondo.
“Non ti seguo.” Ammetto alla fine, serio in viso.
Il ragazzo stringe le labbra, come se le mie parole validassero il suo pensiero.
“Appunto.” Ribatte secco, tornando a leggere il suo libro.
Fatemi capire: questo giovane uomo sta pagando migliaia di dollari per seguire un corso di studi che sa non avere sbocco professionale?
Questo è di famiglia ricca, non c'è altra spiegazione. Scommetto che i suoi genitori possiedono un'attività a cui lui potrà prendere parte. Vedo già una scrivania in mogano con il suo nome, che ancora non conosco,
stampato in lettere dorate sopra una placca.
Quanto dev’essere ricca una persona per sprecare i propri soldi in questo modo?
“Tu perché te ne vai dallo Utah?” Mi domanda senza alzare gli occhi dalle pagine, riportandomi alla realtà.
Impiego qualche secondo a formulare una risposta che non le faccia chiamare la polizia. Se la prima persona che incontro durante la mia fuga scoprisse che sono un fuggitivo, penso che al riformatorio mi prenderebbero in giro fino al mio rilascio.
E facendomi scoprire si perderebbe il senso di questa mia decisione forse non ben ponderata: non farmi arrestare.
Meglio rimanere sul vago.
“Devo.” Rispondo, sperando capisca che non sono in vena di approfondire.
Il ragazzo sorride, spostando lo sguardo su di me.
“Cosa devi fare di così importante da avere un tono tanto grave?” Mi domanda, con un accenno di giocosa presa in giro.
Mi mordo la guancia. O meglio, quel pezzo di pelle che collega l'angolo delle labbra alla guancia, che sono sicuro abbia un nome scientifico di nessun interesse pratico, se non spiegare quale parte della mia bocca ho deciso oggi di torturare.
“Andarmene. Devo abbandonare lo Utah.” Replico in un sussurro, guardando il cellulare in grembo.
“Devi o vuoi?”
Tre parole formano una domanda semplice, implicano però una risposta articolata che non sono disposto a dare.
Devo.” Enfatizzo il verbo come se l'avessi detto in corsivo.
Il ragazzo ridacchia alla mia serietà.
“E chi l'ha stabilito? Sei stato esiliato?”
“No…”
Non proprio.
Fa nuovamente spallucce.
“Allora hai scelto di andartene.”
Il mio cellulare vibra e s’illumina, mostrando il blocca schermo: una foto di me e Alex spalla contro spalla, che aveva scattato Audrie con il suo telefonino. Mi è arrivato un messaggio, stanno cercando di contattarmi su messenger, visto che non rispondo alle chiamate.
“No, me ne devo andare. Non posso rimanere nello Utah.”
Il ragazzo non ride più. Mi squadra e scuote la testa, come se con un'occhiata avesse capito vita, morte e miracoli. O reati, nel mio caso.
“Hai fatto qualcosa che non dovevi fare, vero?” Mormora, ancora con un sorriso comprensivo nascosto dietro le iridi.
Lentamente, abbasso lo sguardo e faccio spallucce.
Il cellulare vibra e s'illumina nuovamente. Forse dovrei spegnerlo.
“E la tua soluzione è scappare. Stai scappando anche da quella persona?” Domanda, indicando il cellulare.
Blocco il dispositivo, oscurando il volto di Alex.
“No. Quella è stata una separazione forzata… è complicato.” Ribatto vago, posando il cellulare in tasca.
“È complicato solo se tu decidi che lo sia.” Replica con il sorriso di chi crede profondamente in quello che dice.
“Chi è quella persona?”
Scuoto la testa, guardando fuori dal finestrino.
“Qualcuno a cui tengo. Ormai fa parte del mio passato.”
Il paesaggio montagnoso ha preso il posto degli edifici. Questa è l'attrazione migliore dello Utah, a mio avviso. Anche perché non c’è tanto altro da fare, oltre a osservare quella parte del Grand Canyon a est e le montagne nel resto del territorio.
O sei un amante della natura, o un fervente religioso… o sei solo di passaggio. Ecco le tre categorie di turisti che ho avuto il piacere d'incontrare in questa mia breve esistenza.
“Ne sei sicuro?”
Alzo le spalle, tornando in quel bus poco illuminato.
“Credo. Non lo so… spero di sbagliarmi.”
“Se hai ancora la sua foto sul cellulare, non pensi faccia parte in qualche modo del tuo presente?”
Mi stringo nelle spalle a questa sua osservazione che presenta, ancora una volta, un cenno di filosofia. Quando si parla di deformazione professionale…
“Non proprio. Almeno, non come vorrei. Però, ormai, questa è la realtà, me ne devo fare una ragione e andare avanti.”

“Non è incredibile?”
“Cosa?”
Rimuovo l'auricolare destro, in attesa che il ragazzo ripeta cos'ha detto.
Poco dopo la nostra breve, ma intensa, conversazione, ho deciso di riposarmi ascoltando un po' di musica. Telefono ovviamente messo in modalità aereo, così da non essere rintracciabile, e musica rigorosamente scaricata, perché i soldi non crescono sugli alberi.
“La natura umana, dico. La nostra capacità innata di adattarci a quasi ogni situazione è incredibile.” Mentre parla, guarda attentamente fuori dal finestrino.
Noto con piacere di non riconoscere il paesaggio: a destra e a sinistra vedo solo campagna, dobbiamo essere già entrati nel Wyoming.
“Già. Ma credo sia comune a tutti gli animali.”
Il mio commento lo fa girare.
“Davvero?” Chiede pensieroso.
Annuisco.
“Ah. Allora la natura è formidabile. Insomma, cosa ci spinge ad andare avanti?”
Aggrotto le sopracciglia, sorpreso che non sappia la risposta.
“Istinto di sopravvivenza.” Spiego, cercando di non sottolineare l'ovvietà.
“E da dove viene?” Ribatte lui, esigendo qualcosa di più profondo che francamente non ho voglia di trovare.
I discorsi filosofici sull'esistenza e la realtà non sono il mio forte. Ora come ora, anche il solo pensiero mi infastidisce.
“Non lo so. Penso che sia una di quelle cose che esiste e basta.”
Il ragazzo, non soddisfatto della risposta, alza gli occhi al cielo.
“Eppure, deve avere un'origine! La voglia di vivere? Di perpetuare il nostro patrimonio genetico? Non riesco a capirlo.”
Mi massaggio la tempia, provando a rimettermi l'auricolare.
“Non so nemmeno come tu sia arrivato a un pensiero del genere…”
E onestamente non m'interessa, però questo lo tengo per me.
“Stavo pensando a quello di cui abbiamo discusso prima.” Spiega, tornando a guardare il paesaggio.
“Cosa c'entra con quello che stavano dicendo?” Domando stranito, non trovando la connessione logica.
“C'entra. C'entra eccome. La nostra capacità di andare avanti ci porta a cambiare il significato di tutto ciò che esiste. Lo stesso avvenimento, vissuto dalla stessa persona con due atteggiamenti diversi, risulterà fondamentalmente diverso.”
“Non penso fondamentalmente sia l'aggettivo giusto.” Mormoro tra me e me senza pensare.
“Sì, invece. Fondamentalmente, perché muta nell'essenza.”
Sbuffo. Ormai mi ha trascinato di forza dentro il discorso, tanto vale difendere la mia posizione.
“Ma l'essenza non può mutare.”
“Ti dico che può. Siamo noi a definire l'essenza di un avvenimento. Lo stesso accaduto ha tante essenze quante persone lo vivono. E se capitasse una seconda volta, ne avrebbe altrettanti diversi, perché tutto è in mutamento.” Controbatte argomentando.
È questo che si prova nelle gare di dibattito? Non lo so, non vi ho mai partecipato.
“Secondo questa logica, allora, l'oggettività non esisterebbe.”
“L'oggettività è un costrutto umano. Nulla è puramente oggettivo, può rispondere solo a caratteristiche condivise da un gruppo di persone, ma nulla più. L'esistenza a cui siamo abituati è solo un artificio di una creatura a cui servono regole e principi per vivere tranquillamente. Ti pare che gli animali si interroghino sulla natura dell’oggettività quando cercano cibo?”
Ok, questa l'ha letta dal libro che ha in grembo.
“Mi stai facendo venire il mal di testa. È necessaria tutta questa filosofia?” Chiedo, tornando a massaggiarmi le tempie.
“La filosofia è sempre necessaria. Non avrà finalità immediatamente pratiche, ma interrogarci è ciò che ci distingue dal resto degli esseri viventi,  insieme all'immaginazione e alla capacità creativa, che non sono sinonimi. È questa non è filosofia, ma sociologia.”
“Perché, c’è differenza?” Domando confuso.
Ad essere sincero, è la prima volta che sento parlare di sociologia.
Il ragazzo si ferma un attimo a pensare. Un suo sguardo mi fa capire che ha raggiunto una conclusione piacevole.
“No, immagino di no.” Risponde sorridendo, senza spiegare il perché di quel sorriso che definirei affettuoso, carico di tenerezza, come se avesse inteso la mia ignoranza quale visione semplicistica.
“Comunque, noi non definiamo l'essenza di qualcosa, ma il suo significato.” Metto in chiaro, grattandomi la nuca a disagio.
Il suo sorriso si allarga ancor di più.
“Perché, c’è differenza?” Domanda con una risata negli occhi.
Mi stringo nelle spalle, pensandoci bene.
“No, immagino di no.”
Solo quando il silenzio cala fra noi mi accorgo che la musica nelle cuffie è andata avanti. Sblocco il cellulare per tornare alla canzone che stavo ascoltando prima di riprendere a parlare.
“Quella foto sul tuo cellulare…” Inizia lui, guardando il dispositivo.
“Il mio blocca schermo?” Specifico, premendo il simbolo ‘pausa'.
“Sì. Che significato ha per te?”
Guardo ancora una volta il volto di Alex.
“Abbandono.” Rispondo in un sussurro.
“E che significato aveva prima?”
Indugio ancora qualche secondo nella nostalgia, nel ricordo di quella giornata e delle emozioni che provavo. Sembra passata un'eternità.
“Famiglia.”
“E che significato avrà domani?”
Stringo le labbra, guardando i sorrisi in bianco e nero.
“Siamo noi a scegliere cosa certe foto rappresentino. Non lasciare che domani la risposta sia uguale a oggi, fai la scelta giusta, non è mai troppo tardi.”
Il ragazzo riapre il libro, lasciandomi con questo pensiero su cui rimuginare.

 

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Capitolo 17
*** when the party's over ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve e bentornati! Il brano di oggi è when the party's over, della giovanissima Billie Eilish. Si tratta di un brano diverso dal suo stile, in cui prevalgono le note malinconiche di piano e voce. Billie Eilish è una diciassettenne proveniente da una famiglia d'arte, la cui musica è esplosa ormai due anni fa. Da allora ha rilasciato diversi singoli e ha intrapreso un tour internazionale con la maggior parte delle date sold out. Il suo disco di debutto uscirà nel marzo di quest'anno.
Come al solito, vi auguro una buona lettura.



Capitolo 17


Gli alberi spogli, a lato di una strada altrettanto spoglia, accolgono il bus.
È questo il paesaggio che accoglie la mia nuova identità? L'aridità di una cittadina del Wyoming alle porte dell'inverno?
Devo ammettere che si accorda perfettamente con la mia situazione: un presente spoglio e davanti un inverno duro, da quanto dicono i telegiornali. Sia metaforicamente che letteralmente.
Ricordati di comprare un cappotto adatto al freddo del nord, Noah, perché quella sarà la tua meta. Credo. Non ne sono sicuro, una volta sceso potrei anche cambiare idea.
Quasi sicuramente cambierò idea.
Facciamo che sceglierò la mia meta una volta fermatomi.
Ovviamente non voglio rimanere a Evanston, è troppo vicina allo Utah. Tuttavia è la migliore scelta temporanea, se voglio scomparire in fretta e spendere poco per non dormire di nuovo in strada. Non penso sopravvivrei al pieno inverno.
Quando sono scappato con Alex era marzo inoltrato, non abbiamo dovuto affrontare il freddo a lungo. Questa sarebbe tutta un’altra storia.
“Fra poco devo scendere.” Avviso il mio compagno di viaggio, di cui, tra l’altro, non so ancora il nome.
Il ragazzo sobbalza, come se l'avessi svegliato improvvisamente, e alza lo sguardo confuso dai libri per spostarlo sul finestrino.
“Siamo già nel Wyoming?” Chiede con un filo di voce, come se lo stesse chiedendo a sé stesso.
“A quanto pare.” Rispondo indifferente, spostando il peso sul bracciolo del sedile.
Mi si sono addormentate le gambe.
“Non me ne sono accorto.”
Ridacchio sarcasticamente.
“Finché non alzi gli occhi dai libri…” Commento, attirando finalmente la sua attenzione.
Mi rivolge nuovamente un sopracciglio alzato.
“A mia discolpa: mi aspetta un esame al mio ritorno.” Ribatte con una nota di frustrazione nella voce.
Sorrido sornione.
“Questo perché hai deciso di entrare all’Università.” Lo prendo in giro.
“Errore d'impulsività, ne devo pagare le conseguenze. Che non si dica che il sottoscritto getti la spugna facilmente.” Afferma, alzando un pugno, quasi fosse un eroe che promette giustizia al cattivo di turno.
“Anche se, devo ammettere, ho pensato di abbandonare e diventare un raccoglitore di funghi professionista.” Aggiunge, abbassando sconfitto la mano e stringendosi nuovamente nelle spalle.
Raccoglitore di funghi? Che razza di professione sarebbe?
“Nel Wyoming?” Chiedo ironico.
“No, nel Maine.” risponde perplesso alla mia domanda, come se fosse ovvia la destinazione.
Un momento, adesso che c'entra quello stato?
“Perché proprio nel Maine?” Domando con una mezza risata.
Il ragazzo alza di nuovo le spalle.
“Vengo da là.”
Il mio sorriso si allarga, ricordando improvvisamente una curiosità sulla mia famiglia: siamo dappertutto.
“Davvero? Ho parenti nel Maine.”
E nel Wisconsin, nello Utah, in California, nel New Jersey, e, sono abbastanza sicuro, anche in Alaska.
Questo solo dalla parte di mio padre. Appartengo allo stereotipo della famiglia mormone numerosa, che ci posso fare? Credo di avere una trentina di cugini di primo grado, alcuni mai conosciuti. E poi ci sono io, figlio unico. Penso che, dopo avermi guardato, mia madre si sia rifiutata di avere altri figli. A quanto pare i geni suoi e quelli di mio padre non producevano risultati eccelsi.
… Ero un bambino brutto, va bene? I miei cugini sembravano tanti bambolotti, e il primo e unico figlio di mia madre è la versione latina di Chucky. Fino ai due anni, nessuno si è congratulato con lei del mio aspetto. Una volta un prete, passandoci accanto, ha guardato la carrozzina e si è fatto il segno della croce, parola di mia madre.
Meno male che sono migliorato, crescendo.
“Da che città provieni? E perché ti sei iscritto all’università proprio nel Wyoming?” Chiedo incuriosito.
Il ragazzo si gratta la nuca.
“Come ho già detto, costava meno… e mi volevo allontanare il più possibile da casa. Per quanto riguarda la città, non la conosci sicuro, è così piccola da avere più scoiattoli che persone. Si trova vicino a Presque Isle.”
Presque Isle si trova a nord, se non sbaglio. Una volta sono andato in vacanza là vicino, a trovare quei famosi parenti di cui parlavo poco fa.
“Canadese mancato, vedo.” Lo prendo in giro.
Sospira sonoramente, poggiandosi a fatica al finestrino.
“Magari fossi stato canadese, avrei avuto l’assistenza sanitaria gratuita.” Ribatte, chiudendo gli occhi.
Ancora una domanda mi frulla in testa.
“Perché vorresti diventare un raccoglitore di funghi professionista?” Domando sarcastico.
Il ragazzo socchiude un occhio.
“Perché mi piacciono i funghi.”
… che risposta è?
“Non mi sembra una ragione abbastanza solida per iniziare una carriera.”
Soprattutto una carriera che non esiste. O sì?
Si può diventare raccoglitore di funghi professionista? Mi pare ci sia chi raccoglie tartufi, valgono come funghi? Credo di sì, ma non ne sono sicuro.
Questo perché a scuola non ci insegnano nulla. Va bene, rettifico: questo perché a scuola non stavo attento. A volte mi sorprendo io stesso della mia ignoranza in alcune materie. Posso sapere di tutto su un argomento ritenuto inutile dalla maggior parte della popolazione e con nessuno sbocco professionale, ed essere completamente all'oscuro su questioni importanti.
Il ragazzo mi fissa.
“Stai parlando a uno che si è iscritto in filosofia solo perché voleva imparare a pensare, chiaramente i criteri ordinari non si addicono ai miei ragionamenti.”
Non posso dargli torto.
E se stesse scherzando?
“Dì la verità, te lo sei inventato sul momento.”
Probabilmente stava scherzando.
“No, no. Ci avrò pensato almeno una ventina di volte, fino a ora. Ho anche trovato il luogo adatto per la vendita.” Risponde, serio in volto.
“E da quanto saresti all’Università?”
Non sembra tanto più grande di me. Anche se non sono bravo a indovinare l'età di una persona dal suo aspetto, per quanto ne so potrebbe anche essere prossimo alla laurea.
Il ragazzo fa un calcolo veloce.
“Fine agosto?” Ribatte con una domanda.
Trattengo una risata.
“E dici di non gettare la spugna facilmente?” Riesco a chiedere senza scoppiargli a ridere in faccia.
L’università non può essere così difficile.
“Ho abbandonato gli studi?” Chiede, alzando un sopracciglio.
“No.”
Sorride con sicurezza.
“A punto.” Replica, sistemandosi a fatica.
Stringo le labbra. È una persona strana, sembra vivere nel suo mondo. Ci sono alcuni elementi molto bizzarri in lui, per prima cosa il suo modo di muoversi. Si muove lentamente, fin troppo lentamente, come se servisse una forza disumana per controllare il suo corpo. Oppure a scatti, quasi qualcuno lo urtasse mentre passa. Solo che è seduto vicino al finestrino, quindi nessuno può disturbarlo a parte me.
Mi domando se non abbia una qualche disabilità, un impedimento muscolare. Sarebbe scortese chiederglielo?
“Senti… per caso hai una malattia muscolare?”
…Vedo di non aver ancora sviluppato un filtro tra cervello e bocca. Bravo Noah, complimenti davvero.
Prendo il ragazzo in contropiede, arrossisce impercettibilmente.
Se fossimo in un’altra situazione e lui fosse un po' più… ancorato a terra, probabilmente ci proverei. Però io sono un fuggitivo, e lui non è il mio tipo ideale. Per carità, sarebbe una relazione interessante, ma con il mio carattere probabilmente non andrebbe bene. Ho bisogno di qualcuno che mi calmi, non da calmare.
Non lo so, mi dà l'idea di un tipo molto nervoso internamente, avete presente? Di quelli che non lasciano trapelare la frustrazione finché non scoppiano.
Io già non capisco le persone, figuriamoci qualcuno così criptico.
No grazie, ho già abbastanza problemi.
E, fra l’altro, sto già dimenticando Sayid? Va bene che il nostro è solo un flirt e, molto probabilmente, dopo il 7-Eleven non vorrà più stare con me in quel senso, però…
“Sono stato vittima di un incidente d’auto, qualche tempo fa. Ancora non mi sono ripreso bene.” Risponde il ragazzo, riportandomi nel bus.
Abbasso lo sguardo a disagio, non so come rispondere. Un ‘mi dispiace'? Sarebbe la risposta di circostanza, però mi sa tanto di scuse… e di sicuro non l'ho investito io, non ho nemmeno la patente. Certo, non mi fa neanche piacere che abbia avuto un incidente.
“Oh…” Rispondo.
Oh?
Non sai dire niente di meglio?
Bravo, Noah, un applauso.
‘Oh'… farei meglio a stare zitto.
“Quanto tempo fa?” Chiedo, cercando di non insultarmi ulteriormente. Non è un bene abbattermi tanto per una semplice risposta, dovrei cercare di non rimuginare su certe cose. E di non insultarmi più, ci pensano già gli altri.
“Tre anni il prossimo maggio.” Ribatte, mordendosi il labbro.
Segno di nervosismo, l'avevo detto io. Se non li conosco io segni del genere.
“È stato un brutto incidente, vero?”
No, Noah, si è alzato subito dopo e se n’è andato all'ospedale saltellando. Il tizio si muove a scatti, testa di banana, è ovvio che sia stato grave.
Cosa dicevo poco fa a proposito di insultarmi?
Il ragazzo alza le spalle.
“Sono finito in coma, conta. Un anno e mezzo. Penso rimarrò in terapia almeno fino al 2020.” Risponde, guardandosi le mani come se si aspettasse di vederle immobili.
Sospiro, non sapendo cosa ribattere.
“Sai… mentre ero in coma, ricordo di aver avuto il terrore di perdere tutto, di non svegliarmi. Pensavo di non rivedere più il mio migliore amico, mia madre… il solo ricordo mi mette ancora i brividi.” Mormora, mordendosi il labbro.
“Avevo capito di essere in quella condizione, di essere in pericolo. È una storia lunga, davvero, però… pensavo di non svegliarmi più. Pensavo che la mia vita sarebbe finita lì, che forse sarebbe stato meglio se fosse finita in quel modo.”
Alza lo sguardo, fissandolo nei miei occhi.
“Però sono contento di com’è andata. Sono contento di aver avuto la possibilità di scegliere. Altre persone non sono fortunate come me, sai? Alcuni non hanno quella possibilità. Altri, invece, non si accorgono di averla.”
Mi guardo le mani, incapace ancora una volta di sostenere il suo sguardo.
“Sono contento di aver fatto la scelta giusta. Qual è la tua, invece?”
Mi mordo la guancia, chiudendo gli occhi.
“Te l'ho già detto: non ho una scelta.”
Emette un verso di scherno.
“E io te lo richiedo: ne sei sicuro?”
Il bus rallenta. Guardo fuori dal finestrino, la fermata è poco distante.
Anche il ragazzo se ne accorge.
“Meglio che ti prepari, altrimenti dimenticherai qualcosa.” Mi incita.
Seguo il suo consiglio. Indosso la giacca e recupero il mio zaino.
“È stato un piacere parla con te…” Tentenno, non conoscendo ancora il suo nome
“Mitch. Mi chiamo Mitch.” Risponde con un sorriso, che ricambio volentieri.
“Noah.” Rispondo, tenendomi al portaborse accanto la mia testa per non cadere.
Il bus si ferma e le porte si aprono.
“Ciao, Noah. Spero farai la scelta giusta. In ogni caso, buona fortuna.”
Lo spero anch’io.
Lo saluto con la mano e scendo dal bus.
 
Sono circondato dal nulla.
O meglio, da nulla di accogliente. Il bus mi ha lasciato su una strada malandata, accanto a una stazione di rifornimento. Davanti a me vedo solo un autogrill e un McDonald’s.
È la tipica città di passaggio, una di quelle in cui non ci si ferma per più di qualche ora.
Bene, adesso che sono fuori dallo Utah, posso anche scegliere la mia meta definitiva. Devo fare una scelta imprevedibile, andare in una città che non ho mai menzionato o a cui nessuno che mi conosce penserebbe mai.
Ma come fare?
Anche perché partendo da qui non ho molta scelta. Mi converrebbe prendere il primo bus che lascia la stazione… ed è appena partito. Dov’è diretto?
Sull’insegna luminosa compare la scritta ‘Pocatello’.
Tolgo la modalità aereo dal cellulare, ignoro i messaggi e gli avvisi di chiamata e cerco su Google maps la città, trovando anche il percorso del bus in questione. Passava da Salt Lake City, non è che abbia perso chissà quale occasione.
Va bene, allora prenderò il secondo bus che parte dalla stazione.
Vado a controllare sul cartellone. Che poi cartellone è un parolone, si tratta in realtà di un foglio A4 attaccato con il nastro adesivo al palo. Almeno le partenze sono state scritte al computer… o colui che le ha scritte ha una grafia molto pulita.
Destinazione del prossimo bus: Fort Collins, Colorado.
Riprendo il cellulare e allargo la mappa, andando a cercare la posizione della città senza immettere il nome. Vorrei non lasciare in cronologia delle briciole di pane, non so se mi spiego. Pocatello va bene, se riescono ad accedere alla mia cronologia almeno verranno depistati, si spera.
Il bus parte domani alle nove del mattino.
Ottimo, dovrò aspettare una giornata intera in questo posto sperduto… tanto vale cercare un motel. Meno male che ho portato con me la mia vecchia carta d’identità falsa, comprata l’anno scorso a un prezzo che di sicuro non corrisponde al suo valore. Ero disperato, mi serviva.
Sempre controllando sul cellulare, trovo un motel a un quarto d’ora di distanza. Pare sia il più economico nelle vicinanze, tanto meglio! Metto nuovamente il cellulare in modalità aereo e m’incammino.
Il paesaggio è più squallido di quanto mi aspettassi. Sulla strada che sto percorrendo, che immagino essere quella principale, si trovano negozi ricavati da case a un solo piano con tetti cadenti e intonaco bianco rattoppato alla bene e meglio, laddove è ancora presente.
Sarà la mia impressione, probabilmente dovuta allo stato di fuggitivo in cui mi ritrovo, a peggiorare la vera natura di questa cittadina.
Possibilmente, in primavera, non sarebbe la peggiore del mondo, ma questo non lo scoprirò mai.
Arrivo a destinazione dopo essere passato fra l’erba secca che copre un passaggio a sottolivello. L’edificio che mi trovo davanti è un lungo rettangolo a due piani dall’insegna rossa, che, ironicamente, somiglia molto a un riformatorio senza sbarre alle finestre.
Storco il naso entrando nella piccola hall dai colori rossi e giallo mostarda, alternati a parete, e il pavimento blu.  Mi avvicino al bancone, chiamando per attirare l’attenzione.
Non risponde nessuno, quindi mi sporgo sul bancone per controllare se arrivi qualcuno dalla stanza di servizio, nascosta dal muro.
Un uomo mi spunta davanti, facendomi ritrarre di scatto.
“Scusi il ritardo, desidera?” domanda, controllando il cellulare.
Mi ricompongo, cercando di assumere l’espressione più seria che riesca a produrre. Devo dimostrare più anni di quello che ho, secondo la mia falsa carta d’identità dovrei averne diciannove.
Non riesco nemmeno a farmi crescere bene i baffi, con che credibilità dovrei avere diciannove anni?
Eppure, si fa quel che si può.
“Salve, vorrei una singola per stanotte.”
La mia voce fa alzare lo sguardo dell’uomo dal cellulare e posarsi su di me.
“Quanti anni hai, ragazzino?” Chiede diffidente, aspettandosi una bugia.
Alzando drammaticamente gli occhi al cielo, come se avessi dovuto affrontare questa scocciatura già un migliaio di volte, prendo il documento dal portafogli e glielo porgo.
L’uomo lo analizza, guarda bene la foto e poi me, sempre più sospettoso.
“È dell’anno scorso.” Mi giustifico.
L’uomo, dopo un’ultima occhiata circospetta, alza le spalle, mi restituisce il documento e accetta i miei soldi.
A quanto pare sono più disperati di quanto pensassi, se accettano qualcuno che è chiaramente minorenne. Davvero, mi ha visto? Con una faccia del genere è tanto se non mi ha chiesto se ho perso la mamma.
Tecnicamente non ho perso la mamma, è lei ad aver perso me.
La camera si trova al pian terreno, poco lontana dalla hall, e ne riprende i colori: muri giallo mostarda e rossi, pavimento blu.
È molto più carina di quanto mi aspettassi a dire il vero, è pure fornita di un fornetto elettrico e televisore. …Capisco il televisore, ma il fornetto elettrico non mi pare molto sicuro.
 Mi butto sul letto, lasciando che lo zaino cada accanto alla mia testa.
Dalla tasca anteriore, rimasta aperta dopo aver pagato, cade il portafogli, con il documento parzialmente visibile.
Lo prendo e lo osservo, portandolo in alto davanti a me.
Noah Bonham, così mi sono fatto chiamare.
Dovrò sicuramente cambiare sia nome che cellulare, altrimenti mi potrebbero rintracciare immediatamente.
Come voglio chiamarmi, questa volta? Mantengo Noah, o cambio pure quello?
Odio pensare a nuovi nomi, non sono mai stato bravo. Potrei chiamarmi Sebastian Rose… troppo ovvio?
Forse è meglio non puntare a nomi famosi, come mi aveva consigliato… Steve.
Chissà cosa penserà, scoprendo la mia fuga. So già come mi chiamerà, nella privacy della sua mente, era il suo appellativo preferito quando condividevamo la cella. Ovviamente lo diceva in modo scherzoso, non mi ha mai insultato seriamente… fino a oggi, temo.
Mi direbbe di aver sbagliato, mi direbbe che sono stato troppo impulsivo, che non ho pensato bene alle conseguenze, che ho peggiorato la situazione.
Mi direbbe che ancora non è troppo tardi per tornare sui miei passi e presentarmi davanti al giudice, perché il caso è stato fissato per le tre del pomeriggio. Mi direbbe di seguire la strada giusta, di non commettere un errore che potrebbe costarmi la vita, costringermi a uccidere la mia identità.
Mi direbbe di chiamare qualcuno e farmi venire a prendere, perché i bus per Salt Lake City partono tardi e non arriverei a presentarmi davanti al giudice.
Mi direbbe di rispondere al mio errore, di riconoscerlo e affrontare la pena a testa alta, perché sa che posso fare di meglio, sa che non è la fine della mia vita, sa che il mio futuro muore soltanto quando io decido di lasciarlo morire.
Ma Steve non è qua con me, e solo il ricordo della sua voce mi può fare compagnia.
Devo abbandonarlo, devo abbandonare tutti i ricordi.
Steve, Alex, Sayid, Marlene, Audrie, Heather, Winterfield, Emma, mio padre. Devo lasciarli andare, uccidere Noah Smith, rinascere sotto un altro nome, con un'altra storia alle spalle.
Devo iniziare la mia nuova vita, da solo. Da questo momento in avanti, sono un orfano. Sono un orfano non solo perché senza genitori, sono un orfano per scelta, per aver rinunciato ai miei amici.
Sono rimasto orfano di padre, di madre, di parenti, di amici e di passato.
Sono un orfano? E che il mio futuro sia migliore di quello di Oliver Twist, allora. Non ho bisogno di nessuno, me la sono cavata da solo per tutti questi anni, me la caverò da solo un’altra volta.
Eccetto che non sono mai stato veramente solo, e quando lo sono stato ho cercato disperatamente di aggrapparmi a qualcuno. Da solo non so vivere, ho bisogno della compagnia, ho bisogno di sapere di potermi appoggiare a qualcuno, se mai ne avessi bisogno.
Cosa farei se mi trovassi in una situazione di pericolo e non ci fosse nessuno ad aiutarmi? Cosa farei se mi mettessero all'angolo, mi arrestassero e nessuno mi reclamasse? Come posso io, un ragazzo, ricominciare una vita completamente da solo?
Come?
Non lo so, ma devo.
No, è inutile farsi prendere dalla paura, è inutile abbandonarsi all'ansia ed entrare in quel vortice di pensieri da cui non esiste scampo se non essere tramortito da attacchi di panico o medicine.
Devo rimanere vigile, attento, concentrato. Non posso permettermi di lasciarmi sopraffare dalla paura. Questa è la situazione in cui mi trovo, che mi piaccia o meno, e da solo devo trovare una soluzione.
Tanto vale eliminare le prove fisiche del passato, servono solo ad ancorarsi, non mi permettono di andare avanti.
So di avere, da qualche parte in questo zaino, ancora la lettera di Steve. Sarà il primo sacrificio per la creazione della mia nuova vita. Tutto ciò che appartiene all'esistenza di Noah Smith deve essere distrutto, altrimenti non potrò mai ricominciare, sarò sempre legato a un passato che ho dovuto abbandonare.
Proprio come immaginavo, frugando fra i vestiti, proprio sul fondo dello zaino, trovo la lettera. E insieme a questa anche un quaderno verde, con la copertina mimetica e un riquadro bianco al centro, in cui, a penna, ho scritto il mio nome.
In una delle prime pagine trovo una poesia, quello scritto per cui Sayid si è complimentato, ormai decadi fa, prima che iniziassero le proteste e i video su Twitter.
E sfogliando le pagine trovo ancora gli elenchi delle scommesse, i nomi legati alle puntate attraverso una linea tratteggiata.
E ancora dediche, pensieri, disegni, partite a tris. E una foto, a metà perfetta del quaderno, che io e Alex abbiamo scattato in una cabina al Liberty Park, uno dei primi giorni di giugno. Alex aveva ancora una sigaretta fra le dita, meno male che abbiamo perso il vizio al rifugio.
Strappare tutto, distruggere, bruciare, cancellare.
Questi ricordi devono essere eliminati.
Riunisco tutto quello che può essere considerato memoria e lo porto in bagno, buttandolo nel lavandino.
Strappare, distruggere, bruciare, annegare, ridurre in poltiglia e buttare giù per lo scarico.
Non deve rimanere niente.
Fra le lacrime inizio a strappare la lettera, ne faccio tanti pezzi, piccoli, sempre più piccoli.
Annientare, eliminare, cancellare dalla faccia della Terra.
Nulla deve rimanere. Nulla.
Coriandoli, tutto deve diventare coriandoli da usare per la mia rinascita, come alle feste, come ai concerti, farò i primi passi sul nuovo palcoscenico attraversando una nube di coriandoli bianchi, e neri, e rossi, e verde mimetico.
Oggi diventerò un assassino, oggi diventerò un creatore, plasmerò la realtà, farò scomparire un ragazzo rifiutato dai suoi stessi genitori, sfortunato nel tentativo di aiutare gli altri, impulsivo, aggressivo, delinquente, e farò nascere una persona amata da tutti, artefice del proprio destino, inarrestabile.
Io… io…
Mi aggrappo al lavabo, cercando disperatamente di prendere fiato fra un singulto e l'altro.
Il volto sorridente di Alex, la sigaretta stretta fra le dita, la mia smorfia per far ridere la mia persona preferita. Quella foto mi osserva, mi ricorda chi sono stato e chi, in fondo, sarò sempre.
Io non sono un assassino, né un creatore, né sono capace di plasmare la realtà. Non posso scappare al mio passato, tornerà a tormentarmi.
Sono solo un ragazzino immaturo e impulsivo che cerca di sopravvivere, in un modo o nell'altro.
Sono solo un ragazzino.
Non voglio uccidere Noah Smith. Non voglio.
Raccolgo il quaderno, bagnato dall'acqua residua del lavandino, la foto e quello che è rimasto della lettera, riporto tutto in camera.
Conservo i miei ricordi nello zaino e mi siedo sul letto, la schiena incurvata per la stanchezza.
Prendo il telefono, tolgo la modalità aereo, seleziono il contatto e lo porto all'orecchio.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.
“Noah?”
Scoppio a piangere, lasciando che il dolore, finalmente, faccia la sua completa apparizione, abbandonando davanti a qualcun altro e almeno per un minuto lo scudo che avevo costruito per proteggermi dal mondo.
“Ho fatto una cazzata, papà.”

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Capitolo 18
*** Blowin' In The Wind ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a chi è rimasto finora ad aspettare. Una sola domanda: perché?
Scherzi a parte, il brano di questo capitolo non è altro che la bellissima Blowin in the wind, di Bob Dylan, un classico che, sicuramente, conosceranno tutti i nostri genitori. Non mi dilungherò, stavolta, a parlare della canzone o del suo autore, perché ci sarebbe molto da dire e non vorrei tediarvi conuna lunga introduzione. Vi invito solamente a indossare delle cuffie, far partire la canzone, e godervi il capitolo.
Ancora una volta, vi auguro una buona lettura.

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Capitolo 18

 
Non passano secondi tra il botto con cui la portiera si chiude e il momento in cui l’auto parta. Non ha avuto neanche bisogno di spegnerla, mi ha preso al volo.
Sono le undici passate, abbiamo ancora un’ora e mezza di strada da fare, e se non vogliamo arrivare in ritardo al processo non possiamo perdere altro tempo.
Pagata la stanza, nonostante la mia mezza giornata scarsa di permanenza, mi sono fiondato a testa bassa verso la Ford nera che conosco fin troppo bene. Dodici anni e ancora funziona a meraviglia, a quanto pare.
Usciamo dalla città e prendiamo l’autostrada.
Nessuno dei due osa parlare.
Nessuno dei due sa cosa dire.
Mio padre accende la radio, per alleggerire il silenzio che si è creato nella macchina.
Blowin’ in the wind, di Bob Dylan, inizia a suonare.
La chitarra acustica si presenta timidamente all’inizio, pronta ad accompagnare una voce delicatamente nasale. Singole note basse si alternano ad accordi un po’ più decisi, che ripetono lo stesso ritmo per quasi tutto il brano.
«How many roads must a man walk down, before you call him a man?», si unisce mio padre, cantando insieme all’autore.
Lo ascolto in silenzio, continuando a guardare fuori dal finestrino verso un passato più sicuro, quando tutti e tre, insieme, viaggiavamo verso le montagne, verso i laghi, in altri stati. E ricordo le voci dei miei genitori, che intonavano in sincrono una richiesta di pace risalente a qualche anno prima che nascessero.
I miei non hanno vissuto le guerre a cui la canzone si rivolge, ma sono cresciuti con il suo messaggio.
Ed eccomi là: avrò avuto sei o sette anni al massimo, l’unica voce stonata del gruppo, più alta delle altre, che impone la sua presenza per un’esuberante voglia di aggregazione, di sentirsi parte della magia. Non avevo idea di cosa fossero le note a quell’età, e adesso che le conosco, non riesco comunque ad accordare ciò che esce dalla mia bocca con quello che sento.
«The answer my friend is blowin’ in the wind, the answer is blowin’ in the wind», continuano mio padre e Dylan, seguiti da un’armonica a bocca che chiude il verso. L’uomo accanto a me la imita fischiettando, perché non ami una canzone se non canti anche le parti strumentali.
 «Yes, and how many years can a mountain exist, before it is washed to the sea?», chiedo io, rispettando la mia entrata stabilita anni e anni fa. Questa volta riesco anche a prendere qualche nota giusta, con mia grande sorpresa.
Da quanto tempo non mi fermo a cantare? Da quanto tempo non sento quel volto della mia voce?
Dovrei farlo più spesso, allenarmi a cantare.
«Yes, and how many times can a man turn his head and pretend that he just doesn’t see?», domandiamo tutti e tre, creando un’armonia di tre toni differenti, tutti accordati su intonazioni simili, non proprio la stessa.
Come ho detto, il canto non è il mio forte.
E, nonostante ciò, continuiamo al meglio delle nostre potenzialità, cercando di rendere onore a una canzone che mi ha visto crescere.
Presto arriva il ritornello finale, due strofe ripetute tre volte, prima della schitarrata finale, probabilmente creata per scherzo da un giovane Dylan.
Come al solito, io e mio padre ripetiamo il ritornello ancora una volta, fingendo un’intonazione lirica che non ci appartiene, una tradizione comica nata dalla stanchezza.
Conclusa l’ultima nota, fra noi cala nuovamente il silenzio, mentre una canzone a noi sconosciuta suona alla radio.
Le nuvole, lassù nel cielo, si muovono incuranti di ciò che accade sotto di loro, come se non avessero alcuna preoccupazione e me lo rinfacciassero.
Tempo fa ricordo di aver provato nostalgia del cielo.
«Mi dispiace.», mormoro, maledicendo mentalmente le nuvole per i sensi di colpa aggiunti.
Mio padre non risponde, aspetta che vada avanti.
«Io… non so che mi sia saltato in mente. Non stavo pensando, a quanto pare. Non so…», non trovo le parole. O meglio, le trovo, però mi sembrano inutili.
«Lascia perdere, mi sembro un disco rotto.», borbotto, riaggiustando la fasciatura alla mano. La frattura si sta rimarginando bene, credo. Non fa più tanto male.
Probabilmente mi sono solo abituato al dolore.
«In che senso?» Domanda finalmente mio padre.
Alzo le spalle.
«Mi pare di aver già affrontato questo discorso. Forse l’ho solo immaginato, non ricordo, in ogni caso la discussione mi sa di trita e ritrita. Ormai ho la sensazione di essere il personaggio di un video gioco e di avere, con certe persone, le stesse caselle di azione: scusati, arrabbiati, ignora, evita. E so pure che è colpa mia, perché potrei fare lo sforzo di mettere da parte il risentimento e parlare con te, parlare veramente… ma è difficile. Sai cos’ho passato in questi anni, papà?» Chiedo stanco, voltandomi verso il diretto interessato.
Lui non risponde, continua a guardare la strada. Tuttavia, mi accorgo della sua presa sul volante che si fa un poco più stretta, mi accorgo della mascella serrata, della volontà di non guardare altrove.
Come si fa, dopo anni, a riallacciare un rapporto spezzato così bruscamente?
Non esiste un tutorial, o delle istruzioni, o anche una pagina di wikiHow? Per quest’ultimo immagino di sì, su quel sito c’è di tutto.
E se anche ci fosse, non penso sia così specifica da aderire al nostro caso.
«Non sto cercando di addossarti la colpa delle mie azioni, te lo assicuro, non è quello il mio intento. È che… sono stanco di sentirmi male. Sono stanco di non potermi fidare di nessuno, di essere sempre arrabbiato, di sentirmi solo… perché non sono solo! Insomma…»
Mi massaggio le tempie, cercando di alleviare un dolore persistente, con il quale convivo ormai da due anni.
Sono stanco.
Sono solo incredibilmente stanco.
«Vorrei riuscire a lasciarmi il passato alle spalle, insieme a tutto quello che lo accompagna. Vorrei riuscire a superare il risentimento, eliminarlo e vivere serenamente.
Io non sono una persona violenta, so di non esserlo. Ho semplicemente imboccato la strada sbagliata, tutto qui.»
Mi aggiusto sul sedile, a disagio per il silenzio che incontrano le mie parole.
«Una cosa è certa: mi sono pentito di aver colpito quell’uomo. Non me ne pento per la pena che dovrò scontare, ma per il solo fatto di aver reagito in quel modo. Non è giusto, merito di essere punito, su questo siamo tutti d’accordo. E mi dispiace anche essere scappato, è stata una scelta stupida, impulsiva. Non posso scappare per sempre, è ora di accettare le conseguenze e affrontarle a testa alta.»
Un sospiro proviene dalla mia sinistra.
Mi volto a guardare mio padre, gli occhi ancora sulla strada, la schiena un po’ più curva di prima.
«Dispiace anche a me.» Ammette senza voltarsi.
Lo guardo interdetto.
«In che senso?»
Si schiarisce la voce, cercando di eliminare quell’istinto orgoglioso che lo contraddistingue.
È una caratteristica di famiglia, a quanto pare.
«Mi dispiace… per tutto quello che è successo. Per tutto quello che ti abbiamo fatto.»
…Non ho capito, si sta scusando?
«Non avremmo dovuto reagire in quel modo, buttandoti fuori di casa. Insomma, sei nostro figlio, non importa se sei…»
Gay.
Un finocchio.
Un peccatore.
Dillo, papà, chiamami con quei nomignoli che mi ha dato mamma quel giorno, quando tu sei rimasto a guardare.
No. Basta, Noah, non è l’atteggiamento giusto.
L’uomo sta cercando di scusarsi, ascoltalo.
Se voglio ritrovare la fiducia nel prossimo, devo cambiare atteggiamento.
Tanto vale iniziare da qui.
«Se hai aggredito quell’uomo, è anche colpa nostra. Ti avremmo dovuto insegnare a reagire in modo adeguato, invece…»
Sospira nuovamente, cercando la forza per continuare il discorso.
«Vorrei poter dire di aver seguito gli insegnamenti della mia religione. Vorrei poter dire di aver fatto ciò che un mormone che si rispetti avrebbe fatto, ma non è così. La nostra religione chiede di amare e aiutare il prossimo, non di abbandonarlo nel momento del bisogno. Il mio… nostro comportamento è stato ingiustificabile, è inutile cercare scuse nella religione, nella nostra educazione, nella nostra comunità. Non ci siamo comportati come dei genitori dovrebbero fare, ci siamo lasciati accecare dal nostro amore per le apparenze, in realtà.»
Si ferma un momento, soppesando pensieri che credo abbia formulato anni fa.
Ha vissuto davvero per anni con i sensi di colpa? O è solo fantasia?
«Il dolore che hai patito… ho paura a chiederti cos’hai passato, ma se un giorno tu volessi parlarmene, sappi che ti ascolterò. Non posso tornare indietro nel tempo e impedire che quella notte accada, ma posso cercare di rimediare alle mie azioni. Saresti disposto a darmi un’altra possibilità?”
Non so che rispondere, mi ha preso in contropiede. Ho immaginato così tante volte un discorso del genere da non credere che sia realtà.
Lo è?
...sì, lo sto sicuramente immaginando.
Mi sporgo sul sedile per toccargli il viso con un dito, giusto per assicurarmi della realtà della situazione.
Mio padre mi lancia un’occhiata di traverso, perplesso per la mia azione.
Ritorno immediatamente a sedermi composto sul sedile.
Dovrei dargli la possibilità di rimediare ai miei errori?
Io, se fossi al suo posto, la vorrei sicuramente. Sto letteralmente andando a chiedere una seconda possibilità al tribunale di Salt Lake City.
La mela non cade lontana dall’albero, vero?
Ormai ho deciso: questa è la fine del mio risentimento. O almeno, l’inizio della fine, l’inizio del mio cambiamento.
Mi stringo nelle spalle e annuisco, ancora incapace di dare il mio consenso a voce.
Mio padre vede e capisce.
“Allora, pensiamo a come affrontare il processo di oggi, che ne dici?”

Il tribunale svetta sulla strada, uno dei pochi palazzi pseudo-storici in vista. Non so se sia veramente antico, certamente lo sembra. Si accorda bene con il palazzo municipale dirimpetto.
È, senza ombra di dubbio, più elegante della sua controparte poco distante, ovvero il tribunale federale: un parallelepipedo di vetro, molto somigliante a un edificio di Men In Black che a qualcosa di reale.
L’atrio circolare del tribunale del terzo distretto, con le sue colonne bianche e pavimento decorato da un disegno a stella in marmo bianco e nero, mi fa comprendere realmente la gravità della mia situazione. Con la mente torno indietro di qualche mese, quando non avevo casa e i Winterfield erano soltanto una coppia di mormoni che mi avevano fatto arrestare. Sembra passato un secolo da quei giorni, ma la sensazione è la stessa.
Una fitta al petto… no, un improvviso vuoto mi si materializza nel petto e mi toglie il fiato, lasciandomi incapace di formulare qualche sillaba o di guardare in altre direzioni se non i miei stessi piedi.
Ci son momenti in cui le mie labbra sembrano serrate, chiuse insieme da una qualche sorta di super colla. Nella mia testa urlo, mi dimeno, mi fiondo sulle sbarre e mi ordino di parlare, di dire qualsiasi cosa, anche solo un saluto alla prima persona che passa. All’esterno sono impassibile, nulla accade e nulla sembra turbarmi, lontano anni luce dalla realtà.
Non importa quanto la mia coscienza mi preghi di parlare, non ci riesco.
Posso solo continuare a guardare a terra e sentire quel formicolio alle labbra, un ordine ignorato volontariamente dai muscoli.
Quando mi coglie un attacco di ansia, perché di questo penso si tratti, sono prigioniero del mio corpo.
Passando sotto la cupola, come tradizione nata durante la prima gita al tribunale, di anni e anni fa, alzo gli occhi per ammirare la decorazione a cassettoni azzurri e l’oculo stellato, con i suoi colori stranamente rassicuranti. Nonostante avessi solo sette anni, durante quella mia prima visita, ricordo ancora la descrizione che ne ha fatto la guida e lo stupore nello scoprire il blu, l’azzurro, il bordeaux e il beige, tutti in pacifica coesistenza tra di loro.
Quella cupola riesce a farmi evadere, anche se per qualche secondo, dal timore della sentenza.
«Noah!»
La voce della mia persona preferita mi fa abbassare gli occhi, riportandoli ad altezza d’uomo.
Alex si avvicina a passo svelto per non correre in un luogo severo, quale l’ambiente dove ci troviamo, e si ferma a qualche passo da me.
Istintivamente, tiro il suo braccio e stringo la mia persona preferita come se la guerra ci avesse separati.
«Mi dispiace, Alex, avrei dovuto darti ascolto, sono un idiota!» Affermo, immergendo la testa fra i suoi capelli.
Alex ricambia l’abbraccio, insieme iniziamo a dondolare impercettibilmente a destra e a sinistra, come facciamo solitamente.
«Almeno lo sai. Però sono felice che tu l’abbia capito in tempo.»
Sorrido al suo insulto indiretto.
Alla fin fine, me lo merito.
Oscilliamo per qualche altro secondo, come se stessimo ballando un lento al ballo di fine anno che, probabilmente, non avrò mai la possibilità di sperimentare. Per ora mi basta essermi ricongiunto alla mia persona preferita.
Ci sciogliamo lentamente e mi allontano quanto basta per accorgermi della presenza, in questa stanza circolare, di altre persone a me care.
Sayid corre ad abbracciarmi.
Sayid: il ragazzo che ha assistito a uno dei miei momenti peggiori, che ha cercato di frenarmi dal prendere la scelta sbagliata e che adesso accoglie con gioia il mio ritorno.
Quando mi lascia andare, mi dà un colpo sulla nuca, al quale non rispondo.
«Sei un coglione immane, lo sai vero?»
Annuisco, tuttavia sorrido sotto i baffi.
Il ragazzo, accorgendosene, alza la mano in un gesto minaccioso, ma il suo sorriso mi fa capire che sta scherzando.
Invece di colpirmi di nuovo, mi posa la mano sulla guancia, premendola a intermittenza, come se volesse schiaffeggiarmi senza farmi male.
«Mi trattengo solo perché siamo circondati da poliziotti, sappilo.» Commenta, continuando a tormentarmi.
Dando un’occhiata in giro, vedo solo un agente di sicurezza nei paraggi… non proprio l’armata di cui parla.
Il ragazzo continua a toccarmi la faccia per darmi fastidio, parlando ininterrottamente in arabo.
Non so cosa dica. Di sicuro, visto il tono, non mi sta complimentando.
«La prossima volta che farai qualcosa del genere», mi prende il viso con tutte e due le mani per costringermi a guardarlo negli occhi, «bo’brak.», conclude minacciosamente, lasciandomi andare.
Va bene, ora non ho più paura della pena.
Devo comprare un dizionario arabo, giusto per capire a cosa vado incontro.
I Winterfield si avvicinano silenziosamente, Emma tiene fra le braccia un completo nero.
Non riesco a guardarli negli occhi, ho tradito la loro fiducia ancora una volta.
Mi scuso a testa bassa, incapace di aggiungere altro.
L’uomo non risponde, fa segno alla moglie di porgermi il completo.
«Preparati. Di quello che è successo, ne parleremo a casa.» Ordina grave.
Accetto i vestiti e mi avvio verso il bagno.
Passando accanto ad Emma, mentre Winterfield guarda altrove, lei mi poggia delicatamente una mano sulla guancia e mi sorride incoraggiante.
È un gesto che dura un attimo, eppure riesce a rincuorarmi quel tanto che basta per rialzare la testa.
«Togliti le dita dalla bocca, Noah. E smettila di agitare la gamba.» M’istruisce mio padre, tentando di farmi stare fermo.
Di sicuro darmi ordini non è il modo giusto, ma ci sta mettendo la buona volontà.
Mancano pochi minuti al processo, ormai, e mi sento più ansioso dell’altra volta.
Forse, stavolta, ho qualcosa in più da perdere.
Forse, stavolta, la decisione del giudice non influenzerà solo il mio destino.
Già so che è uscito un articolo sull’aggressione, ma non mi sono informato più di tanto… ero troppo occupato a scappare per controllare i miei tag.
Non sono riuscito nemmeno a salutare tutti, visto che la maggior parte dei ragazzi del rifugio sono ancora a scuola.
Fortunatamente, questa volta ho una famiglia affidataria, quindi, anche se mi dovessero dare quei tre mesi di riformatorio, mi faranno passare quei giorni di attesa a casa, invece di mandarmi direttamente all’istituto.
Il sistema affidatario americano è fatto male.
Nella panca accanto alla nostra si siede un uomo. Porta sul viso qualche cerotto e sulla nuca si intravede un bernoccolo.
Ci scambiamo uno sguardo veloce, prima che abbassi nuovamente gli occhi per la vergogna.
Sono stato io a ridurlo in quello stato, i lividi, i graffi… tutta opera mia.
Non sembra vero, mi pare solo una delle mie fantasie, qualcosa che vorrei fare, ma immagino solamente, mantenendo la mia solita calma esteriore.
Calma che, a quanto pare, non mi appartiene da molto.
Trovo sempre più difficile distinguere l'immaginazione dalla realtà. Sento quei sogni ad occhi aperti come le mie esperienze più vivide.
E guardando nuovamente quell'uomo, mi appare sfocato, come se il senso di colpo spingesse la mia mente a censurare le conseguenze delle mie azioni.
Forse dovrei seriamente entrare in terapia.
L'uomo ricambia nuovamente il mio sguardo, ma non riesco a comprendere la sua reazione. Cosa starà pensando?
Starà rivedendo il mio viso mentre lo aggredivo? Starà ricordando la ferocia con cui mi sono scagliato su di lui?
Per esperienza, quando guardavo Bennet sentivo nuovamente ogni colpo, ogni insulto e maltrattamento… gli starà succedendo la stessa cosa?
Senza accorgermene realmente, come se quell'altra parte di me avesse preso, ancora una volta, il sopravvento, mi alzo e mi avvicino a lui.
L'uomo drizza la schiena, preparandosi, non conoscendo il mio intento, a qual che sia l’interazione.
I nostri trascorsi, di sicuro, non gli faranno pensare che gli stia per offrire un caffè.
Forse dovrei offrirgli un caffè, sarebbe un bel gesto. Tuttavia, credo che possa aspettare, ci son questioni più importanti da risolvere.
Eppure, adesso che mi trovo di fronte la mia vittima – la mia vittima – non trovo le parole adatte per esprimere ciò che provo.
L’unica frase che la mia mente riesce a formulare è: «Mi dispiace…»
Mi esce in un sussurro che lascia l’uomo perplesso.
«Mi dispiace…», ripeto.
Ci guardiamo un secondo a disagio, lui incapace di comprendermi, io incapace di esprimermi in modi più complessi.
L’incomprensione è la base delle guerre, o almeno della maggior parte.
Provo ancora una volta a combattere quel blocco mentale in cui mi ritrovo, ma non ottengo chissà quali risultati.
Frustrato per la situazione, sospiro, scuoto la testa e mi allontano lentamente, tornando a sedermi accanto a mio padre.
Sento ancora il peso dello sguardo dell’uomo, m’inchioda alla seduta.
Faccio sprofondare il viso tra le mani, mentre qualcuno cerca di rassicurarmi massaggiandomi una spalla.
«Il giudice ha finito, potete entrare.» C’informa Emma, sporgendosi dalla porta.
Mio padre scatta in piedi, mentre io, cercando di scrollare di dosso l’avvilimento, mi alzo a fatica. Sistemo il completo, un po’ più corto di quanto Emma si aspettasse, ed entro in aula.
L’odore del legno mi riempie le narici.
Questo luogo mi ha sempre ricordato un’aula universitaria, ha quell’aria di austerità che riesce sempre a mettermi in agitazione. Fortunatamente ho in tasca un blocchetto e una penna, così posso comunicare con mio padre, nel caso l’ansia diventi insopportabile.
Alla fin fine, uno dei miei diritti è chiedere una pausa in caso di bisogno.
Il giudice è già in sala, sta analizzando delle carte, probabilmente riguardanti il mio caso.
Con il permesso della corte, ci sediamo, così che il processo possa iniziare.
Le parole del giudice mi arrivano ovattate, come se qualcuno mi stesse coprendo le orecchie per “proteggermi” da quello che sta accadendo.
In compenso, sento benissimo il battito del mio cuore. Il resto mi appare come rumore di fondo, un brusio continuo che accompagna le vibrazioni emanate dal calo temporaneo di corrente dell’illuminazione.
Una in particolare, a metà tra me e il giudice, pare compiere una fastidiosa onda perpetua che mi causa un leggero mal di testa.
Chiudo gli occhi per alleviare il dolore e cercare di concentrarmi almeno su un senso.
Va bene, Noah, concentrati sul tuo respiro e conta a ritroso a partire da dieci.
Dieci.
Nove.
Otto.
Sette.
«... carico? Noah?»
Mio padre mi posa una mano sulla spalla per attirare la mia attenzione, interrompendo il mio conto alla rovescia.
Riapro gli occhi, mi ritrovo al centro dell’attenzione.
Il giudice mi sta guardando preoccupato, come se dovessi scoppiare da un momento all’altro.
Il che non è del tutto falso.
In silenzio chiedo l'aiuto di mio padre, il giudice se ne accorge.
«Comprendi le accuse a tuo carico?» Chiede nuovamente, cercando il mio sguardo.
Risvegliato dal mio stato di semi-coscienza, mi avvicino impacciato al microfono e mormoro in assenso.
«E come si dichiara il minore?»
Mio padre si alza in piedi.
«Colpevole, vostro onore.» Afferma al microfono, come da patto.
Riguardando il caso, non c’era altra soluzione. Oltre ai tre testimoni oculari e le telecamere, i segni su quell’uomo non si possono negare.
In più, la mia coscienza non mi permette altrimenti.
Il giudice annuisce, sistemando nuovamente le carte.
«Allora non penso ci sia bisogno di interrogare i testimoni. Per quanto ti riguarda, Noah…»
Sento il rumore di una sedia che si chiude, dietro di me. Qualcuno si alza interrompendo il giudice.
«Mi scusi, vostro onore, potrei spendere solo qualche parola per l’imputato?» Chiede la voce di Cox, non molto distante da me.
Il giudice è interdetto, tiene il martello in aria, pronto a richiamare all’ordine l’aula.
Eppure, tentenna.
Ci sta pensando.
Guarda tutti, sento un mormorio da parte dell’accusa, fra la mia vittima e il suo avvocato.
Quest’ultimo, dopo un breve colloquio con il suo cliente, comunica il proprio consenso.
Il giudice posa il martello e, con un cenno della mano, dà la parola a Cox.
«Noah ha sbagliato, quella sera, è vero… ma di quello si tratta: di uno sbaglio. In quel poco tempo che l’ho conosciuto, mi ha provato la sua forza di volontà, ha dimostrato una voglia incredibile di aiutare gli altri e si è fatto carico di un peso che le spalle di un ragazzo della sua età non dovrebbero provare. Ho seguito il suo caso in televisione, prima di assumerlo, e ho assistito in prima persona ad eventi che l’hanno turbato, siano essi il ritorno a sorpresa del padre, avvenuto nel mio negozio, che una minaccia con vernice ed esplosivi, di cui mi ha raccontato la mattina del reato. Noah non è una cattiva persona, ha solo intrapreso la strada sbagliata, tutto qui. Ma sono certo che si possa ancora aiutare, credo con fermezza che abbia compreso il suo sbaglio.»
Sento una mano di mio padre posarsi sulla mia schiena, passandola ritmicamente per confortarmi.
Sento quello che, ormai, è il mio ex-superiore tornare a sedersi, mentre il giudice soppesa le sue parole.
Poi unisce le mani avanti a sé e si sporge appena appena sul banco, per guardarmi meglio.
«Noah, hai qualcosa da aggiungere?» Mi domanda direttamente, guardandomi negli occhi.
Io cerco aiuto in mio padre, chiedendogli silenziosamente consiglio. L’unica risposta che ottengo è, ancora una volta, il passare ritmico della sua mano sulla mia schiena.
Mi volto verso il giudice e scuoto la testa.
L’uomo in toga sospira, tornando a guardare le sue carte.
«Di sicuro hai qualcuno disposto a spezzare una lancia in tuo favore, qualcuno che, tra parentesi, hai derubato qualche mese fa. Ci sarebbe da chiedersi perché, ma il tuo superiore ha risposto per te.» Commenta, frugando tra i documenti.
«Però, hai anche infranto la legge, e per questo devi essere punito. Adesso, tenendo conto del rapporto della psichiatra con cui hai parlato, della tua fedina penale e della tua storia personale, ridurrei la pena accordata in precedenza a tre settimane di reclusione in un istituto correzionale. Dovrai essere seguito per un anno da uno psicologo iscritto all’albo e dovrai risarcire il signor Newport, qui presente.» Sentenzia il giudice, rivolgendosi a me e a mio padre.
Tre mesi quest’estate, seguito da un altro avvocato, tre settimane adesso.
Non so cosa mio padre abbia detto durante il colloquio, mentre io aspettavo fuori, o se l’intervento di Cox abbia avuto qualche effetto, o se il parlare e l’aprirmi con una psicologa abbia prodotto davvero qualche risultato… ma, di sicuro, è andata meglio di quanto credessi.
Il giudice chiude il caso e ci dà il permesso di uscire dall’aula.
Passando accanto al tavolo dell’accusa, saluto con un cenno l’uomo, Newport, e mi accingo a raggiungere Cox.
Non lo faccio parlare, lo abbraccio e basta, prendendolo di sorpresa, riesce solo a darmi a disagio delle pacche di “fine abbraccio”.
Il fatto che non abbia del tutto perso la fiducia in me, come altrimenti pensavo, mi rincuora.
Lo lascio andare ed esco dall’aula, accompagnato da Alex e Sayid.
«Poteva andare peggio. Alla fin fine, tre settimane passano velocemente.» Commenta la mia persona preferita, mettendomi un braccio intorno al collo.
«Poteva andare sicuramente peggio. Sapevi che il tuo capo avrebbe parlato?» Replica Sayid, fermandosi in mezzo al corridoio.
Scuoto la testa.
«Bella sorpresa, allora!» Commenta con un sorriso.
«È un peccato che sarai dentro per l’altro processo, quello per la chiusura del rifugio.» Aggiunge pensieroso.
«Forse ti daranno il permesso di venire, se ti chiamano come testimone.» Ipotizza Alex.
Mi stringo nelle spalle.
«In realtà, preferirei non testimoniare. Combinerei più danno che altro, me lo sento.» Mormoro.
Gli adulti ci raggiungono, interrompendoci.
Winterfield si avvicina. Sul volto sembra avere ancora quell’espressione severa di prima, tuttavia, i suoi occhi sono addolciti.
Non sorride, ma nemmeno sembra sul punto di urlarmi contro, il che è un passo avanti.
Mi preparo a un discorso dei suoi che, con mio stupore, non arriva.
Invece, mi mette una mano sulla nuca e scuote la testa.
«Quel che è fatto, è fatto. Torniamo a casa, così puoi salutare i tuoi amici. Domani ti porteremo al riformatorio.» Afferma, accompagnandomi all’uscita.
Arrivato sul marciapiede, mi volto a guardare il tribunale, osservando quella struttura antica popolata di persone che entrano ed escono come formiche lavoratrici.
Questa sarà l’ultima volta che entrerò da criminale, mi riprometto.
L’ultima.
Emma si accorge del mio sguardo pensieroso, mi prende affettuosamente per le spalle.
«Un giorno alla volta, Noah. Un giorno alla volta.» Mi sussurra all’orecchio, accompagnandomi verso la macchina.
Un giorno alla volta, ha ragione.
C’è tempo per pensare al futuro, ma ho soltanto oggi per godermi la serata.
Entro in macchina, prendendo posto accanto ad Alex, e partiamo verso casa.

 

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Capitolo 19
*** Get It Right ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve, ladies and gentlmen, e ben tornati. La storia di Noah sta per concludersi, il prossimo capitolo pubblicato sarà l'epilogo. Devo ammetterlo, in confronto a Mitch, questa storia è stata un parto, fortunatamente non tanto per blocco dello scrittore, quanto per impegni lavorativi che m'impedivano di scrivere. A proposito, ricordo che il primo libro della saga Sistema Isolato, "Sistema Isolato: Mitch", è ancora disponibile sul sito ufficiale della Feltrinelli! Affrettatevi, perché rimangono poche copie disponibili online. 
Pubblicità a parte, il brano di oggi è Get it Rightdel duo indipendente Oh Honey. La canzone è stata usata nel film di Gren Wells The Road Within (Viaggio verso la libertà), con protagonisti Robert Sheehan, Dev Patel e Zoe Kravitz, la storia di tre adolescenti scappati da un istituto mentale in viaggio verso l'oceano.
Senza aggiungere altro, vi lascio alla lettura del capitolo.

 


Capitolo 19
 

«Ne conto due.» Afferma Marlene, allungando la testa per vedere meglio.
Sayid le da un colpetto con il gomito, indicando la curva della strada.
«Tre, se ne sta aggiungendo un altro.» Ci informa con tono neutro.
«Secondo voi quanti se ne presenteranno oggi?» Chiede annoiata Heather, tamburellando le dita sulle ginocchia a ritmo di una canzone che può sentire solo lei.
Audrie inizia a contare sulla punta delle dita.
«Tre giorni fa erano solo i Paget e se ne sono aggiunti…»


Una mano si poggia sulla mia spalla, risvegliandomi dal ricordo.
Le immagini dei ragazzi svaniscono a una a una, lasciandomi da solo in una stanza vuota.
«Ecco dov’eri finito. Ti stavamo cercando dappertutto.»
Sbatto velocemente le palpebre, cacciando le emozioni di quella giornata.
Avevamo scommesso su quante persone sarebbero venute a protestare. Il montepremi riempiva un quarto della scrivania, chissà chi avrebbe vinto se Winterfield non ci avesse fermati.
Se dovessi indicare uno dei primi giorni della disfatta, quello sarebbe in cima alla lista, insieme, ovviamente, al litigio fra Audrie e la vicina.
Non so nemmeno che fine abbiano fatto i coniugi Paget, è da quasi due mesi che non li vedo.
Giro lentamente il volto verso la mano, sorridendo pensieroso alla mia persona preferita.
«Stai bene?» Mi chiede Alex, un accenno di apprensione nella sua voce.
Scrollo le spalle.
«Ho passato giorni migliori.» Mormoro, chinandomi a prendere lo scatolone contenente i miei vestiti.
«Non posso darti torto.» Concorda, sistemando la spallina dello zaino.
Ha sempre avuto questo brutto vizio di indossarne solo una, la destra, costringendo il corpo in una posa non del tutto naturale per bilanciare il peso.
«Ti si storcerà la schiena a furia di continuare così. Indossa anche l’altra.»
Alex alza gli occhi al cielo ed esce dalla stanza. Non è la prima volta che rimprovero questa sua abitudine.
«Parli come mio nonno. Il riformatorio non ti ha fatto granché bene, vero? Stai diventando noioso.»
Seguo la mia persona preferita in corridoio, lanciando un ultimo sguardo alle pareti spoglie, prima di chiudere la porta.
«Ha parlato Jim Carrey.» Sbotto, arrancando in corridoio per non far cadere i capi penzolanti dallo scatolone.
«Oggi è particolarmente piacevole parlare con te, sai?» Ribatte con sarcasmo, facendomi sospirare.
«Scusa… sono nervoso. Piuttosto, tu come fai a mantenere la calma in una situazione del genere?»
Alex si stringe nelle spalle, facendo ballare lo zaino.
«E che dovrei fare? Disperarmi? Ormai la decisione è stata presa, non si può tornare indietro.» Sostiene con amarezza, scendendo le scale.
«E poi, io sono molto più simpatico di te.» Aggiungo, urlando verso la sua direzione.
«Ti piacerebbe.» Risponde la sua voce.
Corro al piano di sotto, ricongiungendomi con il resto del gruppo.
«Perché non chiediamo il parere di un esterno, allora? Sayid…», chiamo il ragazzo, impegnato in una conversazione con Trevor, precedentemente chiamato Shane, conosciuto una volta come Marlene.
«Chi è più simpatico, io o Alex?» Gli domando, posando lo scatolone sull’ultimo gradino.
Il ragazzo guarda me e la mia persona preferita.
«Noah.»
Sorrido trionfale, indicandolo con la mano.
«Vedi? Si è espressa la voce della verità.»
Alex sbuffa, alzando nuovamente gli occhi al cielo.
«Ma che voce della verità, ha scelto te solo perché è il tuo ragazzo.»
Alzo una mano per fermare le sue proteste.
«Questo è un dettaglio completamente ininfluente. Giusto?»
Mi giro verso Sayid, trovandolo tentennante.
«Non rispondere.» Sussurro, scherzando.
«Il tuo ragazzo? E questo quand’è successo?» Domanda indiscreta Audrie, lasciando saettare lo sguardo fra me e Sayid.
«Sei seria? Non parlo d’altro da, tipo… due settimane? Almeno mi segui sui social? Insomma, donna, informati.» Si lamenta il ragazzo, alzando drammaticamente gli occhi al cielo.
«Avete preso tutto?» Ci interrompe Winterfield, uscendo dalla cucina insieme a Emma.
La donna guarda per terra, non ha la forza di star dritta. Mestamente, si scusa ed esce dalla casa. Passandomi accanto, noto che si scansa per non toccarmi.
La situazione dev’essere peggio di quello che pensi… e, onestamente, non le do alcun torto.
«Noah, puoi aiutarmi a posare questi scatoloni in macchina?» Mi chiede quello che è stato il mio tutore, indicando due contenitori di cartone.
Annuisco, obbedendo in silenzio alla sua richiesta.
Sul vialetto, sento già gli sguardi dei vicini addosso.
Li sento giudicarmi, analizzarmi, spogliarmi dalla testa ai piedi. Si rivolgono con superiorità, come se stessero assistendo al risultato di una disinfestazione andata a buon fine.
Molti non sono rivolti esclusivamente a me.
Con certi occhi freddi, paradossalmente, l’inverno dello Utah m’infonde un tepore piacevole.
Poso lo scatolone nel portabagagli dell’auto di Winterfield.
«Mi dispiace.» Sussurro, mentre l’uomo chiude il portellone.
Josh si appoggia un attimo alla macchina, sospirando sonoramente. Chiude gli occhi, scuote la testa, e si gira verso di me sorridendo.
«Non hai di che scusarti. Non è stata colpa tua», risponde.
Le sue parole sono accompagnate da uno sguardo ambiguo rivolto ai dintorni.
Chino il capo, poggiandomi alla macchina e incrociando le braccia.
«Sì, invece. Se non avessi…»
«Non sarebbe cambiato niente», m’interrompe Emma, posando uno scatolone sul sedile posteriore.
Alzo gli occhi, scrutandola.
Non sembra arrabbiata, nemmeno delusa.
È solo… avvilita. Il che, di certo, non è meglio.
«Come fai a esserne sicura?» domando scettico.
Alza le spalle.
«Lo so e basta. Me lo sentivo.»
«Sono abbastanza sicuro che un reato in meno riguardante un minore a vostro carico avrebbe fatto la differenza…», commento, non accorgendomi di Winterfield che mi segnala di smettere di parlare.
Emma chiude gli occhi con aria sofferta e si massaggia la fronte.
«Cosa vuoi che ti dica, Noah? Che hai ragione? Che non avresti dovuto aggredire quell’uomo? Che avremmo avuto più possibilità di vincere la causa se tu ti fossi trattenuto?» Sbotta, lasciandomi senza parole.
Non l’ho mai vista così… sconfitta. Solo una volta ha alzato la voce con uno di noi ragazzi, ma era accompagnata da preoccupazione. Questo che sento, invece, è un sentimento totalmente diverso.
«Sarebbe facile prendersela con te per com’è andata a finire, facilissimo, te lo assicuro. Scaricarti tutta la colpa e non rivolgerti più la parola. Ma non è colpa tua, e io non riuscirei mai a odiarti.» Prosegue, avvicinandosi a me.
«In parte lo è.» Mormoro, abbassando nuovamente lo sguardo.
Emma mi alza il mento con un dito, finché non mi obbliga a guardarla negli occhi.
«Ha importanza? Ormai è fatta: tu hai pagato per i tuoi errori, noi seguiamo le direttive della corte. Non possiamo tornare indietro e cambiare il passato, dobbiamo solo andare avanti. Abbiamo altro a cui pensare, Alex è ancora sotto la nostra custodia, tu ti stai trasferendo e non ci vedremo più così spesso. A che serve portare rancore?» Bisbiglia dolcemente, con un sorriso negli occhi.
Questa donna è un enigma: prima sembrava adirata, fuori di sé, non riusciva a guardarmi… e adesso cerca di rallegrarmi.
Non la capirò mai.
Eppure, credo sia una delle sue qualità migliori, questa sua ambiguità.
Dal mio vantaggio di qualche pollice in altezza, di cui uno acquisito solo durante la mia ultima detenzione, la tiro in un abbraccio.
La donna ricambia affettuosamente, anche se non stringe come al solito.
«Tranquillo, Noah. Un giorno si sistemerà tutto, sii paziente.» Mi sussurra all’orecchio, sciogliendo l’abbraccio.
Mi poggia una mano sulla guancia. Inclino la testa cercando quel contatto, prendendole delicatamente il polso nella mia mano in segno di ringraziamento e la guardo negli occhi.
Lei, la donna che ha rappresentato l’unica figura materna in questi mesi, di cui sentivo una disperata mancanza. Lei, che ha cercato di consolarmi nei momenti di maggior nervosismo.
«Noah?»
Lei, che mi chiama come se fossi davvero suo figlio.
«Noah?»
Lei, la cui voce si fa adesso stranamente profonda, mascolina.
Una voce che sembra più quella del suo consorte, che appartenere alla sua persona. Eppure, sono le sue labbra che si muovono.
«Noah?»
Lei, la cui immagine ora svanisce lentamente, lasciandomi a contemplare una strada residenziale, abitata da occhi giudicanti e spietati mormorii di vittoria.
E un paio di dita che mi schioccano davanti al naso.
«Sei ancora con noi?» Domanda Winterfield, riportandomi alla realtà.
Sbatto velocemente le palpebre, prendendo coscienza di cosa stia realmente succedendo.
«Sì, io…» Balbetto, cercando Emma con gli occhi.
La donna si è allontanata dalla macchina, sta rientrando in casa. Osservo le sue spalle scomparire dietro la porta, che chiude con un botto.
Il rumore mi fa sobbalzare appena.
Josh se ne accorge, mi posa una mano sulla spalla.
«Tranquillo, Noah, le passerà. Un giorno si sistemerà tutto, sii…»
«…paziente. Già.» Concludo amaro, tornando a guardare a terra.
Sorride malinconicamente.
«Sei un bravo ragazzo, sai? Non darti più colpa di quanto ne abbia veramente, sii più gentile con te stesso.» Mi consiglia, allontanandosi dalla macchina e imboccando il vialetto di casa.
«Vieni?» Mi chiama, non vedendomi accanto a lui.
Con un respiro profondo, mi separo dalla macchina e lo seguo.

«Largo!», mi avverte Trevor, la faccia censurata da uno scatolone.
La sua voce si è abbassata un poco, da quando ha iniziato a prendere il testosterone, ma non è diventato un baritono da una notte all’altra. Sarà una transizione graduale, mi ha istruito il ragazzo, durante una delle sue visite al riformatorio.
I cambiamenti già si vedono, in ogni caso, e non solo quelli fisici, come quel baffetto da preadolescente che sfoggia senza alcun pudore sopra il labbro.
Davvero, vedendolo non sembra proprio la persona che ho conosciuto quando sono arrivato al rifugio. Da quella ragazza introversa che mi hanno presentato durante la mia prima cena in questo nuovo posto sconosciuto, è rinato quel ragazzo sicuro di sé che adesso mi trovo davanti a fissarmi impaziente, nell’attesa che mi tolga di mezzo ai piedi per farlo passare.
«Noah, ti sei bloccato? Guarda che la scatola pesa, muoviti», mi richiama alla realtà, spingendomi di lato con un fianco.
In silenzio, lo guardo uscire dalla porta.
Non so nemmeno se si sia riappacificato con Audrie… ho quasi paura a chiederlo, potrei toccare un nervo scoperto.
Sono un maestro nel dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato, sarebbe meglio chiederlo a un esterno.
O farmi gli affari miei.
E forse opterò per quest’ultima scelta.
«Noah, tutto bene?», mi domanda una voce femminile, accompagnata da una mano poggiata delicatamente sulla mia spalla.
Parli del diavolo…
Annuisco ad Audrie, ancora perso nei miei pensieri.
Il trasloco, l'abbandono della casa, il senso di colpa… oggi non è la giornata giusta per prendere decisioni.
«Sì, va tutto bene. Sono solo sovrappensiero» spiego, voltandomi verso la ragazza.
Lei mi sorride dolcemente, guardandomi negli occhi.
«Non so che dire in queste situazioni, è lo stesso se ti abbraccio?»
«Anche meglio, onestamente.» Rispondo, tirandola fra le mie braccia.
Lei dolcemente ricambia.
«Non ci siamo capiti, stringi più forte.» La esorto.
Gli abbracci così molli mi danno fastidio quando sono in questo stato d'animo.
Lei mi accontenta, costringendomi in una morsa che potrebbe infastidire la maggior parte delle persone, ma è perfetta in questo caso.
Ecco ciò che mi servirebbe per calmarmi, quando entro nel vortice: un abbraccio serrato.
Poggio la guancia sulla sua spalla, rilassando un po' la schiena.
«Grazie», biascico, le labbra spinte in una posizione innaturale dalla sua spalla.
«Nessun problema» risponde, passandomi ritmicamente una mano sulla schiena, con quel movimento così familiare che mio padre usa fare in queste circostanze. Che gliel'abbia consigliato lui?
Il solo pensiero mi fa sorridere.
Ed è così che ricordo quanto Audrie si trovi a disagio in certe situazioni. L'ho vista altre volte scappare alla vista di tristezza e rifugiarsi nel bagno più vicino.
Solo con Marlene… intendo, Trevor, non si tirava indietro.
Chissà perché ha deciso di confortarmi.
“Perché siete amici”, mi sussurra una vocina dentro di me.
È vero, perché siamo amici.
Io sono suo amico.
Certo, sono quell'amico che ha contribuito a farle perdere la casa, un pessimo amico sotto questo punto di vista.
Ma lei si è messa a litigare con i vicini... Eppure, ha solo reagito a intimidazioni, proprio come me.
Lei è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, io il colpo che lo ha fatto cadere e rompere in mille pezzi.
Anche Audrie, come me, starà provando un profondo senso di colpa.
Anche Audrie, come me, avrà vissuto queste settimane come una tortura.
La abbraccio più forte, massaggiandole la schiena a sua imitazione.
Questo gesto di conforto serve tanto a me quanto a lei.
«Lo sai che non è colpa tua, vero?» le sussurro, senza spostare la testa di un centimetro.
«Nemmeno tua.» Ribatte, poggiando il mento sui miei capelli.
«Non è colpa di nessuno di voi due.» Commenta Alex, interrompendo il momento di tenerezza creatosi tra due auto-riconosciutisi colpevoli.
Sciogliamo l'abbraccio in sincrono, girandoci verso la mia persona preferita.
«Ve lo ripetiamo da settimane e ancora non vi è entrato in testa. Credeteci. Adesso, qualcuno mi può aiutare a portare gli scatoloni? Manca solo questo» dice, alzando lo scatolone che porta fra le mani, mostrandomelo, «e uno simile in cucina», conclude, accennando con la testa nella direzione indicata.
«Vado io, ancora non ho portato nulla.» Si propone la ragazza, avviandosi verso la cucina senza aspettare una mia lamentela.
Lamentela che non avrei alzato, visto che è da una mattinata che faccio avanti e indietro con scatole, scatoline e scatoloni.
“Sii gentiluomo, non far andare una donna“, potrebbe pensare qualcuno.
Si dia il caso che quella donna in particolare riesce perfettamente a prendermi in braccio, non si farà di certo problemi per una scatola di stoviglie.
Che pensiero maschilista, precludere a una donna la possibilità di partecipare a un’attività fisica come il sollevamento pesi.
…Va bene, sono stanco, lo ammetto. Mi voglio riposare, me lo merito.
E quindi Alex, con al seguito la ragazza, porta gli ultimi contenitori in macchina.
Io, dal mio canto, entro nel soggiorno, il pavimento ancora di un colore diverso laddove si trovavano i mobili in legno, il tavolino, i divani, le poltrone e i vari cuscini messi a terra, a creare sedute per una quindicina di ragazzi.
La moquette è macchiata permanentemente proprio accanto a uno di questi segni, proprio in quel punto dove Heather aveva fatto cadere del succo a causa di una risata troppo animata, durante una di quelle serate cinematografiche a cui Emma tiene tanto.
E lì, sopra quella chiazza enorme che segna la posizione di uno dei due divani, mi sono seduto alla prima “riunione di famiglia”, come le definiva Sayid, a cui ho preso parte.
Quando il mio attuale ragazzo era stato accusato da Audrie del furto del suo diario.
A proposito del diario, ho smesso di scrivervi quasi subito, più o meno quando le mie giornate si sono fatte così nevrotiche da non lasciarmi la forza di esprimermi. È buttato da qualche parte negli scatoloni dentro la macchina di mio padre, dovrei riprenderlo una volta arrivato a casa.
Casa…
Mi siedo al centro della stanza, accarezzando la vissuta moquette. Ritiro subito la mano, velatamente disgustato dalla sensazione di polvere sulla pelle.
Tiro le gambe al petto, abbracciandole, e poggio il mento sulle ginocchia.
Dopo anni, sto tornando in quella che ho definito casa per la maggior parte della mia vita. Sto tornando come una persona diversa, estranea a quelle mura.
Cosa dirò a mia madre? Come le racconterò quello che mi è successo dopo che mi ha cacciato di casa?
Come si fa a riconciliare un rapporto dopo una frattura del genere?
Di sicuro non potremo tornare come prima, ma spero almeno che, questa volta, mi accetti.
No, non potrei raccontarle quello che ho vissuto, il senso di colpa sarebbe insopportabile. La vergogna mi ucciderebbe.
Nessuno dei due riuscirebbe a guardare l'altro nella stessa maniera.
No, è meglio di no, è meglio tenerla all'oscuro di tutto. Nemmeno papà sa nei dettagli cos'ho passato.
La psicologa sì, a lei ho dovuto dire tutto, ma le ho chiesto di mantenere il silenzio.
Per ora va bene così, io riesco a mettere da parte il passato, a non farci caso, a ignorarlo e andare avanti. Ci sono abituato.
Loro no.
Forse è meglio proteggerli, almeno all'inizio.
Dobbiamo ricostruire il rapporto, diventare nuovamente una famiglia. Quando avremo raggiunto di nuovo uno stato di semi-equilibrio rivelerò tutto.
O almeno quando sarò pronto.
Sempre se lo sarò.
Per ora, siamo all'inizio di un lungo cammino.
«Pronto ad andare?» Chiede Sayid, abbracciandomi da dietro, facendomi sussultare per la sorpresa.
Ero così immerso nelle mie decisioni da non sentirlo arrivare.
E lui se ne accorge.
«Ti ho spaventato?» Domanda, con una preoccupazione tinteggiata di divertimento.
Scuoto la testa.
«A che stavi pensando?»
«A casa…» rispondo in un sussurro.
«Casa, eh? Bei giorni ti aspettano, vero?» commenta sarcastico, conoscendo tutta la situazione.
«Già… non stai scomodo?» Domando, notando solo ora la sua posizione: è accovacciato sulle mezze punte, ha le ginocchia sui miei fianchi e le braccia intorno al mio collo. Poggia il suo peso metà sui piedi, metà sulla mia schiena, piegato in una posizione innaturale per l'uomo occidentale.
«No, ma quale, sono comodissimo.»
Sorrido, spostando testa e busto di lato per guardarlo in viso, causando un'alterazione nel suo baricentro.
«Sarcasmo?»
«Indovinato.» Ribatte, poggiando una mano a terra per ritrovare l’equilibrio.
«Siediti accanto a me.» Gli propongo.
«Dobbiamo andare…» Protesta, cercando di farmi resistenza.
«Solo un attimo», insisto, tirandolo giù.
Dalla posizione instabile in cui si ritrova, non ha altra scelta che assecondarmi.
«Va bene, ma solo qualche minuto, poi dobbiamo andare.» Mette in chiaro, sedendosi comodamente.
Sorrido, guardando la scoloritura della moquette.
«Ti ricordi quando Audrie ti ha accusato di averle rubato il diario?» Domando nostalgicamente.
«Quando vi siete trasferiti qui?»
Annuisco.
«Vagamente. Ricordo di averti visto per la prima volta e aver pensato…»
«”Ecco il mio prossimo ragazzo”?» Lo interrompo cercando di anticiparlo.
Scuote la testa.
«”E questo chi diavolo è? Cazzo guarda, che vuole da me?”» Finisce, trattenendo un sorriso di scherno.
«Finissimo!» Commento, ridendo.
«Poi ti ho guardato bene, e ho deciso di farci un pensierino.» Aggiunge, spingendomi leggermente con la spalla.
Alzo gli occhi al cielo.
«Parlando seriamente, sai che anche io tornerò a vivere a casa?» M’informa di punto in bianco.
Mi volto verso di lui con tutto il corpo.
«Davvero?» Chiedo incredulo.
Il ragazzo annuisce.
«Sì. Un paio di settimane fa mi ha cercato mia sorella, siamo usciti a mangiare qualcosa e abbiamo parlato di quello che era successo, della mia situazione, del rifugio. Le ho chiesto se potesse parlare con mamma e papà per convincerli a farmi tornare e, a quanto pare, ci è riuscita.» Mi racconta, lasciandomi sbalordito.
«Sei serio? È magnifico, perché non me l'hai detto subito?»
Si stringe nelle spalle.
«Volevo esserne certo.» mormora, guardando il pavimento.
«E tu non sei felice? Non mi sembri contento, non vuoi tornare a casa?» chiedo perplesso.
«Si… cioè, sono felice. Però, adesso dobbiamo affrontare ciò che è successo… sai com’è, no?»
Sospiro, conoscendo perfettamente la sensazione.
«Eh… hai ragione.»
Penso sia comune a chi torna a casa dopo essere stato cacciato.
Quel senso di disagio che si crea dopo una rottura così brusca.
«Invece, sai gli altri dove finiranno?» Domando, cercando di sviare l'argomento verso qualcosa che non lo impensierisca.
«Alex rimarrà con i Winterfield, essendo suoi tutori, gli altri che conosco mi pare andranno in famiglie affidatarie, ma non sono sicuro per Trevor. Forse lui andrà in un altro centro del genere, ma dovrà cambiare città, probabilmente. So che a sud ce n’è uno, ma non ricordo precisamente dove.» Spiega come meglio può.
La verità è che, purtroppo, ne sa quanto me.
I ragazzi in affidamento non sanno dove verranno piazzati finché non incontreranno la famiglia. È come una roulette: a volte vinci, e capiti in una famiglia decente, a volte non hai altrettanta fortuna.
E nel caso di ragazzi come noi, rifiutati perché differenti, buttati per strada come oggetti malfunzionanti, la nostra puntata raramente viene piazzata sulla casella giusta.
Chissà quanti verranno piazzati da altri ‘Bennet’, chissà quanti scapperanno nuovamente.
In tutta onestà, spero di non leggere i loro nomi sui necrologi, fra qualche tempo.
Ho paura che la prossima riunione di noi tutti sia a un funerale precoce.
Vorrei tanto star esagerando, vorrei tanto che questa non fosse una possibilità reale.
È per casi del genere che i Winterfield hanno aperto il rifugio. È da un caso del genere che il rifugio sta chiudendo.
L'odio insensato è un'arma potente, quando rivolto verso una minoranza.
Tutti piangono per un ragazzo di alta classe morto per una stupida sfida, lanciata da un membro della confraternita durante una serata particolarmente animata.
Nessuno piange per un ragazzo ucciso perché diverso, secondo i canoni della maggioranza.
Sono entrambe tragedie, perché non si dovrebbe spendere una lacrima per entrambi?
Non lo capisco.
Quando ci si trova in queste situazioni, si deve fare fronte comune. Nessun estraneo ci aiuterà. Se non lo facciamo noi, chi?
Siamo costretti a essere colpiti personalmente per ritenere qualcosa come importante.
Siamo costretti a essere colpiti personalmente per trattare gli altri come esseri umani.
E scatta la mentalità “noi contro loro”, che divide ancora di più la società in una miriade di piccoli gruppi, finché il mondo non sembra un quadro puntinista.
Un insieme di macchie di colore che formano un’immagine più grande.
Ma nel caso della società contemporanea, il quadro sembra essere stato dipinto da un pittore schizofrenico durante un momento di mania.
Non riusciamo a vedere la figura che dovrebbe essere rappresentata, ci concentriamo sulle singole pennellate perché è più facile, più immediato, e dimentichiamo di essere tutti posti sulla stessa tela.
Se solo ci si fermasse e si facesse un passo indietro per osservare meglio, forse anche usare una luce diversa, o guardare il tutto da uno specchio, se si guardassero i colori in accordo con il vicino, allora la figura diventerebbe intellegibile, e il quadro non sembrerebbe più schizofrenico, ma incredibilmente vario e particolare.
Non capisco.
Non capisco davvero.
Eppure, se il mondo si concentra solo su un colore, perché dovrei fare lo stesso?
Perché dovrei dimenticare la figura, quando ho appena iniziato a intravederla?
Anche io mi concentrerò sul mio colore, e su quello vicino, e su tutti gli altri, e farò una foto al quadro per poi condividerla accompagnata dalla spiegazione.
Se gli altri non si mobilitano, cosa m'impedisce di farlo?
Se aspettiamo che qualcun altro pensi ai nostri bisogni, allora aspetteremo in eterno.
Sayid si alza in piedi.
«Quindi, sei pronto ad andare?» Mi chiede, porgendomi la mano.
La guardo un attimo, per poi prenderla, alzarmi in ginocchio e tirarlo verso di me per guardarlo da vicino, naso a naso.
«Sayid, ti posso fare una proposta folle?» Chiedo serio.
Il ragazzo guarda confuso.
«Folle quanto?»
«Così tanto da lasciarti in dubbio sulla mia capacità di intendere e di volere. Totalmente da pazzi. Incredibilmente folle, ma dannatamente soddisfacente.»
Sayid mi guarda sospettoso.
«Che hai in mente?»
Lo guardo negli occhi e ghigno.

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Capitolo 20
*** What a Catch, Donnie ***


*Angolo dell'autrice*
Buonsalve, signori e signore, e bentornati, ancora un'ultima volta, alla storia di Noah. Prima di parlare del brano di questo capitolo, sono doverosi dei ringraziamenti. Un grazie particolare a KarenHumbert per aver recensito tutti i capitoli, dal primo all'ultimo, e avermi dato dei consigli su come migliorare la storia di Noah. Ringrazio il mio ragazzo, così paziente da revisionare tutti i capitoli più volte, e che li revisionerà ancora insieme a me per dare una degna impaginazione al manoscritto, così da poterlo inviare a case editrici (perché sì, questo libro vedrà la luce, prima o poi, così come il suo fratello maggiore). Grazie a tutti coloro che mi stanno sostenendo nella promozione di "Sistema Isolato: Mitch", che hanno comprato il libro (hanno esaurito le copie online in poco più di un mese, siete fantastici!), ma soprattutto grazie a te, lettore, che sei arrivato fin qui! Spero che la storia di Noah ti abbia commosso, fatto ridere, fatto riflettere.
Il brano di oggi è What a Catch, Donniedei Fall Out Boy. Alla canzone, ultimo singolo prima della pausa quinquennale del gruppo, hanno partecipato vari artisti della Fueled By Ramen. Come i Fall Out Boy hanno messo in pausa la propria carriera con questo singolo, penso andrò anche io in pausa per qualche mese dalla mia attività di scrittura, giusto il tempo di revisionare il libro e raccogliere il materiale per la prossima storia (ho già in mente tre storyline, la prima che svilupperò diventerà il terzo libro della saga sistema isolato).

Ancora una volta, vi auguro una buona lettura.
Grazie mille e alla prossima.

 
Epilogo


«Mi sta venendo da vomitare», bisbiglio, guardando gli spettatori prendere posto. Entrano a flotte, inondano la platea dal fondo, dai lati, dal fronte. Sembrano provenire dappertutto, materializzarsi sul posto quasi fossero dei gonfiabili montati sulle sedie apposta per far venire l'ansia ai poveri ospiti che sbirciato da dietro il muro delle quinte, in attesa di salire sul palco e tenere quel discorso che hanno provate mille e mille volte ancora davanti lo specchio.
Sayid mi abbraccia da dietro, come suo solito quando mi vede scivolare nella spirale.
«Tranquillo, non è la prima volta che parli davanti a un pubblico del genere. Ce la farai.» Mi rincuora, facendomi dondolare lentamente per calmarmi.
Destra. Sinistra. Destra. Sinistra. Destra. Sinistra.
Come la lancetta di un metronomo forzato.
«Dimenticherò tutto, me lo sento. Con cosa cominciavo a casa?»
Sayid scioglie l’abbraccio giusto il tempo di voltarmi e prendermi per le spalle.
«Salve a tutti…», mi suggerisce, guardandomi negli occhi.
«Salve a tutti? No, è troppo banale. Non va bene.» Commento, passandomi un mano fra i capelli.
Ripercorro mentalmente il discorso, trovando difetti in ogni frase, parola e intonazione a me ormai familiare.
Anche le pause sono sbagliate.
Mi sento un peso sul petto.
Perché mi sento un peso sul petto?
Respiro a fatica.
«Non va bene. Non va bene niente, è orribile. Devo cambiare l'intero discorso. Li annoierò. Non mi ascolterà nessuno. Si metteranno a parlare… rideranno di me, m'insulteranno!»
Il mio respiro si fa sempre più veloce, sempre affannato.
Mi manca l'aria.
«Mi gira la testa… Forse dovremmo annullare. Sì, non sto per niente bene, annulla tutto.»
«Ehi, Noah… no, no, sssh…», mi sussurra il mio compagno, prendendomi delicatamente il viso fra le mani.
«Va tutto bene. Guardami, respira con me.» M'istruisce dolcemente, portando la mia mano sul suo cuore, così che possa sentire i suoi battiti e l’alzarsi ritmico del suo petto.
«Andrà tutto bene, rimani con me, ok?»
Lo guardo negli occhi, coordinando il mio respiro al suo.
Conto i secondi: inspiro per sette, trattengo per cinque, espiro per otto.
E sette di nuovo, cinque di nuovo, otto di nuovo.
Ancora, ancora e ancora una volta, finché la stanza non smette di girare.
«Meglio?» Mi domanda, accarezzandomi una guancia.
Annuisco, incapace di parlare.
«Bravissimo, così ti voglio.» Sussurra, avvicinandomi la testa alle sue labbra.
Lo abbraccio, in cerca di un altro momento di conforto. Per mia tristezza, non dura che qualche secondo.
Una voce parla dalle casse, chiede a tutti di mettere il cellulare in silenzioso e avvisa che l'intervento verrà ripreso per essere pubblicato sul loro canale YouTube.
Io sono il primo a parlare.
Mi volto velocemente verso il palco, per poi rivolgere a Sayid un’ultima disperata ricerca d'aiuto.
Il ragazzo mi mette le mani sulla nuca e forza la mia fronte contro la sua.
«Oh, Noah, mi raccomando: merda.» Soffia, preso dall’adrenalina che precede sempre un evento del genere.
Emozione piacevole che sente solo lui, sicuramente io la descriverei con tutt'altri termini.
«Non è uno spettacolo teatrale.» Lo contraddico.
«Non c’è molta differenza. Merda comunque!» Mi augura, prima di baciarmi e spingermi verso il palco, ancora in preda al panico.
Le luci della ribalta mi accecano per un momento.
Socchiudo gli occhi per cercare di vedere il pubblico, riuscendo lentamente a dare un volto all'ombra che mi ritrovo davanti.
Mi accorgo di essere su questo palco a fissare il pubblico da ormai una ventina di secondi. Non è proprio un buon inizio, vero?
Quindi, saluto con la mano.
«Bu… buonasera a tutti e benvenuti!»
Mi giro verso Sayid, il quale mi fa segno con la mano di continuare.
«È… scusate.» Tossico un attimo, spostando lo sguardo a terra.
«È… È un grandissimo piacere avervi qui presenti a sentirmi, ehm… sentirmi blaterare a proposito della nostra f… folle impresa. Mi chiamo Noah Smith, e fino a qualche anno fa ero sicuro di non riuscire a trovare una casa, né di essere considerato come un essere umano, a dire il vero. Di non essere in grado di fare nulla di buono e di avere un futuro nel carcere.
E nemmeno parlare davanti a un pubblico.
Ma andiamo per ordine.»
Mi fermo un momento a riordinare i pensieri, cercando di rimanere quanto più attinente alla struttura del discorso che Sayid mi ha aiutato a preparare.
«Provengo da una cittadina dello Utah, a qualche miglio da Salt Lake City. Si tratta di uno di quei posti dove tutti conoscono tutti sin dall'asilo, dove nessuno chiude la porta a chiave la sera, dove chiunque conosce il nome di chi devia dalla norma e li ostracizza. Quel qualcuno sarei io, salve di nuovo», scherzo, indicandomi.
«Eppure, nel mio caso, nessuno lo sapeva. Nessuno era a conoscenza della mia… “diversità”, perché i miei genitori si sono assicurati che la notizia non uscisse dalle mura di casa. Fatto sta che, raggiunti i quattordici anni, ho scoperto di essere omosessuale. Io… un ragazzo mezzo venezuelano che vive nella patria del mormonismo. L’ideale, vero?
La mia famiglia non ha accettato molto bene la notizia, hanno deciso che fosse più consono cacciarmi di casa e mentire sulla mia scomparsa,  dicendo a tutti di avermi mandato in un collegio in un altro Stato, sono venuto a scoprire da voci durante il mio vagabondaggio. Dopo quella notte di ormai nove anni fa, ho deciso di rinnegare il mio passato, cambiare nome e assumere un’altra identità in una città diversa. Fatto sta che le autorità locali hanno capito subito di non aver davanti un nuovo maggiorenne proveniente da un altro paese, anche perché il mio finto accento del nord mi ha tradito dopo poco e, a quattordici anni, ancora puzzavo di latte. Mi hanno piazzato in affidamento e sono finito all'inferno, dove ho conosciuto una delle persone più importanti della mia vita, la mia persona preferita, Alex.»
Sorrido un attimo nel ricordare.
«Alex era come me, differente, ma in quella casa per altri motivi. Presto abbiamo scoperto di che cosa sono capaci degli estranei quando non vengono controllati. Siamo stati torturati in quella casa, Alex ha quasi perso la vita, e alle autorità non importava. Semplicemente, avevano problemi più gravi di due deviati, senza appartenenza e figli di tossicodipendenti. No, non sto esagerando con le parole, così ci hanno definiti per quasi un anno. Alla fine, ne abbiamo avuto abbastanza e siamo scappati, riuscendo a far perdere le nostre tracce e raggiungere Salt Lake City. Lì abbiamo vissuto in strada per qualche mese, dormendo in un parco e rubando quello che ci serviva per sopravvivere. Avevo quindici anni quando sono finito per la prima volta in riformatorio, dopo essere stato scoperto a rubare in un 7-Eleven. Fortunatamente, avevano appena aperto un rifugio per giovani senzatetto appartenenti alla comunità LGBTQ. Una fortuna per noi, vero? Io, essendo omosessuale, e Alex, che si identifica come non-binary, saremmo stati accettati, giusto? E così è stato, ma dopo anni di maltrattamenti, non riuscivo a fidarmi, soprattutto perché era gestito da mormoni. Diciamo che le mie esperienze passate non erano molto felici. Eppure, ci hanno accolti immediatamente a braccia aperte, si sono preoccupati per la nostra situazione, ci hanno offerto subito una sistemazione. Mi sembrava tutto troppo…facile. Niente è facile in questa vita.»
Mi fermo un attimo, lasciando sospeso il pensiero.
«Sapete, quel rifugio è stato la prima casa sicura in cui sono entrato dopo quasi due anni. Non ci credevo. All’inizio ho fatto resistenza. Non conoscendo né il mio nome, né la mia residenza originale, e vedendo il mio impegno nel combinare guai per estendere in qualche modo la mia permanenza al riformatorio pur di non essere piazzato da solo in un’altra casa-famiglia, perché quello stavo facendo, hanno deciso di darmi in affidamento ai coniugi a cui apparteneva il rifugio: Josh ed Emma Winterfield, quei due brutti ceffi in prima fila, che ancora oggi sostengono me e gli altri nella nostra crociata, come se fossero i miei veri genitori. Mi dispiace ancora, ragazzi, ve ne ho fatte passare di cotte e di crude.
E da qui iniziano i guai, per i miei nuovi tutori. Prima che arrivassi, i rapporti con il vicinato non erano dei migliori. Dopo il mio arrivo, l'ennesimo litigio ha spinto i vicini a creare una petizione per far chiudere il rifugio. Insieme ad Alex e al mio attuale compagno, Sayid, abbiamo quindi lanciato un appello su Twitter per salvare la casa, in un breve video dove riprendevamo i manifestanti raggruppatisi nel vialetto adiacente, con tanto di cartelli e picconi, data la partecipazione della Chiesa Battista di Westboro, sempre presente in queste situazioni. Il video ha attirato l'attenzione delle emittenti locali e mi sono ritrovato improvvisamente sotto i riflettori. Il video continuava a girare su internet, il che è un bene se vuoi cercare un aiuto nel consenso popolare, ma non tanto se stai cercando di nascondere la tua vera identità e la tua attuale posizione. Già, in quel video ho pure specificato l'indirizzo di casa… un genio, vero?»
AIl pubblico ridacchia, facendomi sorridere.
Ora che ci ripenso, riesco a trovare il lato divertente della storia.
«Mio padre, il mio vero padre, si è imbattuto nel video. Ha quindi deciso di rompere la bugia e venire a Salt Lake City per cercarmi. Intanto io e altri ragazzi avevamo iniziato a lavorare per aiutare i miei due tutori con i problemi finanziari, pagare un avvocato per la causa apertasi – alla fine, avevano denunciato i Winterfield per mancata supervisione o qualcosa del genere – e, in generale, pagare quelle spese che servivano per mandare avanti un rifugio di quel genere, sovvenzionato in parte dallo Stato e gestito da volontari. Sta di fatto che l'unico lavoro disponibile era quello di commesso in un 7-Eleven»
Sento qualche mormorio, un commento incredulo. Spostò gli occhi nella direzione del suono e indicò una donna con la mano sulla bocca e la sorpresa evidente sul volto.
« Già: era lo stesso 7-Eleven in cui avevo tentato di rubare. Il direttore, che potrei tranquillamente definire un sant'uomo, perché quello è, ha deciso di darmi una seconda possibilità e mi ha assunto, con la promessa di non combinare guai. Con mio rammarico, l'ho infranta qualche settimana dopo.
La comparsa di mio padre mi ha scombussolato. No, è un eufemismo. Insieme a tutto ciò che stava succedendo, trovarmi davanti una delle due persone a cui per anni ho attribuito la causa di tutti i miei mali… mi ha sconvolto. Qualcosa si è rotto dentro di me, la mia psiche ha ceduto. Già l'ansia e lo stress mi avevano portato ad avere forti mal di testa, a svenire, ad arrabbiarmi. Dopo quella sera, ho iniziato a dimenticare. C’è stato un giorno particolare, forse quello stesso, di cui non ricordo un pezzo. L'attimo prima stavo tornando a casa da lavoro, quello dopo mi sono risvegliato rannicchiato in un parco, con le nocche insanguinate.
Credete che tutto quello che ho raccontato basti per cercare un aiuto professionale, vero? Non per me.
E la situazione è peggiorata quando mio padre ha deciso di aiutarci, essendo lui avvocato. Non volevo avere niente a che fare con lui, e me lo sono ritrovato in casa. Contate poi una minaccia da una coppia di estremisti, con tanto di esplosioni, disegni di casa in fiamme e messaggi sul muro con vernice rossa, e quindi un viaggio dalla polizia, con cui ho avuto solo contatti negativi, che ha trattato me e Josh con sufficienza, confermando i miei preconcetti… diciamo che quel giorno me ne sarei dovuto stare a casa, forse? Però a casa avevo mio padre, quindi non se ne parlava nemmeno.
Allora sono andato a lavoro con i nervi a fior di pelle. Sayid è venuto a trovarmi nel pomeriggio, a controllare come stessi, per vedere la situazione. Mi aveva fatto molto piacere, perché allora avevo un debole per lui… ma, nel sentirci flirtare scherzosamente, un cliente aveva espresso il suo dissenso, non soltanto per il nostro orientamento sessuale, faccio notare, ma anche per le nostre origini: io latine, Sayid arabe. È arrivato al punto di minacciare di denunciarli alla polizia come immigrati irregolari. Ne ho avuto abbastanza, il mio cervello si è spento, l'ho aggredito. Il direttore è intervenuto, è riuscito a immobilizzarmi prima di ferire gravemente quell'uomo e mi ha chiuso nel suo ufficio finché non è arrivata la polizia, e di questo gliene sono grato. Ripensando ai sensi di colpa che hanno seguito quell’aggressione, non immagino neanche come mi sarei potuto sentire se avessi continuato. Fortunatamente non lo dovrò scoprire.
Sono tornato in riformatorio, ma sono riuscito a riconciliarmi in qualche modo con mio padre, anche grazie a un aiuto mandato dal cielo durante una mia tentata fuga. La storia è già abbastanza lunga, non entrerò nei dettagli.
Quell'episodio non è passato inosservato alla corte. I Winterfield hanno perso la causa, hanno dovuto chiudere il rifugio e vendere la casa. I ragazzi sono rientrati nel sistema d'affidamento, e di alcuni si sono perse le tracce. Alex, invece, ha firmato insieme ai Winterfield le carte per la sua adozione ufficiale, dopo che i suoi genitori biologici hanno rinunciato alla propria potestà genitoriale.
Io sono tornato dalla mia famiglia, e ho riaperto un dialogo con mia madre. È stato un lungo e lento cammino, quello verso la riappacificazione, iniziato da una tolleranza basilare che si limitava al salutarsi a vicenda la mattina, per i primi tempi.
Ci sono voluti un paio di anni per ricreare un rapporto famigliare, ma Roma non è stata costruita in un giorno, vero?
Mi ha spiegato perché mi aveva buttato fuori di casa, aveva riconosciuto l'errore e, anche lei, ha cercato di lasciare il passato alle spalle e ricominciare.
Paradossalmente, i miei nonni mi hanno accettato subito, insieme a Sayid siamo pure andati a trovarli a Caracas, l'estate scorsa.
Oggi, per mia felicità, mamma è seduta accanto ai Winterfield, insieme a mio padre. Tutti e quattro hanno preso parte, chi direttamente, chi a puro sostegno morale, nella causa.»
Il pubblico applaude, mentre mia madre saluta tutti, con un sorriso sulle labbra.
«Dopo la chiusura del rifugio, io, Sayid, Alex e quache altro nostro amico abbiamo deciso di aiutare i ragazzi come noi, i reietti, i rifiutati dalle proprie famiglie. Una volta diventati maggiorenni, abbiamo aperto un nuovo rifugio per giovani senza fissa dimora, riservato ai ragazzi della comunità LGBTQ, supportati dalle nostre famiglie.
Quattro anni fa abbiamo creato la fondazione “Aaron Peterson” per la salvaguardia della gioventù della comunità LGBTQ, chiamata così in onore del primo luogo sicuro in cui siamo stati accolti e che oggi finanzia rifugi sparsi in tutta la nazione, contando migliaia di membri.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il vostro aiuto, di Josh, di Emma, e di papà e mamma. Ma soprattutto senza le donazioni che ogni giorno riceviamo e senza il lavoro dei nostri volontari.
Non è mai troppo tardi per cambiare rotta e imboccare la giusta via, credo di esserne la prova vivente.»
Il pubblico torna ad applaudire, e continua nonostante abbia ripreso a parlare.
«Sapete,» concludo, voltandomi a guardare Sayid e Alex, in piedi dietro le quinte, commossi per il mio intervento. Accanto a loro noto anche i Winterfield e i miei genitori, che si saranno spostati durante le battute finali.
Mi giro nuovamente verso il pubblico.
«In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.»
Sorrido orgoglioso, osservando gli sguardi davanti a me.
«Mi chiamo Noah Smith e mi hanno costretto in un sistema isolato, ma sono riuscito a sconfiggerlo insieme ad altri come me.
Grazie per aver partecipato a questa TedxTalk.
Vi auguro una buona serata.»
Con questo, saluto un ultima volta il pubblico in applauso e scendo dal palco, tornando nel dietro le quinte per essere accolto, a braccia aperte, dalla mia famiglia.

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