A Survivor

di Cress Morlet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nothing ***
Capitolo 2: *** Everything ***



Capitolo 1
*** Nothing ***


Nothing 1 Ciao a tutti. Vi rubo solo pochi secondi prima dell'inizio della storia.
Questa sarà una mini-long di due soli capitoli ed
è ambientata tra Civil War e Infinity War. Verranno quindi
riportati gli avvenimenti di Civil War per chiunque non abbia visto il
film questa storia è Allerta Spoiler e avverto anche che ci
saranno dei riferimenti ad Infinity War. La prima parte della storia
è in corsivo perchè è un flashback
ambientato subito dopo lo scontro tra le due fazioni ma nella mia
storia Visione non è riuscito ancora a scusarsi con Wanda
come nel film, questo incontro sarà il loro primo incontro
dopo la fuga di Scarlet Witch. Penso di aver detto tutto, le note
finali ci saranno solo alla fine del secondo capitolo. Spero tanto la
storia possa piacervi e che possiate amare Wanda come me,
perchè giuro che ho provato a renderla al meglio delle mie
possibilità. 
Buona lettura!


It must be something that we call love
Wherever I go I'm coming back
And time cannot knock me off my track
This resolution is final
It must be something that we call love
It's when you're craving to say her name
And my reality seems to break apart with her arrival
Forever, Alekseev

"Non ho ancora compreso per quale motivo tu sia qui.”
La voce suonò roca alle sue stesse orecchie e lo sforzo di articolare quelle poche parole le graffiò la gola secca. Il palato asciutto e la lingua pesante non la aiutavano a parlare, a sillabare tutta la sua frustrazione e il desiderio di essere lasciata sola per sempre.
Che storia triste, non poteva neanche marcire in pace e nella più completa solitudine. Non le concedevano neppure di star male senza spettatori, di crogiolarsi e arrotolarsi nella sua infelicità totale.
Niente, non meritava niente.
Sai cosa hai fatto, Wanda?
Le mani strinsero il lenzuolo del letto e il materasso, forte, forte, più forte che poté, fino a non sentire altro se non dolore alle nocche e ai palmi.
Quasi potesse arginare, in quel modo, il disastro che di lì a poco si sarebbe consumato.
Ma era una patetica illusione, la speranza di un condannato a morte, perché nulla avrebbe potuto salvarla da se stessa e dalla distruzione che lei portava insieme al suo corpo, quel vuoto insidioso che si creava intorno ai suoi piedi e inghiottiva ogni persona a cui voleva bene.
Hai ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Gocce di sudore freddo scivolarono lungo le sue tempie e giù per il collo fino a tracciare la schiena stretta in un camice bianco. Gli aghi e i tubi erano attorcigliati come dei tentacoli molesti intorno alle braccia, la infastidivano e nauseavano, le procuravano lividi violacei e altri brutti segni da dover nascondere.
"Permettimi di indovinare. Sei qui per farmi notare, con la tua fastidiosa intelligenza, che avevi ragione tu? Che sarei dovuta rimanere segregata in quella casa? Perché così, insomma, non sarei a questo punto. Su questo maledetto letto.”
Aveva sempre odiato gli ospedali.
Non poteva accadere nulla di buono in quei luoghi, non in quelle stanze con l'odore rivoltante di candeggina, in quei corridoi di un bianco innaturale.
Erano altre tombe, altre prigioni, altre bugie e false fedi a cui era inutile aggrapparsi.
Avrebbe voluto fuggire da quell'inferno sceso in terra così simile ad una tortura crudele, ad un castigo divino scelto appositamente per farla soffrire ogni maledetto secondo della sua esistenza, mai un’eccezione.
Non voleva essere lì, ovunque ma non in quella stanza, non su quel pezzo di mondo, sotto quel cielo coperto da mattoni.
"Sei qui per portarmi tu stesso nella mia futura cella?"
Accompagnarla in un ospedale prima di buttarla in una stanza sporca e claustrofobica era la dimostrazione di quanta cattiveria erano capaci di covare quei falsi potenti, quegli stronzi patetici, che credevano di reggere il mondo con le loro ossute spalle coperte da costose camice di seta.
Quanto si saranno compiaciuti, quanto si saranno congratulati con loro stessi perché, ma che bravi, erano stati in grado di mostrare un lato misericordioso e di compiere un atto caritatevole persino nei confronti di una povera criminale.
Lei era proprio una terribile ingrata, non comprendeva la loro bontà, l'onore che gentilmente le avevano concesso.
Che persona crudele era stata.
Non li aveva ringraziati, non si era prostrata a terra per la gratitudine, no.
Aveva scalciato, insultato le guardie e gli ufficiali, aveva augurato loro di morire tra le più atroci sofferenze e di bruciare all'Inferno.
E glielo aveva detto, lo aveva urlato, che se davvero volevano portarla in una clinica per curare i suoi stupidi graffi allora avrebbero dovuto trascinarla, perché lei non avrebbe collaborato mai, neanche con una pistola premuta sulla fronte.
Quindi loro cosa facevano?
Gli idioti le chiedevano di mantenere la calma e poi si stupivano di ottenere come risposta un'intera vetrata distrutta.
Avrebbero dovuto immaginarlo. Stronzi.
Lei era rabbia e ogni pezzo della sua pelle era elettricità pronta ad esplodere, anche a costo di distruggere se stessa.
"Sei qui per rimproverarmi? Per dirmi quanto sei deluso da me? Vuoi anche che ti chieda scusa per quello che ho fatto?"
Hai ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Lo so. Non c'era bisogno che me lo dicessi proprio tu, signor Stark.
Fottiti, Stark.
"Sii felice. Ora mi aspetta una nuova prigione e chissà come sarà il cibo. Ti farò sapere se hanno la paprika tra le spezie.”
Doveva essere nata con un difetto orribile all'interno del cuore e del corpo, tanto da meritare il male, il peggio, ogni crudeltà.
Lo sapeva, aveva convissuto con i mostri da quando aveva compiuto dieci anni e da allora perdere tutto era diventata la norma e sabotare ogni possibile relazione affettiva una semplice questione di sopravvivenza.
Perché tanto muoiono, muoiono tutti.
"Volevo sapere come stessi. Volevo parlarti di una cosa molto importante.”
Sai cosa hai fatto, Wanda?
Ho fatto l'unica cosa che faccio sempre bene. Distruggere.

 
Ebbe una improvvisa fitta alla testa e fu costretta ad appoggiare il collo contratto sul cuscino, mordendosi le labbra con i denti a causa dell'emicrania che le stringeva la fronte in una morsa implacabile.
Si aggrappò violentemente ai bordi del materasso e volse il capo verso sinistra, proprio dove si trovava lui.
"Sto benissimo, una favola. Non lo noti? Non mi guardi più, Visione?"
Il suo volto rosso risaltava prepotentemente tra il candore soffocante delle pareti, dei muri lindi e del soffitto basso.
Era il primo colore che finalmente vedeva dopo ore e ore di isolamento forzato, dopo bianco bianco bianco.
Ed era la prima volta che parlavano da quando lei era fuggita, da quando il conflitto si era concluso e tutti avevano perso: in parte loro stessi, in parte altro e in parte qualcosa su cui era meglio tacere e che lei preferiva dimenticare.
Che senso aveva ricordare?
Perché mai parlare ancora?
Meglio continuare quella farsa, come avevano fatto con la pagliacciata a cui entrambi si erano aggrappati in quei mesi.
Meglio rimanere l’uno dinanzi all'altra, chiusi in una camera d’ospedale, a far finta di ignorare ciò che lei aveva fatto senza esitazioni.
Preferiva il niente, come sempre, a qualsiasi costo.
Hai ferito i suoi sentimenti, Wanda.
 
Visione si avvicinò ai piedi del letto e alzò una mano come per aiutarsi a parlare ma aveva uno sguardo confuso, incerto.
Abbassò distrattamente il braccio e sfiorò la sua gamba fasciata, solo per un momento, neanche un secondo.
Eppure lei lo aveva sentito.
Ed era quello il problema, un problema stupido da estirpare sul nascere, da far scomparire con uno schiocco di dita, senza sentimentalismi e dispiacere. Bastava solo sputare su tutto quello che loro erano stati, rovinare i pochi ricordi, buttare nella spazzatura qualche oggetto e pile e pile di fogli.
Qualcosa di semplice, maledettamente semplice, perché tanto loro non erano mai stati niente.
Niente di niente.
"Io ti guardo sempre, Wanda. Lo sai.”
Lo so. Cazzo, lo so ed è colpa tua. Tutta colpa tua.
Lui doveva aver fatto di tutto pur di ottenere il permesso di poter parlare con lei, la ragazzina fuorilegge rinchiusa in una stanza d'ospedale, emarginata come se si trovasse già in prigione.
Era una situazione naturale, altamente prevedibile e quasi noiosa. Nessun effetto speciale o colpo di scena improvviso per Wanda Maximoff.
Aveva imparato bene la lezione, non era una piccola ingenua desiderosa di affetti, una bambina lamentosa e piagnucolante.
Sapeva fin dall'infanzia che ogni luogo in cui lei avrebbe messo piede sarebbe sempre stato un carcere, fosse esso una stanza, un edificio, una città, una nazione.
Non esisteva la libertà per una persona senza nulla, morta dentro, con i sentimenti di carta stropicciata nell'acqua sporca.
Non si dispiaceva per questo, non gliene importava, era una cazzata come un’altra. Aveva smesso di dare valore a certe inezie da anni, aveva capito -cadavere dopo cadavere- che il resto del mondo era una zavorra di cui sbarazzarsi alla prima buona occasione, senza provare il minimo pentimento.
Niente era? Niente fosse allora, per tutta la vita e anche oltre.
Andava bene così, a lei piaceva quel niente.
Nulla poteva toccarla, ferirla, piegarla. Non esisteva potere più grande.
 
"Volevo metterti al corrente di un fatto importante e credo sia giusto che tu lo sappia. Non so in realtà come definirlo ma... proverò ad aggiornare il mio vocabolario per potermi spiegare meglio.”
Lei aprì il palmo della mano destra e vide i segni di mezzelune storte che aveva lasciato con le sue unghie. Le scappò una smorfia di scherno e allora anche Visione li notò, quei cerchietti profondi e netti, e serrò le palpebre come se lei avesse lasciato quegli sfregi sul suo volto.
Come se provasse dolore e dispiacere.
Come se soffrisse alla vista di quei miseri graffi.
Come se gli importasse.
Devi... smetterla subito. Non siamo niente. Niente di niente.
Lui non poteva cambiare ogni cosa, non doveva neanche permettersi di pensarlo, perché non aveva alcun diritto di gettarla di nuovo tra le rogne dell'esistenza.
Ma chi si credeva di essere? Eh?
Le sue emozioni erano morte e sepolte dalla neve sporca di sangue.
Nessuno, nessuno mai, doveva provare a cambiare nulla.
"Parlami allora. Ma facciamo presto perché, certamente saprai, ho talmente tante visite questo pomeriggio. Ho tutta l'agenda occupata.”
Le nocche dell'altra mano erano ormai bianche e le dita le formicolavano fino a tremare. L'ago nel polso si era mosso troppo, un po' più a fondo e poi fuori, di lato e dentro, dall'altro lato e fuori.
Sicuramente le sarebbe rimasta una chiazza rossastra scura per settimane.
Meglio, meglio così, molto meglio così.
Il dolore lo conosceva, lo conosceva benissimo, e sapeva conviverci grazie alla vita che glielo aveva riservato come ordinaria amministrazione insieme a un senso di inadeguatezza misto a bile acida.
Era un caro amico il dolore. Carissimo.
"Il tempo scorre, Visione.”
Non guardarmi in quel modo. Non... farlo.
"Oggi è successa una cosa" le disse, a voce bassa, e con il capo chino verso il basso. Scorse quello che stava facendo con la sua mano sinistra, il modo in cui la stava torturando, e gliela afferrò di scatto, costringendola ad aprire le dita chiuse a pugno, intente quasi a scavare nella loro stessa pelle.
"Oggi è successa una cosa", ripeté, e le tolse delicatamente l'ago, accarezzandole il punto martoriato.
"Stai perdendo colpi, lo sai? Sono capitate tantissime cose oggi. Non certo una sola."
Sono morti i Vendicatori. Perché tutti muoiono, tutti.
Visione guardò il suo viso e a lei sembrò che lui avesse imparato tanti tratti umani e li avesse assimilati senza saperlo. Come il deglutire, impercettibilmente, e l'avvicinarsi piano, quasi fosse vicino ad una bestia feroce e pericolosa, con una spina tra le zanne.
"Sei arrabbiata."
Fece un altro passo e le aggiustò i capelli sudati dietro l'orecchio, con un tocco impalpabile e delicato.
Lei aveva imparato, lei sapeva, il modo in cui lui la toccava: la sfiorava sempre in maniera dolce, neanche fosse fatta di fragile vetro.
Doveva fargli davvero pena.
"No. Sono molto più che arrabbiata."
Ma se lei era vetro allora era una di quelle lastre sporche con angoli taglienti. Un piccolo pezzo di cristallo che non si doveva toccare se non si desiderava avere le mani intrise di liquido nero.
Nessuno poteva rimanerle accanto.
"Non puoi immaginare la mia rabbia, Visione."
 
Si scostò dalla sua carezza e lui sbatté le ciglia, rendendosi conto di aver indugiato troppo con le dita nell'angolo tra l'orecchio e il collo.
Trattenne solo la sua mano.
"È naturale. Hai avuto paura."
Toccò i tratti del suo nuovo livido e lì appoggio la sua fronte, in uno scontro tra della pelle rovinata e una gemma calda.
I suoi gesti, dall’inizio, avevano avuto il potere di far diventare il dolore qualcosa di più sopportabile, granelli di zucchero in un bicchiere di acqua amara.
"Io non ho mai paura", sussurrò, a denti stretti.
Era un disastro di cicatrici aperte da un soffio di vento, di cellule pazze che si ribellavano e suicidavano. C'era il buio anche dentro le sue ossa.
Di cosa mai doveva avere paura?
Lei era più spaventosa.
"La paura è una sensazione di forte preoccupazione. Provoca angoscia e può avvertirsi in presenza-"
"Stai leggendo una definizione da un dizionario davvero scadente, lasciatelo dire."
Visione non si scompose, rimase immobile a stringerle le dita, a premere i palmi contro il dorso della sua mano ferita, sulla fronte sempre più calda. Espirò lentamente e il suo respiro le solleticò la pelle del polso, provocandole altro che serpeggiò lungo tutto il suo braccio, in una specie di scarica elettrica.
Fermati.
"È una sensazione... che si avverte in presenza di pericoli reali o immaginari. In questo caso era reale, ci sono le prove tecniche. Avevi paura di una nuova catastrofe, prevedibile da uno stato di divisione conflittuale all'interno di un gruppo instabile. Le catastrofi spaventano perché sono disastri di particolare gravità, difficili da arginare e fuori dal nostro controllo."
Seguì con i polpastrelli le vene del suo avambraccio e si fermò al gomito, accarezzandole la pelle morbida e tenera.
Le dita scivolarono via e deglutì ancora, piano, pianissimo.
Lei si accorse del tremore dei suoi pollici solo quando lui smise di toccarla e provò la sensazione di un pugno forte tra lo stomaco e la pancia nel momento esatto in cui Visione cercò i suoi occhi e ricominciò a parlare.
"Ed è accaduto che io ho avuto paura e mi sono distratto. Io non sono programmato per distrarmi, non potrei farlo."
Fermati.
"Wanda, riuscivo solo a pensare a te."
Fermati, cazzo. Ti ho detto di fermarti.
"Non preoccuparti, faccio questo effetto a tutti. Passerà. Passa sempre."
Non...
Mancava aria ai suoi polmoni, ossigeno nella stanza, un sostegno al suo corpo. Nascose entrambe le mani sotto il lenzuolo, chiuse le palpebre, si abbracciò la pancia come a difendersi da calci, schiaffi, altri calci. Aveva una improvvisa voglia di urlare e strappare le garze, gridare e ferire qualcuno, anche se stessa.
Bastava non sentirlo più parlare.
Per favore, per favore, non lo dire. Non farmi questo.
"Non può passare", le mormorò, a disagio.
"Ti ho scaraventato metri e metri sotto terra. È normale, avrai avuto un desiderio di vendetta.”
"Io mi sono innamorato di te."
 
No.
Ci fu uno strappo.
Al livello del petto sentì uno strappo che rimbombò nella sua testa, le scosse le spalle e rovinò sulle sue labbra aperte.
No.
Una lacerazione profonda sotto le sue costole, qualcosa di reciso con delle cesoie imbrattate di terra. Con le mani strinse forte lo stomaco, la pancia, il petto e aprendo gli occhi vide il suo camice, macchiato dal sangue gocciolante delle ferite non rimarginate, di quei graffi che aveva definito stupidi.
Visione la bloccò, lui che ora si spaventava per qualche innocua goccia di sangue.
Si fottessero le garze che dovevano essere cambiate e il casino che aveva combinato con i suoi palmi, andasse tutto a schifo.
“Wanda, fermati.”
Lei non poteva provare quel genere di dolore, non era possibile, non dopo la morte di Pietro.
Vide tante macchioline bianche dinanzi a sé e così si rese conto che aveva di nuovo chiuso gli occhi e che stava serrando le palpebre con troppa forza.
Quello non era dolore, doveva essere qualcosa altro.
Forse aveva confuso il rumore dello strappo con lo stridente suono di un oggetto rotto, caduto per terra e sparso in mille irriconoscibili pezzi.
C’era un errore, uno sbaglio, era tutto falso, doveva essere qualcosa nella sua testa.
Non era reale.
Se avesse aperto gli occhi lui non sarebbe stato lì e forse neanche lei, forse aprendo gli occhi non ci sarebbe stato nessuno.
Loro erano niente, niente, niente e ancora niente.
Ma andava bene così, a lei piaceva il niente, a lei piaceva tanto.
È tutta una bugia, vero? Mi sveglierò in questa stanza e mi ritroverò di nuovo sola e senza nulla da affrontare, nulla da distruggere. Tutta una bugia, un’innocente bugia. Vero?
Sbatté diverse volte le palpebre e lui, prima sfocato e poi sempre più vivido, le comparve dinanzi, con il volto preoccupato e le dita sulle sue braccia.
“Stai meglio? Vuoi che chiami un dottore?”
Tutti muoiono.
"E quando ti saresti innamorato di me?", gli chiese, con un astio a stento trattenuto.
Lui era lì e lei si sentiva soffocare, in trappola e tradita.
Era la realtà dei fatti, come vero era quella strana cosa che le graffiava i polmoni e le scorticava il cuore.
Coriandoli di ingranaggi e ferri vecchi, tutto ciò che le era rimasto.
 
Visione sembrò perdersi ad osservare un punto imprecisato della federa del suo cuscino, aveva un’espressione corrucciata e tratteneva il respiro mentre le sue labbra erano tese in una linea sottile.
Rifletteva, pensava, e intanto le aggiustava una manica della veste bianca, scesa a scoprirle la spalla sinistra.
Il suo stomaco si attorcigliò su se stesso e lei provò una rabbia tale da sentire a distanza il suo potere crepitare pericolosamente. Rabbia, le serviva solo quella e ne aveva tanta, per una vita intera.
Cercò il suo sguardo e lo sfidò senza tremare, imponendosi di fermare qualsiasi cosa fosse quella sensazione che premeva sul suo sterno.
"Ti ho vista e mi sono innamorato", le rispose, con una voce meno ferma.
Sospirò e provò a prenderle una mano che lei allontanò, veloce.
"Vorresti dire che ti sei innamorato di me, così? Amore a prima vista? Nel bel mezzo di una guerra? No. Questo non è amore."
Non doveva essere amore.
"Non... non mi sono spiegato bene. Ti ho amato appena ti ho vista davvero. Non so quando è successo, non so dirtelo, perché nessun mio programma riesce a rispondere. Mi prospetta solo fotogrammi."
Sorrise lentamente e per lei fu la fine.
Aveva la tentazione di premere forte le mani sulle orecchie, di spegnersi, di annullarsi, di fare ogni cosa folle pur di non ascoltarlo più.
Mi stai facendo male.
"Tutti i momenti, come pezzi di puzzle di te. Ogni tuo più piccolo sorriso, ogni tua lacrima. Io... ti sento.”
Visione abbassò il tono della voce e senza accorgersene iniziò a tormentare il lenzuolo, stringendo un lembo e poi lasciandolo come se scottasse. Guardò le pieghe e le aggiustò in maniera distratta, con un groppo in gola che lei sentiva scorrere nelle sue gambe.
“Io quando sono con te... mi sento", le disse piano, sottile.
Le parlava nello stesso modo in cui la sfiorava. Con una sensibilità che, ora come non mai, odiava.
Che senso aveva dirle ciò? Esisteva un motivo per cui riversarle tutte quelle belle parole e grandi frasi, gettarsi a fare poetiche considerazioni? Perché aveva voluto rovinare ogni cosa?
Lo aveva fatto lui, era sua la colpa.
Andava bene prima, andava bene il niente, andavano bene il silenzio e le omissioni di ogni secondo.
Era stato perfetto ignorare la verità e credere fermamente che nulla di tutto quello esistesse.
Era stato il suo ultimo desiderio dopo una vita di schiaffi tra i denti.
Violenza dopo violenza, morte dopo morte.
Aveva solo sperato di vivere in quel loro strano limbo per l’eternità, perché le cose non potevano essere dette ad alta voce, non dovevano esserci etichette.
Se dici ad alta voce che ami qualcosa quella cosa allora ti verrà strappata via.
Non avrebbe potuto mai rendere reale lo strano sentimento di male e piacere che provava solo quando erano insieme, solo quando erano loro due.
Non aveva senso, non ci si doveva mai affezionare, si rimaneva solo fottuti.
Lui aveva rovinato tutto.
E allora? E allora che si distruggesse ciò che era rimasto, morisse anche il niente, si sporcasse ogni cosa bella e ridiventasse il mondo nero, la stanza vuota, lei sola.
Sola, sola, senza più alcun modo di essere ferita.
Tanto... tanto muoiono tutti. Uno dopo l’altro.
 
“Non è amore. Non lo è.”
Sentì un dolore al petto e lo ignorò, provando una fitta alla bocca dello stomaco che gli strinse la mandibola.
Percepì chiaramente un nodo in gola e respirò con le labbra schiuse, per grattare via la sensazione di star soffocando.
Gli indicò la porta e lui non si mosse di un passo.
Muoiono tutti e tutti prima di lei.
La lasciavano sempre sola.
"Non sono abile a spiegarmi. Se mi concedessi del tempo potrei migliorare."
Sarebbe già dovuto andarsene, prendere la via di uscita e dimenticare i mesi passati, ascoltarla e fuggire, fuggire via prima del disastro, prima che la situazione degenerasse.
Lei si schiarì la voce e di nuovo un eco di rabbia rimbombò nella sua testa, un senso di insoddisfazione tanto grande da offuscarle la vista, gonfiarle i polmoni, scombinarle la pancia.
Se ne andasse, corresse via. Perché odiarla così? Perché non lasciarla sola, in pace, libera?
Lui morirà, come tutti, lui si spegnerà e lei dovrà di nuovo soffrire, con il cuore strappato dal petto, a mani nude.
Non esisteva alcun amore e, Dio, lui doveva uscire via da quella stanza e dalla sua vita.
Non lo sapeva, non lo capiva?
I sentimenti troppo forti sono da spezzare e da schiacciare prima di ritrovarsi bocconi a terra con il desiderio di morire.
Lei ci era già passata e mai, dovevano rompere ogni suo osso, avrebbe permesso a qualcuno di ridurla di nuovo in quello stato.
Era una questione di sopravvivenza, la cosa giusta da fare.
"E come faresti? Scaricheresti nella tua testa più manuali del linguaggio, qualche saggio scientifico o romanzetto rosa? In questo modo hai capito che ti eri innamorato di me? Lasciami immaginare. Avrai diagnosticato qualche sintomo e avrai consultato subito una guida medica ma, mi duole informarti, devi aver navigato sul sito sbagliato, forse uno di quelli per ragazzine, perché hai sbagliato tutto. Hai sbagliato ogni cosa, tu non sei innamorato di niente e nessuno."
Ma se era la cosa giusta da fare perché allora si sentiva tanto male?
"Sei una macchina, un insieme di oggetti sbagliati, un errore.”
Perché soffriva?
“Non sei neanche un essere umano!"
No.
Sì.
Sì, questo era uno strappo.
 
Mise una mano davanti alle sue labbra e le sentì tremare contro il suo palmo sporco.
Non... non volevo.
Visione fece due passi indietro e ingoiò aria, con un’espressione afflitta capace di dissipare l’odio provato prima.
M-mi... mi dispiace.
"Confermo. È tutto esatto e perfettamente esaminato", sussurrò, atono.
“Sono un androide fatto di materiale sintetico e vibranio. Sono nato perché il signor Tony Stark ha compiuto un errore di valutazione e questo errore ha portato a me. Per proprietà transitiva sono un errore.”
Guardò il suo corpo rosso coperto da vestiti umani e lei si coprì gli occhi, soffocando con i polsi i singhiozzi leggeri che abbandonavano la sua bocca.
“E no. Non sono umano", lo mormorò come se lo stesse ricordando a se stesso.
Si diresse verso l’altro lato della stanza ma ad un passo dall’uscita si fermò e la osservò un’ultima volta, parlando lentamente.
"Io ti amo davvero."
Impossibile.
"L'amore è una cazzata. Meglio la libertà", gli disse, con l'ultimo filo di voce rimanente.
Visione annuì e aprì la porta, non guardandola più negli occhi ma concentrandosi sulla maniglia a cui sembrò appoggiarsi, a fatica.
"Non ti preoccupare. Sono sicuro che presto sarai libera di nuovo. Andrà tutto bene, Wanda."
No.
Non poteva andare bene, nulla più poteva andare bene.
Aveva appena distrutto l'unica cosa bella a cui teneva.
 
 
Quindi ora sì.
Ora sì che conosceva il niente.
 
                                                                                                                          *******
 
Maledetti ricordi.
Click.
Maledette gocce di tubature arrugginite.
Click click.
Odiava quel suono, odiava quell’astronave rubata.
Click click click.
Maledetti rumori che non la facevano dormire la notte, maledetto viaggio e maledetta missione.
Fanculo tutti.
 
Wanda fece scontrare la matita contro il tavolo e il ticchettio la innervosì ancora di più, esasperandola. Si prese la testa fra le mani, digrignò i denti e scalciò sotto il tavolo, e così facendo riuscì solamente a colpire un’altra sedia e a farla cadere rovinosamente a terra.
Andasse a quel paese anche la stanza e ogni oggetto lì dentro.
Borbottò e aprì le dita a ventaglio, massaggiandosi lenta la cute e poi più giù fino alle tempie.
Un’altra terribile emicrania le schiacciava il cranio, pressando come mattoni di cemento proprio al centro del suo capo.
Abbassò lo sguardo e ammirò la sua opera interrotta.
Click.
Il disegno posato sul tavolo mostrava il profilo appena accennato di un giovane uomo, un ragazzo, il quale aveva da poco perduto i tratti tipici della prima giovinezza per acquisire invece dei lineamenti duri, degli zigomi alti ed una leggerissima barba bionda sulle guance.
Gli occhi parevano luccicare, quasi vivi, anche se la matita aveva solo iniziato, a poco a poco, a tracciarne il taglio.
Click click.
Passò un polpastrello sopra la carta e fu come accarezzargli il mento, la linea del naso, i dettagli di un viso che aveva sempre ritratto.
Il suo amato fratello, il suo gemello.
Pietro.
Click click click.
E ora poteva farlo soltanto quando richiamava alla memoria, alla stregua di fotogrammi in bianco e nero, i momenti passati insieme: spezzoni della loro infanzia, ogni secondo delle loro mani intrecciate sotto il cielo plumbeo di Sokovia, i passi lungo le strade polverose dei vicoli poveri e malfamati, le sue braccia sempre pronte a proteggerla, -soprattutto da se stessa.
Cercò di afferrare il suo volto e tra le dita non gli rimase nulla, perché il destino dei sopravvissuti era la solitudine e il rimpianto perenne di non essere sotto terra insieme a tutti gli altri morti.
E lei, purtroppo, era una stupida sopravvissuta.

“Rogers mi ha pregato di parlare con te. Noi due, secondo la sua assurda mentalità e visione della vita, dovremmo confidarci perché entrambe appartenenti al genere femminile. È così antico.”
Natasha prese posto dinanzi a lei e incrociò le braccia sotto il seno, spostando lo sguardo, con una espressione insofferente, da una parte all’altra della stanza e squadrando i diversi fogli appallottolati e gettati sul pavimento, a dimostrazione che avrebbe voluto essere ovunque ma non lì, non a consolare l’altra piccola fuggitiva del loro gruppo di ribelli, ovunque ma proprio non lì, non a interrogare lei.
“Steve ha delle idee tutte sue, un retaggio della sua epoca. Non preoccuparti, gli dirò che mi hai parlato. Anche se, ancora, non capisco il perché di tutta questa premura. Sto bene, faccio solo fatica ad addormentarmi.”
Wanda riprese la matita e ci giocherellò, acciuffandola tra l’indice e il medio, mentre si sistemava dietro l’orecchio alcune ciocche rossicce dei suoi lunghi capelli fuggiti dall’alto chignon.
Un costante fastidio.
Avrebbe dovuto tagliarli, un netto colpo di forbici e nessun fastidio. Avrebbe dovuto farlo e smetterla di tergiversare, scegliere un tipico taglio maschile e agire.
Sì, lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto presto.
Nessuno poteva fermarla, no?
Mi piacciono i tuoi capelli. Mi ricordano il fuoco, la luce di qualcosa di bello. Stregano le persone.
“Ti prego di non dire certe cazzate davanti a me, potrei perdere la pazienza una volta per tutte. Ed è meglio, per entrambe, rimanere calme.”
Osservò Natasha all’altro capo del tavolo e posò la matita vicino al foglio, fingendo di star cercando di allineare perfettamente i due oggetti.
Una rossa scarica elettrica le avvolse la mano, come se fosse un guanto, e crepitò sulle nocche e sul polso, stringendole le vene fino ad annacquarle la vista.
“Io sono calma. Non ho bisogno di nessuno.”
Come risposta ottenne una risata squillante, non una tipica reazione di Nat a dire il vero, almeno non con gli altri. Ma a quanto pareva le piaceva riservarla a lei sola, anche più volte al giorno, e poteva dirlo a causa della frequenza di tutte le risate in faccia che le aveva regalato in quegli ultimi mesi.
Che ennesimo adorabile privilegio, che detestabile personale tortura.
 
Si distrasse e Natasha le afferrò velocemente il foglio cominciando a osservarlo da ogni angolatura e sorridendo non appena comprese.
“Continua a ripetertelo e forse, non ne sono sicura, tra molti anni potresti anche iniziare a crederci. Ma se pensi di prendere in giro me...”
“Ti ho già detto che puoi andartene”, le ricordò, alzando il tono della voce che rimbombò in quella piccola stanza sgangherata.
Ma l’altra non si scompose e continuò a guardare il disegno interrotto, la linea delle dita talmente chiara da poter apparire una sbavatura della matita.
Maneggiava con poca cura quel foglio, non era attenta alle possibili pieghe e toccava i tratti grigi con tutti i polpastrelli senza immaginare così di star rovinando e sbiadendo i contorni del viso di Pietro.
Odiava quando qualcuno le sfilava via i suoi disegni e li rovinava con una tale noncuranza da farle provare biasimo verso se stessa, perché non era capace di difendere neppure degli oggetti tanto stupidi.
Odiava dover rimanere seduta su una sedia, reprimendo l’istinto di strappare il foglio a Nat per poi nasconderlo e metterlo in salvo, insieme a tanti e tanti altri ritratti, sotto il materasso del suo letto rattoppato.
Detestava dover fingere di non provare nulla alla vista della superficialità con cui gli altri si appropriavano di qualcosa di suo, di così intimo e chiuso, segreto.
Rimpiangeva il modo in cui si vergognava costantemente di se stessa.
Wanda, tu... puoi fare tutto. Tutto.
Sbatté le palpebre e la pelle della mano cominciò a essere tesa, tesa fino a darle degli spasimi e tremori lungo il braccio e lungo la vena blu che raggiungeva il suo gomito.
Sbatté di nuovo le palpebre e il dolore rimase comunque lì, dove era sempre stato.
“Cosa stavi facendo qui? Da sola, di nuovo. Oltre che disegnare.”
Gli occhi le caddero sull’altro foglio nascosto sotto il primo, sull’altro volto che lei disegnava ogni giorno insieme a quello di suo fratello.
L’unico altro viso che amava.
“È ancora più grave di quanto pensassi. Davvero. Molto più grave.”
Il tono strascicato della voce, la supponenza con la quale la scherniva e il sorriso di biasimo e finta comprensione la irritarono talmente tanto da farle bruciare il palmo dell’altra mano, anche essa ora avvolta da scariche rosse poco controllabili.
Come si permetteva di giudicare, proprio lei, come osava?
"Stavo solo pensando."
"E lo sai, vero? Sai che il tuo pensiero sta diventando un'ossessione. Devi saperlo."
Wanda prese l’altro foglio tra le dita, lo sollevò piegando leggermente gli angoli e squadrò, grazie alla fioca luce presente nella stanza, i lineamenti perfetti che aveva riprodotto e lo sguardo spento che la tormentava ogni notte, -no, ogni secondo di ogni giorno-, da ormai più di sei mesi.
Sei mesi da quel giorno maledetto, sei mesi dall’ultima volta che aveva incrociato i suoi occhi, sei terribili e interminabili mesi trascorsi lenti e vuoti, perché aveva scelto il niente al posto della certa e assoluta sofferenza.
Sei mesi di Inferno in cui lei era diventata la carceriera di se stessa e in cui, pur di sopravvivere, riviveva tutti i loro momenti passati insieme.
Sentiva ancora il suo tocco, forse perché stava impazzendo, e a volte le sembrava che la pelle ricordasse le leggere carezze delle sue mani nei momenti in cui l’aveva sfiorata, per caso o per sbaglio, durante le passeggiate tra i viali alberati della residenza dei Vendicatori.
Si era sempre mantenuto ad una rispettosa distanza, sempre, tranne le rare volte in cui le aveva spostato i capelli dietro le orecchie dicendole di essere stregato da quel colore strano che non era né rosso né castano.
Guardo le tue ciocche, a volte chiare e a volte scure, e mi sembra di rivedere la tua magia in ogni parte di te. Ti vedo sempre, ti vedo ovunque. Vorrei che ogni persona al mondo vedesse quello che vedo io.
La riverenza delle sue dita, la sensazione stupenda della sua pelle contro la sua, per quei momenti brevi ma eterni.
Le pochissime volte in cui le aveva accarezzato una guancia.
Wanda, io ti vedo.
"So gestirlo."
Si aggrappava a qualsiasi qualcosa, si aggrappava alla sensazione della sua voce limpida che le cullava i pensieri e le graffiava il cuore fino a farlo uscire dal petto.
"Racconta frottole a lui ma non a me."
Si accorse di star stringendo troppo forte il disegno e che lo stava rovinando.
“Cosa sai?”
Che ipocrita.
Si adirava tanto con gli altri, si arrabbiava perché tutti le rovinavano i suoi pochi averi e poi, come da tutta una vita, era lei la prima a distruggere ciò a cui teneva tanto.
“Quello che sanno tutti”, le venne risposto, con un finto sorriso e le braccia di nuovo contro il petto a coronare il momento. La sua lenta mossa prima di attaccare, la sua finta dolcezza per ingannare l’ignara vittima. Romanoff nel corso della sua carriera aveva usato la sua abilità innumerevoli volte eppure la sua tecnica non poteva funzionare con ogni bersaglio, no, perché il passato di ognuno è diverso e il futuro designato non può essere lo stesso per chiunque e le vittime lo sanno, lo sanno bene, infatti alcune neppure sperano di averlo quell’altro giorno in più da vivere e decidono quindi di consumarsi in un breve presente di vittoria e risentimento.
Nat non poteva vincere sempre, semplicemente perché esistevano pedine disperate, sconfitte già in partenza, sopravvissute a mali inimmaginabili. Quello che era lei.
Lei era una sopravvissuta.
“Ovvero?”
Ed era sopravvissuta alla carneficina di Sokovia ma non a quella perpetuata da se stessa.
“Che sei una patetica codarda.”
L’astio nella sua voce le fece sollevare le ciglia e i suoi occhi si scontrarono contro il suo viso adirato, stretto in una smorfia di disappunto e rassegnazione.
Continuava a osservarla con disprezzo, dall’altro lato del tavolo, il foglio ora posato, e rimaneva immobile ad aspettare una sua mossa come il suo antico addestramento le aveva insegnato e come i suoi più vecchi maestri le avevano inculcato.
Loro due potevano anche rimanere ferme lì, così, per anni e anni. Tanto lei non avrebbe reagito alle sue mirate e attente provocazioni.
Perché sprecare tante energie?
Nel silenzio assoluto di quella stanza piccola e spoglia, con gli interni freddi e asettici, entrambe si stavano scontrando senza alcun motivo apparente in una gara di sguardi, di sopportazione della tensione, di frasi taglienti.
Perché? Perché prendersi tanto disturbo?
“Nulla di nuovo, quindi”, le rispose, e tornò ad osservare il ritratto che ancora aveva tra le mani: le palpebre socchiuse e la bocca imbronciata gli facevano assumere un’aria più triste, desolata, quasi fosse sul punto di piangere e non sapesse come fare a fermarsi.
Il mondo era davvero brutto, cattivo e avido, perché le aveva portato via tutto senza lasciarle niente.
Niente di niente.
Wanda, te lo giuro. Tu non sei sola.
“Se qui fosse presente anche Clint avresti già preso diversi calci in culo da parte sua.”
Le scariche rosse sui dorsi e i palmi erano talmente scure da poter apparire sangue marcio, strisciavano sul volto catturato e schiacciato sulla carta e giù sul tavolo, per poi risalire tra i suoi anelli e i suoi bracciali.
Era una magia che le prendeva la pancia e arrotolava lo stomaco, calpestando polmoni e costole pur di raggiungerle il cervello e martoriarle la testa con un controllo alla nuca.
Pretendeva tutto, il suo potere, pretendeva ogni lembo di carne del suo corpo e le dava altrettanto, secondo la millenaria legge del taglione.
Tutto per tutto.
Niente per niente.
Le strappava ogni resistenza per donarle la possibilità di poter fare la stessa cosa ai suoi nemici.
E poi di lei cosa rimaneva?
La più sorda solitudine, la più cieca rabbia, il più muto dolore.
Un fagotto di ragazza di venticinque anni con uno straccio di esistenza, uno sputo di coscienza e uno straordinario potere che non era in grado di controllare.
Ecco, ecco cosa rimaneva di lei, ed era così perché nessuno scambio è mai equo e perché da quando era nata le erano toccate le ossa senza carne, i nervi senza grasso.
Niente per niente.
 
“Non hai una vita, Natasha?”
Strisciò indietro la sedia e si alzò per raggiungere la sua borsa buttata in un angolo della stanza, la aprì con uno scatto rabbioso e lì gettò il foglio, il viso rovesciato all’in giù che le rivolgeva un’accusa negli angoli delle labbra abbassate in una smorfia di tristezza infinita.
Richiuse veloce la cerniera e si riprese la testa tra le mani, pressando forte contro la fronte. Il dolore aumentava e la magia si rivoltava contro di lei, strapazzandola come un calzino sporco e spaiato in una lavatrice troppo grande.
Esasperata, ancora di più e sempre di più, diede un calcio contro il muro e avvertì la sua energia sfrigolare contro il pavimento e gli oggetti vicini. Tentò di massaggiarsi le tempie ma dovette stringersi il cranio perché le sembrava di avere milioni di milioni di spilli negli occhi e alla nuca, tra le sopracciglia e il mento.
Wanda.
Quasi non respirava.
Wanda, tu sei più forte. Non devi avere paura.
Inspirare.
Non te lo ricordi?
Espirare.
Sei sempre tu.
Inspirare.
Sei tu.
Espirare.
E non devi temere te stessa.
L’aria tornò da lei e la stretta alla testa sembrò diminuire, alleggerirla di un peso e consentirle di prendere un altro respiro e un altro più profondo.
Non avere paura.
“Non meriti la presenza delle altre persone. All’inizio tutta questa tua paura fa tenerezza ma poi risulta solo disturbante.”
Natasha era ancora seduta e le labbra erano tirate mentre scuoteva il volto da destra a sinistra da sinistra a destra e sospirava spazientita, per lo più annoiata.
Lei raggiunse il tavolo e provò a risponderle decisa ma fu fermata nuovamente da un’altra fitta al collo che le raggiunse subito la testa e le contrasse i muscoli del viso.
Respirò, lentamente, e raccolse con meticolosità gli ultimi fogli, formando un magro plico, non molto consistente.
I pezzi perduti durante la sua vita, il buono che le era stato rubato senza la possibilità di una vendetta, il bello che lei aveva calpestato in completa autonomia.
Mamma, papà, Pietro.
Tutto l’amore che lei aveva disprezzato nel peggiore dei modi.
Visione.
 
“È Steve che ti ha chiesto di insistere così tanto? Oppure è una tua nuova forma di tortura e io sono la tua cavia personale? Cosa vuoi da me, perché sei qui?”
Riaprì la borsa e gettò anche quei disegni, confondendoli tra loro, e si voltò verso di lei, consumando il pavimento con i suoi passi pesanti mentre stringeva i denti e sopportava quella violenta emicrania.
“Partecipo ad ogni missione, completo ogni comando, non compio errori e nessuna distrazione mi ha mai impedito di portare a termini gli impegni presi. Sono qui con voi e sono perfetta, ogni lavoro è pulito e ogni combattimento è compiuto secondo le regole. Quindi cosa c’è? Perché tutto questo, perché adesso?”
Lui mi manca tantissimo, mi manca troppo, mi manca oltre i limiti del possibile, mi manca nello stesso modo in cui mi manca Pietro.
Ma sono qui, sono ancora qui, a combattere. Perché farmi anche questo? Perché?
“Hai così tanta paura da essere pietrificata nelle tue sciocche convinzioni. Ci credi davvero.”
Passò uno stupore genuino nel suo sguardo e per un momento la sua espressione cambiò, per un solo momento sembrò compatirla sul serio, senza alcuna finzione. Fu forse un secondo, un millesimo di secondo, ma fu in grado di spezzarle qualcosa dentro, di trovare il punto esatto di pressione, fu abbastanza perché il labbro inferiore cominciò a tremare e lei dovette fermarlo con i denti, fu troppo perché sentiva gli occhi bruciare e la tensione al petto scalciare per uscire.
“In che cosa? Di non avere un futuro? Ma è vero. Ogni cosa che tocco muore e tutti... sono morti tutti. Ho pagato e continuo a pagare ogni singolo secondo bello che ho vissuto o che potrei vivere e lo faccio con gli interessi. Sono stanca. Io non sono un’eroina, sono solo una povera e patetica sopravvissuta che cerca di andare avanti limitando i danni, eliminando i possibili mali, i sicuri dolori, gli ennesimi lutti. Perché sono stanca, sono tanto stanca. Sono esausta della rabbia del mondo contro di me.”
Tutti muoiono.
“Io sono nata per essere sola.”
Muoiono tutti.
 
Calò un nuovo silenzio nella stanza, un silenzio tombale, e allora lei credette che Natasha si sarebbe semplicemente alzata e si sarebbe allontanata, chiudendosi la porta alle spalle senza rimpianti e lasciandola lì da sola, per poi dimenticarsi di quella assurda conversazione.
Forse lo sperò, forse lo temette.
Non lo sapeva neppure lei.
"Non gira tutto intorno a te, Wanda. Il mondo se ne frega e l’universo non sa neanche che esisti."
Una sedia cadde e una mano si abbatté forte contro il tavolo e Wanda fu sorpresa di quello scatto veloce e del suo atteggiamento diverso, della rabbia che le veniva riversata all’improvviso con tanta veemenza. Sembrava disgustata, non triste né compassionevole né derisoria, solo autenticamente schifata.
“Sei... non so come definirti perché una persona tanto stupida e ingrata non l’avevo mai incontrata in tutta la mia vita. Il tuo compiangerti è rivoltante quanto la tua strascicante apatia. Hai fatto del male a lui, hai fatto del male a te, perché credi di essere maledetta? Ti credi così importante, ti immagini così potente, che il mondo, no, perdonami, l’intero universo complotta contro di te per portarti via tutto ciò che ami? Io non credevo potesse esistere un ego tanto smisurato quanto quello di Tony Stark e tu sei riuscita addirittura a superarlo.”
Essere paragonata all’uomo che più odiava al mondo le arrossò le guance di rabbia e arrotolò la lingua in scuse affrettate e bugiarde.
“È lui che ha rovinato tutto. Andava meglio prima, andava tutto bene. Perché...”
Era inutile continuare, tanto Nat lo sapeva, lo sapevano tutti cosa fosse successo e che cosa loro due si erano detti.
Lei lo sognava ogni notte e spesso lo urlava nel sonno, sperando al risveglio di aver avuto un vivido incubo e che nulla fosse reale.
Invece poi apriva gli occhi, sbatteva le palpebre al buio e il suo dolore era lì, sempre lì, perché lei si era costruita il suo personale Inferno e ora non sapeva più come uscirne.
“Lascia solo che ti dica questo. Per certe cose ci vuole maturità e dire certe cose vuol dire fidarsi. Almeno potresti avere più rispetto, soprattutto perché tu non hai mostrato lo stesso coraggio. Sei una codarda spaventata. Risulti addirittura patetica nella tua ostinata volontà di negare anche l’evidenza. Quindi...”
Sembrò fermarsi, ricordare altro e allontanarlo via chiudendo gli occhi.
“Alza il culo e cerca di fare qualcosa. Smettila di autocommiserarti e, prima che sia troppo tardi, dimostra di non essere una bambina. Sii una donna.”
È già tardi. Lui non mi perdonerà mai.
E come potrebbe? Io non mi perdono per quello che gli ho detto, per quello che gli ho fatto. Mi odio, mi dispero, piango di nascosto e mi pizzico le braccia per intimarmi di smetterla, di finirla e di non pensare a quello che ho perso e distrutto con le mie mani.
Perché io ho sempre avuto paura della felicità. Come se fosse qualcosa di troppo grande e impossibile da vivere, qualcosa capace di aprirmi il petto per ricrearsi più spazio, qualcosa di incontenibile in un corpo umano, troppo piccolo e ricco di ostacoli e sbarre.
Ho il terrore della felicità, la temo talmente tanto da far del male agli altri, da aver fatto del male a lui.
Lui che era tutto, lui che è tutto, lui che è il mio unico pensiero che mi porta sul ciglio della follia e poi mi riprende e mi salva, trovando per me un nascondiglio da ogni male marcio che infetta il mondo.
Lui che mi ha salvata, sempre, e che mi ha amata quando io non potevo neppure avere rispetto per me stessa e per il mio dolore. Lui, con i suoi sorrisi storti e le frasi bellissime, lui che mi ha conquistato giorno dopo giorno.
Come si può non innamorarsi di qualcuno che si prende tra i palmi tutte le tue ferite e le protegge con la propria vita?
Lui ha fatto questo, dal primo momento, lui mi ha amata a costo di farsi male e di sanguinare per me.
Lui è tutto il mio mondo.
Ed io non potrò più viverlo, non più, non ora che non c’è più tempo.
Il nostro tempo è finito.
 
“Torna da lui.”
Durante qualche notte, qualche notte più buia e spaventosa delle altre, aveva formulato quel pensiero in silenzio e lo aveva contemplato, pentendosene tutti i giorni seguenti.
Non poteva presentarsi da lui, no.
Non poteva e basta.
“Non posso.”
Di nuovo la mano di Nat si abbatté contro il tavolo e lei sentì le dita pizzicarle e la magia correre a riscaldarle le vene.
“Muovi il culo e dà una svolta alla tua vita.”
Risalire dal dirupo in cui si era buttata e cambiare il suo futuro, un’idea così lontana da poter essere formulata soltanto durante i deliri della febbre e mai da coscienti.
Si portò le braccia intorno al petto e ignorò il fastidio delle scariche rossicce, inclinò il capo di lato e si morse il labbro inferiore, mortalmente stanca.
“E come potrei?”
Combattere contro se stessa, contro la propria squadra e contro il mondo intero era qualcosa che avrebbe stancato e sconfitto chiunque.
La sua pace era lontana, lui era a una distanza incalcolabile di chilometri e ferite.
Come l’avrebbe guardata ora? Con risentimento?
Lui che non era mai stato capace di provare odio, forse adesso lo avrà imparato a causa sua?
Forse sarebbe stato indifferente o forse in realtà l’aveva già dimenticata, forse aveva superato quel qualcosa che non era mai del tutto esistito.
E lei? Che cosa aveva lei tra i propri palmi? Come poteva pensare di riaggiustare qualcosa di così rotto e disintegrato in miliardi di pezzi?
Lui cosa avrebbe provato a rivederla?
Tutto o niente?
"Devi lasciarti andare. Ma se lui... allora devi lasciarlo andare."
Lasciarsi andare era come cadere nel vuoto e sapere di non poter essere mai salvati. Era un suicidio crudele, un volontario farsi del male, una morte triste e consapevole.
Lasciarsi andare era contro l’animo umano.
Tutto o niente?
"Come Bruce ha fatto con te?”
"Come Vis ha fatto con te."
Nat girò su se stessa e si diresse verso la porta, camminò lenta e strinse un pugno contro la gamba per una frazione di secondo poi riaprì subito la mano e fu come non fosse mai accaduto.
Wanda la fermò non appena la vide abbassare la maniglia.
“Non vorrà neanche parlarmi né vedermi. Mi odierà, gli farò schifo.”
Natasha le rispose rivolgendole le spalle e non si curò neppure di assistere alla sua espressione dopo l’ultima stoccata che le rivolse precisa, come una freccia piantata al centro del suo petto, dentro il suo cuore, a mani nude.
“In fondo che cosa hai da perdere?”
La porta si chiuse e lei si ritrovò di nuovo da sola.
 
Niente. Lei non aveva niente.
 
 
 

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Capitolo 2
*** Everything ***


Everything 1

A Jill, Victoria e Mari. Siete davvero sempre con me.
A Miryel, che è la puffola pigmea del mio cuore.

It must be something that we call dream
When all you told me I know by heart
The type of beauty I call supreme
And how it's driving me crazy

No need to worry, rain falling down
It's our happiest story 
And there's no one around
We will go for it and I know
You'll be mine forever

Windows wide open, flying so high
Both of us roaming
Through magnificent sky
Rain keeps on falling and I know
You'll be mine forever

Forever, Alekseev

"Ma guarda un po' chi si rivede. La figliol prodiga."
Stronzo.
"Lo sai che esiste un mandato di cattura che grava sulla tua testa? L’ha redatto una commissione speciale, è stato creato appositamente per te. Parlava della meravigliosa prospettiva di te rinchiusa in una prigione di massima sicurezza e, mi sembra, venissero citate anche alcune torture, tanto per gradire, ma non ne sono sicuro. Perdonami, credo di essermi addormentato durante la noiosa riunione e di essermi perso qualche passaggio. In fondo, non era così interessante.”
Sei uno stronzo patetico e insopportabile.
"O forse credevi che saresti semplicemente entrata qui dentro come se nulla fosse, come se ti spettasse di diritto. Ma, Wanda, devi sapere che ho scoperto di recente un segreto. L’immaginazione è una fonte inesauribile di delusioni."
Stark le sorrise e i suoi denti bianchi fecero capolino alla luce del sole, in una smorfia divertita che strideva tagliente con le parole pronunciate poco prima.
Il suo improvviso cambio di atteggiamento e il suo sorriso aperto di scherno la infervorarono mentre osservava disgustata la metà del volto ora scoperta dagli occhiali da sole e l’aria spavalda ostentata più del solito.
Scontrò malamente contro la consapevolezza che lui era un essere orribile, un terribile uomo, un assassino libero da pesanti catene nonostante il sangue scuro che gli sporcava le mani e le anime dei morti legate alle sue spalle. Un distruttore peggiore degli altri, un eroe senza coscienza, capace di amare solo se stesso: le rovine lasciate dietro ogni suo passo dimostravano che non era mai capitato nulla di buono ai poveri sventurati che si erano avvicinati troppo a lui, perché era un uomo tra le cui carni esisteva soltanto venefico orgoglio, devastazione, morte e infelicità.
Era, in definitiva, un uomo troppo simile a lei.
“Spero che tu sappia che, se sei riuscita a entrare qui dentro e a superare ogni guardia e ogni ostacolo, è solo grazie a me. Tu sei qui, davanti a questa porta, perché l’ho voluto io. Altrimenti, a quest’ora, saresti già stata scaraventata in una prigione costruita nel bel mezzo del nulla. Ti è chiaro, Wanda?”
Lei incrociò le braccia sotto al seno e fece schioccare la lingua, evitando di ricambiare il suo sorriso falsamente amichevole. Alzò il mento e assunse un'espressione annoiata, una maschera sottile che celava a stento il suo nervosismo e la tensione che le irrigidiva i muscoli e le chiudeva i polmoni.
“Che strano silenzio. Questi sei mesi da ricercata ti hanno addomesticata?”
Stronzo.
“Spostati”, sibilò, livida di rabbia.
Aveva poco tempo e non sopportava di dover ascoltare le sue stronzate, le cazzate che sicuramente amava ripetersi allo specchio aggiustandosi i capelli disordinati. Se ne andasse via e la smettesse di pavoneggiarsi, si allontanasse dal suo fottuto orgoglio e dalle sue maledette convinzioni e la lasciasse passare.
Lei non era lì per Stark, né per i Vendicatori.
“Oh, allora parli ancora”, la derise, cattivo.
Fulmini rossi scoppiettarono tra le sue mani e salirono a contornarle i gomiti, irrigidendole la nuca.
“Stark, non sto scherzando. Non sono affari che ti riguardano”, sillabò adirata e compiendo un passo in avanti, verso l’abitazione. Il passaggio le fu bloccato dal corpo di Stark che la confinò nello spiazzo del giardino, lontana dalla porta a vetri che l’avrebbe condotta dentro gli appartamenti dove lei stessa aveva vissuto. Con la coda dell’occhio scorse il proprio riflesso negli specchi e non si riconobbe, accorgendosi tardi di essersi spaventata dinanzi all’immagine di quello che era diventata, di come era nuovamente cambiata.
La gonna ampia le arrivava a metà ginocchio e mostrava i lividi che si era procurata durante le missioni, altre ferite violacee e altre ancora che dovevano cicatrizzarsi, mentre la maglietta nera le fasciava il corpo spigoloso, evidenziando le spalle magre e le costole sporgenti. 
Nella sua mente esplose l’idea che così conciata poteva ricordare una bambina, con le occhiaie profonde e il trucco sfatto, le guance tanto magre e le labbra screpolate. Pensò che sembrava indifesa, spaventata, con lo stesso sguardo perso dei volti terrorizzati delle persone sopravvissute al disastro di Sokovia.
Sokovia, Ultron, una città nel cielo.
Pietro.

Wanda si riscosse e cercò di raggiungere la porta, mantenendo a stento il controllo sui propri poteri e sulla propria magia, e Stark non volle semplificarle la situazione, a quanto poteva constatare, e ciò le fece avvertire un inspiegabile desiderio di ridergli in faccia e di beffarsi di lui che, stronzo orgoglioso, non aveva compreso nulla della sua disperazione. Non capiva, non vedeva, che lei quel giorno sarebbe stata disposta ad arrampicarsi a mani nude sulle mura bianche di quell’immenso edificio, a sacrificare ogni cosa pur di completare la sua impresa, la sua missione.
Perché è una missione questa visita? È una questione di vita o di morte, è un piano da realizzare per un bene superiore?
O, forse, è semplicemente il capriccio della bambina che sono? Il desiderio irrequieto di vederlo, la necessità paralizzante di guardarlo, di toccarlo, di ascoltare la sua voce. E lui è qui e non sa che io lo sto aspettando.
Lui è qui e non immagina che io ho bisogno di capire se davvero non esiste più nulla per noi, se davvero ho rovinato tutto.
Se davvero ora siamo niente.
“Permettimi di ricordarti che, mentre tu hai passato gli ultimi mesi a scorrazzare da una parte all’altra del pianeta e a giocare a nascondino con l’allegra compagnia, io... sono stato qui. Con lui.”
Stark si staccò dalla porta e lei non si impaurì, non arretrò di un passo. Lo fronteggiò, le guance accaldate per l’affronto, un senso di vertigini implacabile che la costringevano a non compiere un gesto che poteva apparire avventato e ridicolo se visto dall’esterno.
Si costrinse, con forza e determinazione e non senza farsi del male, a contenere il dolore ai palmi delle mani che la supplicavano di schiaffeggiarlo.
“Quindi sì, Wanda. È un affare che riguarda anche me. Io devo assolutamente accertarmi che il motivo della tua improvvisa comparsa sia giusto e magari non potenzialmente distruttivo. Fammi un segno con la testolina, su e giù, per farmi intendere se hai compreso le mie parole”, la sbeffeggiò, le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti, i movimenti lenti e misurati come quelli di uno squalo, a mostrarle come lei avrebbe dovuto muovere il capo.
“Sei suo padre?”, ribatté, inclinando a destra la testa.
“Suo padre, amico, collega di lavoro o compagno di pigiama party. Scegli tu.”
Piccola fuggitiva psicopatica.
Non lo disse, eppure lei trovò quell’insulto tra le righe delle sue frasi, tra l’inflessione delle lettere e le pause attentamente studiate. Era il soprannome che doveva aver sputato, acido, in tutti quei mesi, il soprannome che le aveva affibbiato credendo così di denigrarla, di infastidirla.
Non aveva neppure bisogno di leggergli la mente, come aveva fatto tante volte in passato, scoprendo così gli appellativi poco lusinghieri che le aveva sempre riservato. Sapeva bene cosa lui pensava di lei, perché odiarsi a vicenda era l’unico sentimento che avevano il piacere di condividere, l’unico modo in cui erano in grado di rapportarsi quando si manifestava il bisogno imprescindibile di un dialogo fintamente civile tra loro.
Ma, dopo tutti quei mesi, sopportare la sua alterigia era diventato qualcosa di ancora più ingestibile.
“Interessante. Adesso, Stark, ti consiglierei di...”, venne interrotta, senza alcun garbo.
“No, adesso parlano gli adulti. Hai capito?”
“E saresti tu l’adulto?”
Stark stava per risponderle con un’altra battuta tagliente e crudele, un altro insulto urlato dal suo sorriso obliquo, dal suo atteggiamento sfrontato e dal rapido scatto del braccio. Parole eclissate, scomparse, non appena riecheggiò il suono di una vocina sottile che squarciò la loro guerra, congelando entrambi sul posto.
Oh, io ho paura di essere scoperta, di dover fuggire ancora, di dovermi nascondere e proteggere. Tu, invece, perché sei tanto rigido, stupido uomo di metallo?
“Signor Stark? Signor Stark è in giardino?”
Lo vide sgonfiare il petto e passarsi una mano sulla fronte, gli occhi chiusi e un sorriso accennato.
“Peter, sono qui.”
Un ragazzino, un adolescente nascosto da una voluminosa felpa rossa e jeans, aprì di scatto la porta a vetri e si rivolse subito a Stark, il volto paonazzo, i capelli scompigliati e una strana foga nella voce.
“Signor Stark, giuro che non è stata colpa mia! Gli impianti di sicurezza sono impazziti da soli, completamente da soli! Io ero persino in un’altra stanza, non può assolutamente essere stata colpa mia. Sono totalmente, lo giuro, totalmente innocente. Io sono...”, si interruppe non appena la vide. Fece tre passi avanti, dimenticando di chiudere la porta, e la osservò incuriosito, con gli occhi che studiavano la sua figura come dinanzi ad un insetto da laboratorio schiacciato su un vetro sottile del microscopio.
Uno sguardo attento, non sfrontato, simile a quello di uno scienziato nell’attimo esatto in cui riesce a risolvere un enigma complicato, quasi impossibile, insieme ad una non poco celata euforia che gli arrossava ancora di più le guance.
“Oh. Ma è lei?”, domandò, gettando un’occhiata a Stark che gli rispose piano e con le palpebre chiuse, il capo chino a terra e le mani di nuovo infilate nelle tasche.
“Sì.”
Il bambino dell’asilo fece allora qualche passo indietro, continuando a scrutarla.
“La Strega Rossa.”
Stark sbuffò e lei soffocò il malsano desiderio di soffocarli entrambi o di gettarli sull’asfalto facendoli prima cadere da un grattacielo qualsiasi.
“Lei”, sputò quel viscido, mentre si massaggiava la fronte con movimenti circolari.
“Qui?”
“Non la vedi?”, la indicò, stendendo il braccio destro verso di lei e sforzandosi di non essere lo stesso stronzo che era stato poco prima.
“Ma come... Ah.”
Il ragazzo nascose le mani nella tasca della felpa e cominciò ad annuire da solo come se stesse seguendo un ragionamento che solo loro due potevano comprendere, in silenzio e senza bisogno di altri sguardi o parole. 
Sembrava affascinato, ancora più curioso, stranamente felice e rilassato.
E non era minimamente spaventato.
“Esatto”, esalò Stark, guardandolo con la coda dell’occhio in un atteggiamento che non riuscì a definire.
Dunque cosa ti succede? Cosa è questa strana quiete, cosa è questa calma mai mostrata a nessuno, nemmeno a Steve?
“E non dovremmo lasciarli soli? Aiutarli?”
E soprattutto cosa è questo siparietto?
“Tu chi saresti?”
Wanda decise di intromettersi, dichiarando dentro se stessa che quella situazione, già altamente ridicola, stava raggiungendo vette inesplorate. Si mise di fronte al ragazzino mingherlino e lo guardò dall’alto verso il basso, cercando di ricordarsi il motivo per cui aveva un’aria così familiare.
“Sono Peter. Parker. Peter Parker. Mi ha incontrato in Germania, io ero nella squadra del Signor Stark e saltavo da una parte all’altra, lanciavo ragnatele, ho persino rubato lo scudo a Captain America. Lei forse non si ricorda di me, avevo il volto coperto, ma sono io, sono il bimbo ragno.”
Bimbo ragno.
“Ho capito, finalmente. Sei il nuovo passatempo preferito di Stark, allora. Li sceglie sempre più piccoli, non lo avrei mai detto. O forse sì, quest’uomo è pieno di sorprese in fondo. A questo punto bisogna solo aspettare e capire se tu durerai più degli altri. Facciamo una scommessa?”, rise a denti stretti e non smise mai di osservarlo, non si perse nulla del suo volto fin troppo giovane che rimase immobile e imperscrutabile, neanche minimamente scalfito. 
Aveva un’espressione triste, una tristezza che aveva ritrovato spesso sul volto di suo fratello, come se non fosse triste per se stesso ma avesse pietà di lei e delle sue parole talmente velenose da averle reso amare la bocca e la lingua, talmente appuntite da essersi ritorte contro la sua stessa gola malamente esposta.
Nessuno dei due fece vagare altrove lo sguardo e il ragazzino si mangiò due volte le labbra prima di formare una dura linea con la bocca e di addolcirla all’ultimo con un mezzo sorriso sdentato.
Stark si era messo alle sue spalle e lei non si era neppure accorta di quel movimento spontaneo, di quell’asse di equilibrio spezzato, di quella strana pace che uccideva le sue parole furiose, le sue frasi cattive.
“Mi dispiace che sia triste. Visione si trova nella sua stanza e non si spaventi, sono sicuro che...”
Si fermò impacciato non appena Tony gli pose le mani sulle spalle e lo spinse a dirigersi da un’altra parte, a muoversi a destra per oltrepassare il giardino e avvicinarsi al grande cancello che li avrebbe portati fuori da quell’immenso edificio, da quel posto di fantasmi e rimpianti.
“Andiamo, Peter. Hai ragione, è meglio lasciarli soli.”
Notò che aveva stretto più forte le dita contro la felpa del ragazzo e che poi lo lasciò andare di scatto, indicandogli di nuovo la strada con il mento e rispondendo al suo tacito sguardo con un sorriso aperto e un movimento d’assenso del capo.
Parker parve convincersi annuendo velocemente e si mosse in avanti prima di fermarsi un’ultima volta.
“Mi dispiace davvero”, proferì il ragazzo con un filo di voce e gli occhi lucidi. 
Poi si avviò verso il giardino e non si voltò più indietro. Wanda sentì qualcosa di strano rimescolarle la pancia e, non appena Stark le passò accanto, lei non poté trattenersi e lo attaccò duramente.
“Dove hai trovato quel bambino, Stark? All’asilo? Vuoi distruggere anche lui? Cosa vuoi fare? Che cosa hai al posto del cuore, dei sentimenti, che cosa hai che ti rende così insensibile?”
Sembrava che non le avrebbe risposto e che non si sarebbe mai girato a guardarla, sembrava che le sue domande non avrebbero mai trovato una risposta e che quelle accuse sarebbero rimaste per sempre perse nel vento e nel silenzio di quello spiazzo in cui era stata lasciata da sola. Era certa che lui non avrebbe mai tradito la sua posa rigida e le spalle sdegnosamente voltate verso di lei, ne era veramente certa.
Wanda si appoggiò alla maniglia della porta a vetri e poco prima di entrare sentì distintamente l’unica frase sfuggita al suo patetico orgoglio, l’unica risposta che le avrebbe mai concesso e che non avrebbe mai più ripetuto, mai più ammesso, mai più rivelato a nessuno.
“Lui è il mio ultimo peccato.”

                                                                                                                                        ***********


Perduta, amore mio, tu sei perduta.
Tu cadi cadi giù
il mondo non ti vuole più.
Bisbiglia piano piano
non render tutto vano.
Non devi aver paura
tu sai la verità più pura.


Wanda si fermò dinanzi alla porta socchiusa della camera di Visione e cominciò a ripetere queste breve frasi, come una nenia cantilenante nella sua testa, come una ninnananna ricordata all’improvviso e da sempre conservata da qualche parte dentro i suoi pensieri, dentro le sue paure più mostruose. 
Si fermò davanti al legno scuro e respirò piano, pianissimo, tormentandosi la coscia con una mano e i capelli con l’altra, masticandosi le labbra già spaccate e mordendosi la lingua.
Sapeva che lui era lì e, forse, anche lui sapeva che lei era fuori dalla sua stanza, ferma come un’idiota, incapace di bussare e di articolare due stupide parole, un misero suono di saluto.
Cominciò a tremare, visibilmente, e a sentire la pelle fremere, prudere, mentre il Sole già basso non riusciva a stendere i suoi raggi verso di lei, all’interno di quel corridoio deserto.
Perduta, amore mio tu sei perduta.
Ingoiò aria, ingoiò bile, ingoiò il sapore amaro che le impastava la gola e chiuse gli occhi, sforzandosi con ogni fibra del suo essere ad aprire quella dannata porta.
Si strozzò con la sua stessa saliva e si infilò un pugno in bocca per soffocare il suo tossire, ricominciandosi a mordere le nocche escoriate. Una lancinante sensazione di panico la strangolò, riducendola in semplice e stupida polvere.
Pietro, ti prego dammi la forza, perché non credo di potercela fare, non penso di essere così forte, mi sento male, ti prego aiutami. Ti prego, dammi la forza di essere migliore di quello che sono sempre stata, aiutami a non scappare via, dammi la forza per non piangere perché sto già piangendo, singhiozzo già.
Ti prego, fratello mio, aiutami.
Ti prego.
“Ciao.”
La voce le era uscita talmente fioca da non averla udita neppure lei, da averla appena intuita, un fischio tremulo svanito nel nulla.
Fece un passo nella stanza, con la vista appannata, la voce smorzata e un calcio nella pancia che le arrotolava tutto lo stomaco. Un altro passo, un’altra preghiera, e lei era dentro la camera, poco oltre la soglia. 
Non aveva più respiro, aria, sangue nelle vene. Era un sacco vuoto che vedeva tutto annacquato, un burattino con i fili tagliati, il cuore scappato dalle costole fin troppo evidenti.
E lui, lui, lui, lui, lui non era stato nella sua vita se non nella forma di un’ombra, un fantasma, un’allucinazione crudele, per sei stramaledettissimi mesi.
Doloroso niente, luminosa solitudine della sua mente folle senza più il suono della sua voce: creiamo sempre ciò che temiamo di più e lei questo lo aveva imparato bruciandosi ogni quadrato di terra che aveva calpestato.
Intuì il suo volto dietro le lacrime e la bocca dello stomaco cominciò ad annodarsi, rendendole secca la gola.
“Ciao, Vis. Ciao.”
Tu cadi cadi giù.
Si pulì velocemente gli occhi per riuscire a vederlo e mantenne un’espressione calma, indecifrabile, una sottile carta velina sui suoi tratti tristi, mentre un formicolio dietro le ginocchia la spingeva verso il centro della stanza, scorrendole languido lungo tutta la sua colonna vertebrale.
Si ferì i palmi con le unghie e serrò i denti fino a provare un atroce dolore alla mandibola e a gustare un sapore metallico in bocca, nell’ansia di mantenere la calma.
Lui era lì.
Seduto composto dietro una scrivania su cui era posata una scacchiera, vestito con alcuni dei suoi semplici abiti umani, la mano ancora immobile, a mezz’aria, con un pedone bianco stretto dalle lunghe dita affusolate. Percepì quella mano stringerle il cuore, passare attraverso il suo corpo e rendersi carne tra la sua carne, il palmo tra il suo sangue e le coronarie, le unghie che le strappavano via ogni minima resistenza. Una tortura cristallizzata, un peso invisibile, un potere crudele.
Lo osservò e si sentì perduta, si sentì sconfitta, e percepì qualcosa sgretolarsi in gola e riversarsi sulla sua nuca bagnata e coperta dai capelli sudati.
Batté le ciglia una volta e, quando lo ritrovò di nuovo dinanzi a sé, capì che non era paura la sensazione spaventosa che stava vivendo, quel lieve calore stagnante tra le giunture delle sue ossa, e non era neppure panico né tristezza.
Era semplice accettazione.
“Ciao, Vis.”
“Wanda.”
Il mondo non ti vuole più.
Visione ricambiò il suo sguardo, ma non sembrava turbato o scosso. Stupito, era in parte stupito, un po’ pensieroso, attento a immagazzinare dati e niente altro. Il suo volto non tradiva alcuna emozione.
Lei pensò di avvicinarsi, ma non appena sollevò un piede decise di riabbassarlo, sforzandosi di rimanere al suo posto e di non correre da lui a nascondersi sotto il suo maglione, di non chiedergli di smetterla di fare così e di ricominciare a guardarla come aveva sempre fatto, di sfiorarla con i suoi tocchi gentili, attenti e dolci, di parlare sottovoce e di raccontarle una delle tante storie sagge e antiche che lui amava tanto leggere. Si trattenne dall’urlare mentre lo osservava rimanere lì, in quella posizione scomoda, in una maniera innaturale.
Sei diverso, questo non sei tu.
Si umettò le labbra e si passò una mano contro la fronte, costringendosi a controllare il tono della voce e a non biascicare.
Bisbiglia piano piano.
“Come stai?”
“Bene, Wanda. Grazie.”
La sua voce era meccanica, distante. Impersonale.
La agghiacciò e si insinuò tra i suoi incubi peggiori e li portò alla luce, quasi a volerle dimostrare che ciò che aveva sempre temuto si era alla fine avverato di fronte a lei. Lei che era impotente, vinta, sconfitta.
Perché lui non la voleva più.
Non render tutto vano.
“Sì. Sì, infatti, sì. Ti trovo bene. Stai bene.”
Sei diverso. Lo sento, sei diverso.
Sembri tu, ma non lo sei.
Sei rigido, come una macchina, proprio tu che una macchina non lo sei mai stato.
Mi guardi e non sbatti le ciglia, mi guardi e non mi vedi, sei qui e non lo sei.
Che cosa è successo?
Che cosa ti ho fatto?
Non riesco a leggerti la mente, non sento niente.
Niente.
Niente di niente.
“C’è qualche problema, Wanda?”
Non devi aver paura.
Rimase ferma ad osservarlo e lui posò il pedone vicino al profilo della scacchiera e poi si alzò dalla sedia, spostandosi dinanzi alla scrivania, con dei movimenti lenti e precisi che le calpestarono il cuore che aveva dimenticato lì, sul pavimento, da qualche parte. Le era caduto non appena aveva messo piede in quella stanza e non poteva adirarsi con nessuno, non ne aveva il diritto, perché lei aveva sempre avuto così poco riguardo nei confronti delle proprie cose, anche di quelle a cui teneva di più, che non poteva biasimare gli altri che seguivano semplicemente il suo esempio, no, non poteva adirarsi, non poteva.
“Che cosa hai combinato, Vis?”
Lo osservò ancora e smise di tremare, raddrizzando le spalle e concedendosi soltanto di continuare a tormentare le pieghe della gonna. Inclinò il capo e notò il modo in cui lui respirava, fin troppo lentamente, come se quell’alzarsi e abbassarsi del petto gli provocasse fatica. Quasi non deglutiva e aveva uno sguardo lontano, irraggiungibile.
I suoi occhi erano azzurri e senza più il cerchio dorato intorno alle pupille.
Tu sai la verità più pura.

Consumò velocemente la loro distanza e pose le mani, aperte e con le dita distese al massimo, vicino alle sue tempie, impedendogli anche solo di capire che cosa lei aveva intenzione di fare. Lui arretrò, scostandola, ma lei si addossò completamente al suo corpo rigido e dai palmi lasciò fuoriuscire la sua magia, dei tentacoli rossi che la collegarono ai pensieri della sua mente e che le trasmisero immagini spezzate e rovinate, tagliate, in bianco e nero, di una serie di codici binari.
La lingua le si attaccò al palato ma lei riuscì a mormorargli un ‘fidati di me’ che le costò dei lampi viola dinanzi alle pupille nere. 
Allargò le dita e digrignò i denti, respirando male, irrigidendo i muscoli.
“Wanda, cosa stai facendo? Dovresti allontanarti, devi allontanarti.”
Ascoltò la sua voce cambiare, vibrare al pronunciare le ultime due parole, e allora chiuse gli occhi e si concentrò, sfogliando i messaggi cifrati che si ripetevano sistematicamente nella sua testa. Visione fece un altro passo indietro, ma fu fermato dal ripiano della scrivania, ritrovandosi ingabbiato tra il legno e lei, le sue gambe, la sua gonna.
Perse, come un oggetto in bilico che crolla, l’aura di compostezza che lo aveva cristallizzato fino a quel momento e tentò di allontanarla, toccandole le spalle e poi le braccia, senza potersi avvicinare alle mani. Le strinse i gomiti e lei ricordò l’incidente in Nigeria, quando non era stata in grado di controllare la sua magia, di seguire il flusso dei suoi poteri distruttori, e aveva fatto del male, senza volerlo, causando l’ennesima catastrofe e le ennesime morti. 
Mosse le dita ricoperte di anelli e attenuò il colore vermiglio dei lampi che si intrecciavano ai suoi polpastrelli e che scendevano verso la testa di Vis. Schiuse la bocca e tentò di calmarlo, mentre il suo animo tormentato non le dava tregua.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
Che cosa hai fatto?
Perché i tuoi occhi sono diversi, perché? Dimmelo, che cosa è successo? Che cosa hai, che cosa posso fare? Parlami, per favore.
“Sei davvero qui”, udì lui sussurrarle, stanco, affaticato.
Wanda posò i polpastrelli sulla sua fronte e allentò il nodo dei tentacoli rossi che le stava legando le vene dei polsi, martellandole il centro del cranio. Si sistemò meglio tra le sue gambe, fasciate da dei pantaloni scuri, e la sua magia continuò a vagare, strisciando tra delle stringhe incomprensibili.
Lui sospirò, rumorosamente, e lei catalogò quel verso come uno di fastidio, di rabbia, di disappunto. Si odiò, si maledisse, e non resse il suo sguardo triste.
Non ti succederà nulla, non ti farò male, te lo prometto. Voglio solo aiutarti, voglio solo capire. Voglio solo ritrovarti.
Io non ti sento più.
“Sei qui, Wanda. Sei davvero qui.”
Lui strizzò le palpebre e poco dopo la sua voce tornò asettica, priva di inflessioni.
Le sue dita, che prima stavano indugiando vicino ai suoi fianchi, si chiusero a riccio, scottate. Riprese a respirare normalmente e ad apparire freddo come lucido metallo.
Non ti sento.
“Dovresti allontanarti e ripristinare le dovute distanze.”
Lei strinse le labbra e si avvicinò con le mani alla gemma, in una lenta carezza alla radice del naso.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
“Vis, te lo giuro. Io non ti farò del male, io non potrei mai farti del male.”
Bugiarda, non era vero.
Gli aveva già fatto del male e in tanti - troppi - modi in una volta sola.
“Wanda, tu non dovresti essere qui.”
Le sue unghie incontrarono la superficie calda della gemma e un pensiero si impose nella sua mente, pestando i piedi e scuotendole il corpo: lei aveva bisogno di toccarlo.
"Hai bloccato una sfera dei sentimenti.”
E aveva bisogno di stringergli la mano e di sentire una connessione, qualsiasi, avere la prova che esistesse ancora qualcosa tra di loro, qualcosa di salvabile. Cercò con la coda dell’occhio i suoi palmi rossi che stringevano il bordo del tavolo e volse interamente il capo verso la mano destra.
Settantatré.
Erano state settantatré le notti in cui lei si era svegliata, urlando in preda agli incubi, e aveva trovato lui, sdraiato sul pavimento, con le dita allacciate alle sue.
Lei la conosceva, quella mano, la conosceva bene. C’erano state delle notti, il mondo addormentato e silenzioso, in cui lui aveva lasciato aperto un carillon, sul comodino accanto al suo letto, la cui dolcissima melodia aveva il compito di tranquillizzarla e di concederle il ristoro di poche ore di sonno. Ma in diverse e tante notti, più buie e più spaventose, la lenta musica del carillon non le aveva impedito di risvegliarsi sudata, con i muscoli tremanti e la paura chiusa in gola, fermata a stento dai denti. In notti come quelle lui le aveva canticchiato una ninnananna russa, sottovoce, piano piano, cullandola e rassicurandola. 
Era rimasto sempre sdraiato sul pavimento, una mano stretta alla sua, le dita ben legate fino all'alba.
Aveva sempre fatto così.
Aveva tentato, notte dopo notte, senza che lei gli chiedesse nulla e senza poi parlarne durante il giorno, di salvarla da se stessa.
“Hai... inserito un virus e, è impossibile ma, ora c'è un muro nero che aggredisce quei sistemi. Come ragnatele.”
Una sola volta era cambiato qualcosa.
In un sogno orribile e malvagio le era apparso Pietro.
Amato fratello mio.
Con il corpo martoriato e un sorriso splendente, il petto ricoperto di sangue e gli occhi vitrei, i capelli bagnati dalla polvere e dalla terra.
Sono morta nello stesso istante in cui tu sei caduto a terra, con le palpebre spalancate.
Le aveva sorriso sfacciato e le aveva ricordato, con un tono insolente, di essere nato dodici minuti prima di lei. Ridendo le aveva sussurrato che lei, la sua adorata gemella, la sua Wanda dal broncio facile, doveva smetterla di impartirgli ordini, di comandarlo con quel piglio severo. Era lui il più grande, il più saggio, il più intelligente. Era lui a doversi prendere cura della sorellina minore, non il contrario.
Io sono nato dodici minuti prima di te. Ricordi?


Si era svegliata sussultando, talmente agitata da esser quasi crollata sul pavimento, aveva mosso frenetica le mani e le gambe e aveva serrato la mandibola non appena un sapore acido era salito a bruciarle il palato e la lingua, facendole rischiare di soffocare nel suo stesso vomito.
Lui era sempre stato lì.
Era stata l'unica volta, l’unica, in cui era salito sul letto e l'aveva abbracciata, come un cucchiaio, il suo petto duro contro la sua schiena scossa dai singhiozzi. Le aveva bloccato le braccia, quasi a volerla inglobare con il suo corpo, nel tentativo gentile di prendersi, di assimilare, tutto il male che lei non riusciva più a portare dentro di sé.
Tutto il male che il mondo le aveva infilato nel corpo, nello spazio libero di ogni cellula e nei percorsi aggrovigliati di tutti i nervi. 
Era sempre rimasto lì, con lei, fino all’arrivo di ogni alba.
Sempre.
E lei, alla fine, come lo aveva ripagato?
Sputandogli in faccia.
“Hai creato un blackout per una parte della tua mente. Un blackout localizzato che non interferisce con il tuo lato umano. Ti rende un automa. Buono, servizievole, ma spento.”
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e abbassò il capo verso terra, percependo all’improvviso delle strette allo stomaco e delle viscere nella pancia, intente a mangiarle il fegato e a toglierle l’aria.
“Perché non lo elimini?”
Perché lo hai creato?
"Non voglio sbloccarlo. C’è un messaggio di notifica che mi avverte delle controindicazioni. Il dolore è classificato come altamente intollerabile.”
Wanda sollevò la testa, simile a una molla, e riposizionò le mani vicino alle sue tempie.
"Ora sistemiamo ogni cosa."
Le bloccò i polsi, con una presa ferrea e decisa, e la osservò sconcertato, gli occhi attraversati da un lieve guizzo che sparì nello stesso istante in cui era comparso. Tornò negli abissi, talmente tanto velocemente da farle credere di averlo solo immaginato, quel rigurgito di umanità che zoppicava e si dibatteva sul fondo di un baule, e la lasciò di nuovo abbandonata a se stessa. Da sola a combattere, da sola a sopravvivere, mentre lui la guardava e le parlava con lo stesso tono piatto e monocorde dei computer.
Lui non c’era più.
"Il dolore è classificato come altamente intollerabile. Vorresti davvero rischiare?"
Sì.
No.
No, non rischierei.
"Forse ora è diverso. Forse adesso sarebbe niente."
Niente. Niente di niente.
Noi siamo niente, a causa mia, noi siamo niente. Perché dovrebbe fare male?
"Ne dubito. Già adesso è difficilmente sopportabile e non voglio immaginare senza il blocco, non voglio saperlo."
Gli sfiorò le guance, gli angoli della bocca.
"Ti fa male?"
Osservò i suoi occhi spenti e si sentì morire dentro.
"Mi fai male”, le rispose, e poi volse la testa a sinistra, confuso.
Sembrava si fosse spezzato qualcosa, dentro di lui, come un vetro sottoposto alla continua pressione di una punta di diamante, un vetro destinato a scomporsi in miliardi di cocci.
"Sai che non ti avrei mai lasciato sola”, gli scappò dalle labbra, di getto. 
Ma erano istanti che si dissolvevano in fretta, scomparivano nella nebbia dei suoi occhi.
E lei tentava di aggrapparsi a quegli spiragli, di sfondare i muri dibattendosi tra mattoni di fango secco, con le mani scorticate e colanti strisce di sangue fresco.
"Tu sai cosa ho provato quando è morto Pietro. Tu c'eri, tu mi hai vista”, disse, con veemenza, mangiandosi le parole e cercando il suo sguardo. 
Gli parlava, arraffazzonava scuse e motivazioni, lo supplicava, eppure aveva la sensazione di sbattere la testa contro uno specchio rotto che rifletteva soltanto volti spezzati, bellezze rubate. 
Non lo sentiva, non lo sentiva e basta.
Lui non c’era più.
"Ti sto lasciando libera, sto facendo quello che mi hai chiesto. Anche perché gli algoritmi...”
"Al diavolo gli algoritmi, al diavolo quello che ho detto, al diavolo tutto!", lo interruppe, illudendo se stessa, illudendo i suoi ricordi che ritornavano a piegarle le costole.
"Non funziona così, non possiamo muoverci in base ai sentimenti. Catastrofi, nascono solo catastrofi.”
Percepì una straziante nausea ritornare a tormentarle la gola e la bocca, il panico colpirle i tratti del viso che non poterono più rimanere impassibili e che si sciolsero come neve buttata su una spiaggia rovente. Si morse il labbro inferiore, serrò le palpebre, e frenetica tirò fuori dalla scollatura il ciondolo che aveva appeso al collo, un semplice cerchio scuro. 
Glielo porse e Vis prese tra le dita la collana, attento a non toccare anche lei.
E il suo respiro non mutò, la sua voce non cambiò, i suoi occhi rimasero dei distanti pozzi blu.
Dove sei?
"La indossi ancora."
Che cosa posso fare?
"Non l'ho mai tolta."
Visone giocò con quel ciondolo e lo girò da una parte e dall’altra, esaminandolo.
"Pensavo che non ti sarebbe piaciuto, però sapevo che dovevo farmi perdonare."
No. No, non dovevi.
"Perché eri entrato un'altra volta nella mia stanza, senza bussare, e mi hai trovato in accappatoio. Ti sei scusato così tanto ed eri talmente dispiaciuto e mortificato che non potevo arrabbiarmi né infierire”, tentò di essere leggera, mentre ripercorreva il ricordo, ma un crampo al petto glielo impedì.
Perduta, amore mio tu sei perduta.
Tu cadi cadi giù.
"Ero molto imbarazzato."
Abbassò il mento e guardarono insieme il pendente che lei non aveva mai mostrato a nessuno: un anello di vibranio, all'altezza del cuore. Affinché quel grumo scuro potesse essere sempre protetto, nelle battaglie e nella vita.
Quando glielo aveva regalato lei non lo aveva capito.
Aveva impiegato molto tempo a comprendere, ad accettare, quanto a fondo lui l'avesse vista e con quanta intensità desiderasse proteggerla dal mondo crudele che le aveva già tolto tanto, - tutto.
Mesi, mesi e mesi: notti di cui aveva perso il conto e mattine silenziose in cui si era crogiolata, strafottente, nel suo antico dolore. Non aveva prestato attenzione a niente altro se non a se stessa e al suo patetico compiangersi.
Poi, quando aveva compreso la realtà e la verità, era già troppo tardi ed era già finito tutto.
Il mondo non ti vuole più.
“Perdonami, Vis. Scusami, per favore.”

Si sporse verso il suo viso, ma lui si mostrò insofferente e sgusciò lontano dal tavolo,
raggiungendo il centro della stanza, vicino al lato del letto e all’armadio addossato alla parete. 
Il suo petto sembrava in affanno, i suoi sistemi compromessi. Le parlò senza guardarla, concentrandosi su un punto qualsiasi dell’intonaco bianco del muro.
"Ogni parola porta ad una conseguenza."
“Quindi non mi perdonerai?”
Ascoltò le sue parole che gli uscivano a fatica, elaborate lentamente, e lei percepì altri calci colpirle la pancia.
Bisbiglia piano piano.
“Nulla deve essere perdonato, non è stato compiuto nulla di male”, lo vide portarsi una mano al petto, in un gesto tanto umano che non riuscì a controllare, “Ho sbagliato io.”
Non render tutto vano.
“Ascolta, Vis, è importante. Io provo qualcosa per-“
“Ti prego, Wanda. Ti prego vattene”, pronunciò dolorosamente quelle parole, coprendosi la testa con le mani, così da nasconderle gli occhi e la fronte.
Si sentì impotente, invischiata in un muco di ragnatele che aveva creato lei stessa, in cui, masochista, si era lasciata fagocitare. Una rete di bugie, di falsità, di cattiverie, di incubi, di autocommiserazione: qualcosa che la stava uccidendo e che coinvolgeva chiunque era sulla sua stessa strada, una trappola mortale di cui aveva fatto scattare troppo presto la molla, ritrovandosi prigioniera e carnefice allo stesso tempo. 
Era stato semplice in passato, quasi divertente, inveire contro la vita e l’universo e urlare improperi contro il destino e contro una fantomatica maledizione pendente sul suo capo. Si era appesa alle mani di lui, perché tra loro era sempre stato un gioco di mani, e invece di risalire dagli abissi aveva voluto tirarlo a fondo, osservare quanto lui avrebbe sopportato per amor suo. Si era incisa sulla fronte la parola sopravvissuta e si era immedesimata tanto bene in quella condizione esistenziale, che non aveva pensato a far sopravvivere qualcun altro vicino a lei. 
Aveva compiuto una cazzata dopo l’altra, una stronzata dopo l’altra, in continuazione, e aveva sbagliato senza fermarsi a riflettere neanche per un fottuto secondo, certa di poter essere perdonata ogni volta. 
Tronfia aveva marciato sul suo amore, incurante lo aveva calpestato, denigrato.
Fino a ritrovarsi all’angolo.
Lì, in quella stanza, con lui che la pregava di andarsene.
“Non so come hai fatto a entrare nell’edifico, immagino solo chi ti abbia aiutato. Ma ora dovresti andartene, conviene anche a te.”
Visione si rifiutò di girarsi e la voce le giunse ovattata, ostacolata dalle mani. Aspettava invano un suo ultimo sguardo, un suo ultimo sorriso, pur sapendo che non ci sarebbe stato, non ora che non aveva più senso. 
Gli aveva promesso di non fargli del male e invece gliene stava facendo, lo stava facendo ancora, continuava a farlo, perché non sapeva neanche iniziare un discorso e spiegargli, provare a giustificare la sua cattiveria infantile.
Aveva trascurato il suo affetto, aveva compiuto delle ingiustizie imperdonabili.
Non voglio lasciarti, non più, non adesso che ho compreso, non adesso che respiro.
Ma devo. Per te, solo per te.
“Mi dispiace. Steve mi aveva consigliato di prepararmi un discorso, Natasha mi ha riso in faccia e Stark mi ha minacciato sulla porta. Tutti hanno provato a farmi capire che avevo oltrepassato il limite e io non ho voluto ascoltare nessuno di loro. Nessuno. Ho voluto, poco poco, almeno una volta, vivere di speranze. Io ti ho fatto del male e mi dispiace, mi dispiace, non mi perdonerò mai per questo, non posso, non ne sono capace. E fai bene anche tu a non farlo, non mi merito altro. Avevo tutto e l’ho capito troppo tardi.”
Riprese a torturarsi l’orlo della gonna e le labbra spaccate, intimandosi di non avvicinarsi, di non abbracciarlo un’ultima volta, di non baciarlo per soddisfare il desiderio mai sopito di sapere quale sapore avessero le sue labbra, di non dirgli che anche lei lo amava, da tempo, da sempre. Intravide malamente le sue spalle, - era di nuovo tutto annacquato -, e accettò di lasciarlo andare.
Per amore tuo, solo per amore tuo.
Non voglio più essere egoista, solo per amore tuo.
“Va bene me ne vado. Sì, vado via. Scusami, scusami.”

Gli occhi presero a bruciarle e non si accorse del tavolino vicino a lei contro cui sbatté le ginocchia ridotte a gelatina, facendo in quel modo cadere il carillon posato all’angolo sinistro. Si rovesciò a terra e si schiuse, lo specchietto rivolto verso l’alto e la povera ballerina che non riusciva a girare contro il parquet. Con i polsi si stropicciò le palpebre e mise a fuoco l’oggetto ai suoi piedi.
Il suo carillon.
La musica occupò il silenzio della stanza e lei si inginocchiò a terra, scovando un disegno ripiegato e nascosto in uno spazio vuoto, oltre le molle della figura della danzatrice con il tutù rosso.
“Non devi aver paura, tu sai la verità più pura... è la ninnananna. La ninnananna che mi cantavi quando avevo troppi incubi, quando nulla riusciva a calmarmi.”
Pescò il foglio con le unghie e lo aprì, veloce, anche se non ce ne era bisogno, non sarebbe stata fermata. Lui non si muoveva e non si spostava di un passo.
"Questo disegno l'ho fatto io."
Un disegno semplice, quasi uno schizzo, con i loro contorni abbozzati e i tratti del volto rilassati, felici. Perché un giorno, piegata dai suoi stessi desideri, aveva iniziato a ritrarre loro due insieme, sereni e innamorati. Il suo volto senza più le lacrime agli occhi.
"Sì."
Ma non lo aveva mai terminato e aveva voluto sbarazzarsene, pentita. Aveva voluto rinnegare ogni cosa, ogni sua debolezza. Dibattersi in una guerra persa in partenza, fermamente convinta di essere immune a qualsiasi emozione.
Che stronza orgogliosa.
"L'ho buttato nella spazzatura tempo fa. Tantissimo tempo fa."
Accarezzò il loro ritratto e delle immagini scoppiarono nella sua testa: codici binari che si rompevano a metà e si scioglievano in coriandoli, stringhe che si arrotolavano su loro stesse e si disintegravano, spezzoni in bianco e nero che cominciavano a colorarsi a macchie, a riprendere vita.
Vis si voltò, le braccia stese lungo il corpo, e sospirò. Lui sospirò e i suoi occhi si schiarirono, le pagliuzze dorate tornarono a contornargli le pupille.
Erano lì i puzzle del loro amore.
Un carillon, una collana, un disegno.
E la fine della ninnananna, le parole che lei aveva sempre trascurato.
Chi è amato è salvo, ricordalo. Ricordatelo, Wanda, è fondamentale.
Chi è amato è salvo.
"Non mi piaceva molto l'idea che noi fossimo... da buttare”, le disse, e poi sorrise. Lui sorrise e lei crollò.
Fanculo alle parole di tutti.
Fanculo al sorriso compassionevole di Steve, agli scherni di Nat, all’arroganza di Stark.
Fanculo agli algoritmi e alla logica.
Fanculo al passato e agli incubi.
Io mi all'ultimo spiraglio mi ci aggrappo con le unghie e con i denti.
"A me non piace neanche adesso”, gli rispose, con foga.
Gettò il carillon e il foglio sul tavolino e eliminò il poco spazio che li separava.
Le loro braccia si incontrarono a metà strada, si sporsero entrambe a cercare l’altro e lei si abbarbicò a lui mentre veniva sollevata e stretta, fortissimo, fino a non avere più respiro. Le salirono talmente tanti gemiti, dalla gola, che li riversò dentro di lui, bocca contro bocca. Erano schiocchi, era uno scontro di labbra su labbra, delle sue mani che vagavano inquiete e che si fermavano con i polpastrelli dietro le sue orecchie, solo per poco. Vis la baciava gentile e le toccava il corpo con una tale venerazione che le fece perdere la testa, la fece impazzire.
Infilò le mani sotto il suo maglione e liberò alcuni bottoni della camicia. Toccò la sua pelle, su e giù, in punta di dita, dagli addominali e poi lungo tutta la linea alba fino a vezzeggiargli i fianchi, senza mai superare l'orlo dei pantaloni.
"Wanda. Wanda."
Lui non riusciva a pronunciare altro se non il suo nome, voleva parlare e lei non gli concedeva il tempo, non voleva pensarci, non voleva fermarsi, non ora, non più.
Non dopo aver rischiato di perderlo per sempre.
Corse ad aggrapparsi alle sue scapole e immerse la testa nel suo petto, stringendolo in un abbraccio goffo.
“Perdonami.”
“Wanda.”
Le parole fuggirono via dalla sua gola, uscirono frettolosamente e male.
"Tu sei l'unico uomo di cui io mi sia mai innamorata. Sei il primo e sarai anche l'ultimo. E mi dispiace per te perché sono una ragazza insicura e a cui la vita fa paura. Tanta paura." Gli baciò tutto il viso. Le guance, gli zigomi, il mento, scese giù lungo il collo e poi la mandibola, gli occhi, il naso, le tempie, la bocca. Non si concesse di respirare, non gli permise di parlare, rimase stretta tra le sue braccia e gli cercò le labbra, gli parlò sulla lingua, si rinchiuse tra il suo corpo e niente altro.
"Ma amo solo te. Solo te.”
Lo amava con una disperazione tale da impazzire, da respirare male, da soffocare a bocca aperta.
Coincideva tutto con lui.
L'unico vero motivo per cui svegliarsi ogni mattina e non sperare di morire presto. L'unica ragione per cui tornare a sorridere anche quando i ricordi la imprigionavano e gli incubi si insinuavano lenti, inesorabili.
Lo amava davvero.
Di un amore che spaventava e che l'aveva spaventata, troppo potente e intenso, un raggio di vita capace di illuminare le ombre del suo passato costellato da morti e rovine, un amore bello e dolce nonostante il buio della sua anima difettosa.
Lui era vita e speranza e tutto ciò che di più meraviglioso esistesse al mondo. 
E lei lo amava, lo amava con ogni rimasuglio di se stessa e lo avrebbe amato, ogni giorno, ogni secondo, fino al suo ultimo respiro.
"Sei mio", gli sfilò il maglione marrone e gli gettò le braccia al collo, "Sei completamente mio."
Dal momento in cui lei era diventata sua.
C'era una pioggia di stelle nei suoi occhi, c'era l'universo intero con la purezza della sua luce.
Ed era bellissimo.
"Wanda", le sussurrò, come in preghiera.
Posò le labbra sulle sue, lo azzittì, e intrecciò le dita dietro la sua nuca, spingendolo contro la sua bocca schiusa, baciandolo come una condannata a morte. Sentì le guance umide e poi un sapore salato sulla lingua e una parte della sua mente fu cosciente del fatto che lei stava piangendo e che stava ingoiando il suo stesso pianto. Si aggrappò alle sue spalle e baciò la sua mandibola lasciando schiocchi lungo tutto il suo profilo, risalendo verso gli zigomi, le palpebre, la fronte. Strofinò la punta del naso sulla sua tempia destra e ingoiò un singhiozzo e poi un altro, un altro e un altro ancora fino a interromperne uno sulla sua bocca, di nuovo.
Era per il modo in cui scioglieva ogni muscolo in tensione, leggera tra le sue braccia, perdendo ogni difesa e piegando ogni paura che le tormentava gli occhi.
L'unico momento in cui dimenticava i suoi muri.
"Wanda, non piangere, non...”
"Fai l'amore con me."
Già prima gli aveva slacciato alcuni bottoni della camicia e ora gliela stava sfilando dai pantaloni, in una piena carezza di tutta la base della schiena.
Lui le alzò il volto coprendole le guance con le mani, ingabbiando tutto il suo viso tra i polpastrelli e i palmi.
"Non so neanche se sono in grado di farlo.”
"Scopriamolo insieme”, gli rispose, di getto.
“No. Perché piangi?”
Avevano le labbra talmente vicine che ogni parola era un altro bacio, ogni movimento era una bellissima tortura che la faceva respirare, finalmente, la faceva respirare dopo sei mesi di apnea. Il sollievo si mescolò ad un improvviso calo di adrenalina che le sciolse ancora di più gli occhi e che le fece comprendere, realmente, quanto aveva rischiato di rovinarsi la vita.
"Sono proprio diventata quello che ho sempre disprezzato. Una terribile bambina piagnucolosa e lamentosa. Vero?"
Le aggiustò i capelli che le si erano attaccati alle labbra e le pulì il viso, strofinando dolcemente i polpastrelli.
“No. Sei solo un po’ spaventata e mi dispiace, credo sia colpa mia. Non era mia intenzione farti piangere.”
Tirò su con il naso e si rifugiò contro il suo collo, stringendogli fianchi e sospirando pianissimo ogniqualvolta lui passava le dita, a rastrello, tra le sue ciocche rosse.
“Quando ti ho visto in quel modo, spento, io non so spiegartelo.”
Prese tra i pugni la sua camicia e si fece male alle ossa, a tutti i muscoli, pur di ancorarsi a lui, pur di abbracciarlo tanto forte, pur di accertarsi che fosse tutto vero.
“Ho creduto di aver distrutto ogni cosa. Io non pensavo nessuna delle stupidaggini che ti ho detto in ospedale, e tu mi sei mancato, ogni giorno, e io non volevo fare del male a te, mai, mai, mai a te, e invece l’ho fatto e ho sofferto, e ti pensavo sempre e ho fatto spaventare Steve e Natasha, un po’ tutti ho fatto spaventare, perché io non dormivo, io non... non riesco a spiegarmi, sono un’incapace con le parole.”
Tacque e si immerse nel suo petto, con l’orecchio destro rivolto verso il suo sterno che si alzava e abbassava accarezzandole la guancia, e che cominciò a muoversi un po’ più veloce. Schiacciò il viso sulla sua camicia sbottonata e contro porzioni libere delle sua pelle rossa, ascoltando la sua voce limpida e chiara.
“Vicino a te, per me, è molto difficile rimanere una macchina. Rendi vivo persino un androide, Wanda. Tu pensi di portare morte e distruzione, insieme ai tuoi passi, non accorgendoti mai della vita che crei, delle emozioni”, le cercò gli occhi tra tutti i suoi capelli aggrovigliati e poi continuò, “E sono davvero desolato di averti rattristato, non volevo. Ma dopo la tua partenza gestire le sensazioni era diventato stancante, deludente. Nessuna mia programmazione sapeva come comportarsi, come applicarsi in una situazione del genere. Ho pensato fosse la soluzione ideale per tutti. Rincontrarti non era assolutamente previsto.”
Leggeva tra le righe, lei lo conosceva, quello che lui ometteva al solo fine di proteggerla. Taceva sulla tristezza dei mesi passati, sul dolore insopportabile che non era riuscito a fronteggiare a causa dei mancati sistemi di programmazione, sull’impossibilità di guardare al futuro con gli occhi di prima. Sfumava, sorvolava, sulla decisione di spegnersi pur di dimenticare.
Forse questo l’aveva enormemente spaventata, non appena era entrata nella stanza, forse questo era il motivo per cui un’ansia cieca ancora le solleticava la pelle, come aghi dritti nelle sue vene. Perché le avevano insegnato, con attenzione, e la vita glielo aveva ricordato ogni giorno, che quando il male supera l’amore inizia il distacco.
Non l’odio, ma il distacco.
E lui in quel modo le era apparso: distante, perso, lontanissimo dalla sua anima difettosa.
Aveva temuto, più di ogni altra cosa, che avessero superato il punto di non ritorno.
“Fai l’amore con me.”
E allora la febbre di toccarlo, la febbre di averlo, il tremito di sentirlo in ogni modo possibile, il desiderio di viverlo dentro di lei così da esser certa che fosse tutto vero.
Così da placare i suoi demoni, così da fermare i suoi incubi, così da provare qualcosa di bello in mezzo a tanto male. Così da sopravvivere insieme in un oceano di niente.
“Fai l’amore con me, Vis.”
Ma lui scosse la testa e allentò lentamente il loro abbraccio, sbattendo le ciglia con poco controllo.
“Wanda, no. Non chiedermelo.”
“Perché?”
“Sai che non posso. Sai che... ti amo e che non posso darti altro, che vorrei darti tutto, ma che non ho altro.”
Wanda indietreggiò di un solo passo e si sfilò la maglietta nera, gettandola a terra vicino alle loro scarpe. Visione tentò di fermarla, di chiudersi i bottoni della camicia, di bloccarla dallo slacciarsi il reggiseno, e invece ottenne solo di riavere lei tra le braccia.
La strinse di nuovo a sé e a lei sembrò di sentire un rumore, distintamente, nel petto di lui.
“Wanda, fermati. È meglio fermarsi, è meglio parlare.”
Aveva paura e rischiava di balbettare, contro ogni regola e programmazione, rischiava di tremare e di mordersi la lingua e lei non voleva questo, mai questo.
Allora lo baciò e si allontanò fino a sfiorare le lenzuola del letto con i polpacci.
“Possiamo scoprirlo insieme, possiamo scoprire tutto insieme. Possiamo, guarda, non sono spaventata, possiamo affrontare ogni cosa, io e te, insieme. E se tu ancora desideri un tempo vissuto con me, io non temerò più il nostro futuro. Se tu lo vuoi ancora, io non fuggirò più.”
Lascia che ti mostri quanto sei umano, quanto sei splendido, quanto sei tutto.
Lascia che io, che ho sempre vissuto nella paura, ti mostri quanto ti amo e quanto voglio essere tua. Lascia che io ti ami come non ho potuto mai, fidati di me.
Lascia noi due qui, insieme, in questa stanza, e che l’intero universo rimanga fuori.
“Non posso.”
Lei prese il palmo della sua mano rossa e lo baciò, stringendogli le dita con forza.
Sollevò lo sguardo e condusse quelle dita alla gonna, al tessuto liscio che le fasciava la pancia, e annuì senza mai smettere di guardarlo.
“Sì. Tu puoi.”
Lo aiutò a slacciarle il bottone e ad abbassarle la cerniera.
Quando la gonna scivolò a terra le sembrò che anche il cuore fosse caduto ai suoi piedi. Di nuovo.
“Se mi vuoi, io sono tua. Tutto ciò che rimane di me, gli avanzi lasciati dopo le ferite dei lutti e delle calamità, sarà tutto per te. Non è nulla di conveniente, non è granché di bello. Ma ciò che è mio è tuo.”
Si sedette sul materasso e non gli lasciò le dita, non lasciò i suoi occhi chiari, la sua bocca sottile.
“Per sempre. Per sempre, Vis.”
Si stese sul letto e trascinò lui sopra di lei.

                                                                                                                                   *********

Voleva rimanere così.
Così, per sempre, per tutta la vita.
Nuda, sopra il suo petto, la bocca premuta contro la sua gola, le mani e le gambe intrecciate.
Così, per sempre.

Mosse l’indice in una carezza piena, a partire dal fianco destro di Visione fino a risalire verso la spalla, verso l’incavo del collo, percependo all’improvviso una strana sensazione al tatto.
Lui, con lei, era pelle.
Era sempre stato pelle.
Eppure adesso i suoi polpastrelli registravano qualcosa di diverso, vero calore di una diversa consistenza, e toccavano un’illusione che non sarebbe potuta esistere.
Wanda sollevò il capo e rimase sbigottita alla vista del volto di un uomo maturo, con i capelli corti e biondi, gli occhi chiarissimi, il corpo sano e perfetto. 
Si sentì stranita, un istante, poi scosse la testa e sorrise, baciandogli il mento.
“Che cosa fai? Ti nascondi?”
Lui fuggì il suo sguardo e si concentrò a risponderle, chiudendo le palpebre stanche e spostando la guancia sul cuscino.
"Ho pensato fosse più umano in questo modo”, le disse, calmo, cauto,-tormentato.
"Mi basti tu”, gli confessò, baciandogli il suo mento e cercando i suoi tratti in quello strano gioco di apparenze e paure.
"Io non sono umano”, lui le rispose, cingendole i fianchi, più disperatamente. Forse perché credeva che quella frase, che quella realtà, l’avrebbe fatta scomparire al pari di cenere al vento. Lo osservò sospirare e quel gesto sofferente contrasse a pugno gli organi ingabbiati tra le sue costole e mangiò la sua serenità.
Lui non lo avrebbe mai detto, no, lui non avrebbe mai ammesso che l’insicurezza non cessava di frastornarlo, non un solo istante, e che era triste, era inquieto, non credendosi degno, e che quindi questi strani pensieri gli impedivano di rimanere sdraiato con lei nel loro letto stretto. 
E amarlo, consolarlo, capirlo, accettarlo erano istinti radicati a fondo nel suo animo e nel suo corpo, era ciò che la spingeva a diventare una persona migliore.
"Sei più umano di me”, gli rivelò, a bassa voce. Si sistemò più comodamente, stesa sul suo addome, e le loro gambe continuarono a intrecciarsi, a giocare, a cercarsi.
“E mi piace il modo in cui mi ami. È gentile”, continuò a svelargli, bloccando con le dita e con le labbra ogni sua contestazione, “E mi piace come mi guardi, come mi osservi, come ti prendi cura di me. Mi piace come mi abbracci, come mi baci, come mi insegni a fare l’amore.”
Lo pregò con ogni gesto di lasciare andare l’illusione e di ritornare se stesso, lo pregò con ogni carezza e bacio di abbandonare certi pensieri e di crederle, di fidarsi di lei, perché non un solo giorno lui si era dimostrato un androide, non una sola volta lui aveva avuto bisogno di fingere certi sentimenti che invece gli uomini di carne avevano dimenticato da secoli e secoli. Ritornò a stringersi al suo corpo e gli mormorò frasi belle, frasi proibite, frasi che non avrebbe mai più ripetuto se non avvolta tra le loro lenzuola.
Continuò, perseverò, fino a quando non vide di nuovo il suo volto rosso e fino a quando non tremò al contatto delle sue mani grandi che vagavano tra le sue scapole e poi giù lungo la schiena. Non si fermò neppure quando le sue ciocche iniziarono a ostacolare i loro baci e il suo petto non iniziò a bruciare.
“Come posso lasciarti andare?”
Altri baci, altri movimenti dolci, sottili, che le scombussolarono calorosamente la pancia.
“Non devi, Vis. Non devi”, affermò, e sollevò il petto, attirandolo a sé.
“Sì, devo. E tu devi fuggire, non sei al sicuro qui, noi non possiamo rischiare oltre.”
Le coprì la bocca con un palmo, le fermò il bacino con un braccio e, riservandole un’espressione mortificata, rafforzò la presa intorno ai suoi fianchi nel tentativo di allontanarla. Lui le parlava, lui desiderava proteggerla, e lei non voleva ascoltarlo, non voleva andarsene, non voleva fermarsi. Solo immaginarlo, solo tentare di formulare il pensiero nella sua mente, la spezzava in più pezzi, la rendeva coriandoli di polvere e fumo inconsistente.
Ti amo, ti amo da morire.
Tu mi chiedi, domandi accorato, come puoi mai lasciarmi andare, ma credi che io sia capace di fare lo stesso? Pensi che io sia in grado di abbandonarti qui, in questo edificio vuoto e morto, e di rassegnarmi a non vederti più, a non viverti più?
No, non posso, no, non possiamo.
Non ora, è troppo presto.
Non ora che ti ho ritrovato, non ora che stiamo insieme, non ora che uscire da questa stanza mi sembra impossibile, se non insieme a te.
“Devi scappare. Sfidare la sorte è avventato e se loro provassero a farti del male, se loro ti toccassero, io non riuscirei a trattenermi. Non potrei. Nessuno al mondo deve più farti del male.”
Lei gli circondò le spalle larghe e gli mordicchiò le dita, chiedendogli con dispetto di liberarle la bocca. Vis l’accontentò, pregandola con gli occhi di fuggire, di mettersi in salvo subito. Incredula, - davvero lui credeva che lei fosse così forte? Riteneva di ferro il suo cuore? -, si avvicinò al suo orecchio.
Temette di non riuscire a contenere se stessa, di precipitare dalla linea sottile che le imbavagliava la bocca e di dirgli tutto, di riversargli i suoi sentimenti senza alcun freno, limite, in una maniera folle e sconsiderata.
Temette di sciogliersi e di ridursi a brandelli tra le sue braccia.
“Insieme. Te lo ricordi? Insieme possiamo affrontare ogni cosa”, si nascose dietro le ciglia e sorrise imbarazzata, “Allora, allora vieni via con me. So che tu hai fatto delle promesse a Stark e che io... io anche ho fatto delle promesse agli altri. Ma possiamo creare del tempo per noi, possiamo rubarlo se necessario. E possiamo iniziare a farlo adesso.”
Deglutì, sonoramente, e avvertì i muscoli pesanti e i nervi al di fuori della propria pelle. Deglutì ancora e riavvertì la paura, il panico che le offuscava le idee e i progetti, i sogni, il futuro. Deglutì piano, rischiando anche così di strozzarsi, e gettò fuori dai denti le parole rimaste incastrate.
“Ti piacerebbe visitare Edimburgo? Ho visto tantissime foto di questa città e sono tutte belle, tutte bellissime. So che è una città fredda. Cioè, sì, il tempo è freddo, tanta tanta neve e pioggia, sai? Però forse le persone sono gentili. O forse non lo sono ed è meglio così, meglio non attirare l’attenzione, meglio essere invisibili. Ma Edimburgo è bella, sono certa che le foto non mentano. Edimburgo sembra speciale, molto speciale.”
Si morse la lingua e bofonchiò qualcosa a cui lei stessa non prestò attenzione, che si dimenticò dopo aver pronunciato, ammutolita soltanto dall’azzurro cristallino dei suoi occhi, dai filamenti dorati dalle strane forme e dalle cangevoli dimensioni intorno alle sue pupille. Represse l’istinto di fare qualsiasi cosa sbagliata e attese, attese, attese. Fu solo mezzo minuto, furono trenta secondi esatti, e ciononostante lei ebbe la percezione di galleggiare in uno spazio di bolle e in un tempo di lancette lentissime e secondi interminabili, i cui suoni scoppiavano e scomparivano a intermittenza.
Attese, il freddo del vibranio adagiato sul suo seno.
Attese, vivendo un po’, almeno un po’, di speranze.
Attese.
E quando lui le parlò, lei si ritrovò a ridere e a piangere, a singhiozzare e a sorridere, senza rendersene conto.
Intuì la verità non appena udì un lieve balbettio precedere le parole di Vis.
“S-sì, Wanda. Sì, voglio visitare Edimburgo.”
La felicità era sempre stata dentro di lei.

                                              

You'll always sing me something new
I will always follow
When I first saw you here I knew
That I was blind before you
Forever, Alekseev





Note
Vi lascio qui delle noti veloci che riguardano la storia.
Prima di tutto troverete all'interno del capitolo delle evidenti riprese di frasi e battute di diversi film Marvel e penso le conosciate un pò tutti, come quella di Stark "Adesso parlano gli adulti" ripresa da SpiderMan HomeComing, oppure quella di Pietro "Sono nato dodici minuti prima di te. Ricordi?" ripresa da Avengers Age of Ultron e infine qualche frase ripresa da Infinity War che non posso scrivere ancora perchè altrimenti mi si spezzerà il cuore.
Questo storia voleva essere un ponte tra Civil War e Infinity War e spero possa esservi piaciuta, io ci tengo tantissimo.
Spero di tornare prestissimo a scrivere su loro due, mi mancano già.
E mi dispiace se troverete errori o refusi nella storia, non esitate a segnalare e perdonatemi se potete ma questa storia ha a sua volta una storia molto molto tormentata dietro.
Grazie a chi ha recensito e a chi lo farà.
Ringrazio ancora infinitamente Miryel, perchè si è beccata così tanti messaggi deliranti nell'ultimo periodo da parte mia e perchè questa storia è qui specialmente grazie a tutti i suoi consigli e le sue opinioni, le sue impressioni, i suoi suggerimenti! Ogni cosa bella qui presente è solo merito suo.
E salutate affettuosamente le comparse di Tony e Peter, completamente vivi e bellissimi grazie alle sue storie.
Infine grazie ad Alekseev, dalla sua canzone è nata tutta questa storia, una delle più belle canzoni d'amore che io abbia mai ascoltato.
A presto :)

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