Leukòtes

di MadLucy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gemma ***
Capitolo 2: *** Fiore ***
Capitolo 3: *** Seme ***
Capitolo 4: *** Frutto ***
Capitolo 5: *** Ramo ***
Capitolo 6: *** Radice. ***



Capitolo 1
*** Gemma ***


Ci era andato direttamente, da un posto all'altro. Dallo studio di ardesia verde, con il contenitore a muro di salviette ruvide come carta da macero, alla cella del Baltimore State Hospital for the Criminally Insane. Lo avevano lasciato passare, avevano tutti visto le sue foto sul giornale. Perlopiù la stessa foto che aveva sul tesserino di riconoscimento, il mento sporco di barba, lo sguardo sprofondato sotto gli occhiali. Non fecero domande, anche se era evidente che andarci a parlare non aveva senso -come se fosse un eremita, un barbone pazzo, qualcuno a cui si accondiscende perchè non farà del bene ma nemmeno del male. 
Hannibal era ancora legato. Non avevano già cominciato a sottovalutarlo. La camicia di forza era un sacco bianco ottico, le cinghie che lo attraversavano per costringerlo al supporto sembravano cinture di sicurezza. E l'espressione era quella posata, paziente, annoiata, di un viaggiatore nella sua auto. 
«Non immaginavo che ti saresti concesso di cedere alla tentazione così facilmente» commentò, leggero, come se non avessero mai smesso di parlare. 
Will bussò sulla barriera che li divideva. A prova d'armi da fuoco, di mostro. Qualcosa per esseri selvaggi e incontrollabili. Già solo questo era un insulto. Ma un insulto non era una pena sufficiente. 
«Il modo in cui ci siamo detti addio non era esaustivo. Tutto qui» affermò. Non aveva paura, e nemmeno rimpianto. Era lo stato d'animo perfetto, perchè non sentiva niente. Tutto quello che provava aveva risalito la spina dorsale e gli aveva morsicato la nuca, ed era rimasto lì. 
L'avere qualcosa da perdere lo aveva reso audace, quasi incrollabile.
«Questo umore sovreccitato non ti fa bene» commentò Hannibal, compassato come un mero educatore anaffettivo.
«Sei sempre stato convinto di sapere cosa fosse il meglio per me» lo accusò Will, senza concludere la frase. 
La cella sembrava la biblioteca appena stuccata di un palazzo d'epoca, con una griglia di scaffali vuoti e fregi dorati. C'era un finto caminetto, e un tavolo alto e sottile come un banco di scuola. Era una scenografia in bianco, da ritagliare, per costruire una casa delle bambole. Con le linee tratteggiate dove dovevano passare le forbici. Come il pennarello di Cordell sul suo viso. 
«Sei arrabbiato, dunque» osservò Hannibal. «Cosa non ti piaceva del nostro ultimo addio?»
Will scrutò quella che doveva essere la sua vittoria. Quella vacuità fessa, quel vuoto glaciale... Quella camicia di forza. Poteva la fortuna di qualcuno iniziare lì, in quel sotterraneo chic di alta sicurezza? Aveva un suo squallore, nonostante la discreta sontuosità. 
«Questo non è un gioco a somma zero. Le carte in tavola sono cambiate» mormorò Will, distratto. Stava osservando la barba di Hannibal, lasciata crescere un po' più del solito. Si vede che non gli permettevano di rasarsi regolarmente. Immaginò quelli che doveva avere a casa, argentei e in ordine nelle scatole come posate, e poi quelli di plastica nera del manicomio. Rievocò la sensazione di carezzarla contropelo.
Prima di te.
Dopo di te.

Hannibal sorrise, commosso. «Quindi lo hai già scoperto.»  
Will socchiuse gli occhi. Il concepimento è un atto oscuro, per certi versi simile alla contaminazione. L'ovulo che fagocita il gamete, come una violenza muta. La scissione di una cellula in due, lo sdoppiamento inquietante come quello di un essere con due teste, la moltiplicazione febbrile, come una raffica di proiettili, come durante lo sviluppo di un cancro. Una formicolante frenesia di affermazione. La morte e la vita si assomigliano sempre un po'. 
«La tazza si è rotta. I pezzi non si rimetteranno insieme mai più» ripetè Will. «Io sto solo cercando di arrangiare i frammenti della distruzione che ti sei lasciato dietro.»
«Non mi sono lasciato dietro solo distruzione» osservò Hannibal. Il suo sguardo era sdilinquito. «Dovrai aggiungere una nuova stanza al tuo palazzo mentale. Fare spazio per qualcosa di nuovo.»
Will aggrottò la fronte, disgustato. La consapevolezza incise la sua fronte, lasciando il segno nella fessura tra le sopracciglia. «Lo sapevi.»
«Volevo che la sua esistenza trovasse principio a Firenze» mormorò Hannibal, pensoso. «Una città le cui fondamenta sono sommerse nell'ispirazione. Il suo fango è argilla. Qualsiasi cosa vi sorga, è intrisa della sua storia, d'arte e di sangue.»
Will pensò alla cupola di Santa Maria del Fiore, un grembo rosso di bellezza brutale. Gli arti sotto sforzo del Ratto delle Sabine. «Solo l'ennesima delle tue manipolazioni.» 
Hannibal ora lo fissava con attenzione. «Quello che credevi perduto è tornato da te, nell'unico modo possibile.» 
Il girocollo di sangue di Abigail che schizzava sulle loro mani. Il suo sguardo sguarnito, bisognoso di tutto. Le sue mani senza forza, che non riuscivano a stringere. 
«Hai commesso un grave errore» asserì Will. Aveva la gola chiusa. Gli era venuto in mente un ricordo d'ombra, del passato, un vicino con appena la licenza elementare che si lamentava che la gatta figliava troppo, e aveva buttato tre micini in un secchio di catrame. Le piccole teste che cercavano di tirarsi su, verso l'ossigeno, mentre le zampette si impastoiavano in quella pece nera e si indurivano come sassi, e morivano di tutto, di fame, di strazio. La vita non germoglia ovunque. Se invischiata in condizioni sfavorevoli, soffoca, si consuma piano piano. Pensò al proprio corpo, guasto, provato, vulnerabile a tutte le intemperie. Pensò ai propri incubi. Lunghi, coscienti deliri, sprazzi in una trafila d'insonnia. Mostri in ogni armadio. «Portare un figlio nel mondo è qualcosa che solo chi sa vivere dovrebbe fare.» 
«Quindi cosa farai, Will?» chiese Hannibal, monocorde, senza curiosità. «Imparerai a vivere? O ti lascerai morire?»
Will impugnò il suo sguardo, lo analizzò, lo trattenne e poi mollò con violenza, come se lo stesse afferrando per quelle stupide cinghie di sicurezza. Sarebbero servite a lui, le cinghie di sicurezza.
«Forse lo hai fatto addirittura apposta, non per creare qualcosa ma per convincermi ad abortire spontaneamente, per causare un nuovo mare di sangue.» Una nuova resa. Una nuova sconfitta. Will, solo, che scopriva di avere perso. Perchè, di nuovo, aveva solo Hannibal, come Hannibal aveva solo lui. E far apparire tutto ciò come una scelta.
Will non aveva più solo Hannibal. Però già intuiva dietro l'angolo un altro tipo di sconfitta. Sarà come me, pensò Will, intenerito e ripugnato. Non voleva che fosse come lui. Che avesse paura di se stesso, che si prendesse a cuore ciò che lo distruggeva. Che tutto lo spingesse come un fato d'inevitabilità. Nessuno si merita di nascere sotto una cattiva stella, di avere già così tanto di sè determinato dall'inizio. 
Hannibal non lo negò con fermezza. «Quella che sta crescendo dentro di te è un'opportunità. Io ne sono biologicamente per metà responsabile, ed effettivamente l'unico responsabile. Rispetterò e supporterò la tua decisione, qualsiasi essa sia. Le tue opzioni sono aperte come quelle di chiunque nelle tue condizioni. Ma ovviamente, se mi sono premurato di lasciare che questo accadesse, è perchè ritengo che i tuoi tratti siano degni di essere preservati.»
Allucinazioni, pavor nocturnus, nevrosi, predisposizione al cancro, pensò Will. «Hai permesso che mi sparassero. Hai cercato di tagliarmi il cranio a metà.»
«Non era a metà, Will» lo corresse Hannibal, bonario, calmo. «E ti ho salvato la vita, subito dopo, se ben ricordi. Ti ho portato a casa.»
Will ricordava. La bocca che sa di chiuso. Le lenzuola spiegazzate. La loro strana distanza. Il folle istinto di chiedere a Hannibal di salire su quel letto, di dormire per sempre. Di addormentarsi e mollare tutta quella merda. Gli occhi di Hannibal dentro i suoi, già benedetti del santo segreto, quando aveva le mani dietro la testa e si era consegnato, le ginocchia sulla neve. Voglio che tu sappia esattamente dove sono e dove potrai sempre trovarmi. Quegli occhi che dicevano qualcosa in più, che lo avevano tormentato per giorni, fino a quel giorno. Quando tutto il piano era diventato chiaro davanti a lui. 
«Non mi vedrai mai più» scandì, come se lo stesse imprimendo sul proprio futuro, e ci volesse forza sufficiente.
Hannibal non parve intenzionato a contraddirlo. Non fissava più lui. Fissava il vuoto, triste, sognante.  
«Avrei cucinato pietanze perfettamente bilanciate rispetto alla quantità di vitamine che il tuo stato richiede.»
Cosa stava cercando di tirare su? Una nostalgia per qualcosa che non sarebbe mai potuto esistere? No, avresti rovinato tutto, pensò Will. Forse ti piace l'idea che saresti riuscito a farcela, ma non ce l'avresti fatta. Lo avresti odiato più di quanto lo avresti amato. Come hai odiato Abigail, alla fine. Anche se è una verità che non ti piace. Che ti spinge a raccontartene un'altra. 
«Non sei mai stato bravo a offrire opportunità a te stesso» dichiarò Will. Si concesse quella vista un'ultima volta, lo sguardo onnisciente e immoto, la banda di capelli color ferro sulla fronte, la linea della bocca, non scontenta, non rassegnata, forse solo assertiva. Gli parve assurdo che un corpo potesse essere stato così vicino e diventare dopo inaccessibile. Bastardo. Amore. Non voleva sapere più niente della sua mente, ma provò quasi un fastidio fisico all'idea di proibirsi la sua immagine per sempre. Girò i tacchi, prese la porta. Un rettangolo di luce profilato nel sotterraneo buio. 
Hannibal disse un'altra cosa, la disegnò nell'ampio spazio che li divideva, come se la barriera non ci fosse. Scagliò quell'ultima freccia. 
Will se ne andò.

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Capitolo 2
*** Fiore ***


Nell'aria tersa e limpida, tutto appariva come dietro una lente più pulita. Il lago ghiacciato era un nero specchio di ematite, rifletteva il gemello in negativo del panorama che, diviso solo da una striscia di neve azzurrata, si profilava sopra di esso: una cresta di pini scuri, che emanava verso il cielo una foschia lattiginosa. I contorni delle cose erano a tratti nitidi, a tratti confusi. Sul sentiero tappezzato di neve, abbaiava un gruppo di cani eterogenei, un bastardino color sabbia, un pastore tedesco zoppicante, un segugio con le orecchie pendule e un piccoletto bianco e peloso. Trotterellavano festosi nei dintorni, annusando i ciuffi d'erba che vincevano la coltre candida e gelata, arrampicandosi sui sassi ammassati lateralmente al sentiero. Una bambina era aggrappata ad un collie pezzato di nero, con la lingua rosa di fuori, e lo inseguiva senza staccarsene, i pugnetti serrati.
«Andiamo nel castello!» ordinò al cane, cercando di salire sul suo dorso, senza riuscirci. 
Da un capanno di legno uscì Will. In testa calzava uno zuccotto verde scuro, che nascondeva tutti i riccioli. «Fai piano.» Portava una cassa di cioppi per il camino in braccio. Richiuse la porta con il piede, poi risalì la lieve discesa del vialetto. I cani lo seguirono, e anche la bambina, drizzando la testa.
«Papà, c'è una macchina!»
Aveva ragione. Un grosso suv nero stava parcheggiando di fronte alla veranda a palafitta di casa. Will aggrottò la fronte, una piccola nuvola di condensa sfuggì dalle sue labbra e si volatilizzò nell'aria; si accertò che tutti i cani rimanessero vicino a lui finchè la macchina non spense il motore. Scese Jack Crawford, con indosso un cappotto di feltro e un cappello a falda larga.
«Chi è quel signore?» domandò la bambina, indicandolo con il dito. Jack sorrise automaticamente, attendendo che i due gli venissero incontro.
Quando furono abbastanza vicini, Will si costrinse a tirare un sorriso. «Questo signore è un vecchio amico di papà, si chiama Jack. Era da tanto tempo che non ci vedevamo.»
I due si abbracciarono. «Vecchio sarai tu, Will.»
Quando si allontanarono, Will prese in braccio la bambina, come per fargliela vedere bene in volto, ma anche quasi in un gesto di inconscia protezione. «Lei è Bianca.» Aveva un paraorecchie di pelo rosa, una giacca invernale rossa e un paio di stivaletti in miniatura. Le guance erano pallide e dolci come burro sotto un paio di piccole trecce. «Facciamo un po' di sidro caldo per Jack?»
Una volta sul portico, Will ne preparò due tazze. Bianca bevve qualche sorso da quella del padre, poi arricciò la faccia perchè si era scottata e volle scendere dal braccio.
«Hai rivisto Margot e Alana, ho sentito» divagò Jack, soffiando sul sidro. 
«Oh, sì, spesso. Morgan e Bianca sono amici. Lei lo picchia e lui, poverino, non si ribella mai. Abbiamo fatto una grigliata a fine autunno.» Will lanciò un'occhiata torva all'amico, quasi rimproverandolo perchè non osava andare dritto al punto. Jack lo ignorò. Stava contemplando il panorama oltre il parapetto di legno, la vallata di neve, le montagne e il pineto. 
«È bello qui. Forse trasferirsi era la cosa migliore da fare.»
«Non l'ho mai dubitato.»
Ci fu ancora silenzio. Evidentemente quel che andava detto era scomodo. Per qualche attimo, lo sguardo di entrambi ricadde su Bianca, che si era seduta sullo zerbino di casa a tirare la palla a Winston, che glie la riportava sempre, zuppa di saliva.
«Non ti ha mai chiesto niente del suo secondo papà?» domandò Jack.
Il viso di Will si piegò d'astio. «È ancora troppo piccola per questo.»
«Però tra qualche anno lo farà, no?»
«Queste sono faccende private.»
«Io sono qui in veste di tuo amico, Will, non di poliziotto.»
«Non è quello che sembra, però.» Will faticava a soffocare il nervosismo. 
«Non hai nemmeno intenzione di ascoltarmi, vero?» indovinò Jack, amaramente.
«Non se intendi parlare di lui.» Will fissò ostinatamente lo sguardo sul paesaggio, tetro. Ora era dalle sue narici che si formava la condensa. Lui lo sapeva già, appena l'aveva visto arrivare. Il passato che bussava alla porta. Che reclamava ciò che lui si era votato per custodire. Li aveva trovati persino lì.
Jack palpò le tasche del cappotto. «Ho una lettera per te. Da parte sua.»
«Adesso quindi sei diventato il postino dei pluriomicidi?» Will si chiese come fosse possibile che il mondo lo assecondasse e gli desse ancora ascolto, persino ora, come se la sua capacità di influenzare la realtà che aveva intorno fosse sul serio soprannaturale. Jack ignorò il suo sarcasmo e gli offrì una busta. Il suo volto era serio.
«Ti prego di leggerla, perlomeno.»
Will la scartò, quasi con disprezzo. Dispiegò il foglio, ma prima di iniziare a leggere le poche righe -redatte in calligrafia impeccabile e svolazzante, irritantemente perfetta- guardò sua figlia che giocava con i cani. Si impresse a fondo quell'immagine, affinchè gli desse la forza. 
Caro Will, abbiamo tutti trovato una nuova vita, ma il passato insorge dalle tenebre, come follia quiescente. Temo che molto presto Jack Crawford verrà a bussare alla tua porta. Ti invito, come amico, a non attraversare la soglia che lui ti propone. È buio dall'altra parte. Ma come padre, non posso fare a meno di pregarti. 
Hannibal

Un avvertimento e un invito al tempo stesso, come per potergli poi rinfacciare di avere accettato consapevole del rischio -di avere accettato il rischio. Will gettò la lettera e la busta sul tavolo, con rabbia. «Cosa significa tutto questo? Cosa diavolo vuole?»
Jack non esitò. «Vederti. Un incontro in privato.»
Will dovette contenersi per non urlare. Come padre. «Credevo che i suoi delitti gli valessero come minimo la sottrazione di ogni diritto di ricevere visite.» 
Jack sputò il rospo. «Sarò sincero con te, Will. Abbiamo bisogno di lui per il caso di un serial killer che non siamo ancora riusciti a prendere. Gli abbiamo chiesto di darci la sua opinione, ma si rifiuta di parlare. Ha posto come condizione-»
«Quindi vuoi usare me e mia figlia come oggetto di ricatto.» Will annuì, in collera. «Ora è tutto chiaro.»
Jack giunse le mani. «Non ha chiesto neanche di vedere la bambina. Sapeva che gli sarebbe stato negato a prescindere.»
«Abbassa la voce!» lo interruppe Will, preoccupato, lanciando un'occhiata a Bianca, che però non dava segno di starli ascoltando. Ora fingeva di pescare pesci invisibili, con una canna invisibile. Attendeva che spuntassero dalle assi di legno con una fissità fiduciosa. «Lui non vedrà mai mia figlia. »
Jack notò quanto avesse calcato sulla parola "mia". «Però lui ha chiesto solo di te.»
Will non capiva se stesse giocando al finto ingenuo o se davvero si fosse dimenticato come andavano le cose ai tempi. «Non hai notato che otteneva da me sempre tutto ciò voleva?» replicò, tagliente. Non voglio pensare mai più a te. «Non gli darò l'occasione di manipolarmi di nuovo.»
«Una visita di un quarto d'ora videosorvegliata, con lui dentro una cella. Che cosa potrebbe mai succedere di così terribile?» insistette Jack, cominciando ad innervosirsi a sua volta. «Per te potrebbe non avere conseguenze, mentre potrebbe salvare la vita a diverse persone. Una volta ti importava.»
Questo era un colpo basso. 
«E l'unico risultato che ho ottenuto è stato non aiutare nessuno e rischiare di impazzire, perchè non ero in grado di affrontare ciò a cui andavo incontro» rimbeccò Will, duramente. «Nessuno ha sofferto quanto ho sofferto io. Nessuno. Non mi aspetto che tu capisca, ma non ti permetto nemmeno di definirmi un egoista. Non posso rischiare, sai quali sarebbero le conseguenze, nel peggiore dei casi. Non lo faccio solo per me. Lo faccio per la mia ragione di vita.»
Solo con l'arrivo di Bianca aveva capito quanto prima il senso di angoscia fosse quasi minimo, quando si trattava solo della sua solitudine e i suoi modesti dolori, paragonato all'idea che sua figlia gli venisse tolta dagli assistenti sociali per piazzarla in casa a degli sconosciuti. Non avrebbe mai potuto permettersi di perdere il senso della realtà. 
Jack non si smosse dalla sua posizione. «Proprio perchè adesso hai lei e sei cambiato non ti lascerai manipolare. Credo fermamente in questo.» 
I suoi occhi erano densi, accessibili, quasi liquidi. Will realizzò che lo pensava sul serio. Aveva captato una vera stabilità in quella tazza di sidro, in quel portico. In quella bambina con il cappotto allacciato giusto. 
«Lo credi tu, ma non io» ribattè, senza lasciarsi commuovere. Guardò oltre il parapetto di legno la piana sterminata del lago Moosehead, la sua vegetazione lilla, la sua collana di montagne basse e lunghe tutt'intorno. La sua pace robusta, di pietra. La sua fortezza. «Non ho niente da dirgli» gli uscì. 
«Però forse lui ha qualcosa da chiederti» insinuò Jack. 
Un motivo in più per non parlare, pensò Will. «Le sue domande non mi suscitano alcuna curiosità.»
«Non sa niente di sua figlia, Will.» Jack assunse un'espressione quasi impietosita, come se gli chiedesse di appellarsi a un senso comune della moralità, o dell'empatia. «Sa a malapena che esiste
Will non si sentì toccato. Voglio che tu sappia esattamente dove sono. Posò la tazza vuota sul tavolo, con un tonfo netto. «Se ci fosse stata la vaga possibilità che lui potesse essere un buon padre, saprebbe di più. La colpa è sua.» 
Jack inalò, richiamando a sè pazienza e spirito pratico. «Hannibal Lecter ha sbagliato molto nella sua vita, soprattutto nei tuoi confronti, sta pagando per questo, e non finirà mai di pagare. La stima ideale dei suoi anni di carcere è l'equivalente di circa dieci ergastoli. L'inizio di questa storia è buio, ma... Bianca ti ha portato tanta felicità.» Si voltò per lanciare un'occhiata affettuosa alla bambina, che sprimacciava con la neve le orecchie di un cane. «In un modo o nell'altro, tu miracolosamente sei felice, ora. Visto che per te è finita bene, tutto sommato... anche se non grazie a lui... non puoi concedergli almeno una conversazione, in cui sceglierai tu cosa dirgli e cosa no?» La questione doveva stargli molto a cuore, pensò Will. Non era semplicemente per profitto che cercava di convincerlo. Non sarebbe stato nemmeno da lui. Qualcosa in Hannibal doveva averlo commosso sinceramente. «Ci aiuterà con il caso e nessuno subirà un torto. Appena dirà qualcosa di inappropriato, interromperemo l'incontro. E tu sarai libero di andartene in qualsiasi momento, se non ti sentirai bene. Ma ti supplico... da amico. Da ex collega.» Jack cercò le sue mani, che lui teneva appositamente lontane, incrociando le braccia. E poi la disse, la cosa dura da digerire, la cosa innegabilmente vera. «Anche se nel peggior modo possibile, anche se le sue intenzioni erano perverse, alla fine dal male che ti ha fatto è scaturito del bene.»
Hannibal gli aveva dato Bianca. Non era possibile immaginare lei senza lui. Non era possibile desiderare davvero di cambiare qualcosa del passato, di non averlo mai incontrato.
L'unica cosa buona che Hannibal avesse fatto nella vita l'aveva fatta per Will. Era difficile pensare di dovergli essere grato per qualcosa. E dove potrai sempre trovarmi. 
«Solo il diavolo sa cosa ne sarebbe stato di noi, se non l'aveste arrestato e ci avesse portati via con sè» mormorò Will. Si appellava a questo, per continuare a condannarlo. 
Jack chiese se poteva accendersi una sigaretta, brutta abitudine, cose che il tempo porta con sè. Si premurò di fare alcuni lunghi passi lontano dalla bambina, si mise sulle scale della palafitta, controvento. Maneggiò un corto accendino verde, sputò il fumo, con amarezza. Will riuscì finalmente a percepire un invecchiamento nel suo sguardo. 
«Non l'abbiamo arrestato. Si è consegnato.»

***
Molte cose erano cambiate in tre anni.
Il sacco bianco in cui Hannibal era rinchiuso tempo prima era scomparso, sostituito da una specie di pigiama intero beige, di seta, dall'aria distinta. Intorno a lui, come per magia, gli scaffali si erano colmati di tomi e volumi, dalle rilegature nere e le vergature che splendevano in controluce, da terra fino al soffitto. Una specie di struttura portante con le ruote, simile a un cavalletto, esibiva degli schizzi a matita. 
Era riuscito ad appropriarsi persino di quello spazio. Era innegabilmente diventato il suo regno. 
Hannibal era di spalle. Quando si voltò, Will potè accorgersi del fatto che il suo volto era ben sbarbato. 
Sì, molte cose erano cambiate.
«Ciao, Will.» La sua voce, la sua espressione, erano meste, come quelle di un amico che si è rassegnato all'idea di aver perso l'amicizia dell'altro, ma che si rende conto delle ragioni, le trova condivisibili, e non prova rancore, solo una tristezza che non osa pretendere nulla per paura di essere maltrattata. «Hai ricevuto la mia lettera.»
Due luci dominavano geometricamente lo spazio, quella gialla e calda che proveniva dal paralume della lampada a muro del corridoio di mogano in cui stava Will, e quella azzurra, gelida, asettica, della cella di Hannibal. Contro il vetro, si scontravano e cozzavano.
Will sapeva che il suo sguardo lo stava esaminando dalla testa ai piedi, anche se fingeva di appuntarsi semplicemente nei suoi occhi. Era pronto all'esame. Si era messo una giacca nera, inusuale, un po' informe, pantaloni dalla stoffa troppo rigida, comprati e indossati una volta sola, che ancora sapevano di negozio. Anche lui voleva apparirgli un altro. I capelli più corti, sforbiciata via ogni ciocca di distrazione, di estro, di sregolatezza. Una faccia pulita, austera, adulta. 
«Hai un dono per questi ermetismi superflui.»
«Quindi l'hai letta prima di bruciarla.»
«Per ricordarmi ancora una volta perchè fosse così importante bruciarla.»
Ora il viso di Hannibal era in ombra e il torace invaso di luce sintetica. Le ombre si annidavano negli angoli dei suoi lineamenti, nelle orbite dei suoi occhi.
«Ma ora eccoti qui.»
«Per aiutare Jack, e basta» ribattè subito Will, duro.
Hannibal fece qualche passo avanti, verso i buchi circolari nel vetro, verso di lui, facendolo inavvertitamente deglutire a vuoto. Era serio e malinconico. Ora il volto era illuminato solo per metà. Quando appariva così inerme era quando era più pericoloso. 
«Sono contento che tu sia venuto. Sei l'unica persona che io volessi vedere. Ogni giorno che ci ha separati l'ho trascorso ad aspettarti.»
Gli occhi di Will erano lucidi, ma fermi. Lo ascoltò, e quando Hannibal smise di parlare aprì le labbra, incerto su come articolare le parole. 
«Visto che sono venuto, ora dovrai dare la tua opinione a Jack su quel caso, dottor Lecter.» Suonava quasi come un tentativo di congedarsi, ma sapeva che non se la sarebbe cavata così facilmente.
«Sì, gli accordi erano questi.» Hannibal lo fissò, come per sbugiardarlo, con occhi sinceri, aperti, disarmati. Cercando di sciogliere di nuovo il mollume della confidenza nello schermo che li divideva. «Non ci chiamiamo più per nome, adesso?»
«Sarò più a mio agio se manterremo un atteggiamento formale» zoppicò la voce di Will, rauca. Guardò il proprio riflesso sul vetro mentre parlava, pallido, al contrario. Non poteva sostenere quello sguardo senza soffrire per l'ipocrisia che implicava. Era troppo tardi per essere guardati così. Quando era stato lui a rovinare tutto. 
Ora Hannibal aveva abbassato lo sguardo, come si depone uno strumento chirurgico che ha fallito. Pareva esserci un filo di lacrime tra la palpebra inferiore e l'occhio. Forse era un effetto della luce. Mosse il mento, leggermente, senza saper che fare, come incassando il colpo e metabolizzandolo. Una triste realizzazione parve muoversi nei suoi occhi. Poi battè le ciglia e abbassò anche le palpebre, un po', come per difendersi. Il silenzio che dipinse tra di loro era come un'accusa. 
«Riesco a sentire il profumo della crema idratante per bambini di mia figlia sulle tue mani. Camomilla, farina d'avena ed estratto di alghe marine.»
Fu difficile rimanere impassibili a questo. Anche questa volta Will aprì la bocca, e ci aspirò il fiato, prima di parlare.
«Sono venuto qui per aiutare Jack» sibilò, senza chiudere compleamente le labbra, lasciando aperta quella fessura paralizzata di odio.
Gli angoli della sua bocca fremettero appena, come se volessero sollevarsi in un sorriso, ma Hannibal si trattenne. Lo sguardo ora aveva un bagliore ironico, di uno che legge la verità dentro di te e ride delle bugie che stai raccontando. Come bucando bonariamente la scenografia. Empatizzando con la verità che Will nascondeva. «Come sta Abigail?»
Ma empatizzare con lui era l'ultima cosa che Will voleva. «Non si chiama Abigail.» La voce ora grattava, portandosi via residui.
«Secondo nome, allora.» Hannibal era tranquillo, a suo agio. «Non potevi farne a meno.»
Will chiuse gli occhi e abbandonò il mento in un cenno esasperato, sospirando con una sorta di stizza incredula e salace. Poi lo dardeggiò con un'occhiata truce, ostile, le sopracciglia aggrottate di disgusto. «Lei non è Abigail. Tu hai ucciso Abigail.»
«Sai che non è vero» obiettò Hannibal con delicatezza. Ma non insistette. «Ha quasi tre anni. L'età che aveva Mischa quando è morta.» La voce non pesò su quel nome, lo lasciò scivolare apparentemente senza dolore.  
Will affrontò il suo sguardo, battagliero ma ferito. «Lei non è nemmeno Mischa. Smettila di infliggere i tuoi fantasmi ai vivi.»
Hannibal sembrava non ascoltare le sue risposte. I suoi occhi erano rischiarati dal devoto fervore che Will aveva intravisto quel giorno di tre anni fa, a Wolf Trap, prima del suo arresto. «Sei un bravo padre, Will?» 
Will non rispose. Il suo sguardo era tagliente, quasi tradito. Glie lo conficcò addosso come un bisturi. Sono l'ammasso dei resti che hai lasciato dietro di te dopo la tua distruzione. Uno che può solo provare, sperare di non rovinare tutto, senza mai potersi fidare di se stesso. Uno che ha paura di far del male a sua figlia. 
«I tuoi geni e i miei combinati insieme hanno prodotto la creatura impura che temevi?» continuò Hannibal. Ora sulla sua fronte batteva il riflesso della luce ambrata del corridoio. 
Le labbra di Will, storte, sigillate, ostinate a non concedergli una parola più del necessario, si scucirono, fecero saltare i punti. «Tu pensi che io e te siamo uguali, ma ti sbagli. Tu non sei mai stato in grado di prenderti cura di niente. Io invece ce l'ho fatta. E tu non tolleri questo. Ti piacerebbe mandare tutto all'aria.» S'interruppe, temendo di piangere.
Hannibal lo osservò, stringendo gli occhi in due fessure, come mezzelune. Ora la sua espressione appariva malevola. «Sapevi che era meglio non riprodursi. Ma lo hai fatto lo stesso. Sei contento di aver corso questo rischio?»
Will ricordò. Tre anni prima. Quando quel peso che ancora non aveva massa schiacciava nella sua pancia. Quella frase che lo aveva colpito alle spalle, mentre se ne stava andando. Mentre credeva di essere già al sicuro. Hai paura che diventi come te. Ma non hai paura che possa diventare come me?
«Lei è tutta la purezza che mi rimane» biascicò Will, «e mi sono ripromesso che riuscirò a proteggerla da te. Quello è l'unico rischio, per noi.» Automaticamente, la sua mano corse alla cicatrice, la linea arrossata, in rilievo, sulla sua fronte. Come un monito. Hannibal soppesò con noncuranza quel gesto. 
«Mi sono perso tre anni di vita con la mia famiglia. Puoi biasimarmi se ti invidio?»
La parola famiglia indispose Will. Forse era quello l'obiettivo. 
«Tu non vuoi che io abbia niente nella mia vita tranne te. Così come hai fatto in modo che l'avessi, troveresti il modo di eliminarla.» Provò il desiderio fisico di aggredirlo, di far sparire quel vetro per potergli strappare via la faccia. «È solo fortunata del fatto che non ti vedrà mai.»
Hannibal fece di nuovo quella faccia delusa, intristita, come se pensasse di essere stato picchiato troppo forte, come per sgonfiare il suo rancore in una sorta di senso di colpa. 
«Sono adorabili i bambini a quell'età. È molto divertente giocare con loro. Hanno ancora tutta la spensieratezza di prima, ma la loro immaginazione comincia a svilupparsi in modo più elaborato.» Non guardava più lui. Il suo sguardo andava oltre quella stanza, attraversava il tempo e lo spazio. «Mischa amava giocare con le melanzane. Glie lo lasciavamo sempre fare. Era una bambina viziata.» Hannibal tacque, annichilito da se stesso. Sembrava che anche la presenza di Will non gli importasse più. Invece, assorto, disse: «Che cosa ha preso da me? Puoi dirmi almeno questo?»
Will esitò, combattuto. Dopo qualche istante di riflessione, aprì la bocca. «Ha una sensibilità insolita. Certe cose che secondo il senso comune dovrebbe considerare tristi, non la toccano. Invece piange per altri motivi, più imperscrutabili. Le foglie che cadono, il fuoco che si spegne. La manifestazione naturale della fine le infonde una profonda sofferenza. Parla in modo diverso dagli altri bambini, poco ma sempre con precisione sintattica. Preferisce i giochi che si basano sulla fantasia a quelli di gruppo. È capace di stare seduta per un'ora immersa nel suo gioco, senza bisogno di niente. È molto sveglia.» Will s'interruppe, come accorgendosi di aver straparlato. Credeva di capire cosa doveva aver intenerito Jack, perchè ora il viso di Hannibal appariva sinceramente commosso. 
«A giudicare da quello che dici, sembra che somigli più a te che a me» dichiarò. Non gli dispiaceva.
«Eppure ti vedo ogni volta che la guardo» sussurrò Will. Poi si pentì di quel che stava dicendo. Si stropicciò il volto, rapidamente, spaventato. «Io... devo andare. Farai quel che Jack vuole da te?»
«Sono un uomo di parola» rispose Hannibal. Aveva un'aria soddisfatta, come se avesse ottenuto esattamente quello che voleva. 
«Allora il mio lavoro qua è finito» dichiarò Will, irrigidendosi di nuovo. Si aggiustò la giacca. «Buona giornata, dottor Lecter.»
Corse via di fretta, quasi temendo di essere trattenuto da una forza misteriosa. Hannibal era di un umore molto migliore rispetto al risveglio. Tornò alla scrivania e si mise a tratteggiare uno schizzo per riprodurre la versione miniata originale di Ah! Sun-flower di William Blake.

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Capitolo 3
*** Seme ***


Non se ne sarebbe accorto, se non se lo stesse aspettando.
Però se l'aspettava, anzi, lo sperava. A quel punto, lo sperava. Altrimenti sarebbe stato tutto inutile.
Ma non era stato inutile. La finestra del piano di sopra si aprì con un tonfo che nella notte poteva benissimo confondersi con lo schiocco di un ramo per colpa del vento.
Chiyoh aveva visto la luce accesa al pianterreno. Will dormiva poco di notte, ultimamente. Preferiva stare in cucina, farsi il caffè. 
Aspettò che ispezionasse ogni stanza del secondo piano, il lettino dalla struttura di bronzo con i pomelli sulla testata che lui aveva comprato dal rigattiere, addossato alla parete di fronte al suo letto, lo scaffale con i peluches di quando era nata. 
Infine, Will la sentì sulle scale. Gli avrebbe sparato un dardo soporifero, probabilmente. Udì la sottile tensione vibrante di una balestra e disse, ad alta voce, senza voltarsi: «Non è qui.»
Silenzio. Poi, il rumore della corda che si rilassa.
«Dov'è?» La voce di Chiyoh era monocorde, quasi priva d'intonazione. «Non ti farò del male se me lo dici.»
Will sorrise. Dal momento che Bianca era in salvo, lui aveva già vinto. 
«Si capisce che non hai figli» disse semplicemente. 
Lei scese gli ultimi gradini, per fronteggiarlo. I suoi capelli lisci e neri erano raccolti, e il suo volto rimasto uguale all'ultima volta che l'aveva visto, come una fotografia -gli zigomi marcati, lo sguardo riottoso. Capì che quella sera aveva fallito, e serrò gli occhi in due fessure.
«Non puoi tenerla lontana dal suo sangue. Stai solo guadagnando tempo.»
«Il tempo non ha prezzo» rispose Will. «Guadagnarlo è una gran cosa.»
Tacquero ancora. Chiyoh adesso era a disagio con il proprio incarico. Si guardò intorno, era rimasto un minuscolo calzino giallo a pallini verdi sul coperchio di stoffa di una scarpiera. 
«Non stai facendo il bene di nessuno» dichiarò. 
«Hai ragione.» Will si versò ancora un po' di caffè, fece un sorriso spettrale prima di berlo. «Hannibal è riuscito a portarla via da me, in un modo o nell'altro.»
Chiyoh lo giudicò con un'ultima occhiata, algida o forse impietosita. Infine, dopo essersi aggiustata il nodo morbido della sciarpa cremisi, si diresse verso la porta. 
Parve indecisa, poi parlò. «Non si arrenderà.»
«Sono pronto.»
«Forse nessuno di noi lo è. Questo è qualcosa di nuovo.»
«La paternità?»
Chiyoh aprì la porta. Il gelo della notte invernale, profonda come inchiostro, le fece socchiudere le palpebre.
Prima di scivolare fuori, replicò: «Il ritorno alla singolarità.»
Su un aereo che volava sopra l'Oceano Atlantico, Morgan Verger dormiva, il capo ricoperto di uno strato di capelli bruni simile a raso affondato nel sedile di pelle tortora, la bocca schiusa, la fronte che ogni tanto si agitava. Margot, dal sedile davanti, si voltò a controllare il suo sonno, accarezzandolo con lo sguardo. Erano passate quattro ore di volo, ce ne sarebbero volute altrettante per giungere a destinazione. Seduta accanto all'altro bambino, Bianca teneva il naso schiacciato contro l'oblò. Le sarebbe piaciuto vedere quando l'aereo sarebbe entrato in una nuvola, ma con il buio era impossibile distinguere alcunchè. Indossava ancora il pile arancione foderato a quadri bianchi e blu, di una taglia più grande, che le aveva messo suo padre prima di farla partire. Se lo tirava su coprendosi metà viso e ne annusava lo scollo. Margot fu assalita da un moto di tristezza.
«Tesoro, hai fame? Vuoi un'altra ciambella?»
Bianca fece segno di no. Disegnò spirali con il piccolo indice sulla condensa del vetro, assorta. «Quando vediamo i cani?»
«Domani. Quando arriveremo, dovrai fare un bel sonnellino.» La promessa di avere la compagnia di cani di razze finora a lei sconosciute era stato l'unico modo per farla partire senza piangere, e anche così solo con la bugia di tornare presto a casa. Ma il suo nuovo passaporto lussemburghese, rilegato in velluto blu, si trovava nella borsa di Margot. 
«Anche papà vuole vedere i castelli» annunciò Bianca, assonnata, senza smettere di premere il musino impallidito dall'altitudine sul vetro freddo. La condensa del suo fiato si confondeva con quella delle basse temperature. Sembrava che stesse consegnando quel messaggio alla grotta nera del cielo.
«Invieremo una bella cartolina al tuo papà» promise Margot, con la morte nel cuore. Era un compito ingrato, però era per Will che lo stavano facendo. Non era riuscito a sostenere lo sguardo quando la bambina era salita in macchina, aveva dovuto voltarsi. Quella smorfia per ingoiare il rigurgito del pianto, quello strapparsi come un cerotto. Quella piccola violenza a se stessi.
Margot avvertì la mano di Alana posarsi sulla sua. Era ancora truccata bene, con i boccoli ordinati sulle spalle, nonostante il viaggio, il check in. Solo lei ne era in grado. 
«Perchè non provi a dormire un po' anche tu?» le suggerì. «Hai un viso stanchissimo.»
Margot si voltò e posò di nuovo la schiena sul sedile, sospirando. «La pista di atterraggio è sicura?»
«Assolutamente sicura.» Alana posò la testa sulla sua spalla. «Adesso devi solo pensare al ristorante in cui vuoi mangiare domani sera.»
Margot le sfiorò i capelli, dolcemente. Ma c'era il ferro nei loro volti. Qualcosa di inesorabile, e inattaccabile. Erano intenzionate a vincere, e avrebbero funzionato come una macchina da guerra. Erano abituate a combattere contro quella minaccia, sapevano quali erano le strategie, i punti deboli. Si trattava solo di rinserrare le maglie di ferro. Ma erano organizzate, e determinate. E mentre affidavano il loro peso alla massa di titanio dell'aereo, non avevano paure nè incertezze, non erano bestioline in fuga. Erano i predatori. Lupi, con un forte senso di branco. 
Nel sedile dietro, Bianca si guardava i piedi, le scarpine che suo padre ancora non le aveva insegnato ad allacciarsi. A volte pensava che sarebbe bastato avere il coraggio di lanciarsi in quel vuoto nero che li circondava per bucare le nuvole e tornare da lui. Insieme al sonno, le saliva in testa un brutto presentimento. Si grattò gli occhi con le nocche. Avrebbe voluto dormire, ma vegliare la notte le sembrava l'unico modo per non tradire il rito del bacio della buonanotte di suo padre. Non voleva addormentarsi senza di lui. 
Ma i pensieri di Will erano tutti per lei, per il suo corpicino in balia di una scatoletta di latta, molto lontano da lui, irraggiungibile, infagottata in quel pile troppo grande, e quella fede che ora appariva irrazionale, di sperare che là fosse al sicuro, che ce ne fosse più certezza che stringendola tra le braccia. Aveva raccolto i suoi calzini in giro per casa, li aveva messi in lavatrice, aveva pianto. Si era addormentato per sfinimento, con la luce della cucina accesa. E anche Bianca si addormentò senza accorgersene, con il faretto dell'aereo sopra il suo sedile, come un occhio artificiale, puntato sulle sue palpebre crollate. 
Invece, Alana e Margot facevano la guardia, come statue, come soldati, senza mai scoprire il fianco. La loro resistenza silenziosa si surriscaldava come metallo nella notte. 

***
«Il telefono» avvertì Margot, dalla cucina, in direzione del corridoio. Alana quindi non la raggiunse e, dopo essere uscita dal suo studio, si diresse subito verso l'apparecchio fisso, verniciato color crema, che tenevano in fondo al corridoio. Dalla cucina provenivano gli schiamazzi dei bambini, il rumore degli strofinacci e dei cucchiai contro le pareti delle terrine. Erano quasi le sei di sera domenicali. Alana aveva appena finito di riordinare gli appunti riguardo al caso di un paziente ricevuto quella mattina, e moriva già di fame. Riconobbe subito il numero di Will. Di solito non chiamava a quell'ora. 
«Pronto?»
«Ciao, Alana.» La voce le arrivò sfibrata, stanchissima, opaca come sotto uno strato di polvere. 
«Ciao.» La donna fece una piccola pausa. «Pensavo che avessi appuntamento domani per la videochiamata con Bianca.»
«Purtroppo non c'è tempo da perdere.» La voce grattò ancora nella linea telefonica. «Lì è tutto a posto? Non avete notato niente di strano?»
Alana si agitò. Si accarezzò il fianco della gonna a tubino a vita alta, molestata dal piccolo fastidio di quell'osservazione. «No... certo che no.»
«La sorveglianza non è compromessa? Qualche videocamera rotta di recente, qualche addetto assente per motivi vari?» Il tono di Will si fece incalzante.
Alana spostò il peso da un tacco all'altro, a disagio. «Mi spieghi cosa sta succedendo?»
A quel punto, Bianca si affacciò dalla soglia della cucina. Indossava un grembiule azzurro sopra la camicetta della divisa scolastica, spolverato di farina, e aveva un baffo di cioccolato. «C'è papà al telefono?»
«Sì» ammise Alana. «Ti passo Bianca, ok?» aggiunse rivolta a Will.
«Sì, va bene, passamela» concluse lui, ancora inquieto.
La bambina corse fino al tavolino, poi prese la cornetta dalle mani di Alana. «Papà!»
«Ciao, piccola» sospirò Will, in un soffio di sollievo, uno spiffero di gioia in mezzo all'ansia che provava. «Come stai, com'è andata la giornata?»
«Abbiamo fatto il picnic sul lago, abbiamo mangiato tutta la crostata, quindi adesso stiamo facendo nuovi barattoli di marmellata. La marmellata delle more del giardino!» Sembrava molto entusiasta dalla prospettiva.
«È fantastico» annuì Will. «Tenetemene un po' da parte, ok?»
«Sì!» Bianca saltò. «E venerdì a scuola sia io che Morgan abbiamo preso ottimo.»
«Ma siete davvero bravissimi» la elogiò il padre. Come al solito, ascoltare tutto ciò che si era perso, e il fervore con cui lei si accingeva a raccontarlo, gli faceva percepire tutto il dolore di non poterle stare sempre accanto. 
«Lui è più bravo in tedesco, io sono più brava in francese» continuava Bianca. «Margot vuole comprare un nuovo dondolo per il giardino e adesso dobbiamo scegliere quale dal giornale del negozio. Quando vieni a trovarmi, papà?»
Will si sentì stringere il cuore. «Presto... presto, piccola, te lo prometto.»
«Quanto presto? Tipo domani?» La sua voce non era nemmeno speranzosa.
«No, non tipo domani.» Il padre dovette fermarsi per non farle sentire che gli veniva da piangere. Presto lei avrebbe iniziato a credere che non gli importasse, che non le volesse bene, quando l'unica cosa che desiderava era riaverla a casa con sè. Ma iniziava a temere che non sarebbe mai successo. 
Bianca abbassò lo sguardo, mogia, fissando le calzine ricamate candide che indossava ai piedi, e respirando nella cornetta. «Porti anche i cani?»
Will riuscì a sorridere. «Anche i cani, sì. Sentono la tua mancanza anche loro.»
«Tutti?»
«Tutti, promesso.»
«Stanno bene?»
«Stanno bene, certo... Mandrake ha infilato la zampa in una trappola per topi, ma sta bene, non è nemmeno rotta...»
«Che scemo che è!» replicò Bianca. «Poteva farsi male... Margot ha detto che se continuiamo a prendere bei voti anche lei ci prenderà un cane.»
Will avrebbe voluto rimanere là ad ascoltare la sua vocina acuta, ma era un'emergenza. «Tesoro, puoi passarmi di nuovo Alana? devo dirle una cosa.»
La bambina lo fece, ma non si mosse, aspettando di poter parlare ancora con lui. 
Alana riprese la cornetta. «Will?»
«Lui è scappato, Alana. È evaso.» La sua voce era controllata, ma vibrante di panico. 
Alana si sforzò di non far trapelare paura, per non spaventare Bianca, che la osservava con aria d'aspettativa. «Come?»
«Che importanza ha?» Will suonava di nuovo esausto. Doveva aver trascorso delle brutte ventiquattr'ore. «È molto probabile, se non certo, che conosca già la vostra collocazione attuale. Dovete... andarvene. Via di lì. So che è difficile, vi siete ambientati e tutto, soprattutto sarà traumatico per i bambini, ma... avete un giorno per fare i bagagli. Si starà già dirigendo lì. Lasciate il grosso del trasloco a qualcun altro, ma la priorità è filarvela.»
Alana annuì rapidamente. «Ho capito.»
Ma fu quando restituì la cornetta a Bianca che la paura, con la sua lingua umida, tornò a spremerle le viscere. Oltre al problema sempre esistito del dover proteggere la bambina perchè le era stata affidata, ne subentrava uno nuovo. Ora la amava come se fosse la sua seconda figlia. 
E si profilava la non improbabile possibilità che non sarebbe stata capace di difenderla.

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Capitolo 4
*** Frutto ***


Helsinki, Finlandia. Dal minimale edificio candido dalle forme classiche di un collegio, uscì un drappello di militari. La scorta era chiusa sopra delle esili figurette, e le condusse fino ad una vettura affusolata e lucente, parcheggiata di fronte all'edificio. Appena la portiera si aprì, due bambini scivolarono sui sedili di pelle. Indossavano la stessa uniforme: gonna e pantaloni a quadri neri e rossi, camicia bianca a maniche corte, colletto rigido e una piccola cravatta. Uno era un maschio, con capelli castani tagliati a spazzola e occhi chiari, vigili, paffuto e con le ciglia lunghe. L'altra era una bambina, e due trecce sottili come spaghi, dalla luminescenza biondo scuro, scendevano perpendicolari ai lati del suo viso. La loro trama era fitta e serrata, quindi erano fini e compatte. I capelli erano tirati e pettinati anche sulla fronte, in due bande. Guardò fuori dai finestrini oscurati, davanti ai quali le guardie del corpo vigilavano armate in attesa della partenza dell'auto. In quel momento, dopo di loro, anche tutti gli altri piccoli allievi uscivano dalla scuola. All'estremità opposta dei sedili posteriori, sedeva la loro governante, una giovane ragazza svizzera poliglotta i cui maggiori pregi erano le sue abilità di arciera e il non trovarsi mai dei fidanzati. 
Bianca toccò il gomito di Morgan. «Fallo, ora» bisbigliò. 
Lui s'imbronciò. «Adesso? Non ho voglia di fare tardi per pranzo.»
«Ti prego! Sarebbe solo stavolta, questa settimana.»
Morgan ruotò gli occhi verso il tettuccio dell'auto, ma non ribattè. Dopo qualche istante, tossì. Poi di nuovo. Poi di nuovo, convulsamente.
La governante si girò. «Ma cos'hai? Non avrai mica mangiato un'altra ciliegia?»
Lui fece un'espressione colpevole. «Era uno yogurt alla ciliegia! Eevi ha detto -cough!- che non mi avrebbe fatto nien- cough!»
«Vado a prendere il kit per l'allergia nel suo armadietto» si offrì Bianca, aprendo la portiera. 
«Fai in fretta!» sospirò la governante Mathilde.
Appena attaccò a correre, le guardie si mossero. 
«Aspettate pure qui! Si tratta solo di entrare a scuola per un minuto» li fermò Bianca, con un cenno. Poi riprese a correre fino al portone. Ma invece di dirigersi verso la fila di armadietti di legno di pino intagliato, andò verso l'uscita posteriore. Stando bene attenta di evitare l'area compresa nel raggio delle telecamere di sicurezza, che ormai sapeva proiettare a terra con il pensiero a memoria, raggiunse il muretto che divideva la stretta striscia di cortile posteriore alla strada. Dopo essersi sfilata i sandali con gli occhielli smaltati di rosso cremisi, scalò agilmente il muro, sporcando le calze bianche sul muschio. Ricadde morbidamente dall'altra parte, e ispezionò veloce gli alberi dell'aiuola di un parco pubblico che sorgeva al limitare della strada. Nel piccolo cavo circolare di una betulla, trovò senza problemi un foglio ripiegato su se stesso. Allora, con un mezzo sorriso, lo infilò dentro la fascia della gonna, sotto la camicia. Più rapidamente che potè, rifece la strada all'indietro fino alla macchina, all'interno della quale Morgan si era quietato.
«Mi è passato subito, era un attacco debole» annunciò.
«Meglio così,» rispose Bianca, «era finito il cortisone.» Poi, mentre l'auto partiva e la governante ancora borbottava in francese per il ritardo, gli sussurrò: «grazie.»
Morgan non disse niente. Per lui, l'importante era che Bianca sapesse cosa stava facendo. 
A pranzo, tutto andò come al solito. La triglia con melanzana e guazzetto di provola era buona, anche se un po' troppo zuppa di limone, e forse indietro di sale. Alana chiese com'era andata a scuola, e Morgan parlò del suo tema sulla rivoluzione francese che aveva fatto battibeccare l'insegnante di storia e il bibliotecario. Margot disse che il pomeriggio seguente sarebbero andati alla scuderia, se non avevano troppi compiti. Bianca si sforzò di non essere silenziosa, per non destare domande, e parlò della gita a Rovaniemi fissata per l'inverno seguente, al Santa Claus Village e al parco zoologico famoso per le renne. Alana e Margot si guardarono e poi risposero che ne avrebbero discusso con i professori, per capire se era possibile assicurare le loro condizioni speciali di sicurezza anche in gita e farli partecipare. Bianca non fu impaziente. Aiutò la cameriera a sparecchiare, chiacchierò riguardo ai vicini di casa con Margot sul divano, fece un po' di compiti sul tavolo del salotto, e solo allora salì in camera.
Si chiuse la porta alle spalle, si assicurò che nessuno stesse salendo le scale per cercarla -non chiudeva mai la porta a chiave. Era decisamente troppo sospetto- e infine estrasse il foglio, e lo spiegò.
Era un suo ritratto. I lineamenti del suo volto affioravano, delicatamente tratteggiati. I capelli erano sciolti, le labbra schiuse. Era molto bello. Sotto, in curata calligrafia d'altri tempi, c'era scritto: Dimmi se trovi che la realizzazione sarebbe migliore utilizzando una Grafwood 775 h3.
Bianca annusò il foglio. Sapeva di fusaggine. La carta era bella, opaca, come foglie rare messe ad essiccare. Cercò di immaginare la scrivania su cui poteva essere stata appoggiata. Gli occhi che vi si erano posati sopra. Prese un nuovo foglio, la sua carta intestata personale che usava per le lettere. Scelse la sua stilografica migliore e scrisse: Io userei una Staedtler Noris 2h mediamente temperata. 

***

«Permesso?»
«Avanti.»
Morgan entrò e si sedette sul suo letto, osservandola pensoso. Bianca era di fronte ad un comò da toeletta bombato, si spazzolava i capelli. Portava alle orecchie i piccoli rubini che le aveva regolato Alana per i dodici anni. Il vestito era bordeaux, a tubino, avvolgente. Era molto bella, ma concentrata, quindi non sorrideva. 
«Quindi ci vai?»
«Ci vado. Ti ricordi cosa abbiamo concordato?»
«Sì, certo.» Quando non volevano correre il rischio di farsi capire, nel caso in cui magari una delle loro madri intercettasse qualche parola passando di fronte alla stanza, parlavano in russo. 
«Come mai hai deciso di farlo?» La voce di Morgan era ferma.
La mano di Bianca scendeva morbidamente sui corti capelli a caschetto, arrotondati sul mento. La spazzola, dalle setole soffici, li accarezzava più che districarli, in modo regolare e cullante.
«Tu sei così sicuro che non lo faresti, se potessi?» replicò.
Morgan scosse il capo, in silenzio. Dopo qualche istante, aggiunse: «Starai bene?»
Bianca posò il manico della spazzola sulla superficie della toeletta. Si voltò a sorridergli. C'era qualcosa di antico nel suo viso, e di fossilizzato, di impresso. Come se fosse un viso che sopravvivesse nei secoli. 
«Mi conosci.» In sottofondo, quasi impercettibile, aleggiava L'Aria Da Capo di Bach. 
Morgan continuò a fissarla, come ipnotizzato, mentre con un pennello sottile si segnava piccoli punti di profumo nelle fossette del collo. «E poi mi racconterai tutto?»
Bianca si alzò, scivolò in un paio di scarpe alte, con solo una fascia di piccoli cristalli a sostenere il piede, poi si allungò nell'armadio per scegliere un bolero di seta. «Se potrò.»
Quando uscì, passando per la fenditura della siepe per non rovinare il vestito, l'allarme non suonò. Poco dopo, Alana si aggirò per la casa fino a trovare Morgan.
«Tu e tua sorella siete pronti per il teatro?» intimò. 
«Bianca non viene» rispose lui.
«E perchè no?» Alana lanciò un'occhiata al secondo piano, perplessa.
«Avevo promesso di non dirvelo» confessò Morgan, dopo qualche istante, «ma... ha il ragazzo. Quindi lasciatela un po' in pace.»
La madre gli restituì uno sguardo sconvolto.
Intanto, Bianca era già salita sul taxi. Scandì il nome dell'hotel a beneficio dell'autista, poi si godette il viaggio in macchina notturno della città. Quando terminò la corsa, non si preoccupò di ottenere indietro il resto. Vide il proprio riflesso evanescente nelle vetrine ambrate dell'hotel, ed entrò. Il pavimento era un mosaico a scacchi. Raggiunto il bancone della reception, chiese una copia delle chiavi della suite 308. L'uomo le disse che era attesa, e le indicò il quarto piano. 
Bianca bussò alla porta.
«Avanti.»
La suite era scarlatta, composta da due stanze comunicanti. Quella principale aveva tutta l'aria di una sala da pranzo, con un tavolo di vetro circolare apparecchiato. In mezzo, un candelabro. Suo padre era già seduto, e sorrise, discreto. «Buonasera.»
«Ciao.» Ormai del tutto dimentica della grazia e dell'alterigia, Bianca raggiunse l'altra sedia. Il suo cuore batteva il doppio più veloce. Non poteva vedersi, ma i suoi occhi apparivano molto più grandi, quasi spalancati. «Come stai?» aggiunse, incerta.
Il sorriso di Hannibal si allargò. «È una splendida serata.» I suoi occhi valutarono il vestito. «L'hai cucito tu?»
«Disegnato» lo corresse Bianca. Guardò la cupola d'acciaio sul proprio piatto. «Posso alzarla? Sto morendo di fame.»
«È lì solo per effetto scenografico, non intende certo ostacolarti.»
La alzò. Rimase sbalordita. Si aspettava un piatto elaborato che magari avrebbe fatto fatica a mangiare, invece c'era un hamburger con patatine fritte. Il profumo era delizioso.
«Non volevo sbagliare» si giustificò Hannibal. Il suo sguardo era sollecito, come se dovesse verificare che non fosse velenoso, ma allo stesso tempò alzò la propria cloche, rivelando uno spezzatino con erbe aromatiche. Bianca addentò il panino, vivacemente. 
Hannibal la interrogò riguardo alla scuola, poi mise alla prova il suo lituano. Una volta superati quei test, intrecciò le mani sul tavolo. 
«Sai che cosa dobbiamo impegnarci per realizzare, vero?»
Bianca finì di pulire il piatto e lo guardò. «Sì.»
«Credi che potrebbe essere risolto entro un anno?»
«Non lo escludo, perchè?»
Hannibal sorrise pacato. «Perchè sarebbe saggio prenotare con largo anticipo, in determinate località.»
«Stai già pianificando le nostre vacanze, tèvas?»
«Certo che sì. Abbiamo tante vacanze da recuperare.»
Bianca gli offrì l'ultima patatina fritta. «Dobbiamo farlo capire anche a mamma.»
Hannibal l'accettò. «Sentirlo dire da te farà la differenza.»
Ma Bianca non ne era sicura. «Lui è... molto arrabbiato con te.»
«Lo so» si limitò a dire il padre. Poi si fece dire che odore avevano i suoi dopobarba ultimamente.

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Capitolo 5
*** Ramo ***


Bianca si guardava intorno con meticolosità infantile. I suoi occhi verdi e gialli, quelli copiati dal viso di Will, scivolavano sulla superficie scura e levigata di ogni mobile. Lo sguardo soppesò il lampadario a sospensione a forma di cilindro grigio perla, un treppiede di fil di ferro con una piantina verde penzolante, una grande stampa in bianco e nero del Duomo di Milano. Un appartamento minimale e alla moda, anche troppo grande per una donna sola. Scale imponenti, credenze laccate antracite immense, vuote, con dentro sacchetti di curcuma, avena, cereali sofisticati per cene impegnative, ricette sprecate per un solo commensale. 
La donna era seduta di fronte a lei, su una poltrona identica alla sua. Un paio di pantaloni color cammello a vita alta e una camicetta di tessuto spesso, rigido. Uno chignon di capelli ancora biondi, ma striati di bianco. Sembrava un capo di stato, in quel lusso severo. «Sai perchè Will ha voluto che io e te avessimo questa conversazione?»
Le ha offerto un bicchiere d'acqua, di succo di frutta, Bianca ha rifiutato con un gesto fermo. «Perchè vuole accertarsi che io stia bene» rispose, con leggerezza. Poi vide, nel viso di Bedelia, l'aspettativa di una risposta più sincera. «Perchè la vita insieme a lui potrebbe essere diversa rispetto a quella che ho vissuto finora con Alana e Margot» aggiunse. Ci pensò qualche istante prima di ricordare l'ultima cosa: «Perchè loro hanno ricevuto una telefonata» completò.
«Giusto» approvò finalmente Bedelia. I suoi capelli erano splendenti, e i suoi occhi color del mare. «Ti dispiace lasciarle?»
«Sì, certo che mi dispiace» annuì Bianca, unendo le mani in grembo, dondolando i piedi leggermente. «Però sono a favore del trasferimento da papà.»
Bedelia non distolse lo sguardo da lei, nemmeno un attimo. I lineamenti erano distesi. Doveva usare qualche crema costosa sulla pelle. «Hai vissuto con loro e il figlio.»
«Morgan» confermò Bianca. 
«Morgan. Avete molto in comune, tu e Morgan.»
La ragazzina non rispose. Dopo un attimo di silenzio, raccontò qualcosa di casuale. «È come un fratello, ma temo che si stesse innamorando di me. È un bene che ci siamo allontanati.» 
Bedelia non cambiò discorso. «Sai chi era il suo padre biologico?»
Bianca la fissò in modo strano, quasi accusatorio. Infine rispose: «Sì.»
«E sai qual è il tuo?»
Questa volta non ci fu esitazione. «Sì.»
«Molto bene.» Bedelia non sorrise. La sua voce era pacata, e non cambiava mai tono, nè di timbro nè di altezza. «Se avessi la possibilità di incontrarlo, accetteresti?»
Bianca accavallò le gambe. I capelli biondo scuro le incorniciavano gli zigomi alti, dritti come spaghi. Aveva un viso lungo, solenne, poco adolescente, poco americano. «Sì. È mio padre.»
Bedelia non le diede a vedere se la sua risposta era giusta o sbagliata. «Che cosa gli diresti?»
Bianca non aveva dubbi. «Che non ho paura di lui.»
«Ed è la verità?»
«Sì.»
Bedelia tacque. Il viso era una maschera di ceramica, imperscrutabile. Ma il collo aveva delle rughe. Quando sembrava che non potessero più venire parole tra loro, «Sai chi era Abigail Hobbs?»
Bianca inclinò il viso, incuriosita. «Lei sa molte cose riguardo la mia famiglia.»
Fece un sorriso stentato con le labbra di rossetto color carne. «La gente lo crede, ma alla fine so solo quello che dicevano i giornali. Il resto è una mia supposizione.»
«In che rapporti era con mio padre?»
«Quale?»
Bianca inarcò un sopracciglio, ironica. «Quello cannibale.»
Bedelia la osservò, senza scomporsi. Si soffermò sulla forma regolare di un orecchio -l'altro era coperto dai capelli- e sulla punta del mento. «Ero la sua psichiatra.»
«Allora lo conoscerà molto meglio di me» proseguì Bianca. «Quindi, capirà da sola la differenza tra me ed Abigail Hobbs.»
La donna incassò la risposta. «Cosa vorresti fare in futuro, Bianca?»
«Qualcosa con le lingue» rispose lei. «O con la matematica.»
«Lascia che ti dia un consiglio.» Bedelia scosse il polso, fece tintinnare un grosso bracciale d'oro. «Non cedere mai alla tentazione di poterlo comprendere. È un tentativo che conduce a una strada piena di dolore, che Will Graham sta ancora attraversando.»
Bianca sorrise senza allegria e fece un cenno regale del capo, come una concessione. «Grazie del consiglio, dottoressa.»
La telefonata ricevuta da Alana durante la mattinata di qualche giorno prima era stata da parte di Hannibal Lecter, che le aveva detto di ringraziare Will per aver avuto l'accortezza di scegliere un nome di origine italiana. Non c'era stato modo di rintracciarla. Da allora, si era predisposto il trasferimento di Bianca.
Margot e Alana entrarono dopo di lei, per sentire il responso. Bedelia guardò la sedia dove la ragazza era stata seduta fino a poco prima. 
«Reagisce come una qualsiasi figlia che non abbia mai conosciuto uno dei suoi genitori» decretò. «Non ho riscontrato niente degno di nota.»
E fu così che Bianca salì su un aereo privato per il Maine. E Bedelia si chiese, una volta sola, se avesse fatto bene a manipolarlo, quel verdetto, o se invece sarebbe stato più etico dire la verità. Bianca Graham, o Lecter che fosse, sembrava avere bisogno di una menzogna. 

***
Quando la vide ferma tra la folla brulicante degli arrivi, una piccola valigia rossa alla mano -il grosso dei bagagli sarebbe stato spedito da Alana e Margot dalla Finlandia- Will maledì il tempo perso, tutto il tempo in cui aveva sorriso lontano da lui.
«Sei cresciuta così tanto» riuscì solo a dire, di fronte alla sua figura sottile, le gambe lunghe nelle calze, senza riuscire a fare il primo passo -quasi timoroso di non averne più il diritto. Bianca arrossì, rise. «Ma no, papà... sei tu che stai rimpicciolendo.»
Era da due anni che non lo vedeva. Rimasero stretti, in mezzo alla gente, come un unico tronco. Will sorbì con il naso il suo odore, ricordò di quando lasciava il suo lettino per dormirgli sulla pancia. Si accorse di aver avuto paura di morire prima di rivederla. 
«Ti sono mancata?»
Non era una mancanza, era una menomazione, come avere un arto fantasma. «Sempre» mormorò Will, «sempre.»
Una volta in macchina, con la cintura allacciata sul sedile accanto a quello del guidatore, Bianca chiese perchè dopo tanto tempo si fosse sentito abbastanza sicuro da rivolerla con sè.
«Perchè l'unico posto dove posso saperti davvero al sicuro, ormai, è solo vicino a me» ribattè il padre. «Senza averti sotto gli occhi, mi sento male.»
Bianca scrutò il panorama della sua infanzia, il vapore della nebbia lattea fuori dal finestrino. «Anche tu mi sei mancato.» 
Appena arrivati a casa, fu salutata da un rumoroso branco di cani e si inginocchiò per farsi leccare il viso. Riconobbe con gioia molti, ma anche tante facce nuove. «Lo sai che qui è così» si giustificò Will. Aveva preparato una cameretta per lei, con tende nuove di zecca, un profumatore anche troppo intenso al limone e tutti i peluches della sua infanzia sul letto. Bianca ci rimbalzò da seduta per testare il materasso. «Hai preso la decisione giusta, papà.»
Era una ragazza dall'educazione impeccabile, spazzolò tutto lo stufato con insalata di patate, nonostante Will stesso si rendesse conto che era mediocre.
«A casa in Finlandia non mangiavamo carne da anni...»
«Ah, davvero?»
«Da quando Morgan è vegetariano.» Vegetariano.
Le chiacchiere erano blande, Will parlava del suo lavoro all'università, di quegli studenti ingrati. Bianca aveva occhi attenti, vigili.
«Tu preferivi che vivessi lontano da te per gli incubi, vero? Non volevi che ti sentissi.»
Will si sentì esposto, senza schermi. «È solo una... la più insignificante delle ragioni.» Gli anni avevano cambiato qualcosa. «Sono quasi scomparsi. Un tempo venivano tutte le notti. Ma non devono essere una tua preoccupazione.»
Bianca azzardò un sorriso, schivo, triste. «Quei sogni significano che ti manca anche lui
Will ora abbassò lo sguardo. Magari gli incubi erano diminuiti, ma il suo volto era una mappa di insonnie. «Significano che l'ho incontrato. E che a quello non c'è rimedio.»
Non dissero niente per un paio di minuti. Poi un'idea sorse nella mente di Will. «Chi ti ha detto degli incubi?»
Bianca scrollò le spalle. Sembrava un medaglione di bronzo, esotica, adulta. I suoi colori si erano scuriti con gli anni. «Ti sentivo, da piccola... avevo paura che qualcuno ti stesse facendo del male.»
Finirono la serata con due gelati dal freezer, in silenzio. Passando di fronte a camera sua, il padre vide un blocco bianco sulla scrivania, un paio di libri vecchi, i beni di prima necessità che aveva portato con quella valigia rossa. «Tanto per fare qualcosa...» Però poi non le andava di stare sola, si mise sul divano accanto a lui, a tracciare linee sul foglio, usando il bracciolo come banco.
Era estate, c'era tempo per l'iscrizione a scuola. Bianca faceva lunghe passeggiate intorno al lago, si portava dietro i cani che conoscevano ogni sentiero, non rischiava di perdersi. Non vedeva il proprio riflesso su quella superficie pantanosa, turbolenta, ma stava lo stesso con il mento giù, ad esaminare. Forse vedeva i pesci. Will le propose di andare a pescare insieme, lei disse no. Le facevano pena gli animaletti, non voleva vederli morire. Will ringraziò il cielo di quella figlia sensibile, gentile, che cercava con i lunghi piedi bianchi di intaccare la solidità delle piccole spiagge di sabbia nera, che li immergeva nell'acqua grigia. Stava in bilico sui sassi che affioravano, raccoglieva le pigne. Will pensava fosse una specie di gioco, invece un pomeriggio di ritorno dagli esami estivi vide sul davanzale della finestra una sfilza di barattoli di vetro con dentro un liquido scuro. «Sciroppo di pino mugo... Per la tosse, per l'inverno.»
Will non la lasciava cucinare, anche se lei si offriva di alleviarlo di quel pensiero. Vedere quella figuretta aggirarsi in cucina a rimestare con il grembiule bianco era troppo forte. Era quando le immagini avevano la licenza di sovrapporsi, e devastarlo. A volte Bianca sembrava capirlo, gli andava vicino come se avesse appena combinato un guaio. «Ti voglio bene, papà.» Nascondevano il proprio viso all'altro in un abbraccio, erano una piccola famiglia timida, con troppi anni di separazione. 
Bianca aveva fatto conoscenza dei vicini, una casetta non lontanissima dalla loro, una coppia di giovani ragazzi con un bimbo piccolo, anche loro attirati dalla prospettiva di allontanarsi dalla società, i suoi gas di scarico, i suoi locali chiassosi. Lei diventava spiritosa con il bambino, le veniva una voce brillante. Ma ciò che l'affascinava di più era come, nel weekend, quella casa grande quanto la loro si potesse colmare all'inverosimile di parenti, nonni, zii, cugini, amici. Una folla di gente benvenuta, di legami, interconnessioni benevole. Lei spiava quel chiarore da presepio con un'invidia buona, remissiva. Disse a Will che quello che le era mancato di più era un gruppo di familiari, quell'articolazione elaborata che tutti i bambini vantavano, quei ruoli ricoperti. Will disse che gli dispiaceva, che anche lui avrebbe voluto un fratello, una sorella accanto, i genitori ancora in vita, per i momenti difficili. Mentiva. L'idea di far soffrire per i propri problemi tutta quella gente sarebbe stata inammissibile. Passando l'aspirapolvere Will vide qualcosa nella sua stanza, una foto minuscola sulla scrivania, come un francobollo. Era color seppia, raffigurava una bambina con le guance paffute, un caschetto di capelli compatto, gli occhi neri che bucavano la carta e qualcosa di tetro, come una specie di austerità. Non era brutta, ma non era carina, non era adorabile, non ispirava tenerezza. Sembrava troppo consapevole, troppo cupa. 
«Amore... chi è questa?»
Bianca non fece una piega. «È mia zia... l'ultima foto che esiste di lei.»
Will si arrabbiò, chiese come l'avesse trovata, che non bisognava impicciarsi, i crimini di guerra erano una cosa rischiosa. Poi si calmò, le chiese scusa, spiegò che aveva paura di tutto quello che lo riguardava, perchè lui era libero. Bianca non ribattè. Disse solo che era stata Margot a trovarla, se l'era fatta inviare da un archivio in Lituania. Mise la foto in una cornice, ma era troppo grande, ci stava appiccicata in mezzo come una mosca contro il finestrino. Inquietò Will per molte notti: sentiva gli occhi di tenebra di Mischa Lecter cercarlo, inseguirlo nel buio della camera, del sonno. 
Una sera Jack venne a cena. Padre e figlia andarono a fare la spesa in paese, comprarono il tacchino dal macellaio, il sedano dall'ortofrutticolo. A volte mentre guidava Will staccava una mano per un secondo per accarezzarle la testa, quella nuca biondastra, come se dovesse sempre materialmente accertarsi della sua presenza. A casa tirò fuori da una vetrina i calici da vino, spostò il tavolo in veranda e apparecchiò lì. Bianca indossò l'unico vestito lungo che si era fatta mandare, quello del teatro, di pizzo nero, anche i capelli raccolti e attaccati alla testa, spartiti da una scriminatura centrale, sembravano più scuri, come una tenda. Appariva seriosa come una giovane imperatrice russa, mentre di solito era così leggera, raggiante. Era come se volesse mettere l'ospite a disagio. Jack rise, se la ricordava così piccola, una bambolina con le trecce. Bianca non rise. Disse che sì, beveva anche lei un po' di vino, giusto un dito, Alana e Margot l'avevano abituata.
I due adulti parlarono del tempo, di come era in Virginia, di come nel Maine. Delle partite di football che Will non guardava nemmeno. 
Bianca chiese: «come vanno le ricerche?»
Jack si voltò. L'aveva osservata per tutto il tempo, con la coda dell'occhio, e lei lo sapeva. Aveva visto Hannibal troppo spesso e troppo da vicino per non riconoscere i suoi lineamenti in lei. Però faceva come Will, sentendosi attaccata... si spingeva fino alla vetta e poi si aggrappava al masso, sulla difensiva. Seguiva l'impulso di farsi ferire da ciò che le faceva male.
Jack fece segno di no. «È sempre stato un esperto in questo. Se non vuole farsi trovare, non lo troveremo.»
«Se credete che cercherà di mettersi in contatto con me, fareste meglio a controllarmi.» Bianca era imperscrutabile, teneva in mano il suo calice pieno senza bere.
Will strinse i denti. Quella routine a cui era condannata, sbirri che la scortavano ovunque, tutti che si giravano a guardare quello spettacolo bislacco, come se fosse una criminale in libertà vigilata, o una stella del cinema tra i comuni mortali. «Nessuno ti controllerà.»
«Lo sei stata per troppi anni. La tua vita non può più venire influenzata in questo modo. Devi poterti sentire libera e non sempre sotto pressione» rispose Crawford.
Bianca bevve un sorso. Disse: «Forse, se non lo ha fatto finora, non lo farà più.»
Il discorso naufragò. Piombarono nel silenzio.
Quando Will andò dentro casa per portare via i piatti, Jack le allungò un biglietto. «Il mio numero... per qualsiasi cosa ti insospettisca.»
Bianca lo squadrò, senza interesse. Poi lo sguardo tornò sul volto dell'uomo. «È colpa di persone come lei se la mia famiglia non è stata quella che poteva essere, agente Crawford.» Lo disse con tono tranquillo, come se asserisse qualcosa di dato. 
Jack non rispose, fu preso in contropiede. Adesso aveva paura di quello sguardo sereno, fermo. Riconobbe uno spettro dibattervisi dentro.
Will tornò e si mangiò un sorbetto mezzo sciolto per dolce. La pausa gli permise di rimettere in piedi una conversazione banale e generica. Jack, come per dimenticare gli ultimi minuti, vi si tuffò a pesce. Bianca stava zitta, composta, il petto pieno d'aria, il collo diritto. Anche adesso come quella visita di molti anni prima, il suo sguardo pareva pescare oltre il parapetto qualcosa di invisibile, e attendere che spuntasse fuori.

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Capitolo 6
*** Radice. ***


Will stava per rientrare a casa quando gli arrivò il messaggio. Ti aspetto dietro il boschetto di pini bianchi. Era il punto da dove Will partiva con la barca per pescare, e a volte ci andavano insieme. Bianca tirava i sassi piatti, sapeva farli rimbalzare tantissimo. Ci andò direttamente in auto, parcheggiò finchè la vegetazione lo consentiva, poi proseguì a piedi. 
Bianca era seduta su un masso in rilievo, prossimo alla riva, tutto bagnato sui fianchi ma con una chiazza asciutta in cima, intorno tanti altri ciottoli più piccoli immersi sotto il velo blu scuro dell'acqua, come sotto una lente. Quel gregge di sassi radunati insieme sembrava una colonia di animali a riposo. Il lago ora era piatto, un lastrone di ghiaia e bruma. Will raggiunse la figlia, sedette su un sasso più piccolo, si bagnò le scarpe e le caviglie. Stava per tramontare il sole, e sentiva che stava per arrivare una conversazione importante, che sarebbe scivolata sul silenzio come una barca che lascia l'ormeggio e slitta sull'acqua.
«Mi avevi detto che, se avesse provato a cercarmi, non avrei mai dovuto avvicinarmi a lui. Perchè sarebbe stato un cattivo padre e non avrebbe mai fatto niente di buono per me.»
Will rabbrividì, anche se non faceva ancora freddo. Non aveva nemmeno addosso la giacca a vento. «Sì.»
«Però ad ogni mio compleanno sono arrivate queste.» Bianca svolse un panno impermeabile, e uscì una pila di buste. «Non nei modi tradizionali. Le trovavo sotto la ribalta del mio banco, su una panchina vicino a una giostra dove giocavo, dentro un libro che compravo. Lettere... ma anche di più. Frammenti di verità. La sua verità...» Accarezzò le buste con le dita. «La sua arte.»
«Bianca» ansimò Will. Fu tentato di afferrarle, di gettarle nel lago. Di farle annegare, sciogliere e scomparire. Lui era riuscito a trasmettere la sua contaminazione. «Perchè non l'hai detto a nessuno?»
«Perchè era una cosa tra me e lui, e il mondo deve smetterla di porsi tra me e mio padre.» Quella risposta fece male. 
«Bianca. Ascoltami. Non so cosa ci sia scritto lì, ma so cosa non c'è scritto. So cosa ho passato prima che tu nascessi... So cosa mi ha fatto.» Will allungò una mano, instintivamente, per toccarle una spalla. «Lui mente. Attira. È la cosa che gli viene meglio.»
«Non ha mai smesso di pensare a me. Su questo ho visto che non ha mentito» lo contraddisse Bianca. «Ti sbagliavi, lui ha fatto molte cose belle per me. Mi ha raccontato la sua vita. Mi ha raccontato la sua mente. È riuscito a fare il padre quanto tutti facevano il possibile per impedirglielo...»
Will si afferrò la testa. Era come se un incubo fosse riuscito ad uscire da lì, stesse popolando la foresta. «Ti prego, se ti fidi di me, almeno un po'... cerca di capire che nessuno ha voluto toglierti niente. Se non voglio che quell'uomo ti sia vicino non è una forma di egoismo, non è un'ingiustizia, è -per il tuo bene. Non voglio ritrovarmi con pezzi del tuo corpo nel mio stomaco...» La voce si inceppò nel pianto come le ruote di una macchina nel fango. 
«Lui non mi farebbe mai del male» obiettò Bianca, bruscamente, spaventata da quella improvvisa debolezza.
«E come fai a saperlo?» Will cavò un paio d'occhi liquidi, disarmati. «Perchè te l'ha detto lui?»
«Bianca non ha bisogno che io glie lo dica.» 
Will non era sorpreso. Ormai percepiva la sua presenza, come il sentore di una tempesta è nell'aria.
Lo spettacolo era magnifico e tremendo. Come tutto ciò che ti pietrifica dall'orrore, e mentre sei pietrificato non puoi fare a meno di guardare, e la vista è glaciale nel suo splendore. Hannibal avanzò, finchè l'acqua non lambì le sue scarpe. Bianca si voltò a guardarlo, e i suoi occhi si illuminarono. Tese una mano, che il padre afferrò per aiutarla ad alzarsi e fare un saltello per atterrare sulla spiaggia. Aveva riavvolto le lettere nel tessuto impermeabile, e lo teneva sottobraccio, come un salvadanaio, un fagotto di salvezza.
«È sempre bello vederti, Will» esordì Hannibal, mettendole un braccio intorno alle spalle. «Finalmente posso complimentarmi di persona per la bellezza della tua opera. Di gran lunga superiore a qualunque delle mie.» La sua fronte era spianata, e gli occhi indistruggibili, con un definito riverbero lucente, come ali di coleottero.
«Ha detto molte volte di amarmi, Bianca» esalò Will. «E altrettante volte ha attentato alla mia vita. Ti tradirà. È la sua natura. Non sarai mai al sicuro con lui.»
«Ma non saremo soli, papà» lo corresse Bianca. «Tu verrai con noi, e saremo quello che saremmo sempre dovuti essere.»
Era sicura di quello che diceva. Gli aveva creduto: certo che lo aveva fatto. Persino lui ci aveva creduto, ai tempi. Hannibal era in gran forma, era troppo elegante per quel bosco. Era il genere di persona che suscitava il desiderio di affidarsi a lui. Sapeva mostrarsi materno, molto più di Will.
«Se era rinchiuso in un ospedale psichiatrico è perchè è un pazzo» tentò, disperato, sentendosi alle proprie orecchie come troppo rauco, troppo lacerato. «Tu non hai idea dei massacri che ha compiuto. Lui ha mangiato delle persone. Tutti quelli che lo amavano sono morti, o quasi morti, per colpa sua
«Non mi interessa che cosa ha fatto. Lui è la mia famiglia, e per la famiglia si può perdonare qualsiasi cosa.» Bianca lo fissava e ora aveva quella voce fredda, quella di chi non è completamente sincero e liquida i propri dubbi. «Se io uccidessi un uomo, non mi ameresti più? Se io lo avessi già fatto?» 
«Bianca...» Will capì di non esserci riuscito. Di non averla protetta. Fallito, ancora. Non poteva vincere contro Hannibal. 
«Non temere» rispose Hannibal, dolcemente. «Ti coprirebbe. Ti amerebbe ancora più di prima, perchè rivedrebbe se stesso in te. Se certi processi della nostra coscienza non sono ragionevolmente spiegabili non significa che non esistano.»
«Lui vuole farmi impazzire» balbettò Will. «Ha sempre cercato di annichilire ogni forma di salute in me...»
«Tuo padre si è opposto con tenacia ai miei inviti ad abbracciare la sua natura» mormorò Hannibal. «Probabilmente questo è il motivo per cui è riuscito a darti alla luce. Lo rispetto per questo. Ma ora la scelta che rimane da fare è tra te e se stesso. So perfettamente cosa sceglierà. Ha tollerato fino adesso... da oggi, inizierà ad apprezzare.» 
Will alzò la testa. «Sai perfettamente che accondiscendere a un ricatto non è dimostrazione del fatto che voglio seguirti. Qual è il tuo piano?»
«Sono veramente felice sentirti pronunciare questo parole, Will.» Hannibal sembrava sinceramente felice. Era sempre così bravo a simulare umanità. Tutto il suo viso diventava il ritratto della mite serenità, e sembrava non aver fatto altro che declamare poesie tutta la vita. «Ho pronti dei passaporti e dei posti sicuri in varie destinazioni.»
«E dove vorresti andare?»
«Questo non devo deciderlo io.»
Bianca sorrise. «Sono cresciuta a nord... È molto probabile che sia a sud, quindi.» La mano destra assicurò le dita attorno a quella di Hannibal, la sinistra cercò quella, più debole e sudata, di Will. Poi sembrò soddisfatta.Una natività un po' sbalestrata, pensò Will. E si sentiva questo, la madonna arruffata e confusa di un messia che credeva di saperne molto più di lui. L'elicottero li aspettava poco lontano, alla prima radura. Hannibal si mise alla guida, e prima che il veicolo si staccasse da terra Will riuscì a sussurrargli poche parole. 
«Tienimi sempre sotto controllo, perchè la prima volta che abbasserai la guardia ti metterò spalle al muro e libererò mia figlia dalla tua presenza. Non credere nemmeno per un secondo che mi fiderò mai di te.»
Hannibal annuì, lieto, come se gli avesse appena chiesto di accendere l'aria condizionata. «Tu mi comprendi, e non ti fidi di me. Bianca non comprende, ma ha fede. Gli atei hanno sempre avuto una vita più difficile dei martiri, Will... Adesso va' a sederti, è pericoloso rimanere in piedi.»

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