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di Giada_wx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - California. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Happy birthday to me ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Days Inn Night Club ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - What about love? ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Nightmares ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Chance ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Phobia ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Oxymoron ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Get out ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Needs ***
Capitolo 11: *** To you. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Here, but not here ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - The wall ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Scars. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - White rose. ***



Capitolo 1
*** Prologo - California. ***



Luglio 2014 ; Berkeley, California.

Si dice che tutto ciò che desideri sia dall'altra parte della paura, che basti superarla ma che bisogna volerlo davvero. Ma se non bastasse? 
Se la paura fosse qualcosa di invisibile che ti attanaglia le viscere, se fosse un paio di manette ai polsi, se fosse una catena stretta alle caviglie che ti impedisce qualsiasi spostamento, se la paura fosse il buio oppure un volto, come sei potrebbe superare?

Gridare ancora era inutile, sentiva la gola bruciare, gli occhi gonfi e il labbro non faceva altro che sanguinare. Il mal di testa che le martellava le tempie le impediva anche di pensare, ma forse questo era un bene. Perché a questo punto, era stanca anche di pensare. Farlo era diventata una forma di autolesionismo, perché nella sua mente vagavano solo pensieri negativi. Trascorreva giorno e notte, ignara di quando fosse uno e quando l'altra, pensando che quel buio l'avesse inghiottita per sempre, che non avrebbe più rivisto la luce, che sarebbe morta lì forse di fame o forse quell'ombra sarebbe tornata da un momento all'altro e le avrebbe dato il colpo finale. 
La speranza di uscire sana e salva da lì era svanita dopo i primi giorni e adesso che non sapeva quanti ne fossero passati, forse settimane o forse mesi, ogni speranza era svanita, anche la più piccola. 
Sentì dei strani rumori provenire da sopra di lei e per un attimo smise persino di respirare nel tentativo di distinguere quel rumore. Erano dei passi, ne era certa, non era sicura però del fatto che appartenessero ad una sola persona. 
Si impose di restare calma, forse era solo la sua mente a giocarle brutti scherzi. Intanto quei passi si facevano sempre più vicini e improvvisamente successe tutto in un attimo.
Inizialmente un solo fascio di luce proruppe nell'angusto spazio, seguita rapidamente da molti altri che ormai erano diretti sul suo viso e poi nello spazio circostante, permettendo anche a lei di vederlo per la prima volta.
Ricoperta di stracci malconci e con il cuore che le batteva forte nel petto, rimase immobile e incredula. Non riusciva a realizzare cosa stesse accadendo in quel preciso momento intorno a lei. Voleva solo piangere, strillare e accasciarsi a terra, ma non lo fece, era come se in quella stanza ci fosse solamente un corpo vuoto.
Erano lì per aiutarla o per farle del male? 
Due figure non ben distinte si fecero avanti e lei indietreggiò istintivamente, sobbalzando quando le spalle toccarono il muro.
«Non vogliamo farti del male », se sulla vista non poteva fare affidamento, fu l'udito a rivelarle che quella voce appartenesse ad un uomo.
L'altra figura si inginocchiò davanti a lei, sistemando la torcia in modo che illuminasse il viso di entrambe. Constatò che fosse una donna, ma ciò non la tranquillizzò. Non sapeva più di chi potesse fidarsi.
La donna la esaminò attentamente e con uno sguardo insistente, e lei desiderò che la smettesse al più presto.
«Come ti chiami? » le chiese.
«A-ashlie»
«Io sono l'agente Maddson. Sai dove ti trovi? » Ashlie scosse la testa insegno di negazione.
«Come ci sei arrivata? » Scosse ancora la testa.
«Steven. È più grave di quanto pensassimo. Fai venire un'ambulanza sul posto, presto! » Sentì la donna dettare degli ordini anche ad altre persone, ma era tutto così confuso e le voci arrivavano ovattate alle orecchie. L'agente allungò una mano per liberarla dalle manette ma la stanza cominciò a girare sempre più veloce, la vista le si offuscò di nuovo e d'improvviso le luci si spensero.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Happy birthday to me ***


Luglio 2016 ; Willmar, Minnesota.


Sei luglio. Sabato. Venti gradi e due corpi sudati.
Il mio corpo intrappolato tra il materasso caldo e il suo corpo nudo, in collisione con il mio.
La finestra aperta, il caldo nella stanza e i vestiti a terra.
Il silenzio intrappolato tra le mura, il buio intorno e i respiri pesanti. 
Lui che possiede il mio corpo, ma non le mie fantasie. Un corpo che non si incastra perfettamente al suo, un corpo che non riesce a capire l'altro. 
Due corpi che non vogliono conoscersi, che si sono avvinghiati tra di loro altre volte solo per soddisfare un'estrema necessità di evasione.
Ma non questa notte, non il mio corpo, non io.
Nella penombra della notte lo guardo muoversi su di me, senza sentirlo davvero. Senza forse averlo mai sentito fino in fondo, ma questa notte proprio no.
Non è fatta per perdersi, non per me.
Apro gli occhi e solo così posso avere la certezza che lui sia lì, ma continuo a non sentirlo.
È lì, con la testa inclinata, le labbra schiuse, il respiro pesante. Chiude gli occhi, ogni muscolo del suo corpo si contrae, e lui arriva. E anche questa notte il suo momento di evasione riesce a goderselo. Si lascia andare sul materasso, il suo corpo affianca il mio. Io mi giro sul fianco, delusa da questa notte priva di vie difuga per me. Delusa dalla mia incapacità di tagliare via i pensieri con questa scorciatoia, e durante. Una scorciatoia priva di sentimenti e ricca di egoismo. Priva di passione e ricca di frustrazione.
Lo sento muoversi e sento lo sfregare delle lenzuola che vengono scalciate via. È l'unico rumore nella stanza adesso che i respiri sono tornati regolari.
Non ho bisogno di guardarlo per sapere cosa stia facendo adesso. So che il pacco delle sigarette è sul davanzale della finestra, insieme all'accendino blu. È li che è diretto. Fa tutto parte della nostra routine, che di nostro non ha niente. Che se siamo immischiati in questo circolo vizioso è perché di nostro, in realtà, non abbiamo nulla. Neanche i nostri corpi, sono nostri davvero.
«Ashlie » dice, e mi volto verso di lui. È alla finestra, il suo corpo nudo avvolto dall'oscurità. Una sigaretta tra le dita e gli occhi sulla sveglia digitale che tiene sul comodino. Guardo anch'io la sveglia, segna la mezzanotte. 
Sette luglio. Domenica e vent'anni. I miei vent'anni. 
Vent'anni di imprevisti. Vent'anni di scelte sbagliate e di bugie. Vent'anni che, questa notte, non sono riuscita a lasciare fuori da queste quattro pareti bianche, e neanche fuori dalle pareti strette della mia testa.
«Buon compleanno » mi augura, ed io non mi smuovo. Non faccio nulla. Non sorrido, non piego le labbra in alcun modo, non assumo alcuna smorfia. 
Guardo il soffitto e non vedo niente, solo il buio. Come guardarmi dentro e non trovare niente. Non sentire niente, senza sapere quando davvero ho iniziato. Senza sapere se davvero era quello che volevo. Ma a volte è così, a volte non te lo chiedi cos'è che vuoi davvero, a volte devi farlo e basta. A volte lo fai e basta, senza darti tempo, senza darlo agli altri. Che gli altri di tempo forse ne hanno sempre avuto troppo e non hanno mai saputo sfruttarlo. Che a te di tempo ne sarebbe bastato poco, ma non te lo hanno mai dato.
Vent'anni e un tempo che non mi è mai appartenuto davvero. Tanti auguri a me.
Interrompo il contatto con quel buio che sembra inghiottirmi, recupero un elastico dal mio polso e lego i lunghi capelli neri e disordinati.
«Non devi andartene per forza » mi dice, butta quel che resta della sigaretta e mi guarda. Mi guarda e anche se mi ha davanti non mi vede per davvero. Mi guarda senza capire ciò che vede, come tutti. Ma lui, diversamente da tutti, non fa domande. 
È per questo che vengo qui. Perché lui prende ciò che pesa, ciò che mi opprime dentro, e per qualche ora lo fa suo. Per qualche ora tutto qui diventa più leggero, se diviso in due. Qui, per qualche ora, posso annullarmi senza dover dare nessuna spiegazione. Da qui, dopo qualche ora, posso andarmene senza troppe parole. 
«Devo, invece. Lo sai anche tu » mi metto seduta e recupero ciò che mi appartiene. E lo sappiamo entrambi, che dobbiamo. Sappiamo che il nostro è un modo per scappare da qualsiasi cosa pesi troppo. Un'ora pesante, una giornata, o una vita.
E sappiamo che dopo, dobbiamo scappare l'uno dall'altra.

Un passo dopo l'altro, senza fretta, scendo le scale. La suola dei miei anfibi che stride contro la superficie in marmo degli scalini, e un passo dopo l'altro mi avvicino sempre di più ai tornelli. Estraggo la tessera e passo. Faccio appena in tempo a fermarmi davanti alla linea gialla che la metro mi si ferma davanti. Le porte si aprono e una decina di persone scendono, io salgo. 
L'aria sembra essere più pesante qui dentro che fuori. 
Nonostante sia quasi l'una di notte, c'è un po' di gente. Qualcuno in piedi che aspetta la prossima fermata, qualcun altro seduto che è di ritorno a casa, e altri invece che hanno appena dato inizio alla loro nottata. 
L'aria pesante sembra premere sulla mia testa e tenermi inchiodata a terra, le spalle ricurve e la testa pesante. Per me la giornata è finita, ha preso ogni mio singolo brandello di forza, e si è finalmente conclusa. Ma le mie gambe sembrano non reggere più quel peso, così mi avvicino ai tre posti liberi e mi siedo.
Di fronte a me c'èuna signora, mi fissa per un po' e fingo di non notare il suo sguardo disgustato. Non mi crea alcun disturbo, non m'importa.
Guardo davanti a me, le ombre che si susseguono velocemente al di fuori del vetro che mi sta di fronte e poi la vedo. Vedo la mia figura riflessa, e allora un po' la signora la capisco. I capelli lunghi e neri sono disordinatamente schiacciati, qualche ciuffo mi ricade sul viso, gli occhi sono cerchiati da una matita nera ormai sbavata. Il mascara colato e il mio vestito nero sgualcito mi danno l'aria di una tutt'altro che a posto. Ma non importa, perché preoccuparmi di esserlo? Perché fingere di essere qualcosa che in realtà non sono? O che non sono mai stata, forse. 
So di avere l'aria di una consumata da qualcosa, l'aria di una i cui pezzi stanno insieme solo perché qualcosa li obbliga a farlo. 
Dopo due fermate la signora scende, evitando categoricamente di incrociare il mio sguardo, proprio come ha fatto durante tutta la durata delviaggio. 
Un'ultima fermata, poi siamo al capolinea e scendo.
L'ascensore è fuori servizio, così salgo su per le scale. Una volta fuori il caldo e l'umidità sembrano farsi sentire in modo più insistente, sembrano colpirmi in volto e ne resto in balìa per un po'. Giusto il tempo di essere urtata dalla spalla di qualcuno che scende in fretta giù per le scale, troppo impegnato in una corsa contro il tempo per notare me. 
Riprendo a camminare lungo lastrada che continua dritta davanti a me, una di quelle strade che ormai percorro ogni giorno. Una di quelle cose che ormai faccio senza pensarci troppo, che è così perché qualcun altro ha deciso così. Svolto a destra ed estraggo le chiavi dalla borsa e tra le tante cerco quella argentata. Il portone dell'edificio però è già aperto, così salgo. Anche questo ascensore ha un piccolo cartello con su scritto 'Fuori uso', ma ormai è da un paio di anni, fa parte della routine. È così da così tanto tempo che le persone ormai ci hanno fatto l'abitudine e neanche lo guardano più, questo ascensore.Tranne me. Io quando entro lo guardo sempre, ed è buffo, perché io sono l'ultima persona al mondo che si aspetta un cambiamento in questa vita. Lo guardo e penso a questo. Penso anche che quella scritta vorrei tatuarla in fronte, oppure appendere un cartello al collo con su scritto 'fuori uso', così che la gente vedendolo ogni giorno smettesse di guardarmi, sapendo che ormai sono rotta. Ch equindi da me non devono aspettarsi più niente, perché sono fuori uso. 
Mi fermo al terzo piano, infilo le chiavi nella serratura e apro la porta. Tutte le luci sono spente, tranne la lampada tra il camino e la poltrona, sulla quale riesco chiaramente a riconoscere la figura accovacciata del mio fratellastro. I week end sono gli unici giorni in cui condividiamo queste mura e va sempre così. 
Con passi leggeri e, con più fretta di prima, cerco di superare l'ingresso e arrivare alla porta della mia camera, ma la sua voce riecheggia nel silenzio. 
«Sì, sono io » gli rispondo, fermandomi con la mano sulla maniglia della porta. 
«Ti ho aspettata, pensavo avresti finito presto il tuo turno stasera », raccoglie il libro caduto sulla moquette e si passa una mano sul viso segnato dalla stanchezza. 
E io lo so che non sono l'unica ad avere una giornata pesante, ma io non riesco a fingere come lui. Io di fingere sono stanca, lui con la finzione ormai ci convive. È una delle cose che ora più che mai ci rende diversi, tanto diversi da essere quasi due sconosciuti che abitano - occasionalmente - sotto lostesso tetto.
«C'era più gente del solito », mento. «Va' adormire ora, buonanotte. » Con movimenti meccanici apro la porta della stanza, lascio cadere la borsa per terra e le chiavi sul comò. Mi lascio andare sul letto e non ho voglia di lasciar prendere il controllo ai pensieri.
Resto lì dove sono, sopra un groviglio di lenzuola sfatte, e la mia mente mi mostra sfacciatamente il volto di una serie di persone. 
Il volto di un ragazzo che non sa più cosa fare, che non ha idea di come oltrepassare il muro di ghiaccio che la sua sorellastra gli pone davanti. Quel ragazzo che ancora una volta mi vede rincasare tardi, che si fa stare bene le mie bugie. Il volto di un ragazzo che dalla vita ha avuto solo un padre assente e una matrigna avida. Un ragazzo che si ritrova a dover vivere una vita ben lontana da ciò che aveva immaginato, e che lotta pur di avverare i suoi sogni.
Poi è il turno del volto di una donna, una donna che non ha mai amato sua figlia, che non si è mai sforzata ad entrare nel ruolo di una madre.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Days Inn Night Club ***


A volte capita di arrivare ad un punto in cui si è stanchi. Una stanchezza che ti fa sentire esausto, e non fisicamente. Una stanchezza che è difficile da spiegare, che se non la vivi non la capisci. Una di quelle che ti toglie la voglia di fare qualsiasi cosa, dalla più piccola alla più grande. Una stanchezza che ti fa venir voglia di restare a letto tutto il giorno, senza mangiare, uscire, parlare. 
È una di quelle che ti fa capire che ne hai avuto abbastanza. 
Però la stanchezza devi tenertela, perché star male è un lusso che non puoi permetterti. Perché devi dar conto a troppe cose poi, a troppe persone. E allora omettere è più facile, camuffare è meglio.
Quindi il letto lo lasci, anche se è li che vorresti sprofondare. Oltre ai vestiti scegli anche la maschera da indossare,ed esci. Affronti la luce del giorno, la gente e le frasi di circostanza. Vai a lavoro, osservi in silenzio, aspetti che il tempo passi. Fai ciò che devi fare, prima di poter tornare in quella stanza così vuota di realtà.

È ancora Domenica, una di quelle Domeniche che molti giudicano pesanti, Domeniche infinite dalle quali vorrebbero solo scappare. Forse perché monotone, forse perché senza nessuno con cui passarle.
Ma non per me, perché che sia Lunedì o Domenica non c'è differenza. Sono soltanto giorni che si susseguono a rilento ed in disordine, senza mai lasciar niente che valga la pena vivere o ricordare.
Stasera l'aria sembra essere diversa dal solito, mentre mi muovo tra i rumori del traffico e con gli sguardi addosso. Sguardi di chi non sa, sguardi di chi giudica senza conoscere. 
E io cammino per la mia strada, che dei loro pregiudizi poco importa, con il telefono spento in borsa. Che per me è un giorno come gli altri, ma per altri è un giorno in cui si sentono tenuti a risorgere dalle loro vite ben separate dalla mia,solo per dei finti auguri. Auguri che non sono disposta ad accettare,e dei quali ho sempre fatto a meno.
Auguri senza alcun valore da parte di chi per vent'anni non si è mai preoccupato di conoscere il mio libro o colore preferito, da chi non ha mai capito i miei silenzi e non ha neanche tentato di farlo. Da parte di gente che ha sempre dato per scontato la mia esistenza, pensando di avermi conosciuta, ma che in realtà non lo ha mai fatto. 
Non me ne faccio niente di una chiamata da parte della donna che per vent'anni non ha mai accettato il ruolo di madre, che ha sempre preferito i soldi ed una bottiglia di vino alla sua unica figlia. E quindi il telefono sta bene lì dov'è, irraggiungibile da false voci ed emozioni inesistenti. 
Mi fermo davanti una massiccia porta di metallo,busso quattro volte e si apre. Non mi sorprendo nel vedere la figura dello stesso ragazzo con cui poche ore fa ho condiviso il letto. È in questo locale che ci siamo conosciuti, ed è qui che lavoriamo dal Martedì alla Domenica, condividendo la maggior parte dei turni. 
Non mi bacia, non mi sfiora, un semplice cenno. È il nostro tacito accordo. Dylan si scansa ed io entro nel retro del locale, già da qui riesco a sentire l'odore di birra e altri diversi alcolici.Supero anche i camerini delle ballerine, e i ricordi della prima volta che sono entrata qui dentro si fanno spazio nella mia mente.
Ero arrivata da pochi giorni, con solo una valigia e nient'altro in mano. Il costo da pagare per la mia libertà era un compromesso:vivere in una casa da condividere nei week end con il mio fratellastro e occuparmi delle mie spese. Niente prestiti, niente favori da una famiglia che non volevo più, e che non mi aveva mai voluta. Mi si era presentata l'occasione dal nulla, e l'avevo colta al volo, con niente da perdere e niente di più da guadagnare. E ho iniziato così a lavorare in questo locale per adulti, un susseguirsi di sere che passo a versare alcol e ignorare sguardi languidi di persone ubriache. 
Ricordo anche quello che c'era prima, i momenti prima della partenza. Quei momenti in cui l'unica cosa che faceva sì che mi alzassi dal letto era la voglia di andarmene lontano da menzogne e false accuse, lontano da una vita di inganni e materialismo. Lontano da ricordi e voci. Lontano da perdite che ignoravo avrei portato con me.
Ricordo gli scatoloni nell'angolo di una camera che non ho mai sentito mia, ricordo me in piedi al centro di una stanza ormai vuota fissarli senza che niente riaffiorasse. Niente rabbia, niente tristezza. Non me ne importava nulla che i miei diciotto anni di vita fossero ridotti a dieci inutili scatole. Mi chiedevo se fosse normale, o quando era stato il momento esatto in cui avevo smesso di lottare e avevo iniziato a sopportare. Poi l'immagine di quella stanza buia e umida tornava, il dolore lancinante che provai al ventre si fece così vivido da dover trattenere un urlo. E mi servirono da risposta. Mi dissi che non valeva la pena starsene a rammentare con nostalgia una vita che aveva smesso di appartenermi da tempo, una casa che non avevo mai considerato tale e conoscenze che si erano rivelati castelli di carta. Divenni consapevole del fatto che in realtà è quello che le persone normali fanno: pensano ai momenti felici, alle vecchie avventure e alle persone con cui si condividono dolci ricordi. Li rammentano con un po' di amaro in bocca ma con il sorriso sulle labbra. Ma non io, che la normalità non mi è mai appartenuta. 
E poi è difficile provare nostalgia per qualcosa che non si ha mai avuto. La nostalgia è fatta per chi ha dei bei ricordi da custodire gelosamente ed io non faccio parte di quel gruppo di persone. Tutto ciò che riguarda la mia vita dai sei anni in poi vorrei cambiarlo, o dimenticarlo. Ma entrambe le cose sono impossibili da fare, così mi limito a rinnegare. 
Che potrei essere definita in tanti modi dalle persone, che potrebbero pensare di sapere. Ma nessuna di loro potrebbe mai sapere davvero.
Perché ciò che a volte le persone ignorano è che per perdere la propria vita, o meglio il controllo di essa, non bisogna necessariamente morire. E quando succede, smetti. Ti limiti ad esistere e basta, perché non c'è altro da fare. Perché di forze per trovare qualcosa da fare, non ne hai più.

Stranamente dal solito il locale non è così pieno, anche se è Domenica. Anche se in giorni come questo le persone cercano un modo per sfuggire dalla realtà che i opprime, e alcuni di loro lo fanno qui. Tra un drink e un'esibizione, fingono che le loro vite non siano davvero le loro, fingono che siano il problema di qualcun altro. 
E lo faccio anch'io, ed è il motivo per cui vorrei che il locale stanotte fosse pieno. Perché non voglio avere del tempo, non voglio avere la possibilità di pensare. Perché quando lo faccio poi è sempre troppo. È l'unico motivo per cui entrare dalla porta del retro mista bene, che riversare la mia attenzione nel lavoro, in quelle vite che entrano da quella porta, è meglio che pensare alla mia di vita.
Una vita che non è quella a cui aspiravo da bambina, quando ancora la realtà era pesante ma la fantasia della bambina che ero lo era molto di più. E se penso a quello che avrei voluto essere, vedo qualcosa di completamente diverso da quello che in realtà sono.

C'è così poca gente che oggi il bancone è troppo grande per tre, così abbiamo invitato Kacey a staccare prima e siamo rimaste solo io e Frankie. Tra una pausa e l'altra usciamo sul retro a fumare, e questo volta tocca a me.
Non c'è neanche un po' di vento a smuovere le foglie degli alberi, e l'aria calda sembra attaccarsi alla pelle. Il caldo afoso è l'unica cosa che mi fa desiderare che anche questa sigaretta finisca in fretta. Una sigaretta di cui avrei ancora potuto fare a meno, che tanto di tempo per me oggi posso trovarlo anche dentro al locale, ma che in realtà un valido motivo per non fumare non l'ho trovato. Non lo trovo mai. Ed inevitabilmente me lo chiedo. Mi chiedo come sarebbe avere un motivo che ti porti a smettere di scegliere qualcosa che sai sia così nocivo alla tua salute. Qualcosa che sai potrebbe ucciderti, ma la scegli comunque.
Mi chiedo se davvero basti poco per far sì che si scelga una strada diversa da quella dell'autodistruzione. E penso che chi ha quel poco dovrebbe farselo bastare, che io lo farei. Ma non ce l'ho.
Quando rientro, sento lo sguardo di Dylan addosso. Mi ferma prima che io possa tornare dietro al bancone e mi guarda. So che lo sa, so che lo ha capito senza che dicessi nulla. Sa che a me la notte precedente non è stata d'aiuto, ma non mi fa nessuna domanda. 
Guardo i suoi occhi scuri ed ho come la sensazione di conoscerli, ma so che non è così. 
«Passi da me dopo il turno? » Me lo chiede senza pretese, senza filtri.Perché è così, non ce lo siamo mai promessi a voce, semplicemente manteniamo il nostro accordo. Quando abbiamo bisogno l'uno corre dall'altro, senza troppe domande, senza troppi problemi. Ma non stasera. Non voglio perdermi, non voglio fallire di nuovo. So che sarebbe inutile, so che non sarei in grado di farlo e una volta lasciato quel letto la mia testa peserebbe il doppio. 
«No, questa sera no. » Lui annuisce e io torno dietro al bancone.Raccolgo i bicchieri di vetro rimasti, e li ripongo nella vasca con gli altri. So che Frankie mi sta guardando, so che lei come molti pensano qualcosa su me e Dylan. Ma a me non importa, e neanche a lui.Che delle persone che parlano ne siamo abituati, che delle loro ipotesi non può interessarci meno. 
Frankie lo sa, e si presta a servire due clienti mentre io pulisci il bancone. Due polsi si posano sulla superficie e quando sollevo lo sguardo ci sono due occhiazzurri a fissarmi.
«Cosa ti do? »
«Fai tu. » Risponde senza guardarmi, il tono di voce quasi un sussurro e lo sguardo sembra essere perso in un posto lontano da qui. La sua attenzione non è rivolta a me, né al bicchiere che ho appena posato sul bancone. È rivolta alla voce che risuona forte dall'altro capo del telefono,nonostante la musica, nonostante le voci. Risuona forte e arrabbiata,a tratti spezzata, quasi come se fosse sull'orlo di una crisi di pianto. 
Il ragazzo sta in silenzio e ascolta quella voce, la voce di una donna. 
Mi allontano solo per recuperare una bottiglia di Rum e versare il liquido sul ghiaccio. Il ragazzo afferra il bicchiere mentre sputa fuori parole che chi sta dall'altro capo del telefono non gli fa portare a termine, e lui sembra così affranto, addolorato. 
Non ci sono altri clienti, i pochi presenti al locale sono davanti al palco, al bancone c'è solo questo ragazzo. Così mi allontano, vorrei riuscire anche a distogliere lo sguardo, ma non riesco. Vorrei poter tornare a fare il mio lavoro, ma non c'è niente che io possa fare. L'alternativa sarebbe tornare ai miei pensieri, e non è quello che voglio. Non ora. Così sto qui, a fare da spettatrice a qualcosa che non mi riguarda. Lui è ancora lì, che stringe forte il bicchiere nella mano sinistra. Lo sento supplicare, poi per un attimo i suoi lineamenti si fanno duri, e subito dopo sospira. Chiede scusa mentre china il capo e la sua mano si ferma trai capelli. Sussurra qualcosa che non riesco a sentire, e quasi inconsciamente mi sporgo. Perché per un po' mi ha fatto dimenticare dei miei problemi, per un po' non sono stata l'unica incapace a tenere i miei problemi fuori da questo posto. 
Poi il ragazzo alzalo sguardo, tira indietro i capelli biondi e i suoi occhi sono inaspettatamente sui miei. Mi sento presa alla sprovvista, come un bambino sorpreso a mangiare una cioccolata di troppo, e provo vergogna. Provo vergogna nell'essere stata beccata a fare da spettatrice alla vita degli altri, mi vergogno di aver appena mostrato di non averne una. Distolgo lo sguardo e con un panno asciugo dell'acqua inesistente sull'orlo del lavabo. 
Sento il suo sguardo addosso e la tensione opprimermi, vorrei non averlo fatto,vorrei non essermi appropriata di un momento che non mi apparteneva. Con la coda dell'occhio lo vedo lasciare delle banconote sul bancone, poi si alza e va via.




Spazio autrice ]
Non mi piace occupare righe per spazi come questi, infatti chi leggerà questa storia ne vedrà davvero pochi e brevi. 
Volevo solo dire che tengo particolarmente a questa storia e spero sara di vostro gradimento e che vi segnerà in qualche modo.
Spero inoltre di leggere vostre opinioni a riguardo.
Detto ciò, buona lettura a tutti/e, 
Giada

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - What about love? ***


Sono le due di notte e il locale ha chiuso. Solitamente chiudiamo molto più tardi, ma oggi no. Oggi è stata una Domenica diversa, e Jon ha deciso di mandarci a casa prima. Che secondo lui qualche ora di sonno in più ci può solo far bene, ma non a me. Tornare a casa non mi porterebbe nessun vantaggio. Che di andare a casa e soffiare sopra ad una candela rosa non mi va, che non ho avuto niente in questi vent'anni che valga la pena di essere festeggiato. Così attraverso e raggiungo il parco. Spesso mi sono chiesta chi abbia avuto la brillante idea di costruire un night club davanti ad un parco per bambini. So che non è stato Jon, che lui è solo l'ultimo dei tanti proprietari di questo locale.
Alcuni punti sono scarsamente illuminati dalla fioca luce dei lampioni, alcuni dei quali funzionano ad intermittenza, altri punti invece sono completamente avvolti dal buio. 
Le tre torri in legno sono sempre lì, al centro del parco, collegate tra loro da piccoli ponticelli mobili. Una delle torri ha lo scivolo, mentre l'altra una scaletta. È simile al castello che c'era nel parco dove mia madre mi portava da piccola, quando era all'inizio di una nuova relazione e si divertiva a giocare alla famiglia felice. 
Un cigolio proviene dalle altalene poste poco più in là mosse dal vento e inevitabilmente
penso a quanto possa apparire uno scenario piuttosto macabro e non adatto a chi, come me, non ama particolarmente il buio. Ma è anche il mio piccolo pezzo di paradiso, quello dove posso perdermi per qualche ora quando le mura di casa si fanno troppo strette, quando ho bisogno di aria diversa.
Di questo posto mi piace il fatto che di giorno abbia tutt'altro aspetto, un posto colorato e affollato, pieno di colori e privo di ombre. Mi piace perché in fin dei conti funziona così per molte cose: la notte è fatta per mostrare il lato che durante il giorno non mostreremo mai e fare cose che durante il giorno non avremmo mai il coraggio di fare.
Mi dirigo ad una delle panchine che danno sulla strada e non m'importa dell'ora, non m'importa che Axel sia a casa ad aspettarmi. Non m'importa di aver rifiutato il suo invito a festeggiare insieme il mio compleanno, che di fingere sorrisi questa sera non ne avevo proprio voglia, e avevo ancora meno voglia di vedere quello sguardo che fa lui. Quello che odio, quello che sembra rivolgere a qualcosa che possa rompersi da un momento all'altro, e invece guarda me. Non mi piace essere guardata in quel modo da nessuno. Pensavo che cambiando città ci sarebbe stata una tregua dagli sguardi pietosi, e invece sono stata solo una sciocca. Perché ogni volta che Axel mi guarda io lo vedo. Vedo i sensi dicolpa per qualcosa che non ha fatto, vedo la paura di perdermi di nuovo, vedo la compassione. Vedo cose che vorrei non vedere mai più nello sguardo di nessuno.
Inizio a fumare e prima che me ne accorga le cicche si accumulano ai miei piedi, mentre io guardo l'insegna del locale spegnersi definitivamente. 
L'improvviso calpestio del terriccio rompe il silenzio ed inevitabilmente il mio corpo si mette in allerta. Vorrei che non reagisse così, vorrei saper gestire meglio la paura che invece riesce sempre a prendere il controllo del mio corpo. Non sono bastate le lezioni di boxe, o i pomeriggi d'allenamento in palestra. In questo momento nulla conta, perché sembra che i miei polsi siano ancora intrappolati in quel metallo freddo, le mie caviglie tenute ferme dalle catene. Prima che io possa elaborare qualsiasi altra cosa, d'un tratto qualcuno esce dall'ombra: una figura alta che non riesco a distinguere bene fino a quando non si espone sotto la luce di un lampione. È a questo punto che riconosco il ragazzo, lo stesso che poche ore prima si è presentato al bancone.
Non so cosa voglia, né mi interessa sapere perché stia lì fermo a guardare, così torno ad osservare le poche macchine che passano a quest'ora della notte. Ma nonostante il mio sguardo sia puntato altrove, la mia mente è ancora lì, ferma su di lui. Proprio come il suo sguardo è ancora fermo su di me. So che mi sta guardando, e so che adesso si sta muovendo. Sento i suoi passi farsi sempre più vicini, fin troppo, poi si ferma. 
«Posso? » Ha una voceprofonda e ferma. Sembra sicuro di sé. Io non mi volto a guardarlo. C'è qualcosa in quei suoi occhi azzurri, qualcosa che non riesco a capire e non mi piace. Non mi piace niente che io non possa tenere sotto controllo. 
«Ci sono molte altre panchine qui. »
«Però questa è la mia panchina » ribatte, per poi sedersi. Potrei ribattere, ma non ne ho voglia. Forse sarebbe anche inutile. Poi però mi giro a guardarlo e lo vedo. Vedo ancora quel qualcosa che mi fa sentirea disagio, e vorrei che se ne andasse. Vorrei che non avesse mai fatto irruzione nella mia bolla. Così lo faccio.
«Non sapevo ci fosse scritto il tuo nome. »
«Anche se fosse, non potresti saperlo », ride e lo fa con gusto. La sua risata mi entra in testa e si ripete più volte. «Dovresti chiedermi come mi chiamo. »
Trattengo perun attimo il respiro, sorpresa che si ostini a rivolgermi ancora laparola. Non lo fa più nessuno da tanto tempo. Non sono una che infonde sicurezza, gli sconosciuti per strada non mi guardano in modo amichevole, non mi sorridono, non si fermano a scambiare quattro chiacchiere con me. E a me va bene. A me degli altri non importa.
Non mi smuovo, non sorrido, non dico niente. Ma lo guardo con la coda dell'occhio, tranquilla del fatto che la scarsa luce mi permetta di farlo senza essere notata. Che l'oscurità sa essere nostra complice, così come sa diventare la nostra più temibile rivale.
Ha un viso scolpito, le ombre che ricadono sul suo volto lo fanno apparire scavato e con gli occhi un po' stanchi. O forse a renderlo stanco non è quel gioco di ombre, ma la chiamata di ore prima. 
«Sei qui da molto tempo? » Mi prende alla sprovvista mentre inquadro i suoi capelli, ricci e lunghi, disordinati. 
«Forse », non so come e quando questa conversazione abbia avuto inizio e non mi importa. Sono qui perché delle parole ne ho abbastanza, non ho voglia di conversare con nessuno. Non sono in cerca di amichetti, non sono in cerca di guai. 
Il silenzio si appropria poco a poco dello spazio, ed io intanto lo guardo ancora. Il volto è coperto da una leggera barba ispida, al lato del suo labbro inferiore c'è un anellino. 
Sento l'aria farsi pesante e la vicinanza con questo estraneo mi fa sentire scomoda, a disagio. Così prendo le sigarette e, quasi con movimento automatico, ne prendo una e la porto alle labbra, mentre con la mano sinistra recupero l'accendino dalla giacca.
Cerco di perdermi in quella sigaretta e mi immagino quello che immagino sempre. Immagino di dissolvermi nell'aria proprio come il fumo che esce dalla mia bocca, ma il vento mi sbatte in faccia la realtà e io lo so. Lo so che non sono fumo, so che sono molto più simile alla sigaretta che ho tra le dita, una sigaretta che si brucia pian piano, una sigaretta consumata.
«Non saranno troppe? » Parla ancora ed io lo guardo. Lui non guarda me, il suo sguardo scettico è puntato sulla sigaretta. 
«Per quanto ne sai tu, potrebbe essere la prima.»
«Potrebbe », solleva le sopracciglia, sorride. «Ma le cicche ai tuoi piedi la dicono lunga. »
Sollevo le spalle e riprendo a fumare. 
«Non dovresti passare la fine del week end a contare quante sigarette fumano gli estranei al parco », aspiro le ultime due boccate di fumo, poi ciò che resta della sigaretta raggiunge le altre sul terriccio.
«Non mi resta molto altro da fare » sorride, ma percepisco amarezza nella sua voce, nelle parole, e nel suo sguardo. Gli porgo il pacchetto di sigarette, perché non conosco altro modo per curare i mali. Neanche questo funziona, ma dicono che a qualcuno torni utile. Non a me. 
«No grazie, ci tengo ai miei polmoni » 
«Quel tono accusatorio non serve a niente, puoi risparmiartelo. »
«Penso solo che è un modo di merda per buttare all'aria la proprio vita, oltre che i propri polmoni », il suo tono di voce è così pacato, ed un po' mi irrita.
«Ognuno di noi si distrugge con le proprie mani, non fingere che non sia così, cambia solo il mezzo.» Incrocio le braccia al petto e mi lascio scivolare sulla panchina. Chino la testa all'indietro e lo vedo, è sempre lì, il cielo. Così buio e pieno di stelle. Lo sento muoversi.
«Pensi sia uno stronzo, vero? »
«Non me ne frega un cazzo del parere di uno sconosciuto, tranquillo non smetterò di fumare a causa tua. »
Lo sento ridere, ma poi è un susseguirsi di attimi di silenzio. Un silenzio che non mi fa più stare bene, un silenzio pesante, un silenzio che non è più mio. 
Un silenzio che ancora una volta è lui a spezzare. 
«Cosa ne pensi dell'amore? »
«Non ci penso », ed è vero. L'amore non esiste per chi è sempre stato senza. L'amore è qualcosa di cui si legge nei libri, un po' come i lupi che mangiano le nonne e buttano giù case di fieno. 
«E del tradimento? » Lo guardo, ma lui sta guardando il cielo. Il suo volto è rilassato, in attesa di risposte. Risposte che non so dare, risposte che vorrei tenere per me. Ma non lo faccio.
«Tradire è la cosa più insensata al mondo. Supponiamo che l'amore esista », e mi fermo. Perché è stupido. Perché non si può parlare di ciò chebnon si conosce. Ed io l'amore non l'ho mai conosciuto. 
«Continua, ti prego » mi supplica con le parole e con lo sguardo.
«Nessuno dice che un giorno non possa finire, ma ciò non significa che il tradimento possa essere una soluzione, o una giustificazione. »
I nostri occhi si tengono in contatto. L'oscurità mi impedisce di riconoscere il colore dei suoi, ma non mi impedisce di scorgere dell'interesse. Come se la sua vita dipendesse da ciò di cui stiamo discutendo.
«Spiegati meglio. »
«Se ami non tradisci, se non ami più sei libero di andartene. Il tradimento è per i codardi, per quelli che hanno paura di affrontare la realtà. »
Per quelli come me. Non lo dico ma lui sembra sentirlo, il suo sguardo diventa pesante all'improvviso e decido che guardare il cielo è meglio. Che il cielo sta sempre lì, sa ogni tua mossa, ma il cielo non ti giudica. Le persone sì. Le persone lo fanno anche senza sapere. Lo fanno sempre. 
«L'hai tradita? » Non m'interessa davvero, voglio solo che smetta di guardarmi. Voglio che rivolga la sua attenzione a qualcosa che non sia io, o i miei pensieri.
«No. » È la sua unica risposta, e me la faccio bastare. Che tanto il suo sguardo adesso è puntato altrove e va bene così. «Comunque, in alto adestra. » 
«Cosa? »
«Nella panchina, in alto a destra, proprio dietro la tua schiena. » E allora lo capisco, ma non mi sposto. Nello stesso momento sento il telefono vibrare e so che è un messaggio, so che è Axel, so che mi chiede di tornare. Però non rispondo.
«Tu invece non hai di meglio da fare durante il weekend anziché versare drink e fare da spettatrice alla triste vita di chi sta dall'altra parte del bancone? »
«Non mi resta molto altro da fare » imito la sua risposta e lui ride, mentre il mio telefono inizia a squillare. E allora rispondo, che di leggere il nome non è ho bisogno. Sento la voce di Axel, la sento stanca e rauca. Lo sento chiedermi dove sono finita, e vorrei saperlo anch'io. Lo sento chiedermi di tornare a casa, lo sente anche il ragazzo che ho accanto. Acconsento e chiudo la chiamata.
«Tutto bene? » Me lo chiede mentre mi alzo.
«Devo andare »,bprima di voltargli le spalle però guardo dove poco prima era posata la mia schiena, in alto a destra: LUCAS.
È inciso sulla pietra a caratteri abbastanza grandi da permettermi di vederlo anche a questa distanza. So che mi sta guardando, così mi fermo un attimo. Lo guardo e lui ha un mezzo sorriso dipinto sul volto. 
«Lucas, dovresti farci mettere su una targa, per evitare altri spiacevoli disguidi. »
«A volte li trovo interessanti, i disguidi » lo dice prima di esplodere in una risata silenziosa, mentre io riprendo a camminare. 
«E comunque ne sai troppo sul tradimento per essere una che all'amore non ci pensa! »

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Nightmares ***



Sangue. Gocce scarlatte, rivoli color cremisi che imbrattano tessuti e carni.
Sento la pelle bruciare. Dentro, fuori, intorno. 
Impronte che non posso vedere ma so che ci sono, persistenti, indelebili, create apposta per soffocarmi. E cicatrici. Cicatrici che restano, dentro e fuori. Cicatrici che non posso vedere, ma neanche dimenticare.
Ed è così che mi sveglio, con il respiro affannato e il battito del cuore irregolare, che è l'unica cosa che mi ricorda di esserci ancora. 
Mi sento intrappolata nelle lenzuola bianche ormai madide di sudore. Non aspetto che la vista diventi nitida, né che il giramento di testa passi, corro alla finestra e scosto le tende scure, la apro e la luce del giorno mi colpisce in viso come una secchiata di acqua gelida.
Mi aggrappo al tessuto ruvido delle tende come se fosse l'unica cosa a tenermi in piedi, come se, mollando la presa, rischiassi di essere travolta da quel vortice di ricordi e paure che vaga nella mia testa in questo momento. 
Inspiro una, due, tre volte. Sento i polmoni riempirsi d'aria, riprendere a svolgere il loro dovere. Sento quel peso sullo stomaco allentarsi, fino a scomparire del tutto. Le vertigini cessano e io riapro gli occhi. 
Il sole, il cielo azzurro, gli alberi verdi, le urla dei bambini. Fuori è estate, e sembra un mondo così lontano da me. Che fuori ci saranno anche trenta gradi, che il caldo si attacca alla pelle, ma io continuo ad avere brividi in tutto il corpo.
Quando sento le gambe smettere di tremare, ritorno nel mio letto. Mi siedo e fisso la moquette grigia.
Ci sono persone che non vogliono dormire per paura degli incubi, e ci sono persone che non vogliono svegliarsi per la stessa paura. Perché a volte ti svegli di soprassalto credendo di essere riuscita a sfuggire da qualcosa di brutto, ma hai aperto gli occhi solo per poi accorgerti che la realtà non è poi così lontana da ciò che ti insegue nei sogni.
Sento qualcuno bussare alla porta, provo ad ignorarlo ma so che sarebbe inutile. Resterebbe lì tutto il tempo necessario, o butterebbe giù la porta.
«Ash, ho preparato la colazione. » La voce di Axel è attutita dal legno, però lo sento comunque. Sento l'allegria con cui è solito affrontare la giornata, e non lo vedo, ma so che c'è un sorriso gentile sul suo volto. Perché lui è così, lui è Axel. Lui è così diverso da me. Lui si sente in dovere di essere felice sempre, tutti i giorni, anche quando il suo di mondo cade a pezzi, lui sorride per gli altri. 
«Non ho fame, inizia senza di me », gli dico. Perché non credo di farcela. Non credo di potermi sedere di fronte a lui e far finta di niente, far finta che quel sangue non mi oscuri ancora la vista, che quel buio non mi attanagli ancora le viscere. 
E non m'importerebbe se fosse qualcun altro, ma è Axel. E ad Axel non posso farlo. 
«Fai una doccia e vieni, ti aspetto » ribatte, e io non dico nulla. Porto solo le ginocchia al petto e nascondo il volto tra le braccia, mentre rimpiango le notti tranquille, quelle senza tormenti, quelle senza mostri sotto al letto, quelle che stento a ricordare perché risalgono a tanto tempo fa.

Quando raggiungo Axel lui è già seduto, ma il suo piatto è ancora pieno. Mi ha aspettata davvero, e allora sono contenta di non aver perso tempo ad asciugare i capelli, che adesso mi ricadono   bagnati sulle spalle, lasciando rivoli d'acqua lungo la mia schiena. 
«Avresti potuto iniziare », prendo posto e lui alza lo sguardo dal suo telefono.
«Il Lunedì è l'unico giorno in cui riusciamo a vederci » mi ricorda, come se io non lo sapessi. Lui addenta i suoi pancakes, mentre io verso un bicchiere di aranciata. 
La doccia mi ha aiutato a togliere la stanchezza e la paura dal viso, ma c'è ancora qualcosa che mi attanaglia lo stomaco. Qualcosa che mi rende difficile persino inghiottire e mandare giù questo succo. 
Vedo Axel guardarmi di tanto in tanto, così mi sforzo e mangio qualcosa. 
«Cosa farai oggi? È il tuo giorno libero, no? »
Inghiotto e bevo un sorso, che spero mi aiuti a mandare giù quel pezzo di pancake, e magari anche quel groppo persistente che ho in gola da quando ho aperto gli occhi. 
Axel mi guarda in attesa di una risposta, e io annuisco. «Non lo so, pensavo di restare a casa a riposare. »
«Sei tornata tardi stanotte. »
«C'era tanta gente al locale » mento, e lui lo sa. Sa che a volte capita, che a volte è vero che la gente invade il locale e che ci tocca chiudere più tardi del dovuto. Ma sa anche che a volte il locale non ha nessuna colpa, sa che a volte il lavoro non è abbastanza e che mi serve dell'altro tempo prima di chiudermi in quelle mura.
«Stavo pensando che potresti lasciare questo lavoro » la butta lì come se nulla fosse, come se stesse parlando di cosa mangiare a pranzo. E tiene lo sguardo basso, con la forchetta sminuzza ciò che è rimasto sul piatto in ceramica. Non mi guarda e so perché. So che teme di trovare il mio sguardo furente, come quando mi chiedeva di lasciare il lavoro perché non voleva che frequentassi posti come quello. Ma so che questa volta il motivo non è questo, so che c'è dell'altro, e aspetto che lo dica. 
«E cosa dovrei fare, dopo? »
«Studiare?» mi guarda, ed io guardo lui. Vorrei ridere ma non lo faccio, perché sono stanca. E perchè lo ferirebbe.  «Non è una cosa così diversa da quello che volevi fare anni fa, anzi era proprio questo. » 
«Anni fa Axel, hai detto bene », allontano il piatto perché adesso non vale neanche più la pena fingere di aver fame. Tanto la sua attenzione adesso è concentrata su di me, sui miei sogni che hanno cessato di esistere e su un futuro in cui ho smesso di credere. 
«Cos'è cambiato, Ashlie? » Axel si alza e porta la sua sedia vicino alla mia. E' seduto di fronte a me, non ci prova neanche a prendere le mie mani tra le sue, sa che non deve, ma insiste nel trovare il mio sguardo e lo lascio vincere. E lo vedo. Vedo il suo sguardo speranzoso, e ci vedo anche i sensi di colpa per qualcosa di cui in realtà colpe non ne ha. 
«Axel, no. Lascia perdere. » 
«Perchè Ash? Per una volta potresti sforzarti di non essere così? Sforzarti magari di essere come la Ashlie di prima? » dice, e vorrei che dentro di me ci fosse quella freddezza che ormai persiste in continuazione nella mia vita. Ma non è così. Non con Axel. Le sue parole arrivano come un lungo ago sparato dritto al petto.
«Sai che con me non devi fare così », continua. Ma io non sto facendo niente, io non posso fare niente. L'Ashlie di prima neanche me la ricordo com'era. L'Ashlie di prima non è riuscita ad uscire da quello scantinato buio, quella che ne è venuta fuori è solo un disordinato disastro. Un disastro che ha passato un mese in un ospedale nel quale pensavano di aver rimesso in ordine il casino che era,  per poi essere dimessa con una vita a pezzi. Una vita di cui ormai facevano parte solo il silenzio, l'alcol  e il fumo. Una vita dove l'andare avanti non era più una priorità ma una costrizione. E poi era sparita anche quell'Ashlie, e adesso ci sono solo io. Ma l'Ash dei tempi d'oro sembra essere solo un lontano ricordo di Axel, perché è solo da lui che ormai ne sento parlare. 
Dello sguardo di Axel su di me non ne posso più, così mi alzo. Scanso il suo tentativo di fermarmi e mi chiudo in camera, ma subito dopo lui apre la porta.
«Non ne hai mai parlato davvero con nessuno, vero? » 
So che Axel è sullo stipite della porta, ma non mi va di guardarlo. Non voglio che mi accusi di essermi ritirata in un mondo dove il silenzio regna da padrone, perché tanto so che non capirebbe. Come nessun altro. Perché nessuno sa davvero, e a volte nessuno vuole davvero sapere. 
«Axel esci. »
«Dovrai pur parlarne con qualcuno prima o poi, e con me puoi farlo. »  
Mi volto e lo guardo. Ha le braccia incrociate al petto, la spalla contro lo stipite della porta. I capelli biondi gli ricadono scompigliati sulla fronte e non vedo più la spensieratezza che è solito trovare nelle sue espressioni. Una spensieratezza che poi non è sempre così vera, e lo sappiamo entrambi.
«Il punto è che non voglio » dico con freddezza, e lui abbassa lo sguardo.
«Se avessi voluto continuare ad avere a che fare con quelle cose, allora sarei potuta restare a casa. »
Abbassa lo sguardo e si arruffa i capelli. 
«Avevamo detto che avremmo iniziato una nuova vita », mi ricorda. Senza guardarmi. E so perché non riesce a farlo. So che quella promessa l'abbiamo fatta entrambi, ed io l'ho fatta solo perché l'opzione non era altro che quella. Una promessa in cui non sono mai riuscita a credere davvero fino in fondo.
«È passato molto tempo Axel, e sto bene. Mi sono lasciata tutto allo spalle, dovreste farlo anche voi. »
Axel resta in silenzio ad osservarmi con dispiacere. 
«Il problema è che io ti vedo » bisbiglia, voltandomi le spalle ed avvicinandosi alla porta. Si ferma con la mano sulla maniglia e la testa bassa, ma la frase risuona forte nella stanza seppur detta quasi in un sussurro. «E ciò che vedo non è una ragazza che sta bene.»
«Cazzate, Axel. »
«E allora ripensaci, prendi in mano la tua vita, Ashlie. Non hai più delle manette ai polsi.»

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Chance ***


 

Ottobre 2017; Minneapolis, Minnesota.

A volte si passa una vita ad ascoltare storie di grandi amicizie, legami indissolubili e persone destinate ad incontrarsi. Ci si convince che forse, lì da qualche parte, ci sia una persona destinata a noi, che si tratti d'amore o di amicizia. E capita anche di trovarla, l'amica che abbiamo sempre desiderato, o il migliore amico di cui avremmo sempre bisogno. Il problema non è incontrarle, le persone. Il problema è la verità. Perché la verità è che niente è duraturo. Ogni cosa è destinata ad una fine, cambia solo il quando. 
Da bambina non ho mai avuto tanti amici, non ho mai avuto tanti giocattoli da mostrare ai compagni di scuola, non ho mai partecipato alle feste di compleanno perché mia madre le riteneva inutili. Ecco perché non ne ho mai avuta una. Per lei erano cose futili, molto meno importanti dei suoi reali interessi, ed io non ero tra quelli.
Così mi limitavo a guardare gli altri bambini fare le loro esperienze, senza vivere le mie. All'asilo guardavo le altre bambine scambiarsi le Barbie e decidere quale fosse la più bella, mentre io immaginavo come sarebbe stato averne una. E immaginarlo mi bastava. 
Alle elementari le sentivo organizzare i loro pigiama party, ed è stato così che ho imparato cosa fossero, ma non ne ho mai potuto organizzare uno. Ma immaginare che un giorno sarei riuscita ad averne uno tutto mio, mi rendeva entusiasta. E io ero sempre lì, ad osservare gli altri diventare amici, e ad immaginare quanto sarebbe stato bello avere qualcuno. Qualcuno con cui parlare, giocare, studiare. Magari un'amica, che mi aiutasse a dimenticare la madre che avevo, i suoi continui fidanzati, e la solitudine troppo pesante per qualsiasi bambina di quell'età. Una bambina che poi è cresciuta, che ha smesso di credere nelle favole che si è sempre letta da sola. Una bambina alla quale immaginare non bastava più, che di aspettare si era stancata, e che quindi un po' ci ha smesso di sperare. Una bambina che inevitabilmente si è trasformata in un'adolescente. Un'adolescente ormai consapevole del fatto che a volte non sempre va bene a tutti, che forse non ero destinata ad avere nessun altra compagnia che non fosse quella del mio fratellastro. Consapevole che a volte aspettare è una perdita di tempo, che a volte questo tempo lo perdiamo aspettando qualcosa pur sapendo che non arriverà mai. Ma è stato in quei stessi corridoi che sono stata smentita. 
E' stato girando in quei posti pian piano così familiari, con quella consapevolezza che mi gravava addosso, che mi sono imbattuta in quella che credevo fosse la mia persona. Ricordo le promesse e le confidenze, la leggerezza di avere qualcuno con cui condividere i pensieri opprimenti e renderli più sopportabili. Ricordo come fosse avere una spalla su cui piangere. Ricordo i litigi e le promesse silenziose. Ricordo i progetti fatti insieme, quelli in cui una includeva l'altra senza mai pensarci troppo, progetti che poi non sono mai stati realizzati.
Perché semplicemente a volte accade e basta. A volte credi di aver trovato quelle persone di cui tutti parlano, quelle per le quali credi di essere indispensabile, insostituibile, e probabilmente per un po' lo sei stata davvero. Ma le cose cambiano. Cambiano sempre, cambia anche chi non avresti mai pensato. Cambi tu, cambi ciò che rappresenti per loro. Un giorno sei la persona senza la quale non riuscirebbero a vivere, alla quale raccontano ogni singolo dettaglio della loro vita. L'unica di cui si fidino, che amano, che non dimenticano. Poi un altro giorno ti svegli e non è più così. Non è te che cercano, non è di te che hanno bisogno, non è te che vogliono. E non importa se tu di loro ne hai ancora bisogno, se tu loro li vuoi ancora nella tua vita. Perché hanno trovato altro, trovano sempre di meglio. Perché vai bene fino a quando non trovano qualcosa di più. E allora tu devi startene sulle tue, che tanto non puoi dire niente, che non puoi sentirti come quella messa da parte. Anche se lo sei, non ha senso lamentarti, tanto non puoi. Perché non è importante ciò che hai da dire, e non lo sei neanche tu, non più. Lo eri quando non potevano avere di meglio, ma non ora. Non ora che il meglio lo hanno trovato, e non sei tu.

Due ore e trenta minuti, centosei miglia. Un tempo troppo lungo, tanta strada da fare. Pensare a Juliette è stato inevitabile. Pensare alla nostra amicizia e a come tutto sia finito per un niente. Il college faceva parte del futuro che avevamo sempre condiviso, un futuro che ho visto sfumare così tante volte da smettere di crederci. 
Eppure sono qui, seduta in una Firebird nera del '69, a pensare a lei mentre sono diretta ad una festa, a pensare quante volte abbiamo sognato momenti come questo.
«Sei sicura di non voler venire a stare da me? », mi limito a fare un cenno di diniego, che di parlare non ne ho voglia. E non riesco. Perché guardo al di là del vetro e ancora mi sembra impossibile. Il campus, l'università, non erano più cose mie. Ricordo il primo test di ammissione fatto, ricordo quel misto di ansia e felicità nell'attendere la lettera. Ma quando quella lettera era arrivata ormai era troppo tardi, che del mio futuro poco importava, perché neanche credevo di averne uno. E non era importato niente a nessuno, se non ad Axel. Joy e Maryn erano contenti che io avessi strappato quella lettera, ma lui no. 
«A cosa pensi Ash? » La voce di Axel mi distoglie dai miei pensieri. 
«A nulla, mi guardavo intorno », e nel passato. «Che razza di festa è? »
«E' nella casa di una congrega di cui fa parte un mio amico » afferma Axel, entrando in un piccolo parcheggio davanti ad una villetta bianca. Da qui si intravede il portico sul quale si scorgono diverse figure, e la musica arriva fin qui. «Ti stupirai di come sentirai parlare di feste sette giorni su sette. »
«E il tempo di studiare dove lo trovate? » Scendo dalla macchina e aspetto che lui faccia lo stesso. Non ho alcuna intenzione di entrare lì dentro da sola ed Axel sembra capirlo perché, subito dopo essersi assicurato di aver chiuso l'auto, mi affianca e posa un braccio sulle mie spalle, ignorando i miei istintivi tentativi di opposizione. Ma so che questo contatto è quello di cui abbiamo bisogno entrambi, allora lo lascio fare.
«Lo imparerai a tue spese, anche se naturalmente spero di vederti a pochissime di quelle feste » dice, ma so che in realtà ciò che spera è l'opposto. So che vorrebbe vedermi ad ognuna di esse, vorrebbe che io fossi lì a ballare e a divertirmi, a parlare con amici e non. Perché vedere tutto questo significherebbe riavere la vecchia Ashlie, e per Axel sarebbe la fine di un brutto sogno. Un incubo a cui si rifiuta di abituarsi, un incubo in cui io ormai vivo costantemente.
Subito dopo aver varcato la soglia, la quiete che poco prima impregnava l'aria adesso è sostituita da musica e centinaia di voci indistinte. La stanza è gremita di gente, al punto da non riuscire a capirne le dimensioni né la forma. Axel procede facendosi spazio tra la gente senza mai mollare la presa e, di tanto in tanto, si scambia un saluto con alcuni dei presenti. 
Io invece preferisco non alzare lo sguardo dal parquet, troppi volti che non m'importerebbe ricordare e troppi occhi da cui preferirei non essere notata. 
«Qui dovrebbe andar bene », mi lascia andare e siamo in quella che è palesemente una spaziosa cucina. «Benvenuta al college, Ash. »
Il sorriso che nasce sulle labbra di questo ragazzo mi spiazza un po', ed è così facile vedere come questo sia il suo posto. Il college, le feste, gli amici. Questa è la sua casa, il suo posto. E avere un posto io non so più cosa significhi, che svegliarsi una mattina e sentirsi al posto sbagliato, sempre e ovunque, è più comune di quanto si voglia pensare. Che casa è dove non hai paura di essere te stessa, dove sai che puoi rifugiarti quando il mondo diventa un po' più stretto. Ed io una casa allora non l'ho mai avuta, e adesso lo so. Per un periodo ho creduto che il college sarebbe potuto essere anche il mio di posto, quello dove poter iniziare una nuova vita, fare nuove conoscenze, dar vita alla vera Ashlie. Poi però tutto d'un tratto era cambiata ogni cosa e il college non era più rientrato tra le mie aspettative per il futuro, e neanche essere viva lo era.
«Questa va bene per festeggiare?» Prendo la birra che Axel mi porge, scontrandola poi con la sua. Bevo e prego che la serata si concluda il più velocemente possibile. Bevo e prego che Axel smetta al più presto di guardarmi in questo modo, nel modo in cui tanto odio. Vorrei che mi vedesse per ciò che sono, e non per quella che ero. Vorrei capisse che ciò che è già rotto, non può più cadere in pezzi. 
E so che adesso vorrebbe dire qualcosa, che questo era un momento che forse avrei dovuto vivere con un entusiasmo diverso, con una fiducia diversa. Non lo sto facendo e lui lo sa. Muove le labbra, ma non emette alcun suono. Poi ci riprova.
«Ashl-», un ragazzo compare alle sue spalle, e anche questa volta Axel non riesce a dir niente ed io ne sono grata.
«Axel! » Con un goffo abbraccio il ragazzo si appoggia a lui, usandolo come appiglio. È palesemente ubriaco, e mi ricorda i momenti a fine turno al Days Inn, quando le persone arrancavano fuori dal locale in queste stesse condizioni.
«Beh non mi presenti la tua ragazza? »
Axel ride e scuote la testa, mentre l'amico si guarda intorno con un sorriso incerto sul volto, indubbiamente incosciente di ciò che accade intorno a lui. 
«Lei è mia sorella », lo informa.
Guardo l'altro sollevare appena la mano in segno di saluto, e ricambio.
«Oh tu sei Ashlie allora » sbiascica il giovane, bevendo un sorso dal bicchiere che regge con la mano sinistra. «Io sono Landon. »
«Lui è uno dei ragazzi con cui condivido l'appartamento », specifica Axel e ringrazio me stessa per aver rifiutato la proposta di trasferirmi nell'appartamento più e più volte. 
«Amico, Brad e Kris si stanno sfidando ad una partita di birra pong all'ultimo sangue », questa volta Landon si rivolge, tra un singhiozzo e l'altro, direttamente ad Axel. 
Io osservo il mio fratellastro e mi sembra un Axel che non conosco, qualcuno che ho tenuto costantemente lontano dalla mia vita per così tanto tempo da farlo diventare uno sconosciuto, qualcuno tutto da conoscere. Eppure c'è una parte di lui che è sempre lì, quella che conosco bene. Quella che non stento a riconoscere. Perchè è quella che mi ha sopportato e supportato quando le luci per me erano spente, quella parte di lui che, anche se divertita, presta premurosamente attenzione ad un tipo stravagante e ubriaco, portandolo a promettere di smettere di bere per questa sera. 
Dopo qualche parola pronunciata a fatica Landon si congeda, salutandomi con un inchino più traballante che galante. Io ed Axel restiamo di nuovo soli, lui prende posto su uno sgabello e posa i gomiti sulla superficie in marmo dell'isola della cucina, mentre io resto in piedi a guardarmi intorno.
La musica, le luci stroboscopiche, la folla, l'odore di alcol e fumo, fa tutto parte del passato, di un Ashlie della quale pochi hanno memoria. Un passato che provo a tener chiuso in una parte remota della mia testa ma che a volte, in momenti come questi, trova il modo di far tornare a galla vecchie sensazioni. Sensazioni che mi rifiuto di accettare, di sentire. Che a volte spegnere tutto è l'unico modo per non soffocare.
«So che non sembra, ma è un ragazzo per bene » dice Axel. «Gli piace divertirsi »
«Dovresti farlo anche tu », bevo un sorso della birra, e lui fa lo stesso.
«E' quello che faccio. »
«Intendo adesso » chiarisco, puntando gli occhi su di lui. «Non devi farmi da baby sitter. Raggiungi i tuoi amici e divertiti, io faccio un giro. »
«Ne sei sicura? » Mi scruta con sguardo incerto ed è facile capire quanto sia combattuto, inutilmente poi. Vorrei dirgli che dovrebbe smetterla, che per vent'anni me la sono cavata da sola e non sarà una stupida festa ad abbattermi. Ma non lo dico, perché in fondo lo sappiamo entrambi che in vent'anni forse una mano mi avrebbe fatto comodo. Forzo un sorriso e muovo la mano per scacciarlo. Axel mi stampa un bacio sulla fronte e, senza darmi il tempo di protestare, sparisce nel salotto. 
Mi guardo intorno e sembra la prima volta che provo a farlo davvero. La prima volta che mi rendo conto che qui tutto è estraneo, che girovagando qui intorno non troverò nessuna Juliette, neanche Dylan.
Una ragazza fa irruzione nella stanza semi vuota e si precipita al lavabo, seguita a ruota da altre due ragazze, che suppongo siano sue amiche. Una le massaggia la schiena e l'altra le tiene i lunghi capelli. Vedo il modo apprensivo con cui le sue amiche la guardano e per un attimo l'immagine di Will che fa lo stesso con me in un passato più o meno remoto, mi sfiora la mente. 
Quello che succede pochi secondi dopo però non solo cancella subito quell'immagine dalla mente, ma mi fa decisamente venir voglia di cambiare stanza e ritrovarmi da tutt'altra parte. Così mi avvicino ad una porta a vetri che da sul giardino nel retro. Esco e l'aria fresca mi investe in pieno. Inspiro forte, e mi rendo conto solo in questo momento di quanto fosse pesante l'aria dentro la casa. 
Distante qualche metro da me vedo un falò improvvisato, intorno al quale sono riuniti un po' di ragazzi che ridono e scherzano. Ma non è lì che voglio fermarmi, preferisco isolarmi in un posto tranquillo a guardare la serata degli altri procedere. Voglio sentirmi un po' come dietro al bancone del Days Inn, un bancone che sentivo come una barriera tra me e la realtà, tra me e la vita di tutti i giorni. Un bancone di cui inizio a sentire la mancanza, perchè tra me e la mia vita adesso non c'è niente che possa tenermi al sicuro, nemmeno per qualche ora. 
Faccio solo qualche passo, quando vedo un'amaca con la struttura in metallo e mi sembra il posto ideale dove sedermi e attendere che la serata finisca. La raggiungo a grandi falcate e, stringendomi nella giacca, mi ci lascio cadere. Con il bicchiere ancora stretto tra le mani, come se fosse una fonte di calore, penso che stare qui mi aiuterà ad essere paziente. 
Nonostante abbia lavorato per due anni in un night club, non mi piace la confusione, la musica troppo forte, tutta questa gente. Mi fanno sentire scomoda. Mentre qui, da sola, mi sento al mio posto. 
Mi dondolo un po' e bevo qualche sorso di birra. Faccio giusto in tempo a pensare di accendere una sigaretta, che vedo una figura fermarsi davanti e coprirmi la visuale.
«Chi l'avrebbe mai detto che ci saremmo incontrati di nuovo? » 
Alzo bruscamente lo sguardo, riconoscendo fin troppo in fretta quella voce. Una voce che non avevo più sentito da quella sera. Una voce a cui non avevo più pensato, oltre quella notte.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Phobia ***


Una voce che ricordo. E ricordo quella notte di tre mesi fa come se fosse ieri, una notte insolita.
Una di quelle notti che sarebbe potuta essere come tutte le altre, ma non lo è stata. Una notte in cui avrei voluto perdermi nel buio tenebroso del cielo, tra il silenzio e il caldo, per dimenticarmi di cose che il giorno del tuo compleanno forse risultano un po' più taglienti. Ma così non è stato. Che godermi il silenzio è stato impossibile, perché quella voce mi ha accompagnato tutto il tempo senza che io glielo chiedessi, senza che sapesse di star facendo parte di uno dei momenti più pesanti della giornata.
Ricordo anche quel senso di scomodità, il disagio persistente. Lo stesso disagio che adesso, alzando lo sguardo e incontrando il suo, sento attanagliarmi lo stomaco.
«Io non lo avrei detto di certo » dico, e lui invece mi guarda dall'alto, con un sorriso sul volto.
«Io invece, per assurdo, un po' ci speravo », sorride ancora e beve un sorso della sua birra. Questa volta il buio non incombe su di noi in modo insistente, questa volta non si tratta solo di fugaci ombre e sagome impercettibilmente illuminate dai lampioni. E questa volta posso guardarlo senza nessun ostacolo, e non m'importa che anche lui possa vedere me. Voglio guardarlo e voglio dare un volto ben definito alla voce che mi ha parlato quella sera. Alla voce che mi ha tenuto compagnia anche quando ero scappata di lì, quando ero nel mio letto ma continuavo a sentirla.
I capelli lunghi e biondi, occhi azzurri, labbra rosee e alla vista morbide, la barba troppo corta per essere notata in un primo momento. E non parla, la voce non la sento, e non mi sembra lo stesso di quella notte. La sua andatura, il suo modo di vestirsi, non sembrano appartenere a quel tipo di persona che alle due di notte riflette sull'amore e sul tradimento. 
Beve un'altra volta, si guarda intorno e poi mi affianca. Questa volta non me lo chiede, si siede e basta. E all'improvviso sento quest'amaca farsi scomoda, troppo stretta per due persone. Provo a mettere un po' di distanza, ma invano. Il suo ginocchio è contro il mio.
«Cosa ti porta da queste parti? »
«Il college » la mia voce risuona fredda e vuota come sempre, ma più brusca. È troppo vicino, e so che non sopporterò a lungo questa vicinanza.
«E tre mesi fa cosa ci facevi a centosei miglia da qui? »
«Ci vivevo. » 
Lui posa i gomiti sulle gambe e si piega in avanti, ponendo fine al movimento dell'amaca. 
Continuo a sentire invadente la sua vicinanza. Lui indossa una giacca jeans, in contrasto con la mia giacca di pelle nera. Le nostre spalle si toccano. 
La sua schiena è ricurva, è a suo agio, sta bene. La mia schiena è tesa, come ogni parte di me. Non sono a mio agio, e l'aria qui fuori non mi sembra più abbastanza adesso che siamo in due. 
Si susseguono attimi di silenzio, pianto gli anfibi neri sul prato, e questa volta sono io che faccio muovere l'amaca.
«Mi stavo chiedendo » il suo viso è molto vicino ai miei capelli, all'altezza del mio orecchio, la sua spalla spinge contro al mio braccio, « per sapere il tuo nome, devo lasciartelo incidere su quest'amaca? »
Forse se non fosse stato così vicino, se la sua voce non mi avesse fatto venire i brividi, forse avrei sorriso. E invece mi alzo.
«Ashlie », tiro fuori il pacco di sigarette, lo sguardo di Lucas puntato addosso però rende anche una semplice mossa come portare alle labbra una sigaretta dieci volte più faticosa di quanto non sia mai stata. Riesco ad accenderne una, e aspiro. Faccio appena in tempo ad allontanarla dalle labra e buttar fuori il fumo, prima che Lucas me la strappi di mano e la getti a terra, posandoci sopra la scarpa.
«Cosa diavolo fai ? » Non mi scompongo, non urlo, semplicemente lo fisso. Lo vedo confuso e so che sta cercando di mascherarlo, so che la sua confusione è dovuta alla mia assenza di reazione.
Ma non m'importa. Ho smesso. Ho smesso di reagire alle cose, alle persone. Ho smesso di sprecare fiato, voce, lacrime. Ho smesso, e non ricomincerò di certo adesso, solo perché qualcuno si sta annoiando ad una festa e pensa bene di infastidirmi. 
Lo guardo ricomporsi, si passa una mano tra i capelli e solleva le spalle.
«Salvo i tuoi polmoni. »
«Non ti hanno chiesto di farlo » ribatto. 
«Forse loro lo fanno ma sei tu che non vuoi sentire », la conversazione prende una piega assurda, e non ho voglia di perdere tempo. Il senso di disagio è stato sostituito da fastidio. Decido che è il momento di andare, così gli do le spalle e mi allontano.
«Dove vai? » Gli sento dire. Non mi volto, non lo guardo, semplicemente continuo ad allontanarmi.
«Via. »

Entro in cucina e trovo più gente di prima, ed è l'unico motivo per cui cercavo di evitare di tornare qui dentro.
Sgomitando tra la gente riesco a farmi spazio fino all'isola, la mia schiena aderisce al mobile e mi guardo intorno, come se dentro questa stanza ci possa essere qualcuno che conosco, quando in realtà le poche persone che conosco sono ovunque tranne che qui. Così penso a Dylan, al fatto che vorrei fosse qui, che a lui le feste non piacciono più, che forse ora mi direbbe di andare da lui. E adesso accetterei, perché so che mi aiuterebbe. So che mi aiuterebbe a non pensare a tutto questo, a Juliette, al college, al fatto che sto perdendo il controllo su ogni cosa. Ma non ci vuole molto prima che la realtà mi investi, che Dylan è a due ore da qui, al suo turno di lavoro, e non varcherà quella soglia.
Inspirò forte, e chiudo gli occhi. Non posso lasciarmi andare, non qui. Ho bisogno di sedermi, e ho bisogno di silenzio. Così mi allontano dal bancone e supero un po' di gente, con l'intenzione di salire al piano di sopra e trovare una stanza libera dove starmene per conto mio. Riesco ad arrivare alla porta che da al corridoio che unisce la cucina con il salotto, e le luci si spengono.
L'intera casa viene assorta dall'oscurità, il vociare si fa sempre più forte. Le mie gambe si bloccano, io vengo spintonata. Sento grida di divertimento, la musica sembra essere cessata e le risate aumentano. Provo a guardarmi intorno, ma scorgo solo un susseguirsi di sagome nere. Ogni suono inizia ad arrivare sempre più ovattato alle mie orecchie. Il buio mi impedisce di avere una chiara visuale, ma ho come la sensazione che il pavimento abbia appena iniziato a muoversi, le mura della casa cominciare a vorticare in modo irrefrenabile. E allora lo sento. Sento la presa sulla bottiglia di birra allentarsi, la sento schiantarsi al suolo e il vetro ridursi in mille pezzi. Vorrei muovermi, vorrei correre, vorrei scappare via da qui. Ma non ce la faccio. Provo a chiudere gli occhi, provo a ricordare gli esercizi che per tanto tempo mi hanno costretto a fare, che ho avuto la necessità di fare più volte in passato. Provo a fare dei respiri lenti e profondi, ma il mio corpo non sembra più essere il mio. Mi sembra di riuscire a vedermi da fuori, vedo il panico prendere il sopravvento e impedirmi di immaginare in maniera lucida. Sento un improvviso e disperato bisogno di accasciarmi a terra, ma non riesco a fare neanche questo. 
Sento delle mani afferrarmi alla vita e tenermi stretto. Penso che dovrei oppormi, ma il tocco deciso è caldo e confortante, così mi lascio stringere al petto di qualcuno che non riesco a riconoscere.
«Non preoccuparti, adesso passa », e allora la sento. Sento la sua voce sussurrarmi all'orecchio parole confortanti. 
Spontaneamente affondo il volto tra la spalla e il collo di Lucas e non m'importa di niente. Non m'importa che le sue mani siano su di me: una mi accarezza la schiena, muovendosi con calma, l'altra è tra i miei capelli, sul collo.
Non ho idea di quando sia arrivato, so solo che l'angolo tra il suo volto e la sua spalla al momento mi sembra l'unico posto in cui il buio non può raggiungermi.
Mi aggrappo a lui, e lo sento stringermi più forte a sè. Non so quanto tempo restiamo così, io tra le sue braccia e il peggio fuori. Sento la musica tornare a risuonare forte tra le mura, e vorrei allontanarmi ma continuo a sentire la testa girare e le gambe deboli. Mi accorgo di star tenendo ancora stretto in un pugno la sua giacca jeans, sento la mano tremare e forse non sono l'unica ad accorgersene, perché Lucas mi prende il volto tra le mani. Inizia a disegnare con i pollici dei cerchi invisibili sulle guance fredde, allontanandomi il volto e facendo sì che le sue iridi azzurre siano a contatto con le mie.
«Ashlie », lo ripete più volte, fino a quando non ritorno in me. Le urla sono svanite e le voci non riempiono più in modo opprimente la mia testa. Il pavimento è fermo, le pareti hanno smesso di restringersi e sento bruciare il punto del mio viso intrappolato tra le sue mani. 
Lo guardo e mi sembra di vederlo per la prima volta negli ultimi cinque minuti, eppure è stato sempre qui. Sento la paura svanire ed essere sostituita da un'opprimente sensazione di disagio.
Scuoto il viso e lui me lo lascia andare, provo ad indietreggiare per mettere della distanza tra noi ma barcollo, e le sue mani si posano prontamente sulle mie spalle.
«Stai bene? » La voce è calda e colma di preoccupazione. Io ho ancora il fiato corto e non rispondo. 
«Cosa è successo, Ashlie? » 
Qualcosa che non succedeva da tempo, penso. Ma non posso dirlo. Mi concentro sui suoi occhi, e mi sembra così sbagliato. La sua preoccupazione, la distanza quasi inesistente tra di noi, poco prima. È tutto sbagliato.
Non deve preoccuparsi e non deve chiedere, che di risposte non ne ho neanche per me.
Lucas fa un passo avanti ed io indietreggio, così lui si ferma. 
«Ashlie! » Sento urlare il mio nome, sia io che Lucas ci voltiamo e subito riconosco Axel farsi spazio fra la gente. In un attimo mi stringe tra le sue braccia, ma è un contatto che faccio durare pochi secondi, che di contatti per questa sera ne ho abbastanza.
«Era tutto buio e non riuscivo a trovarti, scusami » dice con tono afflitto, e io vorrei che non lo facesse. Vorrei che si accorgesse dello sguardo di Lucas su di noi e che rimandasse la conversazione a dopo. «Appena è andata via la luce io-»
«Axel » lo fermo, «sto bene. »
Mi passo una mano tra i capelli e mi guardo intorno. Nessuno sembra essersi accorto di niente, e va bene così. Non voglio dare spettacolo, non voglio mostrare le mie debolezze a nessuno, ma il sollievo dura un attimo. Perché Lucas c'era, e lui sa.
«Sta bene davvero, c'ero io con lei », Lucas fa l'ultima cosa che avrei voluto facesse: si fa avanti e porge la mano ad Axel.
«Io sono Luke. »
Axel ricambia la presa e lo ringrazia, mentre io vorrei solo andarmene. Sento la stanchezza sulle spalle, così tanto che mi sembra che la gravità mi spinga verso il basso.
Sento lo sguardo di Luke addosso ma lo evito, non lo reggerei. Non ora.
«Possiamo andare? » chiedo ad Axel, troppo preso a preoccuparsi di me per potersi accorgere della tensione che adesso aleggia tra me e il biondo. Lui annuisce e io mi sento improvvisamente sollevata. L'unica cosa che desidero è andarmene da qui, al più presto. Lontano da questa calca, dalla musica e da Lucas. Lontano dalla persona che ho lasciato mi stringesse a sé, poco prima, e alla quale mi sono aggrappata come se fosse il mio unico appiglio.
Così mi lascio trasportare da Axel, sotto lo sguardo insistente di Luke. Vorrei guardare i suoi occhi azzurri e capire cosa pensa di me, adesso. Ma poi penso che non deve importarmi, che di vedere la sua compassione posso anche farne a meno, così mi allontano. Non un saluto, un cenno, né una parola.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Oxymoron ***



 E' tarda notte e il cielo è buio. Axel guida in silenzio, io evito di guardarlo. Il sedile è troppo scomodo, la macchina mi sembra stretta e anche se è Ottobre l'aria mi sembra calda e pesante.
I finestrini abbassati e il vento in faccia non sono sufficienti a spazzar via la fastidiosa sensazione di smarrimento che mi opprime il petto. Da quando siamo partiti mi sembra di lasciare una scia di confusione lungo la strada che percorriamo. 
Vorrei essere diretta in camera mia, non in quella del dormitorio. Vorrei trovarmi a Willmar, entrare in quella stanza e sentire l'odore del fumo di tutte le sigarette che per tutte quelle notti ho consumato al posto del sonno. Vorrei dimenticare questa serata e perdermi tra le lenzuola di un letto che conosco meglio del mio, tra i vestiti sparsi che nascondono il pavimento, tra braccia che mi coprono come lenzuola mentre il mio mondo si fa a pezzi, pezzi che vorrei svanissero. Vorrei avere la capacità di rifugiarmi in luoghi che non esistono.
 Penso a quegli occhi azzurri e all'intensità con cui mi hanno guardata, al calore che quelle mani emanavano e al tocco deciso e confortante al tempo stesso.  Ci penso e non riesco a perdonarmelo. Non mi perdono di essermi mostrata debole agli occhi di uno sconosciuto, occhi che non voglio più incrociare. Perché so che mi guarderebbero come tutti gli altri occhi che mi hanno guardata cadere a pezzi, ed io di essere guardata in quel modo non ne voglio più sapere. Che di vivere nel passato, e riviverlo, è qualcosa che vorrei smettere di fare. Non mi perdono di  aver lasciato vincere i miei mostri, mostri che da bambini crediamo di trovare sotto il letto. Ma quando cresci capisci che il buio non è la fuori, ce l'hai dentro. Ed è li che si nascondono, è li che crescono.
«Non mi avevi detto che conoscevi qualcuno al campus », la voce di Axel mi trascina di nuovo su questo sedile in pelle, e ci provo. Provo a non allontanarmi più, provo a smettere di pensare.
«Infatti non conosco nessuno. »
«E Luke? » Lucas.
«L'ho visto una sola volta al night club tre mesi fa », sollevo le spalle e continuo a guardare la strada. Non ho intenzione di avere nessun tipo di contatto visivo con Axel, lo conosco e so che darebbe inizio ad una serie di domande che sono sicura di non voler sentire, e tanto meno dare risposte. Che alla fine di risposte continuo a non averne, per nessuno. 
«Ti guardava come se ti conoscesse bene », sento il suo tono di voce più fermo e rigido, rispetto a prima. Che io lavorassi al night club ad Axel non è mai piaciuto, ma non me lo ha mai negato. Non voleva che frequentassi però il genere di persona che si incontra in un posto come quello. Ma per me non era mai stato un problema. Non avevo nessun tipo di rapporto con le ragazze con cui lavoravo, eravamo solo colleghe. Io conoscevo i loro nomi e loro il mio, l'essenziale.
Dylan era un'eccezione, l'unico strappo alla regola. Ad Axel non era mai piaciuto, io non me ne sono mai preoccupata. Non si incontravano quasi mai, sapeva che io e Dylan non stavamo insieme, ma non ne era lo stesso felice.
«Non è così. »
«Lo so ma ti guardava in quel modo », Axel spegne il motore e solo ora mi accorgo che siamo fermi nel parcheggio dei dormitori.  
«Quale modo? Quello con cui si guarda una pazza? » Sorrido, ed è un sorriso amaro. Axel non lo fa. Mi guarda dritto negli occhi e il suo sguardo è duro.  
«Era preoccupato » precisa.  «E lo sono anch'io »
«Risparmiatevi la fatica », mi volto dall'altra parte, ingoio il nodo che mi si è formato in gola e sgancio la cintura di sicurezza. Axel però mi afferra il polso.
«Ashlie »
«Voglio andare a dormire. » 
«Non allontanare le persone Ashlie », tolgo il polso dalla sua presa e apro lo sportello. Sono stanca, delle persone, delle parole, di essere me. «Non allontanarmi.»
Allontanare le persone è l'unico modo che ho per proteggere me stessa dagli altri ma anche gli altri da me stessa. E va avanti da così tanto tempo che mi sembra impossibile non fare altrimenti. E neanche voglio smettere, perche io e le persone non sappiamo non farci male. Quindi preferisco isolarmi, non per chiedere comprensione, non per individuare il problema. Lo preferisco perché la solitudine è l'unica arma che ho e voglio tenermela, voglio usarla. Non mi va di porre fiducia nelle persone e ritrovarmi a tremare con la paura che poi mi ripeterò che non avrei dovuto farlo, trattenendo singhiozzi, urla e pianti. Trattenendo un dolore con cui non voglio più avere a che fare mentre sto in un angolo del letto in posizione fetale, come se solo in quel modo potessi proteggermi da un mondo che non fa per me, un mondo stretto e noioso. 
E allora no, Axel. Non smetterò di tenere lontano le persone.
«Buonanotte Axel », scendo dalla macchina e chiudo lo sportello. Non mi volto, non lo guardo, supero il cancello nero ed entro nell'imponente palazzo a mattoni rossi. Di fronte all'entrata si apre la rampa di scale, a destra c'è una piccola cabina in legno adibita alla portineria. Una spaziosa bacheca è appesa alla parete, tappezzata di volantini.
Salgo i gradini di cemento, uno alla volta, fino al terzo piano. Mi avvicino alla 34C, metto le chiavi nella toppa e apro la porta. È solo la seconda volta che metto piede in questa camera, la prima è stata questa mattina, quando ho portato le mie cose con Axel. Cose che sono raccattate ancora nella mia parte della stanza. È tutto come questa mattina, i letti ai poli opposti della camera, il mio è a sinistra, vicino ad una grande finestra. Davanti al letto c'è la mia scrivania e una piccola libreria a parete. Dall'altra parte è lo stesso, e c'è una porta che conduce al bagno. A differenza di questa mattina però non sono sola, la lampada sull'altra scrivania è accesa sopra un libro e sulla sedia c'è una ragazza dai capelli corti e scuri.
«Bentornata, non sapevo a che ora saresti tornata e ti ho aspettata », la sua voce limpida risuona forte tra le pareti grigie, assorte nel silenzio della notte fino ad un attimo fa. 
«Perchè? », lascio la giacca sul letto e mi ci siedo. Tolgo una scarpa, poi l'altra. Lei mi guarda dalla sua postazione, con un paio di occhiali dalla montatura nera che le ricadono sul naso. 
«Volevo presentarmi, condivideremo la stanza per l'intero anno. » Come dimenticarlo. Io e un'estranea sotto lo stesso tetto, dentro le stesse mura, sette giorni su sette. 
«Mi chiamo Kyla », sorride e forse è la stanchezza, o il mal di testa, ma io abbasso lo sguardo. Non ho voglia di parlare a quest'ora. Non ho voglia di stringere amicizia, in generale.
«Ashlie », è l'unica cosa che dico mentre lei annuisce. Io lascio il mio letto, recupero un paio di shorts e una maglia comoda dalla valigia e vado a cambiarmi.
Al mio ritorno lei è ancora lì, ma adesso il libro è chiuso e lo schermo del suo smartphone è acceso. Segna le due. La supero e mi dirigo al mio letto. 
«Vuoi una mano per sistemarli?» La guardo e vedo il suo dito indicare la valigia e lo scatolone accatastato all'angolo. Scuoto la testa. Non ho intenzione di fare nient'altro per oggi. Voglio solo mettermi a letto e sprofondare tra le lenzuola, che di questa giornata ne ho abbastanza. E anche fosse, potrei benissimo farlo da sola. Che se ho imparato una cosa, è che sola so già farle benissimo male le cose. Non ho bisogno che qualcun altro ci metta del suo. Ed è la dimostrazione che io stessa sono il più grande ossimoro della mia vita.
«Lo farò domani » le dico, lei annuisce ancora una volta per poi a passi svelti mettersi a letto. Si infila sotto le coperte e sparisce all'interno di esse, alzandole fin sopra il naso.
«Buonanotte Ashlie » sussurra e io ricambio, per poi imitarla. 
Il mio corpo è intrappolato tra il piumone e il materasso, sento il calore diffondersi e la tensione abbandonare i miei muscoli. Mi godo il silenzio, e resto con lo sguardo rivolto al soffitto buio. Sento la stanchezza travolgermi e e gli occhi appesantirsi, ma poi il ricordo di una voce calda che mi sussurra all'orecchio mi tiene in bilico tra sogno e realtà.
"Non preoccuparti, adesso passa."
No che non passa, non passa mai.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Get out ***


È Lunedì mattina, il mio primo giorno di lezione.
Do' un'occhiata tra le file e i posti davanti sono già occupati da altri studenti, ma non mi dispiace, preferisco star dietro. Preferisco un posto più anonimo, un posto che mi permetta con più facilità di passare inosservata. Salgo gli scalini, mi fermo a metà dell'anfiteatro e prendo posto. Poso la borsa sulla superficie in legno e lascio cadere la testa sull'avambraccio.
Rimpiango le ore passate stesa sul materasso, con lo sguardo perso nel buio e in sottofondo il tichettio dell'orologio e il lieve respiro di Kyla. Avrei voluto dormire, avrei voluto lasciare per qualche ora la realtà che invece ha continuato ad opprimermi per tutta la notte. Un susseguirsi di immagini e voci, di paure e smarrimenti. Un susseguirsi di sguardi, sussurri e tocchi. E gli innumerevoli tentativi di cambiare posizione sono stati vani, che a rendere scomodo il sonno non era il materasso nuovo ma i pensieri.
Mi ritrovo quindi alla mia prima lezione di storia contemporanea, a sbadigliare senza sosta e constatare che il litro di caffè bevuto non mi abbia sortito nessun effetto. E a me il caffè neanche piace.
L'aula comincia a riempirsi ed io osservo gli altri. C'è chi ride, chi parla, chi sfoglia un libro. Non posso fare a meno di sentirmi un'intrusa, una che in quest'aula non dovrebbe esserci. 
Guardo la porta a doppio battente aprirsi e altra gente entrare, ma è poco distante da lì che il mio sguardo si sofferma. Luke parla con una ragazza mentre di tanto in tanto il suo sguardo vaga per la grande aula, forse alla ricerca di un posto libero, o forse di qualcuno. E in un attimo i nostri sguardi si incrociano ed io smetto di respirare. Prima ancora che riesca a capire qualcosa, le mie gambe sembrano decidere per me. Scatto in piedi e afferro la borsa, scendo gli scalini saltandone un paio, ma non m'importa. L'aria qui dentro è diventata improvvisamente irrespirabile e di inciampare ancora nei suoi occhi non è ho voglia. Che quelli ancora li ricordo, ricordo l'azzurro delle iridi, e ricordo lo sguardo intenso. Uno sguardo che sembrava scavarmi dentro per trovare qualcosa che in realtà deve restare sepolto, per capire qualcosa che in realtà non può essere capito da nessuno.
Pochi metri mi separano dalla porta, per uscire sarò costretta a passargli accanto, ma non posso fermarmi qui. Fisso lo sguardo al pavimento e a passi svelti attraverso i metri che mi separano dall'uscita. Gli passo accanto e lo sento chiamare il mio nome, ma non mi fermo. Non mi volto, non lo guardo. Fingo di non accorgermi della sua presenza, quando in realtà è l'unico motivo per cui sto scappando.
Scappare. La cosa che mi viene meglio. Che a quanto pare non sono quella che credevo d'essere, che scappare e far scappare sono le uniche cose che sono in grado di fare. Come i codardi, come chi di affrontare le proprie paure non vuole saperne. Continuo a correre giù per le scale con il fiato corto. Esco fuori dall'edificio e so di essere lontana da Luke, so di non avere più il suo sguardo addosso, ma non riesco a fermarmi. Il cuore mi batte forte, i polmoni annaspano bisognosi di aria, ed io sembro aver perso il controllo delle mie gambe. 
Credevo di essere una che non scappa da niente, di essere una che le cose le affronta da sola. Ma la realtà è semplice ed è tutt'altra: io le cose le evito, non le affronto, le paure le tengo nascoste fino a fingere di dimenticarle. Ma non m'importa, se mi aiuta ad andare avanti continuerò a farlo.
Una folata di vento mi aiuta a tornare in me, l'aria fredda mi invade piacevolmente i polmoni e chiudo gli occhi. La lezione sarà iniziata ormai da una decina di minuti e potrei tornare, così da non perdere la mia prima lezione. Ma non lo farò. Non metterò piede li dentro, non oggi. 
Ricordo di aver visto un bar nelle vicinanze questa mattina, ed è li che voglio stare per la prossima ora. Ho bisogno di un posto tranquillo, un posto dove poter nascondermi tra la massa e perdermi per un po'. Così procedo per il sentiero principale, dove palazzi storici si alternano ad edifici palesemente più moderni, gli alberi incorniciano il tutto e non posso fare a meno di pensare a come sarà questo posto tra qualche settimana, quando l'inverno avrà preso il sopravvento. 
Entro da Starbucks, l'unico all'interno di tutto il campus, e trovo una fila chilometrica. Il locale è piccolo e pieno di gente. Sento alcune persone in fila irritarsi per l'attesa, altre che si sporgono per vedere quante persone mancano prima del loro turno, ed altre ancora che semplicemente aspettano. Come me. Che io di fretta non ne ho, perche non ho un posto dove andare.
Scivolo avanti nella fila, fuori inizia a piovere ed io mi perdo nelle gocce che bagnano le vetrate.
«Sei pronta per ordinare? » Il tipo dietro al bancone mi distoglie da questo senso di smarrimento che mi pervade da quando ho abbandonato Willmar. La voce è tranquilla, paziente, in netto contrasto con l'esasperazione dei clienti impazienti alle mie spalle. 
«Un caffè Americano, per favore. » Il ragazzo segna la tazza e la passa al barista, poi batte l'importo della bevanda sul registratore di cassa mentre gli mostro la carta di credito. Me la restituisce insieme allo scontrino ed io mi sposto all'altra estremità del bancone per ritirare il mio caffè.
Se uscissi fuori mi bagnerei dalla testa ai piedi, così prendo posto ad uno dei pochi tavoli liberi. Il vociare che riempie il locale è un ottimo modo per tenere a bada i pensieri. Bevo un sorso del mio caffè e poi lo stringo tra le mani, il calore che emana è confortante. Guardo la scritta sul mio copribicchiere, una grafia chiara e rotonda.
«Pensavo avessi una lezione alle otto. »
Alzo di scatto la testa e vedo due occhi scuri e curiosi scrutarmi dall'alto. Kyla mi rivolge un sorriso ed io ricambio con un cenno della testa.
«Infatti », sollevo le spalle. «Come fai a saperlo? Non ricordavo ne avessimo parlato. » E so per certo di non averlo fatto. Questa mattina non abbiamo parlato affatto ed io sono stata sollevata dal fatto che non avesse voluto intraprendere una conversazione a quell'ora, per di più dopo una notte insonne. Cosa di cui non è sembrata essersi accorta, o forse semplicemente non le interessa.
«Ho visto il tuo orario appeso nella nostra bacheca in camera stamattina. »
«Lo avrò lasciato lì si e no cinque minuti.»
«Ho una buona memoria per le cose inutili, te ne renderai conto con il tempo » mi fa l'occhiolino e scrolla l'ombrello grondante d'acqua, mentre con una mano tiene una tazza fumante. 
«Ti dispiace se mi siedo? » Faccio un cenno di diniego con la testa e lei si lascia cadere sulla comoda poltroncina, lasciando andare un sospiro di sollievo.
«Quindi rimandi la tua prima lezione di storia a Mercoledì? » mi chiede, prendendo poi un sorso della sua bevanda.
«Sempre che non mi ritiri da quel corso » dico ad alta voce quello che mi frulla in testa da un po'. Però quando la guardo vedo i suoi occhi sgranarsi.
«Sceglierò un altro corso. »
«Ritirarti? Non devi », scuote la testa freneticamente ed i capelli neri e corti le sfuggono dal cappello, qualche ciocca le ricade sul viso. «Quel corso è una passeggiata, non hai nulla da temere. »
E questo lo so. Axel mi aveva già informata di quanta fortuna avessi avuto nel trovare disponibilità per quel corso. 
«Non vorrei sembrare troppo espansiva » aggiunge Kyla, rivolgendomi un sorriso vagamente imbarazzato. «Qualunque sia il motivo, non lasciare che prenda il sopravvento su di te. Se lo vuoi, è tutto sotto il tuo controllo. » 
Annuisco e distolto lo sguardo. Fuori la pioggia continua a cadere incessantemente. Non conosco questa ragazza, ha uno sguardo di chi ne ha passate tante e il sorriso di chi le ha vinte tutte, è facile riconoscerlo. Ma non ho voglia di discutere con lei qualcosa che non è chiara neanche a me.
«Non è il tuo primo anno qui, vero? » le chiedo, un po' per spostare la conversazione su qualcosa che non riguardi me e un po' perché ho bisogno di parole che mi annebino la mente, che mi tengano occupata per un po'.
«Sono al terzo anno », Kyla beve un sorso dal bicchiere di Starbucks che tiene in mano, poi guarda l'orologio che tiene al polso. «Adesso credo sia ora di andare, non vorrei far tardi alla lezione di Astronomia, Ween non è un tipo molto tollerante », ride mentre si alza, poi passa la mano sulla gonna nera a pieghe per sistemarla. 
«Ci vediamo più tardi allora, mi raccomando pensaci bene », mi sorride per l'ultima volta e poi sfreccia via, nascondendo il viso nella grande sciarpa bordeaux che tiene al collo. Una volta fuori dal locale scompare dalla mia visuale ed io resto qui, a fare i conti con me stessa.
"E' tutto sotto il tuo controllo."
E vorrei fosse davvero così, ma non è il modo in cui mi sento. Che non sono più in quella stanza buia e non ho più quelle manette ai polsi, ma è come se sentissi ancora il metallo freddo toccarmi la pelle e il buio costante offuscarmi la mente.

Le successive ore di lezione sono passate più in fretta di quanto pensassi e senza intoppi. Il pranzo con Axel è stato forse più difficile, pieno di tensione e parole non dette, bugie e sorrisi forzati. 
E sono sollevata di poter andare in camera e passare il resto della serata per conto mio. 
A metà della seconda rampa di scale sento provenire della musica da uno dei piani, ma non riesco a capire quale di preciso. Mi tornano in mente le parole di Axel, quando mi aveva detto che ci sarebbe stata una festa per ogni giorno della settimana ed io non lo avevo preso molto sul serio, ma adesso posso constatare da me quanto sia vero. 
Ad ogni scalino sento la musica giungere sempre più forte alle mie orecchie, fino a quando arrivo al terzo piano e con estremo dispiacere capisco che l'imminente festa si trova a due porte più in là rispetto la mia. 
Contrariata inserisco le chiavi nella toppa ma prima ancora che possa fare qualsiasi altro movimento la porta si apre, mostrando una Kyla indaffarata ad indossare uno stivale mentre saltella sull'altro piede. 
«Pensavo non saresti più tornata oggi » afferma spostandosi per farmi entrare.
«Ne ho approfittato per fare un giro », getto la tracolla ai piedi del letto e la giacca nera sulla sedia. Mi lascio cadere sul mio letto e afferro il laptop. 
«Vai alla festa? » le chiedo, mentre scorro alla ricerca del ristorante giapponese più vicino. 
«No, vado da un'altra parte e credo tornerò domani mattina », resta sul vago ed io non le chiedo altro. In questi pochi giorni di convivenza non ho trovato la sua presenza invadente, ma l'idea di avere questo spazio tutto mio, mi fa stare bene. Mi manca stare da sola, mi manca avere i miei spazi. Mi manca perdermi in quattro mura incurante di tutto il resto.
«Tu invece non vai alla festa? Potresti conoscere persone nuove. » 
Al solo pensiero di dover stare a sentire musica ad alto volume, risate e schiamazzi fino a tarda notte, sento dei brividi percorrermi la schiena.
«Un valido motivo per starmene qui dove sono. » 
Sento Kyla lasciare andare un sospiro, così lascio perdere la mia ricerca e mi volto a guardarla. È davanti allo specchio e sta dando gli ultimi ritocchi al suo trucco, ma adesso il suo sguardo è puntato su di me.
«Te l'ho mai detto che vengo dal West Virginia?» mi chiede improvvisamente, ed io scuoto la testa. Non abbiamo mai fatto presentazioni nè conversazioni di circostanza, e neanche questa sembra esserne una. Ma sono informazioni che non mi interessa sapere, perché poi le persone si aspettano che anche tu dica la tua. Ed io non ho niente da dire.
«E neanche perché ho fatto tanta strada per venire qui, no? »
Scuoto di nuovo la testa. Non riesco a capire dove voglia arrivare e a che scopo mi stia raccontando queste cose. Sono cose private, non pretendo di saperle. «Non ti piaceva? »
«No, il posto era fantastico. Erano le persone a non piacermi », Kyla si alza e va verso il suo armadio. 
Rimango in silenzio, aspettando che continui.
«Amavo la mia città, ma ero stanca delle persone, della loro mentalità, dei loro pregiudizi e giudizi. Desideravo solo andare via e iniziare una nuova vita, con niente che mi ricordasse il mio passato. » 
Abbasso lo sguardo e lo punto sulle mie unghe smaltate di nero. Ciò che dice non è niente di nuovo per me. Perché conosco quella sensazione che si prova, che non importa quanto tempo passi, te la porti dietro, e continuerà ad attanagliarti le viscere ogni qualvolta uno sguardo di troppo si poserà su di te.
«Quando sono arrivata qui, pensavo di potercela fare da sola. Non davo confidenza a nessuno, stavo sulle mie e occupavo tutto il mio tempo studiando » Kyla tira fuori un giacca di pelle beige e la indossa, io continuo a stare in silenzio. La guardo e mi sembra sul punto di piangere, ma ride. Una risata forte e divertita. 
«Come potevo crearmi una nuova vita se io stessa lasciavo che il passato mi tenesse intrappolata? »
Le parole mi arrivano dritte al petto, tanto dovermi sforzare di restare indifferente. Mi hanno colpita molto più di quanto sia disposta ad ammettere. Che io le persone non le ascolto più da tempo, perché non c'è nessuno che valga la pena ascoltare, nessuno che abbia davvero qualcosa da dirti.
Sento lo sguardo di Kyla addosso, ma continuo a mostrarmi impassibile. Sollevo le spalle e riprendo il laptop, continuando nella mia ricerca.
«È che le feste non fanno per me, non finiscono mai bene per quanto mi riguarda », scrollo le spalle e so che Kyla è ancora lì a guardarmi, magari con quel sorriso gentile stampato sul volto e lo sguardo di chi la sa lunga. 
«D'accordo, io vado », sento i suoi passi spostarsi verso la porta e poi fermarsi. «Se ti annoi sai dove trovarmi. » 
Mi limitò ad annuire e Kyla esce dalla camera, chiudendosi la porta alle spalle. Mi lascio cadere distesa sul letto e mi sembra che la conversazione appena avuta mi abbia prosciugato di ogni energia. Chiudo gli occhi, ma sento un peso opprimermi il petto e l'amaro in bocca. Senza pensarci due volte afferro il telefono e digito quel numero che conosco bene. Non ho più voglia di affrontare la notte sola, ho bisogno di condividere il peso della giornata con qualcuno per tornare a respirare bene.
«Pronto? »

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Needs ***


Aspetto, mi guardo intorno e sono sola. Essere sola mi spinge a pensare, a puntare la mente in luoghi che questa sera vorrei tenere lontano, ecco perché aspetto.
L'aria sembra essere più fredda a quest'ora della sera, il vento inizia ad innalzarsi e mi scuote i capelli. Guardo ancora il cielo coperto dalle nuvole, un colore scuro, un colore rincuorante quanto quello di un'alba o di un tramonto, per me.
Un'altra folata di vento ed io mi stringo nella grande felpa nera che indosso. Sento qualcuno chiamarmi, presa alla sprovvista mi sforzo di non sussultare per lo spavento. Però non mi volto, chiudo gli occhi e desidero che non sia lui, che non sia la stessa voce che la notte non mi lascia dormire.
«Ashlie » ripete ancora, con la voce ferma e chiara. Mi volto, lui è di fronte a me, fermo, con le labbra dischiuse. «Non fa troppo freddo per una passeggiata notturna? » 
Chiudo di nuovo gli occhi e so che non può vedermi, perché il vento mi ha spostato i capelli sul viso.
«Potresti beccarti un raffreddore » insiste.
«Sto bene. » 
«Cosa ci fai qui? » mi chiede, facendo qualche passo avanti. 
«Ci abito » rispondo distaccata, mostrando un disinteresse che ormai mi appartiene costantemente. Mi volto di nuovo dall'altra parte, ma Luke si sposta velocemente ed è di nuovo davanti a me.
«Niente festa? » mi domanda, ma è un tono che non aspetta risposta. Che una risposta se l'è data da solo dopo avermi guardata.
«No, questa sera passo », guardo il sentiero illuminato dai lampioni, nella speranza di vedere una figura arrivare, ma so che è ancora presto. So che dovrò aspettare almeno un altro po'. Che io di aspettare ho smesso da tempo, perché meno ti aspetti e meno stai male quando le cose non arrivano, ma non questa sera. Questa sera ho bisogno di farlo, che aspettare è nulla in confronto a ciò che mi pesa dentro. 
Sento il suo sguardo addosso, lo sento esaminare ogni mia espressione, ogni curva del mio volto, e mi da fastidio. Perché i suoi occhi sembrano vedere molto più di quanto dovrebbe, molto più di quanto in realtà c'è da vedere in una come me. 
Non desidero la sua compagnia, non desidero parlare con lui e non desidero che mi guardi, ma non posso dirglielo. E non ho paura che sia lui a restare ferito, temo d'essere io quella colpita da qualche parola di troppo.
«Ti starai perdendo il meglio della festa probabilmente » gli dico, un sorriso spunta sul suo volto ed io alzo gli occhi al cielo. 
«Forse, dovresti venire anche tu » mi propone, ma io scuoto la testa e lui si avvicina ancora. Mi sovrasta con la sua altezza e mi costringo a guardare oltre la sua spalla. 
«E' per l'altra sera? E' successo qualcosa quando è andata via la luce? » Sento ogni parola risuonare lentamente e lo stomaco accusare i colpi. 
«Non capisco di cosa tu stia parlando », mi schiarisco la voce, poi punto il mio sguardo nel suo. E faccio quello che mi riesce meglio: fingo. Fingo indifferenza, fingo di essere intoccabile. Fingo che le sue parole non abbiano nessun effetto su di me. Fingo un fastidio che sono troppo stanca per mostrare a pieno. 
«Ti ho sentita tremare tra le mie braccia, voglio solo una spiegazione » sussurra, e sento una necessità nella sua voce che non riesco a comprendere. E' abbastanza vicino da riuscire a sentire il suo respiro colpirmi il volto.
«Non mi sento in dovere di darti un bel niente, non ti conosco », tento di porre un po' di distanza tra di noi indietreggiando di qualche passo, ma lui mi afferra per il polso.
«Ti sei stretta a me », porta la mia mano al suo petto e la poggia al tessuto morbido della sua maglietta. Non mi fa male, non stringe la presa, ma mi sembra di sentir bruciare la pelle sotto il suo tocco. Ha le mani calde, in netto contrasto con la bassa temperatura del mio corpo. «Se è successo qualcosa, a me puoi dirlo. » 
Sento gli angoli dei miei occhi riempirsi, così alzo lo sguardo, mi prendo del tempo, e mi ripeto che qui non è il luogo giusto, né il momento. Ingoio il nodo in gola, ma una volta non sembra bastare per farlo sparire del tutto, così lo faccio ancora mentre abbasso il volto. Guardo la sua mano che stringe la mia, entrambe contro il suo petto. Siamo vicini, così vicini. Ma non mi allontano. Non tolgo la mano dalla sua, e mi rendo conto che sia la prima volta in tre anni. Guardo i suoi occhi, e vedo uno specchio di calma. Lo guardo e penso che per la prima volta in tre anni, il contatto con una persona che conosco appena non mi fa precipitare a capofitto in una vertiginosa e buia spirale. 
«Perchè mi eviti? » mi chiede in un sussurro, lo sguardo confuso, lo sguardo di chi vorrebbe capirne qualcosa ma non riesce.
«Non ti evito », provo ad abbassare lo sguardo perchè non sono sicura di potermi fidare di esso, ma lui mi posa un mano sotto il mento, facendo sì che il nostro contatto visivo non cessi.
«E allora perchè sei scappata in quel modo questa mattina? » Luke stringe quasi impercettibilmente la presa sulla mia mano, e la vedo. Vedo l'amarezza sul suo volto, ma non riesco a spiegarmela. Prima ancora che possa dire altro, sento una voce roca e decisa chiamarmi.
«Ashlie » ripete ancora. Guardo oltre la spalla di Luke e finalmente lo vedo. Vedo la figura di Dylan, la luce della strada gli illumina metà volto. I suoi occhi trovano i miei ed io sento qualcosa spezzarsi. Lascia cadere la sigaretta ma non gli lascio il tempo di avanzare troppo. Strappo via la mano dalla presa di Luke e lo sorpasso. Non mi curo di lui, delle domande senza risposta e del suo sguardo che segue attento ogni mia mossa. Non ho bisogno di questo, quello di cui ho bisogno adesso ce l'ho davanti. Ho bisogno di mettere da parte una corazza troppo pesante con la certezza che nessuno approfitti del momento per colpirmi. Ho bisogno di perdermi nel silenzio della notte, tra sospiri e lenzuola sfatte, lontana da ricordi e realtà soffocanti. E quello che ho bisogno so di potermelo prendere da Dylan. Che con lui è un dare e avere senza aspettative, senza domande, senza rimpianti.
Mi fermo davanti a lui e riconosco quegli occhi, uno da un colore diverso dall'altro, occhi che non mi sono mai permessa di scrutare fino in fondo, perché è questo il nostro patto. Sento le spalle pesanti e lo stomaco in subbuglio, di aspettare ne ho fin troppo, così lo faccio. Faccio qualcosa che in un anno non ho mai fatto. Afferro il colletto del giubbotto di Dylan e lo tiro verso di me, poso le labbra sulle sue e lo bacio. Un bacio disperato, bisognoso. Un bacio che Dylan non ricambia subito, perchè so di averlo colto alla sprovvista. Che baci come questi sono sempre stati solo nostri, baci che solo le mura della sua stanza potrebbero raccontare. Ci stacchiamo, la sua fronte sulla mia, i miei occhi chiusi, i suoi sul mio volto.
«Ashlie » sussurra, ma io lo fermo con un altro bacio. Un semplice tocco di labbra, freddo, veloce. E lui capisce. 
Mi afferra per mano e sorpassiamo Luke. Dylan neanche lo guarda, mentre io vorrei non farlo. Ma lo faccio. È ancora lì, mi osserva. Ha le mani nelle tasche dei pantaloni, i ricci mossi dal vento e le labbra serrate. I suoi occhi trovano i miei, ma io non voglio vedere il suo sguardo. Così faccio quello che dovrei fare, mi lascio trasportare da Dylan ed entriamo nel palazzo. L'ascensore neanche lo guarda, che lo sa che gli spazi piccoli non mi piacciono. Saliamo le tre rampe di scale e poi si ferma. Lascia andare la mia mano ed io avanzo verso la porta della mia stanza, la 34C. Inserisco le chiavi e apro la porta, lui mi segue a ruota.
Apro la lampada sulla mia scrivania, ed è l'unica fonte di luce in tutta la stanza, oltre la finestra. Mi avvicino e la apro, che ho bisogno del vento sulla pelle, del freddo che invade la stanza. Ho bisogno di congelare i miei pensieri, anche solo per un po'. Mi fermo e mi volto verso Dylan. Ha il respiro affannato mentre si toglie il giubbotto di dosso e lo lascia cadere sulla sedia. Si passa una mano tra i capelli biondi tirati indietro, poi mi guarda. 
«Cos'era quello? » me lo chiede senza rabbia, senza rancore. Ha solo voglia di sapere qualcosa che lo riguarda. 
«Un bacio. »
«No, Ash », si avvicina, la mia schiena è a pochi centimetri dal muro. I nostri volti poco distanti l'uno dall'altro. Lui è molto più alto di me, e per guardarmi inclina leggermente la testa. 
«Non ci serviamo l'uno dell'altro per cose stupide come la gelosia », dovrebbe suonare come un rimprovero ma la sua voce è gentile, non c'è nessuna nota di arroganza. 
«Non l'ho fatto per quello » ammetto, e lui mi crede. Che di dirci bugie non ne abbiamo mai avuto bisogno, e neanche di troppe verità. 
«Avevo bisogno di farlo. »
«Ci guardava », mi informa ed io sollevo le spalle.
«Ne hai ancora bisogno? » me lo chiede abbassando ancora un po' la testa, mi spinge contro il muro e avvicina le labbra al mio collo. Mi lascia un bacio, poi un altro. 
«Allora?» mi chiede ancora ed io annuisco. In un attimo le sue labbra tornano sulle mie e mi bacia. Senza staccarci sposto le mie mani sul suo petto e lo indirizzo verso il letto. Indietreggia, fino a mettersi seduto. Gli sfilo la maglia e la lascio cadere a terra, subito dopo viene raggiunta dalla mia felpa.
I nostri corpi freddi sono a contatto, pelle contro pelle. E in un attimo siamo un groviglio di malcelata vulnerabilità.
Mi perdo nel suo tocco, tra lenzuola sfatte e affanni. Mi lascio sopraffare da ogni sensazione, che questa notte è mia, di nessun altro. Sento i pensieri sfumare, il peso alleggerirsi e gli incubi andare in posti lontani. Posti che questa notte non visiterò.

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Capitolo 11
*** To you. ***


Le ricordi quelle fiabe che ti piacevano tanto da bambinaCerto che .
E te lo ricordi cosa c'era alla fine di ogni racconto?
“E vissero per sempre felici e contenti.”
E i film romantici che invece guardi orada adultaLo hai presenteFilm come quello in cui Richard Gere sale la scala antincendio e bacia la sua Pretty Womano come quello in cui Justin Timberlake corre alla stazione per dichiarare il suo amore a Mila Kunis.
Il bacio prima dei titoli di codail lieto finel'amore ricambiatosono solo menzogneUn'illusione a cui vogliono farci credere a tutti i costi. 
Ma riflettiamo su quel “per sempre felici e contenti”.
Hai mai pensato alla verità ineludibile che celamia piccolaIl per sempre non sta forse ad indicare una fineLa fine della vitaforseL'unica indiscutibile veritàè la pace della fineUn dono.
Il giorno in cui riceverai questa letterasarà perché ho deciso di ritornare da tee allora il tuo lieto fine sarà alle porteIl nostro “per sempre insieme, felici e contenti” è dietro l'angolo.
Con il pensiero sono sempre insieme a teda anniLa distanza ha separato forse i nostri corpima non le mentiSo che non mi hai ancora dimenticato.
E ben presto ti sarà impossibile farloProprio come io non mi sono mai dimenticato di te
Credimimi ringrazierai di questo.
Ancora con te,
presto.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Here, but not here ***


Un prato che non riconosco, un passo dopo l'altro, i piedi scalzi a contatto con l'erba fredda.
Risate, la mia risata. Poi una rosa bianca. Altre risate. Poi un grido, la rosa bianca perde alcuni petali che diventano rossi. Vedo la mia mano tremante afferrarne uno e subito dopo un rivolo di sangue scende dal mio indice fino ad arrivare al palmo della mia mano. 
Un'ombra mi segue ed inizio a correre, sento una voce chiamarmi ma non posso girarmi. Devo scappare. Corro veloce, ma non basta. Qualcosa, o qualcuno, mi afferra per la caviglia ed io inciampo. Chiudo gli occhi nell'attesa dell'impatto contro l'erba verde, ma non arriva mai. Li apro e mi guardo cadere dentro una voragine, con la voce incastrata in gola e le lacrime agli occhi. Cerco qualcosa da afferrare, un ultimo appiglio, ma il buio continua ad inghiottirmi, mentre una voce grida il mio nome. 

Mi sollevo di scatto, madida di sudore nonostante il freddo. Le coperte a terra, il mio respiro pesante, il battito del cuore accelerato. Porto una mano al petto, per paura che possa uscire da un momento all'altro. Riprendo a respirare, il battito si regolarizza ma sento la testa dolorante e gli occhi mi bruciano, soprattutto quando entrano in contatto con la flebile luce che entra dalla finestra.
Sposto lo sguardo sul comodino, la sveglia digitale segna le 17:00 e il mio respiro si ferma per un po'. Ho dormito tutta la giornata. 
Provo a pensare alla serata precedente, però la testa fa davvero male, sento le labbra screpolate e la bocca secca. Mi sforzo e una serie di immagini attraversano la mia testa: io e Kyla in discoteca, i diversi shot di assenzio e vodka, le risate, poi Luke, Luke che balla con me, Luke che mi prende per mano e mi porta via.
Vorrei ricordare dell'altro, vorrei ricordare dove siamo stati dopo, ma le pulsazioni nella mia testa si fanno sempre più forti e ad un tratto mi accorgo che non sono solo lì. C'è qualcuno che bussa alla porta della mia camera, con molta foga. Così scalcio via quel che resta delle coperte, i miei piedi toccano il pavimento freddo e non appena mi metto in piedi sento il mio stomaco contorcersi, intenzionato a rigettare l'alcol della sera scorsa. Ignoro il bisogno repellente di correre al bagno e vado ad aprire la porta, in parte per far sì che questo rumore assordante che non fa altro che peggiorare il mio mal di testa cessi. 
Faccio appena in tempo ad aprire la porta che due braccia forti mi intrappolano in una presa ferrea. Sento il profumo di Axel solleticarmi le narici, e mi sembra di avvertirlo un po' più forte del solito, ma non ho la forza di spostarmi, così poso la testa sul suo petto. 
Sento il suo respiro pesante e il battito del suo cuore tornare pian piano ad un ritmo regolare.
Mi chiedo cosa lo abbia ridotto così, ma sono troppo stanca per arrivarci da sola. Mi lascio cullare ancora un po' tra le sue braccia, mentre sussurra il mio nome. 
D'improvviso però sento lo stomaco bruciare e sento di non poter rimandare più; mi stacco bruscamente dall'abbraccio di Axel e corro in bagno, chinandomi appena in tempo sul water prima che l'alcol torni su. 
Il mal di testa aumenta e il dolore alle tempie è insopportabile. Le lacrime agli angoli degli occhi e la gola in fiamme. Sento i passi di Axel raggiungermi, si china su di me e senza esitare raccoglie i miei capelli tra le sue mani. Lo fa piano, con movimenti delicati, e inevitabilmente ritorno a tanto tempo fa, a quelle sere in cui l'alcol alleviava il dolore ma al risveglio la realtà era peggiore del giorno prima. Ma Axel era sempre lì, a raccogliere i miei pezzi e tenermi la fronte.
Tiro lo sciacquone e mi accascio nel pavimento bianco e freddo, contro la ceramica. 
Lui mi lascia andare i capelli ed io lo guardo. Lo vedo prendere un asciugamano e piegarlo in più parti. Lo tiene sotto il getto dell'acqua per un po' e poi torna da me. Si china e posa il panno bagnato sulla mia fronte, lo strofina delicatamente. Poi sotto gli occhi, nelle guance, per finire sul collo. Chiudo gli occhi e mi godo il sollievo che l'acqua fredda da al contatto con la mia pelle accaldata. 
«Hai un aspetto di merda » dice all'improvviso. Il suo tono è duro ma non riesce a nascondere quel velo di preoccupazione. Si sta forzando di mantenere la calma, posso avvertirlo. Apro gli occhi e torno a guardarlo, mi sembra di vederlo per la prima volta da quando è arrivato. 
La barba copre la sua pelle solitamente liscia, gli occhi sono cerchiati da ombre nere e lo sguardo è stanco. Il viso sembra pallido e i suoi occhi azzurri sono di un blu carico di tante cose messe insieme. Rabbia, risentimento, paura. 
«Anche tu » ribatto, e lui ride. Una risata amara che risuona forte tra le pareti della mia testa. Stringo gli occhi per un secondo, poi torno a guardarlo. 
Sono stata io a ridurlo così? 
«Cosa ci fai qui, Axel? »  
Il suo sguardo, prima rivolto al soffitto bianco del bagno, saetta su di me. Sul suo volto la stanchezza è quasi palpabile, così come la rabbia. Rabbia nei miei confronti. Perché?
«Cosa ci faccio qui? Davvero Ashlie?! » Alza la voce e il panno che prima teneva tra le mani adesso è dentro al lavabo. Mette le mani sui fianchi, fa un giro su sé stesso, ma non serve a calmarlo. Il suo petto si alza e si abbassa velocemente, vedo il suo sguardo stanco trasformarsi in furioso.  «Due fottutissimi giorni che non ti sento. Non ti vedo. Davvero mi stai ancora chiedendo, cosa ci faccio qui? Non una chiamata, un messaggio. Niente di niente! », da' un pugno alla porta e sobbalzo. Non è solo a causa del colpo che ha appena assestato contro il legno, ma per la consapevolezza. Ho ignorato ogni chiamata di Axel, ogni suo messaggio, dall'arrivo di quella lettera. Però vorrei dirgli che non ha nessun diritto di comportarsi così, di venire qui e urlarmi contro, che non sono più la bambina indifesa che la notte andava a nascondersi nel suo letto durante un temporale. Ma non lo faccio. Non lo faccio, perché quello che ho davanti è un ragazzo distrutto dalla paura, dai sensi di colpa. Distrutto da me
Mi alzo da terra, ignoro la mancanza di equilibrio e la spossatezza, e mi avvicino a lui. 
Prendo la sua mano tra le mie, ha del sangue sulle nocche. Afferro il panno con cui lui prima ha aiutato me, ma quando lo avvicino alla sua ferita lui si ritrae.  
«Pensavo fossi in pericolo. O che fossi sparita di nuovo », sono parole dure che rivolge a me, ma senza guardarmi. Il suo sguardo è puntato nella parete di fronte, sulle piastrelle turchesi.
«Ma non è così. Sto bene. »
«Bene è una parola grossa, per una come te », mi guarda e adesso vorrei non lo avesse fatto. Vorrei non le avesse dette, queste ultime parole. Parole molto simili a coltelli affilati che entrano ed escono ripetutamente dal mio petto. «Ti comporti da egoista. »
Lo so, Axel. Perdonami.
«Siamo davvero tornati a quel punto, Ashlie? » Al punto in cui l'alcol era il mio anestetizzante. Al punto in cui della mia vita poco m'importava perché non era più mia. Al punto in cui sentivo di aver perso tutto, e perdere me stessa non m'importava. Al punto in cui Axel a tarda notte doveva venire a prendermi per strada e portarmi a casa incosciente, fino all'indomani.
«Non è come credi- »  
«Non è mai come credo! » Urla, io indietreggio. «Ti comporti come se in questo mondo a nessuno importi di te, ma la verità è che la persona a cui non importa di nessuno, sei tu. »
Inerme, mi ripeto che queste sono le sole parole che merito di sentirmi dire. Perché alla fin fine, è la pura verità. Lascio che dentro di me si sgretoli qualcosa, ma lo faccio in silenzio. 
Lo guardo accasciarsi allo stipite della porta, le sue spalle si curvano e quasi mi sembra di vedere la rabbia abbandonarlo. Davanti ho di nuovo un ragazzo stanco, spaventato. Ferito, più di ogni altra cosa. 
«Axel », faccio un passo in avanti, per dirgli che davvero non è come crede. Che non ho fatto passi indietro, che non scapperò via da quel che resta della mia vita, che non lo lascerò di nuovo solo. Ma lui alza lo sguardo e lo punta su di me, congelandomi sul posto. Lo fisso, ancora inerme, mentre il suo sguardo carico di delusione mi ferisce più di qualsiasi altra parola abbia potuto sputare fuori fino ad ora. 
«Non c'è altro da dire, Ashlie. »   

Quando Kyla attraversa lo stipite della porta fuori ormai è buio, l'unica fonte di luce nella camera sono le lampade sulle nostre rispettive scrivanie. L'orologio digitale segna le 20:00 ed io non ho nessuna intenzione di abbandonare le coperte sotto le quali mi sono rifugiata subito dopo che Axel è andato via sbattendosi la porta alle spalle. 
«Non ti sei ancora ripresa? » Il suo tono risuona divertito tra le pareti della nostra camera, ma io non le rispondo. 
«Ashlie? » 
Ancora silenzio.
«Ashlie, sto per aprire la luce. » La sento posare la borsa, sento il rumore delle chiavi. Poi la sento spostarsi.
«Non farlo, per favore », la mia voce si sente appena nonostante il silenzio regni sovrano. «Sono sveglia. » 
Kyla però apre lo stesso la luce, che colpisce appieno i miei occhi sensibili portandomi a chiuderli in fretta. 
«Perché lo hai fatto? » Mi copro il volto con il piumone, ma lei si avvicina e mi scopre quel tanto che basta per far sì che i nostri occhi si trovino.
«Perché sei ancora a letto? Il post sbornia dovrebbe già essersi placato da un pezzo », adesso non è più divertita. E' preoccupata.
«Sto bene. »
«Bene è una parola grossa » dice, ed io sgrano gli occhi che presto sento riempirsi di lacrime. Anche Axel lo ha detto, poco prima. 
Ingoio il fastidioso nodo in gola e mi metto seduta. Immagino i miei capelli disordinati, le borse sotto gli occhi e la pelle pallida, ma non m'importa. 
«Kyla, devo chiederti una cosa », lei annuisce e si siede sul suo letto, di fronte a me. Aspetta che io parli. «Cos'è successo ieri sera? »
«Qual è l'ultima cosa che ricordi? » Si toglie una scarpa, poi lascia cadere anche l'altra. Tira su le gambe e le incrocia sul letto. Passa una mano tra i corti capelli scuri, li disordina un po' e in fretta risistema la frangia che le ricade sugli occhi.
«Io e Luke sulla pista da ballo. »
«Siete andati via. »
«Via dove? » Le chiedo, ma so che lei non ha nessuna risposta da darmi. Lo leggo nei suoi occhi pieni di scuse, che mi implorano di perdonarla. Scuoto la testa e abbasso lo sguardo.
«Almeno dimmi che non ti ho lasciato da sola », lei scuote la testa e sento il peso sulle spalle alleviarsi appena.
«No », sorride e continua a scuotere energicamente la testa.  «Ero con Michael, quel tipo dai capelli blu. Un amico di Luke. »
Io annuisco, e mi lascio cadere di nuovo sul letto.
«E' successo qualcosa? » Mi chiede, sento di nuovo la sua voce velarsi di premura e preoccupazione.
«Niente di grave », credo. Ma lo tengo per me. In realtà non credo che Luke abbia fatto niente di male. Voglio solo ricordare cosa ho fatto io, piuttosto.    
Resto a fissare il soffitto, con le parole di Axel che mi suonano ancora in testa e la delusione sul suo viso che non riesco a togliermi dalla mente. 
Non lo avevo mai visto così. 
Non mi aveva mai guardata così.
«Ashlie », Kyla mi chiama ma io non la guardo. Mi limito a risponderle con un suono molto simile ad un mugugno. «Sei sicura di stare bene? »   
Faccio appello alle mie ultime forze e mi volto a guardarla. Lei però mi da le spalle, impegnata a ripiegare con cura alcuni vestiti nei suoi cassetti.
«Sì, perché? »
«Perché è come se tu fossi qui, ma non qui. » 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - The wall ***


L'aria è sempre più fredda di giorno in giorno, gli alberi un po' più spogli e ormai si cammina su un manto rosso di foglie. Il campus è terribilmente affollato come tutte le mattine, ma oggi mi sembra diverso. È come se tutti, ragazzi e docenti, fossero inopportuni. Sento come se questa gran folla sia soltanto d'intralcio ai miei piani e ovunque vada, non importa la direzione, mi sembra di avanzare controcorrente in questa marea di corpi. 
«Ash, mi stai ascoltando? »  Kyla mi cammina affianco, cerca di mantenere il mio passo e sembra che entrambe scappiamo da qualcosa. La vedo stanca, con il fiato corto, così abbandono il mio passo spedito e lei sembra esserne sollevata. 
«Sì, ti sento. »
«Appunto, mi senti. Ma non mi stai ascoltando », il suo tono di voce mi ricorda quello di una bambina offesa, vorrei dirle che mi spiace anche se non è vero, che vorrei starla ad ascoltare davvero ma ho troppi pensieri in testa e la testa altrove. 
La guardo, ma lei ha lo sguardo fisso sulla strada, una piccola ruga in mezzo alla fronte ma non faccio in tempo a chiederle di ripetere, perché il mio sguardo cade al di là delle sue spalle, su un gruppo di studenti fermi ad uno dei tanti tavoli da pic-nic nei giardini del campus. Perché è lì che lo vedo. I ricci biondi, la giacca di jeans che copre le spalle ricurve. 
Sento la sua risata e in un attimo mi convinco. Le mie gambe prendono una direzione diversa da quella che era prima, Kyla non mi sta seguendo e io vorrei tanto fermarmi. Ma riesco a farlo solo quando ormai sono troppo vicina per poter fare retro marcia e tornarmene sui miei passi. 
Resto a fissarlo per un po'. La sua schiena è smossa da sussulti causate dalle risa. 
Stiamo così per un po', lui nel suo mondo ed io nel mio, terribilmente distanti ma in continuo contatto, fino a quando uno dei ragazzi non mi nota e fa segno agli altri di guardarmi. Allora si gira anche lui. Punta lo sguardo su di me ed io ricambio. 
Compio quei pochi passi che ci separano, mi fermo davanti a lui e faccio appello a tutte le mie forze per far sì che le mie gambe smettano di tremare.  Vorrei che guardandolo un tornado di ricordi mi investa sul momento, ma non accade.
È seduto sul tavolo, con i piedi sulla panca e i gomiti posati sulle gambe. La schiena piegata in avanti e un mezzo sorriso sul volto.   
«Che sorpresa », sposta il suo amico per avere una migliore visuale. lo, dal mio canto, non ricambio il sorriso.
«Dobbiamo parlare » riesco a dire finalmente. Il suo volto assume un'espressione seria, si scambia un'occhiata con il resto del gruppo e da parte loro non esce fuori una sola parola, ma non si allontanano.
«Adesso » insisto, incrociando le braccia al petto e guardandolo di traverso. 
«È così urgente? » mi chiede, passando il pollice sotto il labbro inferiore in modo lento. «Tra venti minuti inizia la lezione, mi stavo giusto incamminando. »
Lascio cadere le braccia lungo i fianchi, nella mano sinistra stringo la presa sui libri di storia fino a far diventare bianche le dita. Avanzo, fermandomi a pochi centimetri da lui. Alcuni dei suoi amici lo salutano e si dileguano, altri si allontanano ma restano nelle vicinanze.
«Adesso », ripeto. 
Lui lascia andare quella che è una via di mezzo tra una risata e uno sbuffo, abbassa il viso soltanto per un attimo, poi lo rialza e con un sorriso più beffardo di prima salta giù dal tavolo e si piazza di fronte a me. Mi sovrasta con la sua altezza e i centimetri che avevo lasciato tra di noi adesso sono quasi nulli. 
«Parleremo, ma non adesso » sussurra. Sto per ribattere ma lui posa una mano sul mio volto e con il pollice mi copre le labbra. «Smettila di gridare, ci stanno guardando tutti. E non è quello che vuoi, giusto? » La sua voce è ancora un sussurro e mentre un calore improvviso si espande nel petto, mi guardo intorno. Ci stanno guardando un sacco di persone. I suoi amici, alcuni passanti, persino quelli del tavolo accanto si sono girati a guardarci. Ma non mi ero resa conto di star parlando con un tono di voce così alto. 
Lui intanto sfodera un sorriso, un sorriso diverso dagli altri, ed inevitabilmente la mia mente torna a quella sera in discoteca. Alla sera in cui la distanza tra di noi aveva cessato di esistere, i nostri corpi erano in contatto, il suo tocco caldo sulla mia pelle e la sua voce incastrata nella mia testa.
Mi scanso, come se porre distanza tra di noi potesse aiutarmi a cancellare quei ricordi ed è straordinariamente divertente il fatto che sia qui davanti a lui perché di quella sera vorrei comunque ricordare dell'altro. 
Lascia scivolare via la sua mano e arretra di qualche passo, ma non abbastanza da far tornare il mio respiro regolare.
«Dobbiamo parlare » mormoro, questa volta con un tono di voce così basso che non sono neanche sicura mi abbia sentito. 
«Lo faremo più tardi », mi guarda da sotto le folte ciglia e parlare mi viene più difficile del solito. «Non è tuo fratello quello? »
Mi volto di scatto, verso il punto in cui Luke ha indicato, ed è davvero Axel. Per un momento i nostri sguardi si incrociano e, dimenticandomi di Luke e di chiunque altro mi circondi, avanzo verso di lui. Axel però mi da le spalle e cambia direzione in fretta. 
Lo vedo allontanarsi sempre di più, fino a diventare una macchia indistinta tra la massa. E allora metto in pratica quello che ormai ho imparato da anni, l'arte del rompersi in silenzio e far finta di niente. Guardo Axel allontanarsi da me e mi costringo ad ingoiare quel groppo che mi attanaglia la gola e minaccia di soffocarmi, perché anche l'unica persona che voglio nella mia vita sembra esserne appena uscita.
«Stai bene?» Sento una mano posarsi sulla mia spalla e non c'è bisogno che io mi giri per capire chi sia. 
«Non hai lezione? » 
«Può aspettare » ribatte, bloccandomi la strada. Evito il suo sguardo ma lui mi solleva il viso, scrutandomi con i suoi occhi azzurri. «Cos'è successo? » 
«Niente che ti riguardi. » Mi scrollo di dosso la sua mano e, senza voltarmi, mi dirigo verso l'edificio in cui tra meno di cinque minuti si terrà la lezione di psicologia.
Lo sento seguirmi, un passo dopo l'altro, ma non voglio curarmi di lui. Voglio svolgere i miei doveri del giorno, fingere che niente sia mai successo e tenere le emozioni in un posto sicuro, lontano da me e dagli altri.
La porta girevole dell'edificio è proprio davanti a me, ma prima che riesca ad introdurmi tra una lastra di vetro e l'altra, una presa ferrea mi blocca per il braccio costringendomi a voltarmi bruscamente. Il suo viso è vicino al mio, posso vedere con chiarezza la pupilla diventare sempre più piccola all'interno delle sue iridi azzurre. 
«Farò tardi » dico a denti stretti. 
«Ti importa molto meno di quanto importi a me della lezione, lo sappiamo entrambi » ribatte con durezza, in netto contrasto con il suo modo di fare così tranquillo che mi riempie d'ira, perché inizio a detestarlo. Inizio a detestare il suo modo di impormi la sua presenza e detesto doverlo ascoltare quando l'ultima cosa che voglio è averlo davanti ai miei occhi. 
«Andiamo a prendere un caffè? » Me lo chiede con gentilezza, come se fossimo due vecchi amici, la sua presa si allenta fino a scomparire ma continua a tenermi in trappola tra il suo corpo e il muro in mattoni. 
«Non voglio prendere un caffè con te.»
«E allora cos'è che vuoi da me Ashlie? » Per un attimo sento la sua voce tremare, salire di un ottavo, ma abbassa il volto e sorride. Chiude gli occhi, si passa una mano tra i capelli e quando punta nuovamente i suoi occhi nei miei sembra essere il Luke di sempre, quello calmo e sicuro di sé. «Di cosa volevi parlare poco fa? » 
«Cos'è successo sabato? » Glielo chiedo senza troppi giri di parole, che ruotarci intorno sarebbe solo un ulteriore perdita di tempo. I suoi occhi si accendono di una strana luce e in poco tempo un sorriso sghembo appare sul suo volto, mettendo in mostra le fossette che incorniciano il suo volto. 
«Non ricordi nulla? »
«Non ricordo abbastanza » ribatto, incrociando le braccia al petto. Il cielo intanto è stato coperto da grandi nuvole grigie, il freddo si è fatto più intenso e non riesco a trattenere un brivido.
«Quindi vuoi sapere cosa abbiamo fatto? » Indietreggia di qualche passo, mette una mano nella tasca della giacca jeans che in questo momento mi sembra terribilmente inadatta per queste temperature e mi chiedo come faccia a non avere freddo, e con l'altra mano tiene la cinghia della tracolla in pelle che tiene sulla spalla.
«È quello che ti ho chiesto. »
«Avresti dovuto accettare la mia proposta » mi ammonisce, guardandosi intorno. «Inizia a fare davvero freddo. » 
Sto in silenzio e resto a guardarlo, mentre lui continua a guardarsi intorno ma vedo che in realtà il suo sguardo non è rivolto a niente. La sua concentrazione è altrove, forse sta raccogliendo le idee, forse sta decidendo cosa dire e cosa omettere. E questo pensiero mi infastidisce e non ci penso neanche a nasconderlo. Allora punta il suo sguardo su di me, di nuovo serio e quasi ammonitorio.
«Sei sicura di volerlo sapere? » Annuisco, senza distogliere lo sguardo. 
«Allora esci con me. » Lo guardo storto, convinta di essermi perse un tassello cruciale di questa conversazione. Sto in silenzio aspettando qualcosa da parte sua, una risata, un ghigno derisorio, una battuta, qualsiasi cosa che mi aiuti capire. Ma non arriva niente.
«Credo che ci sia qualche problema », improvvisamente l'aria mi sembra davvero troppa e non posso fare a meno di muovermi in modo irrequieto. Guardo a destra e a sinistra, sollevo le mani in aria. «Non riesco a capire cosa intendi e a quanto pare nemmeno tu capisci cosa io ti sto dicendo »
«Non è difficile », allunga una mano fino al mio viso, sposta una ciocca di capelli che mi è caduta sul volto ed io istintivamente indietreggio, ma il muro che entra in contatto con la mia schiena mi ricorda che non posso andare da nessuna parte, che non posso più porre ulteriore distanza tra me e lui. 
«Un'uscita, io e te da soli » ribadisce, come se prima non fosse stato abbastanza chiaro.
 «Non c'entra con ciò che ti ho chiesto »
«Invece sì » ribatte e mi sorride. «Esci con me e ti dirò ciò che è successo sabato. »
«Davvero? Hai così tanto tempo da perdere? » Mi sfugge una risata amara e lui sembra trovarlo divertente, perché sorride come se la situazione lo fosse davvero.
«Io non ho niente da perdere » puntualizza, «al contrario tuo. »
Mi porto una mano tra i capelli neri e li tiro indietro nervosamente, forse lo faccio troppe volte tra un'alzata di occhi e l'altra, perché lui inizia a ridere. Lo fulmino con lo sguardo, ma questo non sembra intimorirlo affatto, al contrario sembra incoraggiarlo al tal punto che avanza verso di me e la distanza minima che ero riuscita a frapporre tra me e lui scompare di nuovo.
Posa una mano sulla mia spalla per tenermi ferma, quasi inchiodata al muro, avvicina il suo viso accanto al mio facendo sì che le sue labbra siano vicine al mio orecchio.
«Ti vengo a prendere questa sera all'entrata del tuo dormitorio, ti dirò tutto quello che vorrai se verrai » mi sussurra all'orecchio, mentre io trattengo il fiato. Solo quando lo vedo superare la grande porta girevole riesco a lasciar andare un grosso sospiro.  


 



Dopo tanto tempo sono riuscita a farmi di nuovo viva, finalmente.
Ho deciso che continuerò a portare avanti questa storia, con i miei tempi (che siano brevi o lunghi) e mi farebbe davvero un enorme piacere vedere che nonostante ciò continuiate a leggere questa storia e seguirla.
Mi farebbe anche molto piacere ricevere un riscontro da parte vostra, positivo o negativo che sia. Avrei davvero molto piacere di poter venire a conoscenza dei vostri pensieri, qualsiasi essi siano.

A presto! 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Scars. ***


Una busta da lettere, questa volta marrone, giace per terra davanti alla porta.
Di nuovo senza indirizzo né nome. La apro e ne tiro fuori un unico foglio di carta bianco, questa volta il messaggio è scritto in maiuscolo. I caratteri sono grandi e scritti con un pennarello nero:

 
« SO CHE TI RICORDI DI ME »
 
 Poso la busta da lettere marrone sopra la prima lettera che ho ricevuto, quella che avevo lasciato ben in vista nella mia camera ma ben custodita nei meandri della mia mente.
Avevo deciso che era stato un caso, che quella lettera non era destinata a me, ma quest'altra rendeva tutto molto differente. 
Perdo il controllo di ogni arto, la testa mi gira e non mi curo del contenuto della mia borsa sparso su tutta la moquette, accompagnata dalla giacca e dal foglio bianco.
Corro in bagno improvvisamente scossa da violenti conati, sento il mio stomaco stringersi, la testa continua a girare vorticosamente e mi manca il respiro. So che non rimetterò niente, perché il mio stomaco è vuoto, più o meno quanto vorrei che lo fosse anche la mia testa.
Ma è impossibile. Sento quelle mani grandi e ruvide stringersi intorno al mio collo, l'alito caldo e pesante sulla mia faccia, un mix letale di whisky e rum. Sento tutto così forte, così vicino, come se aprendo quella lettera fossi tornata a quello scantinato buio e freddo, con l'umidità nell'aria e la paura dentro. 
Mi accascio al pavimento scivolando contro la fredda ceramica bianca del lavandino, ho la vista offuscata e troppe lacrime accumulate agli angoli degli occhi. 
Un violento singhiozzo mi spezza il respiro ancora affannoso e altri ricordi si intrufolano prepotentemente nella mia testa e sento crollare quel muro di mattoni che avevo creato per tenermi al riparo da ciò che in realtà non potrò mai dimenticare davvero. Immagino di sentire il fragore causato dall'impatto dei mattoni contro il suolo della mia mente e il brusio dei ricordi che mi investono. Ricordo le ferite sulla schiena e i tagli sul viso così bene da credere per un attimo di poterli veder comparire di nuovo sul mio corpo in questo esatto momento, sento il sapore del sangue nella bocca e giù per la gola.  Porto istintivamente una mano sul ventre piatto, stringo il tessuto ruvido della maglia tra le dita e le lacrime iniziano a solcare il mio viso pallido.
Lacrime che trattenevo da troppo tempo, lacrime che sono più che semplici lacrime.
Lacrime per ciò che è stato e ciò che ero, per le mie colpe e le mie perdite. Lacrime per cose che non sono dipese davvero da me.
E per un po' me lo concedo, mi lascio andare su queste fredde mattonelle asettiche, lascio che ogni cosa mi travolga fino in fondo, che ogni mancanza esca allo scoperto. Mi concedo di pensare a quel che sarebbe stato se e a quello che non potrà mai più essere
Perché ci sono cose che non potranno mai più tornare come prima e perché ci sono cose di me che non potranno mai più essere sistemate. 

La parte difficile non è mai crollare, ma ricomporsi.
Alzarsi come se niente fosse, ricostruire pareti infrangibili che reggano almeno fino al prossimo brutale crollo e mentire a sé stessi. Ripetersi che nulla è accaduto e che niente è andato perso.
Rialzarsi e rimettere a posto i pezzi, nascondere gli occhi arrossati dal lungo pianto, asciugare le gote e far cessare le ripetute e involontarie contrazioni del diaframma.
Che anche se credi di aver imparato a passarci sopra e fingerti indifferente in realtà non ci si abitua mai davvero a dei crolli così grandi. Che davanti ad uno strazio tale, siamo sempre un po' inermi.  Rialzarsi sempre un po' difficile, ma va fatto. 
 Apro il getto della doccia e lascio che l'acqua scorra, nell'attesa che raggiunga la giusta temperatura. Guardo la mia figura riflessa nello specchio e penso a quanto diversa appaia da come invece sono dentro. Esamino i vestiti sgualciti, i capelli disordinati, il trucco sfatto e gli occhi stanchi. Provo l'impulso di rompere la superficie riflettente e mandarla in frantumi insieme all'immagine riflessa. Un impulso che cela una rabbia fredda per questo banale specchio e per la mia immagine, una figura diversa che non sento mi rappresenti. 
Una figura che nasconde schegge, frammenti, ombre e urla rabbiose e spaventate, abissi dove è meglio non addentrarsi.  
Mi svesto di ogni indumento e lì lascio lì, dimenticati ai miei piedi. Guardo di nuovo l'immagine riflessa nello specchio e traccio con le dita tremanti la lunga cicatrice ormai biancastra lungo l'intera clavicola, traccio un percorso invisibile lungo il solco che parte dalla scollatura e arriva fino all'ombelico. Lì in basso c'è un'altro piccolo segno, ormai quasi invisibile agli occhi di chiunque ma non al mio. E ancor meno invisibile è il senso di colpa che mi attanaglia le viscere ogni qualvolta risalta ai miei occhi. Rivolgo un ultimo sguardo alla figura nello specchio, provando un malsano piacere alla vista delle costole appena sporgenti. E per l'ultima volta respingo il rabbioso impulsi di mandare in frantumi il vetro, fiondandomi nella doccia.
 Il volto basso e gli occhi chiusi, l'acqua bollente che scorre sui capelli mi accarezza il viso brucia la pelle graffia il petto e cade ai miei piedi, portandosi con se ogni paura. Resto così per un po', a scaldarmi fuori e gelare dentro. Resto così fino a quando il getto d'acqua calda muta improvvisamente in acqua gelida, dando vita ad un susseguirsi di brividi che percorrono la mia schiena. Così mi avvolgo nel morbido asciugamano blu ed esco dal bagno, senza neanche fermarmi davanti allo specchio. Che di me stessa per oggi ne ho avuto abbastanza.
«Finalmente, è una vita che aspetto »  Kyla si alza dal letto con un vigoroso salto, la frangia è in ordine come sempre e gli occhiali sul suo naso. Ma ha gli occhi piccoli e lo sguardo stanco. 
«Credo che dovrai aspettare per un bagno caldo » la informo, mentre libero la massa di capelli neri dall'asciugamano in cotone e comincio a districare i nodi. 
«Quanto tempo è che sei lì dentro? » Si lascia cadere nuovamente sul materasso morbido, mentre un grido stridulo e disperato fuoriesce dalle sue labbra. 
Le rivolgo uno sguardo di scuse che lei elude scuotendo una mano. 
«Lascia perdere, ne avrai avuto bisogno » dice alla fine mettendosi seduta e io mi chiedo se sia ancora così percettibile, se la lunga doccia non abbia sortito il dovuto effetto. Ma non dico nulla. «Esci? »
 «No » rispondo di getto, ma il ricordo della voce di Luke che mi sussurra all'orecchio mi ritorna alla mente. «Insomma non lo so, forse »
 «Cos'è quella? »  Do le spalle a Kyla e di conseguenza non capisco a cosa lei si riferisca, ma quando inizia a sventolare davanti al mio volto quel foglio bianco con quell'unica scritta incisa sopra, il pettine mi scivola di mano schiantandosi contro il morbido piumone del mio letto. 
«Niente, hanno sbagliato di nuovo » le strappo il foglio dalla mano e lo piego in due, tagliandolo poi a metà e ancora e ancora, fino a ridurlo in brandelli e gettarlo nella pattumiera.
Kyla non sembra farci molto caso e continua a mettere in ordine la posta. 
Guardo la sveglia digitale posta sopra la scrivania: le 18:40.
«Kyla, esco, ma non so a che ora tornerò. »
Mi piace l'autunno, mi piacciono le giornate più brevi e mi piace che, nonostante l'ora, l'intero campus sembra stia già dormendo, anche se so che così non è. La luna non splende stasera, le nuvole non danno aria neanche ad una piccola parte di cielo e il vento trasporta le foglie morte, è troppo forte per permetterti di pensare. 
Puntuale come la mezzanotte, i fari di un'auto fanno capolino nell'insidiosa entrata sbarrata da un grande cancello nero, costringendomi a proteggere gli occhi dalla luce abbagliante. 
Mi avvicino al fuori strada nero e lo sportello del passeggero viene aperto dall'interno.
 «Sapevo che ti avrei trovata qui », il volto di Luke avvolto nella penombra del veicolo mi accoglie con un mezzo sorriso. Salgo e vengo avvolta dall'aria calda che aleggia all'interno del fuoristrada, la radio è sintonizzata su una stazione radio e le note di una canzone pop rock riempiono lo spazio. Non rispondo a quella che credo fosse una provocazione e non mi volto a guardarlo di nuovo. Tengo lo sguardo fermo davanti a me, con le mani chiuse in pugno appoggiate al ventre e la gola secca. 
Fa un'inversione di marcia con la destrezza di chi ormai ha molta esperienza nella guida e mi chiedo da quanto tempo lo faccia, ma non mi serve saperlo davvero. Non mi serve sapere niente su di lui. Con lo sguardo perso al di là del vetro del parabrezza, cerco di ignorare la sua sicurezza nel trovarmi lì e mi accorgo di non avere la più pallida idea di dove siamo diretti adesso.
«Dove andiamo? » 
«E' una sorpresa », il suo tono di voce risuona fin troppo entusiasta ed inevitabilmente, prima che riesca a controllare i miei movimenti, mi giro a guardarlo. I biondi capelli ricci sono disordinati come sempre, ha un'espressione concentrata dipinta in volto, tiene la mano destra stretta al manubrio e l'altra fuori dal finestrino della sua sfarzosa auto.
«Non mi piacciono le sorprese » puntualizzo, « e questo non è un appuntamento. »
«Lo so », per un attimo distoglie lo sguardo dalla strada e lo rivolge a me. Un piccolo sorriso mette in mostra i suoi denti perfettamente bianchi. Poi torna a guardare la strada con la massima attenzione, in netto contrasto con la disinvoltura con cui guida il veicolo. «Come non ti piacciono i ristoranti, il buio, i ragni e qualsiasi altro insetto. »   
«Sono stata io a dirtelo? »  Lui annuisce ed io mi lascio andare contro il sedile. Lo sento sopprimere una risata ma non emetto un solo suono, perché è una soddisfazione che non posso concedergli. Così torno a guardare al di là del vetro.
  Usciamo dalla Hennepin Ave, in direzione di Dupont Ave Street. Osservo gli alberi che ci lasciamo dietro, le case e gli imponenti edifici moderni e non. Ci fermiamo ad un incrocio, aspettando che il semaforo diventi verdi. Luke intanto si protrae in avanti e alza il volume della radio. Guardo meglio il piccolo display e noto che la radio non è accesa su una stazione radio, ma c'è un CD. La scritta blu ghiaccio dice TRACK 1.

Why can't we choose our emotion?
'Cause we could feel something's broken
And I can't stay without hoping
We'll never be alone, we'll never be alone
La mia attenzione viene catturata completamente da questa canzone e sento ripetutamente una voce che riconosco come familiare ma che sono sicura di non aver mai ascoltato prima.
 Il semaforo diventa verde, Luke accelera e non appena superiamo l'incrocio affianca il fuoristrada al marciapiede e spegne il motore. Mi guardo intorno e individuo solo enormi palazzi, alberi, negozi di antiquariato e proprio di fronte alla macchina, all'angolo del marciapiede, uno studio di tatuaggi. 
  «Allora scendi o resti in auto? » Mi chiede Luke, già fuori dal veicolo. Così sgancio la cintura di sicurezza e dopo aver dato un'altra, più attenta, occhiata intorno, scendo. Il vento soffia forte ed istintivamente mi stringo nella mia giacca di pelle. Dopo essersi assicurato di aver chiuso la sua Jeep, supera l'auto e si ferma a meno di un metro da me, davanti alla grande vetrata dello studio. Faccio qualche passo e un'insegna al neon blu e rossa lampeggia davanti ai nostri occhi. Guns N' Needles Tattoo, è il nome dello studio. 
«Uno studio di tatuaggi? » gli chiedo scettica, indicando l'entrata con la scritta 'Aperto' che si illumina di rosso. Lui annuisce sorridendo. 
«Perché? »
«Vuoi sapere cosa è successo ? » Mi chiede ed io annuisco, così mi prende per mano ignorando il mio tentativo di opposizione e incastra le sue dita affusolate tra le mie, fredde e volontariamente rigide e trascina entrambi all'interno dello studio.
Non faccio in tempo ad esprimere a voce la mia riluttanza per il suo gesto che l'atmosfera del locale cattura totalmente la mia attenzione. Il parquet in ciliegio splende sotto i nostri piedi e fa sembrare il posto più ampio di quanto già non sia, le pareti sono di un colore grigiastro che appare come vellutato e i lampadari al soffitto emanano una luce soffusa che aiutano a creare un'aria più accogliente e calda. A sinistra, sotto la parete per metà a vetri, c'è un piccolo divano rossiccio e di fronte un tavolo basso con sopra diversi cataloghi di tatuaggi. Diversi quadri sono appesi alle pareti e in fondo alla stanza, c'è un grande bancone nero.    
 «Lukey», una ragazza bionda e con i corti capelli legati in una coda lo accoglie con un raggiante sorriso. «Non sapevo avessi preso un altro appuntamento »
«Non in modo ufficiale » Luke si avvicina alla ragazza e, sporgendosi dal bancone, la saluta con un bacio sulla guancia. «Sabato sera ho parlato con Jinx, mi sta aspettando. » 
Nonostante questa frase attiri in particolar modo la mia attenzione, la ragazza sembra capirne molto più di me. 
«È di là », la bionda indica l'altra parte dello studio, diviso dall'area circostante solo da un separé in mattoni. Da quel lato si sente provenire il ronzio di una macchinetta e risate. «Tu e la tua amica potete aspettare qui intanto. »
Luke annuisce e dopo averle sorriso, si accomoda sul sofà. Mi fa cenno di raggiungerlo e, seppur contro voglia, lo faccio. Mi siedo, cercando di mantenere una certa distanza da lui. 
«Quindi come ti sembra? » Mi chiede, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e sporgendosi in avanti, con il viso rivolto verso di me. 
«Cosa ci facciamo qui? » 
«Davvero non lo ricordi? » Scuoto la testa in segno di negazione. «Mi hai chiesto tu di portarti qui. » 
 «Non ti avrei mai chiesto niente del genere » ribatto sollevando le mani in aria e guardandomi intorno.
«Invece lo hai fatto, mi hai pregato affinché chiamassi per prendere un appuntamento » nonostante quell'irritante sorriso, il suo sguardo vitreo è così sincero che mi ritrovo costretta a dover credere a ciò che dice. 
«Adesso possiamo andare via » mi alzo, aspettandomi che lui faccia lo stesso, e invece resta seduto. 
«E il tuo tatuaggio? » 
«Non mi piacciono nemmeno i tatuaggi » mento, perché in realtà li trovo a loro modo affascinanti ma ne ho paura, come ogni cosa di indelebile in questo mondo.
«Non è quello che hai detto sabato », poggia la schiena sul comodo sofà e unisce le mani dietro la testa. 
«Hai contemplato tutti i miei tatuaggi, chiesto il significato di essi e tracciato ogni linea », lo dice con un tono di voce serio e fermo, con lo sguardo fisso nei miei occhi, come se stesse aspettando una mia reazione. Ma non lo faccio. Deglutisco, sbatto gli occhi nel modo più naturale possibile e porto indietro i miei capelli neri con mano tremante.
Non me lo ricordo, non ricordo niente di tutto questo. Non ricordo i suoi tatuaggi, non ricordo di averli visti e non ricordo di averlo toccato.
«Non farò il tatuaggio comunque. »
«Perché no? Lo desideravi tanto », afferra uno dei raccoglitori posati sopra la superficie del tavolo e inizia a sfogliarlo.
«Ho paura dell'ago » mento e lui sembra saperlo perché ride, ma senza scomporsi più di tanto. Lascia andare il catalogo di tatuaggi al suo posto, lentamente si alza e mi raggiunge. Come sempre è costretto a dover abbassare un po' il viso per far si che i nostri occhi si possano incontrare. Sento il suo respiro caldo sul volto e la sua camicia nera mi sfiora.
  «Le cose permanenti ti spaventano, il per sempre non rientra tra i tuoi canoni e l'idea di un marchio indelebile sulla pelle, che resterà per sempre lì a ricordarti qualcosa, ti opprime. Ti fa sentire schiava di qualcosa su cui tu non puoi avere nessun controllo e questo ti fa uscire fuori di testa » le parole escono fuori dalle sue labbra come una carezza tagliente. Parole decise e dure, parole non sue ma mie.  
Resta a guardarmi per un po' ed io non riesco a muovermi, il nodo che mi si è formato in gola mi impedisce di rispondere, o fare qualsiasi altro movimento.
Solleva una mano all'altezza del mio viso e sta per posarla sulla mia guancia quando un uomo due volte più grande del ragazzo che mi sta di fronte attraversa il separé in mattoni, seguito da una ragazza dai capelli blu e coperta di tatuaggi dal collo ai piedi, che dopo aver salutato lui e la ragazza al bancone lascia lo studio. 
«Ehi Luke » l'uomo lo saluta con una stretta di mano e una sottospecie di mezzo abbraccio. «È lei la ragazza di cui mi hai parlato? »
«Sì, lei è Ashlie » Luke si fa da parte e io mi decido a fare qualche passo verso di loro, stringendo la mano che l'uomo mi sta porgendo. «Ashlie, lui è Jinx. »
Finite le presentazioni, Jinx ci conduce dall'altra parte dello studio.  Le pareti sono tappezzate di foto con cantanti celebri e bacheche piene di tatuaggi e bozze. Proprio dietro al separé c'è la poltrona per tatuaggi, uno sgabello a sella in pelle nera e un carrello contenente diverse attrezzature. Di fronte invece, c'è una scrivania in ferro completamente ricoperta da cataloghi, album e fogli.
«Iniziamo da lei? » Chiede ancora l'uomo e prima ancora che io possa rifiutare, Luke interviene. 
«In realtà c'è stato un cambio di programma, lo faccio solo io. » 
Jinx annuisce e lo invita ad accomodarsi. Osservo Luke togliere prima la giacca in pelle e poi sbottonare la camicia nera, mettendo in mostra il suo busto marchiato. Ammiro i tatuaggi sulla sua pelle che non assumono nessuna nota minacciosa, come se non fossero lì a rinfacciarti qualcosa che tu non potrai mai cambiare ma qualcosa che vuoi disperatamente ricordare, o portare con te. Sembrano semplicemente raccontare un pezzo della sua storia.
«Me li terresti? » Il tono gentile di Luke distoglie la mia attenzione dal suo corpo e la sposta a lui. Mi sta porgendo i suoi indumenti e, anche se sono ancora scossa da ciò che è accaduto dall'altro lato dello studio, mi avvicino a lui e li prendo. Li sistemo in modo più ordinato possibile sul mio braccio sinistro, dopo di che incrocio le braccia al petto e mi appoggio al separé. 
 «Cosa facciamo stavolta? » Il tono con cui Jinx si rivolge a Lucas fa capire che si conoscono da tempo e che lui, lì, ormai sia di casa. Quest'ultimo estrae un fazzoletto dalla tasca dei suoi jeans e lo porge all'uomo che divertito lo afferra e lo apre, scrutando con attenzione il contenuto. 
Perché ha disegnato il tatuaggio su un fazzoletto di carta? 
I due si scambiano uno sguardo d'intesa accompagnato da un sorriso da parte di Luke e un sogghigno da parte di Jinx. A quanto pare l'unica estranea a tutto, continuo ad essere io. 
Senza ulteriori indugi, Jinx inizia a preparare l'occorrente. Luke invece si mette comodo, lasciandosi completamente andare allo schienale della poltrona. 
«Puoi ancora cambiare idea » mi dice ed io non lo guardo nemmeno.
«Non lo farò. » 
«Pronto ragazzo? » Jinx si avvicina nuovamente a Luke, prima ancora che quest'ultimo dica niente, attiva la macchinetta che da il via ad un lieve e persistente ronzio. Inizia a disegnare le prime linee sul pettorale sinistro di Luke e istintivamente il mio sguardo si posa sul volto di quest'ultimo, pensando di cogliere una smorfia di fastidio o dolore, ma l'unica cosa che fa è tenere il labbro inferiore tra i denti e lo sguardo su di me.
«Non fa male? » Osservo rapita i movimenti fluidi ma allo stesso tempo attenti di Jinx. La sua delicatezza è in netto contrasto con il suo aspetto. L'abbigliamento interamente nero, la bandana in testa, la collana d'oro al collo, il gilè in pelle, le braccia interamente tatuate e la barba lunga e ispida gli danno un aspetto da duro e, probabilmente, nessuno si aspetterebbe così tanta grazia nei suoi movimenti. Eppure si sta muovendo così delicatamente, come se stesse dipingendo su tela. 
«No, non molto » Luke abbassa un attimo lo sguardo sull'uomo, poi torna a guardarmi. «Jinx ci sa fare. »

Dopo la prima mezz'ora le mie gambe hanno iniziato a cedere e Jinx deve averlo notato, consigliandomi caldamente di accomodarmi nella sedia vicino alla scrivania in ferro. 
Jinx ha lavorato al tatuaggio per un'altra ora e mezza e adesso sembra aver portato a termine il lavoro. Applica una crema sul punto di pelle tatuato e ci posiziona sopra uno strato di pellicola trasparente, per poi dare ordine a Luke di rivestirsi.  Gli porgo la camicia e cerco di dare un'occhiata al tatuaggio appena fatto ma Luke me lo impedisce dandomi le spalle.
«Grazie amico » dice a Jinx, infilandosi anche la giacca. «Come al solito hai fatto un ottimo lavoro. »
I due si scambiano una forte stretta di mano e quando si dirige al bancone, io resto a salutare Jinx.
«È stato un piacere conoscerti Ashlie, spero di rivederti presto. » Mi congeda con un occhiolino e io gli rivolgo un lieve sorriso prima di spostarmi nella sala d'attesa. Attendo che Luke ritorni, per poi uscire fuori dallo studio e venire investiti dalla fredda aria notturna.
Luke fa per tornare alla macchina ma io pianto i piedi sul posto in modo fermo e lui si volta a guardarmi con fare confuso.
«Non mi hai ancora detto nulla. » La mia voce risuona spezzata e flebile. 
«Ti ho detto più di quanti immagini, Ashlie »
«Cosa mi avresti detto? » Mi avvicino anch'io all'auto, ma dal lato del passeggero. Con il fuoristrada tra di noi sento di potergli dire quello che voglio, senza la paura che lui annulli le distanze e faccia quello che fa sempre. 
«Cosa temi di aver fatto sabato sera, Ashlie? » mi chiede bruscamente, facendomi sentire un po' come sul filo di un rasoio. È una bella domanda, a cui neanch'io ho un risposta precisa. Potrei dire solamente che ho paura di essermi esposta troppo ad un estraneo. Di aver mostrato un lato di me che hanno seppellito da tempo.
«Sono solo curiosa » ribatto, stringendo le braccia al petto e puntando lo sguardo alle mie gambe fasciate da un paio di jeans neri.
«La tua è paura, non curiosità », apre lo sportello del lato del conducente, ma prima di salire mi guarda di nuovo. «Sali, non abbiamo ancora finito. »

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - White rose. ***


Il buio intenso, la luna in cielo e la quiete attorno.
Solo noi, in mezzo a tanta erba e nient'altro, oltre le stelle che illuminano la città che si estende al di sotto di questa collina. 
Un posto silenzioso, dove la solitudine non la senti per quanto assurdo possa sembrare. Il vento tra i capelli, le mani in grembo e la pelle fredda. 
Luke è seduto accanto a me, tiene le gambe affusolate distese in avanti, le mani sull'erba umida per reggersi, lo sguardo perso nelle luci della città e un'espressione serena in viso.
Si volta a guardarmi ed io distolgo lo sguardo. 
«Perché sei sempre così trattenuta? Di cosa hai paura?» Me lo chiede gentilmente, un tono di voce che non ha nessuna pretesa. Io inclino la testa verso l'alto, lo sguardo al cielo e i pensieri rivolti alle mille cose che temo. 
«Non mi trattengo, sono quello che mostro » mento. «E non ho paura di nulla », mento ancora, questa volta una bugia molto più grossa della prima. 
Luke si lascia andare qualcosa che sembra essere tra uno sbuffo e una risata, poi lascia la sua comoda posizione e si volta verso di me con l'intero corpo, incrociando le gambe. 
Mi volto a guardarlo e lui mi incita a fare lo stesso. 
«Forza, voltati », sorride ed io controvoglia faccio quel che mi ha detto. Sento l'erba umida strapparsi sotto il tessuto dei jeans mentre mi muovo, ma non mi da fastidio. 
Adesso siamo uno di fronte all'altra, faccia a faccia, senza nessuna via di scampo.
«Guardati intorno Ashlie, cosa vedi? » mi invita ed io lo faccio sul serio. Alberi, piante, stelle, la luna, il cielo. Nient'altro. 
«Esattamente quello che vedi tu », dico infine. 
«Vuoi sapere quello che vedo io? » Mi chiede, ma non aspetta davvero una mia risposta. «Vedo un posto bellissimo, dove i pensieri arrivano prima della solitudine. Vedo una bellissima città che si prostra ai nostri piedi e vedo una ragazza che ha paura di mostrarsi per quello che è e di mille altre cose.»
I suoi occhi sono fissi nei miei e non riesco a muovermi, non riesco ad interrompere il contatto e non riesco a tenermi lontana dalle sue parole che mi attanagliano in una stretta morsa.
«Non mi conosci » affermo convinta, ma non serve a spezzarlo, quella luce nei suoi occhi resta lo stesso. 
«Vorrei poterlo fare » sussurra. «Raccontami qualcosa di te, ancora, come quella sera. »
«A quanto pare l'ho già fatto, perché ripeterlo? » 
«Perché vorrei che lo facessi così, in modo cosciente e non stordita da qualche alcolico. Voglio che mi parli per tua volontà e non per quella di qualche shottino » dice, più convinto di prima. Finalmente interrompo quel contatto visivo, respiro di nuovo e cerco di mantenermi lucida. 
«Quella sera, cosa ti ho detto? » Cerco di mantenere un tono distaccato, per non far trasparire nessuna nota di disgusto che provo nei confronti di una me totalmente incosciente e senza controllo. 
«Mi hai detto che non sai perché sei qui », inizia. La sua voce è calma e chiara, come una sorta di tranquillante per la mia mente e io la lascio entrare, perché ho bisogno di restare calma. Ho bisogno di restare me. «Che l'università non è più quello che vuoi. Mi hai detto che hai paura del buio, che l'inverno e l'autunno sono le tue stagioni preferite e che ti piacciono le rose. Poi ne hai raccolta una, bianca, e me l'hai messa tra i capelli, sopra l'orecchio », Luke viene interrotto da una risata involontaria ed io invece sento la vergogna sopraffarmi.
«L'ho fatto davvero? » Spero quasi che mi dica di no, che mi sta prendendo in giro e che in realtà quella sera io non abbia fatto niente di tutto ciò, ma ovviamente non lo fa. Annuisce e cerca di soffocare un'altra risata. 
«Cos'altro ti ho detto? » 
«Hai voluto vedere i miei tatuaggi » afferma, stringendo le labbra per reprimere un'altra risata al solo pensiero. «Mi hai praticamente strappato di dosso la camicia e hai cominciato a chiedermi il significato di ognuno di essi.»
«Perché me lo hai lasciato fare!? » Sento le guance andare a fuoco e ringrazio il fatto che ci sia il buio a tenerle nascoste.
«Eri piuttosto ostinata », sorride. «E poi non mi dispiaceva.» 
«C'è altro? » Sollevo gli occhi al cielo perché adesso non ho più il coraggio necessario per poterlo guardare negli occhi. 
«Parlavi di una certa Brinley », dice e in un attimo mi dimentico dei tatuaggi, della camicia, della mia disinibizione. Quel nome ora è l'unica cosa che conta. 
Sento il sangue defluire da ogni singola parte del corpo e concentrarsi nella testa, che inizia a pulsare dolorosamente. Sento una stretta allo stomaco e non oso muovere le mani perché so che tremerebbero a vista d'occhio. 
«Cosa ho detto a riguardo? » La mia voce risuona brusca e decisa e Luke finge di non notarlo. Resta calmo, non fa traspire niente.
«Non troppo, solo che forse è meglio se non è rimasta qui », solleva le spalle ma non smette di fissarmi.
Rilascio andare un sospiro, forse un po' tremolante, ma non m'importa. Va bene così. Che Brinley è un argomento che vale troppo per essere messo dentro un monologo di un'ubriaca. 
A questo punto di saperne ne ho abbastanza, mi volto nuovamente verso la città con le ginocchia al petto e il mento sopra le braccia.
«Ash » mi chiama, ma non mi volto. «Non devi darmi nessuna spiegazione a riguardo, se non ti va. »
«Certo che non devo », rispondo bruscamente e sento sia giusto averlo fatto. Ho lasciato varcare una porta pericolosa per me, e anche per lui. Bisogna che io rimetta a posto le cose, che ristabilisca l'equilibrio e che rompa qualsiasi cosa si sia erroneamente creata in quest'ultimi istanti. 
Lo sento sospirare e poi muoversi, ma non mi volto. Immagino si stia preparando per andare via e tornare ognuno alla propria vita. Vedo la sua figura fermarsi davanti a me, mi guarda dall'alto ed io ricambio dal basso. 
Sembra ancora più alto, da qui. Sto per alzarmi quando invece lui si abbassa. 
Ha entrambe le ginocchia sull'erba, le mani lungo i fianchi e lo sguardo fisso su di me. 
Lo guardo in attesa di una spiegazione che non arriva e mi sento a disagio, perché mi trovo di fronte a qualcuno che non riesco a capire, di cui non riesco a prevedere le mosse né i pensieri e questo mi spaventa. 
Porta le mani sulla sua giacca di pelle nera e la apre, poi porta le dita sui bottoni della sua camicia bianca e inizia a sbottonarla. Bottone per bottone, con una lentezza disarmante. 
«Cosa diavolo stai facendo? » Gli chiedo, guardando le sue mani muoversi delicatamente, senza alcuna fretta.
«Sta' un minuto zitta, Ashlie », accompagna l'ordine con un sorriso che lo fa sembrare meno tale. Io mi zittisco presa alla sprovvista, mentre sento la confusione irradiarsi nella mia mente. 
Arriva all'ultimo bottone e la camicia cede mostrando la parte centrale del suo torace. Sposta il lembo sinistro della camicia lasciando in bella vista i pettorali e finalmente capisco. In alto a sinistra c'è il tatuaggio ancora fresco, coperto dalla pellicola trasparente. 
«Lo vedi? » Mi chiede ed io semplicemente non rispondo perché non riesco a capire oltre quel che vedo.
Lo imito alzandomi sulle ginocchia. Resta comunque più alto di me, ma così posso vedere meglio il tatuaggio.
Una rosa. Una semplice rosa. 
«È una tua idea » sussurra, sento il suo respiro sulla fronte ma non mi allontano. 
«Mia? » Gli chiedo. Porto una mano all'altezza del petto come se non avessi più il comando di essa, però mi fermo.
«Sono passate ore sufficienti, puoi toccare se vuoi » afferma deciso, prendendomi la mano e accompagnandola sul suo petto. Inizio a tracciare i bordi del fiore e inizialmente lo sento trattenere il respiro, forse perché la pelle è ancora sensibile, e allora smetto.
«Continua » sussurra, spostandomi i capelli dietro una spalla. «Vuoi sapere cosa mi hai detto? » 
Annuisco, ma senza sollevare lo sguardo.
«Dopo aver posato la rosa tra i miei capelli, non hai fatto altro che toccarla e tracciare il suo contorno con le dita, proprio come hai fatto con i miei tatuaggi, e poi mi hai detto che mi rappresentava. Che avrei dovuto tatuarlo, proprio qui sul petto. » 
«Che ti rappresenta? In che senso? »
«Non lo so », ride. «Mi hai detto che me lo avresti spiegato un'altra volta.»
«Temo dovrai aspettare perché non so cosa intendessi » affermo, distolgo lo sguardo dal tatuaggio e lo porto sul suo viso. Lo vedo sorridere e solo ora mi accorgo di quanto siamo vicini. Tento di frapporre un po' di distanza, ma lui me lo nega cingendomi la vita con un braccio. 
«C'è una cosa che non mi hai detto quella sera » afferma ed io spero invece che sia più di una. «Quel ragazzo dell'altra sera, state insieme? »
Dylan. 
«No, non stiamo insieme » rispondo senza esitazione, perché è così. Non c'è niente che ci lega oltre un passato che entrambi vogliamo dimenticare. 
«No? » Me lo chiede ancora, come per avere la certezza che quel che ha visto non è quel che crede ed io nego ancora.
In un attimo la presa sulla mia vita si fa più salda, spinge il mio corpo contro il suo ed istintivamente poso una mano sul suo petto per mantenere l'equilibrio. La sua pelle è liscia e calda, in netto contrasto con la mia, perennemente fredda. 
Fisso i miei occhi nei suoi e lui è già lì, a catturare ogni tratto del mio viso, anche quelli che da sempre vorrei cancellare. Lui è qui e sembra fissarmi così intensamente, come a volerli imprimere indelebilmente nella sua mente. 
Posa l'altra mano sul mio viso, anch'essa calda e grande. Mi accarezza il viso con il pollice e prima che io possa dire qualsiasi cosa, le sue labbra premono contro le mie. 
Labbra contro labbra, petto contro petto. 
Un bacio lento, paziente e interminabile. 
Muove le labbra sulle mie con estrema calma, in modo quasi straziante, e mi ritrovo a chiederne di più e in fretta. 
«No, non così », si allontana quel tanto che basta da poter incrociare il mio sguardo ed io mi sento una stupida. Sento l'imbarazzo sorgere ma lui lo smorza subito, stampandomi un veloce bacio a stampo sulle labbra. Poi un altro ancora. E un altro, questa volta più lungo e deciso.
«Impareremo a conoscerci, piano. Ci insegneremo a farlo a vicenda, Ash, senza fretta. »

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