Nella tela del ragno

di WhiteLight Girl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Qualcuno da chiamare casa ***
Capitolo 2: *** Fissando il sole ***
Capitolo 3: *** Tra queste quattro mura ***
Capitolo 4: *** Sotto la superficie ***
Capitolo 5: *** Immagine residua ***
Capitolo 6: *** Ali spezzate ***
Capitolo 7: *** Il sapore del sangue ***
Capitolo 8: *** Resterò con te ***
Capitolo 9: *** Gridare invano ***
Capitolo 10: *** Scrivimi ancora ***
Capitolo 11: *** Nascondino ***
Capitolo 12: *** Il canto della sirena ***
Capitolo 13: *** Lascia che piova ***
Capitolo 14: *** Prendi fiato ***
Capitolo 15: *** Dentro l'oscurità ***
Capitolo 16: *** L'incantevole strega ***
Capitolo 17: *** Il gioco del nemico ***
Capitolo 18: *** Labirinto ***
Capitolo 19: *** Quando la carovana chiama ***
Capitolo 20: *** L'ultima offerta ***
Capitolo 21: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Qualcuno da chiamare casa ***


QUALCUNO DA CHIAMARE CASA

Adrien Agreste si era ripromesso di non toccare la torta che aveva davanti fino a quando Marinette non fosse stata lì, ma il profumino che lo stava inebriando da una decina di minuti buoni glielo stava rendendo davvero difficile.
Rimase a fissare la torta quasi con odio, come se la colpa della tentazione fosse tutta di quel dolce o come se in questo modo Marinette potesse arrivare prima. Adrien divaricò le narici ed inspirò a fondo, il brontolio della sua pancia quasi non si era fermato da quando Sabine, che da allora era rimasta a fissarlo divertita da dietro il bancone dei dolci, gli aveva presentato la sua nuova creazione. Adrien, imperterrito, resisteva.
«Guarda che Marinette non si offenderà se comincerai senza di lei.» gli disse Sabine, ammiccando.
Adrien poggiò il mento sulle braccia incrociate con uno sbuffo, sapeva che lei aveva ragione, ma era più forte di lui. «Non sarebbe carino da parte mia.»
Sentì Plagg ridacchiare contro il suo fianco; il Kwami era uscito dalla borsa, se ne stava sospeso tra la sua coscia e la parete e, nonostante fosse al riparo da occhi indiscreti, il ragazzo non riusciva a non temere che qualcuno lo vedesse, quindi lo spinse giù con una manata proprio nel momento in cui lo sentì borbottare: «Magari non ha letto il tuo biglietto.»
Plagg si sforzava di tenere la testa sollevata, si aggrappava con le zampette alle dita di Adrien per impedirgli di spingerlo dentro abbastanza da chiudere la zip dietro di lui, spasimava per poterlo prendere in giro ancora un po’.
«Certo che ha letto il mio biglietto.» disse Adrien a denti stretti.
Plagg rimbalzò contro il fondo della borsa e, arrampicandosi per risalire, stropicciò la copertina di uno dei libri. Il suo ghigno era una provocazione, ma Adrien non aveva alcuna voglia di coglierla, troppo preso dal pensiero del momento in cui avrebbe condiviso quel dolce prezioso con la sua anima gemella.
«Magari allora l’ha letto e non l’ha capito, oppure ha deciso di ignorarlo. Non puoi mica pretendere che ogni volta che le lasci un post-it lei molli tutto e corra da te.»
Adrien gonfiò le guance e strizzò gli occhi, la voglia di afferrarlo per la collottola e lanciarselo alle spalle per liberarsi della vista del suo musetto impertinente era tanta, ma riuscì a tenerla a bada.
«Ma lo fa sempre!» esclamò.
Sabine sollevò il capo con uno scatto e quando lo guardò confusa il cuore di lui balzò in gola. Perfino la cliente che la donna aveva davanti si era voltata a fissarlo. «Hai detto qualcosa?»
«No! Nulla!» si affrettò a rispondere.
Scambiò un sorriso con Sabine, per poi tornare a picchiettare i polpastrelli sul tavolino e, sconfortato, rimuginare su quelle che era convinto fossero le parole esatte che aveva scritto.
Forse era stato troppo lapidale, avendo scritto semplicemente la data, l’ora ed il luogo dell’appuntamento, oppure aveva in qualche modo sbagliato uno dei due? Marinette era sempre stata abbastanza brava ad interpretare i suoi criptici messaggi – fin da quel primo angolo di foglio che le aveva passato in biblioteca anni prima –, ma qualora ci fosse stato un suo errore non avrebbe potuto certo biasimarla.
Si morse l’interno di una guancia, perdendosi nei ricordi di quel magnifico pomeriggio e delle guance rosse della ragazza che lo aveva guardato di sottecchi per tutta l’ora successiva, davanti ai loro più che perplessi migliori amici. Avrebbe potuto inviarle un sms in ogni momento, a dire il vero, ma perché rovinare un metodo di comunicazione così particolare e romantico a favore della fredda, meccanica e moderna tecnologia?
Non avrebbe mai potuto farlo, neanche per salvare il dolce più delizioso e soffice del mondo dal perdere la sua fragranza migliore, ma prese comunque tra le mani il telefono per guardare l’orario indicato dal display. Con il senno di poi, probabilmente, programmare un appuntamento ed un pranzo attorno ad una singola torta non sembrava più una buona idea, specialmente senza aver avuto un minimo di conferma da parte della persona con cui avrebbe dovuto dividerla.
L’attesa non avrebbe potuto essere più snervante, ad Adrien serviva qualcosa per passare il tempo; non aveva manga o riviste da leggere, si rifiutava di calmare il languorino con qualche bignè della sua pasticceria preferita, ma forse avrebbe potuto farsi passare un panino; magari Sabine gli avrebbe permesso di cercare qualche salume nel frigo al piano di sopra.
«Hai già provato a telefonarle o a scriverle un sms?» domandò lei, mentre salutava la cliente del momento. Adrien dischiuse le labbra ed inclinò il capo.
«Sto aspettando la risposta.» mentì.
Era troppo tardi per chiedere quel panino? Come se Sabine Dupain-Cheng potesse permettere che lui facesse uno spuntino veloce senza proporgli anche altro. No, sicuramente avrebbe tirato fuori gli avanzi del pranzo e della cena precedente e glieli avrebbe scaldati in un battibaleno, presentandoglieli con qualche deliziosa focaccia appena sfornata.
Magari solo un croissant, pensò Adrien. Si trovò a ragionare sulla sua esitazione, realizzando che solo fino a poco tempo prima avrebbe assaggiato uno di tutto senza alcuna esitazione. E l’aveva fatto – oh, se lo aveva fatto! – quei primi giorni in compagnia di Marinette.
Se solo quello che aveva davanti fosse stato uno dei dolci classici della pasticceria invece che una novità assoluta, allora avrebbe potuto smettere di rimuginarci sopra e tutto il resto per mandarlo giù senza remore.
Si concentrò su quello che era cambiato da quando si era seduto a quel tavolo per la prima volta: la parete era stata ritinteggiata giusto per rinfrescarne il colore, la posizione dei vari tipi di dolci invertita per semplice sfizio, era stata installato un televisore che, appeso al soffitto, era sempre sintonizzato sul canale locale ed altri piccoli dettagli privi di importanza.
Adrien doveva ammetterlo, l’idea del televisore, opera di Marinette, era stata davvero una genialata; aveva permesso loro di tenere d’occhio le notizie senza dare sospetti e, all’occorrenza, intervenire negli attacchi Akuma. Era sempre bastata un’occhiata verso lo schermo, che in assenza di Marinette era spesso muto. Per questo il ragazzo non l’aveva notato, per questo era rimasto lì a crogiolarsi nella fame e nei dubbi di dove lei fosse finita, quando gli sarebbe bastato alzare lo sguardo per vederla in tutto il suo splendore avvolta nel suo costume rosso da supereroina.
La ripresa aerea non le rendeva giustizia, ma c’era ben poco da ammirare quando la sua comparsa significava guai seri in città e la presenza di Rena Rouge al suo fianco non faceva altro che avvalorare la tesi. «A pensarci, forse dovrei telefonarle.» mormorò Adrien. Ad una prima occhiata, Plagg sembrava stupito dal suo repentino cambio di idea, ma Sabine si limitò a fargli l’occhiolino.
«Anzi, forse dovrei andarle incontro, assicurarmi che non si perda.»
Mise la borsa in spalla e si alzò, lanciando un’ultima occhiata bramosa alla torta mentre la sollevava tra le mani.
Assicurarmi che non si perda? si chiese. Come se potesse dimenticare come tornare a casa sua.
«Puoi tenercelo da parte?» domandò a Sabine poggiando il piatto davanti a lei.
L’uomo che si stava apprestando a pagare il suo vassoio di pasticcini appena riempito, Adrien non l’aveva notato fino ad allora, inspirò a fondo il profumino lanciando un’occhiata bramosa alla torta che Sabine mise prontamente via.
«La ritroverai qui, tranquillo.» lo rassicurò, ma a quel punto Adrien era già fuori di lì.
La campanella della pasticceria tintinnò dietro di lui, che invece di correre in mezzo alla strada voltò l’angolo e si diresse sul retro. La tracolla era ancora aperta, i libri oscillavano sul fondo schiacciando Plagg contro la stoffa della borsa ed il Barattolo di latta con il camembert rotolò fino a cozzare contro il portapenne.
«Avresti dovuto inventarti una scusa migliore.» gli fece notare il Kwami, infastidito.
Adrien non poteva dargli torto. «Fuori gli artigli.»
Pochi minuti dopo stava sfrecciando sui tetti di Parigi, era come se un elastico invisibile lo stesse trascinando alla svelta verso Ladybug. Ogni passo lo portava più vicino a lei, ma contribuiva anche a gonfiare sempre di più quella bolla nel suo petto che gli toglieva il respiro, spingendolo a correre più veloce per arrivare prima.
In ogni secondo che lo separava da Ladybug – e da Rena Rouge – sarebbe potuto accadere di tutto.
Non si era neanche preoccupato di capire bene cosa fosse successo, prima di accorrere.
Il piazzale che aveva scorto attraverso lo schermo era vicino, ma la prima cosa che Chat Noir vide furono i chiassosi elicotteri della televisione sospesi sui tetti di Parigi, l’ennesimo balzo lo portò a superare un capannello di auto della polizia che sfrecciavano in strada a sirene spiegate. Era già pronto a lanciarsi nella piazza, quando fu costretto a fermarsi di colpo, inchiodando sul bordo dell’ultimo tetto. Davanti a lui c’era un intreccio di fili bianchi che ricopriva l’intera area rendendo impossibile vedere cosa ci fosse dall’altra parte, di Ladybug e Rena Rouge nessun segno, ma lui era certo che le avrebbe trovate oltre quella ragnatela. Indietreggiò per prendere la rincorsa e tuffarsi dentro, la mano già pronta sul suo bastone per farsi largo attraverso qualunque cosa si fosse trovato davanti, ma il dolore alla nuca lo colse di sorpresa, rendendo il suo mondo un insieme di macchie bianche e nere che lo accompagnarono verso l’oblio.


***


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Capitolo 2
*** Fissando il sole ***


FISSANDO IL SOLE

L’oblio in cui si trovava pareva rifiutarsi di volerlo lasciare andare, era sospeso in quello stato di intontimento familiare in cui doveva chiedersi che ore fossero e quanto mancasse al suono della sveglia. Valeva la pena tentare di riaddormentarsi, con il rischio che gli restassero solo pochi minuti?
Adrien non lo sapeva, ma comunque non aveva altra scelta che rimanere disteso ad aspettare, con il corpo pesante e la luce contro occhi che non era ancora capace di aprire, domandandosi cosa fosse successo.
Non riusciva a muovere le braccia e le gambe, ma le dita si agitavano contro la stoffa ruvida di un lenzuolo che non era il suo. Qualunque cosa lo stesse trattenendo gli stringeva i polsi e le caviglie talmente strettamente da fargli male e nessun movimento riusciva a dargli sollievo.
Quelle non erano le sue lenzuola, quello non era il suo letto e, ci avrebbe scommesso ogni ciocca dei suoi capelli perfetti, non era neanche il letto di Marinette. Questa consapevolezza sarebbe dovuta bastare a svegliarlo, a riscuotere la sua mente intontita, ma anche solo dischiudere le palpebre fu faticoso come sollevare un treno senza sfruttare i poteri del suo Miraculous. La lampada che stava appesa sopra la sua testa lo accecò.
Voltò il capo e, quando le sfere bianche smisero di danzargli davanti agli occhi, mise a fuoco la parete ed il dottore che sedeva al fianco del suo lettino con aria assorta. Dischiuse le labbra, desideroso di chiedergli cosa fosse accaduto e strinse i pugni, cercando di riportare alla memoria i suoi ricordi più recenti. Sarebbe dovuto andare a lezione, anzi ci era già stato ed era anche uscito per pranzo, aveva aspettato Marinette alla pasticceria dei suoi genitori, ma poi era successo qualcosa che, dopo mesi di inattività, aveva spinto i supereroi ad intervenire. Ricordava il grande intreccio bianco che si era trovato davanti agli occhi, la confusione e la paura di essere arrivato tardi, ma dopo era tutto confuso e pieno di dolore.
«Marinette?» chiese, sporgendosi verso il dottore per quello che poteva a causa delle cinghie.
Si rese conto, forse troppo tardi, che probabilmente avrebbe dovuto chiedere di Ladybug. Chiunque l’avrebbe fatto, chiunque si sarebbe preoccupato di cosa fosse successo ai supereroi di Parigi, nessuno avrebbe potuto sapere che Marinette – ed Alya, Nino, Chloe e lo stesso Adrien –, fossero loro. Ma ad Adrien non importava quali fossero le sorti di Ladybug, per lui ciò che contava davvero era che Marinette stesse bene, che fosse Ladybug o no.
Il dottore non lo guardò neanche in faccia, nel rispondergli. «Come si sente oggi, signor Agreste?»
Roteando gli occhi nel tentativo di restare sveglio, il ragazzo prese fiato. «Oggi? Che giorno è oggi?»
Le domande che gli si affollavano in mente erano tante, così confuse da mescolarsi le une alle altre e sorpassarsi a vicenda facendo a gara per quale dovesse essere posta per prima.
«Da quanto tempo sono qui?»
Provò a rifletterci, ma aveva passato quasi tutto il tempo privo di sensi ed ora non vedeva l’ora di alzarsi. Doveva cercare Marinette, assicurarsi che stesse bene, che tutti fossero sani e salvi. Ancora non riusciva a ricordare cosa fosse accaduto, se fosse finito lì come Adrien o come Chat Noir. Non aveva idea se sapessero chi era.
Piegò i polsi, agitò le mani e le tirò su nel tentativo di liberarsi, tentò di sollevarsi ma la cinghia che aveva sul petto gli premette sui polmoni rendendogli difficile respirare.
«Che è successo? Perché sono legato?» domandò.
Il dottore si alzò e si chinò su di lui, lo tenne inchiodato sul materasso scomodo per impedirgli di muoversi e gli parlò con calma, come se temesse di spaventarlo. Adrien era sicuro che la sua voce fosse la cosa più odiosa che avesse mai sentito in tutta la sua vita.
«Si calmi, signor Agreste. Mi dica cosa ricorda.»
Adrien tornò a riflettere, si chiese cosa avrebbe dovuto dire, cosa aveva già detto, cosa si aspettava che dicesse. Ricordava la ragnatela, ricordava di aver cercato Ladybug, non ricordava di aver trovato né lei né nessun altro, ma poteva essere successo e lui avrebbe potuto raccontare una mezza verità. Se aveva già risposto a quella domanda, di certo aveva fatto la stessa scelta.
«Stavo cercando Marinette.» disse. «Cercavo Marinette, che era con Alya. Dove sono Marinette ed Alya?» Il dottore sollevò lo sguardo e seguendolo, Adrien si rese conto solo in quel momento che anche suo padre era nella stanza. L’uomo lo guardava in silenzio, la pelle ingrigita e le occhiaie profonde sotto gli occhi, quasi come se avesse visto il suo incubo peggiore avverarsi davanti ai suoi occhi.
Solo in quel momento Gabriel si riscosse e tese un braccio per sfiorargli una spalla, fu un tocco esitante, quasi timoroso, quel tipo di contatto che avrebbe fatto desiderare ad Adrien di ricevere un abbraccio colmo della stessa cura.
«Adrien, è comparsa una creatura in centro, Ladybug e gli altri eroi hanno cercato di affrontarla.»
Il ragazzo avrebbe voluto dirgli che questo lo ricordava, che aveva visto il luogo dello scontro, che in realtà non gli importava nemmeno. Voleva solo sapere se i suoi amici stavano bene, poi avrebbe potuto pensare a chiedere perché fosse legato ad un lettino, se suo padre o qualcun altro erano a conoscenza del fatto che fosse Chat Noir e qualunque altra cosa gli fosse venuta in mente.
Attese il resto delle parole di suo padre come avrebbe aspettato una boccata d’aria fresca dopo essere stato immerso in acqua più del dovuto.
«Le tue amiche sono rimaste bloccate nel fuoco incrociato.» gli spiegò Gabriel. «Ed anche tu.»
Non è andata così, si ritrovò a pensare, ma non disse nulla. “Sono rimaste coinvolte nel fuoco incrociato”, tradotto nel gergo dei portatori di Miraculous, significava che si erano buttate a capofitto nella mischia per risolvere la situazione, non era nulla di nuovo. Adrien sapeva che erano lì, voleva solo sapere cosa fosse successo dopo e sperava che il padre glielo dicesse subito, perché non era certo di quanto tempo sarebbe passato prima che non riuscisse più a trattenersi dal dibattersi e saltargli addosso per costringerlo a parlare.
«Una volta che Ladybug, Rena Rouge, Carapace, Queen Bee e Chat Noir hanno risolto la situazione i soccorsi sono riusciti a raggiungervi.»
Adrien strinse gli occhi. Non era andata affatto così, non ricordava di aver combattuto contro nessuno, ma a prescindere da questo e dalla confusione che aveva ancora in testa, non poteva mettere in chiaro che Ladybug e Rena Rouge fossero le ragazze che suo padre aveva detto essere state soccorse.
Prese un gran sospiro, Gabriel aveva detto che erano state aiutate alla fine dello scontro, ma allora perché tergiversava?
«Dove sono Marinette ed Alya?» domandò ancora. Suo padre aveva parlato anche di Queen Bee e di Carapace, ma lui non ricordava di averli visti. Avrebbe dovuto comunque chiedere di Chloe e Nino?
Suo padre non gli diede il tempo di pensarci, il tocco della sua mano sui suoi capelli, così inusuale da parte sua, lo riportò alla realtà. Ora la luce della lampada non gli dava più così fastidio, se evitava di guardarla direttamente.
«Adrien, abbiamo già avuto questa conversazione.» Sospirò, Adrien non ricordava, dubitò delle sue parole, ma perché suo padre avrebbe dovuto mentire su una cosa simile? «Alya è illesa, ma Marinette...»
Adrien si rifiutò di sentire il resto, non era certo di cosa avrebbe dovuto provare, forse disperazione, angoscia, ma tutto quello che riusciva a sentire era pura rabbia.
«Non ti credo.» disse a denti stretti. «Lei non è morta, non può esserlo.»
«Adrien.» esclamò il dottore, sfiorandogli un braccio.
Il ragazzo scosse la testa, piegò le ginocchia, strinse i pugni e digrignò i denti. «Marinette non è morta, non può esserlo! Portatemi da lei! Devo vederla!»
Il lettino oscillò, le lenzuola si incresparono sotto di lui, suo padre ed il dottore lo tennero inchiodato ad esse, impedendogli di ferirsi ulteriormente, ma lui già sentiva la pressione attorno alle caviglie ed ai polsi, il dolore della pelle tirata ed arrossata.
«Calmati, Adrien!» lo supplicò suo padre. Adrien non l’aveva mai sentito così preoccupato, in un’altra circostanza sarebbe stato quasi piacevole.
«Non ti credo!» gridò ancora «Voglio vedere Marinette!»
Qualcosa gli punse il braccio, il dottore aveva una siringa in mano e prima che Adrien potesse verificare che fosse vuota la vista tornò ad annebbiarsi, il familiare senso di intontimento lo avvolse ancora, la pesantezza lo costrinse di nuovo contro il materasso. D’improvviso realizzò che stava per addormentarsi un’altra volta, guardò il padre, cercò di tendere la mano verso di lui, ma anche se quella non fosse stata fermata dalla cinghia era quasi certo che non sarebbe riuscito a muovere un solo muscolo.
«Marinette.» sussurrò «Devo vedere Marinette.»
Il buio lo travolse e, senza che lui riuscisse a rendersene conto, scivolò in un sonno senza sogni da cui era certo non si sarebbe risvegliato presto.
L’oblio lo strinse nella sua morsa e lo trattenne fino al sopraggiungere del dormiveglia, si chiese se la sveglia stesse per suonare, se avesse ancora tempo per tornare a dormire. Non era ancora abbastanza in sé per decidere di alzarsi, o anche solo per volerlo. Una luce fastidiosa colpiva le sue palpebre, facendogli arricciare gli occhi nonostante fossero chiusi.
Si domandò cosa fosse successo, perché quel letto e quelle lenzuola gli fossero così estranei. Qualcosa gli stringeva polsi e caviglie, gli faceva male, ma lui non era in grado di muoversi per controllare di cosa si trattasse.
Qualcuno gli sfiorò la guancia in un gesto tanto dolce da scaldargli il cuore, non gli serviva aprire gli occhi per capire chi fosse, ma lo fece comunque. Il rosso della maschera di Ladybug, così intenso e familiare, fu una boccata d’aria fresca, ma trattenne comunque il fiato come faceva ogni volta che la vedeva dopo un pisolino, quando la sua presenza sembrava ancora fare parte del mondo dei suoi sogni e lui non sapeva distinguerla dalla realtà.
La sua mano gli sfiorava i capelli e la fronte ritmicamente, avrebbe voluto poter scrivere una sonata da dedicare a quel gesto, ma sapeva che nulla avrebbe potuto rendergli giustizia.
«Ehi.» disse, accennando un sorriso.
«Ehi.» gli rispose lei poggiando la fronte contro la sua.
Il profumo del suo respiro gli ricordava quello dei dolci più buoni, avrebbe voluto sporgersi verso di lei per baciarla, ma non lo fece.
«Cosa è successo?» le chiese invece. Lei poggiò le mani sulle sue guance, accarezzandogliele con il pollice. «Ora non ti posso spiegare.» gli disse. «Dovrai avere un po' di pazienza.»
Adrien deglutì. «Ma tu stai bene, vero?»
«Sto bene.» gli rispose lei. Premette un bacio all’angolo della sua bocca, il gesto bastò a scaldarlo ed a fargli dimenticare di essere bloccato.
Un rumore dal corridoio li fece sussultare entrambi. «Devo andare.» disse Ladybug, i suoi occhi scivolarono sull’ambiente attorno a loro alla ricerca di qualcosa.
Adrien annuì. «Ok, liberami.»
«Non posso.» gli disse lei. Gli sfiorò il petto, gli accarezzò il braccio e si morse il labbro.
«Marinette, che sta succedendo?» le domandò.
Lei scosse il capo. «Te lo spiegherò presto.» promise. «Ora non posso portarti via, ma giuro che tornerò a prenderti.»
Adrien annuì, resistendo alla tentazione di insistere, di agitarsi per cercare di liberarsi. Ladybug si chinò ancora verso di lui e lo baciò sulle labbra.
«Ti prometto che tornerò presto.» ripeté.
Poi Adrien ripiombò nell’oscurità.


***

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Prossimo capitolo, “Tra queste quattro mura”

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Capitolo 3
*** Tra queste quattro mura ***


TRA QUESTE QUATTRO MURA

Alya non si lasciò intimidire dall’omaccione alla reception, proseguì imperterrita fino a fermarsi di fronte a lui e, con la mano stretta attorno alla borsa, prese fiato e domandò: «Vorrei vedere Adrien Agreste, per favore.»
L’uomo sollevò solo per un secondo lo sguardo dalla pila di fogli che aveva davanti, gettò un’occhiata al computer e prese tempo.
Alya sentiva il cuore batterle forte in gola, sollevò il mento e strinse la mascella sperando che lui rispondesse in fretta, ma non sembrava esserne intenzionato.
«Il signor Agreste» disse lui, inumidendosi il dito sulla lingua per poter voltare i fogli con più facilità. «Non può ricevere visite, adesso.»
Alya strinse i pugni, si domandò per quale ragione ci avesse impiegato così tanto per dire quella sciocchezza, ma si trattenne dal colpirlo e si limitò a poggiare una mano sul tavolo ed a sporgersi verso di lui. «Lei non può capire, sono un’amica di Adrien ed ho bisogno di vederlo al più presto.»
«Sono desolato,» ribatté lui, ma la sua espressione non rispecchiava le sue parole, il volto era rimasto inespressivo. «ma queste sono le direttive dell’ospedale.»
Un grido proveniente da uno dei corridoi fece rabbrividire Alya, le dita le tremarono contro il legno freddo del tavolo, la borsa oscillò contro il suo fianco mentre si costringeva a restare calma. «La prego, è davvero molto importante.»
Sembrava che insistere non servisse, che nulla potesse smuoverlo o intenerirlo, Alya si rese conto di avere bisogno di un altro piano.
Forse, pensò, potrei tornare indietro ed entrare dal retro, oppure far suonare l’allarme antincendio per causare panico e infilarmi dentro nella confusione.
Osservò la stanza candida ed ordinata, le poltrone allineate sul lato e le riviste impilate sul tavolino. Le porte, disposte ai due lati dell’ingresso, erano rinforzate e dubitava che si aprissero senza un tesserino o una chiave di qualche tipo. Alya non poteva permettersi errori, ma non sarebbe importato se l’avessero scoperta dopo che era riuscita a trovare Adrien, sarebbe comunque stato meglio che non essere arrivata da lui affatto.
Le serviva un diversivo, quindi si voltò ed aprì la borsa, allontanandosi fino a raggiungere la porta d’ingresso. Il telefono era premuto contro il blocco degli appunti, che a sua volta era incastrato tra la pagina del giornale della settimana precedente ed una cartina di Parigi comprata alla stazione quella stessa mattina per riuscire a raggiungere l’ospedale privato.
Le grida dal corridoio si erano fermate, poi il silenzio era stato smorzato da una risata cupa che aveva fatto rabbrividire la ragazza quasi più del rumore sferragliante che la seguì. Questa volta arrivava da dietro di lei, dove era stato l’uomo fino a poco prima. Alya si sporse per riuscire a scorgerlo, ma lui era sparito attraverso la porta che stava accanto all’armadio delle chiavi, a fare chissà cosa in quella stanzetta sul retro.
Guardando con rammarico i Trixx, Plagg e Tikki, appena riemersi da una pila di ritagli di giornali delle ultime due settimane, Alya non riusciva a scrollarsi la sensazione che tutto stesse andando a scatafascio, che il suo mondo le stesse crollando attorno senza che lei potesse fare nulla. E odiava il fatto che quasi nessuno lo sapesse, che tutti continuassero le loro vite come se nulla fosse.
Chiuse gli occhi con un sospiro, conscia che Adrien poteva essere solo a poche decine di metri da lei, solo, confuso e spaventato. Aveva bisogno del suo aiuto e nulla le avrebbe impedito di raggiungerlo.
Sfiorò con le dita il suo Miraculous, pronta a trasformarsi e, se necessario, farsi largo con la forza. Lo scatto della porta che si apriva le ricordò dove fosse, che qualunque cosa fosse accaduta avrebbe dovuto comunque mantenere la sua identità segreta. Sollevando lo sguardo a denti stretti, vide gli occhi azzurri di Gabriel Agreste che la fissavano da sotto le folte sopracciglia corrucciate.
Deglutì, per un istante incapace di vagliare bene la situazione, la borsa ancora aperta tra le sue braccia con i tre Kwami nascosti all’interno.
«Signorina Cézaire?» domandò Natalie.
Alya non l’aveva neanche notata, si sforzò di chiudere le labbra e scosse il capo per scacciare l’intontimento. «Signor Agreste! Signorina Sancoeur! Ho bisogno di vedere Adrien!» disse, cancellando ogni esitazione e sporgendosi verso i due in un ultimo disperato tentativo. Poi le sarebbe rimasto solo il Miraculous.
Dovette trattenersi dall’aggrapparsi alla cravatta di Gabriel e, per tenersi impegnata, richiuse la zip della borsa e la caricò in spalla lasciandola pendere contro il fianco.
Il sospiro dell’infermiere alla reception le provocò un brivido di nervoso.
«Mi dispiace, signor Agreste, ho cercato di spiegarle che suo figlio non può ricevere visite ma non è servito.» Gabriel gli fece un cenno del capo, le braccia ostinatamente incrociate dietro la schiena, il volto severo da cui Alya si rifiutava di distogliere lo sguardo.
La ragazza congiunse le mani e piegò le ginocchia, tentando di muoverlo a pietà. «La prego, signor Agreste, ho davvero bisogno di assicurarmi che Adrien stia bene, mi permetta di vederlo anche solo per un minuto, poi giuro che non la disturberò più.»
Aveva qualche dubbio sul fatto che sarebbe riuscita a mantenere l’ultima promessa, ma avrebbe avuto tempo per pensarci ed in quel momento non le importava, non finché c’era ancora speranza che l’uomo smettesse di fissarla in quell’odiosa maniera gelida che le faceva venire voglia di prenderlo a calci sul sedere.
Quando lui distolse lo sguardo, Alya temette che le avrebbe detto di no, invece lui sospirò e la superò per rivolgersi all’uomo alla reception.
«Mi creda, infermiere, non è mai una buona idea dire di no agli amici di mio figlio. In qualche modo riescono sempre ad ottenere ciò che vogliono.»
Alya sentì il peso sul petto che si scioglieva, il sollievo la fece sentire più leggera e quasi inciampò sui suoi stessi piedi quando corse dietro ai tre. Ora che Adrien era vicino, doveva solo capire cosa dirgli davvero ed assicurarsi che non suonasse troppo forzato e preparato, ammesso che le avrebbero permesso di restare da sola con lui e potesse davvero dirgli quello che doveva senza girarci attorno.
«Si renda conto, signorina Cézaire, che Adrien al momento non è molto lucido.» spiegò Natalie mentre l’infermiere strisciava il pass nella serratura elettronica della porta.
Alya annuì. «Sì signorina, me ne rendo conto.»
Il corridoio che si aprì davanti a loro era quasi deserto, con giusto un paio di lettini ed alcune sedie a rotelle accostate alle pareti ingrigite dal tempo. Il signor Agreste lo attraversò come se lo conoscesse fin troppo bene, Alya non poté impedirsi di lanciare occhiate furtive alle porte che superavano, domandando se dietro esse ci fosse qualcuno e, in tal caso, perché si trovasse lì.
Si perse il momento in cui gli altri si fermarono davanti alla camera di Adrien, quando li notò la porta era già stata aperta e, per la prima volta da quando si era messa in testa di andare a cercare il ragazzo, si domandò come l’avrebbe trovato.
«In questo momento Adrien è molto confuso riguardo a quello che è successo.» spiegò il signor Agreste, forse perché l’aveva vista esitare. «Adrien è in un momento di rifiuto, sarebbe meglio che lei gli raccontasse il meno possibile.»
Alya strinse le dita attorno alla fascia della tracolla e deglutì, annuendo, poi percorse gli ultimi passi che le mancavano per raggiungere Adrien.
Quando il suo amico fu finalmente davanti a lei, Alya quasi desiderò che non fosse lui, che qualcuno avesse commesso un errore ed Adrien fosse ancora lì fuori, chissà dove. Il ragazzo era accasciato contro la parete imbottita, il capo chino, le braccia impigliate nella camicia di forza e bloccate contro i fianchi, gli occhi chiusi sotto i capelli crespi e scompigliati. Quando li sentì entrare sollevò lo sguardo e, nel vederli, il suo viso si illuminò.
Il suo sorriso, per un attimo, le fece pensare che tutto potesse andare bene.
«Papà! Natalie! Alya!» esclamò lui.
Il colore gli illumino le guance, Alya pensò che senza maschera non era mai stato più simile a Chat Noir di quanto lo era in quel momento.
Sentì i Kwami agitarsi, anche loro impazienti di verificare con i loro occhi il suo stato. Pose una mano sull’angolo della borsa, così che essi potessero affacciarsi da essa sfruttando il suo palmo come copertura. Adrien si mosse e fece leva sulle gambe per tirarsi su, ma non potendo usare le braccia per tenersi in equilibrio ruzzolò in avanti, Alya lo afferrò al volo, sollevandolo ed aiutandolo a mettersi in piedi con l’aiuto dell’infermiere.
Una volta che furono faccia a faccia, la ragazza poté vedere le occhiaie che segnavano i suoi occhi stanchi, le sopracciglia poco curate, i nodi tra i capelli di solito perfetti. Lo strinse forte in un abbraccio che lui parve apprezzare, perché strofinò la guancia contro il suo collo prima di nascondere il volto contro i suoi capelli e sussurrarle all’orecchio:
«Non fraintendermi, sono felice di vederti, ma perché Marinette non è venuta con te?»
Il sorriso di Alya si spense, le sue mani tremarono contro la schiena dell’amico e lei si sforzò di lasciarlo andare per guardarlo in faccia. Non riuscì a sostenere la sua espressione carica di aspettativa, sfuggendo al suo sguardo per osservare il signor Agreste nella speranza che le dicesse cosa fare e cosa rispondergli.
Natalie le sfiorò una spalla. «Come abbiamo detto, Adrien è molto confuso.»
Alya tornò a guardarlo vide i suoi occhi brillanti di aspettativa farsi incerti all’istante, le pupille fremere sotto le palpebre tremanti. Ogni centimetro del suo viso esprimeva timore e preoccupazione per la sua compagna, ma nessuno di questi sentimenti sembrava capace di sopraffare il suo ottimismo ed il suo più che evidente desiderio di ricongiungersi finalmente a lei.
«Adrien, io...» iniziò a dire, ma non riuscì a proseguire.
Il ragazzo la ignorò.
«Ho pensato a quello che è successo,» le disse, lanciandole un’occhiata eloquente «intendo a quello che è davvero successo. L’attacco, la ragnatela gigante, il momento in cui ho perso i sensi e tutto quello che è successo dopo che mi sono ripreso.»
La guardò dritta negli occhi, come se volesse farle intuire qualcosa che gli altri non dovevano sospettare, poi si rivolse a suo padre.
«Ora sto bene, posso uscire, sono sicuro che Marinette è preoccupatissima.»
Alya si morse il labbro, gli occhi pizzicarono e nessun sospiro fu capace di calmare il suo dolore, ma l’amico non parve accorgersene.
Il signor Agreste si allontanò con Natalie e l’infermiere, dando ad Adrien il tempo di sussurrarle:
«Quando Ladybug è venuta qui a parlare con me avevo capito che le cose non stavano andando bene, ma pensavo che lei avesse tutto sotto controllo. Maledizione, se non mi avessero chiuso qui dentro avrei potuto guardarle le spalle come sempre, magari avremmo già risolto la situazione.»
Adrien sbuffò, Alya tossicchiò e gli fece cenno di fermarsi.
«Adrien.» gli disse. Avrebbe voluto avere più tempo spiegargli, per consolarlo e dargli il tempo di vedere e parlare con Plagg e Tikki, ma Gabriel Agreste aveva altre idee in merito.
«Credo che ora possa bastare, signorina Cézaire.» le disse.
Natalie la spinse fuori dalla stanza ed una parte di Alya si sentì sollevata di ciò. Non pensava che sarebbe mai successo, che sarebbe stata felice di lasciare uno dei suoi amici nel momento del bisogno, ma era più che consapevole che in quel momento non avrebbe potuto essergli di grande utilità.
Adrien tentò di seguirla. «Aspetta! Natalie! Alya! Dì a Marinette che la aspetto, che mi troverà qui quando verrà a trovarmi!»
Ma lei era già in corridoio e le sue grida disperate sempre più lontane. Alya lasciò che la accompagnassero all’ingresso e la spingessero fuori. Alcune ore dopo era nel mezzo di un’altra visita in un altro ospedale.
Marinette era rimasta come l’aveva lasciata il giorno prima, addormentata ed immobile, i capelli sciolti sparsi sul cuscino. L’unica ragione per cui Alya non avrebbe potuto pensare che dormisse erano i numerosi tubi che la collegavano alle macchine dell’ospedale, l’unica cosa che la teneva in vita dopo quello che era successo all’interno della ragnatela, appena un paio di settimane prima.
Non poté fare a meno di ripensare ad Adrien ed al modo disperato con cui aveva chiesto di lei, senza sapere che non sarebbe potuta andare a cercarlo e che, forse, non sarebbe riuscito a guarire in tempo per poter andare da lei prima che accadesse il peggio.
Svuotata, Alya abbandonò la borsa a terra, ignorò i piccoli Kwami che ne uscivano per raggiungerla e si accasciò sulla sedia scoppiando in lacrime.
Avrebbe voluto poter dire di aver fatto il possibile, di essere stata l’eroina migliore che avrebbe potuto essere, ma in un modo o in un altro aveva perso due dei suoi migliori amici.
«Mi dispiace, Marinette!» singhiozzò, premendo le mani contro le guance bagnate e sperando che in qualche modo lei potesse sentirla.

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Capitolo 4
*** Sotto la superficie ***


SOTTO LA SUPERFICIE

Per Chloe, cercare il riflesso del proprio viso su ogni superficie lucida era da sempre un’abitudine. Che si trattasse di specchi, delle vetrine dei negozi, degli incarti lucidi che servivano a confezionare vari prodotti in vendita oppure semplici pozzanghere, erano rare le volte in cui non si fermava a controllare che capelli e trucco fossero al loro posto.
Quella mattina non fu diverso, anche se trovare la giusta angolazione per scorgersi nella pozzanghera, una volta uscita dall’auto che l’aveva accompagnata al Dupont, non fu facile. Nello sporgersi dal sedile posteriore, la giacca era scivolata da una spalla, costringendola a sollevarla ed a dare uno strattone perché tornasse al suo posto. Il pellicciotto del cappuccio costrinse i capelli che pendevano dalla sua coda di cavallo ad adagiarsi e piegarsi contro la sua nuca invece che scorrere dritta lungo la sua schiena come al loro solito. «Vengo a prenderla all’ora di pranzo, signorina.» le disse l’autista sfiorandosi la visiera del cappello.
Chloe gli fece un cenno, incrociando le braccia al petto. «Sì. E vedi di non fare tardi.»
Si diresse verso le gradinate, il piazzale era già gremito di gente, tutti erano intenti a chiacchierare tra loro, a scambiarsi pareri su qualunque cosa, a commentare le difficoltà dei compiti per casa del giorno precedente ed a rassicurarsi a vicenda riguardo all’imminente compito in classe. Sollevò gli occhi al cielo e sbuffò, conscia che almeno la metà di loro avrebbe avuto bisogno di passare il fine settimana in uno dei migliori centri benessere per potersi liberare della tensione accumulata ed affrontare al meglio la settimana successiva.
Chloe non era affatto stupida, sapeva bene che non tutti avrebbero potuto permetterselo, che di certo avevano ben altre priorità sulle quali investire i propri risparmi. Non tutti potevano vantarsi di frequentare i locali più alla moda, i ristoranti a cinque stelle e le SPA più lussuose.
Grazie al cielo sono la figlia del sindaco di Parigi, si ritrovò a pensare.
Il suo appuntamento dal parrucchiere era confermato, le sarebbe bastata una sola telefonata per prenotare un bagno ai fanghi, il pub più chic di Parigi la considerava un ospite fisso al punto che ormai non le chiedeva più neanche la carta d’identità.
La sua vita sarebbe stata perfetta, se fosse riuscita ad ignorare l’orrenda sfilata di vestiti fuori moda e scialbi che la circondavano.
«Che il cielo mi assista.» disse, fermandosi nel mezzo del marciapiede.
I suoi occhi scrutarono i compagni di scuola uno dopo l’altro, soffermandosi sulle parti peggiori di ognuno di loro. Avrebbe voluto metterli all’angolo uno per uno e sistemare ciò che non andava in loro, ma ci sarebbe voluto davvero troppo tempo e le non ne aveva, anche perché Sabrina la chiamò in quel momento. «Chloè!»
Ti prego, almeno tu non farmi questo, pensò lei.
Ma non sembrava esserci nulla da fare, perché quando si girò per guardare l’amica scoprì che stava indossando di nuovo quell’orrendo maglione a quadri con cui era solita girare quando ancora studiavano al Dupont. Si chiese perché, fino a poco prima, era stata convinta che se ne fosse sbarazzata prima di iniziare l’università. Cosa ho fatto di male? , si domandò.
«Sabrina!» disse «Che diamine!»
Ma si fermò, sforzandosi di soffocare le minacce e l’invito non tanto educato a infilare il maglione in un tritarifiuti alla prima occasione. Premette due dita sulle tempie, chinando il capo e sospirando nello sforzo di essere gentile.
L’amica la guardò con apprensione. «Cosa c’è? Non ti senti bene?»
«Ho il mal di sciatteria.» le rispose.
Ringraziava il cielo di essere seduta al primo banco poiché, in tal modo, avrebbe dovuto sopportare solo il pessimo gusto dell’insegnante. Batté due volte la mano sulla spalla di Sabrina e le fece cenno di andare avanti, avviandosi dietro di lei.
«Dovremmo andare a fare spese, non posso proprio permettermi di farmi vedere in giro con te conciata così.» cominciò a rimuginare su quali fossero i negozi più adatti alla ragazza, a quali fossero alla sua portata ed a quali modelli le si sarebbero adattati maggiormente. Forse, in futuro, avrebbe potuto regalarle qualche accessorio per impreziosire i nuovi outfit e magari avrebbe potuto anche dire al suo parrucchiere di liberare un posto per lei.
Chissà cosa ne pensa di un bob?
A pensarci bene, forse avrebbe dovuto fare un’operazione di restyling per l’intera classe, o almeno costringerli a liberarsi delle cose peggiori, magari avrebbe potuto convincere Nadja Chamack a presentare con lei un reality nel quale mostrare il rinnovo dei look degli adolescenti di Parigi. Andare in giro per la città in cerca di orrori sarebbe potuto essere divertente, ma dato il suo lavoro segreto non era certa di riuscire a mantenere l’impegno. Si chiedeva come Adrien avesse fatto per tutti quegli anni con il suo lavoro di modello. Forse, in fondo, la sfortuna del gatto nero non era poi così forte. Oppure quel poco di fortuna che gli era rimasta si era concentrata sul non farsi scoprire.
Arrivate in cima alle scale, Chloe era giunta alla conclusione che aveva pensato all’idea di fare abbastanza opere di bene da potersi dire soddisfatta per il resto del mese e che quindi poteva tornare a concentrarsi su sé stessa, perché in fondo la persona più importante del suo mondo era, ovviamente, lei.
Si chiese perché la gente si affannasse tanto a prodigarsi per gli altri, cosa facesse scegliere loro di spendere il loro tempo in quel modo, poi ricordò. Si trattava della sensazione di essere utili, della consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono, l’ebrezza di sapere che qualcuno prova gratitudine nei tuoi confronti e, forse, in qualche modo, dell’apprezzamento per quello che fai.
Anche chi aiuta a migliorare l’aspetto degli altri è da ringraziare. Aiuta a far sentire le persone meglio con sé stesse.
Certo, c’era sempre chi non lo capiva o non lo accettava, chi si ostinava ad affermare che ci fossero altre priorità; quelle erano le persone con cui Chloe non sarebbe mai riuscita ad andare d’accordo. Nulla a che vedere con chi affermava che non gli importasse e poi invece si lasciava accompagnare docilmente lungo la giusta via, come avevano fatto nel tempo la maggior parte dei suoi compagni di classe prima del diploma. Purtroppo per lei la palestra all’aperto era ancora affollata da quegli orrendi completi. Era come se all’improvviso tutti avessero dimenticato i suoi consigli e le sue indicazioni, tornando a come erano stati prima che lei ricevesse il suo Miraculous e si dimostrasse più disponibile verso di loro. Li scrutò con disgusto mentre saliva le scale per raggiungere il secondo piano, tanto concentrata sulla sua smorfia da rischiare di inciampare e sbattere il mento contro il pianerottolo. Poi, dopo un movimento del capo che fece ondeggiare i capelli dietro di lei, Chloe raggiunse a testa alta l’aula e prese posto accavallando le gambe.
Sabrina si fermò al suo fianco, mentre camminavano aveva detto qualcosa, ma Chloe ci fece caso solo in quel momento, quando lei poggiò la borsa sul tavolo e tirò fuori i quaderni.
«Dov’è la tua cartella?» le chiese la ragazza all’improvviso.
Chloe sbatté gli occhi. «La mia cartella?» domandò.
Sabrina accennò un sorriso, inclinando il capo nello scrutarla. «La cartella, sì, con i libri ed il resto. E non dirmi che ti sei dimenticata del compito di matematica.»
Sbattendo il palmo sul banco, Chloe si rizzò sulla sedia. «A scuola senza sapere del compito di matematica, il mio incubo peggiore!»
Si guardò attorno, ricomponendosi. «No, decisamente non mi importa.»
Agitò una mano come per scacciare via quei pensieri e si accasciò ancora contro lo schienale della sedia, la campanella avrebbe segnato presto l’inizio delle lezioni ad anche gli altri stavano iniziando a raggiungerle; Nathaniel era già seduto in fondo alla classe e scarabocchiava sul suo album da disegno, Rose stava sistemando un mazzo di fiori nel vaso all’angolo della cattedra, il loro profumo era intenso e stuzzicante - sperò che non rovinasse l’essenza del suo profumo costoso, coprendolo o intaccandolo in qualche modo.
L’insegnante doveva già essere passata da lì, perché i suoi libri ed una pila di fogli erano già ordinatamente riposti sulla scrivania e, se Rose avesse fatto cadere il vaso, sarebbe stato un gran disastro. Forse avrebbe potuto essere un’idea perfetta per far rimandare il compito ed avere il tempo di studiare, pensò, perché non avrebbe mai potuto pensare di laurearsi se non avesse passato uno stupido compito di matematica delle superiori.
Alya varcò la porta trafelata, la borsa tra le braccia e gli occhiali storti sul naso, il telefono in bilico tra due dita quasi sul punto di cadere e un angolo della camicia che le si era sfilato dai pantaloni.
Questo è un vero incubo! , pensò Chloe.
Poi si rivolse a Sabrina: «Ti prego, aiutala, prima che le serva un telefono nuovo.»
L’amica la guardò spiazzata, ma non si mosse, Alya perse la presa sulla cartella che atterrò sul pavimento con un tonfo, agitò le mani per impedire al cellulare di fare la stessa fine, facendolo rimbalzare da un palmo all’altro fino a quando riuscì ad afferrarlo.
Nell’istante successivo gli occhi di tutti quelli che erano nel campo visivo di Chloe la stavano guardando. «Ti senti bene?» le chiese Alya.
Chloe scrollò le spalle. «Credevo che avessimo appurato il giorno del diploma che è il pensiero, quello che conta, no?»
«È proprio il fatto che tu abbia avuto questo pensiero che mi preoccupa.» disse Alya.
Chloe non riusciva a capire, eppure da quando avevano iniziato l’università erano state quasi buone amiche. L’essere supereroine a tempo pieno l’aveva reso un passaggio obbligato, alla fine.
«Alya!» esclamò. All’inizio non aveva datò molto peso al fatto di non avere con sé la sua borsa, ma quando lo fece saltò via dalla sedia e corse incontro ad Alya per chiederle sottovoce: «Dov’è Pollen?»
La ragazza arricciò gli occhi e scrollò le spalle.
Chloe era certa di averla avuta, quella mattina, quando era uscita di casa per seguire le lezioni all’università, prima di essere accompagnata al college Dupont.


***

Piccolo appunto: Non sapevo quanti avrebbero apprezzato Chloe dopo una settimana di attesa per il nuovo capitolo, per essere poi costretti ad aspettare un’altra settimana per il resto, quindi ho deciso, solo per questa volta, di anticipare l’aggiornamento di questo capitolo. Il prossimo arriverà sabato.

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Capitolo 5
*** Immagine residua ***


IMMAGINE RESIDUA

Una volta aperti gli occhi, Nino pensò di stare ancora dormendo; per un istante il suo campo visivo fu nero come lo era stato fino a poco prima e per poco non si domandò se avesse ancora gli occhi chiusi, anche perché non sentiva la pesantezza delle palpebre del primo mattino. Ma non era affatto come se si fosse appena svegliato, nonostante sapesse che era così, perché non era nel suo letto, non c’era la luce familiare che entrava dalla sua finestra e lo colpiva direttamente in faccia e, cosa ancora più strana, era in piedi nel mezzo del nulla.
Non ci fu che un singolo momento di smarrimento, prima che Nino ripensasse all’ultima cosa che ricordava di aver visto prima di risvegliarsi lì. Non aveva la minima idea di cosa fosse accaduto nel mezzo ma, sfiorandosi le braccia per assicurarsi di essere tutto intero e tastandosi il maglione, trasse un sospiro di sollievo nel constatare di non avere neppure un graffio.
Prima che la consapevolezza di essere vivo sciogliesse l’enorme peso sul suo stomaco, non si era neanche accorto di essere preoccupato. Il buio non gli permetteva di vedere cosa ci fosse attorno a lui, ma non era quel tipo di oscurità derivata dall’assenza di luci, perché in qualche modo si rendeva conto che non era in grado di vedere nulla perché semplicemente non c’era nulla da vedere, a parte il suo stesso corpo ed i vestiti.
I palmi delle sue mani erano nudi, vedeva la punta delle sue scarpe oltre l’orlo della maglia e le cuciture finali della giacca, la curva delle cuffie che premevano contro le sue guance, tutto era talmente fuori dalla norma da risultare quasi normale.
Si tastò le tasche alla ricerca del cellulare, ma trovò soltanto il lettore mp3 ed il portafoglio che fino a poco prima era convinto di aver dimenticato a casa. Eppure aveva usato il telefono per inviare un sms ad Adrien quelli che sembravano appena pochi minuti prima e, anche se non aveva ricevuto risposta, era certo di non averlo lasciato indietro prima di trasformarsi per raggiungere Rena Rouge e Ladybug.
Strabuzzò gli occhi e agitò il capo, improvvisamente bisognoso di constatare che Wayzz fosse nei paraggi, ma di lui non c’era traccia. Che cosa fosse successo, però, ancora non riusciva ad inquadrarlo.
Iniziò a camminare, sentendosi leggero come non era mai stato e perso come poche altre volte in vita sua, l’incertezza e lo smarrimento erano una sensazione nuova ed ora poteva dire di essere totalmente certo che non gli piacesse affatto. Lo spazio che aveva davanti era sconfinato, o almeno quella era l’impressione che dava il nero assoluto che sembrava non portare in nessun posto in particolare. Nonostante tutto, Nino non si fermò; non voleva distrarsi da ciò che era successo, né da ciò che stava succedendo, seppure non ci fosse un nesso sensato tra i due momenti. Avrebbe voluto avere un punto di riferimento, ma non trovandolo decise di proseguire in linea retta; la direzione non sembrava importante, ma gettò comunque un’occhiata alle sue spalle. Sentiva che, se gli fosse caduto per terra, avrebbe visto il cellulare così come poteva vedere sé stesso, ma di quello non c’era nessuna traccia.
Si chiese quando la sua trasformazione fosse svanita, dove fosse finito il suo Kwami, dove fossero i suoi amici, ma l’unico modo di trovare le risposte che cercava sembrava essere quello di trovare un indizio in un posto privo di qualunque cosa.
«Alya!» chiamò, poiché era l’ultima persona che aveva visto prima che tutto diventasse strano. «Marinette? Questo non è affatto divertente!»
Agitò il capo con forza, come se questo potesse liberare la sua testa da qualunque dubbio e timore e fare spazio a nuove idee.
«Solo in uno spazio aperto e sconosciuto, nulla ha senso, cosa può andare storto?» domandò.
Ma c’era qualcosa alle sue spalle, sentiva i suoi occhi che lo seguivano ed era certo che non potesse essere nessuno dei suoi amici. Corse, deciso a non fermarsi fino a quando non si sarebbe sentito al sicuro, anche se non sapeva se e quando questo sarebbe successo. Il suo unico pensiero, in quel momento, era mettersi in salvo da ciò che lo stava seguendo, qualunque cosa fosse. I suoi piedi non trovavano nessun ostacolo, i suoi occhi riuscivano a scorgere solo nero ed il suo cuore batteva forte nel petto, i minuti passarono e, anche quando era convinto che sarebbe dovuto crollare dalla fatica, proseguì imperterrito come se le sue gambe non percepissero il suo peso.
La veridicità della situazione fu messa in discussione, il dubbio di essere in un sogno lo colse impreparato, quasi lo spinse a fermarsi quando la paura si allentò, lasciandolo respirare.
Ripensò all’intreccio di fili bianchi che lo aveva sorpreso, l’ultima cosa che aveva visto, l’ultima che si era preparato ad affrontare, Rena Rouge che svaniva in mezzo ad essi prima che potesse raggiungerla.
Non ricordava se fosse riuscito a raggiungerla, né in che ordine erano avvenuti gli ultimi, confusi eventi.
«Forse sono morto.» si disse, rallentando e guardandosi indietro. L’idea che dopo la vita ci fosse solo questo lo spiazzava, quasi lo infastidiva, ma forse era solo un punto di passaggio prima di ciò che veniva dopo; era un’opzione che avrebbe preferito, ma mai quanto avrebbe preferito essere e rimanere vivo il più a lungo possibile.
La presenza che aveva avvertito prima ora era svanita, o forse si era rilassato abbastanza da non pensare più a cosa potesse esserci lì con lui. Era ancora convinto di essere capace di vedere tutto ciò che gli si sarebbe parato davanti, il nero non era così netto, ma presentava varie sfumature di grigio che rendeva palese che non fosse buio come aveva pensato all’inizio.
«Alya! Marinette!» chiamò. I nomi dei suoi amici non riecheggiarono come si sarebbe aspettato. «Farete meglio a tirarmi fuori di qui al più presto, ragazzi.»
Qualcosa brillava in lontananza, forse era quello che rendeva il nero attorno a lui meno profondo. Contro ogni buonsenso decide di seguire la luce, a passo svelto, senza esitazione per impedirsi di cambiare idea. Era solo ad alcune decine di metri quando il terreno gli mancò sotto i piedi e lui precipitò, anche se non aveva nessun punto di riferimento per capire che stava perdendo quota, anche se non c’era l’aria che si muoveva attorno a lui a fargli sentire di stare cadendo. Tutto quello che riuscì a percepire era che non aveva più appigli.
Strinse gli occhi, aspettandosi un impatto che non arrivò, rimase sospeso un tempo sufficiente per smettere di preoccuparsi di finire spiaccicato. All’improvviso Nino galleggiava, riaprì gli occhi e, finalmente, vide qualcosa che non era il nero in tutte le sue sfumature.
Le immagini si sovrapponevano le une alle altre come finestre da altre dimensioni, non riusciva a sintonizzarsi su una di esse in particolare. C’erano Marinette, Adrien, Chloe ed Alya, nessuno di loro sembrava riuscire a vederlo.
Tese un braccio come per provare a raggiungerli, era come essere immerso in quelle immagini, ma allo stesso tempo non ne faceva parte, vide Alya chinarsi su un letto di ospedale su cui era stesa Marinette, inerme contro le lenzuola bianche. Nino cercò di afferrare quelle immagini, di tendersi verso Alya che, in lacrime, nascondeva tra le braccia il volto alla sua vista.
«Alya! Marinette! Cosa è successo?» domandò.
Non aveva immaginato, mai una volta da quando era diventato un supereroe, di trovarsi davanti una scena simile. Aveva sempre pensato che lui e i suoi amici, insieme, sarebbero stati invincibili, ma ora quella certezza iniziava a sgretolarsi.
Plagg, Tikki e Trixx fluttuarono al fianco di Alya, si raggomitolarono attorno a Marinette nascondendosi nelle pieghe del lenzuolo. Ripensò a Wayzz, a dove potesse essere finito, al perché Adrien non fosse lì con Plagg e Marinette. Aveva sempre pensato che se Marinette si fosse fatta anche solo un graffio non avrebbe lasciato il suo fianco neanche con una pistola puntata alla testa.
Poi lo vide, dapprima sfocato, sovrapposto all’immagine di Alya che non aveva ancora la forza di lasciare andare, poi solo, in una stanza candida e con le braccia impigliate in una camicia di forza. Sembrava guardarlo dritto in faccia, ma non gli disse nulla. Nino agitò la mano davanti ai suoi occhi, le pupille erano dilatate, sembrava più perso di quanto non l’avesse mai visto in tutta la sua vita e, dentro di sé, percepì la necessità di aiutarlo.
«Wayzz!» chiamò. «Amico! Dove sei? Hanno bisogno di noi!»
Ma Wayzz non rispose.
Il mio Kwami! Dov’è il mio Kwami? , si domandò mentre si lasciava sopraffare dal panico.
Il suo pensiero si sovrappose alla voce di Chloe.
«Pollen! Dove sei finita?» gridava la ragazza. La sua immagine sostituì quella di Adrien con tanta rapidità da spaventarlo. La ragazza correva per le strade di Parigi, si guardava attorno, continuava a chiamare il suo Kwami, ignorava gli sguardi della gente ed ignorava le ciocche di capelli sfuggite alla sua coda di cavallo. Nino non l’aveva mai vista così agitata ed in disordine.
Qualcuno rapisce i Kwami? , si chiese. Il solo pensiero bastava a terrorizzarlo, quasi gli parve di essere tornato ai tempi di Papillon. Se qualcuno ha il mio Kwami farebbe bene a fare attenzione, perché non glielo lascerò!
Sospirò, perfino la vista di Chloe in quelle condizioni riusciva a spezzargli il cuore. Ripensò a Marinette, ai suoi occhi chiusi, al suo viso pallido, a quello che poteva essere successo ed al perché lui non era stato lì ad impedirlo. Non aveva la certezza che sarebbe cambiato qualcosa, ma almeno si sarebbe tolto di dosso quel peso della consapevolezza di non aver fatto abbastanza.
Allora la vide, non più inerme, non più addormentata, ma in fuga sui tetti di Parigi, rapida e ansimante nel guardarsi indietro ogni pochi passi.
Non c’era nulla che avesse senso, se non il suo bisogno di aiutarla. Qualunque cosa la stesse inseguendo, Nino voleva essere lì per lei ad aiutarla.
E fu come se quella visione lo ingoiasse.

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Capitolo 6
*** Ali spezzate ***


ALI SPEZZATE

Braccia e gambe erano bloccate, qualcosa premeva sui suoi polsi e sulle caviglie tagliandogli la pelle. Il bruciore gli strappò un gemito, gli impedì di comprendere subito cosa i suoi amici stessero dicendo.
Chloe singhiozzava. «Pollen, ti prego, torna da me.» continuava a ripetere.
Adrien ripeteva sempre la stessa frase, biascicava le parole al punto che Nino non fu subito in grado di capire cosa stesse dicendo. «Non sei morta, non puoi essere morta.»
Alya era la più vicina a lui, perché la sua voce era la più chiara. «Mi dispiace, avrei dovuto salvarvi, avrei dovuto essere un’eroina migliore.»
Nino deglutì e si sforzò di sollevare le palpebre. Davanti a lui, ora, era tutto bianco, gli unici tocchi di colore dati dai corpi dei suoi amici intrappolati in quei filamenti viscidi, gli occhi socchiusi dietro le maschere.
«Ragazzi.» chiamò, tendendosi per cercare di districarsi. Quei fili erano appiccicosi, sottili al punto da tagliargli quasi le guance nude ma troppo resistenti per spezzarsi. «Chat Noir, un Cataclisma qui sarebbe utile.» disse, ma l’amico non sollevò il capo, continuando ad invocare Marinette come se fosse l’unica cosa che avesse importanza.
Nino sbuffò. «Queen Bee! Pollen è con te! Sei trasformata! E, Rena Rouge, tu sei una fantastica supereroina, la migliore che io abbia mai incontrato.» Diede uno strattone al groviglio di fili che gli avvolgeva il polso e rimbalzò in avanti. Dato che non se lo aspettava, ebbe un sussulto.
Ora poteva agitare il braccio, riuscì a piegare in gomito e ad aggrapparsi all’intreccio che gli bloccava il petto; era come un bozzolo. L’idea di essere rimasto intrappolato in una ragnatela gigante lo riempiva di panico ed il fatto che i suoi amici sembrassero così persi gli fece, per la prima volta, provare il vero terrore. «Ragazzi!» gridò «Non è reale! Qualunque cosa pensate di stare vedendo non è reale! Rena Rouge, tu sei una supereroina fantastica! Queen Bee, Pollen non ti ha lasciata e non ti lascerà! Chat Noir, qualunque sia il tuo problema sono sicuro che non sia reale neanche quello!» si guardò attorno, cercando una via di fuga, ma non aveva neanche idea di dove fosse finita la sua arma.
«Dov’è Ladybug?» si domandò. L’aveva vista correre, questo gli aveva permesso di ritrovare i suoi amici, ma avrebbe fatto in tempo a trovarla ed a salvarla da qualunque cosa le stesse dando la caccia?
«Chat Noir! Andiamo, riprenditi, apri gli occhi!» sapeva che se qualcuno avrebbe potuto tirarli fuori di lì quello era lui, allora insisté «Ladybug è là fuori da sola, sono sicuro che non vuoi che lo rimanga più del dovuto, ha bisogno di noi!»
Ma nonostante le sue grida l’amico non rispondeva.
Nino chiuse gli occhi, pensando al modo migliore per divincolarsi. In qualche modo l’agitare i piedi aveva allentato la presa sulle caviglie; ora riusciva a muoverle, a strofinarle l’una contro l’altra ed anche a sfruttare le punte dei piedi per sollevarsi. Il reticolo in cui era impigliato si sollevò con lui, ma in qualche modo si stava distaccando dalla parete appiccicosa e, all’improvviso, Nino si ritrovò con la faccia a terra.
Il pavimento era ricoperto da uno spesso strato limaccioso, l’odore gli provocò un conato di vomito e lui non riusciva a muovere le braccia abbastanza da alzarsi. Qualcuno lo tirò su, afferrandolo per la vita e tirandolo in ginocchio. Trattenne un grido, una mano guantata di rosso gli coprì la bocca per impedirgli di urlare ancora, allora trasse un sospiro di sollievo.
La voce di Ladybug, soffiata proprio contro il suo orecchio, fu ciò che gli serviva per riprendere coscienza di sé. «Stai calmo e smetti di urlare o lui ti sentirà.»
Nino annuì, sapendo che questo le sarebbe bastato per lasciarlo andare. Una volta diventati supereroi della stessa squadra era stato inevitabile incastrarsi gli uni agli altri come se fossero parte della stessa mente in quasi ogni momento.
«Cosa è successo?» le chiese, mentre lei tagliava la tela che lo intrappolava.
«Siamo caduti in una trappola.» spiegò lei. «Sono riuscita a scappare e l’ho portato fuori di qui, l’ho seminato e sono tornata indietro, ma credo che mi stia ancora dando la caccia.»
Nino non aveva dubbi che fosse così; le domande che si affollavano nella sua testa erano ben altre. «Cos’è? Cosa vuole?»
«Non lo so.» gli rispose Ladybug aiutandolo ad alzarsi.
Quando lo lasciò andare, Nino percorse i pochi passi che lo dividevano da Rena Rouge e, una volta arrivato di fronte a lei, impigliò le dita nel suo bozzolo per cercare di aprire un varco che gli permettesse di tirarla fuori.
Sentiva Ladybug picchiettare i palmi sulle guance di Chat Noir, lui scostò i capelli dal volto di Rena Rouge; i suoi occhi erano socchiusi e sbiaditi, come se la sua mente si trovasse in tutt’altro posto e lei non riuscisse a sentirlo o a vederlo.
«Qualcosa non va, non si svegliano.» disse Ladybug.
«Lo so, è come se fossero ipnotizzati.»
L’amica non rispose, Nino sollevò il volto di Rena Rouge e premette la guancia sotto la sua. «Ehi.» le disse sottovoce «So che pensi di non essere fantastica quanto in realtà sei e potrai anche non essere la supereroina preferita di Parigi, ma sei la mia supereroina preferita e lo eri anche prima del Kwami e della tutina in spandex.»
Poggiò le labbra sulla tempia di lei, per poi voltarsi verso Chloe. La ragazza era china in avanti, i capelli le coprivano il viso, scompigliati e sporchi della roba appiccicosa che li aveva intrappolati.
Ladybug spinse le labbra contro quelle di Chat. «Sono qui.» gli disse «Apri gli occhi, sono qui.»
Rimase con il volto contro quello di lui, le ciglia che gettavano ombre sulle sue guance e gli occhi socchiusi, le dita impigliate ai suoi capelli mentre si tendeva in punta di piedi per restare il più vicino possibile a lui. Chat Noir aveva smesso di sussurrare, la sua bocca ora era immobile, al contrario di quella di Rena Rouge, quindi Nino si costrinse ad allontanarsi dalla ragazza per avvicinarsi agli amici.
«Sta bene?» domandò.
Il volto di Chat Noir cadde sulla spalla di Ladybug, ora sembrava che dormisse, il suo respiro scompigliò i capelli di lei, che gli grattava la nuca con i polpastrelli.
«Credo che si stia svegliando. Come hai fatto?» domandò Nino.
Le guance di Ladybug si tinsero di rosso per un istante. «Aiutami a tirarlo fuori di qui.»
Nino si guardò attorno, l’oggetto che Ladybug aveva usato per liberarlo era abbandonato per terra, ora poteva vederlo bene, nero ed arcuato come un grosso uncino. Lo raccolse, pronto a liberare il suo amico, ma prima che potesse tornare da lui qualcosa gli colpì la caviglia. Ebbe un sussulto, oscillò in avanti e rimbalzò indietro quando tentò di sollevare il piede, prima che finisse in ginocchio l’uncino gli volò di mano e lui si ritrovò con i palmi premuti contro il pavimento.
Intanto Chat Noir aveva riaperto gli occhi, sorrideva a Ladybug con sguardo perso e lei sorrideva a lui allo stesso modo. Nino si sentì improvvisamente di troppo e, mentre i due si scambiavano un altro bacio, lanciò un’occhiata alle sue spalle. I filamenti erano attorno alla sua caviglia, impigliati al suo stivale e, nonostante cercasse di sollevare il piede con tutte le sue forze, quello rimaneva bloccato, piegato in modo che gli provocava dolore ogni secondo di più e che gli rendeva difficile alzarsi. Si mosse di lato, cercando di districarsi da quella presa.
«Ragazzi! Tagliate le smancerie, non siamo più soli!»
Ladybug si voltò, subito sull’attenti, restando in piedi davanti a Chat Noir e con le braccia tese verso Rena Rouge e Queen Bee come se questo potesse proteggerle.
Nino si sporse verso l’uncino, ma riuscì solo a sfiorarne un’estremità e quello rimbalzò più lontano oscillando per alcuni secondi prima di fermarsi.
«Ladybug!» esclamò, quando vide con la coda dell’occhio qualcosa muoversi tra le ragnatele che pendevano dal soffitto. Era come essere in un labirinto di tende bianche, la sagoma del nemico era sbiadita e frammentata al punto che gli era impossibile dire chi o cosa fossa, ma l’unica cosa che gli importava era come difendersi da lui.
Chat Noir, a quel punto, doveva essersi svegliato totalmente, perché iniziò a dimenarsi nel vano tentativo di liberarsi dalla morsa del bozzolo. «Tiratemi fuori di qui!» disse.
La figura uscì allo scoperto, era un ragno grande quanto un San Bernardo, le zampe ripiegate attorno al corpo ticchettavano ad ogni suo passo mentre si avvicinava loro fissandoli con i suoi piccoli occhietti scuri. Sembravano un portale verso l’inferno, oppure verso il posto nero in cui lui era stato solo fino a poco prima. Nino sapeva di essere il primo nella sua traiettoria, cercò di sfilarsi lo stivale quel tanto che bastava per raggiungere l’uncino, solo ora si rendeva conto che si trattava di un pezzo di una delle zampe del mostro, anche se non aveva prestato abbastanza attenzione per capire di quale fosse ed anche se non sapeva come e perché lo avesse perso.
Ladybug saltò davanti a lui e spinse tra le sue mani l’artiglio.
«Libera gli altri, io lo tengo impegnato.»
Con il cuore in gola, Nino tornò in ginocchio e cominciò a tagliare via i filamenti uno dopo l’altro. Ad ogni movimento del polso il piede era un po’ più libero, mentre Chat Noir restava irrimediabilmente bloccato.
«Ladybug, fai attenzione!» lo sentì dire Nino.
Allora si voltò a guardarla e la vide far roteare il suo yo-yo davanti a sé, il ragno arretrò e si sollevò sulle zampe posteriori come se ne fosse spaventato.
Nino deglutì, si alzò e raggiunse Chat Noir.
«No! Non pensare a me! Aiuta lei!» gli disse l’amico. Ma Nino lo ignorò.
In qualche modo era stato in grado di allentare il suo bozzolo e di distaccarlo dalla parete, ma Chat Noir era ancora impigliato, bloccato stretto in quella morsa. Se avesse iniziato a tagliare immediatamente avrebbe rischiato di ferire l’amico.
Nino si aggrappò ai filamenti superiori, cercò di districarli a piccoli mucchi, di fare spazio per poter infilare l’artiglio da qualche parte e poi tagliare. Il fatto che Chat Noir si dimenasse non lo aiutava.
«Non essere idiota!» disse ancora Chat Noir «Pensa a Ladybug!»
«Sto solo eseguendo gli ordini, amico.» gli rispose, spingendolo contro la parete. Lo costrinse a stare fermo e, solo allora, fece la prima incisione.
Una volta infilato una seconda volta l’artiglio tra i vari strati, si azzardò a guardarsi alle spalle. Ora il ragno sembrava aver preso confidenza, allungava le zampe verso Ladybug, che prontamente le colpiva con il suo yo-yo e le rispediva indietro.
Nino fece un’altra incisione, si concentrò sul lato destro del corpo, per liberargli almeno un braccio. Quando vi fu riuscito, lasciò l’artiglio a Chat Noir e si voltò per affiancare Ladybug.
«Qual è il piano?» le domandò.
Lei fece roteare li yo-yo, lo riavvolse e lo lanciò verso il ragno bloccandogli una zampa, quello la sollevò nel tentativo di districarsi e, nel farlo, Ladybug rischiò di essere trascinata verso di lui. Nino la afferrò per un braccio, insieme riuscirono ad indietreggiare, costringendo il ragno a tendere la zampa, che lui agitava e piegava nel tentativo di liberarsi.
Il muso peloso si muoveva, qualcosa scattava da quella che sembrava essere la sua bocca, Nino non aveva il tempo o il coraggio di guardarlo meglio per capire cosa fosse.
«Fate attenzione!» gridò Chat Noir, risvegliando Nino appena in tempo per evitare una zampata. L’artiglio atterrò tra Nino e Ladybug e, quando il ragno lo trascinò indietro, lasciò una profonda incisione sul pavimento viscoso.
Nino scambiò un’occhiata con Ladybug.
«Libera gli altri! Portali fuori di qui!» gli disse lei.
Ebbe un fremito; non voleva che la vita dei suoi amici o di chiunque altro fosse esclusivamente nelle sue mani, non si sentiva all’altezza di questo compito. Non era come Ladybug, sempre pronta a fare la cosa giusta, né come Chat Noir che avrebbe fatto di tutto per essere utile. Non era come Rena Rouge, che si impegnava sempre per dare il meglio di sé in modo da non deludere i suoi amici, né come Queen Bee che sembrava sapere sempre quando fosse bene abbassare la testa e quando invece poter far valere le sue idee. Tuttavia, Nino fece come gli era stato ordinato, lasciò l’artiglio a Chat Noir perché potesse usarlo e districò alcuni fili perché potesse tagliarli con più facilità, ma l’amico gli urlò contro.
«No! Penso io agli altri! Tu guarda le spalle a Ladybug!»
Nino scosse la testa, sapeva che Chat Noir si preoccupava sempre troppo, che sarebbe stato ben più utile di lui a Ladybug; Doveva solo liberarlo il più in fretta possibile, poi tutto sarebbe andato bene. Ma Chat Noir non tagliò i fili che stava sollevando per lui, tratteneva il fiato, guardava oltre la sua testa, allora gli strappò di mano l’artiglio e cominciò a tagliare. L’intreccio cedeva sempre più facilmente, prima riuscì a liberare il petto, poi la spalla sinistra e poco a poco anche il gomito, allora Chat Noir iniziò a spingere giù i fili per liberare le gambe, un occhio sempre su Ladybug. Insieme riuscirono a liberare le ginocchia e le caviglie, poi Chat Noir balzò in avanti e sollevò il braccio.
«Cataclisma!» gridò.
Ladybug si voltò verso di loro, gli sorrise.
Chat Noir saltò in avanti, pronto a disintegrare il ragno, che non lo vide arrivare e mosse una zampa verso Ladybug. L’artiglio affilato trafisse il petto della ragazza, il sangue schizzò tutto attorno a lei e, nello stesso momento, la mano di Chat Noir toccò il ragno, che strillò e si contorse su sé stesso annerendosi e crepitando.


***


Prossimo capitolo: Il sapore del sangue

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Capitolo 7
*** Il sapore del sangue ***


IL SAPORE DEL SANGUE

Davanti agli occhi di Carapace, Chat Noir strinse Ladybug tra le braccia e le accarezzò i capelli, le lacrime caddero sulla rete di fili bianchi su cui il ragazzo era inginocchiato.
Carapace deglutì, incredulo, mentre il sangue macchiava il costume degli amici e si allargava in una pozza attorno a loro. Realizzò che non aveva mai pensato che una persona potesse perdere tanto sangue e subito dopo anche che era il pensiero più stupido e banale che una persona avrebbe potuto avere in quella situazione. Fece un passo verso di loro, ma Chat Noir sollevò lo sguardo e lo fissò, gli occhi arrossati e la bocca contorta in una smorfia.
«No! Stai lontano!» gli disse. La sua coda si contrasse, le orecchie si appiattirono contro i suoi capelli e dal fondo della sua gola emerse quello che sembrava un ringhio.
Carapace ebbe un sussulto. Tremante, si spostò verso di lui. «Amico, mi dispiace.»
Ma Chat Noir gli urlò contro. «Non me ne frega nulla! Ti avevo detto di aiutarla! Per quanto mi riguarda questo è colpa tua!»
Fece un passo indietro, il cuore che martellava nel petto, dolorante e senza controllo. Si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarli o cambiare le cose, di qualcuno che sapesse come rimediare. Non riusciva neanche a capire se Ladybug fosse ancora viva, mentre Chat Noir la stringeva a sé, incapace di lasciarla andare.
«Ti prego», sussurrava il ragazzo, sfiorandole la fronte con le mani imbrattate di sangue; le sue dita lasciarono delle scie scarlatte sulla pelle pallida. «Ti prego, apri gli occhi.».
Lei non rispose, il suo capo penzolò inerme contro la spalla di Chat Noir con le palpebre socchiuse, gli occhi vitrei ed appannati.
Carapace portò le mani alla bocca, tentando di soffocare un gemito. «No!»
La ragnatela, intorno a loro, iniziò a sfaldarsi; intere colonne di filamenti divennero improvvisamente molli come lenzuoli e ricaddero sulle loro teste. Chat Noir si sporse su Ladybug e la coprì con il proprio corpo, lasciando che i fili si impigliassero alle sue orecchie ai suoi capelli in un tentativo, inutile, di proteggerla.
Era come se, all’improvviso, tutto quello che aveva tenuto in piedi quella trappola fosse svanito. Forse era a causa della morte del ragno, forse era stato il Cataclisma di Chat Noir, Carapace non lo sapeva.
Con due tonfi, i corpi di Rena Rouge e Queen Bee caddero a terra, ma il ragazzo non riusciva a muoversi per andare ad aiutarle ad alzarsi, o a voltarsi per controllare se fossero libere dalla trappola appiccicosa oppure no.
«Che successo?» domandò Queen Bee. La voce tradiva il suo intontimento, tremante e impastata come lo sarebbe stata alle prime luci del mattino dopo una lunga notte di sonno.
Il tocco della mano di Rena Rouge, inaspettato, delicato ed esitante sul suo braccio, lo fece sussultare. Il suo respiro familiare gli aveva reso palese fin da subito chi fosse.
«Carapace?» chiese lei.
Ma quando si voltò a guardarla lei aveva già puntato lo sguardo sul corpo privo di vita di Ladybug, gli occhi sgranati dall’orrore e dall’incredulità, la mano sospesa a mezz’aria a pochi centimetri dalla sua spalla.
«Marinette!» esclamò la ragazza, facendo un salto in avanti, arrancando per non inciampare. Si accovacciò accanto a lei e Chat Noir. «No!»
Chat Noir sollevò il capo con tanta violenza che Carapace pensò che avrebbe scacciato anche lei, ma l’amico si limitò a parlarle, con gli occhi acquosi, scintillanti di lacrime sulle gote arrossate dal pianto.
«L’ha lasciata morire, lei aveva bisogno di lui e lui ha lasciato che la uccidesse!»
Ogni parola fu una stilettata al petto, ogni accusa faceva precipitare il suo cuore per quelli che sembravano decine di piani ed era come se sentisse l’aria che lo investiva in pieno metro dopo metro strappandogli il fiato dai polmoni.
Carapace sollevò le mani e fece un passo indietro, Queen Bee lo fissava ad occhi sgranati, si allontanò da lui come se fosse disgustata. Gli occhi di tutti esprimevano tradimento, delusione, come se non riuscissero più a vedere in lui nient’altro che il suo fallimento. Come se lui stesso fosse il fallimento.
Strinse i pugni contro i fianchi, dovette deglutire parecchie volte per ritrovare la voce e le parole giuste, sperando che lo ascoltassero. «Non volevo! Ho solo fatto quello che mi ha chiesto!»
Ed era vero, aveva esitato, aveva messo in dubbio il suo ordine, era andato ad aiutarla nonostante lei non lo volesse ed era tornato indietro solo quando lei gli aveva ripetuto, per l’ennesima volta, di occuparsi degli altri. Non riusciva a distogliere gli occhi da quelli di Chat Noir, sperava che riuscisse a leggergli dentro, a comprendere quanto anche lui stesse soffrendo.
«Amico, Adrien, sai che sarei morto piuttosto che permettere che le succedesse qualcosa, che succedesse qualcosa a chiunque di voi.»
Chat Noir distolse lo sguardo, lasciò Ladybug tra le braccia di Rena Rouge, che la strinse dolcemente a sé come a cullarla. Poi Chat Noir baciò la fronte di Ladybug e si alzò per raggiungerlo.
«Smettila! Non conta quello che volevi né quello che ti hanno detto. Conta solo quello che avresti dovuto fare e le conseguenze.» disse.
Carapace scosse il capo, incapace di trattenersi. «Mi dispiace, mi dispiace così tanto.»
«Smettila! Smetti di ripeterlo!» gridò Chat Noir. Percorse in pochi istanti i metri che li separavano e strinse le mani attorno al suo collo, stringendo forte le dita attorno alla sua giugulare. «L’hai uccisa tu! Questa è tutta colpa tua!»
Carapace sentì i polpastrelli stringere la sua gola, l’aria mancargli, i polmoni dolergli, la coscienza che lo abbandonava mentre quelle parole riecheggiavano nella sua mente all’infinito, trascinandolo in un oblio senza fondo.

Nino riaprì gli occhi e, di nuovo, fu come se non lo avesse fatto. Il buio lo dominava, perdendosi fino all’orizzonte ed oltre, le finestre sulle illusioni apparvero poco dopo, chiare e scintillanti come lo erano state prima, e gli parve quasi che fossero vive e stessero ridendo di lui.
Sentì per la prima volta il peso dell’assenza della maschera, la necessità di sentire le dita coperte dal costume familiare ed il tocco della sua arma sempre a portata di mano. Gli mancava perfino Wayzz e la preoccupazione per la sua sorte lo colpì all’improvviso, facendolo sentire irrimediabilmente solo e terrorizzato anche se fino ad allora la solitudine non lo aveva mai spaventato.
Girò i polsi, sentendo la pressione di qualcosa che gli feriva la pelle. Se prestava attenzione, se studiava l’oscurità, se strizzava gli occhi per analizzare meglio che poteva ciò che aveva davanti, poteva intravedere la luce delle finestre che si rifletteva nei fili in cui era rimasto impigliato. Prima non li aveva notati, ma ora tutto sembrava avere senso. Non aveva visto Ladybug morire, non era stato strangolato a morte dal suo migliore amico; qualunque cosa fosse accaduta non era ancora il momento di perdere la speranza, di lasciarsi andare. Era solo, ma non avrebbe abbandonato i suoi amici, specialmente se quelle che riusciva a vedere erano le illusioni in cui loro erano intrappolati. Doveva trovare il modo di svegliarli e tirarli fuori, perché se era riuscito ad uscirne lui di certo potevano farcela anche loro; doveva solo capire come raggiungerli. Dopo avrebbe pensato al suo Kwami, poiché di lui non aveva ancora nessun indizio.
Fletté i gomiti, premendoli contro il fianco per liberarsi dalla presa dei fili, quelli gli ferirono la pelle, ma lui non demorse e, con un grugnito, si sporse in avanti. Si aspettava di atterrare di faccia su qualcosa, invece le gambe rimasero bloccate, lasciando penzolare il busto per alcuni istanti prima che, agitando le braccia per recuperare l’equilibrio, riuscisse a liberarsi con una capriola traballante.
Cadde solo per pochi centimetri, prima di ritrovarsi ancora una volta sospeso. Ora era più vicino alle finestre sulle illusioni, vedeva Adrien agitarsi e urlare mentre due infermieri lo bloccavano contro un lettino, Chloe che si perdeva tra le strade di Parigi con i capelli scompigliati e fradici a causa della pioggia ed il trucco sbavato, Alya che lasciava l’ospedale e, come in un sogno, si ritrovava sulla tomba di Adrien a piangerne la scomparsa.
Nino tese il braccio verso di lei.
«Alya», disse. «Alya, devi ragionare, quello che stai vivendo non è reale.»
Agitarsi e sgambettare come un idiota non servì a nulla. Ebbe l’impressione di essere in procinto di fare un’altra capriola involontaria e spinse la schiena indietro per impedirlo. Quando sollevò gli occhi, scoprì con che i due infermieri si stavano chinando su Adrien per fargli un’iniezione ed il suo cuore si fermò per un istante.
Guardò ancora Alya, che si piegò per depositare sulla tomba un mazzo di fiori.
«Trova Adrien! È lì da qualche parte ed ha bisogno di aiuto! Alya!» le gridò. E, per un istante, quando lei sollevò lo sguardo all’improvviso, pensò che lo avesse sentito.


***

Volevo dire a endy_lily95 che mi ha gentilmente recensita la scorsa volta, una cosa che prima non ho potuto dirle perché sarebbe stata spoiler. Mi avevi giustamente fatto notare che il passaggio di Nino dalla situazione del capitolo 5 a quella del 6 era confusa e non era chiaro come fosse arrivato dalla zona di oscurità al bozzolo. Ora sai perché il passaggio era confuso xD
Semplicemente non c’è stato alcun passaggio.
Poi vorrei ringraziarti ancora per l’appunto sui pov, rileggendo questo capitolo per correggerlo ho visto che ci ero cascata di nuovo ed ho potuto rimediare prima di postare <3

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Capitolo 8
*** Resterò con te ***


RESTERÒ CON TE

Per Alya, incrociare lo sguardo di Nino fu come tornare a respirare ma, con il vento che le scompigliava i capelli in quel cimitero desolato nella periferia di Parigi, non fu sufficiente a dissipare la sua tristezza.
«Ti ho cercata dovunque» le disse lui, avvicinandosi lentamente.
Alya gli buttò le braccia al collo e lo strinse forte a sé, premette la fronte sulla sua spalla, si perse nel suo calore ed inspirò a fondo il suo profumo, cercando di ricordare come fosse stare tra le sue braccia quando non lo faceva solo per trovare un po’ di conforto.
Le mani di Nino le sfiorarono la schiena esitanti, disegnarono piccoli cerchi sotto le scapole, accompagnarono decine di piccoli brividi lungo la spina dorsale.
Poi il ragazzo parlò ancora. «Ti ho cercata dovunque, non rispondevi ai miei messaggi.»
Alya deglutì, allentando la presa sulle sue braccia, odiando il modo in cui una semplice frase poteva apparire come un’accusa, il modo in cui Nino sembrava implorarla di non lasciarlo da solo, quando lei non avrebbe voluto fare altro che sparire.
«Mi dispiace.» gli rispose.
Nino la allontanò finché poterono guardarsi in faccia e le sorrise, Alya dovette tenersi stretta a lui per impedirsi di cadere e, deglutendo, lasciò che lui le sfiorasse una guancia.
«Li abbiamo persi, se anche Marinette dovesse svegliarsi dal coma non sarà più la stessa persona, non senza Adrien.»
Le lacrime sgorgarono dai suoi occhi incontrollate, scivolarono lungo le sue guance e poi su Nino, lasciando dei piccoli cerchi più scuri su quella piccola parte del maglione che spuntava dalla sua giacca.
«Alya.» sussurrò Nino.
Lei passò la mano su quelle impronte di lacrime, come se così potesse spazzarle via, ma già altre stavano cadendo dai suoi occhi e, impigliandosi alle ciglia, scivolavano sulle lenti degli occhiali e gocciolavano contro il suo naso.
«No, non dire Alya, non così, niente Alya
Nino dischiuse le labbra per fermarla, ma lei glielo impedì, premendogli il palmo sulla bocca con tanta forza da fargli fare un passo indietro.
«Erano i miei migliori amici e non ho saputo proteggerli, che razza di supereroe non riesce a proteggere i suoi amici?» domandò.
Nino le strinse il palmo tra le mani, strofinando le dita tra le sue con dolcezza. Alya sentì quel calore darle forza.
«Molti più di quanti immagini.» Disse Nino. «Il migliore amico di Spiderman divenuto cattivo, Gwen Stacy, che lui amava e che è morta proprio a causa del suo tentativo di salvarla.»
Di quello di cui Nino stava parlando Alya conosceva solo qualche dettaglio, ma non le importava in ogni caso e comunque Nino non sembrava avere intenzione di lasciarla in quello stato. Di certo aveva decine di esempi come quelli e lei lo odiava.
«Non sempre i supereroi possono salvare tutti.»
Alya ritirò la mano e diede una spinta al ragazzo. «Non mi importa di Spiderman, né dei genitori di Batman o del pianeta di Superman. Voglio sapere perché io non ho potuto salvare i miei amici. Voglio sapere dove ho sbagliato, voglio rimediare ai miei errori.»
«Non hai fatto nessun errore.» le disse Nino, stringendole la mano tra le sue e scuotendo il capo.
Alya scosse la testa, arretrò, si divincolò dalla sua stretta.
«Certo che l’ho fatto! E se l’errore non è mio allora è di chi mi ha scelta, perché sono un incapace e non merito il Miraculous. È meglio che tu trovi qualcuno che mi sostituisca prima che faccia uccidere anche te.» Afferrò la collana e se la sfilò, spingendola contro Nino ma, prima di potersi allontanare lui la prese per il polso tirandola ancora indietro e stringendola contro il petto tanto forte da farle mancare il respiro.
«Non sei un’incapace, sei la persona più coraggiosa che io conosca. Sei furba, intelligente e acuta, sei la perfetta incarnazione dello spirito della volpe, anche se ora non riesci a vederlo. Non vorrei combattere al fianco di nessun’altra Rena Rouge.»
Alya sospirò, le braccia di Nino attorno a lei erano un rifugio sicuro, dove per qualche istante poteva bearsi della consapevolezza che, almeno lui, non ce l’aveva con lei. Ma si chiedeva se avrebbe pensato la stessa cosa se fosse stato lì il giorno in cui Adrien era morto, il giorno in cui il suo migliore amico aveva perso la vita, probabilmente inutilmente, per salvare quella di Ladybug. Se avesse visto con i suoi occhi il momento in cui non era riuscita a fare nulla per loro.
Premette la guancia contro il petto del ragazzo, lasciando che lui la scaldasse con le carezze a cui era abituata, la mano di lui che le sfiorava la schiena sembrava essere tutto ciò che aveva bisogno, assieme a quelle parole che, lo sapeva, erano dette con la più totale sincerità. Ma non riusciva a togliersi dalla testa il momento in cui il ragno aveva sollevato la zampa pronto a piantare l’artiglio nel petto di Ladybug, quello in cui Chat Noir si era messo davanti a lei per spingerla via e, Alya aveva rivisto quella scena nella sua mente decine di volte al rallentatore, li aveva colpiti entrambi prima che lei riuscisse a muovere un solo muscolo.
Il mento di Nino premeva contro la sua testa, la mano risalì fino a sfiorarle la nuca, facendola rabbrividire per il contatto con i polpastrelli freddi.
«Dovremmo andare.» le disse «Comincia a fare freddo e sarebbe meglio rientrare prima di sera.»
Alya annuì, sollevandosi sulle punte per stampargli un bacio sulle labbra.

Nino si sporse verso la finestra, strizzò gli occhi e chiamò ancora Alya, ma lei non riusciva a sentirlo, concentrata com’era a baciare quell’altro. Il buio era diventato improvvisamente freddo, o forse era solo quell’ansia che l’aveva travolto all’improvviso ad essere diventata una sensazione tanto sconosciuta e sgradevole da confonderlo.
«Alya!» Gridò per l’ennesima volta «Quello non è reale, devi accorgertene!»
Ma non cambiò nulla. L’altro Nino accompagnò Alya lungo la strada tenendola stretta contro il suo fianco, incoraggiandola a non fermarsi e sussurrandole all’orecchio parole dolci che lui non riusciva a sentire. Quando furono sul pianerottolo di casa sua, e Nino pensò di avere raggiunto il limite massimo di sopportazione, si baciarono ancora.
«Maledizione!» disse Nino, battendo il pugno contro la finestra. Inspirò forte, cercando di ricordare che qualunque cosa stesse guardando, per quanto potesse sembrare reale, non lo era affatto.
Cercò di ragionare, aveva visto morire uno dei suoi amici, Alya e Chloe pensavano di aver perso tutto, Adrien era rinchiuso in un manicomio che sembrava uscito da uno dei peggiori film horror e non sapeva dove fosse Marinette. Qualcuno stava giocando con i loro cervelli e lui voleva assolutamente scoprire chi fosse, forse allora avrebbe capito come combatterlo.
Si alzò, voltandosi e dando le spalle alle finestre, cercò con lo sguardo qualunque cosa potesse rivelarsi una minaccia, ma qualunque cosa fosse era di certo brava a nascondersi ed a ingannarli, quindi non sarebbe stato facile individuarlo.
«Cosa vuoi?» domandò «Perché ci stai facendo questo?»
L’eco della sua voce si perse nel vuoto, si sarebbe spostato da lì per iniziare a cercare, se non avesse temuto di perdersi e non ritrovare più le illusioni degli amici. Anche se non riusciva a sentire le loro voci, Nino sentiva il bisogno di restare lì, dove avrebbe potuto almeno vederli.
Con la coda dell’occhio, vide Alya e l’altro sé salire le scale di casa fino alla sua camera, avvinghiarsi l’uno all’altro e baciarsi senza prendere fiato. Distolse lo sguardo, incapace di guardare oltre, e chiuse gli occhi per togliersi dalla mente quell’immagine e per non pensare a ciò che probabilmente sarebbe successo di lì a poco. Una volta che gli furono rimaste solo le orecchie a captare ciò che aveva attorno, Nino scoprì che il silenzio non era assoluto. Il suo respiro non era l’unico, il fruscio dei suoi vestiti ed i battiti del proprio cuore svanivano davanti al ticchettio sinistro che ruotava tutto attorno a lui. Ripensò al ragno che aveva visto nella sua allucinazione, alla ragnatela che aveva avvolto una delle piazze principali di Parigi, ai fili in cui era rimasto impigliato fino a poco prima e che sarebbero potuti essere ancora tutto attorno a lui.
Aprì gli occhi e si trovò faccia a faccia con una donna dal volto sottile e dalle braccia magre. Il vestito candido di lei risaltava contro il nero di tutto il resto, i suoi occhi erano scuri e privi di riflessi mentre lei tendeva un braccio verso di lui per sfiorargli la guancia.
Nino rimase immobile, ma voltò la testa inorridito e la mano di lei si strinse nel vuoto.
«Ti ho fatto una domanda.» le disse.
Trattenne il fiato, disgustato dall’odore che avvolgeva la donna. Gli ricordava la frutta marcia, il fango e l’acido che aveva annusato per sbaglio una volta a scuola durante un esperimento di chimica.
Lei sorrise, sfoggiando una fila di denti affilati che, con uno schiocco, fece scattare verso di lui. La risata sottile che lasciò la sua gola lo fece rabbrividire, Nino quasi tremava quando lei iniziò ad arretrare, svanendo in pochi istanti con un baluginio dell’ampia gonna e l’eco di decine di piccoli tacchi battuti per terra.
L’eco della sua voce riecheggiò ancora molto tempo dopo che se n’era andata.
«La carovana sta arrivando.»



***


Sì, sta arrivando, ma mi permetto di aggiungere da parte vostra: “Che cacchio è?”
Posso dirvi solo che nel prossimo capitolo... Non c’è la risposta.

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Capitolo 9
*** Gridare invano ***


GRIDARE INVANO

Adrien pensava che i sussurri insensati degli altri pazienti presenti nel salone fossero seccanti ed invadenti, ma quando provava a concentrarsi sulla macchia di caffè che imbrattava il muro davanti a lui, riusciva quasi ad estraniarsene. I rivoli marroni che correvano sulla parete, ormai asciutti da chissà quanto tempo, scivolavano quasi in linea retta verso il battiscopa, dove erano stati lavati via dalle mattonelle lucide da qualche inserviente. I primi giorni non ci aveva fatto caso, poi la necessità di ritinteggiare ogni singola stanza dell’edificio in cui era stato nei momenti di veglia era diventato il suo chiodo fisso, l’unico pensiero che riuscisse ad intrattenerlo nella noia e nel dolore che colmavano quel posto.
Adrien non avrebbe mai immaginato che potesse esserci un luogo che potesse dargli più fastidio dei grandi saloni di casa sua, né di avere talmente tanto poco da fare da ritrovarsi a contare le macchie di muffa che riemergevano dall’intonaco del soffitto dopo una mano di vernice troppo sbrigativa.
Se avesse avuto tra le mani un videogioco avrebbe potuto provare a superare qualche livello, a passare il tempo in un qualunque modo stupido fino all’orario delle visite, ma anche quelle sembravano essere limitate e lui iniziava a chiedersi se a qualcuno importasse ancora di lui.
Suo padre andava a visitarlo ogni giorno, ma si fermava talmente poco tempo che faceva appena in tempo a domandargli cosa stesse accadendo fuori di lì prima di vederlo sparire oltre la porta. Alya non era più tornata, il ricordo della visita di Ladybug era talmente sfocato da sembrargli quasi un sogno ed Adrien sentiva di aver bisogno di sue notizie più che dell’aria per respirare.
Distolse lo sguardo dalla parete, la macchia di caffè sul muro solo un pretesto per perdersi tra i suoi pensieri. I dottori che non avevano lasciato la stanza passavano tra i pazienti, osservavano, si assicuravano che tutti fossero pacifici e che avessero preso le medicine; quando passarono dietro di lui, Adrien si sporse sulla sedia ed afferrò il polso di quello che gli era più vicino. «Dottore,» disse «ci sono messaggi per me? Notizie da Marinette?»
Lo sguardo dell’uomo si addolcì, premette il palmo caldo contro la sua mano e sorrise mestamente, facendo un cenno ai colleghi. Loro lo lasciarono indietro ed Adrien si rizzò sulla sedia in attesa.
«Signor Agreste...» iniziò, ma si interruppe. «Nessuna notizia, nessun messaggio, suo padre verrà a trovarla tra un paio d’ore.»
Adrien deglutì. «Va bene, posso avere un telefono? Ho davvero bisogno di telefonare alla mia ragazza.»
Quasi incrociò le dita, ma tenne a bada la speranza che si gonfiava nel suo petto, consapevole che illudersi non gli sarebbe servito a nulla.
«Suo padre ha dato precise disposizione al riguardo.» rispose il dottore.
«Perché? A lui Marinette piace, non l’avrei mai creduto possibile ma è così.» disse Adrien, ma l’uomo davanti a lui scosse il capo. «Io sto bene, davvero, ma devo davvero telefonare!»
Si alzò in piedi ed il dottore fece un passo indietro, forse spaventato dal suo scatto, Adrien lo lasciò andare e strinse i pugni contro i fianchi, il freddo della stanza si fece largo sotto il pigiama leggero, là dove la vestaglia non lo copriva abbastanza, e fece rizzare i peli sulle sue caviglie.
«Solo cinque minuti, non deve neanche essere ufficiale.» supplicò sottovoce. «Finga di dimenticare il cellulare o lasci la porta del suo studio, prometto che nessuno lo saprà.»
Seguirono alcuni secondi di silenzio in cui Adrien pensò che il dottore stesse soppesando le sue proposte, un paio dei pazienti attorno a loro li guardarono incuriositi, ma non aveva voglia di stare a pensare se lo avessero sentito o no. Nella penombra della stanza, sotto le luci bianche dei neon appesi al soffitto, Adrien sentì qualcuno mormorare una vecchia filastrocca che doveva aver sentito da piccolo, una donna nell’angolo ondeggiava canticchiando biascicando le parole al punto da renderle incomprensibili. Ancora si domandava perché lo avessero lasciato lì con loro.
«Signor Agreste, mi dispiace.» disse il dottore con un sospiro, riscuotendolo. «Temo di doverle ripetere ancora una volta che purtroppo la signorina Dupain-Cheng è deceduta.»
Adrien trattenne il fiato mentre il cuore gli si fermava in petto, i rumori della stanza svanirono, lasciando solo il rimbombo dei suoi battiti contro le orecchie tappate. Scosse il capo, facendo un passo indietro per sorreggersi al tavolino, quasi inciampando.
«No, non è vero.» disse.
Ricordava che era stata lì, a rassicurarlo con il suo costume sfavillante da Ladybug, ricordava le sue parole ed il modo in cui aveva cercato di tranquillizzarlo, promettendogli che sarebbe tornata al più presto. Aveva passato gli ultimi giorni a crogiolarsi in quel ricordo sfocato, a cercare di riportare a galla ogni dettaglio per essere certo di averla vista davvero, aggrappandovisi coni denti e con gli artigli.
«Marinette sta bene.» disse tra sé. Poi si rivolse al dottore: «Quando è successo?»
«Il giorno in cui lei è stato ricoverato.» disse il dottore.
Ma non poteva essere vero.
Adrien batté una mano sulla scrivania, l’eco del colpo fece sussultare un ragazzo poco distante e richiamò l’attenzione degli altri medici.
«No, io l’ho vista.»
Due uomini gli sfiorarono il braccio, lui se li scrollò di dosso divincolandosi e spostandosi di lato per evitarli, ma un altro lo afferrò per il fianco e gli impedì di andare oltre.
«Signor Agreste, si calmi.» disse il dottore.
Ma lui spalancò le braccia e tentò di spingere via gli altri, qualcuno lo afferrò alle spalle e lo blocco, Adrien sollevò una gamba e scalciò, colpendo la sedia e rovesciandola a terra senza volerlo.
«No, io non mi calmo! Devo vedere Marinette! Qualcuno mi porti da lei! Adesso!» ordinò.
Ma sembrava che nessuno avesse intenzione di ascoltarlo, i dottori lo accerchiarono ed i suoi arti si impigliarono ai loro camici bianchi mentre si agitava, riuscirono a spingerlo sul tavolo e lo tennero fermo, poi qualcosa gli punse il braccio e lui trattenne un gemito. Intravide uno degli altri pazienti che lo guardava spaventato, gli occhi sgranati e le mani tra i capelli brizzolati, poi fu come se qualcuno abbassasse le luci lentamente, finché il suo mondo divenne nero.


***

Prossimo capitolo “Scrivimi ancora”, il 7 aprile.

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Capitolo 10
*** Scrivimi ancora ***


SCRIVIMI ANCORA

Uscire dall’università dopo cinque ore di lezione era stato per Marinette come liberarsi da un enorme peso, entrare nella caffetteria le diede la prima parvenza di libertà della giornata, al pensiero che la parte faticosa della settimana fosse finalmente conclusa. Vide Alya sbracciarsi per attirare la sua attenzione, ondeggiando precariamente sulla sedia in bilico sulle gambe posteriori.
Una volta raggiunta l’amica, Marinette rimise la sua sedia in equilibrio con una manata sulla spalliera e prese posto di fronte a lei.
«Mi serve una vacanza, ho le gambe a pezzi.» disse con un sospiro e, come per dimostrarlo, le tese sotto il tavolo, facendo schioccare le ginocchia. Soppresse uno sbadiglio e lasciò cadere con uno sbuffo la tracolla al suo fianco.
Alya le sorrise e le strizzò l’occhio. «Scommetto che sei stata tutto il giorno a sfarfallare attorno ad aitanti giovanotti senza avere un solo minuto per sederti»
Marinette trattenne una risata e le lanciò un’occhiata di sottecchi. «Non li ho guardati neanche, ero troppo concentrata sul disastro che era l’imbastitura.»
«Sei incredibile,» disse Alya, passandole il menu «tutta lavoro e Parigi.»
Marinette si fermò a riflettere, l’elenco di cose che aveva da fare ogni giorno era ben più lungo, ma la maggior parte di esse le piacevano, quindi non si lamentava. Iniziò a scorrere lo sguardo sui prodotti in vendita. «Detta così sembro almeno tre volte più noiosa di quanto non sia davvero.»
Nei mesi passati, sia lei che Alya avevano assaggiato tutti i tipi di caffè e pasticcini del locale e concordato che, seppur nessuno di essi fosse anche solo lontanamente paragonabile a quelli che preparavano alla pasticceria dei Dupain-Cheng, alcuni vi si avvicinavano pericolosamente. Se i suoi avessero scoperto che si trovava lì, anche se aveva cominciato a frequentare il posto solo perché era vicino all’università, avrebbe dovuto fingere di essere solo un’infiltrata che valuta i progressi del nemico. Così, forse, il rischio che pensassero di essere stati pugnalati alle spalle sarebbe stato minore. O forse no. Forse, invece, perfino Adrien, fedele com’era ai dolci dei suoi genitori, avrebbe gridato “al tradimento”.
L’ombra della cameriera che si poneva tra loro e la vetrina fece sollevare a entrambe lo sguardo, la ragazza aveva già la punta della matita sul taccuino, così le due non persero tempo.
«Due crostate con le fragole» dissero all’unisono, senza bisogno di consultarsi, poiché da quando avevano iniziato a frequentare il posto si erano premurate di esaminare i dolci del menu dal primo all’ultimo e per questo avevano proceduto in ordine. «e due tè ai mirtilli.»
Dopo che la cameriera si fu allontanata, il sole tornò a disegnare un alone più chiaro sulla superficie lucida dal tavolino e Marinette si soffermò ad osservarlo pensando a come sfruttare questa nuova rivelazione per i suoi studi.
Per alcuni istanti non notò l’espressione corrucciata di Alya, la piccola ruga formata dalle sue sopracciglia aggrottate, ma quando lo fece le domandò senza esitazione e senza mezzi termini: «Cosa c’è?»
Lei dischiuse le labbra, la sua mano virò istintivamente verso la borsa al suo fianco, dove Vixx riposava al sicuro, ma esitò.
«Allora?» insisté Marinette, sfiorandole l’altra mano.
Alya prese fiato. «Ecco, tu sai che talvolta io e Nino facciamo qualche giro sui tetti prima di dormire, giusto per scaricarci e tenere sotto controllo ciò che succede in città.»
«E per pomiciare.» aggiunse Marinette.
L’amica scrollò le spalle, si tese verso di lei perché nessuno ascoltasse, ma si fermò ancora quando la cameriera si fece strada verso di loro e poggiò il loro ordine davanti a loro.
«Crostate di fragola e tè ai mirtilli.» disse, già diretta al tavolo successivo.
Marinette le sorrise. «Grazie.»
Alya era ancora china verso di lei, allora le fece cenno di continuare.
«Abbiamo visto delle cose strane.» disse lei. Sbloccò il telefono, aprendo sotto i suoi occhi la galleria di immagini e voltando lo schermo perché potesse vedere con i suoi occhi. Marinette trascinò verso di sé il telefono, quella che inizialmente le era sembrata la foto sfocata di un telo bianco steso ad asciugare su un terrazzo al chiaro di luna, ora le pareva più un groviglio di fili di lana che pendevano da un cornicione.
«Shcorrile.» le disse Alya, con la bocca piena di crostata ed il cucchiaino che pendeva dalle labbra.
Marinette passò il dito sul piccolo schermo, la foto successiva, grazie alla presenza di un Carapace alquanto divertito, rendeva chiaro quanto quella cosa bizzarra fosse imponente. Una ditata dopo il palmo della mano di Carapace era impigliato in essa che, da quel che poteva vedere, era anche appiccicosa.
«Non ho fatto altre foto,» la informo Alya «ci ho messo mezz’ora a liberarlo da lì.»
«Sembra una ragnatela.» rifletté Marinette.
Alya annuì e si riprese il telefono, questo le diede il tempo di assaggiare il suo dolce. Affondò il cucchiaino nella fetta di crostata e lo affondò nella farcitura fino a raggiungere la base, dove dovette esercitare una pressione maggiore per staccare il primo boccone, poi poté finalmente portarlo alle labbra e lo tenne sulla lingua per alcuni secondi.
Una volta mandato giù, agitò la testa incerta. «Forse un sette.» disse.
Alya, che stava prendendo il primo sorso di tè, scosse il capo. «Sei e mezzo.» la corresse. «Ma tornando a parlare di quello che abbiamo visto...»
«Se ti fa sentire più tranquilla, questa sera potremmo andare a controllare.» le disse Marinette.
Sapeva che, anche se non glielo avesse proposto, l’amica ci sarebbe tornata con o senza di lei, quindi voleva evitare di perderla di vista. Prese un secondo boccone ed un sorso di tè, poi sollevò la tracolla sulle ginocchia ed aprì la tasca laterale, che aveva recentemente convertito a zona-comfort per Kwami, e la dischiuse perché Tikki riuscisse a sentire il discorso. La trovo già affacciata, quel tanto che bastava per vedere e sentire, ma ben attenta a non essere vista. I suoi occhioni azzurri scintillarono di confusione mentre scrollava le spalline per farle sapere che non aveva idea di cosa fosse quello che Alya e Nino avevano visto.
Marinette scrollò le spalle a sua volta per passare ad Alya il messaggio, poi sospirò. «Meglio avvertire Adrien di non prendere impegni per questa sera.» disse.
Si chinò verso la borsa, infilandovi dentro la mano alla ricerca del telefono, le dita sfiorarono un paio di carte di caramelle scricchiolanti che lei spinse da parte con un sospiro, in mezzo ad esse c’era un foglio di carta ripiegato di cui indovinò la provenienza anche prima di aprirlo. Lo tirò fuori, poggiandolo accanto al piattino con la crostata per tornare a cercare il telefono. Quando lo ebbe trovato, riprese il post-it e lo distese sulla tovaglia con cura.
Il sorriso le si spense all’improvviso ed ebbe un sussulto mentre, sotto lo sguardo curioso di Alya, leggeva le parole lasciatele da Adrien a penna rossa con la sua elegante, inconfondibile calligrafia. «Cos’è? Un altro gioco di parole o una barzelletta idiota?» le domandò l’amica.
Marinette voltò il biglietto, così che anche Alya potesse leggere.
«Pranzo alla pasticceria, io e te.» lesse Alya.
Le parole erano seguite da una serie di piccoli cuori e non c’era alcuna firma, ma non serviva. Marinette si piegò in avanti, premendo la fronte sul tavolo e facendo tremare il tè nelle tazze.
«Sono in ritardo, l’ho trovato solo ora ed Adrien è lì ad aspettarmi da chissà quanto tempo! Sono una fidanzata terribile!»
Alya le carezzò il capo. «Nah, Adrien sa che il sistema dei bigliettini non è infallibile.»
Marinette sollevò la testa, ma il mento rimase all’altezza della crostata dimenticata. «Giusto; in fondo è colpa sua che si ostina a continuare con i messaggi a sorpresa.»
«Non è esattamente quello che ho detto io.» le fece notare Alya.
Ma Marinette già non la ascoltava più. «Avrebbe potuto usare gli sms, o WhatsApp, oppure telefonarmi per avvertirmi di avermi lasciato un biglietto, ma allora tanto valeva dirmelo per telefono.»
Premette le dita sugli occhi e sbuffò. «Ecco, sono riuscita a confondermi da sola.»
Alya rise. «Ammetterlo è il primo passo verso la guarigione.»
Marinette prese il telefono, il numero di Adrien era in cima alla lista delle chiamate recenti e in quelle rapide, ma la ragazza scosse il capo rifiutandosi di comporlo. «No, non posso fargli questo un’altra volta. È così fiero dei suoi post-it...»
«Potresti comprare un piccione viaggiatore e addestralo, così lo scambio sarebbe semplice e potreste mandarvi messaggi in ogni momento.» le propose Alya.
«Non scherzare, l’ultima volta che ho annullato via telefono un appuntamento che mi aveva lasciato via post-it non mi ha parlato per due giorni. Due giorni!»
Alya poggiò la guancia sul palmo ed iniziò a sbattere gli occhi. «Accidenti che dramma.»
Per un momento Marinette pensò di lasciarla lì e mettere il broncio, invece prese la tazza tra le mani ed iniziò a soffiare per raffreddare il tè. «Devo sbrigarmi» disse, come se questo potesse farle davvero fare più in fretta.
Dieci minuti dopo, le due ed i loro Kwami erano in piedi sull’autobus che le avrebbe portate a casa di Marinette. Alya aveva insistito sul volersi rifare per quel dolce che non le era piaciuto, vantandosi del fatto che con tutta l’attività fisica che si trovava a fare se lo poteva permettere ampiamente. Marinette aveva semplicemente sorriso e le aveva fatto cenno di seguirla, ma il pensiero di Adrien in attesa di lei tutto solo – per quanto sapeva quanto lui apprezzasse la compagnia dei suoi genitori – non le lasciava pace.
Tanto era persa nei suoi pensieri, che quando l’autobus inchiodò rischiò di finire contro Alya e trascinare entrambe a terra. Attraverso il parabrezza anteriore poteva vedere la gente che scappava, la strada era invasa da cittadini e turisti, il traffico si era improvvisamente fermato. Sperò che nessuno si fosse fatto male, ma non poteva fermarsi per assicurarsene, perché se nella sua vita c’era una certezza, quella era che se la gente scappava da qualcosa, Ladybug doveva corrergli incontro. Si voltò, seguendo la direzione da cui la gente arrivava, scoprendo che al posto della piazza familiare in cui aveva passato interi pomeriggi, ora c’era un immenso intreccio di ragnatele bianche come la neve.
Solo il sussulto strozzato di Alya, prova che ciò che stava guardando era reale, la riportò alla realtà.
***

Mi è stato giustamente fatto notare che le cose possono risultare ancora un po’ confuse, per cui vi riassumo in breve cosa è successo fino ad ora ed il perché:
Adrien è stato colpito in testa ed è rimasto intrappolato in un’allucinazione in cui Marinette è morta, cosa che l’ha fatto andare un po’ fuori di testa, Alya invece è bloccata in un’allucinazione in cui Adrien è comunque in manicomio ma Marinette in coma; una è simile a quella di Adrien ma non la stessa. Chloe è da tutt’altra parte, le sue paure sono totalmente diverse.
Il caro Nino è sempre molto tranquillo, per cui non si è mai fatto problemi e non aveva paure che potessero generare illusioni tanto forti da intrappolarlo, quindi non era sveglio ma neanche preda di un incubo, almeno finché non ha visto ciò che stavano vivendo gli altri. È stato allora che la sua allucinazione ha avuto origine, culminando con la morte di Ladybug e la rabbia di Chat Noir che lo ha ucciso.
Eccetera.
Comunque ho sempre paura che qualcosa sia poco chiaro, per cui se avete incertezze o domande da farmi non esitate. Qualora non si tratti di cose che verranno rivelate in futuro nella fanfiction provvederò a rispondervi al più presto.

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Capitolo 11
*** Nascondino ***


NASCONDINO

Le pale dell’elicottero che sorvolava la zona muovevano l’aria attorno a loro e Ladybug non si avvicinò troppo al bordo del tetto, quando guardò in basso. Lei e Rena Rouge scrutarono l’intreccio di fili bianchi alla ricerca di un movimento o di qualunque cosa potesse essere la causa di quella stranezza, ma notare qualcosa sembrava più difficile di quanto avrebbe voluto. La luce del sole cadeva a picco su di loro, gettando le piccole ombre delle scie di filamenti più consistenti su quelli che ricoprivano il terreno, ma comprendere cosa ci fosse là sotto sembrava pressoché impossibile.
Ladybug sospirò, incerta di quanto sarebbe stato rischioso buttarsi a capofitto in quel labirinto, ma non sembrava avere scelta.
Rena Rouge le sfiorò un braccio. «Ho visto qualcuno.» le disse, indicando un punto alla loro destra. Ladybug seguì il suo sguardo, la figura era già sparita e non c’era più nulla o nessuno da vedere, ma non dubitò delle parole dell’amica.
Le fece un cenno con il capo. «Andiamo.»
Saltarono giù, lo yo-yo ed il flauto stretti tra le mani, pronti per il momento in cui sarebbero serviti. Il pavimento sotto i loro piedi era appiccicoso, Ladybug quasi inciampò e finì contro una colonna di filamenti tanto fitti che non riusciva a scorgere attraverso essi. Pochi passi più avanti lo strato di ragnatele sospeso sopra le loro teste iniziò a celare ai loro occhi il cielo oscurando lievemente la luce del sole. All’inizio seguirono il corridoio che pensavano le avrebbe portate verso la figura che Rena Rouge aveva visto, ma presto esso si divise in due e le ragazze si trovarono a dover scegliere quale delle due strade percorrere.
«Dove andiamo?» domandò Rena Rouge.
Lo sguardo della ragazza era incerto e la fiducia cieca che dimostrava nei suoi confronti fece sorridere Ladybug. Scelse la via di destra, poiché le sembrava più probabile che le portasse nella direzione che serviva loro, ammesso che chi stavano cercando fosse ancora lì.
Ogni metro che percorrevano era uguale al precedente, nonostante ogni passo fatto sembrasse loro di restare ferme. Sentivano il rumore dell’elicottero che sorvolava la zona e quello delle auto della strada lì a fianco, ma Ladybug e Rena Rouge non avevano tempo per ascoltarli.
Vi fu un secondo bivio, poi un terzo ed un quarto, ad un certo punto Ladybug ebbe l’impressione di stare girando intorno. Si erano mantenute sulla destra, in modo da riuscire ad intuire la strada anche al ritorno, rimasero in silenzio, allora iniziarono a sentire rumori che non erano parte dei loro respiri o dei loro passi. I fruscii attraversavano le pareti di filamenti oltre cui era impossibile vedere qualcosa, ma di certo non erano più sole e, in seguito ad uno scambio di sguardi con Rena Rouge, Ladybug seppe che non era l’unica a pensarlo.
Pochi metri più avanti rispetto a dov’erano il labirinto si divideva in altre tre strade, Ladybug strinse il filo dello yo-yo tra le dita e iniziò a rotearlo davanti a sé pronta a difendersi da qualunque cosa si sarebbero trovate davanti. I tre nuovi corridoi si curvavano quasi immediatamente, impedendo loro di vedere cosa ci fosse oltre quei pochi metri iniziali, e contro ogni buonsenso Ladybug e Rena Rouge imboccarono l’ingresso da cui erano convinti provenissero i rumori. Videro la sua ombra prima ancora che la figura a cui apparteneva, una mano alzata, la sagoma circolare di qualcosa che poteva essere un’arma si sollevò poco dopo.
Ladybug fece un passo avanti e colmò lo spazio che le mancava per scorgere il suo avversario, si preparò a colpirlo, china in posizione d’attacco mentre la figura faceva lo stesso. Poi lo mise a fuoco e la sua voce la raggiunse oltre i rimbalzi del suo cuore contro la cassa toracica.
«Porca miseria! Stavo per darvelo in testa!» esclamò Carapace agitando lo scudo che reggeva in mano.
Ladybug sospirò di sollievo e si rilassò, lasciando che Rena Rouge lo raggiungesse per prima, e si voltò per lasciar loro un po’ di privacy. Premette una mano sul petto, aspettando che la paura si calmasse e che il respiro tornasse regolare. Qualcosa nel corridoio da cui erano arrivate lei e l’amica attirò la sua attenzione, non era un’ombra, ma solo una presenza che opprimeva lo spazio rendendole la respirazione faticosa, fece inconsciamente un passo verso di lei, lo yo-yo fermo stretto in mano, mentre passo dopo passo prendeva le distanze dagli amici.
«Ragazzi.» chiamò, ma non si assicurò che loro la stessero seguendo.
Un rumore alla sua destra la fece sobbalzare, intravide Carapace che la raggiungeva, allora corse verso la presenza, curvò a destra, poi a sinistra, percorse il labirinto svincolo per svincolo incespicando e urtando alle pareti appiccicose. Le ragnatele gli si impigliarono nei capelli e nel costume, alcune si attaccarono ai suoi polsi ed alle sue dita e penzolarono da essi mentre lei andava avanti, ma anche se lo strato superiore delle pareti si distaccava, la parte più interna era talmente fitta ed aggrovigliata da non fare una piega.
Correva, ma ancora non riusciva a vedere nulla, sentì Rena Rouge e Carapace chiamarla e le loro voci riecheggiarono nelle gallerie, tanto distanti da costringerla a fermarsi. Si voltò e si guardò attorno sperando di vederli, ma doveva averli seminati nella corsa, perché di loro non c’era alcuna traccia.
«Ragazzi?» domandò.
Le ultime lettere pronunciate riecheggiarono diverse volte attorno a lei, ma non ebbe risposta.

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Capitolo 12
*** Il canto della sirena ***


IL CANTO DELLA SIRENA

«Ragazzi?» domandò.
La parola risuonò diverse volte attorno a lei, ma non ricevette risposta.
Rimase immobile nel mezzo del corridoio, il cuore che batteva forte e gli occhi sgranati, quasi come se sbattere le palpebre potesse impedirle di scorgere qualcosa di importante. Le dita si strinsero inconsciamente attorno allo yo-yo, traendo forza da quel contatto rassicurante mentre cercava di prestare attenzione ai rumori di ciò che aveva attorno. Sentiva le voci di Carapace e Rena Rouge, ma erano tanto flebili e confuse che non riusciva a capire che cosa dicessero o da dove provenissero. Era finita nel mezzo di un incrocio, attorno a lei decine di ingressi a diversi corridoi avrebbero potuto portarla in qualunque direzione e lei non sapeva già più quale fosse quello da cui era arrivata. Era come se qualcosa nell’aria la stesse confondendo, come se non fosse quasi più in grado di ragionare lucidamente.
«Rena Rouge? Carapace?» chiamò.
Ebbe l’impressione che loro la stessero chiamando a loro volta, ma non poteva esserne certa. Fece due giri su sé stessa, cercò di individuare i sussurri degli amici, di trovare una traccia di loro, ma sembrava impossibile.
«Ragazzi?»
Trattenne il fiato per sentire meglio, gli occhi aperti quasi secchi finché non fu costretta a sbattere le palpebre. Qualcosa si mosse all’angolo del suo campo visivo, Ladybug si voltò per cercare di guardare meglio, ma non trovò nulla e allora fece un altro giro su sé stessa. Pensò di averlo immaginato.
«Rena Rouge!» gridò ancora «Carapace!»
Ci fu un altro movimento, un ticchettio che la fece sussultare; questa volta era sicura, anche se non era certa di cosa potesse essere. Arretrò, finendo contro una parete appiccicosa e rischiando di impigliarsi alla rete, agitò le braccia per liberarsi dalla presa e, dopo allora, stette bene attenta a mantenersi abbastanza lontana dai filamenti da non restarne invischiata. Fece roteare lo yo-yo davanti a sé, avrebbe voluto poter dire di sentirsi più sicura, ma era proprio davanti a due dei corridoi e qualunque cosa sarebbe anche potuto arrivarle alle spalle.
«Ok, chi sei e cosa vuoi?» domandò. Ma non ebbe risposta.
Un fruscio alla sua destra la fece voltare ancora, ma Ladybug riuscì a vedere solo un’ombra indistinta che sparì in uno dei corridoi. Le corse dietro, i suoi piedi si mossero da soli prima ancora che potesse pensarlo, ma quando imboccò il corridoio quello era già vuota e lei rallentò fino a fermarsi. Strinse i denti per trattenere la rabbia, mentre lo yo-yo oscillava dimenticato contro il suo fianco.
Un rumore alle sue spalle la fece voltare ancora ed il bianco, già prorompente attorno a lei, la investì in pieno scagliandola contro la parete, le ragnatele la bloccarono, Ladybug si dibatté per liberarsene, ma ad ogni mossa i fili si avviluppavano sempre di più attorno a lei e presto non riuscì più a muoversi. Si ritrovò con le braccia immobilizzate contro i fianchi, gridò i nomi di Carapace e Rena Rouge, poi l’intreccio le ricoprì le labbra mozzandole il fiato.

Qualcosa le punzecchiò il braccio, qualcosa le solleticò il naso, qualcuno le pizzicò la guancia strappandole un gemito e risvegliandola di colpo. Le palpebre non risposero al suo tentativo di spalancarle e, solo dopo qualche istante, le permisero di avere una visione sfocata di ciò che aveva davanti.
«Era ora!» disse Queen Bee, a voce talmente alta che Ladybug ebbe un brivido. «Tutto bene, Chat Noir, si è svegliata.»
Solo allora Ladybug aveva ripreso a respirare, fino a quel momento neanche si era accorta di aver trattenuto il fiato, tese il collo e sollevò il viso per guardare meglio i suoi amici, scorgendo la sagoma familiare di Chat Noir oltre la spalla di Queen Bee. Il ragazzo dava loro le spalle, brandiva il suo bastone argentato con sicurezza mentre affrontava l’enorme ragno che aveva davanti.
Ad occhi strabuzzati, Ladybug tentò di alzarsi, ma aveva le braccia bloccate contro i fianchi, la ragnatela appiccicata ai dorsi delle mani, infilata tra le dita e stretta attorno al collo e non poteva muoversi. Queen Bee strappava i filamenti uno ad uno, usando la punta della sua trottola come un coltellino svizzero. Taglio dopo taglio, Ladybug aveva sempre più libertà di movimento; prima riuscì ad agitare le spalle, poi quasi a piegare i gomiti, mentre Chat Noir faceva roteare il bastone davanti a sé ricacciando indietro ogni tentato fendente delle zampe del ragno e colpendo le estremità di esse quando quelle arrivavano troppo vicine.
«Queen Bee!» esclamò Ladybug tentando di alzarsi.
Lei le premette una mano contro il collo e la spinse ancora giù. «Calmati, stupida, o peggiorerai le cose.» le disse. «Questa roba provoca allucinazioni.»
Ladybug sentiva le sue parole, comprendeva ciò che stava dicendo ma non prestava veramente attenzione. Tese ancora il collo, si sporse verso Chat Noir, il ragno le sembrava troppo vicino al ragazzo, avrebbe voluto dire a Queen Bee che avrebbe fatto meglio a guardare le spalle a Chat Noir invece che cercare di liberare lei, ma in realtà desiderava solo essere libera al più presto per accorrere lei stessa ad aiutarlo.
«Chat Noir!» gridò, per allertare il ragazzo di una zampata imminente.
Lui la evitò con una piroetta e colpì il ragno con il bastone dritto sul muso, proprio tra gli occhi neri e spaventosi, spingendolo indietro fino a costringerlo a rifugiarsi in uno dei corridoi, dove lui restò ad osservarli dalla penombra.
«Chat Noir.» ripeté ancora Ladybug, questa volta con un sussurro, il sollievo che trapelava attraverso ogni sillaba.
Lui si voltò e le sorrise, i suoi occhi esprimevano il solito affetto, la solita premura che riservava solo a lei, quando il mondo restava in disparte e per qualche istante esistevano solo loro due. Ma non durò molto.
La voce di Queen Bee li fece sussultare entrambi. «Chat Noir!»
Il ragno era uscito da corridoio, si impennò e si si sporse in avanti, afferrò Chat Noir alle spalle, lo avvolse con le sue zampe viscide e lo spinse a terra. Lo trascinò a sé e lo strinse finché Ladybug non riuscì più a distinguere i suoi movimenti, tanto erano veloci, ma l’urlo di dolore del ragazzo che seguì non avrebbe mai più potuto dimenticarlo.



Informazione gratuita barra spam; quindi diciamo “spammazione”:
Questa fanfiction è anche su Wattpad e lì è presente anche la lista dei capitoli ancora da postare (in continuo aggiornamento) e le date in cui essi verranno inseriti (le date riguardano esclusivamente la pubblicazione su Wattpad, poiché qui il programma può subire variazioni).
Ci vediamo la prossima volta con “Lascia che piova”.

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Capitolo 13
*** Lascia che piova ***


LASCIA CHE PIOVA

La pioggia scrosciante scivolava giù dalla torre Eiffel e lungo le travi come un fiume in piena, Ladybug se la ritrovò negli occhi, tra i capelli, sul costume, tra le dita con cui si aggrappava alla torre stessa per non scivolare giù.
Parigi era grigia, il cielo si imbiancava a tratti quando i lampi esplodevano tra le nubi, subito dopo il fragore dei tuoni scuoteva la terra facendo vibrare ogni cosa da lì all’orizzonte. Non c’era un solo spiraglio di azzurro visibile ai suoi occhi, ma anche se ci fosse stato non avrebbe certo perso tempo a cercarlo; probabilmente non sarebbe stata in grado di vedere il cielo azzurro per un bel po’ di tempo.
Ladybug guardò i tetti così familiari e si perse tra i loro camini e tra le finestre dei piani più alti, seguì con lo sguardo i percorsi familiari che per anni aveva vissuto assieme a Chat Noir. Aveva quasi l’impressione che lui sarebbe sbucato fuori all’improvviso, con i suoi capelli biondi spettinati ed inzuppati fino al midollo ed il suo stupido sorriso così amabile da farla sciogliere. Avrebbe passato giorni interi a baciarlo, quello stupido sorriso, se solo ne avesse avuto l’occasione. Ma ora che Adrien era morto non ne avrebbe avuto più l’occasione e questa consapevolezza la stava in qualche modo distruggendo poco a poco. Lui non sarebbe più corso verso di lei saltando di tetto in tetto come faceva sempre, non le sarebbe sbucato alle spalle coprendole gli occhi solo per domandarle stupidamente “Indovina chi è?”, non le avrebbe lasciato stupidi bigliettini sulla scrivania prima di andare a casa, né li avrebbe attaccati con un pezzo di nastro adesivo sul vetro della sua botola o infilati di nascosto nella sua borsa perché li trovasse dopo qualche ora. Marinette avrebbe dato qualunque cosa per trovare ancora uno di quei bigliettini, anche se fosse solo per delle stupide scuse per aver fatto tardi ad un appuntamento, oppure un’impertinente richiesta di portargli un dolce la prossima volta che si fossero visti. Le sarebbe piaciuto poter leggere una nuova strofa delle poesie improvvisate che le dedicava ad ogni occasione.
Il suono della pioggia copriva ogni altro rumore, dal suo respiro a quello del resto di Parigi; era come se non esistesse altro e a lei andava bene così. Ferma, immobile sulla torre, dove le sarebbe bastato fare qualche passo indietro per ritrovarsi al coperto, aveva tutto ciò che voleva in quel momento: la solitudine e una vista mozzafiato di una città deserta in cui avrebbe potuto fingere di essere l’ultima persona esistente al mondo.
Aveva fissato l’orizzonte tanto a lungo che se avesse chiuso gli occhi avrebbe avuto i profili dei tetti stampati sul retro delle palpebre, con le impronte delle antenne televisive e tutto il resto, e sarebbe rimasta volentieri a studiare anche quelli, se solo le fosse stato permesso. La mano di Rena Rouge che le si poggiava sul braccio spazzò via ogni suo pensiero, ma l’ombra di Parigi rimase ad agitarsi sul fondo del suo petto impedendole di liberarsi di quel gelo doloroso che ancora la stringeva in una morsa. La pioggia investiva in pieno anche lei, cadendo a rivoli dai suoi capelli e lungo il suo naso, mentre le schizzava addosso dopo l’impatto sulle sue spalle. Ladybug avrebbe preferito che non riuscisse a trovarla, anche se non aveva fatto enormi sforzi per nascondersi da lei o da chiunque altro.
«Come stai?» le domandò l’amica.
Ladybug non rispose, non lo faceva mai e si chiedeva perché gli altri si ostinassero a continuare a domandarglielo. Non aveva più detto molto, dopo la morte di Adrien, preferendo rinchiudersi in quell’ostinato silenzio che le permetteva di pensare e ripensare sempre alle stesse, inutili e dolorose cose.
Quella volta, però, Ladybug decise di parlare, anche se probabilmente non disse quello che Rena Rouge si sarebbe aspettata da lei. «C’è una cosa a cui continuo a ripensare.»
Rena Rouge inclinò il capo e si tirò indietro, trovando riparo sotto una delle travi. Forse si aspettava che Ladybug l’avrebbe raggiunta, ma lei non lo fece.
«A cosa?» domandò.
«Una cosa che ha detto Queen Bee quel giorno.» spiegò Ladybug. Aveva quei momenti in mente e non riusciva a liberarsene, continuava a vederli e rivederli ogni giorno, ogni secondo di veglia e di sonno, come se del suo mondo fosse rimasto solo quello. Il candore della ragnatela che si macchiava del sangue di Chat Noir, le grida di lui e le sue che si mescolavano, l’eco della voce di Queen Bee che gridava a gran voce il nome del ragazzo e poi quella specie di grugnito che Carapace aveva emesso prima lanciare il suo scudo contro il ragno tranciandolo di netto in due. Lui e Rena Rouge erano arrivati troppo tardi, da allora Marinette aveva iniziato ad evitarli anche se era ben consapevole che non avessero alcuna colpa.
Lei la fissava ancora, solo quello sguardo preoccupato sotto le ciglia rese pesanti dalle gocce d’acqua le ricordò che era ancora in attesa di una spiegazione.
Ladybug sollevò il capo, pensando al modo migliore per esprimersi. «Com’è stato? Essere intrappolati in quell’illusione, intendo.»
«Era difficile capirlo standoci dentro.» spiegò Rena Rouge. «C’erano indizi, forse, buchi che però sembravano essere perfettamente coerenti e su cui sul momento non sentivo il bisogno di farmi domande.»
«Buchi?» domandò Ladybug. La pioggia aveva reso l’aria gelida, i tremori avevano iniziato a scuoterla già da un po’, fino a rendere le dita infreddolite doloranti contro la trave della torre. Guardare nel vuoto ora le faceva venire le vertigini, era come se il suo baricentro si fosse spostato e non riuscisse più a rimettersi in asse. «Che tipo di buchi?»
«Era come vivere in un mondo in cui vivevi solo i momenti utili all’allucinazione, ma come in un sogno non lo si capiva.»
«Non capisci mai di essere stato in un sogno finché non ti sei svegliato.» disse Ladybug. Su questo avrebbe avuto da ridire; in alcuni sogni, come quelli iniziati al confine del dormiveglia, a volte era stata in grado di capire che ciò che aveva davanti non era reale, alcuni era riuscita anche a pilotarne, anche se solo in parte. Si chiese se Alya avesse mai fatto sogni simili.
«Non finché non ti sei svegliato.» ripeté Ladybug.
Rena Rouge annuì ed accennò un sorriso, quasi fu in grado di ricambiarlo.
«Dimmi, Alya, ti ricordi come siamo usciti dal labirinto di ragnatela?»
Inclinò il capo, tornando ancora con la mente a quel momento; si era sforzata numerose volte di pensare a ciò che era successo dopo l’arrivo di Reana Rouge e Carapace, ma era come se il suo cervello si inceppasse ogni volta e tornasse a rivedere la scena dall’inizio. Quando era più fortunata, invece, una parte di lei rivedeva quello scenario e loro che riemergevano trovandosi davanti numerose auto della polizia; “Dovrebbe andare così, in una situazione simile.”, le diceva una voce nella testa, ma le sembrava tanto una forzatura.
«Che domanda è? Ne siamo usciti e basta.» le rispose Rena Rouge, come se nient’altro avesse importanza.
«E cosa è successo dopo?», la incalzò Ladybug.
Voleva sapere del funerale, delle scuse che avevano trovato per spiegare la morte di Adrien Agreste e la sparizione di Chat Noir senza che qualcuno riuscisse a collegare i puntini per arrivare a loro, perché era questo che avrebbero dovuto fare, ma non riusciva a ricordare.
Rena Rouge fece un passo verso di lei. «Cosa vuoi dire?»
«Questo non può essere reale.» le disse.
«Come potrebbe non esserlo?» domandò Rena Rouge, la sua voce acuta mentre tentava di sovrastare lo scroscio della pioggia. «Marinette, mi stai spaventando.»
Ladybug scosse il capo. «Non può essere... Un mondo senza Adrien non può assolutamente essere reale.» disse.
Ora non poteva più ignorare il groppo in gola, le lacrime che premevano per uscire, il dolore che quasi le squarciava il petto in due. Un mondo senza il ragazzo che amava non era un mondo che faceva per lei, per cui doveva essere per forza un’illusione e, se anche non fosse stato così, non era un mondo in cui lei avrebbe voluto vivere. Lasciò che la trasformazione la abbandonasse, la presenza di Tikki al suo fianco non era rassicurante come avrebbe voluto, lo sguardo confuso di Rena Rouge le apparve distante e spento.
«Credo che sia il momento che io provi a svegliarmi.» disse. Fece un passo indietro, prendendo le distanze dall’amica mentre lei sollevava le braccia. Prima che Rena Rouge riuscisse ad afferrarla, Marinette stava cadendo nel vuoto. L’ultima cosa che sentì, prima che il dolore la investisse in pieno, fu l’urlo disperato dell’amica.

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Capitolo 14
*** Prendi fiato ***


PRENDI FIATO

Adrien si svegliò ancora una volta legato al lettino, la cannula della flebo infilata nel braccio pizzicava; non si sarebbe stupito se avesse scoperto che gli aveva provocato un livido.
Vedeva gli occhi azzurri e le ciglia folte e scure di Ladybug tanto vicini da essere sfocati e non poteva e non voleva distogliere lo sguardo anche se, intontito com’era, quasi non riusciva a metterli a fuoco. Una volta che vi riuscì divenne quasi impossibile distrarsi da lei. Sentiva le dita della ragazza sfiorargli i capelli, il suo fiato caldo e familiare che gli solleticava il mento, la voglia disperata di baciarla che lo scuoteva nonostante tutto il resto.
Ricordava le parole di suo padre, quelle degli infermieri e dei dottori; tutto quello che si era sentito dire quegli ultimi giorni o settimane era che Marinette era morta, che non sarebbe più tornata, ma ora che la vedeva di nuovo crederci gli era davvero difficile. Sentiva il suo calore, il suo profumo, come se fosse viva. Vedeva la preoccupazione nel suo sguardo, così come avrebbe potuto immaginarla, e poteva contare le lentiggini sulla parte del suo viso che non era coperta dalla maschera.
Gli avevano detto che Marinette era morta innumerevoli volte e lui ci aveva messo secoli a convincersi che avessero ragione. Tutte le volte che l’aveva vista, che aveva sentito la sua voce amorevole che lo tranquillizzava ripetendogli che sarebbe andato tutto bene, mai una volta lei aveva fatto davvero qualcosa per aiutarlo.
Se fosse la vera Ladybug sarei già fuori di qui, si disse.
Aveva bisogno di ripeterselo, per ricordarselo, perché altrimenti la sua speranza di essere in un incubo avrebbe soffocato la realtà e l’avrebbe condotto sull’orlo della pazzia.
Se Marinette fosse davvero qui mi avrebbe già portato via.
«Smettila.» le disse, quando le labbra di lei gli sfiorarono il mento. «Tu non sei veramente qui.»
Era una vera tortura; da quando Adrien l’aveva accettato lei era rimasta appollaiata sul suo letto come una succube intenta a divorarlo poco a poco e non ne aveva voluto saperne di lasciarlo in pace, nonostante le sue suppliche.
«Come potrei non essere qui?» gli domandò allora Ladybug. Strofinò il naso sulla sua guancia, provocandogli un brivido che non riuscì a nasconderle. «Non lo senti questo?» chiese, poi gli mordicchiò il lobo dell’orecchio.
Adrien scosse il capo e si agitò tentando di scrollarsela di dosso, lei rise.
«Tu sei morta, sei morta affrontando il grande ragno.» le disse, come se farglielo sapere potesse farla smettere, come se ripeterselo potesse fare in modo che il suo cervello smettesse di pensare a lei, di vedere lei.
Ladybug gli accarezzò una guancia, il braccio posato attorno alla sua testa non aveva peso, quindi il materasso non di piegava in quella direzione come avrebbe dovuto. «Ti sembro morta?»
Adrien si sforzò di pensare a suo padre, ai dottori, agli infermieri, agli psicologi, ma con lei così vicina gli sembrava impossibile. «Loro me l’hanno detto.»
«Forse mentivano.» Gli sfiorò la frangia con un dito come se volesse scostargliela dalla fronte, ma invece di farlo la toccò semplicemente. «Questo posto non ti fa bene.»
Ad Adrien sembrava di essere sul punto di crollare, avrebbe voluto uscire, che Ladybug fosse davvero lì per portarlo via, che Marinette facesse di tutto per convincere suo padre a riportarlo a casa.
«Se tu fossi reale, se fossi la mia Ladybug, mi avresti portato fuori da un bel pezzo.» le disse a denti stretti.
Lei non ribatté, ma si chinò a baciarlo con tanta forza che a lui mancò il fiato; era come se qualcosa fosse seduto sul suo petto impedendogli di respirare correttamente, come i suoi polmoni fossero all’improvviso incapaci di immagazzinare ossigeno e anche di sputarlo fuori. Quando la sensazione di soffocare passò, Adrien si scoprì solo al centro della stanza, le cinghie ancora strette attorno ai polsi e l’interno del gomito che ancora bruciava. Prese fiato e fissò il soffitto, sforzandosi di non pensare, sperando che questo non la facesse tornare ancora una volta a tormentarlo.
«Adrien!» si sentì chiamare, ma non voltò il capo verso la porta, per non vederla ancora una volta immobile sulla soglia pronta a ricominciare a tormentarlo.
Lei lo raggiunse, chinandosi su di lui e scostandogli la frangia dalla fronte per liberargli gli occhi.
Si costrinse a non guardarla, pensando che forse così sarebbe svanita, che avrebbe perso consistenza un’altra volta, invece lei premette le dita sul suo polso ed allentò la cinghia che lo tratteneva, liberandogli la mano in pochi secondi.
«Ti porto fuori di qui.» gli disse. E sganciò anche quella che gli premeva sul petto.
Adrien rimase immobile, strinse i pugni e trattenne il fiato, all’inizio lei parve non accorgersene, o forse era solo quello che la mente di Adrien voleva che lei facesse. Quando Ladybug gli ebbe girato attorno, dopo avergli sganciato le cinghie che gli bloccavano le ginocchia ed i piedi, quando gli liberò anche l’altra mano e gli sfiorò il braccio a cui era attaccata la cannula per la flebo, Adrien si sollevò e le strinse il polso per impedirle di fare altro.
«Smettila.» le disse. «Smetti di giocare con la mia testa, chiunque tu sia, qualunque cosa tu sia.»
Gli occhi sgranati e preoccupati di lei non lo impietosirono, le sue labbra dischiuse non gli scatenarono il solito impulso di baciarla.
«Di cosa stai parlando?» gli domandò Ladybug. Adrien non le rispose e allora lei continuò. «Sono venuta a portarti via, mi dispiace averci messo tanto ma ora sono qui.»
Fece un passo verso di lui, sollevò la mano per sfiorargli la guancia, ma Adrien la spinse via.
«Tu sei morta! Tu sei morta!» ripeté.
Ladybug scosse il capo. «No! Sono viva, sono qui!» disse lei.
Cercò ancora di avvicinarlo, ma lui non voleva sentire ancora il calore della sua finta pelle, né la sua voce, né l’ansia nel suo respiro.
«Vattene.» le disse.
Lei tese un braccio per raggiungerlo. «Non senza di te.»
Adrien digrignò i denti e, prima di rendersene conto, afferrò il tubo della flebo. Lasciò che lei gli si avvicinasse, allora la afferrò per la spalla e la costrinse a voltarsi, poi avvolse il tubo attorno al suo collo ed iniziò a stringerlo sulla sua gola.
«Lasciami stare! Tu non esisti! Non sei reale! Sei solo nella mia testa!» le disse.
Ladybug continuò a dibattersi tra le sue braccia, si aggrappò a lui, agitò le gambe e scosse le spalle per costringerlo a fermarsi, mugolò tremando contro il suo petto per diversi minuti, ma lui non la lasciò andare finché le sue dita non si fecero molli e scivolarono via dai suoi polsi, dove aveva disperatamente cercato di costringerlo a mollare la presa. Solo quando la testa di lei iniziò a ciondolare contro la sua spalla e fu certo che non respirasse più si permise di lasciarla andare. Il suo corpo cadde a terra a faccia in giù, ma invece che quel sollievo che Adrien si aspettava e che tanto bramava, la vista del suo cadavere riverso sul pavimento avvolto in quel familiare completo rosso lo nauseò.
Trattenne i conati e continuò a fissarlo, la necessità di vederla svanire davanti ai suoi occhi lo soffocava ogni secondo che passava, ma quella visione non accennava a dissiparsi ed i graffi delle sue unghie sulla pelle bruciavano.
Poi la voce dalla porta lo colse di sorpresa, così come lo sguardo inorridito di Carapace.
«Amico... Cosa diavolo hai fatto?»

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Capitolo 15
*** Dentro l'oscurità ***


DENTRO L’OSCURITÀ

Quando Marinette aprì gli occhi e non vide nulla, pensò per un secondo di essersi sbagliata e che la caduta dalla torre Eiffel l’avesse uccisa. Aveva sempre pensato che dopo la morte non si provasse dolore, invece avvertiva un’intensa pressione pulsante dietro la nuca; era come se qualcuno l’avesse colpita con una mazza. Infilò una mano tra i capelli e si osservò le dita per controllare se fossero sporche di sangue, ma quelle erano pallide e pulite davanti ai suoi occhi. Si guardò attorno, c’era solo lei, allora sperò davvero di non essere morta, perché non voleva passare il resto dell’eternità da sola in un posto simile. Sbirciò alle sue spalle, ma non trovò nulla.
«Tikki?» domandò. E non ricevette alcuna risposta.
Aguzzando l’orecchio poteva sentire qualcuno urlare in lontananza, non riusciva a comprendere le parole, ma il fatto che qualcuno fosse lì con lei riuscì a rincuorarla. Fece un salto in avanti, nella direzione da cui pensava che la voce provenisse; qualcuno stava ponendo delle domande, ma Marinette non riusciva a udire più che qualche confusa parola senza senso. Corse, i pugni stretti e le labbra serrate, il dolore alla testa dimenticato. Riconobbe la voce di Nino poco prima di riuscire a distinguere le due figure distanti solo poche decine di metri; le luci che spiccavano nel buio la separavano da loro, impedendole di mettere a fuoco e riconoscere chi aveva davanti, ma arrivata più vicina capì immediatamente che la persona con cui il ragazzo stava parlando era una perfetta estranea.
«La carovana sta arrivando.» la sentì dire, poi la donna le lanciò un’occhiata di sbieco prima di indietreggiare e sparire, accompagnata da un ticchettio che provocò a Marinette un brivido.
«Nino!» gridò Marinette.
Lui si voltò a guardarla e si illuminò, le sorrise ed allargò le braccia.
Marinette gli si gettò addosso e lo abbracciò.
«Diamine! Non puoi immaginare che cosa ho vissuto.» le disse lui.
«Tu non puoi immaginare cosa ho vissuto io.» ribatté lei.
Lo lasciò andare e gli sorrise, ma l’entusiasmo di non essere più sola scemò in fretta. Gli diede una spinta per allontanarlo, lo squadrò dall’alto in basso, lo osservò ad occhi tanto sgranati da sentirli dolere e deglutì.
«Come so che sei reale?» gli chiese.
Lui sbatté gli occhi. «Potrei farti la stessa domanda.»
Rimasero a fissarsi per qualche istante, Marinette non voleva esporsi per prima e sembrava che lui pensasse la stessa cosa, perché si era improvvisamente allontanato ed ora era rigido davanti a lei, le braccia premute contro i fianchi ed il viso sollevato come se fosse sull’attenti. Nessuno dei due parlò per alcuni secondi, si scrutarono a vicenda come alla ricerca della conferma delle loro identità, ma non c’era modo per averne.
Marinette studiò il naso prominente dell’amico, le sue cuffie familiari premute contro il collo, gli occhiali scuri sul viso e tutto il resto cercando un segno, un difetto che avrebbe potuto rivelarle se fidarsi o no, ma non sembrava che ci fosse nulla di rilevante a cui aggrapparsi. Le finestre di luce si riflettevano sulle sue guance, fu l’unica cosa che la spinse a voltarsi verso di loro.
Prima non ci aveva guardato dentro, ma appena notò gli scenari in cui erano immersi gli amici non riuscì più a distogliere lo sguardo; Alya sul letto avvinghiata ad un’altra versione di Nino, Chloe che nel panico totale svuotava ogni cassetto e rivoltava ogni cuscino della sua camera, Adrien chino in avanti e stretto nella camicia di forza.
«Non sono riuscito a tirarli fuori.» disse Nino. «Credevo di poterlo fare, credevo di essere riuscito a raggiungerli, ma... io non lo so cos’è successo... ero lì, ci ero quasi, poi... poi ero di nuovo qui.»
Il suo volto pallido esprimeva disagio, evitava il suo sguardo, premendo i palmi uno contro l’altro. «Non era reale.» concluse per lui Marinette.
Lui annuì. «Non era reale.»
Marinette si morse il labbro, la vista di Adrien che dondolava avanti e indietro a capo chino le faceva mancare il fiato, ma il fatto che fosse vivo bastava a farla tornare a respirare ancora, con le lacrime intrappolate agli angoli degli occhi ed il bisogno di fare qualcosa che la corrodeva.
«Se provassimo a raggiungerli potremmo dare inizio ad un’altra illusione.» disse Nino. Scrollò le spalle e sospirò.
«Chi era quella?» chiese Marinette. Indicò con un ceno la direzione in qui la donna era sparita, ora c’era solo oscurità, ma lei avrebbe potuto essere comunque abbastanza vicina da sentirli e questo la spaventava. Loro erano ciechi, ma nessuno poteva assicurarle che anche lei lo fosse. Strizzò gli occhi, ma non servì.
«Non lo so.» disse Nino con una scrollata di spalle.
Allora Marinette si tiro indietro la frangia. «Deve essere stata lei a trascinarci qui.»
«Ma cosa vuole da noi?»
Marinette aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì a trovare una risposta da dargli e rimase a fissarlo con la bocca aperta. Se la donna avesse voluto i loro Miraculous avrebbe potuto prenderli in ogni momento, una volta dato inizio alle allucinazioni. Se avesse voluto ucciderli li avrebbe potuti cogliere di sorpresa già da un bel pezzo, ma non l’aveva fatto e, anzi, non sembrava averne intenzione. «Penso che voglia farci diventare pazzi.»
Nino sollevò le sopracciglia, forse vagliando l’ipotesi.
Se il suo scopo era quello, Marinette era certa che fosse vicina a riuscirci; farli diventare matti, confonderli fino a rendergli impossibile distinguere la realtà dall’incubo, avrebbe potuto portarli a diffidare l’uno dell’altro con un uno schiocco di dita ed allora sarebbero stati isolati, incapaci di difendersi a vicenda e spalleggiarsi come erano soliti fare da sempre.
Guardando l’amico ancora una volta, si rese dolorosamente conto che non era ancora certa che lui fosse reale.

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Capitolo 16
*** L'incantevole strega ***


L’INCANTEVOLE STREGA

Marinette avrebbe tanto desiderato essere certa che Nino fosse reale, allargare le braccia e tenerlo stretto per rassicurare entrambi, ma la diffidenza che provava e che vedeva riflessa nei suoi occhi glielo impediva. Chi avrebbe potuto assicurarle che lui non volesse portarla fuori strada? Come avrebbe potuto sapere per certo che il modo in cui lui esprimeva la sua preoccupazione nei confronti degli altri non fosse una semplice messa in scena?
Si trovò a pensare alla Alya con cui aveva avuto a che fare, al modo incredibile in cui somigliava a quella reale, tanto che aveva pensato che lo fosse e che l’allucinazione riguardasse tutto il resto, ma non lei. Col senno di poi, si rese conto che era stupido, che probabilmente per abbandonare un’allucinazione collettiva avrebbero dovuto lavorare insieme, o che se davvero quello fosse stato il sogno di tutti loro l’assenza di Adrien sarebbe stata un pessimo segno. Scosse il capo per non pensarci.
«Non voglio dovermi guardare le spalle anche da te.» le disse Nino con voce flebile.
Per un attimo Marinette pensò di averlo immaginato, poi accennò un sorriso; non c’era alcun motivo per ferirlo, nel caso fosse stato davvero lui.
Attraverso le finestre di luce poteva vedere Adrien, Chloe, Alya e Nino, ma se il Nino reale fosse stato proprio quello e non il ragazzo che aveva davanti? Non riusciva a togliersi dalla testa quel dubbio, poi sentì l’amico sbuffare.
«Maledizione!»
Lo vide passarsi una mano tra i capelli e stringere la mascella, il fastidio della scena che gli si era palesata davanti, dove l’altro Nino stava spogliando Alya, era evidente.
«Non riesco a farmi sentire.» le spiegò. «Ho provato anche a chiamarli, ma niente.»
Non gli rispose, incerta su cosa avrebbe potuto dirgli per rassicurarlo, ma a lui non sembrava comunque importare.
Un suono acuto infranse il silenzio appena formatosi tra loro, riecheggiò diverse volte come se provenisse contemporaneamente da più direzioni, ma guardarsi attorno non servì a capire chi o cosa l’avesse provocato.
Marinette non si accorse dell’improvvisa vicinanza con Nino fino a quando le sue dita non le sfiorarono il polso, allora ebbe un sussulto e si morse il labbro. Spalla contro spalla, si assicurarono di coprirsi a vicenda nonostante tutto.
«Cos’era?» chiese Nino.
Marinette arretrò per sentire il suo calore rassicurante. «Non lo so, un uccello?»
Il suono si ripeté un’altra volta ed ancora riecheggiò tutto attorno, lei e Nino fecero un mezzo giro per poter scrutare l’uno nella direzione in cui poco prima aveva guardato l’altro. Stare vicino agli scenari in cui erano intrappolati i loro amici gli dava un’irragionevole sensazione di sicurezza, Marinette sapeva che non avrebbe dovuto permettere che questo la rassicurasse; che avrebbe potuto essere una distrazione.
«Sto per farmela sotto.» rivelò Nino.
In qualche modo, l’affermazione riuscì a sciogliere un po’ dell’ansia di Marinette, ma durò poco. Ricordare ogni dubbio che aveva nei suoi confronti fu facile, specialmente quando il verso riecheggiò una terza volta, poi una quarta ed una quinta. Ogni volta sembrava più vicino, ogni volta a Marinette sembrava di essere un po’ più esposta. Non c’erano posti in cui nascondersi, non c’era nulla con cui difendersi, non c’era Tikki ad indicarle cosa fare.
«Dov’è Wayzz?» domandò.
«Non ne ho idea.» rispose Nino. «Non l’ho visto, quando mi sono ritrovato qui.»
Marinette portò le dita ai lobi delle orecchie e scoprì che non aveva più gli orecchini, chiuse gli occhi per non lasciare che il panico la cogliesse, per calmare il battito del suo cuore che infuriava. Il verso dell’uccello risuonò tanto vicino da ferirle le orecchie, pensò che probabilmente l’aveva già sentito in qualche film o documentario, anche se non riusciva a ricordare bene che aspetto avesse. Il frullare di un paio d’ali le diede conferma di ciò che stava pensando, ma nel cercarne la provenienza ritrovò la figura che aveva visto parlare con Nino solo pochi minuti prima.
«La carovana sta arrivando,» disse la donna. «È stato il falco a condurla fin qui.»
Marinette la osservò bene, la pelle pallida mentre camminava piano verso di loro, c’era qualcosa che si muoveva sotto la sua ampia gonna, provocando un movimento delle pieghe totalmente innaturale. Avrebbe voluto chiederle cosa volesse da loro, ma lei non gliene lasciò il tempo.
«Abbiamo solo una richiesta e quando avremo ottenuto ciò che vogliamo ce ne andremo e sarà come se non fossimo mai stati qui.»
«Non mi sembra che siate così pacifici.» ribatté Nino.
«Non mi sembra che abbiamo fatto del male a nessuno di voi.» ribatté la donna.
Ogni suo passo ticchettava, la gonna era rigonfia nella parte posteriore, tanto che a Marinette parve che indossasse una crinolina; di certo non sarebbe stata la cosa più bizzarra.
«Non abbiamo nulla che possa interessarvi.» le disse Marinette.
Intrappolarli in delle allucinazioni, separarli e poi dire loro una cosa simile, la ragazza non riusciva a capire come avrebbero potuto pretendere che si fidassero.
«Possiamo restituirveli illesi, per questo io sono qui; per dimostrarvi che potete fidarvi, che non deve esserci per forza uno scontro.»
Qualcosa nella donna provocava un tremito particolare in Marinette; risvegliava in lei una sorta di paura ancestrale che non riusciva a definire bene. «Uno strano modo per dimostrarlo.» disse.
«Ho creato questi mondi per tenervi al sicuro, ma anche per farvi vedere cosa accadrebbe se dovesse accadere qualcosa a qualcuno di voi, se le vostre più grandi paure dovessero prendere vita. Non sarete in grado di liberarvene, non se non sarò io a permettervelo.»
Gli occhi neri scintillarono, Marinette afferrò la mano di Nino e lui la strinse.
«Ma noi siamo riusciti ad uscirne.» le fece notare il ragazzo.
La donna rise. «Ne siete fuori quanto lo eravate prima, anche questo posto è una mia creazione.» Seppure con un moto di delusione, Marinette fu felice che ciò significasse che forse c’era ancora una speranza che non l’avessero separata da Tikki, che in qualche modo avrebbe avuto ancora il modo di combattere, se fosse riuscita ad uscire da lì.
«Se davvero non vuoi combattere allora dimostra di essere in buona fede, lascia che ci svegliamo, lasciaci controllare con i nostri occhi che i nostri amici stanno bene.» propose Marinette.
«Mi sembra giusto, ma non è ancora il momento. La carovana è quasi qui.» le disse la donna, che li raggiunse. Il braccio era teso ad indicare le finestre sulle illusioni, il sorriso sul volto altrimenti inespressivo. Quando le passò accanto, Marinette riuscì a scorgere le piccole punte delle zampe da ragno emergere dalla gonna ad ogni passo. Il falco stridé ancora, sempre più vicino. «Nell’attesa vorrei invitarvi a vivere uno degli incubi dei vostri amici.»
Marinette aprì la bocca per domandarle cosa intendesse, ma l’improvvisa assenza del terreno sotto i suoi piedi glielo impedì e lei si ritrovò a precipitare, incapace di fermarsi ed aggrapparsi a qualunque cosa. Un nuovo mondo roteò attorno a lei, costruendo pezzo per pezzo le forme di una stanza a partire da un vortice confuso di oggetti deformati. Adrien era al centro della camera, legato al lettino.
«Adrien!» esclamò, incapace di trattenersi. Corse verso di lui e si chinò a scostargli la frangia dagli occhi, sperando in una sua reazione, ma lui rimase fermo a fissare ostinatamente il soffitto. Ladybug allentò la cinghia che gli bloccava la mano e tentò di rassicurarlo: «Ti porto fuori di qui.» gli disse. Sganciò la cinghia che gli premeva sul petto e gli girò attorno liberandogli anche ginocchia e piedi, poi liberò anche la mano rimanente e si soffermò ad osservare la cannula che lui aveva infilata nell’incavo del gomito, sfiorandola con la mano guantata. Non vi era attaccata alcuna flebo, ma Marinette dovette comunque sforzarsi di ricordare che quello che avevano fatto ad Adrien non era reale, prima di trovare il coraggio di afferrarla.
Fu allora che Adrien si sollevò e le afferrò il polso. «Smettila.» le disse. «Smetti di giocare con la mia testa, chiunque tu sia, qualunque cosa tu sia.»
«Di cosa stai parlando?» gli domandò. «Sono venuta a portarti via, mi dispiace averci messo tanto, ma ora sono qui.»
Cercò di avvicinarsi a lui, ma Adrien la spinse via.
«Tu sei morta! Tu sei morta!» ripeté.
Lei scosse il capo. «No! Sono viva, sono qui!»
«Vattene.» le disse.
All’improvviso, Marinette comprese che anche se tutto ciò che il ragazzo aveva vissuto non era reale, avrebbe rischiato di lasciargli ferite profonde nell’animo.
Tese un braccio per raggiungerlo, per fargli sentire il suo calore, qualunque cosa che potesse fargli capire che era davvero lei. «Non senza di te.»
Piuttosto che lasciarsi toccare, Adrien afferrò il tubo della flebo e le strinse la spalla, spingendola a voltarsi. Spiazzata, Ladybug non riuscì ad impedirgli di avvolgerle il tubo attorno al collo ed iniziare a stringere la presa per soffocarla.
«Lasciami stare! Tu non esisti! Non sei reale! Sei solo nella mia testa!» disse Adrien.
Ladybug s’irrigidì, si aggrappò al tubo, piegò le ginocchia per sfuggire al ragazzo, agitò le spalle sperando che questo gli facesse perdere la presa, mentre il bisogno di prendere fiato si faceva sempre più impellente. Mugolò e tremò, gli strinse i polsi usando la forza che le restava, cercò un appiglio per costringerlo a lasciarla andare finché la necessità di respirare fu tutto ciò che restava, prima che macchie scure iniziassero a danzare davanti ai suoi occhi e non ebbe più la forza di continuare. Nemmeno allora lui la lasciò andare, le braccia le scivolarono molli contro i fianchi mentre perdeva i sensi, provando una fin troppo realistica sensazione di morire.

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Capitolo 17
*** Il gioco del nemico ***


IL GIOCO DEL NEMICO

Il nuovo sogno di Marinette, se di sogno si trattava, iniziò con la sensazione di riemergere dalle acque più gelide e profonde dell’oceano. La pressione sul petto si dissipò ed un’enorme, limpida boccata d’aria fresca che le riempì i polmoni. Subito dopo, il bozzolo in cui era imprigionata si allentò e si allargò lasciandola scivolare verso il suolo a faccia in avanti.
Impegnata com’era a riprendere coscienza di sé, Ladybug ci mise alcuni secondi ad accorgersi della donna che aveva davanti. Ora che lei era investita dalla luce fievole che filtrava attraverso le numerose ragnatele, era ancora più pallida di quanto le era sembrata poco prima, con gli occhi ancora più scuri e vuoti e le zampe ben visibili attraverso la gonna leggera. Tutti attorno a lei, Ladybug poteva vedere i suoi amici che si districavano dai filamenti.
«Sono desolata.» disse la donna, ma sorrideva. «Mai avrei immaginato una reazione simile da parte del ragazzo.»
Marinette guardò Chat Noir, pallido ed incespicante mentre la fissava a sua volta con sguardo vacuo. Poi lui scosse il capo. «Non era reale. Non era reale.» disse.
La donna scrollò le spalle. «E invece temo proprio che lei lo fosse, così come lo è tutto questo, adesso.»
Questo sembrò peggiorare le cose, perché Chat Noir iniziò a tremare e crollò in ginocchio. Ladybug girò attorno alla donna ragno e si chinò al fianco del ragazzo, tese un braccio verso di lui, gli sfiorò una spalla e poi lo strinse a sé, lasciando che lui si aggrappasse a lei come se fosse la sua unica ancora di salvezza.
«Non importa. Qualunque cosa tu abbia visto o fatto non era reale, ok?» gli disse sottovoce.
Rena Rouge e Queen Bee si accovacciarono accanto a loro, solo Carapace rimase a qualche passo di distanza.
«Mi dispiace, perdonami.» continuava a ripetere Chat Noir, scosso dai singhiozzi.
Ladybug gli baciò il capo e gli spinse indietro i capelli con una mano. «Ti perdono, certo che ti perdono.» gli disse.
Era accaduto tutto talmente tanto velocemente che non era riuscita neanche a rendersene conto ed ora il ricordo era come un incubo troppo vivido che, sperava, prima o poi si sarebbe dissolto, liberandola da quel tremore che doveva trattenere al contatto delle mani di Chat Noir sui suoi fianchi. Sarebbe tornato tutto al suo posto e, fino a quando non fosse stato così, si sarebbe sforzata di fingere che lo fosse già.
La donna ragno li guardava ancora, il capo inclinato per studiarli al meglio, mentre restava immobile ad aspettare come se volesse lasciare loro tutto il tempo che gli serviva per riprendersi. Ladybug non poteva apprezzare un’accortezza simile da parte di chi li aveva ridotti così ed era certa che non volessero farlo neanche gli altri.
«Cosa vuoi?» le domandò.
«Qualcosa che non siete ancora disposti a darmi.» rispose lei.
Ladybug strinse i pugni, pronta a lasciare andare Chat Noir per alzarsi ed affrontarla, per dirle che l’aveva stufata, che era il momento di parlare chiaro, ma Rena Rouge la precedette.
«Basta giochetti, basta giri di parole, sarà meglio per te dirci cosa vuoi davvero.»
Probabilmente, nessuno di loro si aspettava che questo bastasse a convincerla.
«Sono colei che la carovana manda per prima nei mondi quando ha una richiesta, per dimostrare agli abitanti di essi che non c’è bisogno di combattere.» rispose lei.
C’era qualcosa nel modo in cui lei girava attorno alla risposta che infastidiva Ladybug – ed a giudicare da come stringeva i pugni, anche Queen Bee –, come se sapesse già che qualunque cosa avrebbe chiesto loro si sarebbero rifiutati di concederla. Probabilmente era così.
Ladybug premette un bacio sulla testa di Chat Noir, che pareva essersi calmato e si alzò, lui fu subito al suo fianco.
«No.» disse il ragazzo. «Qualunque cosa sia è no. Non dopo tutto quello che ci avete fatto.»
La donna rise. «Non avete molta scelta, posso tenervi qui finché non lo accetterete, posso creare migliaia di mondi e non sarete mai in grado di sapere se siete svegli o no. Posso ferirvi ripetutamente ed in mille modi diversi, convincervi di stare per crollare, di essere già a pezzi, di stare per morire o di dovervi uccidere a vicenda per sopravvivere.»
Eccolo, il suo vero volto, pensò Ladybug. Era un ricatto, un semplice metterli nelle condizioni di non poter fare altro che concedere a lei ed alla carovana ciò che volevano, ma lei non aveva paura e le sembrava che non ne avessero neanche gli altri, poteva dar loro la sua forza e prendere in cambio la loro in un ciclo infinito per non arrendersi mai. Insieme avrebbero potuto superare tutto. Strinse lo yo-yo e si preparò all’attacco; la donna ragno non avrebbe accettato pacificamente il loro no, ne era più che certa.
«Potrai creare migliaia di mondi, ma noi riusciremo ad uscirne ogni volta.» le disse.
«Davvero credi che ne siate riusciti ad uscire da soli?» domandò la donna. «Io ho scelto quando svegliarvi, quando permettervi di incontrarvi, quando dovevate essere così deboli da poter essere uccisi.»
Ladybug ebbe un sussulto, gli occhi della donna erano puntati dritti verso di lei. «Normalmente avresti potuto salvarti, non ci hai pensato? Ma la mia illusione ti ha portata a credere che non ne avessi la forza e non ci hai neanche provato davvero.»
Poi fece un cenno verso Chat Noir, che era impallidito ancora. «E tu hai visto cosa sono in grado di fare, cosa posso fare vivere a tutti voi per il resto della vostra vita. Volete davvero rischiare di essere distrutti solo per non essere stati ragionevoli fin dall’inizio?»
Ladybug guardò il ragazzo, gli occhi erano ancora arrossati sotto la frangia arruffata, la schiena china in avanti come se non fosse ancora totalmente in sé. Poche volte l’aveva visto così spossato, così poco presente; era quasi come se avesse lasciato parte di sé nell’illusione o non fossa ancora certo di esserne davvero uscito. Nella linea tesa della mascella, Ladybug leggeva tutta la diffidenza che lui stava provando e la percepiva quasi come se fosse sua.
«Non ci hai ancora detto cosa volete.» disse lui.
«La combattente della coccinella rappresenta la creazione, è la fonte di magia più potente di questo mondo, vogliamo lei.» disse la donna ragno.
Prima ancora che Ladybug si rendesse conto che stava parlando di lei, Chat Noir le sfrecciò accanto talmente velocemente che percepì solo la sua scia scura. La coda del ragazzo sferzò l’aria mentre lui saltava verso la donna ringhiando.
«Mai!» lo sentì urlare.
Sgranò gli occhi, quando lui passò attraverso di lei ed incespicò fino ad urtare contro la parete di fondo. Il cuore iniziò a batterle forte nel petto; ora che la realizzazione aveva fatto presa lo sentiva pulsare fino a dentro le orecchie. Rena Rouge e Carapace furono subito al suo fianco, le armi sguainate per difenderla ed i volti contratti.
«Non prenderai Ladybug.» disse Chat Noir, gli altri rimasero in silenzio. «Dovrai prima passare sul mio cadavere.»
La donna gli sorrise. «Sono certa che lei preferirebbe che non accadesse, quindi saltiamo questa parte e passiamo al momento in cui lei accetta il patto.»
La donna si fece avanti, Ladybug indietreggiò istintivamente, Carapace e Rena Rouge rimasero fermi tra loro per impedirle di raggiungerla, ma lei sembrava quasi aver perso interesse.
«Immagino che i giochi non siano ancora durati abbastanza, allora.» disse. Svanì nel nulla, lasciandoli soli all’improvviso, a cercare di capire come uscirne illesi.

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Capitolo 18
*** Labirinto ***


LABIRINTO

Ladybug rimase per alcuni istanti a fissare il punto in cui la donna ragno era svanita, il cuore le batteva forte contro il petto ed il respiro le si fermò all’altezza della gola come se qualcosa lo stesse trattenendo. Si voltò verso gli amici, temendo di veder sparire anche loro, e mise a fuoco a fatica i loro volti altrettanto preoccupati.
Le dita di Chat Noir scivolarono tra le sue, il ragazzo le strinse la mano; Ladybug sapeva che voleva farle capire che non avrebbe lasciato che la portassero via, che avrebbe lottato per lei fino alla fine, anche se ancora non riusciva a guardarla in faccia e non era ancora riuscito a smettere di tremare.
«Ti portiamo fuori di qui.» disse Queen Bee.
Ladybug si domandò se potesse servire davvero, ma non si oppose, guardò l’amica ed annuì, ma Chat Noir la strinse a sé e scosse il capo.
«No.» disse il ragazzo, spingendo via Queen Bee.
Ladybug li scrutò entrambi; erano faccia a faccia, i capelli di lui quasi si sollevarono come i peli di un gatto pronto a soffiare, le sue spalle rigide la intimorirono. Era una muraglia che la teneva ben separata da Queen Bee.
Lei sollevò le mani, forse sperando che questo potesse calmare l’amico, ma lui non fece altro che ringhiarle contro.
«Chatikins? Che diavolo ti prende?» gli domandò.
Lui non le rispose, sguainò il bastone, lo allungò verso di lei per allontanarla e disse: «Lei non è chi dice di essere.»
Ladybug si chiese cosa intendesse, guardò l’amica, rimasta immobile ad occhi sgranati, forse impaurita dal modo in cui Chat Noir si stava comportando. Rena Rouge si fece avanti per prima, per capire cosa significasse.
«Cosa intendi? È Queen Bee.» disse.
Ma lui scosse il capo, con la mano stretta attorno a quella di Ladybug tanto forte da fermarle il sangue e farle formicolare le dita.
«Lei non è Queen Bee, è una trappola.» spiegò. «Ci sta imbrogliando, vuole portarti via.»
Ladybug la guardò; i capelli biondi legati nella solita coda, gli occhi azzurri che scintillavano per il timore di quello che Chat Noir aveva detto, le mani sollevate quasi in segno di resa.
«Chat Noir,» disse Ladybug «Metti via il bastone.»
Lui scosse il capo e quando Carapace fece un passo verso di lei gli puntò contro la sua arma. «Stai lontano, non le permetterò di farlo.»
«Chat Noir...» ripeté Ladybug.
Lui la tenne dietro di sé e spinse gli altri lontani. «Credeva di prenderci in giro mescolandosi con noi, ma non mi lascerò ingannare.» spiegò.
Allora Ladybug capì; dove lei vedeva Queen Bee, Chat Noir vedeva il nemico, la donna ragno lo aveva trascinato in un’altra illusione ed ora spettava a lei risvegliarlo prima che lui facesse qualcosa di cui si sarebbe pentito. Gli afferrò il polso con l’altra mano e lo tirò indietro.
«Quello che vedi non è reale, vuole farti combattere contro i tuoi amici.» gli disse.
Ma lui non si voltò, rimase sull’attenti e la strinse più forte. «È quello che vogliono farti credere.» disse.
Fece un balzo in avanti sollevando il bastone, poi lo calò verso Queen Bee, che si fece di lato appena in tempo. Rena Rouge, nello stesso momento, portò il flauto alle labbra ed iniziò a suonare, materializzando numerose versioni di Queen Bee.
Chat Noir strinse il bastone con entrambe le mani, sembrava che nulla fosse in grado di distrarlo e farlo rinsavire. Ladybug fece un passo avanti per fermarlo, ma prima che riuscisse ad afferrargli la coda una parete di ragnatele si innalzò tra loro, lasciandola isolata dagli altri.
Ladybug si fermò appena in tempo per non finire impigliata e sbatté gli occhi, attorno a lei tutto era tranquillo all’improvviso; non sentiva nessuno dei suoi amici, non poteva sapere se Chat Noir avesse colpito Queen Bee o se Rena Rouge fosse riuscita a farlo ragionare. Si guardò attorno, conscia che doveva ritrovarli al più presto. Fece un giro su sé stessa per decidere quale tunnel imboccare, ma sapeva che ognuno di essi avrebbe potuto condurla da loro oppure nella direzione opposta; le probabilità erano cinquanta e cinquanta.
Scelse il tunnel più vicino alla parete appena comparsa, anche se era consapevole che l’eventualità che non svoltasse deviando e sviandola erano basse, corse con lo yo-yo stretto in mano, pronta a difendersi da qualunque cosa si fosse trovata davanti, immaginando il momento in cui avrebbe dovuto essere costretta ad usarlo per immobilizzare Chat Noir per impedirgli di attaccare Queen Bee e chiunque altro.
Presto iniziò a sentire le voci degli amici, Chat Noir che gridava contro Queen Bee, lei che lo supplicava di fermarsi, il suono del flauto di Rena Rouge e le implorazioni di Carapace che cercava di far ragionare Chat Noir. Cercò di seguirle, ma esse sembravano provenire da diversi corridoi e lei non riuscì a decidere quale imboccare, quindi rimase immobile a prendere fiato.
Le parole di Carapace divennero più chiare e riecheggiarono attorno a Ladybug. «Amico, datti una calmata.» stava dicendo.
Il sussulto che seguì fece intuire a Ladybug che lui non gli aveva dato ascolto. Forse, si disse, se avesse trovato la donna ragno e l’avesse distratta abbastanza lo stato allucinatorio in cui Chat Noir era caduto sarebbe svanito, ma dubitava fortemente che lei si sarebbe fatta vedere presto.
Fece roteare lo yo-yo, pensando a cosa sarebbe successo se lo avesse scagliato contro la parete di ragnatele. Si sarebbe impigliato oppure le avrebbe aperto un varco permettendole di crearsi da sola una strada? Si preparò a chiamare il suo portafortuna, domandandosi cosa si sarebbe trovata tra le mani, ma aveva appena piegato il braccio per lanciare in aria il suo yo-yo quando Rena Rouge emerse da un corridoio al suo fianco e si fermò per guardarla ad occhi sgranati.
Ladybug lasciò oscillare lo yo-yo contro il fianco e le sorrise, prese fiato e sbatté gli occhi, ma il volto dell’amica era impassibile come una maschera di cera ed i suoi occhi erano cupi, le pupille nere e scintillanti come quelle della donna ragno.

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Capitolo 19
*** Quando la carovana chiama ***


QUANDO LA CAROVANA CHIAMA

Qualcuno afferrò Ladybug alle spalle e quando lei si voltò trovò Chat Noir a fissarla.
«Andiamo.» le disse il ragazzo afferrandole la mano.
Lei lasciò che la trascinasse via, Rena Rouge invece rimase ferma dov’era, con le braccia abbandonate contro i fianchi. Il suono del suo flauto ancora riecheggiava tutto attorno a loro, ma l’ultima cosa che Ladybug aveva visto di lei era il ghigno sadico che le aveva illuminato il viso all’arrivo di Chat Noir.
Qualcuno, da qualche parte, stava borbottando qualcosa, le sue parole si mescolavano le une alle altre diventando incomprensibili; seguivano un ritmo che le faceva apparire come una litania e Ladybug rabbrividì nel sentirle. Chat Noir correva ancora e la trascinava con sé, quindi non poteva permettere che la distraessero, ma le voci si fecero sempre più vicine, era impossibile definire da dove provenissero, quasi sembravano grida quando Chat Noir si fermò all’improvviso e si voltò a guardarla, gli occhi scuri e le labbra contratte.
«Tranquilla, mia signora, nessuno ti porterà via.» le disse.
Le lasciò la mano e sollevò la propria, Ladybug ebbe un sussulto che le fece dolere il petto, il cuore batté forte contro la cassa toracica.
«Cataclisma!» esclamò Chat Noir.
Ladybug rimase immobile a guardare, lui premette il palmo avvolto dall’oscurità scoppiettante sulla parete accanto a loro, quella iniziò a sfaldarsi ed a crollare a pezzi liberando un passaggio verso l’esterno. Da dov’era, Ladybug riusciva a vedere il blocco organizzato dai poliziotti, le luci intermittenti delle volanti e l’agente Roger che le faceva cenno di raggiungerlo.
Chat Noir la spinse verso l’esterno, costringendola a precederlo, ma la sua presa sul suo braccio si allentò all’improvviso e lui rimbalzò indietro; Carapace lo spinse a terra e non gli permise di rialzarsi. «Non andare! È una trappola!» le disse il ragazzo.
Sotto gli occhi di Ladybug, ciò che avevano attorno mutò; il passaggio in cui si stava per infilare per uscire era diventato una superfice rilucente ed ondeggiante oltre la quale poteva vedere un’enorme corridoio decorato con colonne e cristalli, la pelle di Chat Noir si sciolse per rivelare un volto sconosciuto, mentre del nero della sua tuta non rimasero che intarsi e decori di un’armatura leggera indossata da un estraneo.
«Volevano spingerti ad andare con loro con un tranello.» disse Carapace.
Ladybug deglutì, si allontanò dal varco ed inspirò forte. «Dobbiamo farli smettere.» disse.
Lo sconosciuto era rimasto a terra, chino a faccia in giù e con le spalle tremanti; Ladybug non riusciva a vedere il suo volto, ma presto realizzò che l’uomo stava ridendo di loro.
«È la carovana,» le spiegò Carapace. «Rena Rouge, Chat Noir e Queen Bee stanno tenendo impegnati gli altri.»
Carapace le indicò uno dei corridoi, forse quello da cui era arrivato, e Ladybug lo imbocco e corse senza neanche controllare che lui la stesse seguendo. Sbucò in un ampio antro in penombra e si fermò immediatamente, la donna ragno la aspettava lì e sorrideva, di Carapace non vi era più traccia. Ladybug fece roteare lo yo-yo un paio di volte, poi lo lanciò contro la donna e la prese per una delle zampe pelose. La trascinò verso di sé con uno strattone, bramosa di colpirla per farle capire che non avrebbe mai ottenuto nulla da loro, ma nel momento in cui tirò indietro il piede per tirarle un calcio anche lei cambiò forma e all’improvviso al suo posto c’era Rena Rouge. Ladybug scosse il capo e portò una mano alla bocca.
«Mi dispiace.» disse «Mi dispiace tanto.»
Qualcuno, attorno a lei, rise e la voce della donna ragno risuonò nella sua testa rimbombando. «Puoi fermarlo quando vuoi.» le disse.
Ladybug scosse il capo, trattenne le lacrime e strinse i pugni mentre Rena Rouge si alzava. La vide piegarsi in avanti, guardarla come se non la conoscesse e stringere i denti.
«Rena Rouge...» disse, ma l’amica la spinse via.
«Smettila!» disse «Lasciaci andare!»
Con un rantolo, Ladybug si rese conto che, come lei aveva visto Chat Noir invece che lo sconosciuto, probabilmente anche Rena Rouge stava vedendo qualcuno che non era lei e non aveva idea di come farla rinsavire.
«Sono io, sono Ladybug!» le disse, sollevando le mani in segno di resa.
Rena Rouge, però, impugnò il flauto con entrambe le mani e lo sollevò come se volesse tirarglielo in testa. Spiazzata, Ladybug esitò un istante di troppo e quasi incrociò gli occhi nel vedere l’oggetto calare verso di lei. Serrò le palpebre, ma il colpo non arrivò mai; Rena Rouge gemette e quando Ladybug ebbe il coraggio di guardarla ancora la vide a terra.
Era di nuovo nel punto da cui era partita, Chat Noir aveva spinto Queen Bee in un angolo, Carapace si guardava attorno atterrito, ma non sembrava che fosse a causa della dozzina di persone disposte in circolo tutte attorno a loro. Ladybug fece scorrere frettolosamente lo sguardo sui loro volti pallidi, sui vestiti sfolgoranti e colorati che risaltavano contro il biancore delle ragnatele; ricordava ciò che il finto Carapace le aveva detto sulla carovana ed il modo in cui la donna ragno ne aveva parlato, ma non sapeva dire se si fossero presentati perché lei e i suoi amici stavano facendo più resistenza del previsto oppure perché era semplicemente ciò che facevano sempre.
Sfinita, si rassegnò e dover trovare un modo per farla finita in fretta, allora strinse tra le dita lo yo-yo e lo lanciò in aria, richiamando il suo Lucky Charm. L’oggetto che le cadde tra le mani era un piccolo disco scarlatto, leggermente bombato su entrambe le facce e trasparente come una lente di ingrandimento di vetro rosso; al suo interno una serie di puntini simili a stelle orbitavano e scintillavano gli uni accanto agli altri. Confusa, Ladybug si guardò attorno per capire come usarlo.
La vista di Chat Noir che tentava di graffiare Queen Bee le provocò una morsa allo stomaco tanto forte da darle la nausea, Rena Rouge era rimasta nel punto in cui era stata spinta via, una delle donne della carovana aveva lasciato il suo posto nel cerchio e le sussurrava all’orecchio qualcosa che pareva avere il potere di calmarla. Carapace era ancora fermo e non sembrava accorgersi di nulla di ciò che stava accadendo attorno a loro.
Forse, pensò Ladybug, avrebbe potuto tirare il disco in testa alla donna ragno; avrebbe potuto esserci una minima possibilità che percepire il dolore le facesse sciogliere l’incantesimo in cui erano intrappolati lei e i suoi amici. Come se l’avesse sentita, la donna le arrivò alle spalle e Ladybug sollevò il disco pronta a colpirla, ma lei fu svelta e le afferrò il polso. Il tocco di quella mano gelida e la vista degli artigli scuri così vicini al proprio volto fece sussultare Ladybug.
«E se fossi qualcun altro?» le domandò.
Davanti agli occhi di Ladybug, la donna prese le sembianze di Chloe, poi di Nino, di Alya e di Adrien. Senza le loro maschere i suoi amici le sembrarono molto più vulnerabili, il volto di Adrien rimase chiaro più degli altri, come se la donna ragno sapesse che per lui avrebbe fatto qualunque cosa. Dopo alcuni istanti svanì anche lui.
«Qualunque colpo, anche il più mortale, potrebbe essere indirizzato ad ognuno di loro.» disse la donna ragno.
Ladybug sentì Nino urlare dal dolore, Rena Rouge l’aveva colpito in testa con il suo stesso scudo ed ora lui era pronto ad affrontarla.
«Si uccideranno a vicenda.» le fece notare la donna.
Ladybug scosse il capo. «Siamo più forti di quello che credi, possiamo difenderci.» disse, ma ormai il terrore l’aveva travolta, la sensazione di essere impotente la stava divorando impedendole di trovare spazio per qualunque altra cosa.
La donna ragno sorrise. «Probabilmente sì, ma sai chi non sarà in grado di difendersi?» le domandò. Si tese verso di lei e Ladybug dovette serrare le palpebre per sforzarsi di non indietreggiare. Il fiato della nemica, quando parlò, le sfiorò l’orecchio e il collo facendola rabbrividire.

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Capitolo 20
*** L'ultima offerta ***


L’ULTIMA OFFERTA

Chat Noir fece scivolare le dita tra quelle di Ladybug e le strinse la mano; avrebbero dovuto ucciderlo, prima di riuscire a portarla via.
«Ti portiamo fuori di qui.» disse Queen Bee.
Il ragazzo stava quasi per assecondarla, quando notò che gli occhi di lei erano una pozza di oscurità. «No.» disse allora, irrigidendosi.
La spinse via e spinse Ladybug dietro di sé, poi digrignò i denti alla vista della falsa Queen Bee che sollevava le mani in segno di resa.
«Chatikins? Che diavolo ti prende?» gli domandò lei.
Chat Noir non le rispose e sguainò il bastone, allungandolo per allontanarla. Voleva mettere più spazio possibile tra loro, impedirle di avvicinarsi troppo.
Stai cercando di fregare la persona sbagliata, pensò.
«Lei non è chi dice di essere.» spiegò a Ladybug. Sentiva la sua confusione, ma non le disse nulla finché lei non gli domandò direttamente:
«Cosa intendi? È Queen Bee.»
Scosse il capo e le strinse la mano ancora più forte, spaventato dall’idea che potesse sfuggirgli. Non gli importava se non riusciva a vedere che Chloe non era davvero lei, perché avrebbe pensato lui a proteggerla.
«Lei non è Queen Bee, è una trappola.» spiegò. «Ci sta imbrogliando, vuole portarti via.»
Ma Ladybug ancora non riusciva a vederlo.
«Chat Noir,» gli disse «Metti via il bastone.»
Chat Noir scosse il capo, ora anche Carapace aveva gli occhi della falsa Queen Bee e si stava avvicinando, gli puntò contro il bastone per costringerlo a fermarsi.
«Stai lontano, non ti permetterò di farlo.»
«Chat Noir...» ripeté Ladybug.
La tenne dietro di sé e spinse agli altri lontani. «Credeva di prenderci in giro mescolandosi con noi, ma non mi lascerò ingannare.» le disse.
Dopo qualche secondo di esitazione, Ladybug lo tirò indietro.
«Quello che vedi non è reale, vuole farti combattere contro i tuoi amici.» gli disse.
Ma lui non si voltò a guardarla, perché ogni minima distrazione sarebbe potuta costargli cara. «È quello che vogliono farti credere.»
Fece un balzo in avanti sollevando il bastone, poi lo calò verso Queen Bee, che lo schivò. Rena Rouge, nello stesso momento, portò il flauto alle labbra ed iniziò a suonare, materializzando numerose versioni di Queen Bee.
Chat Noir strinse il bastone con entrambe le mani, ma Carapace gli lanciò contro il suo scudo e quello gli sfuggì di mano, dando il tempo a Queen Bee e Rena Rouge di affiancarsi.
Si rese conto all’improvviso di essere solo contro tre repliche perfette dei suoi migliori amici, Ladybug era rimasta immobile dietro di lui; non sembrava avere intenzione di aiutarlo, ma non dava neanche più cenni di volerlo fermare. Probabilmente, si disse Chat Noir, aveva capito quello che stava succedendo e stava pensando ad un modo per risolvere la situazione.
Per qualche ragione, Carapace e Rena Rouge si fecero da parte, lasciandolo solo contro la falsa Queen Bee. Ora il volto della ragazza sembrava ricoperto di cera liquida, le gocce scivolavano lungo le guance e giù per il collo rivelando il viso pallido della donna ragno.
Lo sapevo, si disse Chat Noir.
Fece un balzo verso il punto in cui il bastone gli era volato e ruotò a mezz’aria afferrandolo al volo, quando si rimise in piedi colpì la donna ragno al fianco e lei cadde a terra con un gemito, ma si rialzò immediatamente.
Mentre lei si ricomponeva, Chat Noir cercò Ladybug con lo sguardo. Sembrava che la falsa Rena Rouge l’avesse raggiunta, ma lei finalmente gli credeva, perché le lanciò contro lo yo-yo e diede uno strattone per farla finire a terra.
Sapeva che la ragazza avrebbe potuto cavarsela da sola, allora spinse la donna ragno in un angolo, le ringhiò contro e si domandò se avrebbe potuto usare il cataclisma contro di lei. Sarebbe stato considerato un omicidio? Quanto ci poteva essere di umano in lei perché lo fosse?
Sentì la voce di Ladybug che chiamava il suo porta fortuna, allora sorrise pensando che presto tutto sarebbe finito e che avrebbe dovuto solo darle il tempo per capire come usare ciò che si era ritrovata tra le mani. Solo allora Chat Noir notò gli uomini e le donne che erano comparsi tutti attorno a loro, realizzando che all’improvviso erano di nuovo in svantaggio e che forse avrebbe dovuto tenere anche loro lontani da Ladybug.
La falsa Rena Rouge era a terra, una donna lasciò il suo posto nel cerchio e le si inginocchiò accanto. Carapace, invece, era immobile e smarrito come non l’aveva mai visto prima di allora.
«Credi davvero di poter vincere contro di me?» domandò la donna ragno.
Chat Noir digrignò i denti, era stanco dei suoi giochetti e dei suoi trucchi da quattro soldi, pensò che probabilmente ucciderla sarebbe stata l’unica soluzione; era disposto a convivere con quel peso.
Agitò le dita con un’ultima esitazione, poi sollevò la mano e dischiuse le labbra per richiamare il suo potere, ma proprio in quel momento la donna ragno sparì, lasciando al suo posto una Queen Bee che, ancora a terra, lo guardava con gli occhi sgranati ed umidi di lacrime. Il suo volto era pallido e teso, Chat Noir si fece indietro, di nuovo incerto su cosa fosse reale e cosa no. Si guardò attorno e allora la vide; la donna ragno, quella vera, era faccia a faccia con Ladybug e le stava sussurrando qualcosa all’orecchio.
A causa dei batti tuonanti del proprio cuore, Chat Noir non riuscì a percepirne le parole, ma quando la donna si allontanò da Ladybug non riuscì a non vedere il terrore nei suoi occhi.
Fece un passo per raggiungerla, ma lei gli fece cenno di fermarsi e lui obbedì.
«Adrien...» sussurrò lei.
Non aveva mai usato il suo vero nome durante uno scontro, a meno che non fosse davvero stravolta e spaventata, allora fece un altro passo verso di lei, ma gli uomini e le donne che fino ad allora erano rimasti immobili avevano rotto il cerchio si stavano disponendo in fila tra loro bloccandogli la strada. Chat Noir non si accorse di Rena Rouge, Carapace e Queen Bee finché non furono al suo fianco; li vide impugnare le armi con la coda dell’occhio e sospirò, domandandosi dove fossero finite le loro copie e dove fossero stati fino ad allora.
«Lasciatela andare.» disse, guardando la donna ragno fissa negli occhi.
Ma Ladybug scosse il capo, spiazzandolo.
Il verso di un corvo gli rimbombò nelle orecchie, l’uccello sfrecciò sulle loro teste spuntando dal nulla e volò in circolo su di loro un paio di volte, poi andò a posarsi su uno degli uomini in fila davanti a loro e spalancò le ali. Il cerchio di luce si aprì e vibrò alle spalle della donna ragno, la superficie si increspava come onde, lasciando intravedere un miscuglio di colori vibranti e forme indistinte.
«L’incarnazione della creazione ha accettato il nostro invito.» affermò la donna ragno.
Chat Noir scosse il capo, incredulo, saltò avanti solo per essere fermato dalle spade sguainate dei cavalieri che lo separavano da Ladybug.
«Fermi! Vi prego!» supplicò lei. Si sporse verso di lui, tese le braccia per raggiungerlo, ma la donna ragno la afferrò per le braccia e la trascinò verso il varco.
Ladybug cercò di impedirglielo, si agitò e tentò di allontanarla. «Aspettate! Lasciate solo che gli spieghi!»
Chat Noir provò a raggiungerla, ma una vecchia scivolò davanti a lui e sollevò una parete di ghiaccio per impedirglielo. Il ragazzo non si fermò, pensando che non si sarebbe più fatto fregare da delle stupide illusioni, ma l’impatto con la superficie gelida fu doloroso e per nulla immaginario.
«Spostati di lì!» gli ordinò Queen Bee. Lui si fece da parte appena in tempo per non essere colpito in pieno dalla trottola della ragazza, che rimbalzò indietro lasciando sul ghiaccio un solco non abbastanza profondo da farlo crollare.
Premette le mani contro la parete, attraverso essa vedeva ciò che stava accadendo dall’altra parte e non poteva impedirlo. Il vecchio guidò Ladybug verso il varco e lei si lasciò trascinare senza smettere di guardarsi indietro, poi svanirono entrambi.
Anche gli altri li seguirono, Chat Noir spinse Carapace lontano dalla parete di ghiaccio e strinse il pugno. «Cataclisma!» gridò. Premette il palmo sul ghiaccio e si infilò tra i suoi frammenti che cadevano a terra, ignorandoli quando gli arrivavano addosso e lo colpivano graffiandolo e ferendolo. Si fece largo tra essi, ma quando riemerse dall’altra parte solo la donna ragno era rimasta nell’antro. Sembrava aspettarlo e, quando le fu davanti, Chat Noir si sentì all’improvviso pesante come un macigno.
«Non smetterai mai di cercarla, vero?» gli domandò lei.
Non le rispose, ma era così. Non avrebbe avuto pace finché non l’avesse riportata a casa ed avrebbe fatto qualunque cosa pur di riuscirci. Lanciò un’occhiata agli amici, stavano di nuovo combattendo, ma questa volta contro qualcosa che lui non riusciva a vedere.
«Voglio farti un ultimo dono, prima di andare.» disse la donna. «Per aiutarti a sopportare la separazione e dimostrarti che non siamo i cattivi.»
Lei sollevò le braccia e premette le dita contro la sua nuca, Chat Noir provò a muovere il capo per divincolarsi, ma non ci riuscì. Si sentiva come una statua di pietra e sapeva che era colpa di lei.
Qualunque cosa volesse donargli, Chat Noir era certo di non volerla; la donna ragno aveva giocato con lui e con i suoi amici, gli aveva portato via l’amore della sua vita ed ora gli stava impedendo di raggiungerla, l’unica cosa che voleva era ucciderla e costringerla a restituirgli Marinette ed a lasciarli andare. Continuò a ripetersi che la odiava, ma al contrario del suo corpo la mente stava diventando sempre più leggera, le sue preoccupazioni svanivano una dopo l’altra mentre il suo passato si frammentava e lui iniziava a far fatica a mettere a fuoco molti ricordi del suo passato. Era come se la donna ragno gli stesse svuotando il cervello e lui non aveva intenzione di permetterglielo. Sollevò un braccio, ci volle tutta la sua forza di volontà e fu come tirar su un macigno, ed afferrò il polso di lei, desiderando di poter usare anche una volta il cataclisma. Avrebbe dato qualunque cosa, in quel momento, per poterla uccidere, per fermarla e poter seguire Ladybug. Vi si concentrò così tanto che non sentì nemmeno il palmo formicolargli, il desiderio di vederla morta soffocava qualunque altra cosa, poi la sentì urlare e tutto il peso del suo corpo svanì, permettendogli di cadere in ginocchio e prendere fiato, mentre la donna si riduceva in polvere davanti a lui.
Chat Noir rimase a fissare la cenere nera che si ammucchiava proprio davanti alle sue ginocchia, stupido dal fatto di esserci riuscito davvero, sentì gli amici fermarsi dietro di lui, poi raggiungerlo, ma lui non riusciva a smettere di sentire l’urlo straziante della creatura che aveva ucciso. Il portale si chiuse davanti a lui.
«È troppo tardi.» esclamò Queen Bee.
Rena Rouge si fermò dove era stato il portale appena pochi secondi prima e si voltò a guardarlo. «Perché non sei entrato? Avresti fatto in tempo a raggiungerli.» gli disse.
Chat Noir si chiese cosa intendesse. «Raggiungerli?»
«Amico, hai preso una bella botta in testa?» domandò Carapace. «Quelli hanno preso Ladybug.» Ma Chat Noir ancora non capiva. «Ladybug?»
Carapace aprì la bocca per ribattere, ma Queen Bee lo fermò. «Ladybug.» disse. Poi abbassò la voce per timore che la sentissero. «Marinette.»
Chat Noir era confuso. «Chi?»


***

Ci vediamo tra una settimana con l’epilogo; per eventuali spoiler o notizie visitate la pagina Facebook Miraculous Backstage & ZAG Heroez Italy

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Capitolo 21
*** Epilogo ***


EPILOGO

Chat Noir atterrò sul tetto della panetteria dopo la mezzanotte; non aveva voluto parlare con nessuno dell’enorme vuoto che sentiva da quando, la settimana prima, lui e i suoi amici avevano incontrato ed affrontato la donna ragno e la carovana. Aveva fatto finta di nulla, affermando che non gli importasse di aver dimenticato Marinette Dupain-Cheng ed in parte questa era la verità. Non c’era nulla che lo spingesse a star male per l’assenza di una persona che per lui non era mai esistita, ma sentire Alya parlare di lei e del modo in cui si amavano gli faceva desiderare ogni giorno di più di poter ricordare di un sentimento simile.
Dischiuse con cautela la botola che aveva davanti, chiedendosi quante volte l’avesse già fatto negli ultimi anni, e vi scivolò dentro per atterrare sul materasso soffice. La stanza era ampia, riusciva a vederla bene anche al buio, ma nulla di ciò che aveva davanti gli suscitava alcun ricordo. Si stese, restando a fissare il cielo nero attraverso l’apertura della botola, annusando il profumo di biscotti e pane fresco che arrivava dai piani inferiori e chiedendosi se addormentandosi sarebbe riuscito a sognare Marinette.
Non ricordava il suo viso, la sua voce o il calore della sua pelle, nemmeno ciò che provava ogni volta che stava con lei, ma era certo che fosse mille volte meglio del lieve piacevole tepore che sentiva restando semplicemente disteso nel suo letto in quella stanza.
Sollevò un braccio sopra la testa, trovandosi tra le dita la zampa di un peluche imbottito. Lo sollevò per guardare cosa fosse ignorando il tonfo di qualcos’altro che era caduto sul materasso; il peluche era un bizzarro gatto di stoffa che avrebbe potuto averle regalato lui; sarebbe stato alquanto ironico e geniale, a pensarci. Lo mise di lato, cercando a tentoni l’altro oggetto.
Era un portafoto, dovette sollevarsi e spostarlo direttamente sotto la luce della luna per riuscire a vedere chi vi fosse nella foto e scoprì che c’erano tutti i suoi amici; Marinette era sorridente al suo fianco. Adrien non era affatto stupito di scoprire di essere stato innamorato di una ragazza così; vedere il suo sorriso fu come mandare giù un sorso di acqua fresca dopo una lunga passeggiata nel deserto anche se non ricordava nulla di lei, l’aveva scoperto negli ultimi giorni trovando le sue foto in camera e probabilmente era questo che l’aveva spinto ad intrufolarsi a casa sua.
Mise via la foto e ripensò a quello che Alya gli aveva detto nella speranza che riuscisse a ricordarla, di come riempiva un diario dopo l’altro dei suoi pensieri e degli appunti di ciò che era successo durante le sue giornate e di come aveva tenuto tutti i bigliettini che lui le aveva passato da quando si erano fidanzati. Si domandò se cercare i diari e leggerli sarebbe stata una violazione della sua privacy, non ricordava se lei fosse il tipo di persona da arrabbiarsi e non rivolgergli più la parola per questo, ma ora quelle pagine erano l’unico modo in cui potesse scoprire qualcosa di lei.
Scese dal soppalco e studiò la camera, vide il manichino abbandonato nell’angolo, la macchina da cucire, il vecchio divanetto su cui forse avevano passato i pomeriggi a baciarsi. Trovò il diario in uno dei cassetti; era chiuso con un lucchetto, ma lui confidava che Plagg sarebbe riuscito ad aprirglielo anche senza avere la chiave. Sotto il diario c’era una vecchia scatola di legno dall’aria importante con sopra dipinte delle rose rosa. La strinse tra le mani e cercò di tirarla fuori, ma quella era troppo grande e si bloccò contro il bordo del cassetto superiore. Per sfilarla, Chat Noir dovette muoverla e poi dare uno strattone; non si aspettava che sarebbe saltata fuori dal cassetto all’improvviso, allora rimbalzò indietro e quella gli cadde di mano, ruotò su sé stessa ed atterrò sul pavimento. Rimase in silenzio per alcuni istanti per assicurarsi che nessuno avesse sentito e stesse salendo a controllare cosa fosse accaduto e solo quando ne fu certo sollevò la scatola. Il coperchio doveva essersi rotto per l’urto, perché rimase a terra e dalla scatola caddero numerosi post-it che si dispersero per terra senza che lui potesse farci nulla. Qualcuno di essi si rigirò, qualcuno era scritto da entrambi i lati, Chat Noir riconobbe la propria scrittura e ne sollevò alcuni per leggere cosa vi avesse scritto.
“Per la rosa più bella di tutta Parigi, l’appuntamento perfetto è al giardino botanico. Ti aspettò lì domani alle sedici.” , diceva uno.
Alcuni riportavano smielate poesie in rima che non faticava a credere di aver scritto, altri le chiedevano semplicemente di incontrarsi da qualche parte oppure la paragonavano in qualche modo a numerosi dolci che non ricordava di aver mai assaggiato.
“C’è chi a San Valentino vuole il cioccolato, io mi accontento di poter restare a guardare una Coccinella fortunata” , diceva un altro.
“Volevo solo farti sapere che ti ho procurato un biglietto per il backstage della prossima sfilata”, oppure “So che ti ho vista appena stamattina ma già mi manchi, ringrazia Nino per aver passato il messaggio.”
Rimise i biglietti al loro posto, ammucchiandoli come poteva per farli rientrare nella scatola manciata dopo manciata. Avrebbe portato a casa anche loro ed avrebbe cercato nei suoi cassetti una scatola simile, nel caso anche lui avesse tenuto da qualche parte i bigliettini di Marinette come fossero una reliquia. Mise l’ultimo bigliettino al suo posto, leggendolo di sfuggita.
“Se per uscire con te devo lasciarti pagare la tua parte allora farò un sacrificio e te lo lascerò fare.” Richiuse la scatola e si alzò, deciso più che mai a scoprire il modo di ricordare tutto ciò che avrebbe potuto di quella straordinaria ragazza e poi, finalmente, ritrovarla e riportarla a casa.

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