Variazioni sul tema

di _Agata_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Indice ***
Capitolo 2: *** Una fanciulla nella Compagnia ***
Capitolo 3: *** Canto Eldarin ***
Capitolo 4: *** Gioia perduta ***



Capitolo 1
*** Indice ***


capitolo 1 - Indice

capitolo 2 - Una fanciulla nella Compagnia
Prompt: n.1 Segui questa trama!
Introduzione: Il nano Gimli, in arrivo a Gran Burrone con il padre Gloin e pochi altri Nani per partecipare al Consiglio di Elrond, si imbatte in un gruppo di Elfi, apparentemente diretti là per la stessa ragione, di cui fa parte anche... un'Elfa? Possibile che finisca per prendere parte alla spedizione? Un po' di sano sciovinismo, certo che NO!

capitolo 3 - Canto Eldarin
Prompt: n.1 Segui questa trama!
Introduzione: Il giovane Estel, meglio noto come Aragorn (ma il suo vero nome gli verrà rivelato solo una volta raggiungi i vent'anni) si è allontanato di nascosto dalle sale di Gran Burrone, dove fatica ad applicarsi allo studio, per dedicarsi al tiro con l'arco. Ma non resterà solo a lungo...

capitolo 4 - Gioia perduta
Prompt: n.3 Crack pairing
Introduzione: Rientrati ad Hobbiville dopo la Guerra dell'Anello e tutti i nefasti eventi che essa ha portato, la vita ha perso colore per Frodo Baggins. Una sola persona sembra restituirgli qualche emozione positiva.

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Capitolo 2
*** Una fanciulla nella Compagnia ***


Avevano fatto davvero un sacco di strada per arrivare a quell’incontro. Avevano macinato miglia su miglia, a tappe forzate, fermandosi a riposare solo il minimo per essere in grado per proseguire il cammino, mangiando lungo la via. D’altra parte, appartenevano alla gloriosa stirpe dei Nani: nulla li avrebbe fermati, nulla li avrebbe rallentati. Il loro Re li aveva inviati a chiedere consiglio, e dare il contributo che sarebbe stato necessario.
Dopo innumerevoli, estenuanti giornate di marcia, finalmente il giorno precedente si erano inoltrati fra i picchi scoscesi che circondavano Gran Burrone, e quella mattina erano giunti in vista della dimora di Elrond il Mezzelfo.
Gimli scosse la testa, tirandosi la barba con scetticismo. A lui, gli Elfi non piacevano. Non piacevano a nessuno, a dire il vero, a nessuno di loro almeno. Orecchie a punta, lineamenti affilati come volpi, mani sottili, corpi esili. In una parola, spigolosi. Come si potesse apprezzare un aspetto del genere -e un atteggiamento analogo-, a lui sfuggiva.
La stessa idea di incontrarsi a casa loro lo disturbava alquanto. E d’altra parte, occorreva senz’altro mettere da parte gli antichi dissapori per arrivare da qualche parte. Sventure ben più gravi incombevano su tutti indistintamente.
Avrebbe volentieri affrettato il passo, per raggiungere quanto prima, nell’ordine, una bella sfilza di boccali di birra, un succulento cinghiale arrostito e un comodo letto su cui dormire per una decina abbondante di ore -anche se nutriva qualche dubbio sull’ospitalità elfica -. Ma non era lui alla guida della spedizione, e non stava a lui prendere simili iniziative. Mentre proseguivano allo stesso, regolare ritmo tenuto fin lì, udì una risata cristallina. Non certo quella di un Nano.
Fra la vegetazione rigogliosa che avvolgeva il sentiero, gli parve di intravvedere delle ombre, appena meno verdi degli alberi attorno. La risata veniva da lì. Tre figure si mossero nella loro direzione, uscendo dall’ombra del fogliame: Elfi dai capelli color grano, che riflettevano i bagliori del timido sole autunnale. A giudicare dalla tenuta, dovevano essere pellegrini a loro volta. Avrebbe dovuto aspettarsi che anche da Bosco Atro sarebbero giunti emissari. Quel che invece non si sarebbe aspettato, era che della loro esigua delegazione avrebbe fatto parte una donna. Chi avesse avuto l’idea fenomenale di coinvolgerla, non se lo spiegava. Poteva solo immaginare -sperare- che al contrario avesse degli affetti a Gran Burrone ed avesse approfittato dell’occasione per affrontare il lungo viaggio e ricongiungersi a loro. In ogni modo, che non avesse nulla a che fare con il fardello per cui si riunivano.
Soffermò il suo sguardo su di lei solo un istante in più, mentre ancora rideva assieme ai compagni senza prestare attenzione al loro gruppetto, quasi altrettanto sparuto, e si trovò costretto ad ammettere che in effetti poteva avere un suo peculiare fascino: le linee affilate del viso riuscivano ad essere non taglienti, ma raffinate ed eleganti; la pelle pareva levigata come il più puro alabastro, gli occhi splendenti del riso che le saliva dalle labbra. Le mani, piuttosto che secche, erano affusolate; il corpo esile non aveva nulla di rachitico, ma era flessuoso come un giunco. Anche le orecchie a punta, che facevano capolino fra i capelli lucenti, in quell’insieme non stonavano poi tanto. Non era il suo tipo di donna, mancava di seni generosi, fianchi ampi, braccia tornite; ma doveva darle atto di un’avvenenza che andava al di là del gusto personale.
Quando gli Elfi, giungendo sul sentiero subito davanti a loro, incrociarono i loro passi, li degnarono soltanto del minimo saluto imposto dalla buona creanza. I Nani si arresero alla necessità di intrattenere, almeno in quell’occasione, rapporti quasi urbani, ricambiarono per lo stretto indispensabile, e proseguirono la loro marcia. Il reciproco disinteresse era palpabile.
Gimli invece non riusciva a smettere di tormentarsi sulla ragione per cui quella donna si trovasse lì. Non smetteva di tendere l’orecchio alle conversazioni degli Elfi, ma non comprendendo la loro lingua, qualsiasi frammento che ne cogliesse gli risultava completamente oscuro e non poteva in alcun modo indirizzarlo. Tentava allora di trarre conclusioni partendo dai più infimi particolari delle sue interazioni con i compagni di viaggio, senza miglior esito. Quando, un paio d’ore più tardi, raggiunsero i primi edifici, aveva ottenuto soltanto un lieve cerchio alla testa per lo sterile sforzo di interpretazione. Era possibile tutto e il contrario di tutto.
Ad Imladris stavano giungendo rappresentanti di molti popoli, coinvolti in quella storia in modi che non conosceva. Si riunivano per prendere una decisione che non sarebbe stata affatto facile. E lui temeva la possibilità, per quanto remota, che l’Elfa prendesse parte all’iniziativa che avrebbero senz’altro dovuto intraprendere: sebbene indefinita e nebulosa, sarebbe stata senz’altro troppo ardua, e soprattutto troppo pericolosa, per una donna.
La fanciulla si distaccò dal resto del gruppo, per andare a porgere un rapido omaggio a qualcuno che la richiamava da una finestra -forse, forse dopo tutto era lì per ragioni prettamente personali, e non per immischiarsi di affari più grandi di lei-. Gimli non si accorse di aver rallentato il passo per attardarsi a studiarla, desideroso di carpire segnali che sostenessero i suoi auspici. Fatto sta che poco dopo si trovarono faccia a faccia, soli nel mezzo del sentiero.
“Ciao” la apostrofò ruvidamente dopo un attimo di silenzio imbarazzato.
“Mi pare che ciao sia un saluto piuttosto informale fra estranei, non trovi?” ribatté lei con voce tagliente, incrociando le braccia al petto e sollevando appena la testa con un piccolo scatto.
“Sempre meglio che non salutare affatto” fece lui sulla difensiva, voltandole le spalle e riprendendo il cammino.
“Permaloso quanto ci si aspetta da un Nano” replicò, acida, sorpassandolo.
“Pungente quanto ci si aspetta da un Elfo” borbottò lui.
Proseguirono senza parlare per un breve tratto, distanziati fra loro di alcuni passi. Poi fu di nuovo Gimli a prendere la parola, comunque impaziente di placare il dubbio che lo rodeva da qualche ora:
“Cosa ti porta qui?” le chiese mentre si affrettava per raggiungerla.
“Le mie gambe” tagliò corto con un’alzata di sopracciglia, senza dargli soddisfazione. Seguirono svariati secondo di silenzio stizzito da entrambe le parti.
“Molto divertente” sbottò Gimli poco dopo, non trovando alcun arguto motto di spirito con cui replicare.
“È risaputo che i Nani non hanno senso dell’umorismo” concluse lei con un soave tono presuntuoso.
“È risaputo che l’umorismo degli Elfi fa ridere solo gli alberi” fece eco bruscamente il nano, alzando la voce forse un po’ più del necessario.
L’Elfa lo ignorò ostentatamente mentre si inoltravano fra i padiglioni di Gran Burrone; poi sospirò senza cercare di dissimularlo, e gli si rivolse con espressione di vago dispetto:
 “Immagino che siate qui su mandato di Dain, per partecipare al Consiglio”.
Re Dain” corresse Gimli, accigliandosi.
“Re Dain” convenne lei alzando le spalle e gli occhi al cielo.
“Nessun’altra ragione ci porterebbe così lontani dalle nostre montagne, alla dimora del Mezzelfo”.
La donna sospirò di nuovo, più rumorosamente:
“Quindi ci troveremo a confrontarci ancora. Forse più spesso di quanto vorremmo. Sarebbe quindi più saggio lasciarci alle spalle l’asprezza del primo impatto e ripartire da basi più concilianti”.
Gimli non riuscì ad evitare di lasciarsi sfuggire un’imprecazione a mezza voce. Anche lei avrebbe partecipato a quel conciliabolo. E peggio, la sua affermazione sembrava suggerire anche la possibilità che partecipasse a quel che ne sarebbe seguito. Non che fosse un’interpretazione inequivocabile, o che implicasse necessariamente qualcosa più di un’intenzione, alla quale poi nessun fatto avrebbe dato seguito; ma se lei era abbastanza convinta da esprimerla, lui non poteva escludere l’eventualità. Questo non poteva essere un bene, per nessuno. Chi era il disgraziato che aveva ritenuto una buona idea dare ad una donna l’occasione di prendere parte ad una tale spedizione? Mettendo lei e tutti coloro che l’avrebbero avuta appresso in quell’assurda situazione? Come se, con tutti i problemi che in cui sarebbero inevitabilmente incorsi, doversi preoccupare anche dell’incolumità di lei fosse un carico da nulla. Doveva dissuaderla prima che fosse tardi. Ma decise di tenere per sé queste riflessioni, al momento, e rispose soltanto:
“Hai ragione”.
Dopo alcuni secondi di silenzio, l’Elfa aprì le braccia in un gesto lento ed ampio, e si rivolse a Gimli con fare cerimonioso, chinando appena il capo:
“Quindi ti chiedo scusa per aver peccato di scortesia, ti porgo i miei omaggi, e ti dò il benvenuto a Gran Burrone, dimora di Elrond Mezzelfo e della sua gente”.
“Mi onori con il tuo benvenuto, e…” non conosceva quali fossero le formule di rito appropriate ad una simile situazione (e nemmeno se ve ne fossero, a dirla tutta), quindi improvvisò, arrancando “e a nome mio e nel nome del mio popolo, ricambio con un sincero saluto…” sembrando al suo stesso orecchio che quella frase cerimoniosa fosse tronca e goffa, provò a concludere “che spero troverai… uh… degno”.
Lei sorrise, un sorriso appena accennato sulle labbra, ma che saliva tutto ad illuminarle lo sguardo quasi divertito:
“D’accordo, così va meglio. Ora che abbiamo superato le formalità, gradiresti essere condotto a bere qualcosa? Il viaggio deve averti provato”.
Gimli gonfiò il petto e riprese fiducia. Avrebbe potuto parlare del suo vigore per settimane, ma per l’occasione era meglio sfoggiare i pezzi forti del repertorio:
“Nessun viaggio stanca un Nano!” strombazzò orgoglioso, alzando un dito tozzo al cielo, “Ma nessun Nano rifiuta un buon boccale di birra” concluse, erompendo nella sua più mascola, sguaiata risata.
La donna si coprì la bocca con una delle sue delicate mani.
“Naturalmente” constatò, chinando appena il capo.
L’entusiasmo del nano si sgonfiò più rapido di un otre in un giorno afoso. Naturalmente? L’orgoglio della sua stirpe, il loro proverbiale, inossidabile vigore, e tutto ciò che la diafana creatura sapeva commentare era naturalmente?
Gimli alzò il mento, corrugò la fronte e fissò dritto davanti a sé per non mostrarsi in imbarazzo. La donna continuò a camminare con leggerezza felina al suo fianco senza aggiungere altro, mettendo alla prova la sua pazienza.
Forse doveva adattare l’approccio per riuscire intanto ad intavolare una conversazione, rifletté, carezzandosi la barba e fingendo di osservare l’architettura locale con fare esperto. Si produsse persino in qualche “mmh” di assenso e qualche “eeh” corrucciato.
“Tu che idea hai di tutta questa storia?” cambiò argomento mentre la seguiva, cercando di assumere un tono quasi casuale, e continuando a rivolgere lo sguardo in giro.
Si sarebbe interessato con tatto alle sue opinioni e alle sue ragioni, senza farla sentire incalzata l’avrebbe invogliata ad esporle, ad approfondirle, così da trovare nelle argomentazioni di lei qualcosa che deponesse invece a suo favore. E poi partendo da lì avrebbe guidato con abilità il discorso e l’avrebbe persuasa che no, non era davvero il caso che lei si mettesse in pericolo, senza che questo suonasse come un’imposizione, ma piuttosto come la naturale conclusione delle riflessioni che avrebbero condotto assieme. Lei tuttavia deflesse la domanda, agitando appena una mano:
“Avremo modo di parlarne approfonditamente, una volta che tutti saranno giunti e si saranno rinfrancati. Personalmente, ritengo che dovremo in ogni caso decidere in fretta e muoverci rapidamente. L’Ombra incalza”.
Decisamente laconica. Troppo perché si potesse intravvedere, anche solo in nuce, un possibile appiglio per la sua opera di dissuasione. Allora avrebbe fatto lui il primo passo, avrebbe provato ad essere appena un po’ più esplicito, ma senza dimenticare che così facendo si sarebbe inoltrato su un terreno irto di trappole e che doveva a tutti i costi evitare di offendere la sua interlocutrice. Così attaccò:
“Già… e credo che...” doveva essere molto cauto, non mancarle di rispetto, non farla sentire sminuita, “che…” si aggrappò a quella parola vuota per darsi il tempo di pianificare la prossima mossa, poi trovò  l’ispirazione, e fissò lo sguardo fiero dritto davanti a sé, “che qualsiasi obiettivo venga posto, per raggiungerlo occorreranno coraggio, tenacia, forza, determinazione, spirito di sacrificio”.
Troncò l’elenco prima di arrivare alla voce peli sul mento. Sarebbe stata nient’altro che la più schietta verità, ma era pressoché certo che il suo orgoglio femminile -per come l’aveva potuto intuire fin lì- non gliel’avrebbe perdonata, bruciando qualsiasi possibilità di persuaderla poi.
“Su questo non c’è dubbio” convenne la donna.
“Voglio dire, non possiamo permetterci alcuna debolezza” la incalzò Gimli, annuendo per sottolineare il concetto.
“Assolutamente”.
“Le prove a cui ci troveremo di fronte saranno ardue, forse quasi insormontabili persino per i migliori fra noi” continuò, evidenziando le idee principali con un gesto deciso del pugno chiuso.
“Probabile” acconsentì l’Elfa.
Qualcosa nel tono della donna non convinceva Gimli. Aveva come l’impressione che non stesse prendendo parte alla conversazione con la necessaria partecipazione. Persino, che lo stesse velatamente irridendo. Le guance del nano si imporporarono, ma erano tanto nascoste dalla barba che l’altra non se ne avvide, e lui riprese con rinnovato slancio:
“E non è detto che la volontà di agire per il bene comune sia sufficiente per rendere qualcuno adatto a caricarsi di un simile, gravoso compito”.
A quelle parole, la donna fermò i suoi passi. Il nano la fissò gongolante: stavolta aveva fatto centro. Stavolta doveva fornirgli un appiglio.
“La ferma volontà di agire per il bene è totalmente l’aspetto più importante della questione.” gli rispose, quasi indignata, tracciando con una mano una linea netta nell’aria davanti a sé, “Inderogabile.” La sua voce aveva mantenuto un volume basso e un tono soave, ma aveva preso una cadenza più marcata, e gli occhi erano diventati due fessure. Dopo un solo istante di pausa, continuò:
“Se manca, o se non è sufficientemente radicata, il rischio che tutto vada rovinosamente in malora in un crescendo di sfaceli, fino alla catastrofe, è tremendamente alto” e la mano, che fino a quel momento aveva come trattenuto l’estremità della linea, disegnò un punto fermo, “E non possiamo permettercelo. La storia insegna”.
Gimli allargò le braccia in un gesto conciliante e cercando di non suonare troppo condiscendente, specificò:
“Intendo dire: certo, è necessaria. Ma non sufficiente”.
La donna lo fissò per qualche istante, rimanendo immobile, dapprima trapassandolo con lo sguardo e quindi pensosa, poi sospirò e si rimise in cammino:
“In effetti non è l’unico aspetto da considerare…” ammise.
“Non sarà una spedizione per persone fragili o delicate” insistette il nano, affrettando il passo per tenerle dietro.
“Ovviamente no” rispose quella con una risatina.
Gimli non perse tempo a chiedersi di che cosa ridesse, anzi forse nemmeno se ne accorse: ormai aveva preso il la, si era accalorato, era partito con la sua arringa e non si sarebbe fermato dinanzi a nulla (salvo forse un boccale di birra delle loro migliori cantine). Con buona pace della naturale conclusione a cui sarebbe dovuta arrivare l’Elfa.
Si arrestò nei pressi di una lunga scala, appoggiò un piede su un gradino come per avere maggiore spinta, e con lo sguardo infervorato iniziò a pontificare:
“Sarà fondamentale che chi verrà scelto abbia nerbo…”
“Sicuro” si intromise lei appena il nano si interruppe per prendere un respiro.
“…tempra, forza d’animo…” continuò afferrandosi al corrimano.
“Ci mancherebbe altro”.
“…coraggio, audacia…” e così dicendo, lo slancio lo portò a salire un paio di gradini, posizionandosi poi saldamente a gambe divaricate, tenace a sufficienza per fronteggiare una carica di cavalleria.
“Ma non sconsideratezza” commentò l’Elfa quasi distrattamente.
“Certamente no” tagliò corto infastidito, liquidando la questione con un gesto della mano, prima di riprendere, “Spirito di sacrificio…”.
“L’hai già detto prima” corresse lei, sistemandosi con noncuranza una ciocca di capelli dietro l’orecchio a punta.
Gimli aggrottò le sopracciglia scuotendo la testa seccato. Quella filippica gli stava riuscendo eccezionalmente bene, e l’interruzione aveva guastato l’atmosfera e gli aveva fatto perdere il filo, rovinandola. Così decise di saltare direttamente alle conclusioni:
“Insomma, ritengo che sia compito da uomini. Veri uomini” sancì, accompagnandosi con un pugno sul palmo dell’altra mano.
“Veri uomini, dici…” fece eco lei sollevando le sopracciglia.
“Certo. Non è una possibilità remota quella di trovarsi in situazioni quasi disperate. E allora occorrerà tirare fuori gli attributi, con licenza parlando” asserì il Nano, guardandola finalmente negli occhi senza dover alzare il capo.
“Gli attributi…” ripeté, scettica, riprendendo il cammino.
“E una donna…” continuò lui, quasi inciampando mentre scendeva i gradini con un balzo per affrettarsi dietro di lei, “Beh, una donna non è la persona adatta per un incarico del genere”.
“Vi sono state e vi sono tuttora, fra la nostra gente, grandi donne dotate di tutte le virtù che hai elencato”.
Trappola, trappola, trappola… Doveva correggere il tiro prima che fosse tardi:
“No, no, non fraintendermi” rettificò, alzando le mani e mostrando i palmi, “Non voglio togliere nulla al coraggio che una donna può avere, o alle sue capacità. Dico solo, è più saggio che non si metta in pericolo così. Dico solo, un uomo ha più mezzi per cavarsela. Dico solo, una donna non dovrebbe esporsi” concluse, cercando di suonare il più possibile conciliante.
“Quello che dici può avere un senso, in effetti” concesse lei, con un sospiro.
Ce l’aveva fatta. L’aveva persuasa, o dissuasa. Era arrivata esattamente alla conclusione che lui auspicava, adesso doveva solo chiudere, rafforzare la posizione, rendere esplicito il sottinteso.
“Quindi, credo che faresti meglio a non partecipare alla spedizione”.
“Come, scusa?” fece lei, spiazzata, voltandosi di scatto mentre si arrestava.
Per poco Gimli non le sbatté contro, ma si fermò in tempo, e colse così l’occasione per ergersi di fronte a lei per quanto possibile, sfoggiando la sua aria più prode e gloriosa che avrebbe senz’altro compensato la differenza di statura:
“Sì, per il tuo bene, per quello di coloro che parteciperanno, per quello del tuo popolo…”
“Io credo che…” provò ad interromperlo lei, ma il Nano era lanciato.
“Certo, ovviamente vuoi dare il tuo contributo, mettere a disposizione le tue capacità, ma non è il caso…” rincarò evidenziando ogni concetto con un ampio gesto delle braccia.
“Veramente io…”
“E non ho dubbi che tu sia persona di grande talento, di numerose virtù…” continuò annuendo convinto.
“Guarda che…” fece ancora, senza esito.
“…che ti preoccupi della sicurezza della tua gente e della tua terra come di tutti i popoli della Terra di Mezzo…”
“Se mi lasc…” ma non riuscì a terminare la parola prima che Gimli riprendesse il pistolotto ignorando le sue rimostranze.
“…che tu non abbia timore di mettere a rischio la tua incolumità…” e a quel punto le calò con energia le mani sulle spalle, incurante del fatto di doversi alzare in punta di piedi per riuscirci.
“Hai…”
“…ma non è giusto che tu ti esponga così tanto, quando ci sono altri che possono farlo per te, al posto tuo”.
L’Elfa sospirò, scuotendo la testa e sollevando gli occhi al cielo con un’alzata di spalle, rinunciando a far sentire le sue ragioni.
“Quindi, ti chiedo, con tutto il cuore: evita di partecipare alla spedizione. Evita di metterti in pericolo. Preserva la tua incolumità. Lascia che siano gli uomini di ogni razza a difendere i popoli e le terre dall’Ombra. Non esporti” concluse il nano, facendo un passo indietro e portandosi un pugno chiuso al petto, fissandola intensamente.
Ormai, Gimli ne era certo, la donna non avrebbe potuto che ammirarlo per le sue capacità oratorie, concordare con lui, e decidere di non partecipare alla missione. L’aveva convinta, ne era certo; doveva solo ammetterlo; era questione di istanti.
Ma in quel momento comparve fra di loro, quasi dal nulla, un altro Elfo, giunto da una diramazione del sentiero, che li salutò gioviale:
 “Bentrovati, carissimi ospiti! Non vedendovi giungere assieme agli altri, avevo pensato di raggiungervi per fare le presentazioni del caso, ma a giudicare dalla conversazione animata che state portando avanti, deduco di essere arrivato tardi…” constatò con un cenno del capo.
Gimli barcollò appena ed aprì le braccia, preso in contropiede:
“In verità… Ci siamo lasciati trascinare dalla discussione ed abbiamo trascurato perfino i nostri nomi…”
“Allora permettete che sia io a rimediare” rispose il nuovo arrivato con un sorriso, e poi indicando il Nano:
“Gimli figlio di Gloin, dalla Montagna Solitaria,” quindi accennò all’Elfa:
“Legolas figlio di re Thranduil di Bosco Atro”
Il Nano sgranò gli occhi, barcollando più vistosamente, saltando con lo sguardo nervoso e turbato dall’uno all’altro dei due Elfi:
“Figlio?”
Legolas rise, la stessa risata cristallina di qualche ora prima:
“Già. Ho passato gli ultimi minuti a cercare di farmi ascoltare per chiarire l’equivoco… Sono un uomo, Gimli figlio di Gloin. Un maschio. Hai presente?” evidenziò, mentre gli appoggiava la mano su una spalla.
Il Nano rimase di sale, impietrito sul posto. Come aveva potuto prendere una cantonata di quelle proporzioni? I lineamenti fini ed eleganti, la pelle di alabastro, le mani affusolate, il corpo flessuoso come un giunco, i capelli morbidi e lucenti… l’avvenenza che andava al di là del gusto personale… Poteva davvero essere un maschio? Ebbene così era.
Per diversi, lunghissimi istanti, calò un silenzio glaciale, in cui a Gimli parve di udire -e pregò che fosse un’illusione, che nessun altro lo udisse- rumore di ingranaggi nel suo cervello, mentre cercava di elaborare una risposta che sembrasse quanto meno coerente, di raggranellare quel po’ di dignità che gli rimaneva dopo la figuraccia emerita che aveva appena fatto dinanzi al principe degli Elfi, di districarsi in qualche modo da quella situazione. Di colpo, dal nulla sbottò in una chiassosa risata, portandosi le mani al ventre:
“Ah, ah, ah… E poi dite che i Nani non hanno senso dell’umorismo… Stavo scherzando, ovviamente… Come avrei mai potuto scambiarti davvero per una donna, senza un’ombra di seno o di fianchi? Ah, ah, ah… Eh, Elfi maschi più leggiadri delle fanciulle umane, che sciocchezza… Ah, ah, ah…”
Si allontanò rapidamente quanto le sue gambe gli consentivano senza mettersi a correre, prima ancora di aver terminato la frase, lasciandosi alle spalle i due Elfi senza nemmeno voler conoscere la loro reazione. Birra, ci voleva una bella birra. Un bel boccale. O magari due. Meglio una botte intera.


Prompt fornito da MISSCHIARA per LA CHALLENGE CAPRICCIOSA:
1) * Elrond ha indotto il consiglio che designerà chi dovrà portare l’Unico Anello fino al Monte Fato per distruggerlo. Delegati provenienti da tutta la Terra di Mezzo si recano quindi a Gran Burrone. 
Per puro caso, la delegazione degli Elfi (di cui fa parte Legolas) e quella dei Nani (di cui fa parte Ghimli) si incrocia poco prima di varcare la soglia delle mura. Le due razze, si sa, non vanno molto d’accordo, e Ghimli in particolare detesta gli Elfi. Tuttavia, rimane positivamente impressionato da Legolas, per il semplice fatto che… l’ha scambiato per un’elfa! 
In qualche modo, i due iniziano una conversazione in cui Ghimli cerca galantemente di far desistere Legolas dall’impresa, conversazione basata soprattutto sui doppi sensi (qualcosa tipo “Una persona dall’aspetto delicato come te non è tagliata per queste cose”, “Questa è una faccenda per veri uomini”, ecc), che può prendere la piega più disparata. 
Alla fine Ghimli si rende conto della gaffe, e cerca di uscirne con eleganza (o con il minor danno possibile ^^). 

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Capitolo 3
*** Canto Eldarin ***


La freccia che Estel aveva scoccato si conficcò nella corteccia della betulla a venti piedi da lui, appena all’esterno del centro del bersaglio che aveva intagliato. Il ragazzo sospirò, passandosi una mano sugli occhi azzurri, ed andò a recuperare il dardo. Tornò dietro la linea che aveva tracciato a terra, saggiò la tensione della corda, incoccò, prese la mira. Poi abbassò l’arco con un nuovo sospiro.
Era più difficile esercitarsi, da solo. D’altra parte, non poteva coinvolgere i suoi precettori, all’oscuro del fatto che si fosse allontanato. Non voleva essere ingrato o irrispettoso, ma non ce la faceva più a star chino sui libri. Conosceva l’importanza dello studio, ed era un allievo diligente e capace, normalmente. Ma gli stupendi padiglioni di Imladris avevano iniziato a stargli stretti di recente.
Vedeva i figli di Elrond uscire per compiere grandi gesta, ed il suo cuore avrebbe voluto cavalcare assieme a loro; eppure si rendeva conto che non sarebbe stato di alcuna utilità. Desiderava apprendere le arti del combattimento, per scendere in battaglia e guadagnare onore sul campo, ed essere degno dell’ospitalità che riceveva. Aveva ritenuto più rispettoso non palesare ad Elrond, che si occupava di lui e lo amava come un figlio, questo desiderio; ciò nonostante, le lezioni di scherma ed arco si erano man mano fatte più frequenti, con grande soddisfazione sua, e dei suoi maestri che lo vedevano progredire rapidamente.
Fino a tre settimane prima, quando era stato deciso che avrebbe dovuto avviare uno studio sistematico ed approfondito dell’Eldarin. Tutti attorno a lui avevano sempre parlato la lingua degli Uomini, pur nella dimora di un Signore Elfico. E di conseguenza, lui intendeva qualcosa di elfico, ma soltanto qualche parola. L’idea di approfondire quella lingua non gli era dispiaciuta; il problema era nato nel tradurre in pratica il proposito. Quando avevano iniziato ad impartirgli lezioni, si era accorto che era maledettamente complessa. Faceva una gran fatica a distinguere i suoni, non riusciva a memorizzare le parole e soprattutto le loro combinazioni e variazioni fonetiche. I risultati erano stati frustranti. Avrebbe voluto lasciar perdere per un po’ e dedicarsi a qualcosa di diverso; ma i suoi tutori avevano invece deciso che il tempo riservato ad altre occupazioni sarebbe stato drasticamente ridotto, finché non avesse ottenuto risultati decorosi con l’Eldarin.
E lui aveva davvero, con tutte le sue forze, provato a rimettersi al loro giudizio. Aveva provato ad applicarsi maggiormente, ad insistere di più. Ma più si forzava, peggiori erano gli esiti. Quella mattina, semplicemente, era stato troppo. Aveva bisogno di fare qualcos’altro. In particolare, avvertiva il bisogno quasi fisico di riprendere l’addestramento con le armi. Così aveva afferrato il suo arco e, badando di non farsi udire, era scivolato fra i boschi attorno a Gran Burrone.
Prima che muovesse un solo passo verso il bersaglio, una freccia passò sibilando accanto al suo orecchio, per conficcarsi esattamente al centro della sua infissa nell’albero, spaccandola a metà. Allarmato, il ragazzo si volse verso la direzione da cui era venuta. Venti passi dietro di lui, nascosto solo parzialmente dal fogliame, stava in piedi un Elfo con l’arco ancora davanti a sé.
“Giovane Estel, per quale ragione ti addestri in solitudine, lontano dalle sale di Elrond?” domandò, abbassando l’arma.
Il ragazzo non sapeva chi fosse l’individuo che lo aveva così apostrofato, ma non poté evitare di restarne colpito: era indubbiamente meno etereo dei suoi mentori a Gran Burrone, meno luminoso per così dire. I suoi capelli, biondi come i loro, avevano un colore più caldo, più simile al grano che alla luce del Sole o delle stelle; i suoi lineamenti, ugualmente fini, erano tuttavia più marcati e conferivano al suo viso una maggior forza; le membra, ugualmente snelle, apparivano maggiormente plasmate e strutturate.
“Mio signore, pare che voi mi conosciate, ma non posso dire lo stesso per parte mia…”
“Giovane Estel” disse lo sconosciuto con un inchino, “io sono Legolas di Bosco Atro; e se tu me lo concedi, sarebbe un onore per me aiutarti a padroneggiare quelle arti che ti renderanno grande fra gli Uomini; non come mentore, ma come tuo pari e, se il Fato vorrà, come amico”.
Estel non sapeva che cosa rispondere, né tanto meno cosa pensare, così si limitò ad annuire. Un istante prima aveva desiderato qualcuno con cui addestrarsi, ed ecco giungere come una benedizione un Elfo da terre lontane, che non lo rimproverava per le sue mancanze (di cui senz’altro non era al corrente) ma si offriva di assisterlo.
Legolas gli si avvicinò sorridendo, e in quel sorriso si rivelò la luce che non sfavillava fra i suoi capelli, illuminandogli gli occhi e il viso intero.
“Allora dimmi, Estel: come mai ti trovi tutto solo fra i boschi, anziché presso le belle dimore di Elrond, indirizzato e supervisionato dalle guide che ti avrà assegnato?”
Il ragazzo avvertì pungente l’imbarazzo di ammettere quella sorta di fuga dai propri doveri, ma non desiderava macchiarsi con una menzogna:
“Io… desideravo esercitarmi con l’arco… lontano da… liberamente, ecco” spiegò, mentre strofinava sul terreno la punta di un piede, a disagio.
L’Elfo dovette intendere chiaramente che non era tutto, e probabilmente indovinò qualcosa di quanto non aveva espresso, ma gli sorrise conciliante, inclinando il capo:
“E come procede il tuo addestramento in solitudine?”
“Non troppo bene, in realtà…” ammise stringendosi nelle spalle, “è più complesso di quel che pensassi …”
Legolas gli batté alcune pacche leggere sulla spalla, incitandolo:
“Mettiti in posizione e tendi l’arco, vediamo se riesco ad aiutarti”.
Estel obbedì, e l’Elfo sostenendosi il mento con una mano lo studiò a lungo, in silenzio, poi riprese:
“Bene, non scoccare. Ora imprimiti bene in mente come sei posizionato, e quando pensi di averlo chiaro a sufficienza, sciogliti ed osserva me. Poi dimmi quali differenze noti”.
Continuarono a lungo a discutere della posizione più corretta, della giusta inclinazione dell’arco e tensione della corda, di quanto dipendessero dalla distanza, dal vento, dal materiale della freccia e dalla superficie del bersaglio; e poi a provare le diverse opzioni, ad analizzare perché funzionavano in misura maggiore o minore.
Poi Legolas lo esortò a mettersi nuovamente in posizione e si pose alle spalle del ragazzo, andando ad aggiustare con le proprie la posizione delle mani, della schiena, delle gambe, tendendo l’arco assieme a lui. Estel, con il corpo dell’Elfo premuto al proprio, sentì uno strano calore diffondersi nello stomaco, ma non ci badò, concentrato com’era sul risultato da ottenere. Più volte l’altro si allontanò da lui chiedendogli di mettere bene a fuoco la postura, sciogliersi e riassumerla; e più volte tornò a correggerla.
“Ora non irrigidirti… tendi la corda ancora un po’… tieni i piedi ben saldi a terra… punta il bersaglio, prendi la mira… e scocca!”
La freccia di Estel si conficcò nel centro del bersaglio. Gli occhi del ragazzo si riempirono di gioia, e lui ridendo buttò le braccia al collo di Legolas:
“È fatta! Ho fatto centro!”
“Molto bene”, rispose ricambiando l’abbraccio e ridendo assieme a lui, “e questo è solo l’inizio…”
 
Il sole dovette raggiungere lo zenit prima che il caldo e la fatica avessero la meglio, consigliando una pausa presso il vicino ruscello per rinfrancarsi. Estel si distese supino sull’erba morbida, gli occhi al cielo terso, e Legolas sedette con la schiena appoggiata ad un albero, offrendo una galletta al ragazzo.
“Pan di via?” chiese quest’ultimo, allungando una mano per accettarla.
“Lembas” precisò l’Elfo sollevando le sopracciglia.
Il ragazzo sospirò, lasciando ricadere pesantemente il braccio teso a mezz’aria.
“Qualcosa non va, giovane Estel?” lo interrogò l’altro, facendosi più vicino.
“No…” rispose sollevandosi sui gomiti “cioè sì, in realtà…”
Legolas non lo incalzò, continuò invece ad osservarlo con un sorriso rassicurante. La spiegazione sarebbe arrivata da sola, senza necessità di insistere, occorreva solo pazientare a sufficienza.
“Io… credo di avere qualche… difficoltà, ecco, con l’Eldarin…” ammise dopo un po’, senza osare portare lo sguardo al suo interlocutore.
Legolas si avvicinò e si distese al suo fianco, osservando a sua volta il cielo e sollevandolo dall’imbarazzo di dover sostenere uno sguardo in cui avrebbe erroneamente visto sufficienza o denigrazione.
“Il tuo nome è Eldarin, e significa speranza…”, provò a suggerire, senza ottenere risposta.
“Che genere di difficoltà?” chiese poi con noncuranza, osservando un coleottero posato sul dorso della sua mano.
Il ragazzo alzò le spalle e tagliò corto:
“Tutto. È troppo difficile”.
La risata di Legolas, ancora assorto nella contemplazione dell’animaletto, fu talmente lieve che l’altro, a un paio di spanne da lui, nemmeno se ne accorse:
“Tutto mi sembra un po’ vago”.
Estel inspirò profondamente diverse volte, prima di decidersi a rispondere, giocherellando con l’erba fra le sue dita:
“Le parole si confondono così tanto… intendo, non capisco mai se una parola è una radice, è una mutazione morbida di un termine, o una mutazione dura di un altro…” nel parlare, si sollevò a sedere, a gambe incrociate, e prese ad enumerare sulle dita, “o se e come devo mutarla quando va insieme a quali parole… e se devo fare un composto anteponendo o posponendo una particella, o piuttosto utilizzare una preposizione, o semplicemente unire le parole e in che ordine e con che mutazioni… se devo aggiungere un prefisso o un suffisso per un certo significato, quali parole possono fare fa da prefisso o da suffisso, quali entrambe a seconda dei casi, e quali casi, e…”, lasciò ricadere il capo, prendendosi la testa fra le mani “ci sono troppe regole e troppe eccezioni”.
Legolas sorrise di nuovo e si alzò a sedere a sua volta, appoggiandogli una mano sulla spalla:
“In un certo senso, potresti avere ragione, ma… hai provato ad ascoltare?”
“Ascoltare? Certo che ascolto!” replicò, piccato, stringendosi nelle spalle, “solo che non riesco a ricordare, a capire”.
“Intendo, ascoltare e basta…”, specificò. “Senza cercare di identificare ogni regola, di individuare ogni mutazione…”,  proseguì, liberandogli i capelli scompigliati da rametti e foglie secche e sistemandoglieli meticolosamente dietro alle orecchie, “solo ascoltare, lasciarti attraversare dalle parole… e cercare di interpretare il significato complessivo di quello che ascolti…” concluse con un lieve buffetto.
“Non sono certo di capire cosa intendi…” ammise Estel, percorso da un fremito.
“Conosci il Salone del Fuoco?” chiese, allontanando l’insetto.
“Sì” confermò, ripensando all’ampia sala di Imladris, circondata da imponenti colonne scolpite, al centro della quale bruciava sempre un grande fuoco. Per qualche ragione, quel luogo gli dava un profondo senso di pace, sia quando era silenzioso e quieto, sia quando era animato da canti e racconti nelle lingue degli Uomini e in quelle degli Elfi.
“Io suppongo che tu in realtà conosca già l’Eldarin più di quanto crederesti… facciamo una prova, me lo permetti?”
“D’accordo” acconsentì il ragazzo alzando le spalle; non che qualsiasi prova avesse in mente potesse peggiorare la situazione, dopo tutto.
Legolas scivolò dietro di lui e si inginocchiò, portandogli le mani sulle spalle ed attirandolo delicatamente verso di sé:
“Ora rilassati, chiudi gli occhi… respira profondamente… ascolta il vento… lo senti?”
Estel annuì appena. Le mani fresche, la voce morbida, il petto caldo dell’altro avevano avuto la capacità di distenderlo, e si lasciava cullare dal suo movimento appena ondeggiante e dal suo respiro sul collo.
“Ascolta il vento”, continuò in un sussurro, “lo senti stormire tra le fronde degli alberi? E senti come fruscia appena fra i teneri steli dell’erba? Senti l’acqua del ruscello che canta alla sua carezza?”
Sì, in qualche modo riusciva a distinguere, nel lieve soffio del vento, tutte le sfumature che l’Elfo gli indicava.
“L’Eldarin risuona con la voce del vento e dell’acqua, del sole e delle stelle…” e poi, con voce soave, attaccò un canto antico e melodioso, che non conosceva ma che gli pareva di aver già sentito innumerevoli volte:

A Elbereth Gilthoniel
Silivren penna mìriel
O menel aglar elenath!
Na-chaered palan-dìriel
O galadhremmin ennorath
Fanuilos, le linnathon
Nef aear, sì nef aearon!” *

Quindi tacque, lasciando che fossero il canto del vento e il mormorio dell’acqua a riempire il silenzio. Solo dopo lunghi minuti, riprese:
“Lo conosci?”
“L’ho già sentito, sì…” rispose Estel con voce un po’ impastata, riemergendo solo parzialmente dal piacevole torpore che lo aveva avvolto.
“E di cosa parla?” lo esortò.
“Non… non lo so…” balbettò, irrigidendosi, “ho capito… poco; poco o… niente. Più niente, in effetti”.
Legolas non riuscì a trattenere una breve risata, coprendosi con grazia la bocca con una mano:
“Non è un problema, non ti sto facendo lezione…” lo rassicurò, ancora con il riso nella voce, “il poco che hai capito, o quel che ti suggerisce, andrà benissimo”.
“Io… mi sembra che parli di Elbereth, la Regina delle Stelle…”.
“Esatto… continua” lo invitò, annuendo fra sé.
Estel si concentrò, chiudendo gli occhi, e cercò di lasciarsi attraversare, pur non sapendo cosa significasse, da quel canto, che aveva udito spesso ma che non aveva mai compreso. Restò silenzioso e immobile per qualche minuto, assorto, provando a permettere che le parole si raggruppassero in qualche modo, evocando qualche significato che coscientemente non riusciva a racimolare.
“Di… stelle che vengono accese…? gioielli… gemme… cristalli…? qualcosa che ha a che fare con il quanto meravigliosamente splendono e scintillano dal cielo…?”
“E poi?” lo spronò, stringendogli appena le spalle.
“Qualcosa… che ha a che fare con la distanza, che guarda lontano…” riprese, sempre immerso nei pensieri che fluivano attorno alla sua coscienza e la attraversavano, “da una terra… con alberi intricati… un canto a… qualcosa di sempre bianco… sul lato dell’oceano…?”. Poi aprì gli occhi, riscuotendosi, raddrizzò la schiena, ripensò a quel che aveva detto e si diede mentalmente dello sciocco:
“Non sembra qualcosa che abbia senso, vero?” chiese, rovesciando la testa all’indietro per osservarlo.
Legolas si spostò al suo fianco per guardarlo negli occhi, tenendogli una mano sulla spalla:
“Al contrario, sei andato piuttosto vicino al significato… Una traduzione potrebbe essere all’incirca

O Elbereth che accendi le stelle,
bianche faville che pendono, scintillanti come gemme,
dal firmamento, gloria della volta stellata!
Avendo contemplato lontano, a remote distanze,
dagli alberi intrecciati della Terra di Mezzo,
Semprebianca, a te canterò
in questo lato dell’oceano, qui in questo lato del grande oceano! *


Giovane Estel, sei cresciuto circondato dai suoni dolci e ritmati dell’Eldarin… li conosci, riposano sul fondo del tuo pensiero e del tuo cuore. Lascia che affiorino, senza costringerli nelle gabbie di regole ed eccezioni. Non cercare di ricordare come dovrebbe o non dovrebbe mutare ogni parola, lascia semplicemente che il discorso fluisca in un suono armonioso, come il vento e come l’acqua…”
“Non sembra così facile” replicò, distogliendo lo sguardo e stringendosi le braccia attorno al corpo.
“Lo sarà, credimi” lo rassicurò, invitandolo ad alzare gli occhi con una carezza accennata, “A Gran Burrone non è raro che si cantino inni e odi, o che si declamino poemi accompagnati dalla musica. Fermati ad ascoltarli, ogni volta che puoi. Ti sarà di grande aiuto”.
 Poi sollevò il volto al cielo, inspirando profondamente e lasciando che il vento carezzasse la sua pelle e si intrecciasse ai suoi capelli. Rimase in silenzio alcuni secondi, come in ascolto; poi riprese a cantare, dapprima con una voce quasi confusa con la brezza che continuava a spirare, poi sempre più cristallina e armoniosa e limpida.
Estel chiuse gli occhi, e voltandosi appena adagiò nuovamente la schiena contro al petto dell’Elfo e reclinò il capo sulla sua spalla. Lasciò che la sua voce gli permeasse i pensieri assieme a quella del vento e dell’acqua, lasciò che si adagiasse sul fondo del cuore. Lasciò che fosse il suono stesso delle parole ad evocare immagini e concetti, mentre queste scorrevano fluidamente senza essere filtrate e scomposte dal pensiero razionale, trascurando volutamente un’esattezza accademica che non gli serviva. Lasciò che evocassero emozioni. Si ritrovò incantato dal movimento delicato delle labbra di Legolas che modulavano i suoni della lingua elfica carezzandoli. Si ritrovò, quasi senza accorgersi, a fantasticare su cosa avrebbe provato se quelle labbra avessero accarezzato allo stesso modo le sue. Se le dita avessero saggiato la sua pelle come la corda dell’arco. Sorrise fra sé, lasciandosi sfuggire un sospiro di desiderio appena sbocciato. Legolas continuava a cantare per lui, carezzandolo lievemente fra i capelli.
 
 


* L’inno compare nel volume La compagnia dell’Anello, libro secondo, al capitolo “Molti incontri”. Per la traduzione dell’inno, ho utilizzato questo link: http://ardalambion.immaginario.net/ardalambion/elbereth.htm


Prompt fornito da MISSCHIARA per LA CHALLENGE CAPRICCIOSA
2) Siamo ai tempi dell’infanzia /adolescenza di Aragorn, e il ragazzo si trova ancora a Gran Burrone in quanto allevato da Elrond. I tutori elfici cercano di istruirlo al meglio sull’uso della loro lingua, ma Aragorn ha difficoltà ad apprenderla perché, chissà perché, proprio non gli va giù. A lui interessano di più le arti della battaglia, per diventare un giorno un prode guerriero! 

Un giorno Aragorn si allontana di nascosto dai suoi tutori e fugge nei dintorni di Gran Burrone per prendersi una giornata di libertà e allenarsi con l’arco. Qui incontra Legolas (non si sa se per caso, o perché lo stava tenendo d’occhio a distanza) che, fermatosi a parlare con lui, alla fine scopre il vero motivo della fuga del ragazzino. 
Legolas, alle spalle di Aragorn, lo invita a chiudere gli occhi e ascoltare i suoni dolci e ritmati della lingua elfica. Aragorn, da quel punto in poi, comincia a pensare che quella lingua non sia poi tanto male. 
Bonus: e non solo la lingua ;) 

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Capitolo 4
*** Gioia perduta ***


La prima volta che Rosie si era trovata al capezzale del signor Frodo, era stato il 13 marzo 1420. Si sentiva male, aveva la febbre, a tratti era incosciente, a tratti delirava, a tratti era come immerso in un incubo angoscioso da cui non riusciva a svegliarsi. Era sola: suo padre era uscito, Sam in giro per la Contea. Non sapeva cosa fare. Aveva provato ad abbassargli la temperatura con impacchi freddi sulla fronte, a fargli bere almeno qualche sorso d’acqua. Era parso che nulla facesse effetto, ma improvvisa come era venuta, quella crisi se ne andò. Nel primo sguardo riconoscente che Frodo, ancora pallido e sudato, le rivolse, e nel suo sorriso tirato ma sincero, c’era qualcosa che fece arrossire Rosie fino alla punta dei capelli.
Non disse nulla a Sam. Non avrebbe saputo che cosa dirgli. Dopo tutto, il signor Frodo l’aveva solo guardata. In un modo da mettere l’anima a nudo, ma solo guardata. Seppe di aver fatto bene quando Sam chiese la sua mano, e pochi giorni dopo le chiese se le sarebbe dispiaciuto trasferirsi a Casa Baggins. Non sapeva se sarebbe stato facile dividere il tetto con il signor Frodo, ma non poteva certo costringere Sam a scegliere fra lei e il suo padrone (perché anche se lui si ostinava a chiamarlo così, in realtà era evidente che fosse il suo più caro amico).
 
Frodo si rendeva conto di mettere Rosie a disagio, eppure non poteva farci nulla. Raccoglieva le briciole di un amore che a lui era precluso. Si sentiva escluso dalla vita che stava rifiorendo nella Contea, come se non fosse per lui, come se a lui non toccasse. Osservava gli altri vivere felici senza riuscire a condividere la loro felicità. Come se fra lui e loro si ergesse una barriera. Aveva perduto troppo in quella cerca. Non voleva mancare di rispetto né a lei né a Sam, ma non riusciva a fare a meno di desiderarla. Di desiderare la normalità che lei rappresentava. Una moglie, una famiglia, un focolare.
E quando la guardava, così ridente e gioviale, provava uno struggimento talmente forte da diventare doloroso. Ma non osava rubarle un bacio, né azzardare una carezza fra i capelli o sulla mano. Sapeva di doversi aspettare un rifiuto, ma forse temeva anche di più la remota ipotesi di non incontrarlo. Che cosa avrebbe fatto, a quel punto? Con che cuore avrebbe tradito Sam, che era gli era stato leale fin nel cuore dell’Oscurità, così fedele da farsi carico del suo peso quando lui era troppo consumato per muovere un solo passo ancora? E allora si accontentava di sognarla, di guardarla, di spiare la sua felicità. E sapeva che quella felicità non gli sarebbe mai appartenuta.
 
Nonostante l’iniziale titubanza, si era abituata con straordinaria facilità alla vita a casa Baggins. Rispetto alla dimora in cui era cresciuta, era un palazzo. Non avrebbe mai pensato, sposando Sam, di trovarsi circondata da tutti quegli agi; non che le fosse importato, ma non poteva negare di essere tutt’altro che dispiaciuta. In brevissimo tempo si era scoperta profondamente riconoscente al signor Frodo: perché si spendeva affinché loro fossero felici anche se lui non riusciva ad esserlo, perché nonostante il suo volto tradisse le sofferenze che lo attraversavano, faceva finta di nulla. Assieme a Sam si prodigava per ricoprirlo di cure ed attenzioni, senza riuscire a rendergli nemmeno la parvenza della gioia di una pacifica vita hobbit. Lo vedeva staccarsi man mano da tutto ciò che aveva amato.
Solo a tratti, per brevi e fugaci istanti, vedeva una scintilla riaccendersi nel fondo degli occhi del signor Frodo. Accadeva se la vedeva correre ridendo, con i capelli sciolti nel vento, sul prato davanti a casa Baggins; se seduta sotto il mallorn elfico che Sam aveva piantato al posto del vecchio albero della festa, i loro sguardi si incontravano e lei gli sorrideva con affetto; se al suono di una musica lontana, lei si metteva a canticchiare e accennava un ballo da sola. Ma durava solo un istante, poi lui distoglieva lo sguardo e si allontanava. Forse avrebbe potuto chiedergli se voleva danzare con lei, ma non trovò mai il coraggio.
 
Quando Sam, l’autunno successivo, le chiese se pensava di poter fare a meno di lui per un po’, un paio di settimane al massimo, affinché lui potesse accompagnare il signor Frodo per un viaggio, Rosie intuì che per il padrone di casa Baggins sarebbe stato l’ultimo. Non avrebbe più rivisto la scintilla sul fondo dei suoi occhi, non sarebbe più arrossita per il sorriso accennato che appena lui osava rivolgerle. Con la sua piccola Elanor fra le braccia, rimase sulla soglia di casa a guardarli allontanarsi. Quando erano ormai giunti al termine del viale che percorreva la collina, portò le dita alle labbra ed osò scoccare un bacio in direzione dei viaggiatori. In quel momento, il signor Frodo si voltò. Non seppe se l’avesse vista, ma volle immaginare di sì. Non seppe se le sorrise o se i suoi occhi si accesero per un istante di quella scintilla che aveva imparato a riconoscere. Quella volta, non arrossì. Che al termine del viaggio tu possa trovare la pace e la felicità che non abbiamo potuto renderti da questo lato del mare, pensò mentre il fischio del bollitore la richiamava in casa.


Prompt fornito da MISSCHIARA per LA CHALLENGE CAPRICCIOSA: 
1) * Frodo / Rosie Cotton 
Questa è cattiva! Considerando tutto ciò che ha fatto Sam per Frodo, se al ritorno a Hobbiville quest’ultimo gli fregasse Rosie, sarebbe il massimo! Ma ho pensato anche che, proprio perché c’è di mezzo Sam, non è detto che Rosie accetti le avances di Frodo ^^ 

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