Arsenico

di Marte97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** 1 ***


I.
Uno, due, tre.
Ogni respiro era pura agonia, pura follia. Il cuore le pesava come un macigno, come un ammasso di ferraglia pieno di punti acuminati.
Uno, due, tre.
Prendere fiato per non impazzire, stringere gli occhi per non gridare.
Le capitava spesso, le accadeva quando usava troppo il suo potere extra: assorbiva tutto il dolore come una spugna e poi si ritrovava ad annegarci dentro.
Cercò di ricomporsi dinanzi allo specchio, cercando di darsi un aspetto più “umano”; fece sparire gli occhi rossi e mostruosi, si asciugò le lacrime color perla che le rigavano le guance e tutti gli altri accessori anatomici non ritenuti così “normali”.
Cielo la attendeva a braccia conserte fuori dal bagno « Ci hai messo un’eternità »
Norma aveva un grande senso dello scorrere del tempo e, pertanto, sapeva che non erano passati più di cinque minuti e mezzo « Sai che sono lenta ».
Per tutta risposta l’amica sbuffò.
« Mi ha già chiamato il tuo finto fratello » disse Cielo guardando il cellulare « dice che ti aspettano per pranzo ».
« Ma io non avevo intenzione di tornare per pranzo »
« Boh, mi ha detto che Margot ha cucinato anche per te e che sarebbe scortese se tu non tornassi ».
Quando varcò la porta di casa, Norma avrebbe voluto spiegare a Sarpedonte quale fosse il vero significato della parola scortesia; per esempio, dare buca a Cielo. Fu Colette ad andarle incontro nell’ingresso « Ciao tesoro! Come è andata? » chiese.
Gli occhi di ghiaccio della pseudo- sorella si ravvivarono di una luce nuova, allegra; era un po’ la mamma di tutti, rassettava casa, cucinava, stirava la biancheria. Colette era l’immagine rassicurante della famiglia, sempre truccata, sempre composta come una casalinga anni cinquanta, sempre in forma umana, mai mostruosa.
« Andava tutto alla grande prima che Sarpedonte mi facesse perdere il pranzo con la mia migliore amica » ribatté seccata.
« Oh tesoro, eri indispensabile qui. Margot è un po’ confusa, abbiamo paura che ci abbandoni sai ».
Margot era la loro copertura: una vecchia zitella grassoccia, con i capelli bianchi acconciati a riccioli, serviva a tenere in piedi tutta la baracca; firmava i documenti, pagava le bollette e mentiva per conto loro. Norma non era molto d’accordo dal punto di vista morale dell’inganno ma, quando aveva provato a muovere delle rimostranze, Sarpedonte le aveva detto chiaro e tondo ciò che più o meno le ripeteva sempre “la nostra morale è diversa da quella umana”.
Non era difficile notare un senso di moralità distorto, soprattutto se si guardava Colette baciare Ivan, suo fratello, l’amore della sua vita a detta sua, cosa che le aveva fatto guadagnare il soprannome mitologico di Biblide.
Quando scese al piano di sotto, Norma trovò Margot intenta a preparare una delle sue magiche frittate. Quella donna aveva la capacità di passare anche dieci ore attaccata ai fornelli.
« Norma cara, ciao »
« Ciao Margot »
« Cosa fai qui? » ecco la falla nel sistema. Margot doveva credere di vivere con loro, di essere una sorta di nonna adottiva in una casa famiglia.
Prese la donna per le spalle e la attaccò al muro, poi fissò i suoi occhi in quelli della vecchia, mentre le sue sclere diventavano rosse e le uscì una voce che non era sua, era più vellutata, più suadente, mentre le ripeteva tutto ciò che andava dimenticando.
Quando ebbe finito, la donna le fece un gran sorriso « Oh nipotina mia, buongiorno! »
« Buongiorno nonnina »
E, anche per questa volta, ce l’avevano fatta.
 
Si sedettero a tavola in silenzio. Se Colette, Ivan e Osiride apparivano in forma umana, Camille e Sarpedonte non ci provavano neppure. Le grandi ali da pipistrello bucavano le loro maglie, le sclere si coloravano del loro potere: nere per Sarpedonte, giallo zafferano per Camille, le guance di entrambi crepate di viola.
Colette li osservò con disappunto, da brava mammina di casa « Un po’ di creanza, siamo a pranzo ». Più o meno lo ripeteva ogni giorno e, circa sempre, nessuno dei due cercava di mostrarsi più umano. Se su Camille Norma nutriva dei dubbi, ovvero che per lei, per qualche ragione, potesse essere davvero faticoso mascherarsi, su Sarpedonte era sicura: lo faceva apposta, si comportava come un adolescente ribelle.
« E’ benzina quella? » disse invece Sarpedonte.
« Oh sì! Senza piombo » ribatté Colette piuttosto fiera.
Il pranzo si svolse fondamentalmente senza grandi discorsi; Ivan tubava con la sorella, Osiride leggeva le notizie dal cellulare e Norma fissava l’arrosto di tacchino con sguardo abbastanza vuoto. A fine pasto fu l’ora dei resoconti.
« Oggi i bracconieri non si sono visti né a nord né a sud. In compenso abbiamo un problema sul mare: i frangiossa ».
« Dobbiamo pagarli » esordì Norma alzandosi.
« Non abbiamo soldi e lo sai. Camille fa i doppi turni e la pensione di Margot ci serve per vivere. Non possiamo pagarli in eterno ». Ogni volta la stessa storia.
« Cielo abita sul mare: se prendessero lei? »
« E se prendessero un bambino due palazzi dopo? Non esiste solamente il tuo pupazzetto ».
Norma voleva terribilmente usare il suo potere, convincere Sarpedonte che pagare per salvare Cielo valeva la pena, al diavolo la morale ma, purtroppo, aveva una coscienza, ed usare l’imposizione sul suo pseudo- fratello non sarebbe stato corretto.
« Cosa hai intenzione di fare, eh?! »
Fu Osiride ad intervenire prima che anche le sclere di Norma diventassero di un altro colore « Quello per cui il sindaco accetta di coprire metà delle nostre falle: proteggere quelli che pagano ».
« Il padre di Cielo non paga quella tassa, Cielo potrebbe morire » stava urlando.
« Lo so Norma, lo so. Cercheremo di fare delle ronde anche lì come sempre » disse Osiride.
« No, non c’entra niente, no! » questa volta fu Sarpedonte ad urlare « noi non ci mescoliamo agli affari umani se non per tornaconto personale. Smettila di fare la bambina ».
A quel punto delle discussioni di solito avveniva sempre la stessa cosa: Sarpedonte spalancava gli occhi e se ne volava via dal balcone vicino, su, fino al tetto, e lì restava finchè Osiride non lo riandava a prendere. Proprio come un adolescente ribelle insomma.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Fu Colette a pestare la coda della gatta e a farle emettere un miagolio acuto. Dal canto suo, Norma le gettò l’occhiata più feroce del suo repertorio di occhiate feroci. « Credi sia una buona idea farlo anche questa volta? » Per tutta risposta, Norma annuì. Cielo dormiva beata nel suo letto plus size, con i riccioli scuri che non permettevano a nessuna delle due di distinguerne la faccia. Colette si sedette sul bordo del letto con la grazia di una ballerina e cominciò ad espandere il suo veleno. Cloroformio. Anche al buio un occhio attento avrebbe potuto vedere il vapore verde uscire dal suo corpo e avvolgere quello dell’umana; un’altra nube di vapore si insinuò sotto la porta e raggiunse la stanza del padre. A quel punto nemmeno un terremoto li avrebbe svegliati. Perfino Monroe, la gatta, in braccio alla sua pseudo- sorella, sembrava un pochetto rincoglionita. Inspiegabilmente, il veleno non aveva un vero e proprio effetto sugli animali. « Dove li tiene? » « Non lo so » ed era vero. Cercare i soldi non era facile e ancor meno lo era se non si sapeva quanti ne occorrevano. L’ultima volta due bei bigliettoni erano bastati e sperava di trovarne altrettanti. Ma Cielo aveva un enorme difetto: era disordinata, pertanto i soldi avrebbero potuto essere letteralmente ovunque. E questo era un deterrente non da poco contando che mancava solo mezz’ora a mezzanotte. « Ma non sono nel salvadanaio? » « Sicuramente no ». Il panico prese Norma quando non li trovò neppure nei pressi di un portagioie. E nemmeno sulla solita mensola. « Andiamo, dove siete » mormorò come se potessero saltare fuori da soli. Quando finalmente vide qualcosa sotto un portafoto, sentì un rumore. Colette smise di accarezzare la gatta. Lei smise di muoversi. Anche il cloroformio che fluttuava nell’aria sembrò fermarsi. Norma poteva sentire il panico. Colette non poteva usare il suo potere, altrimenti il surplus di veleno avrebbe ucciso i due umani. Merda, merda, merda, lei invece non riusciva a pensare ad altro. « Tu resta qua e continua a farli dormire, io vado a dare un’occhiata » « No tesoro, poi rimango in pensiero » la supplicò da buona mamma. « Tranquilla » disse più a se stessa che a lei. Uscì nel corridoio buio chiudendosi dietro la porta. Un vapore rosso e viola si diffuse intorno a lei: arsenico. Era sufficiente per tenerla al sicuro, e abbastanza controllato per non ammazzare sul colpo Cielo e suo padre. Sentiva le sclere degli occhi pulsare. Vide una sagoma nera in cucina e con i denti seghettati gli si gettò addosso, le ali da pipistrello che la facevano sentire leggera, che le conferivano la spinta necessaria. « Che diamine fai? » la domanda sembrò sferzarle il viso. La voce era quella supponente di Sarpedonte. « Che cazzo fai tu qui, piuttosto! » Ovviamente, non l’aveva riconosciuto. Il colore del suo pseudo-fratello, il nero, lo avvolgeva come una nube. Fu lui ad accendere la luce, puntandole addosso quei bulbi oculari color delle tenebre e decisamente inquietanti, anche per un velenifero. « Dobbiamo andare di pattuglia » « Ho trovato i soldi, prima vado a pagare la tassa » asserì ma lui la bloccò per un braccio « Che cosa? » « Hai sentito benissimo. Vado a pagare la tassa per la mia sorellina umana ». La nube di isopropanolo che avvolse all’improvviso e tutta insieme la cucina rese invisibile ogni cosa, anche la luce. Lo leggeva nei suoi occhi, il disgusto, il disprezzo verso quella razza debole, senza veleno. Che lei frequentasse umani? Non andava bene, ma poteva tollerarlo. Che lei considerasse Cielo sul loro stesso grado di parentela? Proprio no. Lo aveva colpito nel punto più sensibile che lui possedesse, quello della famiglia. « E’ sbagliato » disse con voce tagliente mentre il gas avvolgeva la sua mano con spire di tenebra e mentre in un secondo si infiammava, incenerendo i soldi. « Ma dico, sei impazzito forse?! » gridò e fu a quel punto che Colette lasciò la sua postazione alla volta della cucina. « Pure tu l’aiuti? Eh? Vi aspetto fuori » e così come era entrato, uscì, senza nemmeno voltarsi, come un pipistrello. Una volta da bambina si era divertita a creare una canzoncina per i suoi fratelli, quasi una filastrocca. Ivan, Ivan verde cristallo Ti uccide solo dopo uno sguardo. Colette, Colette occhi di vetro Con lei dormi di un sogno cieco. Camille, Camille color dell’oro, con lei impazzisci e non chiede perdono. Norma, Norma viola e rubino, lei ti parla e ti senti un bambino. Ozi, Ozi ha gli occhi cobalto, non puoi fare un secondo assalto. Sarp, Sarp cobalto e nero, ti brucia anche col solo pensiero. Cobalto. Un tempo anche Sarpedonte aveva un veleno bicolore come il suo. Grosse lacrime color perla cominciarono a rigare le guance di Norma, piena di rabbia e frustrazione. Piena di odio. Tutto il peso dell’imposizione a Margot le ricadde addosso e, come quella mattina, arrivò il dolore. Un dolore che non le dava mai pace. Fu sua sorella a ridestarla « Ho una banconota in tasca: forse basta » le mormorò Colette. I soldi bastarono: la banconota di Colette, unita ad altre monete, trovate a caso nella camera di Cielo, furono sufficienti a pagare la tassa e a far infuriare Sarpedonte quando Osiride lesse i nomi degli umani da proteggere. Il fumo della pipa del suo pseudo- fratello la fece tossire « Perché fa così » asserì al cielo, non attendendo nessuna risposta in particolare. « E’ un ragazzo metodico » « Avrei usato più il termine stronzo per descrivere tuo fratello, Ozi » « Nah, in fondo ti vuole bene Norma » « Sarp sa provare sentimenti? Meriterebbe un articolo da parte della BBC » « Non essere dura con lui, almeno, non troppo » « Ho dovuto mollare ben tre ragazzi umani per le sue scenate da primadonna ». Ricordava ancora quando Tomaso era rimasto pressoché traumatizzato da uno dei suoi melodrammi, anche se poi l’umano si era rivelato un vero cretino. « Credo che abbia dei problemi nel gestire le emozioni e che quindi le tramuti tutte in rabbia » disse dopo due tiri di pipa. « Ha dei problemi incurabili, Ozi, mentali » disse Norma. « Ognuno di noi ha dei problemi » filosofeggiò. « Perché ti comporti sempre come se sapessi qualcosa in più che nessun altro sa? » « Perché sono più grande. Comunque, credo che le liti in famiglia vadano sanate, quindi sta sera fate pace » disse schioccandole un bacio sui capelli. Ecco perché Osiride era il suo fratello preferito. Il primo frangiossa si presentò alle tre di notte. La sua sagoma era bianca e ricordava in tutto e per tutto un umano se non per la sua schiena che terminava in una coda di coccodrillo, anch’essa albina, ed i suoi occhi, piccolissimi e neri. « Osssiride » sibilò con una lingua da serpente. « Mark » disse a mo’ di saluto. « Sssiamo venuti a prendere la lisssta ». Gliela porse e il frangi ossa lesse avidamente i nomi che oramai conosceva a memoria, che erano sempre gli stessi. « Noi restiamo nei paraggi per controllare che non infrangiate il patto » asserì Osiride. Di solito Mark era piuttosto fedele agli accordi, ma molti dei suoi no ed era necessario sincerarsi che non deviassero dalla lista. A Norma piangeva sempre un po’ il cuore a pensare che ogni sera almeno tre persone venivano disossate per nutrire i frangiossa, ma poi pensava a Colette, con il suo potere da anestesista, la dolce e materna Colette che, spinta dalla pietà, si era offerta di seguire i frangiossa e uccidere col cloroformio le vittime, così che non provassero dolore. Talvolta di notte sentiva la sua pseudo sorella gridare, sentiva Ivan che cercava di calmarla riempendola di baci e alcune notti sentiva Sarpedonte vomitare. Si era sempre chiesta se avesse mai visto cosa faceva Colette o se semplicemente fosse tutta una coincidenza. Non riusciva comunque a provare pietà per il suo pseudo fratello; era convinta che, se lui fosse stato un frangiossa, non avrebbe mai rispettato alcun accordo. L’alba sorse pigra e tenue sul mare, accendendolo di bagliori rossicci. Come ogni Sabato mattina, Colette si presentò a casa con il volto pallido come uno straccio, Sarpedonte si chiuse nella sua camera sbattendo la porta. Norma stava per ritirarsi in camera sua, ma Osiride le ricordò il discorsetto della sera prima con un cenno. Entrò senza bussare nella camera del nero velenifero che, proprio come i suoi occhi, era scura. Le pareti erano color petrolio, fogli sparsi intorno ad un lettore cd invadevano ogni angolo della scrivania, il rumore della doccia sembrava cullare quell’antro denso di oscurità. Ovviamente si era lamentata anche di questo: perché solo lui doveva godere del bagno privato in camera? La risposta le affiorò veloce sulle labbra: perché era un ragazzetto ribelle e capriccioso. Aspettò seduta sul suo letto che finisse la doccia, sfogliando distrattamente una rivista di medicina, perché lui, in fondo, anche se detestava ammetterlo, era intelligente. Pile e pile di libri di medicina e anatomia invadevano ogni angolo della libreria, assieme a libri propedeutici all’apprendimento di svariate lingue: russo, francese, svedese, greco antico, latino, ebraico. Non gli aveva mai chiesto se davvero sapesse parlarle, ma era sicura che sì, che ne fosse perfettamente in grado. Fissare tutti quei tomi le faceva salire la rabbia, una rabbia questa volta dettata dalla vergogna perché lui, così colto, aveva rinunciato ad andare all’università; le quote per mantenere due persone loro non le avevano e così aveva preferito che la frequentasse lei – anche se il termine frequentare era sopravalutato -, naturalmente infilandoci sopra una frase sprezzante, del tipo “io posso imparare tutto da solo, Norma ha bisogno di una guida”. Un vero gentleman, insomma. Uscì dal bagno con un pigiamino veramente poco cazzuto per uno come lui, a righe verdi e gialle, con dei cactus sui pantaloni. Naturalmente un regalo di Colette. « Oh, non si usa più bussare? » chiese irritato, come se avesse qualcosa di serio da nascondere. In estate andavano ai laghetti a fare il bagno nudi tutti e sei, pertanto era assurda la regola del bussare che Sarpedonte si ostinava a sbandierare. « Osiride mi ha intimato di riportare la quiete in famiglia » era una frase abbastanza di rito, anche perché queste loro sedute di riflessione all’alba, volute da Ozi, avvenivano tipo una volta al mese. Stava per fare un’uscita piccata delle sue quando all’improvviso divenne pallido come un lenzuolo e si bloccò. « Sarp? » Si prese la testa tra le mani e si graffiò il viso con le unghie, si incise la pelle, e continuò a graffiarsi, a scuotere la testa, sbattendo contro i mobili. Norma aveva paura, non aveva mai visto prima nulla del genere, nulla di così serio, questo era il solo termine che le veniva in mente. Per un secondo accantonò la lite col fratello. « Vattene » riuscì lui a dire. « Sarp siediti » « Devi andartene » « Voglio solo aiutarti » Fu allora che Osiride entrò in camera come un tornado « Per favore Norma, va’ a dormire ». Rimase sbalordita ancora per tre secondi buoni prima di uscire e di sentire che Sarpedonte stava vomitando l’anima. Certo, sapeva che erano cose che accadevano, certo, sapeva che era debole di stomaco. Ma non lo aveva mai visto accadere in prima persona. E non aveva nemmeno mai sentito Colette urlare così tanto.

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Capitolo 3
*** III ***


Era mezzogiorno inoltrato quando Camille si vestì per andare a lavoro e Colette cucinò così tanta pasta da sfamare un esercito. Norma non aveva dormito che solo un’ora.
« Ciao tesoro, tra poco si pranza » la salutò la pseudo mammina di casa mentre Ivan lavava i piatti. Era raggiante, come sempre, con i capelli rossi che le incorniciavano quel viso da bambola. Le urla della sera prima sembravano rumori di un’altra vita.
« Tutto bene ieri sera? » azzardò Norma.
« Solo un brutto sogno » sorrise.
Si scoprì che Osiride aveva passato la notte con Sarpedonte che non sembrava avesse intenzione di pranzare con loro, pertanto si ritrovarono in quattro a sbocconcellare pasta al pomodoro ed a parlare di argomenti futili, come nuovi smartphone o gli ultimi pettegolezzi del vicinato.
Norma non se n’era mai accorta, ma c’era qualcosa di estremamente finto in quei pranzi e in quelle cene. Qualcosa di irreale rispetto a ciò che avveniva di notte. Una volta aveva pensato che quella normalità fosse bella, che fossero a modo loro una famiglia da pubblicità. Però, mentre il pendolo dell’ingresso scoccava l’ora le parve tutto estremamente inquietante, tutto troppo perfetto, troppo calmo. Persino il sole che colorava di oro le tende le sembrò finto. Cosa ancora peggiore, le sembrò che tutti sapessero qualcosa che a lei sfuggiva.
« Come sta Sarpedonte? » si voltò verso Osiride.
« Aveva preso freddo ieri sera » le sorrise. Certo, il freddo. Con trenta gradi.
Ma il freddo non poteva spiegare la reazione folle che aveva avuto.
« Ma pensa » disse invece.
Nel tardo pomeriggio la casa era praticamente sgombra, se si faceva eccezione per Colette che non usciva mai che però era a dormire in camera sua. Era la sua occasione per cercare di scoprire qualcosa.
Entrò nella camera di Sarpedonte che dormiva della grossa. Se c’erano delle risposte, forse si trovavano nel bagno. Le piastrelle di cotto scintillarono quando accese la luce, tutto era in ordine, pulito. Aprì l’armadietto delle medicine e trovò numerose scatoline piene di pasticche; alcune erano assai banali, contro il mal di testa o contro il male alla gola, ma la sua attenzione venne catturata da delle fiale di vetro con un liquido paglierino. Non sapeva a cosa servissero, ma non le ritenne così importanti – aveva visto miliardi di volte Camille farsi iniezioni contro il male alla schiena.
« Cerchi forse qualcosa? » la voce di Sarpedonte sembrava provenire dall’oltretomba, ma non aveva per questo perso la sua supponenza.
« Medicine per … la nausea. Deve esserci un virus che gira » disse Norma con la migliore scusa che le fosse venuta in mente.
« Stai mentendo »
« Volevo anche vedere come stavi, nonostante tu non sia il mio fratello adottivo preferito »
Sarpedonte strinse gli occhi e Norma capì che non le credeva e che non le avrebbe mai creduto.
« Ozi? » chiese lui.
« E’ uscito a sbrigare i suoi segretissimi affari ».
« Immaginavo, altrimenti non saresti stata qui dentro. Il fatto che tu abbia un potere speciale oltre al veleno, non ti dà il permesso di invadere le camere altrui ».
« Cosa ti è successo ieri sera? » gli chiese piantando i suoi occhi nelle orbite nere di lui. Stava mentendo, c’era qualcosa, qualcosa di più. Lo sentiva, il potere dell’imposizione glielo faceva sentire. Sarpedonte la fissava, la bocca tirata in una smorfia severa. Forse voleva dirglielo?
C’era stato un tempo, un tempo di un’altra vita, in cui loro due facevano a gara a chi bevesse più lattine di Coca- cola. C’era stato un tempo in cui lui mostrava solo i suoi occhi umani, quelli color cobalto. C’era stato un tempo in cui lui e Osiride erano i suoi fratelli preferiti.
Poi avevano scoperto la sua capacità di imporre agli altri cosa fare; Ozi diceva addirittura che fosse capace di imporre qualcosa anche al futuro, di plasmare gli eventi. Da quel momento tutto era finito e, pochi anni dopo, Sarpedonte avrebbe cominciato a vomitare ogni sera.
Aveva sempre creduto che il loro legame, essendo fratelli di sangue, fosse più forte e che per questo l’avessero lasciata un po’ da parte. Ora non ne era così sicura. Il modo in cui lui la fissava non aveva niente di normale, niente di fraterno. Eppure sapeva, anzi, era certa che le volesse bene, dopotutto aveva un gran senso della famiglia.
« Credo che dovrei riposare e basta » disse secco.
Voleva disperatamente recuperare ciò che aveva perduto, e voleva capire « Magari potresti distrarti accompagnandomi a fare la spesa. Colette mi ha lasciato una lista immensa »
Ci pensò per il tempo che le parve un’eternità « Va bene ».
Naturalmente Colette non le aveva lasciato assolutamente nessuna lista, quindi comprò cose a caso (latte, formaggio, anche della carne) e fece il giro più lungo appositamente. Sarpedonte non si lamentò e la aiutò a portare le buste cariche di cibo « Sei ancora arrabbiato per la questione di Cielo? »
« Non troppo »
Sapeva cosa doveva fare. Lo sapeva benissimo. Guardò il fratellastro, il suo profilo severo, e poi guardò dentro se stessa e capì che era la sua unica nonché ultima carta. Si avvicinarono ad un vicolo e lo mise spalle al muro. Con tutta l’energia che aveva in corpo dopo un’ora sola di sonno, usò l’imposizione contro un membro della sua famiglia. Si sentì sporca, viscida, traditrice. Ma doveva sapere. Si disse che lo faceva per lui, per salvarlo, ma in realtà tutto il suo egoismo represso era venuto fuori: era solo uno sfizio che lei stessa voleva togliersi.
Magari lui soffriva di una patologia cronica o forse di depressione. Doveva sapere.
« Perché vomiti così spesso? » chiese mentre la vista di Sarpedonte diventava offuscata, come quella di Margot.
Però durò solo un secondo. Sbatté le palpebre e la spinse contro il muro opposto del vicolo « Cosa hai fatto?! »
Norma era terrorizzata e provava una vergogna terribile. Ora sapeva che le cose non sarebbero mai più diventate come prima, glielo lesse negli occhi color del cobalto, venati di delusione e sorpresa. Voleva sapere. Doveva sapere. Qualcosa non andava in lui, in Colette e forse nemmeno in Camille.
« Ho paura delle cose che accadono di notte, di Colette … »
« Devi calmarti » e fu questa la frase che stupì Norma.
« Come? »
« Per favore, calmati » ripeté.
E Norma di nuovo lo vide diventare pallido, ma fu solo un secondo, poi il cobalto venne sostituito dal nero e di nuovo riapparve, come uno schermo in tilt.
 
Il tono di Osiride era davvero duro e infuriato mentre camminava avanti ed indietro davanti al suo letto, nella stanza in cui per punizione l’avevano segregata. Colette aveva provato a difenderla, ma a nulla era valsa la sua dolcezza davanti al volto duro di Sarpedonte.
« Norma quello che hai fatto è senza possibilità di scusa » cominciò « cosa ti è saltato in mente? E, soprattutto, cosa avevamo detto riguardo l’imposizione? Non sui membri della famiglia » parlò usando lo stesso tono di cui si sarebbe servito davanti ad un bambino di tre anni.
« Ozi, lui nasconde qualcosa. Dobbiamo scoprire cosa » gridò. Per tutta risposta, venne guardata come una malata mentale « Davvero! Lo sai che non farei mai una cosa del genere, voi siete la mia famiglia ma Sarpedonte è molto strano »
« Oh, Norma, Norma Norma » scosse la testa « questo tuo odio nei confronti di un fratello mi dà da pensare riguardo Cielo. Io approvo la vostra amicizia, ma noi ti vogliamo davvero bene e tu ti stai comportando in maniera irresponsabile »
« No! Ozi, ci nasconde qualcosa! ».
« Norma, mio fratello di sangue è irascibile, presuntuoso e permaloso ma non ci tradirebbe mai. Tu, proprio tu, oggi ci hai traditi, eppure continui a puntare il dito contro qualcun altro »
« Perché la mia imposizione non ha avuto effetto su di lui? »
« Ti sarai distratta »
« Tu sai che sono brava, sai che non mi distrarrei mai » disse supplicandolo. Ed era vero. Non aveva mai sbagliato un’imposizione. Mai.
« Mi dispiace » mormorò prima di uscire e chiudere dietro di sé la porta a chiave.
Si addormentò piangendo per la rabbia ma a destarla nel cuore della notte fu il dolore, quel dolore familiare al petto, terribile, schifoso. Era peggiore del giorno prima, era più acuto, esigeva di essere sentito. Non riusciva nemmeno a respirare per tre volte di fila, boccheggiava. Quando stava per chiamare aiuto, il dolore passò, come se non fosse mai esistito.
E di nuovo, anche quella notte, Sarpedonte vomitò.
Fu la luce del tardo mattino che filtrava dalle persiane a svegliarla, danzandole sui riccioli castani ma, a far sì che fosse subito operativa, fu suo fratello che la fissava seduto su una sedia di fronte al letto.
« Buongiorno » mormorò a braccia conserte. Prima che lei potesse rispondere, lui partì nuovamente all’attacco « Sono qui da un’ora, e da un’ora penso ai motivi per cui tu abbia deciso di usare l’imposizione su di me » fece una pausa, inumidendosi le labbra « e sai una cosa? Non ne trovo nemmeno uno che sia convincente anche solo per un cinquanta per cento, un motivo che possa dirmi perché la mia sorellina volesse levarmi il libero arbitrio ».
« Io … non ho creduto molto alla storia della debolezza di stomaco, ecco. Ero solo curiosa, tutto qui  » mormorò Norma.
« Ti fidi troppo degli umani oramai » disse toccando un tasto dolente tra loro.
« Per la miseria Sarp! Sono quasi come noi! Ho amato moltissimi umani e almeno loro con me non avevano segreti! E guarda Cielo: si farebbe in quattro per me! Sei un razzista ».
Si aspettava un insulto, una risposta piccata, ma non una risata. Suo fratello rideva di gusto, una risata maligna, tetra, che finiva nelle sue orbite nere « Mia piccola sorella » sospirò addolcendosi « l’amore è sopravvalutato ».
E così come era entrato, uscì, silenzioso come la notte.

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Capitolo 4
*** IV ***


Cielo l’aveva chiamata con una voce venata dalla ridarella che poteva essere sintomo di una sola cosa: un casino e, per la precisione, un casino con almeno un ragazzo.
« Dove vai? » la bloccò Osiride sulla porta.
« Da Cielo »
« Norma … » ma non  gli diede il tempo di dire qualcosa. Semplicemente si tirò la porta blindata dietro di sé.
Si ricordava chi le aveva dato il nome così come sapeva di certo che la madre di Osiride e Sarpedonte aveva una vera passione per la mitologia antica, visti i nomi dei figli e anche una vera ossessione perché i due portassero quei nomi, visto che glieli aveva tatuati addosso, sopra la clavicola sinistra.
I genitori di Colette e Ivan erano stata più discreti: li avevano scritti su dei foglietti lasciandoli in tasca ai due gemelli, prima di andarsene chissà dove.
Solo Camille e Norma non avevano ricevuto un nome: la prima se lo era scelto, la seconda era una beffa di Ozi. Norma come “normale”. Già da piccola lei voleva essere esattamente quello, normale.
Nessuno di loro sapeva come si fossero ad una certa ritrovati ad essere una famiglia, così, all’improvviso. Il più grande era Osiride, sulla trentina, ma sembrava molto più giovane, con quei capelli lunghi sempre legati e quello sguardo severo. Poi c’erano Colette e Ivan, un paio di anni in meno, seguiti a ruota da Camille, Sarpedonte e Norma; essere la più piccola le aveva sempre dato il voltastomaco.
Non sapeva perché i loro genitori non li avessero voluti; Ozi le aveva sempre detto che spesso gli adulti sono peggio dei bambini e che prendono decisioni stupide; Colette invece che era destino, che i fili della sorte si erano intrecciati per dare vita alla loro dolce famigliola. Dal canto del suo pessimismo, Sarpedonte asseriva che i veleniferi avessero sentimenti diversi dagli umani e che i discorsi degli altri erano atti ad umanizzare qualcosa che non era umano per natura; semplicemente i vincoli di sangue non contavano, dopotutto loro erano stati forgiati dal veleno.
Trovò Cielo circondata da vestiti e scarpe.
« Non so cosa mettere » disse a fil di voce mentre con le braccia spalancate stava a pancia in su sul letto.
« Questo si era capito » rise Norma.
« E non trovo nemmeno più i soldi che mi aveva lasciato mio padre » disse e Norma sentì come se dell’acqua gelata le fosse corsa giù per la schiena. Si era completamente dimenticata dei soldi di Cielo e di certo non poteva dirgli che suo fratello li aveva inceneriti.
« Sei sicura di non averli già usati? » chiese inserendo quel po’ di imposizione, necessaria a far sorgere il dubbio nel cervello dell’amica « Mi avevi detto che te ne aveva lasciati pochi e che erano finiti subito » rincarò la dose.
Usava l’imposizione su Cielo? Spesso. Non lo riteneva moralmente sbagliato, anzi, semmai un’opera di pace. Riusciva a toglierle dubbi e tristezza talvolta, riusciva ad alleggerire i pesi dell’umana o, almeno, quelli che per lei erano dei pesi insormontabili. Purtroppo per Norma erano solo problemi normali, aveva un diverso modo di “sentire” le emozioni, ma aveva imparato che essere in dubbio tra due bellissimi ragazzi poteva essere un motivo di cruccio piuttosto pesante per Cielo.
« Hai ragione in effetti » concluse.
Era così dannatamente facile manipolarne la mente.
« Comunque non ho mai capito perché tu non mi abbia mai presentato uno dei tuoi fratelli, sono così fighi » cominciò a blaterare trasognata « dovresti organizzarmi un incontro galante ».
Questa era la sua seconda fissa: provarci o con Ozi o con Sarp. Norma pensava che sarebbe stato bello includere anche lei nella loro fintamente felice combriccola, ma ciò che non poteva rivelarle era che la parte single della famiglia usava gli esseri umani come bambole gonfiabili o, almeno, era ciò che aveva captato da certe conversazioni.
« Non sono il tuo genere » ribatté per l’ennesima volta « e mi pare che tu abbia già abbastanza grilli per la testa »
« Devo darti ragione » confermò.
 
La ronda notturna contro i frangiossa Norma la passò con Sarpedonte. Lo aveva convinto a prendere posizione sopra il tetto della casa di Cielo. Se ne stava lì fermo, la nube nera che gli danzava attorno, come se giocasse con lui, un segno tangibile del suo umore; visto il modo in cui oscillava, sembrava abbastanza tranquillo.
« Tu davvero credi che noi non proviamo sentimenti? » domandò all’improvviso Norma.
« Ne proviamo meno e in modo diverso » rispose come un gatto sornione, mentre si rigirava tra le mani un libro di fisica.
« Cosa c’è allora tra Colette e Ivan? »
 Ci pensò su « Quello che gli umani chiamerebbero amore » disse.
« Non hai mai paura di passare il resto della tua vita da solo? »
« Ho voi; perché dovrei? »
« Non sarebbe più bello avere qualcuno che ti conosce come nessun altro? » chiese.
Fu allora che Sarpedonte si rizzò a sedere « Ti conosco da che ho memoria; so quando sorridi imbarazzata e quando menti, so quando hai paura e quando sei felice; so quando Colette è giù di morale, quando Camille è stanca » fece una pausa « viviamo assieme e ci conosciamo meglio di chiunque altro, abbiamo solo bisogno di rimanere uniti ».
Norma rifletté sulle sue parole: aveva indubbiamente ragione, ma in una parte del suo cervello continuava a scorrerle davanti l’immagine di Colette sorridente stile cameriera anni cinquanta, il viso di Sarpedonte deturpato da qualcosa di più della nausea, lo sguardo serio di Osiride.
E le sembrava tutto indissolubilmente così finto.
La quiete notturna fu interrotta dal vapore di suo fratello che cominciò a guizzare in ogni direzione, come uno sciame d’api.
« Hai visto quel frangiossa? » domandò e Norma intravide su un balcone di una casa vicina un bagliore bianco che entrava da una portafinestra. Annuì.
« Bene, non dovrebbe essere lì dentro ».
Planarono in silenzio dietro al mostro, le ali da pipistrello che sembravano cullate dall’aria, le esalazioni di veleno che si intrecciavano tra loro.  Di solito era sempre Norma ad entrare, purtroppo Sarpedonte era una bomba a mano pronta ad esplodere.
La casa sembrava piuttosto tranquilla ed enorme e arzigogolata; il genere di case che lei odiava, piene di meandri, di piccole stanzine di servizio.
Tutti dormivano; se si concentrava, riusciva a sentire i respiri degli abitanti e la loro tranquillità, dettata dall’aver pagato la tassa. Se chiudeva gli occhi poteva anche sentire l’irrequietezza di Sarpedonte che non vedeva l’ora di menare le mani.
Arrivò dinanzi ad una grande porta scura che si aprì senza fare alcun rumore, lasciando vedere dietro di sé la camera di un ragazzo, con magliette sparse un po’ ovunque e un cellulare in carica che spandeva una leggera luce verdina; dormiva profondamente, con delle ciglia lunghe da bambola che rendevano il suo volto incredibilmente pittoresco. Norma adorava osservare gli umani nel loro momento di massima debolezza, scrutarli mentre sembravano così fragili, così soli. Nessun velenifero di cui lei fosse a conoscenza riusciva a dormire così beatamente, i loro sonni erano agitati, frenetici, scossi. Mentre stava per andarsene, l’umano si svegliò.
Lo percepì prima ancora che lui si mettesse a sedere e accendesse la luce.
Dannazione.
Non le era mai capitato, primo perché di solito Colette li sedava, secondo perché il loro orecchio non era in grado di percepire i movimenti dei veleniferi ma, evidentemente, c’erano eccezioni.
Norma era già terrorizzata così, era già alla ricerca dell’imposizione (anche se non sapeva come costringerlo a rimettersi a letto), ma il panico l’attanagliò quando il ragazzo non sembrò affatto spaventato. Era tranquillo, quasi annoiato, mentre si scostava i capelli arruffati dalla fronte e gli piantava quegli occhi cangianti nei suoi.
Occhi cangianti. Gli occhi dei bracconieri.
Merda.
« Ciao » disse con la voce impastata dal sonno « Chi sei? »
La velenifera era pietrificata, desiderava con tutta sé stessa che lo scenario cambiasse che quella camera si tramutasse in quella di Cielo, anche se neppure l’amica l’aveva mai vista per come era davvero, con le piccole corna scure e quegli occhi da paura.
Giocò la sua migliore possibilità « Sono solo un sogno. Rimettiti a dormire » e funzionò. La vista del ragazzo si appannò e subito si distese girandosi dall’altra parte, mentre lei si occupò di spegnere la luce.
Richiuse la porta dietro di sé, alla caccia del frangiossa che, incredibilmente, sembrava essere sparito.
« Per un secondo ho pensato che fossi morta » disse suo fratello con le braccia conserte, appoggiato con fare annoiato alla balaustra del balcone « Allora? »
« Non c’era nessuno a parte i padroni di casa »
« Ho visto una luce accendersi » ribatté.
Norma sospirò « Il figlio si è svegliato. Mi ha vista; i suoi occhi … non saprei dirti di che colore fossero. E’ un bracconiere, ma sembra aver creduto alle mie parole e sembra essersi riaddormentato » mentirgli sarebbe stato inutile.
« Tutto questo non ha senso » mormorò « nemmeno che ti abbia lasciata andare »
« Era mezzo addormentato Sarp, probabilmente nemmeno lui sapeva davvero cosa aveva di fronte »
« Bisogna dirlo ad Ozi ».
Per tutto il resto del pattugliamento Norma pensò che, in fondo in fondo, le era andata piuttosto bene. I bracconieri dopotutto cacciavano i veleniferi per estrarre il loro veleno o cose del genere; Sarpedonte li disprezzava ancor di più degli esseri umani perché, in fondo, anche loro lo erano, ma con una mutazione genetica che, per qualche assurdo motivo, li rendeva refrattari al loro veleno e con occhi indescrivibili.
Tra i primi insegnamenti che Ozi aveva dato a Norma c’era quello di non fidarsi di loro, mai, per nessun motivo al mondo, lezione che Camille non aveva recepito evidentemente, ma che solo più tardi aveva imparato, sotto il nome di Mona, la bracconiera che sembrava una pantera, lunghi capelli neri e lisci, pelle olivastra, occhi indescrivibilmente belli che coprivano tutte le sfumature del marrone, talvolta arancioni, talvolta castani, altre volte ancora di un nocciola dorato bellissimo. Li ricordava piuttosto bene, erano dopotutto l’ultima cosa che lei aveva visto prima di ucciderla.
Camille era seriamente innamorata di lei e l’aveva tenuta nascosta ed al riparo, ma la situazione all’improvviso le si era ritorta contro quando si era ritrovata in uno scantinato, legata e torturata, e le sue ali avrebbero portato quelle cicatrici per sempre, così come la sua anima. L’imposizione le faceva sentire che Camille era infelice, insicura, mai soddisfatta, forse per sempre preda dell’accidia. Portava ancora la collana di Mona al collo; una vota le aveva detto che la avrebbe tolta solamente quando avrebbe potuto appenderla al cadavere Angela, la seconda torturatrice.
 
Osiride faceva sempre su e giù da una parte all’altra quando qualcosa non andava e, in quella situazione, faceva venire davvero il mal di mare, con le mani intrecciate dietro la schiena e lo sguardo fisso a terra, la sua crocchia di capelli lunghi arruffata come mai prima.
« E non vi siete detti altro? » chiese per quella che doveva essere almeno la decima volta e ricevette la decima medesima risposta. Norma aveva già descritto la casa almeno quattro volte, il ragazzo e il palazzo, ma a suo fratello sembrava non bastare.
« Sei sicura di stare bene? »
« Sì Ozi » questa situazione cominciava davvero a seccarla, sembrava stessero celebrando un funerale. Persino Camille e Ivan, che di solito stavano sulle loro, erano lì in attesa di un piano. Un piano per cosa poi?
« Non avresti dovuto lasciarla entrare da sola; avrebbero potuto prenderla e farle del male! » si scagliò contro Sarpedonte che rimase in silenzio, con le orbite nere che avrebbero voluto inghiottire tutto il salotto « Ad ogni modo dobbiamo tenerli d’occhio, assolutamente. Colette, te ne occuperai tu, usa tutto il cloroformio necessario »
« Sarà fatto » rispose.
Norma decise che ne aveva abbastanza di quella scenata di panico gratuito e aveva anche una sua personalissima idea sulla faccenda: era una trappola. Un frangiossa non sarebbe mai e poi mai entrato in una casa di bracconieri, soprattutto loro che potevano sentirlo; c’era entrato per un motivo e, forse, tutta l’ansia di Ozi era dettata dal conoscere quel motivo. Che fosse il tassello mancante che stava tanto disperatamente cercando?

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Capitolo 5
*** V ***


« Cielo, come stai a conoscenze del vicinato? »
« Piuttosto buone » rispose mentre sbocconcellava patatine.
Aveva deciso che, se c’era una persona che poteva avere una minima idea di chi fosse il ragazzo bracconiere, quella poteva essere la sua umana. Sapeva di certo che aveva buoni rapporti con i vicini, tra vecchiette che le davano le uova e le preparavano i tiramisù, quindi forse avrebbe potuto fare uno sforzo e cercare di abbassare l’età media delle sue conoscenze.
« Mentre venivo da te ho visto un ragazzo che mi sembrava di aver già incontrato da qualche parte. Abita nel palazzo vicino, capelli di media lunghezza, alto circa come me … »
« Non conosco » rispose.
Questo fece per un secondo infuriare Norma; sapeva che non ci stava davvero pensando e, anche se una parte di lei la scusava, perché non poteva conoscere l’urgenza dietro la sua domanda, doveva convincerla a sforzarsi di più « Dai cara, fai uno sforzo, era molto carino » disse e si stupì lei in primis di pensarlo. Era carino? Non ci aveva prestato la giusta attenzione.
« Potrebbe essere il tizio con la moto, quello abbronzato » disse con gli occhi al cielo, pensierosa.
Non era di grande aiuto, non lo era per niente.
« Riusciresti a trovarlo su internet? » e con quella domanda sbloccò la curiosità dell’amica « Ti sei presa una cotta per lui? » sogghignò.
« No, nel senso … voglio solo sapere il nome, tutto qui » ci mancava solo che Cielo pensasse che ora lei avesse una cotta per l’umano che doveva uccidere.
Naturalmente l’amica non le credé, ma cominciò a scartabellare su vari siti « L’unica persona che potrebbe essere, è questo Dennis » e le mostrò una foto assolutamente datata. Innanzi tutto, nella foto aveva circa quindici anni, ma i lineamenti erano gli stessi. Doveva essere lui nella versione non due punto zero e, in quello scatto, gli occhi sembravano castani.
« Mi pare sia … lui » mormorò cercando di fissare nella mente nome e cognome.
« Se vuoi posso chiedere a Giorgia se lo conosce » suggerì.
Norma pensò che ci mancava solo che la migliore amica di Cielo si mettesse in mezzo ad una faccenda già abbastanza surreale « No grazie tesoro » e per tutta risposta ricevette spallucce.
 
Osiride era uscito, come ogni pomeriggio; nel pieno del giorno la loro casa sembrava deserta. A volte le piaceva scherzare dicendo che forse, non erano veleniferi ma vampiri, che vivevano di notte e sparivano di giorno.
Lo studio del fratello maggiore era una sorta di cubo dalle pareti azzurre e con gli arredi bianchi, i cui colori conferivano una grande serenità a Norma. Di solito a nessuno era permesso entrare, tantomeno scartabellare.
Se Cielo era il disordine fatto persona, fu grata alla meticolosità di Ozi: tutto era fascicolato, qualunque cosa, in modo così preciso da rasentare il disturbo ossessivo compulsivo.
Trovò ciò che le serviva su una mensola abbastanza alta, ad appena un battito d’ali sopra di lei, un vecchio quadernone ad anelli che registrava i nomi di tutti i bracconieri della zona in ordine alfabetico. Una parte di lei di nuovo si sentì come se stesse tradendo la sua famiglia, ma d’altro canto pensò che, dopotutto, non stava facendo niente che sicuramente Osiride non aveva già fatto.
Fu in quel momento che, forse, capì l’angoscia del capo famiglia in carica, perché Dennis sembrava non comparire in quel registro. Né tra i morti, né tra i vivi. Chiuse il registro e tamburellò le dita sulla spessa copertina di cartone, riflettendo se non avesse fatto tanto rumore per nulla. Forse i suoi occhi erano solo castani come nella foto che Cielo le aveva mostrato? Forse era stata la luce improvvisa?
Restava comunque il fatto che l’aveva subito sentita e che non sembrava poi così sconvolto.
Dal sito fornitole da Cielo scoprì cose molto più interessanti, per esempio che lavorava in una spiaggia, probabilmente in uno di quei bagni in come cameriere serale e, con un po’ di fortuna, anche di giorno. Quello di certo era un dettaglio importante, tra le mille foto inutili e imbarazzanti del sito.
 
« Milioni di ristoranti in città e noi qui, fuori città, a caso » esordì Cielo lamentandosi per quella che le parve la trilionesima volta.
« Suvvia, una cenetta romantica a lume di candela, solo io e te » le sorrise Norma scendendo dalla macchina.
Era alla fin fine un posto carino, un’enorme entrata a vetrate, un ristorantino da circa settanta coperti con tavoli e sedie bianche, arredi moderni con piante alte. Dalla terrazza principale si aveva una vista mozzafiato del mare che, in estate, all’ora di cena, era più bello che mai, con il sole che si perdeva in ogni onda, la luce che brillava sulle increspature dell’azzurro.
« Devo dirti che come posto è davvero carino » ammise l’amica « sempre che per il conto non serva un rene »
« Sta sera offro io » ribadì Norma. Sapeva benissimo che nemmeno un rene sarebbe servito a pagare il conto. Aveva dovuto raschiare in profondità tutti i suoi risparmi e sperare che bastassero.
Lasciò Cielo al tavolo con la scusa di cercare un bagno; si perse a vagare per lo stabilimento, mentre i camerieri le sorridevano cortesi e pregò di non avere un’aria disperata. Doveva essere lì, per forza: il locale era pieno, aveva sentito dire che alle serate sushi si riempiva sempre e, pertanto, a rigor di logica, tutto il personale doveva trovarsi a lavoro a dar manforte.
Sarpedonte e Osiride l’avrebbero già uccisa se avessero scoperto che, appositamente, si era andata a cacciare nella tana del lupo, ma per fortuna era riuscita a deviare ogni sospetto su di sé raccontando loro una scusa assai banale e assai credibile.
Fu quando davvero andò in bagno che se lo ritrovò di fronte, con una sdraio in spalla, faccia a faccia, e poté finalmente osservarlo meglio: aveva dei lineamenti decisi, non comuni, era poco più alto di lei e aveva uno sguardo buono, pulito, con occhi di un colore indecifrabile, come delle galassie in perenne movimento, ora grigi, ora nocciola, ora verdi, ora qualcosa a metà.
La fissava come si fissa un insetto strano, gli occhi ridotti a due fessure, ma non disse niente e passò oltre. Norma sapeva che nella sua mente era rimasta un’ombra del loro incontro, che si chiedeva dove l’avesse già vista; il punto era che lui non poteva ricordare il momento, eppure un tarlo, una sorta di dejà vu gli rodeva il cervello.
Si concesse un paio di secondi per rifletterci, e poi decise che, dal momento che non c’era nessuno nei paraggi, ne valeva la pena. Gli bloccò la strada e la voce di nuovo le uscì seducente e letale, fluida come veleno « Sei un bracconiere? ». La vista di Dennis si appannò, lo sguardo divenne vuoto « No ».
« Chi sono i tuoi genitori? »
« Eloise e Pablo Rotterdast » rispose ipnotizzato.
Norma sapeva benissimo che nessuno dei due era nella lista di Osiride.
Lo lasciò andare, rintontito, mentre scuoteva la testa e tornò al tavolo di Cielo.
 
Era circa l’una quando, dopo aver riaccompagnato a casa la sua migliore amica, si diresse sul balcone di Dennis, curiosa come una gatta. Da brava spia, si nascose dietro il boiler della caldaia e lo osservò dai vetri della finestra mentre era intento in una partita online.
Camille, se fosse stata lì, le avrebbe torto il collo, ma lei non riusciva a smettere di pensare che uno come lui non poteva davvero essere in grado di uccidere, sembrava così gentile, così buono. Da qualche parte i suoi fratelli e sorelle giravano per la ronda. Da qualche parte, nel cielo scuro, Sarpedonte si chiedeva dove fosse finita. Da qualche parte, in un altro pianeta, in un’altra vita, Norma mangiava gelato a casa di Cielo preoccupandosi della cellulite, dei ragazzi, dell’università, e non c’erano frangiossa, e non c’erano neppure segreti o fratelli; magari c’erano una mamma e un papà, di quelli che ti fanno il terzo grado e ti cucinano il tuo piatto preferito, non esistevano ali, non esisteva veleno.
Da qualche parte c’era sicuramente la vita che lei sognava, ma che, forse, il Dio che tanto adoravano gli umani, le aveva portato via.
Qualcosa di peloso le scontrò una gamba e cominciò ad abbaiare; era un fottuto bassotto a pelo lungo che le mostrava i dentini, isterico. Norma spiccò immediatamente il volo, poco prima che la portafinestra si aprisse e Dennis corresse sul balcone.
Si tenne a debita distanza, ma voleva vedere cosa sarebbe successo.
Qualcosa che di sicuro non avrebbe mai e poi mai previsto « Ehi! Sei tu? » urlò al mondo circostante il ragazzo dagli occhi strani.
« Non ho paura, spunta fuori » disse ridendo.
Sapeva che era una pessima idea, lo sapeva benissimo, ogni fibra del suo corpo glielo suggeriva; ma Norma era bravissima a scegliere sempre la cosa sbagliata. Saltò sul balcone con le sue ali nere, mentre il veleno viola e rosso le circondava le corna, come un’aureola.
« Ciao! » le sorrise, tendendole la mano, un gesto che la velenifera non raccolse.
« Dovresti avere paura » disse invece, serafica.
« Sei una velenifera vero? Sì, so un sacco di cose su di voi … » e cominciò a parlare a ruota libera di diari, ritagli di giornale e di quanto si fosse documentato, con la voce incrinata dall’eccitazione, come se lei fosse una superstar e lui un fan.
Il Dio degli umani doveva avere un senso dell’umorismo alquanto pessimo.
« Sei molto bella » esordì ad un certo punto nel suo monologo.
« Davvero, lusingata, ma non sono venuta qui per la love story del secolo » ribatté secca « ho solo bisogno di sapere se sei un bracconiere » gli buttò lì, fredda.
« Ehm, sono quei tizi che vi danno tipo la caccia, giusto? »
« Esattamente » sibilò con un sorriso a trentadue denti che mostrava i canini affilati.
« Ahahah, ma figurati! Sono solo umano » si sganasciò dalle risate.
Era una situazione alquanto folle e alquanto frustrante « Un umano con occhi di nessun colore? » incrociò le braccia. Dennis le stava rubando tempo, tempo che lei non aveva. Già immaginava Sarpedonte incendiare l’intero quartiere.
« Ah sì, beh, nessuno se lo spiega, ma sono un sacco fighi ».
Parlare con lui era peggio di parlare con Cielo. Grandioso.
« Ho bisogno che tu me lo spieghi. Ci vediamo tra tre notti. Per allora, voglio una spiegazione »
« Che forte, tornerai! » fece anche un saltino di gioia. Imbarazzante, davvero.
« Vedi di non farmi perdere la pazienza, Dennis. Altrimenti non mi presenterò più da sola »
« Ommioddio ce ne sono altri?! » e, prima che potesse svenire dall’emozione, Norma volò via, chiedendosi, almeno mille volte, cosa dannazione le fosse saltato in mente.
E, doveva ammetterlo: era proprio bello.

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