Questo Nostro Mondo

di WandererS
(/viewuser.php?uid=806861)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione a Questo Nostro Mondo ***
Capitolo 2: *** Accenti d'amore per le donne cadute - Fantine ***
Capitolo 3: *** Il rosso e il nero - Enjolras e Grantaire ***



Capitolo 1
*** Introduzione a Questo Nostro Mondo ***


 
Introduzione a Questo Nostro Mondo
 
 
 
 
 
Questo nostro mondo, a prima vista, non è molto diverso da quello in cui vivi. Gli stessi paesaggi, le stesse città, le stesse specie di animali.
Anche la sua storia e le persone che lo abitano sono praticamente le stesse.
I nostri due mondi vivono come su binari paralleli, attraversano eventi simili e arrivano a lambirsi, senza entrare mai in contatto. Convivono persino nello stesso luogo: con ogni tuo più piccolo movimento, senza neppure rendertene conto, tu sfiori il mio mondo, e migliaia di altri.
E tutti i mondi esistenti nell'universo sono strettamente interconnessi, attraversati da invisibili correnti, intimamente legati, alcuni più di altri.
In questo momento, tu hai preso una decisione, stai compiendo un'azione ben precisa, ma avresti potuto fare un'altra scelta, e quella diversa possibilità, impalpabile e ormai per te già dissolta in pochi istanti, si è concretizzata in un altro mondo, diverso dal tuo solo per questo minuscolo dettaglio, e un altro te vive ora in quell'altro mondo, che si evolverà in un percorso indipendente ma strettamente connesso a quello del tuo. E lo stesso è accaduto miliardi di volte fin dalla creazione dell'universo, portando alla formazione di altrettanti mondi distinti, alcuni molto diversi da quello che tu conosci. E in alcuni di essi un altro te potrebbe vivere la sua vita, ignaro dell'esistenza tua e del tuo mondo.
Un altro te potrebbe persino abitare qui, in mezzo a noi. E avere un daimon.
Perché è questo che ci differenzia da voi, nonostante le profonde affinità: fin da quando il primo uomo è apparso su questa nostra terra, accanto a lui c'era il suo daimon. E così è sempre stato da quel momento in avanti: ogni persona nel nostro mondo ha un compagno per la vita, inseparabile e insostituibile.
Il legame tra un umano e il suo daimon... è una cosa impossibile da spiegare, deve essere sentito nel proprio cuore. È come se un pezzo di sé fosse al di fuori del proprio corpo fisico, ma ancora intimamente connesso con il suo spirito. Ognuno di noi è un'unica anima inseparabile ma divisa in due corpi, che pur avendo un proprio nome e una propria coscienza si completano a formare un unico essere. Nessuno nel nostro mondo è mai completamente solo.
E, poiché in ognuno di noi convivono una natura femminile e una natura maschile, generalmente il daimon è del sesso opposto al proprio, anche se esistono delle eccezioni, forse dettate dal caso, forse da una particolare caratteristica di quelle anime.
Ciascun daimon può parlare e muoversi, anche se non può allontanarsi troppo dal suo umano senza tendere la connessione che li lega fino al punto di rottura, né è consentito ad alcuno toccarlo: sarebbe un contatto troppo intimo e profondo per chiunque non sia l'altra metà della propria anima. Ha infatti un corpo fisico, pur se fluido, che cambia forma durante l'infanzia e infine assume l'aspetto dell'animale che riflette la più intima natura della sua anima. Questa profonda consapevolezza di sé stessi e conoscenza del proprio animo è una delle conquiste fondamentali del passaggio alla maturità per tutti noi, e, anche se da bambino chiunque ha desiderato che il suo daimon potesse continuare a cambiare forma per sempre, alla soglia dell'adolescenza tutti cominciano a desiderare una certa stabilità e comprendono la propria natura, accettando l'aspetto definitivo del loro daimon e gioendone.
Solo la morte può spezzare questo legame, e il daimon si dissolve nell'aria come nebbia.
E lo stesso mondo della morte è uno tra le migliaia di altri, oscuro e angoscioso, sorvegliato da orribili arpie che accettano di condurre le anime attraverso le tenebre solo in cambio delle loro storie, saziandosi di avventure che loro stesse non potrebbero mai vivere.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Accenti d'amore per le donne cadute - Fantine ***


Accenti d'amore per le donne cadute - Fantine
 
 
 
 
 
Fantine passeggiava davanti alla vetrina di un caffè, rabbrividendo al vento gelido della sera nel suo vestito scollato. L'acquavite ingollata appena prima di uscire aveva ormai esaurito il suo effetto e quel poco di calore che le si era annidato nel petto era evaporato nella notte, lasciandola tremante in balia degli elementi.
La cuffia calcata sul viso, gli occhi bassi, percorreva quei pochi metri di selciato con passo regolare, come un soldato in marcia, soffocando di tanto in tanto un colpo di tosse. Il suo sguardo era fisso sulla figura che saltellava nella neve a poca distanza dalle sue scarpine consunte, il pelo color nocciola del leprotto stagliato contro quel candore: il suo daimon, Isil, unico compagno della sua misera solitudine.
Mentre la regolarità dell'abitudine guidava i suoi passi nella fanghiglia ormai mezza disciolta come un galeotto nella sua cella, la sua mente volò lontano e un amaro sorriso le increspò le labbra screpolate. Pensò a quel passato in cui tutto sembrava luminoso e perfetto, quando i suoi lunghi capelli color del grano facevano voltare gli uomini per l'ammirazione e le ragazze per l'invidia. Le si affacciarono alla mente ricordi di passeggiate e pranzi, gite in carrozza e vestiti raffinati, risate, facezie e baci rubati.
Non voluta, non cercata, un'immagine si stagliò nitida in quella massa di pensieri distanti e offuscati dalla nostalgia: un viso maschile segnato da rughe distese dall'allegria, i lineamenti duri e irregolari addolciti da uno sguardo innamorato di ragazza. Fantine tentò di imbrigliare la propria mente traditrice, ma invano: assistette da spettatrice impotente a quell'idillio di vacanze campestri e passeggiate tra le viuzze parigine, sentì le sue mani su di sé che sembravano voler lodare la sua bellezza con quei tocchi esperti, mentre Isil, fremente, stuzzicava sfrontato il daimon di Félix, Listolier, un serpentello indolente dalla lucida pelle color smeraldo.
Neppure il peso degli anni trascorsi era riuscito a cancellare il ricordo di quelle sensazioni, di quegli istanti di felicità a cui guardava ancora con malinconico desiderio. Ormai da tempo quella nostalgia non era rivolta ad alcuna persona, non era così sciocca da rimpiangere l'uomo che l'aveva abbandonata o le amiche che le avevano voltato le spalle, non più, ma le mancava la sensazione di essere ammirata, circondata da persone che apprezzavano la sua compagnia, in un mondo sereno e privo di complicazioni.
Aveva nostalgia anche dell'unico granello di bellezza e di luce che le era rimasto da quel periodo felice: la sua bambina, la sua piccola Cosette. Era contenta di non averla trascinata con lei in quell'abisso oscuro di sofferenza e miseria, ma con Cosette così lontana a volte dimenticava per chi si era ridotta a quel modo, e forse anche un solo sguardo a quel viso rotondo e roseo avrebbe potuto darle forza, aiutarla a non arrendersi, per lei. E invece doveva farsi coraggio da sola, consolandosi al pensiero che almeno la sua bambina aveva dei vestiti pesanti, tre pasti caldi al giorno e delle compagne di giochi.
Stirò le labbra in un sorriso amaro: il massimo che era concesso a lei era l'aspro bruciore dell'acquavite. Nemmeno quei corpi accaldati e sudaticci che le si gettavano addosso con malagrazia, colti dalla frenesia come belve affamate davanti ad un pezzo di carne sanguinolenta, riuscivano a trasmetterle un po' di calore, e presto se ne andavano lasciandola infreddolita e tremante, le dita intorpidite che frugavano il pavimento per cogliere il gelo polveroso delle monete da un soldo gettate con indifferenza.
Accucciata nella penombra, le ginocchia ossute strette al petto, a malapena coperte dal tessuto sottile e sbrindellato della veste sudicia, aspettava che il suo Isil si riavvicinasse e, senza dire una parola, le si accoccolasse al fianco per trasmetterle calore e conforto. Solitamente, dopo appena pochi istanti, Fantine si ritrovava con il leprotto stretto fra le braccia, il viso affondato nella sua pelliccia perché lo asciugasse assorbendo le sue lacrime.
Vedere il suo daimon, il compagno della sua anima, distogliere lo sguardo dai suo corpo, voltare il capo e accucciarsi nell'angolo più buio e lontano, dove rimaneva, teso e immobile, fino a che il cliente non si allontanava con uno sbuffo e un tintinnio di monete, era ancora più doloroso per lei quando le si affacciavano alla mente i ricordi dei giorni felici in cui Isil rimirava affascinato Félix insieme a lei e solleticava con le morbide zampette il ventre liscio del suo Listolier.
Il pallido riflesso di quella luce rendeva più buia quest'oscurità.
Fantine scosse il capo, riemergendo dall'abisso dei suoi pensieri, e rivolse uno sguardo triste e un sorriso carico di affetto al suo piccolo, coraggioso daimon, che continuava a consolarla e a incoraggiarla e a spronarla per il bene di Cosette, condividendo le sue privazioni e infinite umiliazioni ma senza mai arrendersi.
A un tratto, un grido spezzò la monotonia del suo cammino, e lei non riuscì a trattenersi dal sollevare lo sguardo.
«Quanto sei brutta!»
Abbassò subito gli occhi con discrezione, cogliendo solamente un cappello da benpensante e un guazzabuglio di colori mascherati da un ampio mantello scuro, con un affilato muso di ratto che spuntava tra le pieghe: un avventore del caffè era uscito a fumare e, appoggiato alla vetrina, aveva trovato un buon passatempo nel commentare al suo passaggio.
Finse di non sentire quel primo insulto, né alcuno dei successivi, che lo zerbinotto gli lanciava con triste regolarità ogni volta che lei gli passava davanti.
All'ennesimo “Sei sdentata! Vatti a nascondere!” un fremito dell'antica vanità aveva indotto Isil a bisbigliarle, pochi passi più avanti, un secco “Ignoralo. È uno sfaccendato, si diverte così.”, e lei aveva tentato di prendere un profondo respiro, spezzato da un violento attacco di tosse, proseguendo la sua passeggiata.
Aveva percorso però solo pochi metri quando all'improvviso si sentì svenire: le mancavano le forze, sentì coglierla una nausea come mai aveva provato prima, un'orrenda sensazione di violazione che la fece voltare con un movimento lento e scoordinato.
Quell'uomo aveva afferrato le orecchie di Isil, lo aveva sollevato da terra e lo stringeva forte con un ghigno sul volto, e Fantine poteva sentire quelle dita estranee dentro di lei, in un punto dove non avevano alcun diritto di insinuarsi, uno strappo brutale che era per lei una violenza più intima di qualsiasi tocco sul suo stesso corpo.
Si sentiva debole, stordita, e il suo daimon, stretto in quella presa umana, così sbagliata, così spregevole, stava impazzendo per l'orrore e il disgusto, gli occhi spalancati e supplicanti.
Serrando i denti e cercando di superare lo stordimento, Isil tentò di divincolarsi da quell'immonda stretta, si sollevò a graffiare il polso e il braccio dell'uomo con le unghiette affilate.
Fantine si riscosse, ritrovò la voce che quel gesto violento e assurdo aveva soffocato nella sua gola e gettò un urlo scagliandosi contro quell'infame, gli piantò le unghie in viso, cercò di arrivare agli occhi: glieli avrebbe cavati.
Finalmente la stretta che serrava il profondo della sua anima si allentò quando l'uomo sollevò le braccia a proteggere il volto, ma lei continuò a colpirlo a calci e pugni imprecando e urlando ingiurie, mentre il suo caro daimon affondava gli incisivi affilati nella carne di quel bastardo.
D'un tratto si sentì strattonare all'indietro e l'insulto che stava per sputare con voce roca e adirata le si spense in gola.
«Seguimi!»
A raggelarla d'improvviso era stato il tono secco e autoritario di quell'unica parola, accompagnato da uno sguardo duro e gelido come il ghiaccio. Fantine sentì il calore dell'ira abbandonarle le guance mentre quegli occhi spietati incontravano i suoi.
Ebbe appena il tempo di accogliere nella sua stretta il suo amato Isil, che le si era lanciato tra le braccia affondando le unghie nella sua pelle e il muso nell'incavo del suo collo, come tentando di insinuarsi sotto la sua pelle, di avvicinarsi il più possibile al suo cuore, dove era il suo posto, ora e per sempre. Fantine lo stringeva così forte da affondare le dita nella pelliccia color nocciola e nella carne sottostante, ma quella morsa dolorosa era per entrambi una gioia immensa, avrebbero voluto poter essere ancora più vicini, poter affondare l'uno nell'altra e non separarsi mai più. Non avrebbero mai permesso a nessuno di violarli ancora a quel modo. Isil era suo, suo e di nessun altro. E Fantine era sua. Si appartenevano, erano due frammenti di una stessa anima.
La connessione calda e profonda creata da quella stretta spasmodica alla pelliccia del suo daimon era in netto contrasto con le forti dita che le serravano l'avambraccio in una morsa gelida e implacabile, trascinandola verso il lato opposto della piazza. Un grosso mastino precedeva quello che aveva riconosciuto come l'ispettore Javert, facendo loro largo tra la folla di curiosi con un basso ringhio autoritario.
Quando realizzò che quell'uomo la stava portando all'ufficio di polizia, non poté impedire al suo corpo stanco di cominciare a tremare. I brividi non si placarono nemmeno al calore della stufa, una volta all'interno, e Fantine si raggomitolò in un angolo, con Isil in grembo, gli occhi di entrambi spalancati e muti.
Vide un poliziotto poggiare una candela accesa sul grande tavolo di legno massiccio che dominava la stanza e Javert sedersi a scrivere in quella pozza di luce. Il suo sguardo, però, fu attirato dalla figura massiccia del suo daimon, a pochi passi di distanza, intento a fissarla. Nonostante l'ispettore apparisse serio e impassibile, la schiena dritta, il volto concentrato e inespressivo, il suo daimon sembrava tradire un certo nervosismo: teneva le orecchie leggermente sollevate e la coda dritta, come all'erta, i denti appena visibili nella pozza nera del muso, in cui spiccavano due piccoli occhi scuri. Fantine si sentiva oppressa da quello sguardo indagatore che seguiva ogni suo minimo movimento, accompagnandolo a volte con uno scatto nervoso della coda, come se da quell'attento esame potesse dipendere la sua condanna o la sua assoluzione. E, riflettendoci, era proprio così: quell'uomo stava scrivendo il suo destino.
Strinse un po' più forte Isil al petto, cercando sollievo in quel contatto.
Quella bolla di silenzio che si era dilatata a riempire tutta la stanza fu d'un tratto infranta.
«Prendete tre uomini, e conducete questa ragazza in prigione. Ne hai per sei mesi.»
Quel secco ordine, pronunciato da Javert mentre consegnava il foglio sigillato al poliziotto in piedi al suo fianco, senza nemmeno alzare lo sguardo, colpì Fantine come un maglio.
Si sentì come se le forti mani di quell'uomo, che fino a un attimo prima reggevano il suo destino, lo avessero spezzato di netto, come una penna d'oca consumata e ormai difettosa.
«Sei mesi! Sei mesi di prigione! Ma che cosa ne sarà di Cosette? La mia bambina...»
La voce le si spezzò, un singhiozzo le serrò la gola, provocandole un doloroso accesso di tosse, mentre si gettava in avanti, le ginocchia ossute premute contro il pavimento duro e bagnato.
Isil lasciò la sua stretta con un balzo scoordinato, privo della sua naturale eleganza, e le mani di Fantine si giunsero in un gesto di supplica mentre lei implorava pietà al volto della Giustizia.
«Signor Javert, vi chiedo grazia. Se aveste visto il principio, avreste saputo che non ho avuto torto! È quel signore che non conosco che ha... che ha...»
Un involontario brivido di disgusto le attraversò la schiena al ricordo di quella sensazione, mentre una lacrima le solcava il volto. Prese fiato.
«Lui ha afferrato il mio daimon, Isil, qui, così si chiama. Non stava facendo niente di male, stavamo passeggiando tranquillamente, senza disturbare nessuno. Ci ha fatto male, sono andata in bestia.»
Isil, le orecchie basse sulla schiena, ancora scosso da un leggero tremito, era l'incarnazione dell'innocenza, cercava di attirare le simpatie del daimon-mastino mostrandosi ingenuo e arrendevole, pur non osando interrompere la sua Fantine.
«Era già un po' che mi molestava, io non facevo niente, ero cortese con lui, non gli parlavo, lo lasciavo divertire... E all'improvviso, quella sensazione. Ho avuto uno scatto, è comprensibile, no? Forse ho avuto torto ad aggredirlo a quel modo... Il signor ispettore sicuramente sarebbe intervenuto a mio favore, se non avessi ferito quel signore... Fatemi grazia per oggi, questa volta, signor Javert. Come manterrò la mia Cosette? Non mettetemi in prigione! Vedete, è così piccola, non può guadagnarsi il pane, senza di me è perduta! Abbiate pietà, signor Javert, signor ispettore!»
Ora il suo volto era rigato dalle lacrime, sottili tracce chiare nella polvere che la strada le aveva lasciato sul viso, e persino Isil, abbandonata ogni parvenza di decoro, si era gettato sul pavimento sporco a mostrare il ventre bianco, tremante, vulnerabile.
Sentiva un tramestio intorno, una porta che veniva aperta e poi richiusa con un tonfo, rumori di passi e voci soffocate, ma tutta la sua attenzione era rivolta a quella statua impassibile dal volto di uomo e al suo daimon dall'aria imponente e minacciosa.
«Su, ti ho ascoltata! Hai detto tutto? Fila adesso, hai i tuoi sei mesi!»
L'ultima, flebile speranza si spense nel suo cuore.
«Grazia!», non poté trattenersi dal mormorare.
Ma oramai non aveva altro interlocutore che la schiena dell'ispettore, granitica e inflessibile. Due soldati la afferrarono per le braccia, ma prima che potessero trascinarla in piedi una voce risuonò nella stanza.
«Un momento, per piacere!»
Fantine alzò lo sguardo e vide un uomo dall'aria autorevole fare un passo nel cono di luce della lampada. Alle sue spalle, i contorni di una figura massiccia si delineavano nell'ombra.
Javert si tolse il cappello e chinò brevemente la testa in un saluto rispettoso ma con una punta di stizza nella voce.
«Scusate, signor sindaco...»
A quelle parole, Fantine si alzò, respingendo i soldati e, affiancata in un istante dal suo daimon, andò dritta dal signor Madeleine.
«Ah, sei tu il signor sindaco!»
Il suo viso si trasfigurò in un'orribile maschera mentre una risata amara, quasi crudele, la scuoteva. Nessun essere così piccolo e minuto aveva mai avuto uno sguardo così intimidatorio quanto quello di Isil, mai leprotto era parso così aggressivo.
Lo sputo di Fantine centrò il sindaco in pieno volto.
La reazione, però, non fu quella che si aspettava. Madeleine si asciugò il viso con un gesto composto, quasi delicato, e parlò con voce calma.
«Ispettore Javert, mettete questa donna in libertà.»
Queste poche parole, così inaspettate, all'apparenza così fuori posto in quel momento, in quel luogo, provocarono una simile reazione in entrambi: l'incredulità.
Fantine, data l'assurdità della cosa, si convinse di essere stata ingannata, in qualche strano modo, dall'acustica della stanza, e che a concederle la libertà fosse stato l'ispettore, e pensò di convincerlo a confermare la grazia raccontando la propria triste storia. Si mise, dunque, a parlare a mezza voce, narrando la propria caduta nel nero abisso della miseria, a partire da quel giorno ormai lontano in cui, dando retta a un mucchio di pettegole, il sindaco l'aveva cacciata dalla fabbrica. Da quel momento Fantine non aveva più guadagnato abbastanza, finendo col ridursi a una donnaccia di strada, pur di sopravvivere, pur di poter mantenere la sua creatura, la sua piccola Cosette.
Trascinata dalle sue stesse parole fino a convincersi di aver udito la grazia dalle labbra dell'ispettore, lanciando ogni tanto uno sguardo di disprezzo a quell'orribile sindaco che seguiva con gli occhi ogni suo movimento e sembrava bersi ogni parola, si avviò alla porta e, rivolgendo un cenno ai soldati, fece per uscire.
«Ragazzi, il signor ispettore ha detto che sono libera, me ne vado.»
Ma a quel gesto Javert si riscosse dall'immobilità, incatenato al suo posto dalle parole del sindaco fino a quell'istante, incredulo e attonito.
«Sergente, non vedete che questa sgualdrina se ne va?! Chi vi ha detto di lasciarla andare?»
«Io.»
Quelle parole avevano raggelato Fantine, che, stupita e tremante, si volse verso quei due uomini che si contendevano il suo destino. Solo ora li vedeva trasfigurati, come se un velo si fosse scostato a svelarne la vera natura: l'angelo della Giustizia si era tramutato in un demone che voleva trascinarla nelle tenebre della prigionia, e colui che considerava l'incarnazione e la causa di tutte le sue disgrazie aveva spalancato le ali piumate per farle da scudo.
Vide Javert impallidire, spalancare gli occhi in uno sguardo disperato, mentre un rumore sordo nasceva nella gola del suo daimon. Il mastino non ringhiava, non mostrava i denti, ma quel basso brontolio pareva vagamente minaccioso.
Tra le ombre alle spalle del sindaco si delineò una sagoma di oscurità più densa, più massiccia, che avanzò fino a portarsi accanto a Madeleine, dove la luce le permise di materializzarsi in un'enorme orsa dal lucido pelo bruno. Era eretta sulle zampe posteriori e torreggiava sugli astanti.
Un daimon di quelle dimensioni era insolito e, anche se nulla nella sua postura suggeriva aggressività, il sergente fece involontariamente un passo indietro a quella vista, la sua grossa falena-daimon che frullava freneticamente le ali accanto al suo orecchio.
Il daimon di Javert rizzò le orecchie e sollevò il muso, fissando sull'orsa i suoi profondi occhi scuri. In contrasto, l'ispettore chinò lo sguardo. Sarebbe potuto apparire intimorito, se non fosse stato per l'atteggiamento rivelatore del suo daimon e per la voce ferma e decisa con cui osò opporsi alla parola del sindaco Madeleine.
«Signor sindaco, è impossibile.»
L'orsa piombò a terra sulle quattro zampe con uno sbuffo che, più che di rabbia, pareva di esasperazione.
«Come?»
«Questa disgraziata ha insultato un borghese.»
«Ispettore Javert, ascoltate. Io credo a questa donna. E mi sono informato, ho saputo quel che è successo, la gente là nella piazza mi ha detto tutto: è stato il borghese ad avere torto. L'hanno visto stringere il piccolo daimon di questa povera creatura nelle sue mani, capisce? È inaudito! Secondo una polizia in regola, avrebbe dovuto essere arrestato lui
Le spalle di Javert si curvarono un po' di più nell'udire quelle parole, la coda del mastino si abbassò di un palmo, ma non fu abbastanza per farlo demordere.
«Questa miserabile ha insultato il signor sindaco.»
Il mastino arricciò leggermente il labbro superiore, si intravide un lampo candido, quasi l'accenno di un ghigno. L'orsa non parve cogliere la provocazione e si limitò a fissarlo con muso inespressivo.
«Ciò riguarda solo me. La mia ingiuria mi appartiene.»
«Chiedo scusa al signor sindaco, ma la sua ingiuria non appartiene a lei, ma alla giustizia.»
Quasi impercettibilmente, i due daimon erano avanzati fino a trovarsi quasi muso a muso, a pochi palmi di distanza, e parevano impegnati in una guerra silenziosa, fatta di sguardi e posture e vibrazioni di gola.
L'inaudita insubordinazione di Javert, non trovando espressione che nella sua voce, si mostrava del tutto solamente attraverso il suo daimon, non più incarnazione e simbolo della fedeltà all'autorità ma immagine di ribellione.
Il sindaco e il suo daimon, al contrario, apparivano imperscrutabili, quasi sereni, in quella battaglia.
«Ispettore Javert, la prima giustizia è la coscienza. Ho sentito questa donna, so quello che faccio.»
«E io, signor sindaco, non so quello che vedo.»
«Allora contentatevi di obbedire.»
«Obbedisco al mio dovere. Il mio dovere esige che questa donna faccia sei mesi di carcere.»
Madeleine parve pentirsi del tono secco e sprezzante che si era lasciato sfuggire in quel momento di tensione, e la sua voce si addolcì, mentre un brontolio soddisfatto si levò dalla sua orsa.
«Ascoltate bene: non farà neanche un giorno.»
Quell'inaudita dolcezza, quel tono gentile, quell'inappropriata imposizione di un sindaco nelle faccende di polizia sferzarono Javert più del disprezzo e della rabbia, e all'improvviso quel servo della legge si scrollò dalle spalle l'abituale soggezione all'autorità che pareva a lui connaturata e sollevò il viso, fissando su Madeleine lo sguardo fiero di chi non ammette la resa.
«Sono desolato di resistere al signor sindaco, ma io ero presente. Questa ragazza si è gettata sul signor Bamatabois, che è elettore e proprietario di una bella casa. Insomma, i buoni costumi, ci vuole un po' di rispetto... Comunque, signor sindaco, questo è un fatto di polizia della strada che mi riguarda, e io trattengo la Fantine.»
A quelle parole, il volto di Madeleine si adombrò, i muscoli parvero guizzare potenti sotto la sua pelle mentre incrociava le braccia in un gesto che aveva sapore definitivo, e la sua orsa-daimon si eresse nuovamente sulle zampe posteriori, come a rafforzare le parole che il suo uomo stava per pronunciare.
A quella vista, il mastino tremò, indietreggiando con timore circospetto, decretando la sconfitta di Javert prima ancora degli ultimi affondi.
«Il fatto di cui parlate è un fatto di pulizia municipale. Ai termini degli articoli nove, undici, quindici e sessantasei del codice d'istruzione criminale, ne sono giudice. Ordino che questa donna sia prosciolta.»
«Ma, signor sindaco...»
«Ricordo a voi l'articolo ottantuno della legge del 13 dicembre 1799 sulla detenzione arbitraria.»
«Signor sindaco, permettete...»
«Non una parola di più.»
«Eppure...»
«Uscite.»
Uomo e mastino, la testa alta ma la coda tra le gambe, non poterono far altro che obbedire.
Fantine li osservò in silenzio, con lo stupore dipinto sul viso, incredula all'idea di essere stata salvata dalle avide grinfie di quel demone in uniforme.
Quindi, rimasti soli, Madeleine si rivolse a lei.
«Vi ho ascoltata. Non sapevo nulla di quel che avete detto. Credo sia vero, sento che è vero. Non avevo idea di essere indirettamente responsabile di tale disgrazia, e voglio porvi rimedio. Pagherò i vostri debiti, farò venire la vostra bambina. Vivrete qui, a Parigi, o dove vorrete. Mi incarico di vostra figlia e di voi. Oh, povere creature!»
Fantine boccheggiava nell'udire quelle parole, non riusciva a capacitarsene. La speranza di quel futuro radioso che ora volta aveva sognato splendeva ora di nuovo davanti ai suoi occhi, più reale che mai, quasi bastasse allungare una mano per afferrarla e stringerla a sé.
Vivere libera, ricca, felice, onesta, con Cosette!
La gioia la sopraffece, e Fantine svenne.
Madeleine la sostenne, sentendo la sua pelle bruciare di febbre attraverso la stoffa sottile dell'abito, e la prese in braccio senza sforzo. Pareva piccola e leggera come una bambina.
«Beorne, il suo daimon...»
Con un cenno del capo indicò all'orsa il fagottino di pelliccia che si era raggomitolato ai piedi di Fantine, gli occhi socchiusi per la spossatezza. Il daimon si chinò a prenderlo delicatamente per la collottola, con una dolcezza sorprendente per una creatura così poderosa.
A un cenno imperioso del sindaco un soldato si affrettò ad aprire la porta e quella strana processione si avviò per le strade ormai deserte, davanti l'uomo con in braccio una creatura vestita di stracci in cui si poteva ancora riconoscere uno scollato abito da sera, e subito a seguire la grossa orsa con fra i denti un leprotto ancora mezzo avvoltolato, tanto che a guardarlo di profilo ricordava quasi una falce di luna.
La notte era gelida, e la neve che aveva ricominciato a cadere ammantava le strade in una coltre di silenzio.
Il sindaco Madeleine, lanciato uno sguardo preoccupato al cielo, si affrettò verso casa, i capelli già spruzzati di bianco.
 
 
 
 
 
Fantine fu portata a casa del sindaco e affidata alle cure delle suore dell'infermeria, nonostante la ritrosia provocata in loro dall'aspetto e dalla sconcezza del suo abito.
Era debole, febbricitante, la notte spesso si agitava in preda agli incubi facendo accorrere di tutta fretta suor Simplice perché la calmasse con i suoi modi fermi e gentili, la preoccupazione svelata solamente dal volo frenetico e irregolare del suo daimon-passerotto, Aletheis.
Non era difficile indovinare il motivo del suo malessere e l'oggetto dei suoi incubi: Fantine spesso mormorava nel sonno il nome di Cosette, e durante una notte agitata in cui era stata preda dei deliri della febbre Aletheis era riuscito a farsi raccontare la storia, a spizzichi e bocconi, dal leprotto che, tremante e sudaticcio, se ne stava accoccolato nell'incavo del collo della donna, incapace di recarle sollievo ma irriducibile nel tentare.
Da quella notte la suora si era ammorbidita nei suoi confronti, non la trattava più come una donnaccia di strada a cui era costretta a dare soccorso per spirito di carità cristiana e devozione al signor Madeleine, ma come una creatura sfortunata irrisa e tormentata da un fato crudele. Cominciava ad affezionarlesi, e la compassione aveva preso il posto del giudizio morale.
Quella santa era diventata un po' più donna, e questa donna un po' più santa.
Fantine, dal canto suo, considerava i suoi salvatori alla stregua di angeli, e quella casa un lieto paradiso. Nonostante la tosse che le squassava il petto e la febbre che la avvolgeva ardente, il pensiero di essere ridiventata libera e onesta l'aveva risollevata da quell'abisso infernale che era stato la sua vita fino a quel momento, e non avrebbe potuto dirsi più felice se solo avesse potuto stringere al seno la sua bambina.
Quando, ogni giorno alle tre in punto, il signor Madeleine le faceva visita, la sua prima domanda era per Cosette: dov'era, come stava, se era riuscito a farla venire a Montreuil-sur-mer, se era trattata bene là alla locanda, se era cresciuta, quanto era diventata alta...
Il sindaco accoglieva quel fiume di parole con espressione dolce, sorridendo alla tenerezza di quella madre così devota, e la rassicurava dicendole che la piccola Cosette stava bene, era perfettamente in salute, i suoi conti erano stati saldati e sarebbe arrivata da un giorno all'altro.
Non appena Fantine chiudeva gli occhi, però, una ruga profonda solcava la fronte di Madeleine e il suo volto si faceva scuro, preoccupato, nell'udire quel raspìo nel suo respiro, nello scorgere il lucido velo di sudore che le imperlava la fronte, nel notare il suo piccolo daimon scosso da brividi e tremori. Il medico che il sindaco aveva fatto chiamare le aveva riconosciuto un male ai polmoni, e in stadio avanzato. La questione della bambina era più complessa di quello che aveva fatto credere a Fantine: i locandieri che la ospitavano, quei Thenardier, non facevano altro che intascare i soldi e accampare scuse per non farla partire. Le parole del medico, e il suo sguardo scuro, lo preoccupavano.
All'ennesimo rifiuto dei Thenardier a mandare la piccola a Montreuil-sur-mer, all'ennesima notte insonne ad ascoltare gli echi lontani dei colpi di tosse della povera Fantine, decise di andare a risolvere la questione di persona.
Non avrebbe rischiato che quella donna e la sua bambina non potessero rivedersi per un ultimo saluto solo per la gretta avidità di un locandiere.
 
 
 
 
 
Senza il signor Madeleine, la vita nella sua casa pareva quasi sospesa, come se ne mancasse l'ingranaggio principale. Ciascuno aveva i suoi compiti e li svolgeva al meglio, ma quell'assenza continuava ad attirare i loro pensieri.
Suor Simplice si occupava ormai quasi da sola di Fantine, cercando di offrirle un po' di conforto nella penombra dell'infermeria quasi deserta dopo la visita quotidiana del medico. Dal suo sguardo trapelava solamente un affetto compassionevole, unico segno della sua preoccupazione era il frullare agitato delle ali del suo daimon, ma non poteva fare a meno di sentire la mancanza della figura rassicurante del sindaco.
Fantine alternava ai deliri della febbre brevi sonni agitati, intervallati da violenti colpi di tosse che le squassavano il petto, e in quelle condizioni il medico aveva sconsigliato qualunque fonte di ulteriore affaticamento. Temendo che un qualsiasi cambiamento le avrebbe causato agitazione, soprattutto se riguardava la sua amata Cosette, si era deciso di nasconderglielo il più a lungo possibile.
Così le domande di Fantine, ormai assuefatta alla presenza del sindaco e acutamente consapevole della sua mancanza, ricevevano risposte vaghe, evasive. Suor Simplice nel sentir nominare il signor Madeleine distoglieva lo sguardo dal volto emaciato della donna e lo faceva vagare per la stanzetta spoglia, mentre persino Aletheis tratteneva il frullio delle sue ali e le si poggiava su una spalla, il capino reclinato, silenzioso come non mai.
«Oggi non può proprio venire» borbottava, dileguandosi poi con un accenno alle garze da riordinare, all'ora tarda o alla necessità di far riposare l'ammalata.
A volte giungeva in soccorso un'altra suora o una domestica, e Fantine riceveva spiegazioni più articolate: quel giorno il sindaco aveva molto da fare, l'aveva visitata mentre dormiva, la pregava di scusarlo ma era stato trattenuto alla fabbrica... Suor Simplice, nel sentire quelle menzogne, stringeva le labbra fino a farle diventare un'unica linea sottile e severa, ma si diceva che erano del tipo bianco, innocuo, motivate dalla bontà e dalla compassione, e le tollerava di buon grado.
Ciò nondimeno, non poteva mentire.
Erano passati appena un paio di giorni dalla partenza del signor Madeleine, e Fantine era più agitata che mai. Si era svegliata in preda all'ennesimo incubo, un velo di sudore freddo sulla pelle e il respiro spezzato, e le sue grida roche avevano fatto accorrere suor Simplice.
«Aletheis!»
A quel comando conciso il passerotto volò rapido oltre il lettuccio e prese tra le zampe una pezzuola di stoffa inumidita dal bordo di un basso bacile, che in un attimo fu tra le mani di Simplice e sulla fronte di Fantine. Il daimon poi si accostò cautamente alla figura sul letto, evitando accuratamente di sfiorare la pelle ardente di una donna che non era la sua, ma avvolgendo protettivo le ali intorno al leprotto che le sussultava sul petto. Sentendo l'agitazione del daimon, vedendo i suoi occhi spalancati dal terrore, intuendo lo spaesamento che doveva provare dopo averlo visto in decine di pazienti, Aletheis cercò di confortarlo, di dargli qualcosa con cui combattere quel senso di impotenza.
«Isil... Isil, ascoltami! Va tutto bene, non è niente, un semplice incubo... Confortala! Devi farle sentire che non è sola. Mandale pensieri rassicuranti, strofinale il muso sul collo, fai qualcosa! Mostrale che sei con lei e lo sarai sempre, che non importano i suoi incubi e le sue paure, tu sei il suo daimon e non l'abbandonerai mai. Insieme siete forti, e potete vincere qualsiasi battaglia...»
Nel frattempo Fantine aveva cessato di gridare e stava farfugliando in preda all'agitazione, gli scatti del viso appena trattenuti dalle mani ferme ma gentili di suor Simplice, che cercava di darle un po' di sollievo rinfrescandola con la pezzuola.
«No... Abbandonata, sola... La mia bambina, me l'hanno portata via... Un letto vuoto... Sono sola... Un ratto... Sola...»
«Ssst... Non sei sola... Il tuo daimon, Isil, non ti lascerà mai: un unico cuore, un'unica anima, ricordi? E ci sono anch'io, sono qui... Finché ne avrai bisogno sarò qui, non ti abbandonerò, lo sai... È il mio voto, dopotutto.»
La lingua ruvida del leprotto parve voler sottolineare quelle parole solleticandole il collo, ma il fragile corpo fu scosso dai singhiozzi.
«E presto sarà qui anche Cosette, vedrai! Potrai riabbracciare la tua bambina, non è meraviglioso? Il sindaco ha fatto tanto per te, non dubiterai di lui, e ti ha promesso di riportartela, non ci vorrà molto...»
A quelle parole il volto di Fantine si illuminò, gli occhi spalancati come quelli di una bambina, ancora colmi di lacrime.
«Potrò davvero rivedere la mia Cosette? Presto?»
«Presto» concesse la suora con un tenero sorriso.
Fantine si era totalmente trasfigurata, sembrava più viva, la notizia le aveva dato colore alle guance e una nuova luminosità nello sguardo.
«Allora siate buona, suor Simplice, mandate a chiamare il signor sindaco. So che ha molti impegni ma troverà qualche minuto per venire a trovarmi, ne sono sicura. Devo chiedergli della mia Cosette! Ci saranno le spesucce da pagare, il viaggio da organizzare... Quei Thenardier non avranno nulla da opporre, vero? Per favore, chiamatemi il signor Madeleine, ora...»
Suor Simplice avrebbe potuto chiamare una domestica e mandarla a cercare il sindaco, e quella avrebbe senz'altro detto a Fantine che era impegnato e non poteva essere disturbato, risolvendo così la questione, ma non ne ebbe cuore. Non poteva, in coscienza, guardare quel volto aperto e fiducioso e gettarvi contro una falsa indifferenza.
Con la speranza di non peggiorare ulteriormente le sue condizioni, decise di dirle la verità.
«Non si può. È già partito.»
Un sospiro, e sentì come se un macigno le fosse stato sollevato dal petto. Non si era resa conto del peso di quel peccatuccio fino a che non se ne era liberata.
«Quando? E perché non me l'ha detto? Forse che è successo qualcosa?»
Suor Simplice affilò lo sguardo, pur mantenendo un sorriso rassicurante.
«Il medico ha raccomandato di non farti agitare, perciò niente domande. Va tutto bene, presto il signor Madeleine tornerà con Cosette. Non possiamo prevedere i piccoli imprevisti, i ritardi, le dilazioni, e tu devi pensare solo a guarire.»
«Ma...»
Suor Simplice si lasciò sfuggire un sospiro.
Sollevò leggermente il velo grigio lasciando intravedere la pelle diafana del collo e armeggiò per qualche istante. Risistemò il vestito con gesti resi esperti dall'abitudine e prese con delicatezza la mano di Fantine, poggiandole qualcosa sul palmo.
Fantine sentì il lieve peso di una piccola croce d'argento, ancora tiepida del calore della sua pelle, e sollevò lo sguardo pieno di stupore.
«Io non ho risposte da darti, ma forse Lui sì. Dopotutto, questa crocetta mi è stata regalata proprio dal signor Madeleine... Stringila tra le dita, prega per lui con cuore sincero e sono certa che il Signore ti ascolterà. Quanto meno, la preghiera dovrebbe esserti di qualche rassicurazione.»
Fantine sembrava sbalordita, e anche il suo daimon, ora accoccolato al centro del suo petto, la fissava con gli occhi sgranati.
Suor Simplice accolse il silenzioso suggerimento di Aletheis, che le si era posato su una spalla e le stava becchettando un orecchio attraverso il velo, e lasciò Fantine al suo riposo. Sperava sinceramente che la preghiera le fosse di conforto.
Sembrò che fosse esaudita: per i tre giorni successivi, Fantine fu un modello di virtù. Non era mai scortese con il medico e ubbidiva prontamente alle sue disposizioni, dormiva serena, e nelle ore di veglia se ne stava quieta, gli occhi spalancati, osservando il mondo in silenzio o raccontando con tono dolce, quasi nostalgico, della Cosette che ricordava dai primi mesi a Parigi.
Persino la malattia sembrava aver allentato la sua morsa: non si svegliava più urlando in preda agli incubi portati dalla febbre, la sua pelle non ardeva più con l'intensità oramai consueta, e persino la tosse che la tormentava sembrava essersi indebolita.
Quando Madeleine finalmente fece ritorno, Fantine dormiva.
Una volta arrivato non aveva voluto perder tempo: aveva scambiato con suor Simplice poche parole, chiedendo come stava la poveretta e, un po' rassicurato dalla risposta di lei, le aveva affidato la piccola Cosette per qualche minuto, di modo che si lavasse dal viso e dalle mani la polvere della strada. Era entrato quindi a vegliare la dormiente.
Fantine era coricata su un fianco, le gambe piegate e il corpo leggermente raccolto sotto le lenzuola, come un bambino nel grembo della madre. Al centro di quel magro fagotto vi era un piccolo batuffolo color nocciola, attorno a cui era avvolto stretto un braccio scheletrico, le dita affondate nella morbida pelliccia del leprotto-daimon. L'altra mano, seminascosta tra la guancia e il cuscino candido, incorniciava il viso, rivolto verso la porta.
Madeleine osservò stupito come sulla pelle lucida e pallida le labbra scure si stagliassero formando la dolce curva di un sorriso sereno, quale raramente aveva visto illuminare quel viso segnato dalla sofferenza.
Dopo un istante, l'ingresso di Cosette interruppe il filo dei suoi pensieri.
La piccina, lasciata la mano premurosa di suor Simplice, fece un paio di passi esitanti all'ombra del grande orso-daimon.
Indossava una vestina di lana marrone, leggermente sgualcita dal lungo viaggio ma pulita e di buona fattura. Il signor Madeleine fu lieto di aver pensato a portarle da vestire: non avrebbe sopportato di mostrarla alla madre con addosso quegli stracci sbrindellati che erano stati per anni l'unica concessione di quegli orrendi locandieri.
Non aveva potuto far nulla, però, per tutto il resto: il corpo ossuto, il viso smagrito e pallido, le mani callose, la pelle screpolata, i capelli secchi e stopposi... Una vita breve ma già costellata di difficoltà e sofferenze aveva lasciato presto i suoi segni su quella figurina magra ed esile.
Sul volto scarno spiccavano due grandi occhi azzurri. Quello sguardo, rilucente di tristezza, vagava sul lettuccio dell'infermeria, sfiorandone l'occupante con esitazione, quasi temesse di svegliarla.
Notò il corpo magro, la pelle diafana tesa sulle ossa sporgenti, gli occhi incavati come quelli di un teschio, incorniciati da un alone brunastro, i capelli corti e ispidi... Quella donna era così diversa da sua madre! I pochi, brevi sprazzi di ricordi si erano arricchiti negli anni di particolari più o meno accurati, impreziositi da quella mente fantasiosa di bambina, ma ora a quella figura angelica, bellissima, dai lunghi capelli biondi e le guance di pesca, si contrapponeva questo spettro di donna.
Fantine non era più una regina, ma, dopotutto, nemmeno Cosette era più una principessa.
Quasi avesse sentito il peso di quello sguardo, Fantine d'un tratto aprì gli occhi e, vedendo Madeleine lì in piedi sulla soglia, sorrise.
«E Cosette?»
Non aveva notato quella piccola sagoma all'ombra del grande orso bruno, la bambina che la fissava con occhi spalancati, la mano tremante stretta intorno ad uno spaurito topolino di campagna.
Un movimento sul letto, accanto a Fantine, e tra il candore delle lenzuola spuntarono due orecchie di lepre.
A quella vista, Cosette sussultò. Qualcosa di piccolo sfuggì alla sua stretta, e una grossa farfalla azzurra attraversò la stanza con volo irregolare. Un istante dopo la bambina seguiva la farfalla, le loro grida intrecciate a formarne uno solo.
«Isil!»
«Mamma!»
La voce di Cosette si ruppe in un singhiozzo, come inciampando su quella parola arrugginita dalla mancanza d'uso.
Fantine a quel suono si alzò di scatto a sedere, il viso trasfigurato dalla gioia più pura, e accolse Cosette tra le sue braccia, stringendola al petto con tutta la forza che le era rimasta nelle membra, come se non volesse più lasciarla andare.
Il daimon della bambina, intanto, si era gettato su Isil in forma di ermellino, saltellandogli intorno con tutta l'energia della giovinezza.
«Làssie! O Làssie, che bello vedervi... State bene? E passato così tanto tempo... Così tanto...»
«Ora stiamo bene. Quei Thenardier...» un brivido involontario scosse il daimon dai baffi alla punta nera della coda. «All'inizio non andava tanto male: qualche zuffa con i daimon delle bambine, più per gioco che con ferocia, e ogni tanto un lavoretto, si aiutava con le pulizie... Ma presto non ci permisero più di giocare, e ci ritrovammo a fare commissioni e faccende di ogni tipo, il ghiottone-daimon e la sua signora che facevano a gara a chi urlava più forte, vestendo la mia Cosette di stracci e lasciandola a dormire sul pavimento gelido, con me sola come conforto. Ho tentato tutte le forme più grosse a cui potevo pensare, mi accucciavo accanto a lei con il pelo gonfio del gatto selvatico e della volpe artica, cercando di darle calore, ma anche quando i brividi si placavano un poco le sue dita rimanevano gelide...»
Isil, le orecchie basse sul dorso, rimase in silenzio ad ascoltare quel fiume di parole sconnesse, lo sfogo che quella piccola anima spaurita doveva aver trattenuto nel cuore per così tanto tempo, fregando di tanto in tanto il muso sulla sua pelliccia candida nel tentativo di darle un po' di conforto.
«Le leccavo i tagli e le bruciature sulle mani quando le assegnavano qualche lavoro in cucina, la scortavo al pozzo in forma di lince, fingendo che il cuore non ci battesse come un tamburo per darle coraggio nelle tenebre della notte... Ma di giorno, nella sala della locanda, mi facevo topolino e mi stringevo con Cosette in un angolo, in attesa dell'ennesimo ordine della signora, cercando di sottrarci allo sguardo gelido del signor Thenardier e alle dita crudeli della sua scimmietta-daimon, così svelte ad afferrarmi al minimo accenno di un errore, e quella stretta spietata ci faceva male, così tanto male...»
Da quando aveva rivisto la sua bambina, Fantine non aveva detto una parola. Mentre una parte di lei ascoltava con il suo daimon il racconto di Làssie, Cosette le si era quasi arrampicata in grembo e lei la stringeva al seno come fosse ancora una creatura di pochi mesi, come se quegli anni di lontananza fossero svaniti nell'istante del loro incontro. Eppure, quel tempo aveva lasciato il segno, lo vedeva sul suo corpo magro e lo sentiva nella voce tremolante del suo piccolo daimon.
Ah, quanto avrebbe voluto prendere sulle proprie spalle anche le pene della sua bambina! Avrebbe dato qualsiasi cosa per darle un'infanzia normale, serena, di giochi e canzoni...
Eppure, era stata lei ad affidarla a quella coppia di mostri, illusa da una facciata rispettabile, dall'apparenza materna e affabile di quella Thenardier.
Si asciugò furtivamente una lacrima dal viso, scossa da un violento colpo di tosse.
Vide lo sguardo muto e spaurito di Cosette sollevarsi su di lei, mentre la figura imponente del sindaco Madeleine si accostava al lettuccio dell'infermeria.
Notando la sua aria preoccupata, Fantine gli rivolse un sorriso incerto, che voleva essere rassicurante: non avrebbe permesso che per una semplice tosse la separassero di nuovo dalla sua Cosette.
Il signor Madeleine parve capire.
Uscì dalla stanzetta sfiorando con una mano la spalla possente del suo daimon, che lo seguì come un'enorme ombra bruna, e rientrò pochi minuti dopo portando una seggiola di legno. La sistemò al capezzale di Fantine, posandovi sopra un cuscino dall'aria consunta e polverosa.
«Cosette... Che ne dici di sederti qui, piccola? Il dottore ha detto che la tua mamma non deve fare sforzi, se vuole guarire presto, ma puoi rimanere qui con lei, se vuoi...»
Fantine si lamentò debolmente mentre Cosette si scioglieva dal suo abbraccio, protestando che la sua bambina non pesava più di un uccellino e non le dava alcun fastidio, ma la stretta di quelle piccole dita pallide sulla sua mano macchiata e callosa mise a tacere ogni protesta. Osservando quel visino serio e compunto, Fantine non poté trattenere un sorriso dolce e sincero.
Làssie, ormai quietata, diventò un pettirosso e volò in grembo a Cosette, che le accarezzò distrattamente il capo.
Madeleine, sentendosi sempre più un intruso in quell'intimità familiare, si concesse un sorriso di tenerezza e lasciò la stanza, accostando silenziosamente la porta dietro di sé.
 
 
 
 
 
Quei giorni furono per loro i più felici da tempo immemore.
All'inizio Fantine si ritrovò un po' impacciata nel doversi riabituare alla presenza di quella bambina, così diversa da come la ricordava, così spaurita, una piccola donna che il mondo aveva fatto crescere troppo in fretta...
Non sapeva neppure di cosa parlare con lei: la vita sua e di Isil negli ultimi cinque anni non era certo qualcosa che volesse raccontare a sua figlia, arrossiva di vergogna e si sentiva mortificata al solo pensiero. Ascoltare i racconti di Cosette sul lavoro alla locanda o le numerose umiliazioni subite dai Thenardier non era molto meglio: il senso di colpa le attanagliava lo stomaco, avrebbe dovuto assicurarle una vita migliore, era sua responsabilità di madre, e aveva fallito.
Aveva pensato più e più volte alle scelte compiute in passato, aveva percorso i sentieri che la vita aveva tracciato davanti ai suoi piedi e vagliato ogni bivio e ogni deviazione e ogni conseguenza, e quando Cosette si assopiva si lasciava andare a singhiozzi silenziosi al pensiero della sofferenza che aveva causato a quella creatura innocente con ogni sua decisione sbagliata. Finiva per addormentarsi dopo quelle che parevano ore, sfinita dal pianto, con il solo conforto di Isil, il compagno della sua anima, che sempre le era stato accanto e sempre lo sarebbe stato, unica luce nei momenti più oscuri.
Cosette sulle prime parve altrettanto a disagio davanti a quella donna dall'aspetto tutt'altro che rassicurante. Fantine era acutamente consapevole della propria magrezza, della voce rauca e raschiante, del viso scavato che la faceva rassomigliare ad un teschio, dei denti mancanti, dei capelli rasati che cominciavano appena a ricrescere, grigiastri... Non poteva fare molto di più che nascondere la bocca con la mano quando parlava e coprirsi il capo con una cuffietta di pizzo che aveva fatto portare a suor Simplice, ma soffriva nel pensare a come doveva vederla la sua bambina, così ridotta.
Con il passare dei giorni, nel silenzio dell'infermeria quasi deserta, Cosette cominciò a chiedere alla madre se voleva sentire una filastrocca, vedere le forme che poteva assumere il suo daimon, imparare un gioco, ascoltare una poesiola, e Fantine imparò a conoscere quella bambina timida ma curiosa, che riusciva a vedere la bellezza persino in quella stanzetta spoglia, nei giochi di luce sul pavimento e nelle ragnatele di crepe che percorrevano l'intonaco delle pareti a formare disegni intricati.
Suor Simplice e il signor Madeleine facevano loro visita più volte al giorno, fermandosi volentieri ad ascoltare le loro canzoni e i loro giochi se ne avevano il tempo. Il sindaco spesso conduceva fuori Cosette quando arrivava il medico per i controlli, con la scusa di farle prendere un po' d'aria e di sole, e spesso lei, con la semplicità che è nel cuore di ogni bambino, riportava alla madre una margherita o un sassolino dalla forma strana o dai colori sgargianti, e questi regali parevano per Fantine un balsamo migliore di qualsiasi cura. Sorrisi e risate animavano il suo viso, gli occhi splendevano luminosi e vivaci.
La prima volta che Cosette le aveva portato un mazzetto di fiori, margherite colte appena fuori dalla casa del sindaco, aveva insistito che la madre ne mettesse una sopra l'orecchio, come lei aveva fatto con la sua. Fantine, un po' a disagio nonostante il sincero entusiasmo della bambina, si era slacciata lentamente, con dita impacciate, lo stretto nodo sotto il mento che fermava la cuffia candida, e se l'era lasciata scivolare in grembo, dove rimase ad osservare le sue mani callose stropicciarla e tormentarla sotto lo sguardo inquieto del suo daimon.
Dopo un istante, sentì un tocco delicato e la frescura del fiore che si posava sul suo orecchio, seguita dallo sfiorare leggero di piccole dita sulla sua tempia.
«Sono così morbidi... È come accarezzare le piume soffici di Làssie quando si trasforma in un pulcino!»
Come a sottolineare quelle parole, il suo daimon diventò una piccola palla di piume di un giallo vivace.
Fantine alzò lo sguardo colmo di incertezza, sorpresa e deliziata da quelle parole, e vide solamente gli occhi spalancati e sinceri e il sorriso dolce di Cosette.
In quell'istante suor Simplice entrò a portare un vasetto con l'acqua per le margherite, e Fantine si asciugò furtivamente gli occhi umidi mormorando con voce arrochita un “grazie” che sembrava fin troppo accorato per una tale piccolezza.
Da quel momento, Fantine parve dimenticare di essere sdentata, smunta e rapata, scordò la cuffia di pizzo e si lasciò andare a risate piene e sincere.
Il signor Madeleine e suor Simplice erano molto gentili e premurosi, ma i loro sguardi di pietà notavano e compativano ogni sua disgrazia, e persino il suo Isil non poteva dimenticare ogni singola sofferenza inflitta al suo corpo martoriato, poiché attraverso il loro legame le aveva subite anche lui, una per una avevano vibrato nel suo essere come sferzate di frusta.
Attraverso lo sguardo di Cosette, invece, la sua dolcezza di madre pareva illuminarla di una bellezza che aveva visto svanire anni addietro, e Fantine si sentiva splendente nel riflesso di quegli occhi di bambina.
Riportò alla memoria le ninna-nanne con cui la faceva addormentare da piccina e le cantò di nuovo, nonostante la voce roca, e, anche se a volte dimenticava una strofa o un violento accesso di tosse troncava le sue parole, Cosette pareva udire una voce d'angelo.
Le due dormivano assieme: dopo che una mattina suor Simplice, entrando per la prima visita della giornata, aveva trovato Cosette nel letto della madre, stretta al suo fianco e profondamente addormentata, il signor Madeleine aveva acconsentito a spostare il suo lettuccio dalla stanza accanto, così che potessero dormire vicine.
Spesso Fantine restava in silenzio ad osservare la figlioletta dormiente, la bocca leggermente aperta, il viso sereno e disteso...
Non era insolito che suor Simplice entrando le trovasse così, le mani che si sfioravano, i daimon addormentati l'uno sull'altro, e si fermasse per qualche istante a contemplare quel quadro d'amore familiare, come commossa da tanta dolcezza.
 
 
 
 
 
Era tardo pomeriggio, e il signor Madeleine aveva approfittato di un attimo di respiro concessogli dai suoi impegni quotidiani per fare visita a Fantine.
L'aveva trovata, come di consueto, in compagnia di Cosette: distesa sul letto, le coperte candide ben rimboccate, ascoltava rapita la bambina.
Il sindaco si fermò sulla soglia, appoggiato allo stipite, ad osservare come quelle due creature sfortunate erano riuscite a riportare il sorriso una sulle labbra dell'altra con poco più della loro sola presenza. Notò con rinnovato stupore come il viso di Fantine sembrasse risplendere di gioia in presenza della figlia, gli occhi spalancati e luminosi che non si stancavano di rimirare il suo volto in ogni più piccolo particolare, quasi non si fossero mai posati su nulla di più incantevole.
Con una mano tormentava la piccola croce d'argento che portava al collo, strofinandone distrattamente la superficie con il pollice, e con l'altra accarezzava le lunghe orecchie del suo daimon in un gesto intimo e affettuoso, mentre la voce trillante di Cosette riempiva la stanza di un chiacchiericcio allegro, che si rifletteva nel volo vivace e irregolare della sua rondine-daimon.
«...E c'erano torri altissime, e tanti bambini e bambine che giocavano, e c'eri anche tu, mamma, vestita tutta di bianco!»
Un sorriso dolce incurvò le labbra di Fantine, che sembrò accorgersi solo allora della presenza del sindaco e gli fece cenno di entrare.
«Signor Madeleine, venite! Cosette mi stava raccontando di un castello che ha visto in sogno...»
«Un castello sulle nuvole!»
La bambina sembrava deliziata, quasi orgogliosa di quel particolare che la sua mente aveva ideato.
«Un castello! Sogni in grande, tu, non è vero? Beh, forse un castello è un po' fuori dalla mia portata, ma quando tua madre starà meglio potrete avere una casa tutta per voi, una villetta persino! Mi occuperò io di tutto, e potrai invitare quanti bambini vorrai!»
Cosette si illuminò, estasiata. Fantine gli rivolse un sorriso caldo e sincero, seppure velato di malinconia.
«Siete troppo buono, signor Madeleine. Avete fatto così tanto per me... Per noi. Siete un angelo, vi dobbiamo tutto, e io non so di voi nulla più di ciò che rivelano le vostre azioni, neppure il vostro nome di battesimo, eppure attraverso la mano tesa in nostro aiuto mi avete mostrato uno scorcio del vostro animo gentile...»
Anche il suo tono era insolitamente malinconico, e la sua voce sfumò nel silenzio mentre cercava di soffocare qualche debole colpo di tosse.
Le labbra di Madeleine si curvarono in un lieve, incerto sorriso, lasciando sfuggire un impercettibile sussurro.
«Jean...»
Fantine sembrò non udirlo e si volse verso Cosette, lasciando ricadere la piccola croce d'argento sul petto per stringerle una mano in un gesto di tenerezza.
«Cosette... Bambina mia... Ti saresti meritata una vita molto migliore di quella che ti ho potuto offrire io... Ma non è troppo tardi...»
La sua voce era spezzata, indebolita dalla tosse che la tormentava, e un brivido scosse il suo corpo magro; persino la piccola mano di Cosette le sembrava gelida al tocco.
Il violento accesso di tosse che troncò le sue parole indusse Madeleine a farsi più vicino, un lampo di preoccupazione nello sguardo, mentre Isil le si arrampicava silenziosamente in grembo tentando di darle conforto e calore.
Fantine si volse d'improvviso verso il sindaco, gli occhi spalancati e imploranti, la voce rotta nella strenua lotta contro quella tosse incessante.
«Pro... promettete...»
Madeleine non distolse lo sguardo dal suo viso tormentato, ma ad un guizzo di pensiero la sua grande orsa-daimon, Beorne, arretrò di qualche passo e fece risuonare nel corridoio la sua voce profonda e autoritaria, chiedendo di far venire subito il medico.
Fantine, sempre più pallida per lo sforzo, si volse verso Cosette, che le stringeva forte la mano tra le sue, gli occhi colmi di lacrime, e chiamava con un filo di voce “Mamma! Mamma...”.
«Promettetemi che...»
Per l'ennesima volta, la tosse troncò le sue parole, ma Madeleine parve capire.
«Lo giuro.»
Il suo tono era fermo, serio, i suoi occhi sinceri, pur se velati di preoccupazione. Si volse a cercare con lo sguardo il suo daimon e in quell'istante suor Simplice entrò trafelata nella stanza; in un angolo della sua mente sentì Aletheis dire a Beorne che una domestica era stata immediatamente mandata a chiamare il medico e sarebbe arrivato a minuti.
Fantine si era intanto voltata verso Cosette, come a volersi beare della vista di quel visino angelico, bellissimo nonostante le lacrime che cominciavano a scorrerle sulle guance.
Neppure le sue mani, però, riuscivano a trasmetterle un po' di tepore, sentiva il freddo penetrarle fin nelle ossa e nel cuore, la opprimeva e la soffocava.
L'unico calore che sentiva irradiarsi debolmente in lei proveniva da un punto appena sopra il suo addome e le intiepidiva appena le dita: non aveva bisogno di vedere il suo daimon per sentire il suo peso leggero, la pelliccia tiepida e soffice in cui affondava la sua mano, incapace di reprimere il lieve tremito che lo scuoteva.
Il centro della sua vita era quel piccolo fagotto di pelo color nocciola, che le era sempre stato accanto, dandole conforto e calore, ogni giorno fino a quell'ultimo istante.
Non lasciarmi, Isil...
Mai.
Fantine si sentì mancare il respiro, non riusciva ad emettere che deboli suoni strozzati.
Ma ormai le parole non servivano più: lei ed Isil si appartenevano, erano una persona sola, condividevano un'unica anima e un unico cuore. Il suo daimon avvertiva la sua paura attraverso il loro legame profondo e indissolubile, attraverso i suoi pensieri confusi e atterriti, attraverso la stretta delle sue dita fredde, e mai l'avrebbe abbandonata finché entrambi avessero avuto vita.
Poteva sentire le unghiette affilate di Isil affondare nella sua pelle, quasi tentasse di trattenerla dallo scivolare via, lontano da lui, o sperasse, aggrappandosi tenacemente a lei con tutte le sue forze, di poterla in qualche modo seguire nella morte, e Fantine gli era così grata per ogni singola punta di quel dolore, per il suo coraggio e la sua ostinazione...
L'ultima cosa che Fantine sentì fu la sensazione della morbida pelliccia del suo Isil contro il palmo della sua mano, l'impronta ancora impressa sulla pelle diafana mentre il daimon si dissolveva come fumo.
 
 
















 
 
 
 
 
Nota dell'autore:
Sorry for the angst
Come penso (o spero) sia abbastanza evidente, mi sono mantenuta molto fedele all'opera di Hugo, soprattutto nella prima parte, riprendendo anche diverse frasi dai dialoghi e adattandole senza troppe modifiche, in linea con l'idea di “universo parallelo” che ha ispirato questa raccolta; spero però di essere riuscita a dare un'impronta originale e di non aver annoiato eventuali lettori.
Inoltre, ho sparso riferimenti (titolo compreso) anche al musical/film, alla trilogia di Pullman e a qualche altra opera, se qualcuno di voi li avesse notati (ad esempio nei nomi dei daimon. No, Làssie non è il cane, pronunciatelo “Lassie” con la 'a' aperta, per favore, e non “Lessie”! XD ).
Naturalmente, i daimon, la loro invenzione, le loro caratteristiche e il loro mondo appartengono a Philip Pullman, autore della trilogia “Queste Oscure Materie”; qualsiasi errore o incoerenza nel loro utilizzo in queste storie, al contrario, è imputabile solamente a me. E vi sarei davvero grata se me li faceste notare, in modo da trattare meglio la questione nelle successive one-shot!
Che, per la cronaca, non so ancora bene quando riuscirò a scrivere... Già questa è stata un'impresa! >.<
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il rosso e il nero - Enjolras e Grantaire ***














Grantaire urtò la spalla di un passante, e nell'impeto della corsa fece cadere il cappello a cilindro del gentiluomo.
Non si fermò, non si scusò; si affrettò invece dietro la folta coda nera del suo daimon che guizzava poco più avanti, mentre alle sue spalle il borbottio adirato del vecchio si fondeva con le colorite imprecazioni del gergo parigino che lo inseguivano fin da Rue du Poirier.
Sbucò in una piazzetta piuttosto angusta, poco più che un lieve ingrossamento della via, in cui la brava gente di Parigi si accalcava come un gregge radunato dai cani. Era una buona opportunità per sparire in quella massa indistinta e brulicante chiamata popolo, a saperla sfruttare.
Mentre la sua Seirya si faceva largo tra la folla grazie ad un lieve ringhio di gola e all'occasionale bagliore candido di una zanna, Grantaire era costretto ad aprirsi la strada a spintoni, zigzagando qua e là per evitare i daimon altrui, accelerando quando notava in un varco il pelo scuro del cane-lupo, prima che la calca si richiudesse su di loro come una marea liquida. Scavalcò un grosso procione dall'aria irritata e finalmente notò uno spiazzo apparentemente libero. Barcollò verso sinistra, sulla scia del grosso cane-lupo, dove la folla si diradava e si poteva intravvedere il selciato lurido ma sgombro. Colse uno scorcio del pastore nel pieno della sua arringa: lo sguardo di fuoco incorniciato da una criniera di riccioli dorati, quasi un'aureola splendente nonostante la penombra che dominava la piazzetta, il pugno scagliato in aria, le labbra schiuse come ad invocare la collera di un essere divino, simile ad un angelo vendicatore... Poi il suo sguardo fu di nuovo attirato da Seirya, che sgusciò fra il giovane cherubino e un piccolo capannello di studenti che lo affiancavano a poca distanza. Ebbe appena il tempo di notare un grosso animale dal manto candido camminargli intorno come in una ronda, forse un felino, ma ora gli dava le spalle... Passò oltre, intenzionato a raggiungere il suo daimon e la libertà data dal vicoletto in cui lei lo stava aspettando e dalle strade tranquille che si snodavano al di là, lontano da fruttivendoli bercianti e vecchi signori adirati, ma all'improvviso...
Per meno di un istante, più lieve della carezza del vento sulla pelle, qualcosa gli sfiorò la mano.
Fu come una scintilla, che con un lieve calore gli percorse tutto il corpo.
La mela che stringeva ancora nella sinistra gli sfuggì di mano, rotolando nella polvere e perdendosi tra i piedi della folla.
Il suo cuore rullava come un tamburo, come per una scarica di adrenalina; incespicò in un'invisibile irregolarità del selciato e barcollò di lato, sgusciando finalmente fuori dalla calca in un vicoletto deserto e senza nome.
Quando alzò lo sguardo, la mano destra posata sul cuore come a tentare di trattenerne il battito frenetico, vide gli occhi scuri e profondi di Seirya che lo osservavano, enigmatici. Il daimon non disse nulla, ma Grantaire vi era abituato: a differenza sua, lei era piuttosto taciturna. Percepì attraverso il loro legame una certa tensione, una vaga sensazione di dubbio, ma sapeva che sarebbe stato inutile fare domande.
Grantaire, ancora frastornato dalla corsa e da quella strana scossa, si osservò la mano, quasi stupito di non trovare alcuna bruciatura fresca nell'intrico di pallide cicatrici che gli segnavano il dorso e le dita tozze. Doveva essersi trattato davvero di una tardiva scarica di adrenalina...
Seirya gli si avvicinò, alzandosi leggermente sulle zampe per dargli una leccata giocosa sulla mano con la grossa lingua ruvida, poi si voltò per incamminarsi lungo il vicolo deserto, la coda che frustava le gambe del suo uomo appena sopra il ginocchio.
«Andiamo.»
 
 
 
 
 
«...perché il popolo è arrabbiato! Miseria, indigenza, infermità, sudiciume, non è così che dovrebbe vivere l'uomo! Ma le cose cambieranno, tutti...»
Un brivido caldo lo percorse e interruppe il filo dei suoi pensieri. La sua lingua inciampò nelle parole, e si ritrovò a balbettare.
Enjolras arrossì, frustrato, mentre cercava con lo sguardo il sostegno della sua Rouge, che in un istante gli fu accanto. Nei suoi occhi aveva scorto la stessa confusione che aveva colto lui, e le affondò la mano nel pelo folto e setoso del collo in cerca di sostegno, grato di quel contatto familiare.
Quella sensazione era così... strana. Non proprio in senso spiacevole, ma mai nella sua vita aveva percepito qualcosa di paragonabile. Così inaspettato, poi...
«Cos'è stato?»
La sua voce era timorosa, a malapena un sussurro, così diversa dal tono deciso e veemente dell'oratore che era stato fino a pochi istanti prima.
Lo sguardo del suo daimon vagò inquieto tra la folla.
«Non lo so.»
Enjolras sentì una mano sulla spalla e la voce preoccupata di Combeferre:
«Enjolras, ti senti bene?»
Annuì distrattamente, affondando ancora di più le dita nel pelo candido di Rouge, ed accennò ad andarsene. Fortunatamente era arrivato quasi alla fine del suo discorso, e Courfeyrac aveva preso in mano la situazione vedendolo in difficoltà: la sua voce alta e chiara incitava ora al cambiamento.
Enjolras e gli altri studenti si allontanarono accompagnati dalle grida della folla: Vive la France! Vive la France! Vive la France!
Sovrappensiero, seguì Combeferre e il suo ghepardo-daimon in un riflesso automatico, i piedi che lo conducevano su vie ben note, la mente ancora turbata, confusa.
Giunti a place Saint-Michel entrarono al caffè Musain, dove Combeferre lo condusse attraverso un lungo corridoio ad una stanzetta deserta.
«Ti senti bene?» ripeté Combeferre. «Hai le guance arrossate, e un'espressione strana... Cos'è successo? Ora ti faccio portare qualcosa...»
Enjolras accettò un bicchiere di cognac, ma si limitò ad un vago borbottio riguardo ad un possibile esaurimento da calore, le dita ancora affondate nel pelo setoso e tiepido di Rouge. Non avrebbe saputo come descrivere quella strana sensazione e al pensiero di parlarne si sentiva a disagio, quasi in imbarazzo.
Fortunatamente Combeferre si scambiò uno sguardo scettico con Mysa, la sua daimon, ma non insistette. Meno male che non c'era Joly, non sarebbe stato altrettanto arrendevole con una spiegazione del genere...
Pochi minuti dopo irruppero una mezza dozzina di studenti con i loro daimon e la stanzetta si riempì del chiacchiericcio delle loro voci eccitate. Enjolras rimase in silenzio mentre Combeferre sviava le domande preoccupate degli amici, rasserenandoli, e si lasciò avvolgere da quel mormorio familiare e rassicurante.
Cacciò il ricordo di quell'insolita sensazione in un angolo della sua mente, e tentò di dimenticarlo.
 
 
 
 
 
Grantaire sedeva al tavolino lurido di un caffè, Seirya accoccolata ai suoi piedi, un paio di polverose bottiglie di vino poggiate accanto al suo gomito. Era più malinconico del solito: ormai da diversi giorni non andava ad imbrattar tele da Gros, da quando lo aveva cacciato in malo modo in un impeto d'ira, era ancora troppo sobrio per i suoi gusti e avrebbe voluto un po' di compagnia, ma il locale sembrava praticamente deserto. L'unico avventore era un ubriacone addormentato in un angolo con il daimon in braccio, perciò si rassegnò a bere in solitudine.
«Amico, sei loquace!» borbottò con voce strascicata alzando la bottiglia ancora mezza piena all'indirizzo del sonoro russare che proveniva da quel mucchio di stracci e pelliccia. «Alla tua! O al presagio che rappresenti...»
Ingollò un robusto sorso di vino (non il rosso migliore di Parigi, forse, ma uno dei più economici) e si perse nuovamente a contemplare le venature scure e intricate del piccolo tavolo fessurato.
Dopo qualche minuto, un rumore di passi gli fece alzare lo sguardo. Vide una cameriera dal grembiule candido uscire da dietro al bancone con un vassoio in mano (una farfalla-daimon svolazzava allegra tra le bottiglie lucide) ed infilarsi in una porticina poco distante.
Grantaire declamò qualche frase sconnessa sulla bellezza effimera delle farfalle e delle fanciulle, che fece voltare la testa di Seirya ma non suscitò alcuna reazione nella cameriera indaffarata, già inghiottita dal retro del locale.
Attraverso la porta socchiusa sentì giungere voci di conversazioni animate e, con l'ennesimo borbottio sconnesso, si decise a seguirla.
«Se bevono vino, sono miei amici!»
Seirya lo guardò, scettica.
«Se bevono vino, possono sperare di sopportarti...»
Grantaire sbuffò, tra l'irritato e il divertito, e le scompigliò il pelo tra le orecchie con una burbera carezza, per poi afferrare la bottiglia mezza piena per il collo ed alzarsi, lasciando che il daimon lo precedesse nel buio corridoio.
Si ritrovò in una piccola stanzetta sul retro del caffè, ingombra di tavoli e sedie e voci eccitate.
A parte un paio di sguardi incuriositi, nessuno lo considerò e Grantaire, superato il timore di essere cacciato, si appropriò della sedia vuota più vicina e si mise ad ascoltare.
A pochi passi da lui un giovane stava parlando con entusiasmo. Aveva lunghi capelli rossi raccolti in una coda bassa, da cui un paio di ciocche erano sfuggite ad incorniciargli il viso, imporporato dall'eccitazione. La sua voce, seppur sottile, dominava la sala sulle ali del suo fervore, nonostante agli altri tavoli si svolgessero varie discussioni altrettanto accese.
«...sono anime, eppure sono diverse dalle nostre anime, da quelle che dimorano nel nostro corpo! Siamo due metà dello stesso essere, eppure non siamo identici...»
Mentre parlava, accarezzava con amore la piccola volpe-daimon che gli stava accoccolata in braccio, i capelli che si confondevano con il colore fulvo del suo pelo setoso.
«E quando moriamo... Lo sapete, il daimon scompare...» nel dire quelle parole le sue dita si contrassero, quasi in un riflesso involontario, affondando nel pelo e nella carne della volpe, che sembrò reprimere un brivido. Il giovane trasse un respiro tremante, ma quando continuò la sua voce era ferma, i suoi occhi brillavano di passione. «L'Alighieri ha immaginato l'Aldilà, il mondo dopo la morte, ma ha descritto solamente anime dalle sembianze umane, non daimon. Che cosa accade, allora? Il Sommo Poeta si sbagliava, forse, e nella morte ci riuniremo all'altra metà della nostra anima, dopo averla vista svanire in questo mondo? Oppure, al contrario, quale differenza consente alla metà dell'anima che dimora nel corpo di mantenersi intatta anche dopo esservi strappata ma impone al daimon di dissolversi nell'istante della morte? In che cosa differiscono queste due metà dello stesso essere?»
La volpe sembrava turbata da quelle parole e incapace di rispondere. Intervenne un altro daimon, un ghepardo dal profilo elegante e dall'espressione seria, seduto accanto ad un giovane alto con gli occhiali rotondi.
«E' impossibile dare una risposta. La scienza non ci è ancora riuscita, e i poeti possono solo fare filosofia.»
Il poeta dai capelli fulvi chinò il capo accennando un sorriso, ma non si arrese.
«Dove la scienza non si spinge, può l'irrazionale. Forse non sapremo mai con certezza cosa ci aspetta dopo la morte, del resto non sappiamo neppure da che sostanza sono formate le nostre anime, i nostri daimon, o perché loro cambiano forma e come scelgono invece quella definitiva... Cos'è l'anima? Lo scienziato risponde “non lo so”, il poeta dice “è polvere di stelle”. Sono solamente speculazioni e fantasie, ma non sono forse queste le ali dell'uomo? Cos'è l'uomo senza il suo pensiero, razionale e irrazionale? La poesia eleva l'uomo quanto la scienza, forse di più, non avendo catene a legarla alla realtà... La conoscenza è un miraggio, la fantasia ha la sincerità dei sogni. I misteri non sono intaccati dalla scienza, ma interpretati dall'uomo. Quanto alla forma che le nostre piccole anime scelgono, è stato detto che è l'incarnazione del nostro destino, della nostra aspirazione, della nostra natura più profonda... Qual è la verità? È un mistero irrisolto dalle origini del mondo...»
«C'è ancora tanto che non sappiamo della natura umana e dei daimon...» intervenne il giovane seduto di fronte a lui, allungando la mano verso il suo ghepardo-daimon per dargli una grattatina distratta fra le orecchie.
Ora che a questo tavolo l'orazione appassionata del poeta si era placata, dall'angolo opposto della sala giungevano sprazzi di altre conversazioni: ogni capannello di sedie sembrava vivere di vita propria, frasi e parole che come onde si alzavano di tanto in tanto sopra il vociare indistinto per poi reimmergersi dopo un attimo nel flusso della discussione, che riguardasse il teatro, la politica, l'amore, il diritto...
D'un tratto, un giovane dai capelli scuri si alzò in piedi con impeto, mescolando alle sue parole il fruscio di un foglio di carta, che, gesticolando, strapazzava senza ritegno. A dare ancora più energia alle sue argomentazioni, il suo daimon gli saltellava intorno senza sosta, esuberante come solo un labrador poteva essere.
«...non voglio re. La Storia insegna: nessun re è meglio del suo predecessore. Un Luigi vale l'altro. Anche camuffandone il nome, la realtà non cambia: Philippe Égalité ha nelle vene il sangue di un Luigi qualunque, non è diverso da un Luigi XIV, o da un Luigi XVI, anche se non lo chiamiamo più Luigi Filippo I; il nome non è che una maschera di cartapesta scadente, un trucco da quattro soldi per ingannare i semplici. Enjolras, tu mi capisci: questo re ha preso una parola per noi sacra, immensa, solenne, e non ne ha fatto altro che un nome pomposo e vuoto: Uguaglianza, dice... Siamo uguali, noi e lui, dice! Per questo ci ha concesso questa carta, questa costituzione... Ma il diritto è tale solo se intero, e tra eguali non si accordano concessioni e compromessi!»
Si era voltato ora a cercare sostegno tra i compagni seduti alla sua sinistra, e agitava la carta (ormai irrimediabilmente stropicciata) verso un giovane in particolare, cercandone il sostegno con le parole e con i gesti. Dall'angolo in cui era sprofondato, Grantaire non riusciva a vederlo bene, l'oratore gli copriva alla vista una buona metà del tavolo, poteva cogliere solo, di tanto in tanto, uno sprazzo dorato, un lampo di bianco...
D'un tratto, il veemente oratore, nel trasporto dell'arringa, si mosse, e con due ampie falcate raggiunse il camino, in cui dei ceppi crepitavano allegri, tentatori: il foglio appallottolato fu gettato nel fuoco, e l'alta fiammata attirò lo sguardo di tutti i presenti, accompagnata dalla sua voce sdegnosa e trionfante:
«Ecco che cosa ne penso della Carta-Touquet! No, niente costituzione!»
Lo sguardo di Grantaire, però, era stato catturato dai riflessi di quelle fiamme su riccioli dorati, da due occhi ardenti... Perché ora che l'oratore e il suo labrador si erano spostati verso il grande camino della sala, finalmente poteva vedere il giovane a cui questi si era rivolto alla fine della sua appassionata arringa...
Sembrava un dio sceso a giudicare i mortali, silenzioso ma assorto, il fuoco nel suo sguardo che rivaleggiava con le fiamme nel camino. Riccioli biondi dai riflessi color dell'oro e del rame incorniciavano un viso di porcellana - anzi, di marmo! - degno di una statua di Apollo, le labbra rosse e carnose atteggiate in un'espressione attenta, quasi severa. Tutto in quella figura ricordava il fuoco: la passione rabbiosa che gli poteva leggere negli occhi persino a quella distanza, le fiamme danzanti tra i suoi capelli, persino la giacca rossa con i suoi alamari dorati... Grantaire fu investito senza preavviso dall'ondata di calore che quel giovane sembrava emanare.
Dopo un interminabile istante il suo sguardo abbandonò quel viso e si posò con un fremito sul daimon del giovane.
Era incredibile, non aveva mai visto nulla del genere a Parigi.
Era un grande felino, un leone – no, si corresse, una leonessa – dal profilo elegante e sinuoso; si indovinavano i muscoli possenti sotto la pelle anche ora, tranquilla al fianco del suo uomo.
Ma un animale forte, esotico, maestoso non era nulla di troppo insolito, anzi: da bambini, quasi tutti i daimon provavano a immaginarsi come leoni o tigri, sperimentavano, sognavano come sarebbero potuti diventare per il resto della vita...
No, di incredibile quel daimon aveva i colori.
La sua pelliccia non ne aveva. Era come un manto di neve, candida, pura, perfetta. Ma, come la neve, quella morbida seta rivelava riflessi di infiniti colori ad ogni più piccolo movimento: Grantaire avrebbe potuto dannarsi l'anima per una vita intera a cercare di cogliere ogni più lieve sfumatura di quel manto con i suoi pennelli e non si sarebbe mai avvicinato alla perfezione di quel bianco abbacinante.
Il colore sembrava essere defluito dalla pelliccia setosa della leonessa per raccogliersi tutto sul suo muso: al di sopra della larga bocca e del naso leggermente più scuri, gli occhi del daimon brillavano di un rosso profondo, innaturalmente intenso, quasi un fuoco covasse realmente in lei, nell'anima sua e di Enjolras.
Grantaire allungò una mano a cercare la presenza calda e solida di Seirya, affondando le dita nel suo pelo morbido e tiepido, e si lasciò sfuggire un mormorio:
«Caron dimonio, con occhi di bragia!»
Gli occhi curiosi di una volpe guizzarono nella sua direzione all'udire una citazione dell'Alighieri, ma lui non ci fece caso.
Una voce impetuosa lo riportò bruscamente alla realtà: il giovane con il labrador come daimon non aveva finito la sua arringa.
«I re... I re sono i migliori fra noi, si dice. Ci hanno sempre detto che i re hanno aquile e leoni come daimon: potenti, forti, autorevoli, regali... Invece i loro daimon dovrebbero essere tutti zecche e parassiti! Un re è un parassita: non si hanno re gratis. Sentite quanto costino i re. Alla morte di Francesco I, il debito pubblico in Francia ammontava a trentamila lire di rendita; alla morte di Luigi XIV, a due miliardi e seicento milioni. Parassiti! E poi, chi ci dice che chi nasce re nasca leone? Se proprio dobbiamo avere un re, non sarebbe meglio il contrario? Se, come molti credono, nella forma del nostro daimon è inscritto il nostro destino, allora si prendano i giovani leoni francesi e le giovani aquile, si scelga tra loro chi è meritevole di essere re, non tra generazioni di zecche, pidocchi e scarafaggi!»
«È giusto!»
«No, Courfeyrac, non vogliamo altri re, fossero anche del popolo!»
Intorno al tavolo si accese la discussione, oramai tutta la sala era coinvolta, con voci che si alzavano da ogni angolo per supportare questa o quella posizione.
Solamente il dio dai capelli dorati e la sua leonessa-daimon rimasero silenziosi, assorti, quasi contemplassero quell'assemblea di giovani mortali in attesa di conoscerne il verdetto.
Grantaire a un tratto fu colpito da una rivelazione: era lui che aveva visto arringare la folla in un'anonima piazzetta di Parigi, parlare di miseria e di cambiamento, la passione che bruciava nelle sue parole e nel suo sguardo...
Voleva rivedere quel fuoco, risentire l'impeto nella sua voce...
Posseduto da un'insolita audacia, ignorò il richiamo di avvertimento di Seirya e si fece sentire dal suo tavolino seminascosto vicino all'entrata, sfrontato come solo lui sapeva essere.
«Se gli occhi non mi ingannano, un re è già qui: daimon in forma di leone, corona dorata sul capo... Enjolras, vero? Che dici, saresti un re migliore o un parassita come tutti gli altri?»
La sala era pervasa dal brusio irregolare delle voci di uomini e daimon, punteggiato dal crepitare dei ceppi nel camino, ma la sua stoccata parve andare a segno.
Enjolras arrossì lievemente e alzò gli occhi per cercarlo, una calma furia che montava nel suo sguardo. A rispondere con tono stizzito fu però il suo daimon, meno controllata di quanto voleva far credere.
«Sono una leonessa, grazie tante. I leoni hanno la criniera, se non lo sai...»
«Anche le leonesse possono avere la criniera, sapevi? Hanno svolto degli studi su un clan del...»
Un'occhiata di Enjolras e una gomitata da parte del giovane con gli occhiali troncarono il daimon-ghepardo a metà della frase.
Grantaire però non si fece sfuggire l'ottimo spunto.
«Allora, come mai non ti sei fatta crescere una bella criniera folta? Paura che vi scambiassero per dei veri reali?»
L'insinuazione sembrava offendere a morte i due e Grantaire si lasciò sfuggire un ghigno divertito mentre ingollava l'ennesimo sorso di vino scadente.
«Noi disprezziamo i re, nessun dubbio su questo!»
Stavolta era stato Enjolras a rispondere lanciandogli un'occhiata glaciale, la voce vibrante di passione.
Affondò quindi una mano nel folto pelo sul collo della leonessa, dove sarebbe potuta crescere un'imponente criniera.
«E Rouge non ha la criniera perché in battaglia le coprirebbe la visione laterale. Le criniere sono sopravvalutate...»
Scrollò le spalle ostentando indifferenza e superiorità.
«Tu chi saresti, comunque?»
Grantaire si nascose da quello sguardo penetrante affogando di nuovo nella bottiglia polverosa.
«Nessuno. Solo uno che passava di qui e voleva bere in compagnia.»
Nessuno.
Pensava che lo avrebbero cacciato, che il giovane biondo, glaciale, gli avrebbe fatto intendere che non era gradito a quelle loro strambe riunioni, che il giorno dopo avrebbe trovato la porta chiusa e il solito tavolino solitario accanto al russare di un ubriacone all'ingresso del caffè... Invece il giorno dopo la porta era aperta, e lo stesso il giorno dopo ancora, e ancora...
Continuò ad andare al Caffè Musain, ad ascoltarli cianciare di libertà e ideali, attirandosi occhiate divertite ed esasperate ad ogni battuta sarcastica, ad ogni sproloquio filosofico, ad ogni vaneggiamento dettato dall'ebrezza; imparò a conoscere quei giovani idealisti, le loro vite, i loro sogni, i loro amori, le loro battaglie, pur rimanendone sempre ai margini, incluso ma mai veramente coinvolto... Imparò ad apprezzare l'animo romantico di Jehan, l'intelligenza di Combeferre e della sua Mysa e il loro amore per la scienza, Courfeyrac e l'energia contagiosa della sua labrador-daimon Kendra, la risata allegra e sincera di Bahorel... E in breve si era affezionato ad ognuno di loro, lui, che aveva sempre rifuggito legami e affetti, che si era sempre considerato un cane sciolto, come la sua Seirya, il solo branco che avesse.
Fra quei cuori appassionati, il suo scetticismo era fuori posto, più il tempo passava più Grantaire se ne rendeva conto.
A trattenerlo erano la sua unica convinzione: l'amicizia; e la sua unica fede: Enjolras.
 
 
 
 
 
Assistere alle riunioni di coloro che aveva imparato a conoscere come Amis dell'ABC aveva per Grantaire un gusto dolceamaro: era bello potersi sentire parte di una profonda amicizia, ma ascoltare quei ragazzi, quegli studentelli, parlare come degli aspiranti Marat lo riempiva di inquietudine, quasi potesse vedere con la coda dell'occhio una torbida oscurità proiettare la sua ombra su di loro, ciechi e inconsapevoli.
Cinismo e battute sarcastiche aiutavano ad estraniarsi dalla realtà, e ancor più vino e assenzio, ma non sempre erano sufficienti.
C'erano giorni in cui preferiva fermarsi alla superficie delle cose, limitarsi a osservare i volti, i movimenti delle mani, i riflessi del fuoco sulle pellicce lucide dei daimon, e distogliere l'attenzione dai loro discorsi, dal significato funesto delle loro parole.
In quei giorni, Grantaire disegnava.
Talvolta rubava un foglio strappandolo da quaderni di poesie o appunti, oppure portava con sé un taccuino sdrucito, eredità del suo periodo da aspirante artista, e tracciava sovrappensiero qualche segno a carboncino o ritraeva a sanguigna volti umani e animali.
Quel giorno era particolarmente ispirato e solo un po' brillo, la bottiglia di vino ancora mezza piena sul tavolo.
Regalò a Jehan una caricatura di Dante con il naso grosso e adunco quanto il becco della sua aquila-daimon, strappandogli un finto sguardo di rimprovero all'irriverenza del disegno e una risata sincera.
Testimoniò il combattuto duello a braccio di ferro tra Bossuet e Feuilly con delle sagome tratteggiate rozzamente col carboncino, che gli lasciarono le dita nere e intorpidite.
Ritrasse con cura Mysa, il timido daimon di Combeferre, riproducendo macchia per macchia ogni dettaglio della sua incantevole pelliccia, dagli anelli della coda alle grosse lacrime nere accanto al muso, che le donavano quella sua particolare espressione saggia e malinconica.
E poi, disegnò Enjolras.
Enjolras invocava la sanguigna, con il suo tono rossastro e le sfumature delicate e ricche di contrasti a un tempo, e Grantaire lo ritrasse decine di volte, solo o con la sua daimon Rouge (ah, la splendida ironia di quel nome!).
Qui, accentuava la profondità del loro sguardo con pochi, intensi tocchi di carboncino; là tentava di cogliere ogni movimento delle ciocche dorate e ribelli; ora si dannava per riuscire a fissare sulla carta i giochi di luce sulle labbra di Enjolras e sul pelo candido della sua leonessa, le croste di pane che si accumulavano davanti a lui mentre cercava la mollica più bianca e più pulita per dare l'ultima lumeggiatura al disegno... E poi, decine di dettagli: la giacca rossa aperta e il fazzoletto allentato a lasciar intravedere la linea della clavicola; la mano affusolata affondata nella pelliccia di Rouge (nel cercare di renderne col tratto la serica morbidezza fu colto da uno strano tremito, e si chiese d'impulso che sensazione avrebbe provato a fare lo stesso, se l'avrebbe trovata soffice e calda sotto le dita... arrossì e scacciò quell'idea dalla mente prima che Seirya si potesse accorgere di quell'imbarazzante filo di pensieri e gli rifilasse uno dei suoi soliti, burberi rimbrotti), ma soprattutto gli sguardi, che occhieggiavano da ogni foglio con le espressioni più varie, dalla più ispirata passione per la Causa allo sdegnoso disprezzo per Grantaire, che continuava a rubare pagine al quaderno dove Marius stava tentando di scrivere qualche importante lista di inutile robaccia.
Enjolras dettava, Marius scriveva, Grantaire disegnava.
«...2 pistole. Q. Bannerel, 8 fucili, 83 cartucce. C. Boubière, 1 pistola, 40 cartucce. D. Rollet, 1 fioretto, 1 pistola, 1 libbra di polvere. E. Teissier...»
«Non sprecate la polvere da sparo per le pistole! Datela a me: dicono che i pirati inglesi ci insaporissero il rum!»
Enjolras non gli dedicò altro che un'occhiata di profondo disprezzo, continuando con la sua lista.
«E. Teissier, 1 sciabola, 1 giberna.»
«Sono curioso di natura, devo assaggiare quel cosiddetto rumfustian! E questo Teissier potrebbe farmi compagnia: io porto il rum, lui la sciabola da pirata...»
«N. Terreur, 8 fucili.»
«Questo nome non promette bene, non credete?»
Courfeyrac annuì accennando un sorriso divertito, e una breve risata scoppiò dall'altro lato della sala. Enjolras, invece, si era fatto scuro in volto, i suoi occhi sembravano volerlo fulminare sul posto.
«Taci, l'argomento è serio.»
«Io, invece, non lo sono mai stato.»
Gli occhi di Enjolras vagarono irritati per la sala, forse in cerca di sostegno, come se non sopportasse la vista di quello scettico in mezzo ai credenti. Rouge, al contrario, fissò gli occhi vermigli nei suoi con uno sguardo incredibilmente profondo e intenso.
Seirya, che fino ad un attimo prima era rimasta distesa sotto il tavolino di Grantaire, silenziosa e tranquilla, si portò al suo fianco, le zampe ben salde e le orecchie ritte, più simile a un lupo che mai.
Dopo un attimo inclinò la testa con aria giocosa, in segno di curiosità.
«Tranquillo, Enjolras, sappiamo tutti quant'è importante prepararsi e raccogliere informazioni, ridere di una battuta non è grave... Quando le cose si fanno serie, siamo tutti con te. E Grantaire lo conosci ormai, scherza su tutto...» intervenne Courfeyrac con tono leggero.
«Mi irrita.»
Il sospiro di Courfeyrac trovò eco in vari punti della sala, e Grantaire, malgrado tutto, sentì il cuore sprofondare di un palmo.
«Lo so. Voi due siete... opposti. Qualcuno direbbe incompatibili. Siete come... una volpe ed un segugio, o cane e gatto!»
«Paragone azzeccato, direi!» aggiunse Seirya rivolgendo un ghigno alla leonessa stizzita.
Anche Grantaire era divertito dal paragone: un gatto serio e sdegnoso e un cane irritante e fedele...
«Non potete fare a meno di stuzzicarvi a vicenda, insomma!» concluse Corfeyrac.
«Ringrazia che non ti insegua abbaiando per le strade di Parigi!»
Lo sguardo di Enjolras sembrava solamente sfidarlo a fare una cosa del genere, se solo osava, e Grantaire a quella vista scoppiò in una fragorosa risata che contagiò gran parte degli Amis, stemperando la tensione.
Mentre Enjolras tornava alla sua lista, la mano di Grantaire volò sul foglio a tratteggiare infinite versioni di un gatto bianco ed elegante dall'aria irritabile e di un grosso cane nero insopportabilmente seccante, che bisticciavano ancora e ancora...
 
 
 
 
 
I giorni passavano, trasformandosi in settimane, poi in mesi, e Grantaire notò che qualcosa cominciava a cambiare, che il tono delle riunioni si faceva più cupo, più serio, che i loro discorsi idealistici si facevano più concreti...
Avevano sempre parlato di cambiamento, ma ora stava diventando reale.
Ora si parlava di Rivoluzione.
E Grantaire, abbattuto, beveva.
Beveva pensando alle rivoluzioni passate e a quelle future; brindava all'amicizia, alla gloria, e ai morti.
Interrompeva sempre più di rado le riunioni con le sue battute caustiche e i suoi commenti provocatori: era inutile cercare di dissuaderli da quell'idea folle, nulla avrebbe potuto spegnere quel fuoco che Enjolras aveva acceso in loro, quella speranza che il domani avrebbe portato un futuro migliore...
Avrebbe quasi voluto poter essere arso da quella passione anche lui, avere uno scopo, un'aspirazione, un'ideale...
Avrebbe voluto poter essere d'aiuto.
Enjolras cominciò a tirare le fila.
«Occorre sapere a che punto siamo e su chi possiamo contare. Si tratta di ripassare tutte le nostre cuciture precedenti per vedere se sono solide; questa faccenda deve esaurirsi entro oggi. Dunque contiamo un po' il branco: quanti siamo?»
Si guardò intorno nella saletta affollata di uomini e daimon, indicandoli uno ad uno.
«Courfeyrac, Kendra, voi vedrete gli studenti del politecnico: è il loro giorno di uscita, oggi è mercoledì; voi, Feuilly, vedrete quelli della Glacière. Combeferre e Mysa, mi avete promesso di andare al Picpus, dove c'è un magnifico formicolio. Bahorel visiterà l'Estrapade. Prouvaire, i massoni si stanno sfreddando, tu e la tua K'eyi ci porterete notizie della loggia di rue Grenelle-Saint-Honoré. Joly andrà alla clinica di Dupuytren a toccare il polso alla scuola di medicina. Altair con Bossuet farà un giretto al tribunale a chiacchierare con i praticanti. Rouge ed io ci incarichiamo della Cougourde.»
Sembrava un generale intento ad assegnare le posizioni alla vigilia della battaglia, e ciascuno accettò il proprio compito di buon grado, tra sguardi risoluti e daimon frementi all'idea di fare la propria parte.
«Ecco tutto stabilito» disse Courfeyrac.
Lo sguardo di fuoco di Rouge scattò nella sua direzione.
«No.»
«Che altro c'è?»
A rispondere era stata la labrador-daimon Kendra, dimenando la coda senza sosta.
«Una cosa importantissima.»
«Cosa?» chiese Combeferre, cercando di dare un taglio a quel fare misterioso.
«La barrière du Maine», Enjolras riprese la parola. «Alla barrière du Maine ci sono marmisti, pittori, sbozzatori negli studi di scultura, tutta una famiglia entusiasta ma facile a raffreddarsi. Non so che cos'hanno da qualche tempo, pensano ad altro; si spengono, passano il tempo a giocare a domino. Sarebbe urgente andare a parlare loro, e chiaro. Si riuniscono da Richefeu e si trovano là tra mezzogiorno e l'una; bisognerebbe soffiare su quelle ceneri; avevo contato su quel distratto di Marius che, tutto sommato, è adatto, ma non viene più; mi ci vorrebbe qualcuno per la barrière du Maine, non ho più nessuno.»
«E io» disse Grantaire «sono qui.»
Sulla sala calò il silenzio.
Grantaire poteva percepire l'esasperazione del suo daimon attraverso il loro legame, ma Seirya si portò al suo fianco per dargli sostegno, come aveva sempre fatto. Dopotutto, era la silenziosa altra metà della sua anima...
Enjolras, però, sembrava tutt'altro che contento della sua offerta; una malcelata incredulità traspariva dalle sue parole, mentre Rouge, ora silenziosa, incatenava negli occhi di Seirya il suo penetrante sguardo indagatore.
«Tu?»
«Io.»
«Tu, sermoneggiare dei repubblicani! Tu, riscaldare in nome dei princìpi degli animi tiepidi!»
Grantaire non sapeva spiegare a parole come quel fuoco aveva infiammato anche lui, perché la passione di Enjolras aveva scaldato anche il suo animo intirizzito in quell'incendio che divampava ormai da mesi al Caffè Musain, perciò tacque.
«E perché no?» intervenne Seirya, stranamente irriverente, ma Enjolras la ignorò.
«Ma sei capace a qualcosa, tu?»
Il disprezzo nel suo sguardo e nella sua voce era palpabile. Ed era comprensibile: Grantaire era un buono a nulla, lo sapeva. Le vaghe, burbere parole d'incoraggiamento che talvolta gli rivolgeva la sua Seirya non erano mai riuscite a convincerlo del contrario, e il fatto di non avere amici di lunga data ne era la dimostrazione: immaginava che se ne andassero non appena si rendevano conto di quanto inutile ed incapace lui fosse... Ma non voleva che loro lo abbandonassero, non questa volta, voleva fare qualcosa di utile, voleva che Enjolras finalmente capisse, apprezzasse un suo piccolo gesto, una mano tesa in aiuto...
Sorrise, di un sorriso amaro e disincantato.
«Ma ne ho la vaga ambizione.»
La sua voce si fece dolce, mentre la coda bassa di Seirya gli batteva ritmicamente contro la gamba.
Enjolras, al contrario, era accalorato, aggressivo, le sue parole sembravano quasi un abbaiare secco ed aspro.
«Non credi a niente.»
«Credo in te.»
«Grantaire, vuoi rendermi un servizio?»
«Tutto, anche lustrare le tue scarpe.»
«Ebbene, non immischiarti nei nostri affari, smaltisciti il tuo assenzio.»
Nell'udire quel tono duro, persino Seirya distolse lo sguardo da quello di Rouge per rivolgergli una severa occhiata d'ammonimento.
«Sei un ingrato, Enjolras.»
Il brusco rimprovero da parte del silenzioso cane-lupo parve scuoterlo.
«Saresti tipo da andare alla barrière du Maine? Ne saresti capace?»
Udire quell'ombra di dubbio nelle parole di Enjolras, quella sorta di incredula speranza, risvegliò il solito tono sarcastico ed irriverente di Grantaire.
«Son capace di scendere per la rue des Grès, attraversare la place Saint-Michel, svoltare per rue Monsieur-le-Prince, infilare rue Vaugirard, oltrepassare i Carmes, svoltare in rue d'Assas, arrivare in rue Cherche-Midi, lasciarmi alle spalle il Consiglio di guerra, percorrere la rue des Vieilles-Tuileries, attraversare il boulevard, seguire il terrapieno del Maine, valicare la barriera ed entrare da Richefeu. Sono capace di questo; le mie scarpe lo sono.»
«Conosci un poco quei camerati di Richefeu?»
Enjolras sembrava sul punto di cedere; Grantaire si lasciò sfuggire un amaro sbuffo divertito.
«Non troppo: ci diamo soltanto del tu.»
«Cosa dirai loro?»
«Parlerò di Robespierre, perdio; di Danton, e anche dei princìpi.»
«Tu!»
Avrebbe dovuto rassegnarsi a quel tono incredulo e quasi disgustato, ma si finse offeso, declamando la sua difesa.
«Io. Ma non mi si rende giustizia, quando mi ci metto, sono terribile: ho letto Proudhon, conosco il Contratto sociale, so a memoria la costituzione dell'anno secondo: “La libertà del cittadino finisce là dove comincia la libertà d'un altro cittadino”. Mi prendi forse per una bestia? Ho un vecchio assegnato nel cassetto: i diritti dell'Uomo, la sovranità del popolo, perbacco! Sono perfino un po' Lebertista, posso spifferare per sei ore intere, orologio alla mano, delle cose magnifiche.»
Negli occhi di Enjolras e del suo daimon si leggeva l'esasperazione.
«Sii serio»
«Sono selvaggio»
Un ghigno storto accompagnò quelle parole, sottolineate da un breve ululato di Seirya.
Subito dopo, come a contraddirle, il daimon si rotolò sul pavimento polveroso a mostrare il ventre morbido e grigiastro, come un qualunque barboncino in cerca di coccole e approvazione.
Rogue alzò gli occhi al cielo, evitando sdegnosamente una zampata giocosa, e scambiò uno sguardo con il suo uomo.
Infine, con tono esageratamente solenne, Enjolras deliberò:
«Grantaire, acconsento di metterti alla prova: andrai alla barrière du Maine.»
 
 
 
 
 
Nel giro di pochi minuti, la sala sul retro del Caffè Musain si era svuotata di tutti i suoi occupanti, ciascuno alla sua mansione, ed Enjolras e Rouge erano rimasti soli.
«Il tempo è vicino: saremo pronti.»
«Le braci covano sotto la cenere, noi tutti faremo da innesco.» gli fece eco la leonessa.
Enjolras si chinò a guardarla negli occhi, le mani affondate nel pelo folto del collo.
«Conosco le capacità degli Amis dell'ABC, ho fiducia: non falliremo.»
Pensò alla saggezza di Combeferre, all'energia contagiosa di Courfeyrac e Kendra, alla passione che tutti loro mettevano in quella lotta... No, non potevano fallire.
Questo lo fece pensare a Grantaire.
Accarezzò dolcemente la testa del suo daimon, distogliendo per un attimo gli occhi dai suoi, quasi in imbarazzo.
«Sai, la barrière du Maine ci svia appena dalla nostra strada...»
Dopo un attimo rialzò lo sguardo per incontrare l'espressione interrogativa e un po' perplessa negli occhi rosso rubino di Rouge.
Il suo tono si fece più risoluto, vincendo quello stupido imbarazzo.
«E se ci spingessimo fin da Richefeu? Andiamo un po' a vedere che fa Grantaire e a che punto è.»
Rouge lo fissò negli occhi per qualche istante, enigmatica, ma alla fine sembrò decidersi.
«Andiamo» annuì.
Quando giunsero da Richefeu furono accolti dall'eco del rintocco delle campane di Vaugirard; era ormai passato mezzogiorno, e l'osteria era affollata di artigiani dalle mani callose e pervasa dall'odore di zuppa a buon mercato.
Enjolras entrò dietro la sua daimon, lasciando chiudere la porta dietro di sé, e osservò la stanza ingombra di tavoli, di uomini e di fumo.
La sua attenzione fu attratta da una discussione vivace, e riconobbe la voce che attraversava vibrante la sala affollata: era Grantaire che dialogava con un avversario.
Fece un passo nella direzione della schermaglia, verso la sagoma di Grantaire, china su un tavolino di marmo, la sua daimon Seirya che gli camminava intorno come in una ronda; un altro giovane gli sedeva di fronte, il suo picchio-daimon appollaiato sulla spalla, lo sguardo attento.
Fino all'ultimo Enjolras sperò, ingenuamente, stupidamente, di udire i nomi di Danton e Lamarque, discorsi di ribellione e di guerra, accenni a pistole, baionette e polvere da sparo... ma quando alla fine riuscì a cogliere chiara qualche parola, il cuore gli sprofondò nel petto.
«Doppio sei.»
«Quattro.»
«Porco! Non ne ho più.»
«Sei morto. Due.»
«Sei.»
«Tre.»
«Asso.»
«Tocca a me buttar giù.»
«Quattro punti.»
Voltò i tacchi e uscì, allontanandosi a passo svelto, quasi di corsa, in fuga. Rouge era appena dietro, silenziosa; attraverso il loro legame Enjolras sentiva quanto era addolorata per lui, ma gli risparmiò stupide e vuote parole di conforto: era stato un idiota a permettere che un noto cinico come Grantaire deludesse le sue aspettative; in primis, era stato un idiota ad avere delle aspettative su Grantaire!
Nella sua fuga, non si accorse che il cane-lupo aveva volto lo sguardo verso la porta dell'osteria, che Grantaire aveva gettato poche monete sul marmo e si era precipitato fuori, nei vicoli del Maine, non udì le sue poche, concise parole di congedo:
«Accidenti! Hai fortuna, hai vinto. Ricorda, allora: ai funerali di Lamarque. Tenetevi pronti!»
Enjolras camminò nella vaga direzione della Cougourde, guidato più dalla familiarità con le strade e i vicoli di Parigi che dal suo pensiero cosciente, Rouge che trotterellava silenziosa a pochi passi di distanza.
Non si accorse delle due figure scure che lo seguivano svelte, non si voltò quando udì il suo nome; anzi, accelerò il passo.
«Enjolras! Ehi, Enjolras!»
Poi, una grossa sagoma nera bloccò la strada a Rouge, costringendolo a fermarsi dopo pochi passi, se non voleva tendere troppo il legame che lo univa al suo daimon.
«Enjolras! Fermati, perbacco! Che ci facevi da Richefeu? Pensavo ti occupassi della Cougourde...»
La voce di Grantaire era affannosa, gli sembrava di scorgervi una vena di dubbio, quasi di allarme...
La sua risposta fu distaccata, gelida, tagliente.
«Ci sto andando, infatti. È tardi.»
«Come mai da Richefeu, allora? Non è proprio sulla strada... Volevi assaggiare la sua famosa zuppa di cavolo?»
Poteva quasi sentire il ghigno divertito nelle parole di Grantaire, il suo solito, dissacrante cinismo... Lo faceva infuriare.
Non rispose.
Rouge scoprì i denti in un muto ringhio; Grantaire parve disorientato, ma Seirya non indietreggiò.
«Enjolras...? Che cos'hai? Cos'è successo?»
Enjolras sentì la rabbia e la delusione montare in lui, e finalmente si voltò, piantando negli occhi di Grantaire il suo sguardo infuocato.
«Domino» ringhiò. «Ti sei messo a giocare a domino
A quelle parole, Grantaire scoppiò a ridere.
Se ne pentì all'istante, e la risata gli si strozzò in gola.
Rouge partì all'attacco con un basso ringhio ferino e affondò le zanne acuminate nella folta pelliccia sul collo di Seirya.
Grantaire gemette di sorpresa e di dolore, ma non era niente in confronto al fuoco che poteva scorgere negli occhi di Enjolras: pareva in grado di ridurlo in cenere con la sola forza di volontà. E non c'era alcun dubbio che lo volesse...
Ma loro due erano abituati alle risse di strada, ai combattimenti più o meno leali: Seirya si scrollò di dosso la leonessa e arretrò di un passo, la gola che vibrava, il bianco dei denti appena visibile tra il pelo color carbone del muso lupesco.
«Aspetta, lascia che ti spieghi...»
Enjolras non voleva ascoltare, i suoi occhi mandavano lampi.
«Taci!»
Si divincolò dalla mano che tentava di afferrargli il polso, lo spinse via, Rouge già pronta per un nuovo attacco.
Grantaire parve scrollare le spalle, scuro in volto, come rassegnato ormai all'inevitabile scontro.
Le due daimon si squadravano, muovendosi quasi in circolo, con passi lenti, circospetti, in una sorta di strana danza selvaggia... Poi, Rouge attaccò di nuovo.
Il vicolo assolato risuonava del cozzare di denti e artigli affilati, dei respiri affannosi, dei ringhi soffocati di dolore e di rabbia.
Seirya guaì quando le zanne affondarono nel pelo folto del suo dorso, e rispose con una zampata ben assestata. Rouge digrignò i denti, arricciando il muso, ferina e selvaggia come non mai, scagliandosi contro il cane-lupo con insolita ferocia. I due daimon rotolarono nella polvere del selciato, avvinghiati l'uno all'altro, il bianco e il nero delle pellicce che si mescolava e si confondeva, a volte un improvviso lampo di rosso...
Di tanto in tanto Grantaire trasaliva per una fitta di dolore, concentrato sulle sensazioni trasmesse dalla sua Seirya, ma leggeva solo cieca furia negli occhi di Enjolras.
«Ti ho dato un compito, Grantaire! Mi sono fidato di te! E tu, tu ti sei messo a giocare a domino
La collera di Enjolras esplose come in un grido di dolore, i loro daimon fusi insieme nella foga del combattimento.
Con tre ampie falcate si avvicinò a lui, le sue parole tramutate ora in un basso ringhio rabbioso.
«Non sei buono a nulla, Grantaire.»
Grantaire aveva sentito quelle parole decine, centinaia di volte, ancora e ancora, - lui stesso se le ripeteva da una vita - ma sentirle uscire da quelle labbra, con quella rabbia, a un respiro dal suo viso... lo ferì, come mai avrebbe immaginato di poter essere ferito, non con la scorza dura e coriacea che si era costruito con tanta fatica.
«Enjolras, ascoltami...»
«No!»
«Hai ragione, ma...»
Enjolras sbuffò, in un verso di amaro trionfo, ma non ebbe il tempo di replicare: Grantaire lo afferrò per le spalle, le dita affondate nella carne con una sorta di burbera urgenza; Seirya aveva atterrato Rouge, e la teneva inchiodata a terra sotto il peso delle sue grosse zampe da lupo.
«ASCOLTAMI!» gridò. «È vero, sono un buono a nulla, non lo nego: è evidente a tutti. Ma ho fatto quello che mi hai chiesto. Ho infiammato gli animi di scultori e marmisti. Li ho arruolati nella tua rivoluzione.»
Enjolras era pietrificato, sbalordito.
«Credimi. Fidati di me...»
Rouge si tolse il cane-lupo di dosso con una zampata e si rialzò, scrollandosi di dosso la polvere della strada.
«È vero?»
I suoi occhi color rubino, incatenati in quelli neri di Seirya, sembravano voler leggere nella loro anima.
«Sì. Gli ho dato una mano, ovviamente. Sono piuttosto brava con le parole, quando mi ci metto...»
Rouge sostenne lo sguardo intenso di Seirya per qualche istante mentre la sua voce sfumava nel silenzio del vicolo, poi sembrò decidersi.
Annuì.
Questo sembrò sistemare la questione. Enjolras distolse lo sguardo dal viso di Grantaire mordendosi il labbro, le guance arrossate, e fece per indietreggiare.
Grantaire parve rendersi conto solo allora della giacca e della carne di Enjolras sotto la stretta delle sue dita e lo lasciò di colpo, come ustionato.
«È tardi. Devo andare alla Cougourde, o non farò in tempo.»
Il suo tono era tornato rigido ora, con una vena di malcelato imbarazzo. Si schiarì la voce, insolitamente impacciato.
«Certo, devi andare. Ciao, allora...»
Enjolras annuì, brusco, e si allontanò con un vago cenno della mano.
Rouge lo seguì con passo felpato, la sagoma candida abbagliante nel sole del meriggio. In fondo al vicolo solitario la leonessa si voltò a guardarli con un lampo di rosso, enigmatica; poi, lei ed Enjolras voltarono l'angolo e scomparvero.
 
 
 
 
 
All'Osteria Corinto, tra il rumore di bótti e barili che rotolavano verso la barricata, il crepitio del fuoco che fondeva le stoviglie di stagno per farne pallottole, gli allegri canti degli insorti, gli ordini, gli strepiti e le grida di incoraggiamento, una voce risuonò gioviale.
«Dov'è quel furfante di Grantaire? Gli devo una rivincita!»
Le parole si confusero nel sonoro frullio delle ali di un picchio-daimon, vennero ignorate, e si persero nei meandri della storia.
 
 
 
 
 
«Viva la repubblica! Ci sono anch'io.»
«Viva la repubblica!» gli fece eco il suo daimon.
Grantaire e Seirya attraversarono la sala con passo fermo, ignorando i fucili puntati e pronti a sparare, gli occhi fissi su Enjolras, incatenati ai suoi.
«Finiteci con un colpo solo» disse.
«Lo permetti?»
La mano di Grantaire era ferma, calda. Enjolras la strinse, intrecciò le dita alle sue e d'istinto le affondò nel pelo folto e candido di Rouge.
Una profondo tremito scosse i loro corpi, una fitta di eccitazione gli mozzò il fiato.
Enjolras sentì un vago rossore salire alle guance, il ricordo di una sensazione strana e bella a un tempo, ma non provò vergogna.
Enjolras, finalmente, capì.
Sorrise.
Avvertì appena l'impatto delle pallottole, l'eco impetuosa di quella scossa che risuonava ancora nella sua anima, ma lo rattristò, in quell'ultimo istante, sentir svanire la calda presenza di Rouge al suo fianco, e si aggrappò a quella scintilla, a quelle dita intrecciate alle sue...
Poi, tutto svanì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3454504