The curse of the plague

di Selena Leroy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ~ La sofferenza dei Les Enfant Terrible ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ~ Perché anche la flebile fiamma di una candela rendeva dimentichi del buio ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ~ Una preghera in onore di Flegias ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ~ Il meriggio di innocenze ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ~ Agli ingenui che non hanno di chè difendersi ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ~ Il battito d'ali di una farfalla ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ~ Perché autodistruggersi non era un opzione concessa ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ~ E nessuno avrebbe mai avuto modo di ferirla... ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ~ Coloro che provavano diletto a restituir stupore ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ~ E, tra corolle di luce soffusa, entrambi si conobbero chiamandosi per nome ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ~ Fermami dal ferirti ancora ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ~ Proseguire guardandosi indietro ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 Erano quella cosa che non sarebbe mai dovuta esistere ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Le regole del gioco ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - E la Folgore non si era ancora abbattuta al suolo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La chiamavano peste perché qualunque altro termine utilizzato per indicarla appariva svilente nel definire quella terribile malattia capace di devastare tutto quello che riusciva ad infestare. Era stata unanime la scelta di rimettere in auge il nome di quell’antico morbo che tante morti aveva disseminato nel passato, e la cui semplice ombra era servita per coprire di cadaveri ettari ed ettari di terra considerata successivamente contaminata. Si era guariti da essa solo con la determinazione degli esseri umani a voler sopravvivere ad ogni costo ad un male che non voleva saperne di essere guarito, ma l’attuale malattia che stava rendendosi regina di tutto il creato non sembrava voler essere così benevola da concedere agli uomini abbastanza tempo da generare difese sufficienti a resisterle.

È un mistero come si contrae, è un mistero come guarire. Quando lacrime di sangue e diafana pelle fanno la loro comparsa, è già giunto il momento di prepararsi per l'estrema unzione.

In questo mondo devastato, sono molte le persone che sono morte, ma sono innumerevoli quelle che hanno dato la loro anima alla ricerca di una cura che preservi il genere umano dalla totale estinzione. Scomparire non sarà che l’inevitabile conclusione tragica di una storia ricca di avvenimenti oltraggiosi, per coloro che non fanno altro che morire come mosche quando essa decide di abbattersi in qualche direzione.

In questo clima di totale incertezza, anche la scelta delle vittime appare un mistero. Può morire un bambino che ha appena emesso i suoi primi vagiti, così come può spirare l’uomo più anziano del mondo. Può morire il gatto che hai accudito con amore per dieci anni, o quel piccolo bonsai che hai cresciuto nella tua stanza con la dedizione a farne da costante in quel rapporto che non ha altri modi per manifestarsi.

Nessuno può considerarsi salvo, nessun miracolo, fin d’ora, ha avuto la forza di mostrarsi per indicare agli uomini un modo utile a sfuggire quella che appare, sempre di più, come la più grande apocalisse della storia.

 

PROLOGO

 

G

uardare fuori dalla finestra della sua cucina, poco prima del risveglio di suo padre, era uno di quei rituali mattutini a cui difficilmente Yuya Sakaki avrebbe saputo rinunciare; il lento cadenzare della luce del sole, nel loro piccolo giardino ricco di agrifogli, era per lei uno spettacolo che ne ipnotizzava le iridi vermiglie fino a perdervisi in ombre e sfumature che ne inebriavano i sensi fino al loro totale annebbiamento. Quando era lì, a specchiare se stessa in quel rettangolo trasparente affacciato sull’esterno, poteva ancora coltivare l’illusione che il mondo non fosse la disastrosa pozza di sangue in cui si era inevitabilmente trasformato, poteva ingannarsi nell’ignorare una sofferenza e un decadimento  che lentamente consumavano la vita di quanti prossimi a sbriciolarsi, come le ennesime vittime di una peste sempre vogliosa di nuovo sangue e di nuova carne da seppellire sottoterra. Era quello che le serviva per non impazzire, per non dimenticare che tra le tante persone morte lei era ancora viva, ancora con un futuro davanti, ancora affiancata da persone care a cui avrebbe dato tutta se stessa per avere la garanzia di vederli sempre felici e in buona salute. Uno spazio tutto suo, un piccolo angolo di quiete paradisiaca lontano dalle ansie, dalle paure e dai tremori che puntualmente minacciavano di fermare il suo cuore, abbattendosi con costanza tossica su uno spirito sempre più sfiancato dal lavorio incessante che la mente doveva indursi - per la ricerca di soluzioni sempre più ritardatarie nell’arrivare.

Lavorare con il padre alla esigua età di sedici anni, per giunta in un laboratorio all’avanguardia e tra i più attivi nella ricerca di una cura, era sicuramente un traguardo degno di essere sbandierato con l’orgoglio appuntato su un petto rigonfio di soddisfazione, Yuya ne era consapevole, ma era un’albagia che doveva spegnersi, se il suo pensiero andava nei meandri di quella ricerca forzata che lei doveva condurre con suo padre, e che illuminava le terribili rinunce che già aveva fatto nella sua vita per seguire un credo che, forse, non l’avrebbe nemmeno portata alla destinazione desiderata. Un pessimismo atipico di lei, sempre pronta a sorridere ad un’avversità pronta a superare, ma che si annidava inesorabile nel suo animo al confronto con le migliaia di persone che, fino a quel momento, non era stata in grado di guarire, o le centinaia di esseri umani a cui si era affezionata e a cui era stata costretta a dire addio, mascherando le sue lacrime in una professionalità impostale nel medesimo istante in cui il padre l’aveva presentata con orgoglio all’interno di quei laboratori, come sua assistente dalle incredibili doti e dall’inarrestabile intelligenza. Doti sicuramente esistenti, e pronte a rivelarsi nel momento richiesto, ma anche rigonfie di un desiderio paterno che anelava a sé la presenza della figlia ormai sola e senza alcun aiuto a cui affidarla, priva anche di un luogo in cui apprendere con il crollo del sistema educativo al seguito della piaga del contagio.

“Tesoro, come va? Sbaglio, od oggi ti sei svegliata ancora prima del solito?”
Non aveva bisogno di riconoscerne la voce, per sapere che suo padre era dietro di lei, pronto a tenderla in quell’agguato affettuoso che lui scherzosamente chiamava abbraccio, e che sembrava invece puntare allo stritolamento di tutte le ossa che davano a Yuya consistenza umana. Non serviva, perché anche quello era uno di quei rituali mattinieri a cui la ragazza non avrebbe mai voluto rinunciare.

“La colazione è pronta. Oggi ho fatto quei pancake che ti piacciono tanto, così non potrai più lamentarti con Thomas che non ti voglio abbastanza bene”

La risata del padre, condita dai ricordi di parole burlesche sfuggite il giorno precedente, diedero alla ragazza quel buonumore che le serviva per dimenticare le spiacevoli elucubrazioni che prima l’avevano riportata al mondo terribile da cui invece voleva solo fuggire. Viveva solo per quel sorriso, lei, solo per quella risata, solo per la gioia che l’uomo provava con lei, in quel rapporto ricco di momenti felici e di vittorie che avevano faticosamente collezionato assieme.

 

***

 

Y

usho Sakaki aveva appreso a proprie spese quanto fosse difficile vivere in un mondo che dall’oggi al domani può strapparti tutto quello che ti ha donato per il solo capriccio di una volontà criptica, desiderosa di vedere lo svolgersi degli eventi senza alcun amore per le povere pecorelle smarrite che vagavano sulla terra alla ricerca di introvabili risposte che spiegassero il perché di tali sviluppi. Aveva compreso tutto questo al prezzo della propria anima, lenta nel suo frantumarsi lieve, che ne consumava i bordi con il dolore a corroderla al pari di un veleno letale.

Yusho Sakaki aveva avuto tutto; una carriera promettente come medico, una moglie che lo amava e che lui ricambiava con tutto il cuore, una figlia che aveva coronato quella famiglia felice nella propria vita perfetta.

Forse qualche divinità gelosa si era mostrata restia a guardare oltre la sua gioia, forse era rimasta disgustata dal fatto che vi fosse un essere beato dentro ad un mare di disperati, forse non era riuscita ad accettare che vi fosse qualcuno in grado di travalicare senza alcuno sforzo le norme vigenti del Karma. Qualunque divinità fosse,  offesa dal suo benessere, aveva pensato bene di riequilibrare il tutto portandogli via quella bellissima donna che lo aveva reso il più fortunato di tutti gli uomini, colpendola con un male incurabile che ne aveva consumato la vita fino al suo totale spegnersi, distruggendola in un dolore che ne aveva reso ancora più amara la devastante separazione.

Il compiangerla aveva portato Yusho a ripromettersi che mai, mai nella sua vita avrebbe permesso l’abbattersi di nefande forze oscure sull’unico tesoro che le era rimasto, su quella bambina dal sorriso contagioso che lo aveva ancorato sulla terra quando la morte minacciava e tentava anche lui...

e lo aveva già fatto, l’aveva già strappata a quelle ombre nere che avevano tentato di portarsela via, e lo avrebbe fatto sempre, anche a costo di morire lui stesso...

 

Yusho non poteva saperlo, ma quella promessa si sarebbe rivelata essa stessa un marchio innegabile che avrebbe tranciato per sempre ogni suo legame e ogni suo volere. Un destino, una divinità, il karma... lo scienziato non sapeva cosa fosse, ma sapeva che adesso era lì, di fronte a lui, pronto a strappargli la sua esistenza e a separarlo per sempre dalla sua amata figlia, dall’unica persona a cui aveva potuto dimostrare l’amore che tempo addietro si era perso nei meandri di un dolore impronunciabile. Perso, confuso, cieco di fronte a quella terribile tragedia che lo aveva investito in pieno nel semplice tragitto che lo avrebbe portato nello studio in cui avrebbe dedicato un nuovo giorno al rimedio contro il male ancora incurabile, tutto quello che Yusho aveva potuto fare era stato pregare e chiedere, se almeno questo gli era concesso, di concedere a Yuya la possibilità di andare avanti, la vita che invece lui vedeva consumarsi di secondo in secondo; un’anima prossima ad abbandonare il suo involucro umano e a ricongiungersi con l’amata moglie finalmente ritrovata. 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ~ La sofferenza dei Les Enfant Terrible ***


 

CAPITOLO I

Li chiamavano scherzosamente les enfant terible, ma era opinione comune che, in quei bambini strappati dalla loro infanzia in nome di una scienza sempre avida di nuove vite che potessero scarnificarsi per lei, non vi fosse più nulla che ricordasse la spensieratezza tipica di una gioventù libera dagli affanni delle responsabilità. Era sicuramente questa l'impressione che si avvertiva nell'incrociare lo sguardo argenteo di Yuto, incastonato in quei lineamenti tesi continuamente su quell'espressione meditabonda che denunciava l'ininterrotto riflettere verso problemi che mai un diciottenne avrebbe dovuto porsi.

Non erano poche le decisioni drastiche che aveva preso nella sua vita, Yuto, e mille di queste si erano rivelate ciniche nel loro semplice porsi scontate al fronte di un’umanità che pretendeva di essere salvata da qualcosa che per la prima volta non aveva scatenato con le sue stesse mani, ma tra queste trovò davvero arduo trovare corrispettivi che si adeguassero al paragone di quello che si apprestava a compiere, l’obbligo posto su di lui perché aveva sempre dato la priorità ad un rigore che prediligeva un’obbedienza anche ad ordini scomodi e malvagi nel loro esistere e nel loro agire su quella terrà già crudele senza l’intervento di ulteriori forze che ne arrestassero ulteriormente i brevi sprazzi di felicità concessi con una reticenza che aveva del miracoloso anche nel manifestarsi in un semplice sorriso.

Realizzare se stesso come la fonte distruttrice di quella luce così pura e così rara, nel mare di tenebre sempiterne avvolte intorno alla triste realtà che recepiva ogni giorno, era per lui fonte di angosciante attesa, il lento scandire dei secondi cadenzato dalla paura frapposta alla bramosia di voler rivedere quegli ardenti pozzi rossi aprirsi e incatenarsi a lui, il terrore di vedere le sue mani infrangersi sulla felicità di colei che amava di più al mondo a ucciderlo al passare di quegli istanti perduti nella contemplazione del delicato viso diafano ancora privo di qualunque segno di coscienza.

Destinato fin da quando aveva memoria verso quella sacra missione che vigeva senza l’intervento di alcun dio a manifestarsi dietro vane parole, aveva assistito al lento mutarsi di se stesso in quell’adulto affannato che stringeva tra le sue esili mani il destino di tante vite affidategli  con la sadica consapevolezza che si sarebbero spezzate come fili di ragnatela esposti al vento mefitico che li avrebbe inevitabilmente tramutati in cenere.  

Era solo questo, ormai... un cervello improntato ad usare miseri umani deposti sull’altare sacrificale come vittime di una ricerca che ormai aveva scacciato con sadica dissennatezza qualunque limite etico provasse a rallentarne i rapidi sviluppi. E a questo sciagurato essere era stato concesso un unico spiraglio di speranza, un’unica fonte di felicità di cui necessitava più dell’aria per non finire schiacciato da quella stessa scienza che non mancava un secondo di elogiarlo come figlio prediletto. Sembrava quasi che il destino non fosse lieto di questo suo ricercare per se delle ali in grado di sollevarlo almeno in parte dalla grettezza di quella asettica dimensione in cui sostava giornalmente; maledire se stesso e tutte le divinità che si prestavano ad udire tutti i suoi singulti mortificanti era l’unico sforzo che si sentisse in dovere di fare, ma mai come in quel momento avvertì su se stesso i limiti che la sua natura poneva a fronte di una natura che dimostrava la sua supremazia ridendo sguaiatamente dell’immensa impotenza che affliggeva gli uomini incapaci di ribellarsi alle leggi che fin dalla notte dei tempi erano state imposte con il preciso proposito di non rendere gli esseri umani troppo vanagloriosi e stupidi. La riottosità con cui molti recepivano un insegnamento dettato da tutte le divinità provenienti dai cieli più disparati era sempre stata fonte di stupore per colui che aveva sempre avuto a che fare con una morte fin troppo rapida nel suo agire, ma solo in quel frangente poté davvero comprendere quali sentimenti spingessero davvero gli umani a desiderare di più di quanto mai fosse possibile loro concedere. L’amore, la più grande forma di potere che portava la razionalità a spiegazzarsi i pensieri che nulla avevano di coerente e di logico, folleggiava sulle menti di quanti desideravano per assurdo che mai nulla di male potesse accadere a coloro che carpivano i loro cuori con la promessa di ricambiare con sentimenti altrettanto ardenti.

 

***

 

Yuya aveva visto la morte manifestarsi superba con quelle lacrime vermiglie silenziose nel calcare i volti tumefatti di chi accettava rassegnato l’idea che il suo viaggio verso l’oltretomba sarebbe stato prossimo e inevitabile. Emissari di quella dea funerea ormai ingorda e incapace di definirsi soddisfatta, emblema di quel male dal semplice nome impronunciabile che tanto si divertiva a correre nel mondo per vedere quante vittime riusciva a causare, rimarcavano l’ennesimo fallimento portato avanti dalla sua incapacità, l’ennesima sconfitta che la prostrava al suolo con le urla silenziose che reclamavano di poter rendere manifesta una sofferenza che invece era costretta a soffocare, le lacrime incastonate dietro quella maschera ferrea che le era stata obbligatoriamente imposta.

Si chiamava les enfant terrible il progetto che vedeva il riunirsi di quei poveri fanciulli privati della loro infanzia in nome di quel sentimento di rivalsa che prevaleva sull’uomo quando numerose perdite infierivano come lo schiocco di una frusta su un orgoglio incapace di accettare l’impossibilità di tendere alla perfezione, e l’averla rinchiusa lì, in quell’aula gremita di bambini disorientati quanto lei sulle aspettative nascoste dietro occhi bramosi che li scrutavano con famelica attenzione, l’avevano inevitabilmente resa colpevole di ogni passo falso, di ogni insolvenza nata dall’incalzare di quel sangue che inutilmente si tentava di arrestare.

Eppure l’aveva vista ancora, la morte, e non era più in una goccia rossastra attratta dal suolo, ma un animale di ferro urlante che con crudeltà si era spinto su di loro fino a rendere l’impatto inevitabile. La rivedeva ancora, quella misteriosa automobile nera, ammantata del colore scuro di colei che era la sua padrona, avanzava sicura lì dove volerla renderle omaggio. Il volto di suo padre proteso su di lei per proteggerla nel constatare l’inevitabilità dell’urto, le parole di scusa che le aveva sussurrato all’orecchio prima che lo stridore del ferro coprisse ogni altro suono, le braccia che la stringevano con forza per non lasciarla andare; erano questi i ricordi che avevano segnato il suo ingresso nell’oblio, il mondo nero che l’aveva accolta con la violenza di uno schiaffo al perdere consapevolezza di cosa fosse vero e di cosa invece era frutto dei deliri della sua mente. Veli inspessiti da voluta ignoranza avevano coperto l’emergere lontano delle sirene, il fischio acuto che si era fatto sempre più vicino mentre al suo fianco non avvertiva altro che l’immobilità innaturale, il mancato segno di vita di colui che invece doveva esserle vicino, di colui che l’aveva messa al mondo e che aveva fatto di tutto per farcela restare.

Le voci che si erano mostrate disperate alla vista dello spaventoso incidente adesso non le sentiva più, inghiottite dal sonno fattole scandere da Morfeo sulla sua anima ormai sfinita dalla speranza sempre più flebile di rivedere suo padre, di poter ancora sentire la sua voce, di poterlo ancora avere vicino, di avere la possibilità di vivere ancora con lui... non aveva bisogno di sentire quello che Yuto, afflitto accanto al suo capezzale, aveva da dire, la verità si rifletteva trionfa nelle sue iridi luminose con la tristezza a rendere maggiormente manifesto quanto non aveva il coraggio di riferirle.

Forse era il legame che avevano condiviso a renderla consapevole di quella indissolubile verità, ma sentiva fin nel profondo che suo padre, l’uomo più importante della sua vita, non c’era più, che non avrebbe mai più potuto assolvere la missione di proteggerla, missione che lui decantava con il coraggio vantato dagli eroi omerici nelle  loro numerose conquiste.

Priva di ogni forza, sguarnita da qualunque difesa contro l’ennesimo colpo voluto dal destino, l’unica cosa che poté fare fu l’accettare il conforto silenzioso del suo migliore amico, l’abbraccio fraterno che le dava la sicurezza di cui si sentiva tanto sfornita. Racchiusa in quel morbido bozzolo inumidito dalle lacrime calde che calcavano il viso pallido, sentì al momento distante la spaventosa solitudine che sibillina si affacciava sulla sua stanza, strega attirata dal nuovo mondo che inevitabilmente lei avrebbe dovuto costruire.

 

***

 

 “Dimmi, per caso hai perduto completamente il senno... padre?”

Accese di un sospetto che le riluceva più delle ametiste, le iridi di Reiji Akaba scrutavano la figura del proprio genitore con l’odio a focalizzarsi sulla sua figura, un sentimento di astio sgorgato fuori dall’apparire di un uomo che mai si sarebbe dovuto avvicinare nelle loro vite, non con quei documenti e non con le decisioni che inevitabilmente comportavano.

Il piccolo Reira, opportunamente nascosto dietro le gambe del proprio fratello maggiore, tremò visibilmente all’udire la voce possente del ragazzo, un tremore che veniva dalla sua speciale capacità di percepire con il semplice intuito quali sentimenti agitavano il cuore delle persone al suo fianco. Una capacità che il piccolo avrebbe preferito rinnegare più e più volte, nella consapevolezza che l’ignoranza non sempre è un male a cui sfuggire, soprattutto se quello di cui si desidera il rinnegamento è un dolore accecante capace di raccapricciare tutti i sogni dorati che solitamente dovrebbero rifulgere nelle menti dei bambini.

Ma sapeva bene che, una volta resasi evidente, era difficile veder sfumare l’ira che adesso attecchiva nel suo animo impedendone il lucido ragionamento, così come era consapevole della difficoltà con cui solitamente il ragazzo più grande poteva rendersi così irraggiungibile alla sua voce.

D’altro canto, se in Reira il tremore aveva preso possesso di lui nel medesimo istante in cui suo fratello aveva iniziato a riscaldarsi, Leo Akaba non lasciava trasparire dal suo volto alcun sentimento, gli occhi che scrutavano in maniera impassibile il figlio, come di chi osserva uno sconosciuto mentre compie azioni insolite di alcun interesse per la sua persona.

“So perfettamente quanto ti alletti l’idea che io vada ai matti a far loro compagnia... ma vorrei almeno sapere quale scusa accamperai per giustificare un azione così sciocca e puerile”

Il diffidarsi a vicenda, come nemici che scandagliano il terreno alla ricerca di un punto debole su cui infierire, non era certamente qualcosa di tipico in un rapporto genitoriale, ma che vi fosse qualcosa del padre e del figlio in loro due era, ormai, da escludere a priori. Non quando le liti erano diventate quasi insostenibili, capaci di essere represse solo alla visione di coloro che ancora dovevano credere agli Akaba come di una famiglia felice e pronta a dimostrare la loro bontà anche, soprattutto in quel momento di grande crisi. Un mucchio di melensaggini che sparivano nello spazio di una quotidianità libera da ogni obbligo e convenzione.

Una quotidianità che di solito si asteneva dalla presenza di qualunque uomo al di fuori della stessa famiglia Akaba... ma non quel giorno, non quel dì in cui il padre aveva accolto, contro ogni buon ragionevole motivo a giustificazione delle sue azioni, un uomo tarchiato nello studio in cui elaborava, nella segretezza di una mente criptica nel suo agire e zelante nel suo posarsi a fronte di problemi di scarsa soluzione, quanto potesse essere utile alla crociata che vedeva tra le sue fila sempre meno uomini. Un uomo adesso fuori dalla loro villa, custode della preziosissima firma di Leo Akaba, marchio inconfondibile che aveva appena segnato l’importante decisione accolta dalle orecchie di Reiji con la costernazione e con lo sgomento a rendere ancor più incredibili le parole appena pronunciate. Parole di cui esigeva, in quel momento, l’immediata chiarificazione, a fronte di un’inspiegabilità che sfociava nei limiti della follia. Che la follia fosse uno dei sintomi più famosi della peste, poi, era qualcosa che metteva ancora più in guardia le persone da eventuali atteggiamenti giudicabili anormali.

“Credo che in molti approverebbero il mio atteggiamento puerile, se andassi a raccontare in giro che hai appena deciso di adottare una perfetta sconosciuta”

“Spero allora che siano in pochi quelli a ragionare come te, perché ciò che tu descrivi come un atto di follia io lo vedo come un gesto di enorme generosità!”

Fu una risata ad accogliere parole altrimenti altisonanti, una risata greve nell’ironia che il ragazzo non sapeva esprimere altrimenti. I ricordi passati di una vita devoluta unicamente alla ricerca, prima e dopo il morbo, con dei ragazzi bramanti un amore e un affetto sempre passati in secondo piano di fronte al dovere e al lavoro, incapaci di catturare quell’uomo anche quando non era nel suo studio a meditare misteri dall’arcana decrittazione, cancellarono con la violenza di uno schiaffo tutto quello che poteva accostarsi a quell’uomo nella blanda definizione di sentimento. Asettico come il mondo in cu aveva scelto di vivere, cose come la generosità e il bene non erano concetti appianabili alle rughe severe di cui il suo volto si sfregiava, non quando vi era a mancare un secondo fine in grado di riequilibrare quanto si era appena perduto. E per un uomo severo come Leo, anche il tempo era qualcosa che bisognava guadagnare per essere meritevoli di condividerlo con lui.

“E dimmi, uomo generoso, mia madre è a conoscenza di quello che hai in mente di fare? O hai intenzione di metterla di fronte all’atto compiuto... come stai facendo con me?”

L’amore materno non era qualcosa che Reiji sentiva in dovere di dubitare, la donna nascondeva dietro la rigida facciata da opportunista un cuore in grado di riempirsi dell’immenso amore che entrambi, sia lui che Reira, avevano abbondantemente ricevuto. Guardare alla freddezza e al distacco di Leo come la causa scatenante del suo cambiare da donna felice a donna severa non aveva giustificazioni o ipotesi campate per aria, ma aride certezze focalizzate su una realtà incapace di nascondergli un dettaglio, un particolare o una minuzia catturabile dallo scuro sguardo nascosto dietro le lenti. Arguire, dunque, che il marito incapace aveva a sua disposizione una nuova arma per ferirla dava alla sua mente accaldata e ai suoi pensieri febbrili nuovi incitamenti a quella follia iraconda che agitava il suo cuore accelerato.

“Che tu ci creda o no, Himika è già perfettamente a conoscenza di questa storia. E ha accettato. Ha compreso, al contrario tuo, che ho delle ottimi motivi per agire come sto agendo”

L’oscurantismo in cui albergavano le sue ragioni, parole mancate che lo avevano privato di qualcosa che lui mai avrebbe potuto intuire, destabilizzarono per alcuni secondi la faconda sicurezza distesasi sul suo volto dal dissiparsi dell’ombra dell’avvocato. Debolezza, forse lieve, ma capace di creare una crepa laddove Leo poteva imperversare nell’arcigna decisione di concludere lì quanto non aveva neppure intenzione di incominciare.

“Yusho Sakaki era un mio grandissimo amico, e anche un brillante scienziato. Anche se gli anni e la peste ci hanno diviso, portandoci a lavorare per città differenti, questo non sminuisce il legame di sincero affetto che ci legava; gli avevo promesso, anni fa, che se qualcosa fosse accaduto a impedirgli di accudire la figlia, io sarei intervenuto, che lo avrei aiutato esattamente come lui avrebbe fatto nel caso qualcosa fosse successo a me. E non sarà certo per la tua sciocca stizza che metterò a tacere una promessa, non sarebbe da Leo Akaba”

Era l’uscita di scena che aspettava. Voltare le spalle al suo stesso figlio, lì fermo come un animale ferito che tenta inutilmente di digrignare i denti contro l’oppressore che già ha ottenuto quello che voleva, non lo riempiva di orgoglio nei confronti di se stesso; nulla di quanto facesse contro di lui poteva davvero compiacerlo o dargli una giusta dose di soddisfazione. Amare i suoi figli era una verità che rimaneva silente nel suo petto, mascherato da un rigore che lui stesso si era autoimposto a fronte di sentimenti capaci di minare come il vento su castelli di carta tutto il lavoro di una vita. La scienza non era più un semplice divagare della mente al fronte di scoperte in grado di regalargli fama e benessere, non da quando ogni singolo neurone fisicamente in grado di agire era stato devoluto alla ricerca contro ogni bacillo della Peste. Era errato ripetersi di avere ancora tempo, di possedere uno spazio ancora sufficientemente vasto per lasciar scorrere quello che la sua razionalità sentiva in obbligo di soffocare, ma la corsa che tutti quanto stavano facendo per trovare la strada giusta non poteva vederlo in un posto che non fosse la prima linea, primo precursore di una guerra che non avrebbe risparmiato vittime e oppressori. In quel momento, non poteva fare altro che sperare, pregare un dio ormai evidentemente inesistente di concedergli la possibilità di compiere quanto ancora aveva solo in serbo di fare.

“Non c’entra nulla Ray?”

Stupore e sorpresa riuscirono finalmente a colpirlo, quel volto protagonista di un’indifferenza che sfociava nell’imperturbabilità più accanita, e il grigio delle iridi dilatate venne incontro allo sguardo pungente di chi non ricercava più l’arma più affilata per infliggere del male, ma il semplice constatare di pensieri indecifrabili nella suppositio di dubbi cangianti in una varietà di risposte totalmente private al giovane studioso. L’ineffabilità di un nome impronunciabile derivava dal potere che esso possedeva di evocare spettri dal glaciale effetto, abili nel far appassire con l’ombra della morte qualunque traccia di gioia e felicità contenuta all’interno del cuore di ogni persona. O, almeno, all’interno del cuore di Leo e di Reiji. Il silenzio che circondava una figura ormai esistente solo nelle numerose foto incorniciate sparse per la casa non era sinonimo di oblio, ma di tacito dolore che riposava silenzioso nella consapevolezza di non poter mai guarire del tutto.

“Se credi davvero che io voglia vedere in Yuya una sostituta per tua sorella... allora comprendo perfettamente perché tu mi creda un folle. Ma sei in errore, figlio: io ho amato Ray, la amo tutt’ora, e non c’è minuto, non c’è secondo in cui io non la pensi. Non potrò mai sostituirla con qualcuno... tantomeno con la figlia del mio migliore amico. Arrenditi, Reiji. Non c’è nulla che tu possa fare per venir meno a questa mia decisione. Fa buon viso a cattivo gioco... e non usare mai più Ray per le nostre beghe quotidiane, per favore”

E, detto questo, Leo Akaba calcò a passi veloci il lungo corridoio che lo avrebbe allontanato da suo figlio. 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ~ Perché anche la flebile fiamma di una candela rendeva dimentichi del buio ***


CAPITOLO II

N

 

on vi erano ragioni per giustificare il male che le veniva inferto, e non vi era nessuno per cui mostrarsi forte o per cui trattenere le lacrime. Il violento strappo avvenuto nella sua vita, l’improvviso mutarsi di una realtà incapace di svelarsi dietro blande spiegazioni, l’avevano allontanata dal suo nido quando il cadavere del padre rimaneva ancora pregno del suo calore, gli occhi chiusi per sempre a dare la parvenza di una vita che non poteva essere restituita più in alcun modo, nemmeno in quei sogni dove i desideri più profondi, quelli più ramificati all’interno delle nuove cicatrici apertesi nel suo cuore, lasciavano la speranza lì dove si udiva la categorica negazione da parte della natura e della scienza.

Le cause che le avevano portato via perfino un luogo da compiangere si erano succedute ad una velocità irrazionale, forse acuite dallo sforzo di rendersi inevitabili e invisibili. Cosa davvero fosse successo ella non lo capiva, come non riusciva a spiegarsi il motivo di tanta celerità nel volerle dare una nuova dimora anche in un momento in cui Thomas e molti altri si erano dimostrati disponibili a concederle una posto dove stare lì dove era nata e cresciuta, lì dove aveva un ruolo che ancora le desse una ragione per  vivere. Era bastata una semplice firma, e colui che vantava i diritti su di lei aveva imposto il cadere sul nascere di qualunque opposizione al suo volere, anche quello della diretta interessata, con la pretesa perentoria di vederla nella propria dimora al più tardi di un paio di giorni, un tempo insufficiente perfino per salutare coloro che avrebbero pianto non soltanto l’addio di Yusho, ma anche la lontananza di lei.

Era proprio in quella casa, Yuya, fredda come i sentimenti che aveva ricevuto nell’entrare in quel nuovo mondo, e lucente come le apparenze che dovevano essere dimostrate.

La mente umana ragiona spesso in modo semplice; a fronte di un mondo complicato nel suo districarsi in significati che a volte non pongono mai una reale verità nel loro criptico realizzarsi, racchiudere tutto dentro simboli generici appariva il metodo migliore per non soffocare nel misterico risolversi di soluzioni la cui risposta veniva a mancare anche a quelle menti filosofiche che avevano posto il loro porsi nel mondo nella pallida intenzione di venire incontro a tutti quei dubbi amletici di cui gli altri umani non avevano o non potevano avere garanzia.

Era stato dapprima l’iniziativa di pochi, il pavoneggiare di un potere, di una posizione e di una sicurezza monetaria capace di rendere concretamente reali tutti i sogni rappresi in immagini dalla sbiadita definizione. La ricerca dava la vita eterna, il ricordo concepiva la miglior forma di supremazia a cui mai l’uomo potrà ambire; sotto questa simile prospettiva, diveniva necessario, se non indispensabile, distinguersi dalla massa informe di gente che si aveva alle spalle e dare di se un’aura di eccentricità che ne rinvigorisse la fama. Avevano iniziato così, i primi ricercatori del morbo, a elaborare tutto un loro mondo in cui il bisogno di una forzosa segregazione non lasciasse consumare l’essenza stessa di sé stessi. Brillare come le stelle era divenuto possibile creando per se dimore che rifulgevano più dei diamanti; sostituire la pasta vetrosa, opportunamente lavorata in modo da divenire impenetrabile, con la calce ed il mattone era apparsa dapprima come la più grande delle sciocchezze, la follia di menti che pian piano stavano lasciando dietro di se la ratio di una civiltà sempre più dimentica di ogni forma di decoro e decenza. C’erano voluti alcuni anni, però, e alla fine ogni uomo dedito alla ricerca aveva addotto lo stesso stratagemma, chi per tenere sotto controllo il mondo e chi per lasciare che il mondo ammirasse lui.

Leo Akaba non aveva ovviamente fatto eccezione. Nella piccola cittadella dentro cui si era barricato, con gli spessi cancelli di metallo a segnare un limite invalicabile che lei aveva udito cigolare come una triste condanna nell’istante in cui era entrata dentro la proprietà, i riflessi cangianti avevano quasi ferito la sua pelle, lì dove la luce del sole sembrava essere stata studiata al solo scopo di garantire a quelle limpide pareti trasparenti la possibilità di assorbire quanta più luce possibile.

Esposta; era questo il termine che si sentiva in dovere di usare, a fronte di un mare di occhi, occhi sconosciuti che non conosceva e che probabilmente condividevano la reciproca inconsapevolezza, puntati su di lei come se in lei fosse nascosta una chissà quale arcana verità di cui ancora si ignorava l’esistenza.

“Buongiorno. Tu devi essere Yuya Sakaki. È un piacere accoglierti nella mia dimora”

Erano state le uniche parole di Leo prima che la porta della sua stanza le si chiudesse alle sue spalle. Non una parola gentile, non una qualche onirica scusa che potesse giustificare una tale violenza nei suoi confronti; cosa davvero l’avesse trattenuta dal rivelare quanto di malevolo si celasse nel suo cuore, le recriminazioni che salivano sulle labbra con la ragione a soffocarle in un mare di astio intriso di benevolenza, era un mistero che tentava di spiegare con il ricordo della bontà del padre. O forse, la semplice stanchezza di un qualcuno che ormai non sa più per cosa deve vivere, l’incapacità di raccogliere le forze quando la grave ferita sanguinante nel petto assorbiva tutta l’essenza del suo spirito, lasciandola ad uno stato larvale che accettava senza minimamente rispondere di qualunque malefatta svoltasi nei suoi confronti.

Yuya non era così, la tranquillità non era un qualcosa che si dovesse ricercare in lineamenti sempre pronti a spigionare un sorriso o una risata capace di risollevare gli spiriti degli altri. Vissuta assieme ad altri bambini destinati fin dalle origini a guardare sbigottiti cosa fosse davvero la sofferenza, e come essa si manifestasse in un mondo totalmente privo di quelle gioie e di quella giustizia che solitamente vengono racchiuse in favole dorate a loro totalmente ignote,aveva sempre visto se stessa come l’unica in grado di aiutare, se non coloro che purtroppo cadevano sempre più nel baratro della peste, almeno le povere anime dedite anima e corpo nella ignobile ricerca, ricordando loro che l’umanità non era qualcosa da dimenticare sebbene per molti non fossero altro che misere macchine semoventi. L’essere stati privati di tutti i sogni e di tutte le beltà di una vita serena non doveva, di conseguenza, cancellare anche il significato della parola felicità dalle loro menti, e questo suo aspirare aveva acquisito particolare rilievo con quel suo amico imbronciato che pareva immune all’allegria del suo cuore; Yuto non lasciava mai al suo viso lo spiraglio di un sorriso, e per Yuya era divenuta quasi una sfida farlo cadere dal piedistallo di stoicismo sul quale lui stesso aveva voluto salire. Il legame profondo che li univa, quell’amicizia serena che ormai li legava sempiternamente, era nata proprio dalla cocciutaggine di lei nel non voler cedere a qualcosa che suo padre le aveva descritto come indispensabile.

Era una famiglia, quella a cui aspirava, e l’aveva creata a sforzo di tanta gioia nel laboratorio di morte dove le persone si spengnevano assieme a coloro che sparivano per sempre. Thomas, Yuto, e tutti gli altri, erano gli unici ad avere la chiave del suo cuore, gli unici capaci di donarle un briciolo di serenità laddove proprio lei se ne ritrovava priva. Ricordava ancora con calore e con affetto l’abbraccio che Yuto le aveva regalato, quel cingerla con fare protettivo prima che l’avvocato rovinasse l’idillio, rompendolo tramite parole giuridiche e fredde nella loro natura destabilizzante.

Destabilizzata era lei, in bilico su una trave che minacciava di farla cadere da un momento all’altro, conseguenza del crollo di tutto ciò che lei amava e desiderava. Yuya era coraggiosa, il suo animo mal tollerava l’arrendersi ad ostacoli che minacciassero la sua determinazione... ma mai come in quel momento desiderò dar retta al suo istinto e fuggire via, diretta verso la vera casa che attendeva silente il suo ritorno.

“Posso entrare?”

Quella che rigidamente veniva definita la sua stanza, a dispetto dei vari corridoi e delle varie stanze che aveva dovuto affrontare prima di giungervi, era immersa nell’oscura penombra creata dalle spesse tende che nascondevano l’unica parete totalmente in linea con lo splendore del vetro. La scarsa luce che filtrava attraverso le spesse pieghe del tessuto lasciava intuire la presenza di un letto gigantesco, forse a baldacchino, circondato da due bellissimi mobili coperti da null’altro che dal vuoto. Vuoto come l’armadio, che attendeva gli oggetti di lei per legarla a se, e vuoto come la scrivania, la quale lasciava intravedere il vago luccichio di uno schermo piatto pronto per essere utilizzato.

Era stato quello il teatro dei suoi lugubri pensieri, e in cuor suo sentiva che ogni raggio di luce avrebbe solamente danneggiato il precario equilibrio mentale che le impediva di sbottare e di recriminare quanto altri avevano stabilito, ma trovò disdicevole ricevere qualcuno quando la sua voce non si ricollegava che ad un viso ombroso incapace di essere riconosciuto.

Forse un pensiero simile aveva attraversato anche la mente di colei che aveva fatto il suo ingresso nella stanza, perché fu sua decisione e fu sua iniziativa quella di lasciar trapelare il sole laddove non aveva avuto che un misero spazio di mondo.

“Scusami se sono entrata senza attendere il tuo permesso... ma ero preoccupata per te, e io...”

Le parole le morirono sulle labbra color fuoco, mentre le mani si intrecciavano a denuncia di un nervosismo che tentava inutilmente di nascondere e placare.

La donna in rosso. Fu questo il primo nome che le venne da dare quando le sue iridi cremisi incrociarono i delicati lineamenti di lei, gli occhi azzurri quasi a sfidarla nel rivelare quali fossero i suoi pensieri. Rosso come le sue labbra, rosso come i capelli raccolti, rossi come l’abito che avvolgeva un corpo longilineo ma mortificato in una pelle tirata e spenta, come l’essenza di lei, che ricordava le rose prossime a sbocciare.

“Ad ogni modo” continuò la donna, la voce a mascherare l’attimo di incertezza appena accennato prima “Il mio nome è Himika, e sono la moglie di Leo Akaba”

La mano che le porse, e che lei strinse dopo qualche attimo di incertezza, appariva fredda al suo tatto, liscia e delicata, ma al tempo stesso innaturale come il colore degli artigli che quasi le lacerarono la pelle, sempre nel colore che la contraddistingueva.

“Io sono Yuya Sakaki. È un onore conoscerla”

Parole vuote, dette solo perché la circostanza le richiedeva come obbligo morale laddove si era intravista una traccia di gentilezza, dissolvendo il dubbio di un eventuale errore nel suo sopraggiungere lì, quando alcuno aveva dato prova di considerarla.

“Lascia perdere le valigie” disse la donna, invitandola a seguirla al di fuori dalla porta in cui era entrata “I miei camerieri penseranno a riordinare tutto. Vieni con me, voglio mostrarti la casa. È bene che tu la conosca, visto che adesso anche tu abiterai qui”

 

***

“E

 tu chi sei?”

Era da poco tornata nella sua camera, ricca di nuove informazioni che la sua mente non sapeva appieno come usare nel vuoto che ancora la affliggeva, e la prima cosa che aveva scorto era stata la sagoma di un qualcuno, nascosto dietro l’armadio ricolmo dei suoi vestiti – vestiti che non del tutto le appartenevano, ma che forse erano stati aggiunti per volere di Himika – e che la spiava di sottecchi senza davvero comprendere come farsi avanti. La sagoma di un bimbo infagottato nel suo caldo maglione, freddo nei colori che lo rendevano ancora più palesa accanto al castano lavorato scelto come rifugio momentaneo, le mani paffute aggrappate all’anta spalancata quasi quello che stringevano fosse uno scudo capace di respingere qualunque male prossimo ad abbattersi su di lui.

Yuya non potè trattenere uno sbuffo divertito, nel guardarlo contorcersi in maniera spasmodica mentre cercava in tutti i modi di convincere il suo corpo a scivolare silenziosamente nel breve spazio lasciato tra il mobile e il muro che aveva alle sue spalle, uno spazio fin troppo ristretto anche per qualcuno esile e piccino come quello scricciolo spaventato.

“Non voglio farti del male” disse Yuya, avvicinandosi pian piano, i passi lievi che risuonavano assieme agli ansiti spaventati del bambino “Sono solo curiosa di sapere chi sei”

Melodia, era questo la sua voce, mentre tentava in tutti i modi di apparire l’essenza della gentilezza, timorosa che qualsiasi fenomeno dalla natura animosa atterrisse quel cucciolo ancor di più, spavento intuibile dal tremore delle iridi zaffirine che emergevano a tratti dallo scomodo nascondiglio, col battito accelerato che sembrava rimbombare nella stanza fin quasi a giungere nelle orecchie di lei. Una mano posta con gentilezza, un elegante invito accompagnato dal lieve sorriso di chi non farebbe mai del male.

“Il mio nome... ira”

Il sorriso della ragazza si espanse ancora di più, benché la voce di lui non l’avesse raggiunta. Sorrise, allungando ancora di più la mano, quasi volesse raggiungerlo lì dove il piccolo aveva desiderato camuffarsi con le mura, nonostante la distanza a dividerli fosse eccessiva per poter essere coperta così facilmente.

“Il mio nome è Yuya. Sono felice di fare la tua conoscenza”

“Reira. Il mio nome...”

Il legno cigolò leggermente, quando la mano del piccolo la respinse, lasciando che alcun ostacolo si interponesse tra lui e la giovane dagli occhi carmini. Con l’anta dimentica laddove la spinta l’aveva fatta arrivare, il piccolo fece alcuni passi, lievi e di infima distanza l’uno dall’altro, ma incoraggianti ad un sorriso ancora più sincero e affettuoso da parte di colei che si vedeva protagonista di questa neonata fiducia.

“Tu... tu vivrai qui?”

L’azzurro dei suoi occhi scandagliò i suoi come se quella risposta contasse per lui un peso in decisioni che alla ragazza sfuggivano nella loro totalità. Non era paura, il sentimento che lo aveva spinto a ricercare con bramosia un qualunque nascondiglio si era dissipato nelle pieghe di un coraggio che parlava di altro, di curiosità mista ad un timore la cui natura era per Yuya fonte di mistero e di altrettanto interesse.

“Sì. Leo Akaba mi ha concesso di rimanere nella sua casa. Almeno per adesso...”

Adesso era un’unità di misura che la ragazza sentiva in dovere di usare per rispetto verso coloro che ambiva rivedere, verso coloro che il suo cuore ricordava attraverso battiti celeri nei ricordi di una mente confusa dal futuro che si prospettava.

“Spero che diventeremo buoni amici, Reira” disse ancora la giovane, la mano a raggiungere quella di lui, l’invito ad un’amicizia che, forse, avrebbe riportato un raggio di luce laddove si scorgeva solo il nero della tenebrosa solitudine.

Reira, che la guardava stupito e soddisfatto, il sorriso gentile ad accennare la felicità che stava provando nell’essere riuscito, anche se con difficoltà, a sconfiggere quella terribile timidezza che affliggeva la sua natura e che lo rinchiudeva in un guscio da cui solitamente era difficile lasciar trapelare le sue ali, non poteva certo immaginare l’aiuto che dava alla giovane col suo semplice sostare nella sua stanza, con l’accettarla nonostante l’irruenza con cui era entrata nelle sua vita.

La gentilezza si dimentica come bene primario da dare e ricevere; le vite sono scandite da tanti desideri, e solo quando se ne è totalmente privi si avverte l’esistenza di bisogni altrimenti inconoscibili, in una quotidianità che dipinge di banale ciò che può rifulgere più delle stelle. Yuya lo aveva compreso proprio in quel momento, proprio quando si era vista negata un qualcosa che non aveva nemmeno preteso come diritto, ma come semplice indennizzo per l’averla costretta a rinunce gravi e ormai irrimediabili, ancor più dolorose per l’essere avvenute proprio quando ella era più debole, e il suo animo fiacco mal tollerava qualunque dimostrazione di forza ne serrasse i denti e ne stritolasse i pugni.

Non soltanto Reira. La sua gratitudine, per quello spiraglio di accoglienza che aveva finalmente ricevuto dopo tanto penare, era rivolto anche alla donna che aveva appena salutato con la promessa di rivederla a pranzo, desinando insieme come una vera famiglia.

Ricominciare non era una parola che Yuya avrebbe voluto usare per l’intraprendere di un cammino che non aveva alcuna intenzione di percorrere. Ma, sul crocevia nel quale era stata sospinta da decisioni più incisive delle sue, la semplice considerazione, anche da parte di coloro che nemmeno conosceva e che di certo non la conoscevano, aveva il suo grande valore.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ~ Una preghera in onore di Flegias ***


CAPITOLO III

 

 

O

nore a Flegias, alla furia cieca del rispetto, all’affronto al seguito di un torto, al giudizio eguale quando si ritiene che quanto subito vada oltre tutti i limiti umanamente concepiti. Yuya non riusciva a contenere il fiume in piena quale era il suo animo in tempesta, ira funesta trattenuta a stento sotto gli occhi cinerei nelle fiamme che avvolgevano quanto vi si specchiava, nelle labbra tirate che trattenevano con sforzo indicibile la mole di parole acri e avvelenate desiderose di poter abbattere colui che aveva generato tanto caos nel suo cuore.

Chiusa dentro quella stanza oscura come i suoi pensieri, sola nel desiderio che lei stessa aveva ricercato per la quiete dei suoi nervi, la mano ancora arsa del dolore che aveva provocato e ricevuto librò in aria carte, fogli, coperte, tutto quello che nel suo ordine stonava a dispetto dell’irrazionale che era in lei. Yuya era solo questo, volontà di distruzione, bieco rivendicare lì dove il male era inesistente, desiderio di esigere quanto il profondo del suo io anelava con la disperazione a smorzare le speranze che i suoi desideri potessero avere un loro posto nel mondo reale.

Avrebbe dovuto capirlo, o quanto meno intuirlo quando aveva letto ironia e sprezzo nelle iridi ametiste che, quella mattina, avevano fatto bella mostra di se accanto a lei, l’innocenza fasulla espressa in parole di cordoglio e di rispetto per il dolore appena ricevuto, con un gentile invito a condire di zuccherosa cordialità un discorso intriso di torvi sotterfugi. Sciocca lei, che aveva avuto l’ardire di ignorare quello che la sua mente urlava a larghe riprese in un istinto che, per tutta la durata della sua vita, non aveva fatto altro che condurla sulla strada giusta, un sesto senso che le permetteva di scorgere dettagli altrimenti alla vista invisibili, un acume in grado di sintetizzare informazioni ricevute nello scarso spazio di un secondo... qualità che per il suo lavoro si erano ritenute ideali e ambite, eccezionali nel renderla ancora più abile laddove altri arrancavano nel buio.

“Mio padre ha avuto molto da fare, e ti porge le sue scuse per questo. In sua vece, vorrei mostrarti i laboratori della nostra famiglia. Ti andrebbe?”

Dedita alla ricerca fin da quando era giovane e ingenua, inabile a comprendere quanto davvero le si richiedeva, per la ragazza quella era stata una richiesta più che fortunata, un modo per presentarsi in quello che si sarebbe potuto presentare, forse, un luogo ameno al suo bisogno di rendersi utile, una distrazione che le permettesse di lasciare la sua camera senza la coscienza a dimenarsi nel suo animo per la pigrizia che indolenziva se stessa e i suoi pensieri, un utile espediente per conoscere più persone e per poter vedere nuova gente che non fossero le foto di coloro che aveva lasciato nella sua vecchia città. Accettare aveva richiesto il semplice sforzo di un viso pronto a sorridere verso chiunque gliene desse l’occasione, ma nel suo animo avevano visto il riaccendersi di speranze e promesse ora tradite e dimentiche nelle nuove ferite infertegli con la crudeltà di chi diffida colui che porta in se la novità, sinonimo di rinnovamento ma anche di nefaste conseguenze.

Era stato un continuo interrogare, il suo, la richiesta di poter conoscere di più e di poter avvertire in se i frammenti di quel luogo per renderelo più suo, più casa, più familiare per concederle lo spazio di un quotidiano ancora disperso nelle pieghe del passato. La mano continuava a sollevarsi, la ricerca del vero si proiettava negli specifici dettagli che ancora non conosceva, nelle diversità che percepiva rispetto a quel laboratorio ora lontano, il muoversi di persone in un ordine che sfuggiva al suo raziocinante osservare.

“Reiji, avrei bisogno del tuo aiuto per...”

Lo aveva visto solo in quel momento, lo scompiglio che aveva portato, la curiosità generatrice di confusione, la disattenzione che camminava di pari passo con la sua presenza, lo scorgersi di domande altrettanto mancanti di risposta quali erano le sue, che ricambiava il loro interesse nella timidezza di chi non è abituata a tante attenzioni e tante incertezze.

Si chiamava Shun Kurosaki, ed era stato il primo ad avere il coraggio di avvicinarsi a loro senza l’esitazione di chi non ha la più pallida idea di come comportarsi, nemmeno fosse un qualche esponente politico di cui si teme la sbrigativa e severa decisione. La severità del suo viso non aveva nulla a che riguardarle, gli occhi dorati rispecchiavano questioni che la scavalcavano in quanto essere visibile, incentrate su problemi che ne aggrottavano le ciglia in un’espressione severa e angosciata.

“Il paziente 12? Non ha risposto bene alla cura?” Era stata la domanda di Reiji, avanzando leggermente per non lasciar scorgere a lei alcunché negli occhi ora foschi.

“No, non ha risposto affatto. Ormai le restano poche ore. Non possiamo più salvarla”

Un mormorio si diffuse attorno a loro, la delusione che si plasmava del fallimento appena reso manifesto in un discorrere quasi informale. Yuya lo avvertì, quel gelo che penetra nelle ossa nel momento in cui ci si rende conto di quanto inevitabile sia lo spegnersi di un’altra vita solo per la mancanza di tempo che non concede altro spazio alla speranza, ormai vaga divinità senza dimora nel mondo degli umani.

“Ho capito. Facciamo altre prove, vediamo se possiamo capire il motivo di questo fallimento e cercare almeno una risposta che ci porti sulla pista giusta”

Freddo più delle emozioni percepite, Reiji stabilì la pericolosa decisione con la noncuranza di quanto grave fosse l’eccedere sopra il lecito convenzionale.

Yuya sapeva bene, all’insuccesso di una cura, quanto fosse alto il male da soffrire per la povera anima prossima a dissolversi. Yuto aveva parlato di mostruosità, quando toccava a lui il decidere delle azioni future riguardanti la vita degli altri, ma alla ragazza era apparso di grande umanità concedere una morte più dignitosa e indolore al fine di evitare altro patire e altre urla a disperdersi nell’aria pregna di pianti agonizzanti. Non era omicidio, perché l’essenza del crimine si costituisce laddove vi è un desiderio di vivere che può concretizzarsi. Era stato questo il suo parere, e quando gli occhi del suo amico si adombravano nel vedere lo spegnersi di un’altra persona, lei era al suo fianco, per ricordargli quanto fosse il bene fatto a coloro incapaci di proseguire nelle sofferenze segnate con crudeltà dalla Peste.

In quel preciso momento, con Yuto a lei distante, le sembrò quasi di avvertire l’orrore e il disgusto verso qualcosa di incredibilmente inumano da compiersi verso coloro che non potranno mai più avere la forza di reagire e protestare, nell’inutilità di sofferenze che venivano concesse al solo scopo di non lasciare nulla di intentato, stupido solo per la disperazione che porta a scendere verso abissi dal quale è impossibile risalire.

 

***

 

Gli occhi le si inumidirono, le lacrime scesero al semplice ripensare di quanto ormai era inevitabilmente successo, sospeso nelle memorie di chi aveva assistito attonito a quanto si svolgeva di fronte a loro, e i singhiozzi a soffocarsi nelle lenzuola ormai divelte dal loro vero sostare, discese laddove ella si trovava, nella polvere distesa come i petali di un fiore quando la violenza li abbatte al suolo.

“Pensi forse che agendo umanamente potremo davvero scoprire la verità?”

Era stata la domanda che aveva spazzato via tutta la fiducia riposta in lui, l’incertezza a subentrare laddove le rosee speranze pian piano germogliavano all’essenza di un nuovo sole.

“Ma... Reiji! Ormai quel poverino morirà comunque, perché vuoi farlo soffrire ancora?”

Il suo supplicare al ritorno di una ragione sfuggita al controllo era stata pura fantasia, dispersa allorché lo sprezzo non solo del giovane al suo fianco, ma anche di quelli intorno a lei, si rivelò dietro risatine soffocate nello stento di chi non ritiene d’obbligo l’educazione.

“Visto che deve morire, allora che possa almeno rendersi utile nei suoi ultimi istanti di vita. Adesso comprendo perfettamente perché tuo padre non ha mai fatto un singolo passo in avanti nella sua ricerca. Avere il cuore troppo tenero è proprio da ing...”

Forte, violento, deciso. L’incapacità di attendere la fine di una sentenza malvagia nel suo solo costituirsi di fiato mefitico, e la mano di lei si era abbattuta sulla sua guancia con lo schiocco a segnare l’impatto, col rosso della pelle arrossata a congiungerli nel gesto iracondo che aveva lasciato tutti di stucco.

“Non ti permetto di parlar male di mio padre!”

Fuggire le era sembrato l’unica cosa opportuna da fare, il suo cuore e la sua mente mai avrebbero accettato il trascorrere del proprio io in quel baratro infernale, i suoi passi avevano mosso con decisione verso la porta senza la razionalità a frenarla in scuse forse dovute, ma non di certo sentite lì dove il cuore palpitava ancora nel rancore di parole che la mente non poteva cancellare, e che non dimenticava ad onta di una rabbia impossibile da placare.

Sciocca, di incredibile ingenuità nell’incorrere verso trappole così studiate eppure così facili da prevedere, di stolta codardia nello sfuggire laddove la battaglia richiedeva la sua presenza. Confusione tempestosa, tormenta di domande che convergevano sul principio di ogni suo turbamento; portarla lì dove non era desiderata quale altro scopo aveva, se non quello di tormentarla? A quale satanico desiderio era da chiedere il concentrarsi di tanta animosità nei suoi confronti?

 

“Yuya... posso entrare?”

E apparve, proprio l’ultima persona che si aspettava di vedere.

“Akaba... Leo?”

L’uomo era stato poco più di un’ombra fugace, per lei, spaventata dai tanti cambiamenti e dall’incapacità di poterli afferrare assieme come un unico mazzo di gigli dal profumo penetrante, che stordisce i sensi e annulla i pensieri. Nebbia cristallina che adesso svaniva nel definirsi di tratti decisi culminanti in quegli occhi dal colore gelido che adesso la osservavano quasi impietositi dal suo prostrarsi al suolo di tanta empietà.

“Vorrei parlarti. Di quello che è successo oggi...”

Il lieve rossore che imporporò le sue guancie era un’evidente denuncia di tutto quello che le sue labbra non sarebbero mai riuscite a confessare; non era l’errare nel cedere alla violenza ciò che la destabilizzava, ma l’essere in presenza di colui che, nel legame trainante a se il figlio maggiore, poteva giudicarla malevolmente con l’infida pretesa di avere da lei ordine e disciplina. L’inchino che gli rivolse, il disperato tentativo atto a nascondere il suo viso specchio del suo cuore, fu l’unica cosa che l’istinto le suggerì, accarezzando l’aria con scuse flebili, inconsistenti nelle poche sillabe percepibili da colui che era troppo distante per accontentarsi di suoni riecheggianti nello spazio di un istante frammentato.

“No, non è come pensi. Non voglio le tue scuse. Sono venuto a porgerti le mie, per il comportamento di quello sciocco di mio figlio”

La sedia precedentemente scaraventata al suolo, l’unica di quella stanza spoglia di qualunque ricordo, fu rialzata per accogliere l’uomo, il suo sguardo ancora fisso sull’esile figura di lei, le iridi chiare a ricercare un qualche accenno che gli permettesse di continuare.

“Io... l’ho schiaffeggiato” disse Yuya, la frangia smeraldina ancora a nascondere il liquido cremisi prossimo a sciogliersi nelle lacrime trattenute da un orgoglio incaponitosi a mostrare una forza che ancora non c’era in lei “Ne sono dispiaciuta, mi sarei dovuta trattenere...”

“Di sicuro è sbagliato cedere alla violenza” disse semplicemente Leo, sorridendole però in maniera affabile “Noi uomini di scienza di solito non tendiamo a mostrare qualcosa che differisca dall’ambito prettamente razionale. Credo che il tuo gesto abbia sconvolto tutti i miei uomini... o meglio, gli uomini di mio figlio”

La lieve risata che uscì dalle labbra tirate risollevò l’animo della ragazza, sorpresa di una tale reazione proprio dal primo che ne aveva mortificato la speranza. La mano possente che si poggiò sulle sue spalle, dopo averla raggiunta, le ricordava molto quella di suo padre, quando provava a rimproverarla per qualche sua marachella ma si arrendeva di fronte al suo musino da cerbiatta – o almeno, questo era quello che era solito dire, quando puntualmente lasciava la stanza in preda ad una risata incontenibile, che infondeva gioia a lei e a chiunque l’ascoltasse. Sì, era proprio stata educata con il sorriso.

“Ascoltami, Yuya. Io ti chiedo scusa, e non solo per quello che ha combinato Reiji. Ti chiedo scusa se ieri e oggi non ti ho prestato attenzione, se ho evitato di presentarmi proprio in un momento così delicato per te. Ti chiedo scusa, ma ti chiedo anche di comprendermi... io forse l’ho trovato. Ho trovato un rimedio

Le iridi cremisi si spalancarono, lo shock a cancellare qualunque traccia di confusione che non riguardasse il mondo ormai distrutto dalla Peste.

“Io posso salvarli tutti, Yuya, posso salvare coloro che sono malati, e coloro che ancora non sono stati contagiati. Ma per continuare nella mia ricerca ho un disperato bisogno di aiuto. Il tuo aiuto”

 

***

 

“Hai esagerato, oggi. Ne sei consapevole, vero?”

Shun Kurosaki non era qualcuno che amava esprimere la sua opinione per il semplice desiderio di rendere noto quanto elaborato dai suoi pensieri frenetici. La sua ricerca di quiete e di pace basava i suoi principi sul radicale disinteresse che circondava la sua persona di fronte ad un mondo che viveva al di fuori di una malattia devastante; il suo cuore piangeva sangue, quando figurava nei suoi occhi dorati l’effigie della sorella scomparsa diversi anni fa, la sua risata lo prostrava ai piedi di una disperazione che, in passato, lo aveva condotto nel baratro della morte con la sua mano a togliere quanto un dio inesistente aveva elargito, nell’incapacità di trovare nuove ragioni che giustificassero il prolungarsi di un’agonia indegna di essere prolungata.

Guarire non era stato facile, guardandosi allo specchio ancora rivedeva le cicatrici lasciate dal suo raziocinio spezzato dal dolore, e guardando indietro lo assaliva la consapevolezza che, con la possibilità di tornare indietro nel tempo, niente avrebbe cambiato il reagire passivo di fronte al desiderio di morte che lo aveva quasi portato a spegnersi lì dove la peste non era stata capace di fare nulla.

La scienza era stata la sua ancora di salvezza. L’ossessione di poter fare la differenza, di dare ad altri quello che per Ruri non era stato possibile ricevere, il garantire benessere lì dove il bene non era che un ricordo sbiadito nel tempo di ricordi andati perduti con la follia di menti crollate sotto il peso di un male peggiore della morte stessa, l’idea che potesse esserci un qualcosa da fare prima di lasciare la terra con il disonore di non averla voluta nemmeno conoscere.

Lui e Reiji erano molto più simili di quanto la gente potesse mai affermare, nell’incrociare i loro sguardi freddi e l’impassibilità a fronte della sofferenza che impregnava le mura di una dimensione differente dalla realtà esterna. Un male comune li aveva spinti ad incontrarsi, lo stesso dolore a confrontarsi nella necessità di ricercare la loro nuova missione, la testardaggine a non arrendersi a quel dio mefitico che li voleva nelle tenebre a urlare una sofferenza incapace di poter essere espresso a parole. Sebbene solitari nel trascurare l’esistenza altrui come se fosse di melliflua importanza per le loro vita, quello che li concepiva come affini e congeniali l’uno all’altro vagava sotto la definizione di un’amicizia non ancora abbastanza definita per lasciare alle parole la possibilità di esprimerla senza sfaldarne la veridicità della sua natura.

“Sono io quello che è stato colpito... com’è possibile che adesso mi ritrovi nella parte del torto?”

L’ennesimo caffè a sforzare un corpo al limite delle sue forze, Reiji Akaba sedeva sulla sua sedia prediletta con la comodità di chi sa che nessuno al di fuori della sua cerchia avrebbe giudicato negativamente il perdersi di tutta quella rigidità che tanto amava per intessere il timore e la riverenza nei confronti dei suoi subordinati.

“Si chiama provocazione. Devi essere davvero negato, con le persone, se sei capace di insultare di fronte alla figlia un padre morto da poco... non ne sono sicuro, ma forse avrei reagito allo stesso modo”

“Dimmi, Shun... tu sai qualcosa di questa tanto decantata amicizia tra mio padre e quello di Yuya?”

Il lieve delinearsi di un sorriso incrinò quella limitata pazienza che Reiji possedeva nei confronti delle persone tanto audaci nel volersi rivolgere a lui, ma la coscienza trattenne eventuali minacce quando, sibillina, ricordò che il motivo di tanta ilarità andava ricercata nel suo pessimo approccio al tentativo di cambiare il discorso seguito dal moro.

“Ho letto alcuni articoli, ora che ci penso” rispose nel frattempo Shun, raccogliendo alcuni documenti ricchi di una storia a entrambi fin troppo nota “Stiamo parlando di un passato decisamente lontano, quando la Peste ancora non era letale come oggi, e quando Yusho Sakaki lavorava in questa città. Ma è vera, tuo padre per una volta non ti ha mentito”

“Non mi avrà mentito, ma perché rispondere di questa antica amicizia addirittura adottando la figlia di Sakaki? Insomma, forse non vi erano parenti in vita, ma possibile che nessuno avesse avuto il desiderio di prenderla con se?”

Le auree iridi di Shun si dilatarono, quando la sua mente percepì l’ombra del sospetto nascosta dietro quesiti apparentemente innocenti.

“Pensi forse che tuo padre volesse Yuya, e che l’abbia presa con se alla prima occasione disponibile?”

“Tu che ne pensi?”

Sì, era sospetto. Questo si leggeva nelle ametiste nascoste dietro la trasparenza di un vetro incapace di nascondere i sentimenti più oscuri e profondi del ragazzo di fronte a Shun. Sospetto, reso più affilato e più evidente dalla certezza che tale dubitare non era un semplice capriccio di chi non ha motivi per ritenersi soddisfatto, ma il timore di chi non ha la possibilità di conoscere tutto quello che la realtà ha da celargli.

“Non so cosa dirti... So che Yuya Sakaki, prima di venire qui, lavorava nel laboratorio di Heartland... sai, quello che ha messo in pratica il progetto de les enfant terrible...”

“Non credo che siano i bambini superdotati, quello che mio padre cerca. Le menti brillanti escono molto più facilmente, quando la situazione volge al peggio”

“E allora cosa?”

La risposta non venne. Con l’aria di chi è immerso in elucubrazioni dagli intricati intrecci, soffocato dalle stesse domande che la sua mente incessantemente poneva, Reiji Akaba lasciò la stanza, incerto, forse per la prima volta nella sua vita, su quale mossa muovere per venire a capo dei dubbi che lo affliggevano senza sosta.

 

 

 

Flegias nella mitologia greca era figlio di Ares (o di Atrace) e di Crise (prima moglie di Dardano), fu re dei Lapiti. Ebbe un figlio, Issione, e una figlia, Coronide; quest'ultima fu sedotta e messa incinta da Apollo. Per vendicare la morte della figlia Flegias tentò di incendiare il tempio di Apollo a Delfi (uno dei santuari più importanti della Grecia). Non venne però perdonato per questo affronto, tanto che il dio, dopo averlo crivellato di frecce, lo scaraventò nel Tartaro e per condanna dovette stare per l'eternità con un grosso masso sempre sul punto di cadergli addosso schiacciandolo. Nell'VIII canto dell'Inferno Dante e Virgilio si trovano davanti alla palude dello Stige, dove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi. Qui ricevono aiuto nel traghettare la palude da Flegias, le cui sembianze non vengono descritte e anche il cui vero ruolo è taciuto.

Se sembra improbabile che sia un traghettatore per i peccatori di passaggio ai cerchi inferiori, essendo le anime spedite direttamente dopo il giudizio di Minosse, forse potrebbe essere colui che prende gli iracondi e li getta al centro della palude. In ogni caso Dante si preoccupa solo di citare la sua sovreccitazione, data dalle sue grida sia all'arrivo che alla discesa dei due poeti sulla sua veloce barca

[FONTE – WIKIPEDIA].

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ~ Il meriggio di innocenze ***


“Y

uya... tu sei il mio tesoro più prezioso. Non permetterò a nessuno di portarti via di me”

La riconosceva, era una voce che il suo cuore bramava di ascoltare con la disperazione di chi sa quanto possa essere impossibile.

“Papà...”

“Yuya... vivi!”

 

Un lieve strattone. Fu la prima cosa che percepì, la prima da quando i sensi avvolti nelle calde coperte le ricordarono l’amara differenza che può vigere tra mondi separati dalla ragione che spazia illusione e realtà.

“Yuya? Sei sveglia”

China su di lei, nei liquidi occhi azzurri una preoccupazione che non tentava minimamente di nascondere, il viso di Himika la sovrastava alla ricerca di qualcosa che le suggerisse il motivo di tanto penare nel tirarla via dal mondo che Morfeo non abbandonerà mai. Accanto a lei, stretto ad un orsetto dal liso tessuto rosato, il piccolo Reira la osservava come chi ha appena visto qualcosa di terribile consumarsi dinanzi ai suoi occhi.

“Yuya, riesci a sentirmi?” chiese ancora la donna, scuotendole la spalla con più decisione.

Non era un gesto violento, la delicatezza delle sue mani era segnata dalla semplice volontà di renderla consapevole della sua presenza, di riconoscere nei suoi opachi occhi vermigli un accenno di vita che ne mitigasse gli oscuri pensieri; eppure Yuya non riuscì a trattenersi nel digrignare i denti nel pallido tentativo di nascondere l’ansito doloroso che le attraversò le vertebre e incenerì i pensieri, in un’onda dalle volgari ingiurie che ella soffocò per semplice discrezione verso chi l’avrebbe certamente sentita.

Non era un dolore persistente, esso scomparve con l’allontanarsi spaventato della mano di Himika, ma la sensazione che la sua schiena fosse stata appena adagiata su una distesa di carboni ardenti l’atterrì al punto da sperare una qualsiasi ritrosia che impedisse alla donna e a chiunque le fosse vicino di sfiorarla perfino con un petalo.

“Stai male? Hai un aspetto orribile! Sei così pallida...”

La fronte fresca di lei non lasciava adito a sospetti circa un suo eventuale contagio, la stanchezza denunciava solo se stessa, senza alcuna altra piaga a decretare il sopravvento sulla figura di lei e a piegarla al suo volere in un fato nefasto, ma la sofferenza non era un fattore che poteva essere ignorato per la semplice consolazione che la Peste non avrebbe mietuto una nuova vittima a lei così vicina.

“Mi sento bene” disse Yuya, tirandosi a fatica su dal letto “Credo di aver fatto le ore piccole, ieri sera, e per questo che...”
“In effetti i tuoi occhi sono cerchiati” la interruppe ancora lei, mentre il suo sguardo vagava sui segni neri che accentuavano il colore acceso degli occhi della fanciulla “Come mai sei andata a letto così tardi?”

Già... cos’ho fatto ieri?

I ricordi di Yuya si spegnevano nell’istante in cui Leo Akaba l’accompagnava al laboratorio, le labbra tirate in un sorriso di sincero affetto rivoltole con naturalezza. C’erano solo lei, l’uomo e le stelle del firmamento a brillare al di là delle lucide mura, silenziose nelle ombre lasciate da colei che quella notte aveva deciso di spegnersi definitivamente senza lasciar alcuna guida a segnare quanti sentivano in cuor loro di essere perduti.

Dovevano andare al laboratorio, l’uomo le aveva parlato di una cura che forse avrebbe rivoluzionato il mondo in rovina ormai privo di alcuna speranza. I suoi passi l’avevano condotta vicino al suo obiettivo, la porta di metallo aveva fatto la sua comparsa allo svoltare dell’ultima curva di quell’immenso labirinto casalingo.

“Sai, mi sono chiesto fino alla follia quale criterio la Peste seguisse per attaccare gli uomini” aveva detto Leo, mentre la loro strada si inoltrava nell’incertezza di dove proseguire, la fiducia data a colui che sembrava non aver timori nel dove andare “Tutti cercano una cura partendo da coloro che sono stati contagiati, convinti che la verità verrà a galla solo se il paziente guarirà... ma, in fondo, se non sappiamo cosa abbia scatenato la malattia, come possiamo intervenire per rimuoverla?”

“E lei è riuscito a scoprire qual è questo elemento da cui ha origine il tutto?”

La risposta non la ricordava. Non ricordava il viso di lui quando aveva cercato di intuire quanto sarebbe seguito, non ricordava il suono della sua voce giunto alle sue orecchie, non ricordava dove fosse quando ciò era avvenuto. La nebbia che offuscava quanto succeduto era tale da renderla titubante perfino su quello che invece all’inizio aveva dato per certo. La parola laboratorio non sembrava più così calibrata, così inconfondibile, così certa nella discussione persasi ormai in un passato ignoto a se stesso. Forse Leo le aveva parlato di altro? Forse i sogni di quella notte agitata si andavano a sovrapporre al vero di fatti che lei non aveva il potere di riportare indietro con la mente? Che l’agitazione subita a causa del litigio avesse danneggiato i suoi nervi al punto da confonderla in maniera tanto miserevole?

“Non riuscivo a prendere sonno...” disse quindi, con il sorriso più convincente che riuscì ad imbastire in quell’attimo ancora sonnolento e offuscato “Mi spiace averla fatta preoccupare”

 

***

 

“Ho fatto qualcosa di male per meritarmi un figlio così degenere?”

Nella vita dedicata alla ricerca, trovare il proprio figlio nella sua stanza equivaleva al realizzarsi di una circostanza unica nel suo essere, specie se avveniva di fronte a qualcuno abbastanza in salute da poterlo ricordare, narrandolo a quanti invece si convincevano di doti soprannaturali del ragazzo dagli occhi ametista capaci di inibire i normali bisogni affliggenti i comuni esseri umani. Il concetto di privacy per Himika diveniva inesistente, quando altre motivazioni prevaricavano il rispetto che invece ella doveva verso i suoi familiari; la porta sbattuta e il cipiglio severo con cui aggredì Reiji furono la dimostrazione di quanto, nel breve tempo concesso dal destino, ella si fosse affezionata alla giovane Yuya, al punto da combattere contro uno dei suoi stessi figli pur di difenderla. Un’amicizia sbocciata da poco, ma abbastanza forte da non lasciare alle tempeste il tempo di agire in modo deleterio. Specie se aveva la possibilità di andare incontro a colui che era all’origine di tanta pena.

“Stavo studiando, madre. Tienine conto, quando invadi gli spazi altrui in questo modo”

Le sottili dita strette intorno ad un plico dalle fitti parole, inchiostro vergato in parole dall’arcana decifrazione, e la schiena mollemente appoggiata sull’unica poltrona presente nella stanza, una stanza asettica e priva di qualunque elemento potesse denunciare la vera personalità di colui che l’abitava nell’incostanza di chi non l’ama, furono le prime cose catturate dallo sguardo indagatore della donna, il viso severo a cercare di intravedere in quella postura un qualche indizio circa qualche sua debolezza.

Conosceva suo figlio, Himika, sapeva quanto fosse indispensabile per lui costruire una facciata dove poter nascondere tutti i pensieri corrotti da sentimenti irrazionali - e, a suo avviso, inutili nella strada da percorrere -; l’avere una simile consapevolezza nella mente la rendeva anche conscia che, se davvero un cuore si nascondeva in lui, allora la sua inesistenza non era da dare per scontata.

“Lo devo fare, se il figlio che in teoria ho educato affinché si comportasse rispettando gli altri agisce in maniera tanto disdicevole”

“Sono io quello che è stato colpito!” sbottò il ragazzo, alzandosi in piedi. Dalla reazione, Himika intuì di non essere stata la prima ad affrontare con lui quest’argomento “Sì può sapere cosa ho fatto di male per meritarmi un simile trattamento? Tutto quello che io ho fatto è stato darle...”

“Un pretesto per rendersi detestabile ai tuoi occhi” finì Himika, la certezza del vero a rendere più profonda la sua voce. Un vero che zittì sul nascere qualunque protesta di Reiji, il viso astioso a nascondere la ricerca impellente di qualche risposta che gli restituisse la ragione persa e mai veramente posseduta.

“Reiji... io so bene quanto per te sia difficile aprirti con gli altri...

“Per l’amor del cielo, madre!” la schernì il figlio, un sorriso ironico a dispiegarsi sul viso pallido “Mi dipingi come se fossi un adolescente timido che non sa come interagire con il prossimo! Io ho i miei motivi per diffidare di lei. A cominciare dal fatto che è stata mio padre a volerla qui...”

“Contesti a tuo padre l’aver fatto, forse per la prima volta nella sua vita, un gesto disinteressato?”

La voce di lei non nascose una leggera nota d’angoscia che incrinò quella sicurezza prima tanto spavalda nell’affrontare le difese di un figlio tanto testardo quanto scorbutico. No, anche se durante i lunghi anni di matrimonio ella aveva sempre visto il peggio dell’uomo che aveva amato e sposato, mai aveva pensato, anche solo per un secondo, ad un fine illecito che le impedisse di vedere quella ragazza semplicemente per la figlia di un suo caro amico mancato di recente.

“Lo conosci abbastanza da sapere quanto sia difficile per lui fare gesti disinteressati” confermo Reiji, negli occhi finalmente rivolti a lei un sospetto che marciava coi suoi pensieri dall’apprendere una notizia così rivoluzionaria “Anche se non so trovare, onestamente, una spiegazione. Ma portare qui una persona solo per una vecchia amicizia? Con il rischio di contagio che vi è in giro?”

Se Reiji pensava al suo genitore, il primo pensiero che gli occhi della mente scorgevano era la sua schiena. Il suo andare verso strade a lui sconosciute, l’ignorare quanto vi era intorno, i bisogni degli altri, l‘amore che gli veniva riversato... si era allontanato sempre di più, fino al distacco definitivo avvenuto dopo la morte della figlia Ray. Leo Akaba aveva votato se stesso al semplice raziocinio, la ricerca come unico scopo della sua vita e dei suoi pensieri, l’obiettivo di cancellare quanto aveva ucciso la ragazza a divorarlo lì dove nessuno più era riuscito a raggiungerlo, non nel cuore che ormai aveva quasi smesso di battere per gli altri. Era una sfida, era gloria, era vendetta... motivi molteplici, ma tutti atti a distaccarlo dalla sua famiglia fino alla stregua di un estraneo. Ecco tutti i ragionevoli motivi per cui l’uomo non avrebbe mai avuto il cuore di accogliere nella sua dimora un’orfana sola al mondo. Un’orfana che lui stesso aveva abbandonato in casa sua, senza il cenno di un attenzione a giustificare il perseverare in tale decisione che aveva sempre presentato come incontestabile.

“Quindi il tuo cos’è veramente?” chiese ad un certo punto Himika, inaspettata in un commento che aveva una sua logica dietro pensieri a lui sconosciuti.

“Cos’è... cosa?”

“Yuya. Cos’è lei, per te? Il tuo odio esiste unicamente perché non riesci a giustificare la sua presenza qui?”

Himika seguitava nella sua inchiesta, l’obiettivo principale del suo dibattere non era stato dimenticato nemmeno per un secondo. Sembrava, anzi, di essersi quasi pentita per averlo lasciato indifeso a fronte di dubbi che il figlio le aveva porto su un piatto d’argento, le iridi zaffirine tornate a bruciare per ciò che adesso aveva a cuore.

“L’essere un estranea quindi non è un motivo per tenermene alla larga? Mio padre è libero di adottare chi vuole, ma questo non significa che andrò dietro a chiunque verrà a chiamarsi Akaba nei giorni a venire. Ho Reira, e tanto mi basta”

Gli occhi della donna non l’avevano abbandonato nemmeno per un secondo, in quella frase imbastita di scuse che, con mano lieve e sincera, era riuscita a divellere per comprendere quanto davvero si celava nel cuore del figlio. Lo aveva visto crescere, sapeva come egli agiva quando i suoi sentimenti rischiavano di prorompere dietro la rigida etichetta che lui stesso, per sua iniziativa, aveva deciso di seguire. E sorrise, perché finalmente la vide, la verità che tanto le serviva per proseguire la sua battaglia.

“Tu hai paura.”

“Di Yuya?” la risata di Reiji quasi soffocò il nome di lei, lo scherno quasi ad insultarla per averla accostata a qualcosa di così derisorio.

“Di poterti affezionare ancora a qualcuno che potresti perdere. Come è accaduto con Ray”

“Lei non è Ray!”

Le labbra a pronunciare un nome che ancora faceva sussultare il cuore nel dolore incapace di placarsi, la rabbia espressa nella sorpresa di essersi lasciato cogliere così vulnerabile laddove non era ancora capace di difendersi. Un tabu, questo era diventato il nome di sua sorella; custodire dentro di se le fiamme dell’inferno lo aveva reso cieco di fronte a qualsiasi cosa lo portasse a voltare lo sguardo dentro a quel vuoto che mai sarebbe stato riempito, che lo avrebbe ferito nel suo non essere e nel suo assorbire quanto vi era di felice in lui.

“Non lo è, infatti” affermo la donna, incurante dello sguardo trasognato del figlio “E vorrei che te lo ricordassi, qualora ti venisse il dubbio che anche lei debba morire per il semplice fatto che è viva”

“Io non...”

“Ho solo questo da dirti, Reiji. Lei potrà non essere un’Akaba, potrà non essere tua sorella, ma è un essere umano, e come tale merita rispetto. Ti proibisco di parlare male di suo padre di fronte a lei, ti proibisco di ferirla con qualunque cosa possa generare astio tra voi, ti proibisco di danneggiarla per il semplice fatto che tu desideri questa distanza. Se verrò a scoprire che la sua salute ne ha risentito ancora, non ci andrò così piano come oggi”

 

***

 

“Ti senti meglio?”

Lo sguardo di Leo Akaba vagò su di lei, figura rannicchiata in coperte incapaci di soffocare del tutto i brividi che attraversavano il suo corpo infreddolito, l’accenno di un sorriso a camuffare la sentita preoccupazione che la domanda lasciava invece trapelare indiscretamente.

Tedio era l’unico termine con cui riusciva a descrivere se stessa, rialzare il suo sguardo sull’uomo, ormai entrato e a lei vicino, costò uno sforzo non indifferente seppur con la semplicità di qualcosa che si compie normalmente. Riuscire a rialzarsi in simili condizioni apparve quasi impossibile, per lei, e solo il sostegno di Akaba le permise di farlo per davvero, lasciando alla sua schiena incurvata il compito di sorreggere una testa che non ciondolava per il semplice sforzo di apparire neutrale di fronte ad una stanchezza che macerava i muscoli con costante decadimento.

“Mi sono preoccupato molto, ieri, quando sei svenuta all’improvviso” disse l’uomo, continuando un discorso che era avvenuto solo nei suoi pensieri “Ho pensato al peggio... ma immagino che il tuo fosse solo stress, per quanto accaduto con Reiji”

Yuya annuì, tentando di nascondere nella convinzione del suo gesto il dubbio che aveva pervaso il suo animo già costellato da domande ancora bisognose di una risposta sincera e inscindibile dal vero. Sapeva abbastanza degli esseri umani da non credere in una sua debolezza a fronte di sentimenti dirompenti e incapaci di essere arginati – seppure tale verità incontrovertibile veniva puntualmente spiazzata da quegli sciocchi romanzetti rosa che suo padre si ostinava un tempo a comprarle per l’ancor più sciocca convinzione che, in quanto donna, dovesse obbligatoriamente trovarli aggraziati alla sua natura – e il solo concepirla come reale fattore del suo malessere persistente le risultava difficile e derisorio per l’intelligenza di chi aveva davvero voluto avvallare questa ipotesi.

“Yuya... ricordi di cosa abbiamo parlato ieri? Della cura contro la Peste?”
“Quindi è vero?”

‘Non era un sogno’ pensò, la rassicurazione che l’allontanava dallo spettro della follia sempre più insistente nel suo pretenderla a sé.

“Certo che era vero” soggiunse Leo, divertito da quella domanda “E grazie al tuo aiuto, diverrà realtà. Perché ho finalmente compreso ciò che volevo sapere”

“Ciò che scatena la malattia?” chiese Yuya, ricordando i vaghi frammenti che ancora conservava del giorno precedente.

“Precisamente. La risposta è... il sangue”

Le iridi quasi si dilatarono, quando la voce di articolò nel suono di quella parola apparentemente priva del benché minimo peso per qualcuno che, ormai, aveva assuefatto se stesso alla vista di scenari macabri nel loro imporsi al bisogno della ricerca. Un brivido percorse la schiena di Yuya, all’avvertire di una paura che non solo non riusciva a spiegare, ma che si rivelava eccessiva al fronte di una notizia in teoria fonte di gioia.

“La peste non colpisce a caso, come si è sempre ritenuto, non uccide chi gli fa più comodo” continuava nel frattempo Leo “Sceglie le sue vittime, se così vogliamo dire... e il DNA, il nostro codice genetico a richiamarlo”

“Impossibile” soggiunse Yuya, il viso incredulo nella semplicità di una spiegazione così blanda “Abbiamo fatto in laboratorio un’infinità di test, questa teoria...”

“I test su chi li avete fatti?” la interruppe Leo “Sui malati, vero? Non sui sani”

Le iridi cremisi vagarono nel sentore di dubbi ancora incerti del loro esistere

“C’è qualcosa che ha tenuto la peste lontana da me e te, per tutto questo tempo, ed è questa combinazione di monomeri che ormai sono riuscito a identificare. Ascolta, Yuya...”

Incapace di contenere la profonda agitazione che impediva al suo corpo di rimanere immobile di fronte a lei, le sue mani poggiarono sulle sue spalle, le gambe si inginocchiarono fino a permettere ai suoi occhi l’incrociarsi con il rosso di lei, un permeare di sguardi che intimorì la giovane per l’emozione scalciante che vide riflessa nel pallido grigiore di un cristallo raffinato.

“Yuya... quando ti guardo, rivedo Yusho, rivedo la sua passione, la sua testardaggine a proseguire nel proprio intento. Io voglio te, al mio fianco, per continuare questa mia missione. Voglio te, perché averti con me sarà come riavere Yusho... l’unica persona di cui mi sia mai veramente fidato

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ~ Agli ingenui che non hanno di chè difendersi ***


L

e imposero di conoscere la morte alla tenue età di dieci anni, l’ambizione di quei folli che non riconoscevano più la sua infanzia si era snodata fino ai limiti di una folle derisione verso qualunque vincolo e rispetto in quei diritti che la fanciullezza avrebbe avuto da riservare, l’innocenza scacciata come un male peggiore di quello che si desiderava curare, ucciso con la verità.

Si chiamava Rachel, e doveva aver avuto pressappoco cinque anni. Che ella fosse una bambina lo si evinceva dalla sua bassa statura e dall’esilità del corpo tremante, ma che di quel viso infantile non ci fosse più nulla di effettivamente puerile era una cosa a cui molti, tra i suoi compagni, erano giunti ad affermare sotto le ironiche risate di chi non concepisce più quale sia davvero un motivo per concedersi al lusso della risata.

Yuya non rideva. Il baluginio delle sue iridi cremisi era un’ode al pianto che le era stato vietato di versare, i singhiozzi trattenuti un cappio che le strattonava il collo in attesa della sua decapitazione, il cuore un piombo fuso che atterrava dolcemente verso i meandri di una disperazione mai creduta umanamente concepibile.

Lei era lì, prossima a spegnersi, il volto a rigarsi di quelle lacrime sanguigne che l’avevano trasformata in un’orrenda maschera di grottesco dolore, il corpo a riempirsi di piaghe nere e gli occhi spiritati, ormai immersi nella follia in cui si cade inevitabilmente al concretizzarsi definitivo della Peste, volti verso di lei.

Già, proprio verso di lei. Anche se era da dichiarare impossibile un tale evento, congelatosi nell’ermetica riservatezza concessa alla paziente riflessa dal mare di specchi che quei vetri ingannatori le concedevano nel loro pertugio di conforto, lei lo sentiva quello sguardo sulla sua pelle, ne avvertiva il tremore quasi fosse una cosa tattile capace di raggiungerla per lambirle la diafana pelle coperta di brividi.

E in quello sguardo non vi era alcun sentimento, se non l’ultimo pensiero della moritura.

Perché non mi avete salvata?

 

***

 

I

l piccolo Reira dormiva tranquillamente accanto a lei, accoccolato a quel piccolo peluche da cui considerava impensabile ogni qualunque tipo di separazione, e il respiro leggero che accompagnava il lieve movimento del suo corpo era l’unico suono percepibile all’interno della stanza oscurata dal sole.

Yuya lo guardò intenerita, mentre discendeva dal letto con l’affetto di chi non desidera far scoppiare la splendida bolla onirica nel quale i bambini sono avvolti, e al suo districarsi dalle leggere coperte sentì su di sé l’immensa colpa di aver macchiato, anche solo con l’ombra dei suoi ricordi, la dolcezza di un infante rinchiuso nella blindata difesa dorata offerta dalla sua ignoranza del male.

I bambini erano qualcosa di indispensabile, per una società così prossima al collasso, la loro esistenza non era più il semplice frutto di un amore consumato nei gesti della passione, era l’avverarsi di un miracolo nell’immonda ferocia del mondo circostante, un flebile raggio di luce che si districava tra le nubi di morte ormai aleggianti in maniera fosca per tutto il distrutto globo.

Reira era tutto questo; il generare di un sorriso verso i suoi dubbi a confrontarsi col male degli adulti era un obbligo che ella avrebbe voluto riconosciuto da tutti, perfino da quel riottoso fratello adottivo che con ogni mezzo aveva deciso di rendersi insopportabile ai fini di un’esistenza abbastanza vicina alla sua da far pesare qualunque contatto vigente tra i due. Un rancore che la ragazza non sapeva in alcun modo spiegare, ma di cui aveva ormai accettato l’esistenza, anche per il solo scoramento dato dalla mancanza di soluzioni in cui la sua mente arenava.

In fondo, si diceva rincuorata, ella non era sola. La presenza del piccolo Reira, orami affezionatosi a lei nell’incalcolabile dolcezza con cui sono soliti amare i bambini, era sufficiente per concederle speranza anche quando quelle iridi ametista facevano la loro comparsa per adombrare ogni suo sereno pensiero. La voce esile del piccolo mentre le chiedeva della sua vita passata, la manina che si avvinghiava ai suoi vestiti quando cercava di attirare la sua attenzione, gli occhi zaffirini che si allargavano di stupore a qualche sua rivelazione di dolce attesa, era tutto ciò che le serviva per poter rispettare il sacro vincolo impostole dal padre; sorridere era diventato quasi impossibile, da quella terribile tragedia che ancora scuoteva il suo cuore in viscere di dolorosa stretta, e il ricordo di lui, evanescente in immagini che ella non aveva altro modo di concepire se non nella fantasia dei sogni, funestava la sua anima ormai al tracollo della sua coscienza. Erano giorni in cui alla tristezza si alternava quella spossatezza guadagnata a sforzo di mille menzogne portate avanti al mentire sulla sua vera condizione, e senza quel dolce bambino al suo fianco ella non avrebbe mai potuto aver vita in quel pertugio di false certezze, e il fascino della morte avrebbe preso il sopravvento senza lasciarle altro scampo se non il ricongiungersi cruento con l’unico uomo che desiderava rivedere.

Reira era tutto quello che lei non era stata, e avrebbe voluto concedergli tutto ciò che uomini privi di alcuno scrupolo avevano preteso di strapparle. Ecco l’imbarazzo nell’accostarsi a lui quando la sua mente ancora vergava sull’orrida immagine di una bambina morente, ecco perché sentiva quasi il bisogno fisico di scacciare dal fanciullo tutta la corrosività delle inique verità a cui un tempo ella fu sottoposta.

Il progetto Les Enfant Terrible venne considerato – in maniera onerosamente giusta – come l’approdo più nefasto per ogni considerazione dell’umana concezione dell’anima. Tramutare gli esseri viventi in macchine semoventi dalle strabilianti capacità di calcolo ma completamente inabili in qualunque dimostrazione affettiva ne guastasse l’insuperabile efficienza aveva portato molti a condannare il futuro nella cancellazione di ogni speranza alla guarigione della malattia. Chi avrebbe popolato quella terra, all’uscita da quel buio tunnel, se non umani ormai completamente dimentichi di cosa fosse l’amore? Questo servì come spiegazione per il respingere, da parte di molti, di questa barbara pratica dell’abbassamento morale. Yuya fu solo una dei pochi sfortunati partecipanti, e sulla sua pelle sentiva ancora il marciume gettatole addosso nell’indifferenza che i suoi mentori generavano su se stessi al realizzare per loro programmi totalmente inadatti alla loro superficialità di ragazzini. Erano stati cresciuti così, e nulla aveva potuto mettere riparo all’indicibile danno operato sulle loro anime.

Senza suo padre, la ragazza sarebbe diventata un essere amorfo, osceno nel suo continuo esistere, indifferente verso ogni semplice forma di sofferenza umana. E al pensare di una simile catastrofe, le sovveniva sempre in mente lo sguardo austero di Reiji quando, con voce raggelante, aveva valicato con noncuranza tutti quei limiti per lei insormontabili.

In quei pochi secondi, le si era palesata dinnanzi ciò che le elucubrazioni nefaste di uomini saggi ma inascoltati avevano profetizzato, ciò che avrebbe rischiato di concepire senza una guida a indicarle l’uscita dalla strada della perdizione, ciò che avrebbe pronunciato nel male congeniale all’indifferenza. L’effige di quanto desiderato da coloro che l’avevano cresciuta, l’odio aberrante natole dentro andò a spiegarsi proprio in ragione di quell’espressione fanatica che troppe volte aveva visto senza concepire la profondità della follia insita nel lugubre brillio rossastro.

Concepirsi come anime destinate ad un eterno peregrinare in direzioni opposte non aveva concorso alcun sacrificio di intenti, soprattutto per colui che fin da subito si era reso araldo di tutta l’animosità che quella casa poteva concepire nei suoi confronti, e il divergere degli sguardi nelle rare occasioni di collisione tra le loro realtà si realizzava nell’unanime decisione di lasciare al gelo il compito di sviscerare ogni loro legame di acerbo sentimento.

Il piccolo Reira era l’ultimo tassello rimastole nel suo distacco pedissequo dal freddo ragazzo. Il bambino, bontà sua, custodiva all’interno della sua innocenza l’infante sogno di divellere quella loro testarda decisione di allontanamento congiunto. Lo si evinceva da quelle frasi apparentemente casuali, pronunciate con una noncuranza studiata e con il timore nascosto nelle cuciture del peluche ormai consunto; dalle risposte ricevute era sempre solito trarne un sorriso triste, nell’evidenza di quanto titanica si rivelasse la sua impresa; e pur tuttavia egli non lasciava mai allo smarrimento il compito di inficiare sulla sua focosa determinazione. Per lui, Yuya avrebbe lasciato il mondo ai compromessi, avrebbe giocato la carta della maschera e avrebbe accondisceso ad ogni sua più esigua richiesta, anche solo per la generosità che traspariva da cotali desideri, ma in cuor suo sapeva perfettamente quanto umiliante e svilente si sarebbe rivelato il cedere alle lusinghe del cucciolo, e l’idea stessa di dover valicare quel muro che Reiji aveva sapientemente costruito intorno a lui la disdegnava nella caparbietà di chi non concepisce immani fatiche solo per la vanagloria altrui. Era forse semplice orgoglio, quanto le impediva di aprirsi a colui che ancora non riusciva a chiamare fratello, eppure ammetterlo non la aiutava a concedersi l’annullarsi delle sue debolezze. Constatare e osservare quanto fosse umana era l’unica cosa che davvero potesse fare.

“Yuya, sei sveglia?”
La voce di Leo Akaba, seppur profonda e greve, si disciolse nell’aere con la delicatezza di un velo di seta lasciato a strusciare sulla pelle. Che fosse per Reira o per la ragazza, tale gentilezza, a lei non era dato saperlo. Aprirgli la porta fu l’unica cosa che le rimase da fare per rincontrare quel sorriso di affabile gentilezza, un sorriso che – a detta di molti – non gli si vedeva in viso dalla morte della figlia adorata, scomparsa anni addietro per via del male che troppe famiglie aveva devastato.

“Voglio che tu venga a vedere con i tuoi occhi. Oggi sperimenteremo la cura!”

 

***
 

S

i chiamava Eisuke, ed era un giovane ragazzo di quindici anni. Il viso pallido e smunto aveva da poco perso la patina sanguigna che uomini chimicamente protetti avevano rimosso con veli delicati subito distrutti per il grado infettivo in esso custodito. Yuya guardava quasi con diffidenza quell’agire asettico di dubbia utilità, gli anni avevano dimostrato che nulla preveniva davvero gli eventuali contagi, il contatto con sostanze infette non era mai stato dimostrato come effettivo mezzo utile a contrarre una simile piaga. Ma si chiamava precauzione, quella che ormai costringeva gli umani a temere le loro stesse ombre per paura che in esse ci fosse il mortale batterio, e a simili circostanze ella non aveva potere di dir nulla se non nei suoi ironici pensieri. Lo sguardo cremisi lasciato a vagare sull’eccessiva magrezza del soggetto posto a sperimentazione, sui capelli ormai incanutiti prima del tempo, sulle labbra tremanti e sulle macchie nere comparse attorno alla gola, aveva risvegliato in lei una tremenda agitazione nata dalle parole dell’uomo in minuti ormai lontani eoni.

“Il signor Miyase, secondo la sua cartella clinica, è destinato a morire tra non pochi minuti” enunciò Leo Akaba al suo fianco, la figura possente a rendere claustrofobica la piccola stanzetta di vetro che li proteggeva – ennesima precauzione inutile ma necessaria – da qualunque rischio di contagio “So che è crudele, una cosa simile, ma ho bisogno di comprendere nell’immediato istante quanto sia efficace la mia ricerca. Ti assicuro, comunque, che nulla di male gli verrà fatto durante le sperimentazioni. Sai bene che io non sono come mio figlio”

Gli occhi della giovane rimasero socchiusi, all’accendersi delle bianche luci nell’interno dello spoglio laboratorio. Preparato per l’arrivo di un paziente terminale, ogni qualsiasi cosa esposta al contagiato era stata rimossa ai fini di inutili perdite di tempo in eventuali decontaminazioni, e tutto quello che era rimasto, oltre all’invisibile gabbia nel quale erano rinchiusi, era un lettino con la dovuta strumentazione per il calcolo delle funzioni vitali. I pochi presenti in sala - l’identità nascosta in quelle divise dal bianco splendore – altro non possedevano se non una grande siringa da 50 CC, il liquido cremisi a rilucere nella monocromia dell’ambiente circostante. Yuya represse un brivido, al pensiero che in esso vi era parte del suo sangue, adeguatamente studiato affinché non risultasse dannoso per i pazienti che lo avrebbero accolto nel loro corpo. Leo Akaba aveva contribuito, a quanto egli stesso amava affermare, eppure la giovane non lo aveva mai visto debole come accadeva a lei durante le prime trasfusioni.

“Possiamo incominciare” affermò Leo Akaba, e nella consapevolezza che quel luogo li proteggeva anche dai suoni, gesticolò il suo ordine in un movimento confuso di mani.

E gli uomini acconsentirono.

All’inizio non accadde nulla. All’effettuarsi dell’operazione, aveva avuto seguito solo la lieve smorfia del paziente, il quale riusciva a percepire il lieve dolore anche nel limbo dei narcotici che gli erano stati somministrati. Sia Yuya che Leo guardavano con apprensione il fievole respiro del giovane che non accennava a migliorare, il bip delle macchine a intuirsi attraverso la lettura di monitor statici a qualunque cambiamento.

E poi accadde. Un tremore improvviso, nuove lacrime a riversarsi sulle guancie, lamenti convulsi a scuotere il corpo agonizzante.

“Aumentate il dosaggio dei sedativi!” urlò Leo Akaba, dimentico del luogo in cui era e del silenzio che comportava. I suoi uomini non risposero, anche loro assistevano attoniti al macabro spettacolo che si stava consumando senza una voce razionale a suggerire cosa compiere in una simile circostanza.

“Adesso vado in sala, tu non muoverti da qui!” esclamò alla fine l’uomo al fianco di Yuya dopo due estenuanti minuti carichi di angoscia, la mano ad artigliare la maniglia trasparente con fare aggressivo.

Ma Leo Akaba non uscì da quella stanza. E questo perché, nello spiraglio concesso dal suo impeto, egli riuscì ad udirlo. Ascoltò basito quel suono intermittente che aveva tanto voluto sentire.

“Signore, il paziente risponde! Battito cardiaco in aumento, stabilimento di tutti... sì, di tutti i parametri vitali! Signore, è incredibile”

E Yuya, dall’angolo del suo cantuccio, non riuscì a trattenere le lacrime.

“Sta guarendo...”

 

***

 

“F

ratellone, hai visto Yuya?”
Era stata una giornata priva di qualsivoglia distrazione, il supplicare di requie aveva trovato risposta ad un indifferenza che aveva del sadico nell’inchiodarlo sul posto di lavoro anche con la mente a vagare altrove.

Massaggiarsi il setto nasale non aiutò il mal di testa imminente che minacciava di distruggere quella poca pazienza rimastagli, e il continuo rivangare di quei documenti non era che un aggravante a quel desiderio sempre più prepotente di abbandonare, almeno per quel giorno, tutto quanto fosse cartaceo o digitale e concedere alla sua mente un momento di silenzio e di tranquillità, momento che aveva ricercato già il giorno precedente ma con scarsi risultati. La ramanzina di Himika Akaba risuonava ancora nelle sue orecchie, il fastidio a mescolarsi al rancore covato nei confronti di una ragazzina che, a poco a poco, stava convergendo tutte le persone di quella casa dalla sua iniqua parte. E adesso il fratellino, il suo adorato fratello minore, che chiedeva espressamente di lei proprio a colui che più di ogni altra cosa ne desiderava l’immediata distanza e l’istantanea cancellazione dalla sua vita.

“No, Reira, sai bene che Yuya non ha alcuna licenza qui, non è possibile che l’abbia vista”

Il viso deluso del bimbo fu un colpo basso al quale il ragazzo non era preparato. Al rancore adesso incedeva il rimorso, la voce accusatoria che sempre amava sbandierare nei confronti della ragazza adesso l’avrebbe volentieri concessa a se stesso, per aver lasciato al suo incalzante sentimento d’acredine la possibilità di sferzare la tenerezza e la sensibilità di un bambino innocente.

“Quando hai visto Yuya per l’ultima volta?” Chiese dunque, sperando in cuor suo che – qualunque colpa gravasse sulla sua coscienza – si cancellasse per quella strana forma di inspiegabile interesse che aveva lasciato a vagare nella discussione.

“Ieri... ieri sera” rispose il bambino, lo sguardo ancora fisso verso il basso “Siamo andati a dormire insieme... ma quando mi sono svegliato, lei era già andata via”

“E non ti ha detto se aveva qualcosa da fare, per quest’oggi?”

Il bambino denegò, le mani strette attorno al peluche quasi con animosità, forse una qualche dimostrazione di rammarico verso se stesso per non aver prestato abbastanza attenzione ai pensieri della giovane.

“Però, ora che ci pensò” aggiunse dopo alcuni secondi, meditabondo “Forse papà ne sa qualcosa”

Il viso del fratello maggiore si fece in quell’istante aggressivo, il sospetto a incedere nella luce profonda delle iridi indagatrici.
“Sì, ora ricordo” continuò il piccolo, ignaro della tempesta che le sue parole potevano scatenare “Mi sono svegliato perché avevo sentito una voce... non ricordo cosa abbia detto, però sono sicuro che era lui. Forse è stato allora che Yuya se n’è andata... ma avrebbe almeno potuto svegliarmi”
Reiji non resse più. Alzatosi di scatto dalla sedia, lasciò cadere il camice sul piccolo divano che fin troppe volte aveva utilizzato come letto, e a larghi passi percorse il suo studio per raggiungere l’uscita.

“Fratellone, dove stai andando?” Chiese il piccolo Reira, allarmato da tanta agitazione.

“Tu adesso va dalla mamma, Reira” rispose l’uomo, serio in volto “Io vado un attimo da nostro padre... credo che abbia alcune cose da dirmi”

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ~ Il battito d'ali di una farfalla ***


I

l suo peregrinare all’interno della sua stessa dimora non aveva mai avuto una meta prestabilita, un obiettivo da raggiungere. La riservatezza con cui suo padre andava a ritagliarsi i suoi spazi comportava la totale ignoranza, da parte degli altri membri della sua famiglia, di qualunque luogo sicuro nel quale avere certezze e risposte. Era una ritrosia guadagnata con metodica lentezza; i secondi di silenzio si erano accumulati senza che qualcuno si accorgesse della sempre maggiore sottrazione, e si erano resi evidenti soltanto alla fine, quando di Leo Akaba non era rimasta che un’immagine sbiadita ravvivata solo da incostanti apparizioni aventi a sé del miracoloso. Il semplice fatto che Reira, anche se nel limbo del suo sonno, avesse avuto numerosi dubbi nell’identificare la voce del padre, rendeva palese quanto simile distanza si fosse ormai concretizzata in un’assenza cronica che metteva su due mondi paralleli il padre e il resto della sua famiglia, ormai disillusa di poterlo cambiare.

Ecco perché aveva continuato a cercarlo alla cieca. Ecco perché continuava imperterrito a scrutare le ombre in attesa di nuovi indizi. Ecco perché aveva disperato nella ricerca fino a giungere nella stanza di lei.

Quello che si presentò dinanzi ai suoi occhi lo inorridì al punto da tradire la sua presenza prima ancora che essa diventasse totalmente manifesta. Quell’uomo, apparso come il ritratto dell’indifferenza anche di fronte all’assurda decisione che aveva imposto sulla sua famiglia come una legge dettata da un monarca immune alla contraddizione, adesso era lì, a pochi passi dal letto di Yuya, il volto inespressivo a contemplare la figura rannicchiata che dormiva pesantemente tra le coperte inspessite e appesantite da un bisogno che appariva inopportuno. Il freddo era qualcosa di ormai totalmente dimentico, nella loro dimora, perché le perfette condizioni climatiche erano garantite non tanto per fornire ristoro agli abitanti quanto per permettere il totale controllo dell’aere circostante, una maniera sbrigativa per decontaminare tutto quanto potesse far nascere il pericolo di diffusione della peste. La tecnologia si era evoluta a livelli esponenziali proprio per garantire ogni necessario aiuto in merito a simili manifestazioni, e in simili pertugi difensivi appariva inusuale, se non proprio strano, quell’indifesa creatura tremante per il freddo, affaticata perfino dal semplice atto che le permetteva de respirare, incosciente eppure infelice di un qualche dolore che ne piagava il corpo. Aveva visto troppe morti, Reiji,  e poteva affermare con certezza che quella giovane non fosse affetta dalla Peste; esattamente come Himika, anche lui si limitò semplicemente a sciogliere ogni dubito in merito ad un aggravamento tanto catastrofico. Ma che la sua salute, una salute che la sua guancia ricordava eccessivamente vivace, adesso fosse così precaria e traballante, aveva dell’inspiegabile e dell’insolito.

Un insolito che, agli occhi indagatori di Reiji, vedevano un unico colpevole ed un unico testimone. Suo padre.

“Come mai tutta questa agitazione, Reiji? Se non ti sapessi a me affezionato, crederei quasi che tu non mi reputi all’altezza di concedermi a manifestazioni sentimentali!”

“Ma io posso essere entrambe le cose, padre: un figlio devoto e un assennato in dubbio sulla tua umanità”

All’inizio il germe del sospetto aveva dovuto la sua origine e la sua esistenza unicamente alla volontà di intravedere delle colpe lì dove la presenza di lei appariva meno richiesta. Odiare Yuya comportava il ricercare di un qualcosa, una qualsiasi clausola o anche un banalissimo appiglio di sciocche proporzioni che riuscisse a garantirgli la vittoria diplomatica e la scacciata definitiva dell’intrusa dalla loro dimora. Non vi erano altri intenti che lo spingessero a contrapporsi ad una ragazza che, nella concretezza dei fatti, non aveva fatto assolutamente nulla per rendersi detestabile ai suoi occhi, ma se anche giudicabile stupido nel suo intestardirsi di fronte a certezze che solo lui dichiarava sensate, Reiji aveva continuato per la sua strada senza dar retta alla coscienza che ne intimava l’immediato arresto delle intenzioni.

La madre aveva parlato di paura, quando aveva provato a ricercare quel senso che sfuggiva a quanti si ponevano le giuste domande, e nel suo pedissequo indagare si era spinta perfino a rievocare l’immagine di Ray, della sua unica e vera sorella, con l’orribile convinzione che, in Yuya, Reiji vedesse qualcosa che lo spingesse a respingere nuovo dolore. Nulla di più falso, perché sotto una simile prospettiva la lucidità era fine a se stessa, nel consacrare distanze nette mai ravvicinabili in un contesto che lo vedeva invischiato ad una realtà fin troppo evidente per ricercare sottintesi di qualunque sorta. Yuya non era Ray, e nemmeno le loro ombre sarebbero riuscite a sovrapporsi per creare le giuste illusioni. Il suo odio andava a concepirsi in dettagli di più infimo gusto, un egoismo che prevaricava oltre ogni più umana sollecitudine, e che semplicemente scrutava per ricercare ogni elemento estraneo come soggetto di possibili mali dal quale egli doveva difendersi. Non era la peste, ciò che Reiji temeva, la sua riflessività aveva ormai accettato l’impossibilità di una simile – e triste – condanna sulla testa della ragazza; per colui che viveva in un equilibrio precario, dettato da quotidiane tradizioni che ne concedevano il giusto riposo dopo sfibranti turni di lavoro, ogni qualunque vibrazione, anche la più lieve e la più sensibile, del suo microcosmo andava puntualmente indagato ed eliminato fino al ristabilirsi dell’ordine iniziale.

Yuya non era dunque il simbolo della peste, non era il simbolo dell’ignoto, ma l’emblema del caos che aveva destabilizzato tutto quelle impalcature di certezze che regolava il corso della sua vita. Aveva sicuramente avuto il suo riguardo quell’attaccamento che fin da subito Reira, schivo per natura, aveva mostrato per la giovane, e anche quell’insolito interesse che Himika solitamente negava agli estranei, ma la gelosia non era un tratto di rivelante consistenza, nel giovane scienziato, e anche al potere coercitivo che simile veleno deteneva, egli era solito tenersene alla larga semplicemente concentrando i suoi pensieri in ricordi che respiravano di legami più stabili e duraturi. Cosa che Yuya, in quel momento, non poteva assolutamente vantare.

In tutto questo appariva dunque incomprensibile anche per lui battagliare con il proprio padre in difesa di colei che avrebbe definito con nomee peggiori di quelle lecite pur di non avere il dispiacere di vederla. Nel suo raziocinio solitamente dominante, nessun gesto era in teoria passabile di un istinto incapace di essere spiegato, e nessuna azione veniva svolta se prima non vi era l’assoluta certezza che il dominio delle sue intenzioni fosse totalmente nelle sue mani. Eppure, quando egli l’aveva vista lì, inerme, sotto lo sguardo scrutatore del suo consanguineo, un qualcosa doveva essere scattato in lui, e uno di quei pensieri privi di calcolo si era fatto strada fino a realizzarsi in quella mano posata con noncuranza sulla spalla del padre, lo stritolare delle falangi a richiedere con insistenza un attenzione che riteneva obbligatoria e forzata, eppur tuttavia inevitabile.

“Se sei un figlio devoto, e su questo nutro dei seri dubbi, non dovresti essere qui a chiedermi cosa sto facendo. Dovresti dare per scontato che ciò che faccio è la cosa giusta”

“Ma così facendo mi adeguerei alla stregua degli stupidi, non trovi?”
L’assurda richiesta pretendeva di accettare l’imposizione senza alcuna obiezione che ne indagasse i giusti intenti. Anche Reiji era in grado di provare fiducia verso un determinato qualcosa, ma quel qualcosa doveva far riferimento a se stesso, e alla sua abilità nel giudicare correttamente quanto accadeva dinanzi ai suoi occhi, con la sicurezza di poter afferrare il frutto delle conseguenze senza alcuna remora a frenarlo in inutili indecisioni. Lo chiamavano testardo, ottuso, scettico e ironico, ma in simili appellativi non avevano mai provato a vedere quella determinazione che aveva permesso a Reiji di condurre uomini fidati a successi che mai qualcuno avrebbe potuto intuire all’apparenza dei suoi vent’anni.

Sì sentì preso in giro, in quel momento, vedendo riflesso il baluginio ironico che suo padre aveva nell’azzurro pallido delle sue iridi, senza alcuna paura di essere visto come il peggior burlone che la storia umana avesse da classificare, e proprio in risposta ad una simile sfida la sua mente fu immediatamente all’opera per rispondere con accortezza a una simile trappola di iniquo divertimento.

“Beh, immagino che, per un megalomane come te, tutti sono degli stupidi... è corretto?”

“No, figliolo. Ammetto che sono in pochi a godere della mia stima, ma nonostante tutto io non sono mai riuscito a negarti il rispetto che meriti.”
Leo Akaba non era fatto per scherzare, ed ai primi motteggi aveva immediatamente sostituito quell’atteggiamento altero che ne aveva delineato la leggenda di paladino della scienza. Ma questa sua serietà, incastonata in un viso severo capace di sorridere soltanto delle sue vittorie, adesso appariva ancor più fuoriposto per una simile dichiarazione, un’ammissione che Reiji aveva atteso per innumerevoli anni come la giusta ricompensa per i suoi immani sforzi. Adesso egli si presentava così, innocente in quella stima genuina riversata senza affetto, scrutando il ragazzo come un rigido insegnante mentre ammira con orgoglio colui che non aveva più nulla da imparare, e se in quel frangente la mente di Reiji non fosse stata un conciliabolo di sospetti e recriminazioni, tutti riportanti come destinatario proprio quell’uomo improvvisamente tanto diverso ai suoi occhi, l’incanto che si sarebbe generato avrebbe finalmente concesso ai due di abbattere quel solido muro interpostosi tra loro dopo lunghi silenzi e ferite inferte con noncuranza, liberi magari di esprimersi in quelle manifestazioni d’affetto che nella loro vita non avevano mai avuto il degno spazio di esistere. Sarebbe stato il degno epilogo della loro faida, l’atteso evento di coloro che attendevano l’avvio di una stretta collaborazione tra le due menti geniali, il momento di vera gioia che Himika Akaba e suo fratello Reira attendevano da un tempo che aveva cancellato le speranze.

Ma Leo Akaba aveva commesso un errore; il luogo era sbagliato, così come il momento, e quella dichiarazione crollò miserevolmente su stessa. Se la magia attendeva solo l’abbraccio promesso per realizzarsi, la figura rannicchiata e silenziosa di Yuya di fronte a loro imponeva, seppur simbolicamente, un tacito freno a verità ancora non affermate.

“Se davvero volevi darmi del rispetto, perché non mi hai detto di Yuya? Perché hai giocato anche carte false pur di tenerla stretta a te? E perché hai lasciato credere che ti fosse indifferente, quando adesso sei qui?”

“Dalle tue parole, sembra quasi che io abbia organizzato tutto per renderla congeniale ai miei piani” sussurrò Leo Akaba, improvvisamente stanco di un pensiero che gravava nella sua mente.

“Infatti io non dubito che Yusho Sakaki debba a te la sua dipartita”

Non vi era l’ombra del dubbio, all’interno di quella che appariva come una dichiarazione di guerra. Nessuna prova sembrava corroborare una tesi tanto strampalata, e invero la sicurezza di cui Reiji faceva sfoggio non era che una semplice maschera indossata per ingannare il proprio interlocutore. Ma quando ad una simile accusa il padre non mostrò il benché minimo segno di alterazione, quando egli gli rivolse quello sguardo freddo che dichiarava colpevolezza da ogni prospettiva, quando il suo semplice affermare divenne definitiva certezza, a Reiji poco mancò che cedessero le gambe. E sarebbe davvero caduto, se il suo indietreggiare non avesse trovato come ostacolo una delle pareti della stanza divenuta troppo piccola, troppo stretta, troppo claustrofobica. Troppo innocente per contenere una simile rivelazione.

Il suo teorizzare era dovuto al semplice sussurro di sospetti che comunque servivano solo per svilire l’immagine di suo padre. Che l’arrivo di Yuya avesse obbedito a coincidenze troppo calcolate per non avere un fondo di premeditazione era sicuramente vero, e il continuo indagare sugli spostamenti della giovane, soprattutto alla messa in allarme di Reira, ne diveniva una prova schiacciante e superante ogni ragionevole dubbio. Arrivare perfino a concepire l’idea che la morte dello scienziato fosse stata calcolata, una qualche manovra di cui Leo era perfettamente a conoscenza e che aveva lasciato al corso dei suoi eventi non sembrava inattuabile ma era stato questo il peggio a cui si fosse spinto di pensare. La denuncia fatta non parlava di colpe in primo piano, quanto piuttosto di un guardare senza agire per frenare l’inevitabile. Ma in quello sguardo Reiji aveva letto ben più di un semplice coinvolgimento, qualcosa di molto più profondo che di una banale informazione sfuggita a chissà quale principiante. Era lo sguardo imperante di chi ordina l’esecuzione quando la fine è ormai prossima, lo sguardo glaciale di chi osservava un’altra vita spegnersi. Era lo sguardo di chi aveva ordinato che una nuova vita raggiungesse i cieli

“Abbiamo già fatto molteplici sacrifici, per la salvezza dell’umanità” commentò Leo, sedendosi su una delle poche sedie messe a disposizione dallo scarno mobilio circostante “Io ne ho soltanto fatto uno in più degli altri!”
“Noi abbiamo sacrificato persone che comunque non avevano possibilità di salvezza! Non paragonarli al tuo gesto, perché se le nostre erano un’immolazione, il tuo è stato soltanto un assassinio!”
Era bastato ascoltare quella sfacciata dichiarazione per sentire la rabbia e lo sdegno far capolino in un cuore che, per quei miseri attimi, non aveva avuto il coraggio di provare nulla. Il semplice discorrere di una simile disgrazia al fianco di colei che più di tutti ne aveva da pagare lo scotto, poi, alzava quel tasso di rancore a livelli che il ragazzo non riusciva nemmeno più a controllare. Quell’autocontrollo che di solito manteneva decisi i suoi lineamenti adesso si era volatilizzato, e al suo svanire era rimasto solo uno sguardo lucido di furia omicida e una bocca deformata da una smorfia disgustata.

“Tu parli, Reiji, ma non sai nulla. Non sai quanto quell’uomo meritasse di morire” sussurrò Leo, guardandolo con uno sguardo che il giovane definì folle per la convinzione delle sue asserzioni.

“E da quando ti hanno eletto santo, padre? Credi forse che la tua vita sia stata così adamantina da permetterti un giudizio divino sugli altri?”
L’intollerabile veniva schernito dall’indifferenza con cui essa veniva ricevuta, le urla a farsi contrastare da sibili silenziosi imponenti una calma ormai inottenibile. Era come se qualcosa, dentro di lui, impedisse alla diga solitamente posta sulle sue emozioni di ricostruirsi, quasi il non accendersi di indignazione risultasse oltraggioso per colei che aveva perso suo padre senza una ragione a cui aggrapparsi che non fosse la giustizia divina.

“Sei ridicolo, Reiji. Ti comporti come uno sciocco, e per giunta per una mocciosa che hai palesemente detto di odiare”

“In questo momento, padre” e quel sussurrare apparve fin troppo simile al sibilo di un serpente per poterne equivocare la minaccia “credo di non odiare nessun altro all’infuori di te. E credimi, non hai idea di cosa tu abbia scatenato per generare in me una simile rabbia”

“E allora, figliolo, voglio porti un quesito, di modo che tu possa giudicare se sono davvero degno di questo simile odio” e si alzò, l’intimidazione da sempre insita nella sua figura a sovrastare quel figlio che, sebbene furente nei suoi confronti, non trovò abbastanza fiato per obiettare “Se tua sorella Ray fosse ancora viva, ma purtroppo malata di peste, e scoprissi che la signorina che stai tanto calorosamente difendendo fosse l’unico sacrificio richiesto per salvarla, allora cosa faresti? Chi sceglieresti, lei o tua sorella?”

 

***

 

E

isuke riposava tranquillo nel suo letto ospedaliero, il respiro regolare a far da eco ai frequenti bip che l’attrezzo elettrico al suo fianco emetteva in continuazione. La peste non si poteva chiamare sconfitta, il suo corpo si piagava ancora di cicatrici che forse non sarebbero mai scomparse, così come quel pallore cadaverico che ne denunciava la lotta compiuta con le divinità della morte giunte ad un passo dal riscattare la sua anima. Il suo guarire appariva però innegabile, l’occhio scrutatore di Reiji avrebbe distinto ogni miglioria dal lento appassire al quale ormai si era abituato stancamente.

“Avevo già contattato Roger per le funzioni funerarie...” sussurrò egli, quasi trasognato.

La risata di Leo – forse per la prima volta dall’inizio della loro discussione – non racchiudeva alcunché di ironico.

“Il tempo del dominio dei becchini è ormai concluso, figliolo. E tutto grazie al sangue di lei”

Il sangue. Non aveva seguito esattamente quanto dichiarato dal padre, ma l’unica cosa che aveva afferrato era stato il miracolo insito in quella ragazza ignara del suo dono, bontà mandata dagli dei per redimere gli umani rimasti vivi. Lui, lo scettico per natura, mai avrebbe concepito l’esistenza di volontà superiori, ma così gli era stato descritto l’avvento di Yuya nella parabola dei prodigi, perché una spiegazione scientifica che ne delineasse le ragioni sfuggiva perfino alla realtà di colui che l’aveva scoperta.

“Ma perché proprio lei? Come hai fatto a scoprirla?”

“Domanda lecita, figliolo, ma a cui non posso rispondere. Non al momento. Non adesso”
“Perché equivarrebbe ad ammettere il tuo omicidio?”

Leo guardò suo figlio negli occhi. No, lui non l’aveva perdonato, e non sembrava nemmeno voler accettare una simile spiegazione per iniziare a farlo. Reiji non era ancora pronto per la verità.

“Significherebbe non essere creduto. Ho bisogno di prove, di testimonianze che possano confermare la mia verità”

“Esiste una verità capace di giustificare l’omicidio?”
“No, ma esiste una che vede l’omicidio come necessario”

Leo sospirò, stanco di quel lungo discorso che non stava portando a niente.

Sapeva che un giorno quella conversazione avrebbe avuto la pretesa di manifestarsi, che agli atti avrebbero avuto seguito le spiegazioni, ma il tergiversare nel silenzio era stato troppo piacevole per concedersi a meditazioni che ne elaborassero la giusta dialettica atta ad applicarsi nel momento stabilito. Sapeva della testardaggine di lui, del suo scetticismo e delle sue future condanne, e una parte di lui aveva perfino sfiorato l’idea che il mistero era fatto per concedersi a silenzi arrivanti perfino a lui, a suo figlio, e che la gloria della salvezza avrebbe potuto risplendere solo su di lui e su nessun’altro. Ma erano pensieri egoistici durati la frazione di un secondo, momenti di istantanea follia conclusi con l’ammissione dell’irrealtà di simili circostanze.

No, Reiji aveva il diritto di conoscere la verità, di scoprire cosa si celasse davvero dietro la morte di sua sorella. Certo, il momento avrebbe dovuto avere prove più schiaccianti, certezze impossibili da scalfire, verità talmente inoppugnabili da ridurre al silenzio chi della contesa aveva fatto il suo pane quotidiano.

Ma andava bene così. L’inafferrabilità del futuro si dispiegava nell’impossibilità di prevederlo, di programmarlo e di predirlo. Il battito d’ali di una farfalla.

“Ascoltami bene, Reiji, perché a questo punto non possiamo più tornare indietro. So bene che tu disprezzi i miei metodi, ma a questo punto non possiamo far altro che collaborare”

“E in che cosa consisterebbe, questo aiuto?”
“Non ti pare ovvio?” Leo sorrise, una smorfia simile ad un ghigno vittorioso “A rendere la cura alla peste una verità su scala internazionale”

“E questo cosa comporterà, per Yuya?”
Che Reiji non fosse ancora dalla sua parte non era un mistero, lo si capiva da quell’ametista sospettosa che si rifletteva nei vetri a lui circostanzi, quegli stessi vetri che avevano accolto, precedentemente, la giovane contesa e le sue lacrime di gioia. Quello che più lasciava basito Leo, però, era quel protrarsi di una difesa oramai ritenuta esagerata, fuori da ogni schema atto a denigrare l’atto bassissimo – a detta sua – compiuto tempo addietro, incredibile da cercare proprio in colui che per primo ne avrebbe promosso la scacciata immediata dalla propria dimora se l’occasione si fosse presentata in modo favorevole.

“Pensi davvero che ti permetterò di usare quella ragazza come la boccetta di un medicinale?” Esclamò Reiji, sorpreso di leggere esitazione nello sguardo del padre “A che pro opporsi a progetti come quello de Les Enfant Terrible se poi ci comportiamo comunque da mostri?”

“Come ti ho già spiegato, il sacrificio è...”

“In questo momento, padre, credo che tu stia sacrificando la tua umanità!”

La porta trasparente fu spalancata di colpo, la violenza a nascondersi in mosse apparentemente controllate. Quel raziocinio prima sfuggito al suo comando adesso lottava prepotentemente per ritornare a galla, ma l’ostacolo non era il desiderio di Reiji di mostrarsi scostante quanto l’impeto delle sue emozioni ancora difficile da placare. E simile impresa appariva davvero ardua, se l’oggetto catalizzatore di ogni sua devastazione appariva proprio al suo fianco, libero di esprimere opinioni utili solo a mandarlo in bestia.

“Lasciami trovare una soluzione. Lascia che trovi qualcosa che non permetta a Yuya di scarnificarsi e di uccidersi”

“Una persona per il resto della popolazione. Cosa c’è da scegliere, Reiji?” Chiese allora Leo, esasperato da simili insistenze

“La terza opzione, padre. Io salverò entrambi. E la mia umanità sarà salva”

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ~ Perché autodistruggersi non era un opzione concessa ***


N

el notturno di un sole spento, il cremisi si amalgamava al grigio circostante di un aere mortuario, e al miraggio di un sorriso lontano eoni dalle sue labbra ora livide si contrapponeva l’indifferenza di un destino che oramai non le apparteneva più.

“Mio padre ti ha mentito, per tutto questo tempo”

Era stata la sentenza definitiva che aveva posto fine a tutte le sue illusioni, cancellava con rabbia soporifera tutte le elucubrazioni che facevano perno su una persona infelice e desiderosa unicamente di un giusto riscatto che lo rialzasse dal baratro di vuoto lasciatoli dall’assenza della figlia ormai morta. Yuya Sakaki non avrebbe mai pensato all’inarrestabilità di un processo irreversibile avente lei come centro indiscusso di inimmaginabile interesse, ma al bieco sospirare di una storia avente dell’incredibile solo per il semplice concepirla oltre schemi privi di una base di logica, non vi era null’altro che le desse la speranza di un crudele scherzo architettato da colui che non aveva mai fatto remora a nascondere il profondo disprezzo che gli suscitava la presenza di lei.

Alle sue spalle, chiuso in un ermetico silenzio che attendeva solo il benestare della ragazza per potersi concedere a nuove parole, Reiji Akaba assisteva impotente al suo disfarsi di una fiducia da lei largamente concessa a tutti coloro che si erano resi artefici di quel sordo dolore covato al preannunciarsi della falsità dei sorrisi elargiti senza rispetto; benché la sua mente suggerisse giustificazioni che ne mitigassero la severità del suo maledire, egli non prestava fede se non ad un suo ordine o a un suo volere.

Riacquistare quel sudato controllo di se aveva richiesto lunghe camminate e corridoi infiniti in cui l’unico sguardo richiesto doveva essere solo quello delle telecamere lasciate accese per la discrezione di abitanti ormai in fibrillazione per ogni azione nefasta compibile dall’uomo, eppure ancora arrancava all’adempimento di quello stoicismo che avrebbe dovuto renderne i lineamenti impassibili e indecifrabili. Se la ragazza seduta sul letto avesse votato il suo sguardo non al cupo spettacolo di una città fantasma ma a lui e al suo viso, ne avrebbe colto palpitazioni che le iridi ametiste speravano di nascondere all’ombra della luce soffusa lasciata dalla disattivazione di qualunque strumento potesse andare a rompere quel guscio di malinconia nel quale la ragazza si era rinchiusa.

Poteva sembrare ridicolo quel suo premurarsi di un sentimento che qualche ora prima avrebbe tranquillamente lasciato a covare nell’oblio dei suoi pensieri, ma dalle rivelazioni del padre si era aperta nel suo cuore una breccia, un piccolo spiraglio alimentante una nuova gamma di sentimenti che convergevano su di lei e che condannavano ogni altra sua sferzata velenosa che non si reggesse su giuste basi di razionale convinzione. Non c’entrava nulla la pietà sulla sua condizione di orfana, né tantomeno una qualche forma di negligenza in colpe di cui comunque egli era all’oscuro; si trattava soltanto di verità e di nuove prospettive, e l’essere trascinato a forza anche laddove il disinteresse prima convergeva sovrano  nei suoi pensieri. Perché se un tempo per lui Yuya non era che la rappresentazione di un’ingiustizia perpetrata al suo diritto di esprimere la propria diretta e onesta opinione, adesso era l’immagine simbolo di un delitto che lui comunque non aveva avuto il coraggio di confessare, la voce resa debole al momento di una confidenza che sfiorava il ridicolo per quel suo desiderio di non infierire ulteriormente laddove già altre verità scarnificavano la sua anima. Concepirsi come la vittima sacrificale per un progetto di cui ignorava la grandezza e la portata non doveva averla fatta soffrire così come la serie di bugie realizzate al solo scopo di mettere a tacere ogni qualunque domanda la sua intelligenza aveva da porre. Intelligenza... un qualcosa che suo padre aveva insultato continuando ad ingannarla con scuse banali e sorrisi tirati, senza contare le numerose dichiarazioni di cui lui ignorava la natura, ma di cui non dubitava l’efficacia atta a prendere a se una fiducia immeritata.

“Ma funzionerà? La cura, intendo”

All’incredulo stupore apparso nelle iridi magenta, totalmente incapaci di comprendere cosa appieno la ragazza avesse in mente, si contrappose lo sguardo spento di una giovane oramai arresa all’evidente, vacuo nel suo evitare qualunque luce ne evidenziasse il suo dilaniarsi interiore e il dolore di ferite ancora sanguinanti. Voltatasi verso di lui, tentava disperatamente di nascondere quanto si celava nel suo cuore con quella stessa espressione indecifrabile di cui tante volte Reiji aveva usufruito fino a farla diventare un mantra giornaliero.

“Funzionerà certamente... fino al momento in cui tu non morirai” rispose il ragazzo, sussurrando le sue parole a denti stretti “E quando questo avverrà, potrai andartene tranquillamente dicendo di aver curato... quanti? Forse un centinaio di persone, non di più. Lo stress che verrebbe a richiedere ogni parcellizzazione di sangue non ti darebbe più tempo di quanto ce ne servirebbe per guarire tutta la popolazione”

E l’ultima risposta apparve così irata, così rancorosa agli occhi della giovane, che Reiji vi vide per un attimo la paura nascosta dietro lo stupore. O forse erano entrambi sentimenti concreti, ma talmente mescolati da non discernere quale dei due avesse il desiderio di prevalere su di lei. Cosa l’avesse stupita, dato che lei era una scienziata di prim’ordine, era però una domanda che il ragazzo vide senza trovare una risposta degna di quei pochi secondi di attenzione che egli vi attribuì. Problemi di più primaria importanza andavano a richiedere la sua attenzione, e fra questi anche il baluardo che egli voleva ergere a protezione di qualunque tentazione si ponesse alla ragazza per concepirsi come agnello sacrificale per la salvezza dell’uomo.

Perché Reiji non stava affatto scherzando, nell’ipotizzare della sua morte. Non parlava per crudeltà, e di certo non per concedersi al lusso dell’ignominia del dolore perpetrato sugli altri, ma per la semplice convinzione che le sue parole avrebbero corrisposto ad un finale definitivo a cui suo padre desiderava giungere.

Leo Akaba non era un difensore della giustizia, come molti media lo avevano descritto, né un lavoratore indefesso che lottava strenuamente per la salvezza dell’umanità. Il suo agire era segnato unicamente dalla vendetta, da quel desiderio di rivalsa segnato dall’impotenza che aveva accolto il volto cinereo della sua giovane sorella spirata ad un’età troppo tenera per non averne da compiangere le mille esperienza a cui ella aveva dovuto rinunciare. Non si trattava, dunque, che di ottenere la possibilità di dichiarare la sua vittoria, sventolare al genere umano la sua cura e affermare la sua supremazia di fronte ad un nemico che lo aveva sconfitto ma non ucciso. Era una battaglia, e a vincerla era colui che moriva per primo. Una volta ottenuta la cura per se e per la sua famiglia, all’uomo non sarebbe importato se il resto della popolazione fosse andato a marcire all’inferno, magari con l’uccisione di colei che si garantiva come salvatrice dell’intero genere umano sulla via dell’estinzione, ma avrebbe soltanto goduto dei piaceri della vittoria che quella vendetta a lungo agognata aveva saputo offrirgli. La morte non era un nemico ugualmente raggiungibile, ma forse anche egli sarebbe divenuto un nuovo ostacolo da affrontare, una volta raggiunto il suo primario obiettivo. Ogni azione di quell’uomo si svolgeva nella determinazione di riabbracciare sua figlia Ray.

“Potrà sembrarti assurdo, quello che ti chiedo, soprattutto giunti a questo punto... ma vorrei che tu ti fidassi di me” Dio solo poteva sapere quanto fosse imbarazzante, per Reiji, confidare nella speranza altrui, ma in quel momento aveva bisogno di quella ragazza e della sua assennatezza, e l’unico mezzo con cui ottenerla era proprio chiederle quanto si era appena spezzato.

“E cosa potresti fare, rispetto a Leo Akaba?”

“Isolare quanto ti rende immune alla Peste, tanto per iniziare” rispose l’uomo, con tranquillità “Comprendere ciò che ti rende speciale rispetto a me o a chiunque altro non possa diventare un antidoto alla Peste”

“E quante persone moriranno, mentre farai i tuoi esperimenti?”
Lo sguardo adesso risoluto della ragazza apparve quasi fuori luogo, in quel frangente carico di mistica rivelazione. Non era una luce benigna, quella che bagnava il vermiglio enigmatico delle sue splendide iridi; essa riluceva di una follia che Reiji non sbagliò a identificare come disinteresse per la sua vita. Un ragionare nato dall’assurda convinzione che ella valesse mille volte meno di un numero imprecisato di morti gravanti sulla sua coscienza. Un modo di ragionare che l’uomo non aveva alcuna intenzione di accettare.

“Coloro che erano in procinto di morire sono stati già curati con il tuo sangue” fu la brusca risposta, dimentica di una calma che egli non aveva alcun modo di fingere “E quanti si apprestano a raggiungere lo stadio conclusivo della malattia sono stati messa sotto stretta osservazione, in maniera tale da rallentare il decorso del morbo”

“E quanto conti di riuscire a finire le tue ricerche?” continuò, incessante, la ragazza, quasi non calcolando le reazioni del suo interlocutore, che di sicuro avrebbero preteso un incalzare più morbido e, soprattutto, meno impulsivo “Se ti ci volessero mesi, o addirittura anni, tu come pensi...”

“Allora è questo che vuoi!?”
Fu l’esplodere di un’emotività fin troppo repressa, e il suo boato si espanse nello spazio di quella stanza al pari del fragore di una folgore accecante.

“L’altro giorno, al laboratorio, quando ho ordinato di continuare gli esperimenti su quel morituro... mi hai guardata come se fossi feccia della peggior specie. Per questo voglio sapere se sei davvero convinta di sapere quello che mi stai chiedendo!”
Doveva essere lui quella feccia umana solo per appagare il suo istinto di distruzione rivolto nei richiami di se stessa? Era questa la domanda che incorreva incessantemente nella mente del ragazzo, mentre osservava con furia colei che non sapeva più come giudicare. La sua indifferenza, quella vergognosa rassegnazione ad un destino che altri avrebbero evitato con decisione appariva come la più insensata delle fermezze, la più assurda delle convinzioni, la più cieca delle scelte offerte dal suo futuro, e se chiunque avesse compreso il suo desiderio semplicemente aggrappandosi al suo infelice passato e al vuoto che ormai altre mani le avevano creato attorno, per lui non vi era alcuna giustificazione che portasse al concepimento di un simile desiderio. Non era egoistica risoluzione, la sua, né l’incapacità di accogliere una prospettiva che non fosse quella che la natura gli offriva; la vita aveva per lui assunto il significato di un bene inestimabile quando questa si era resa rara e ricercata, e ad ogni ansito percepito, ad ogni flebile sussulto emanato dai morituri che aveva visto condannati da un destino atroce, il suo cuore andava inevitabilmente al pensiero che proprio lui, alla fine, aveva da ringraziare il caso, la fisica, la fortuna, una qualunque divinità, quel qualsiasi cosa che gli aveva permesso di evitare la malattia per uscirne indenne. Amava la vita, e la stringeva a sé nel desiderio di poterle regalare il rimedio miracoloso ne potesse concedere giusto ristoro. Ecco perché non poteva accettare che, proprio dinanzi ai suoi occhi, qualcuno la gettasse al vento senza alcuna esitazione. Per lui, quell’insana volontà realizzata dalla ragazza appariva come un bieco insulto a quanti non avevano avuto la sua stessa fortuna di scegliere il proprio destino.

“Non sarò il mostro che libererà la tua coscienza da tutto ciò che non vuoi vedere” fu il suo ultimo commento, prima di dirigersi verso la porta “Collaborerai, ma alle mie regole, e solo al tributo che io pretenderò. Autodistruggerti non è un opzione che ti concedo”

E l’occhiata penetrante che le lanciò fu l’ultima cosa che la ragazza vide prima che le porte della stanza si chiudessero dietro di lui.

 

***

N

 

on mi sembra un’impresa così ardua come la dipingi. Grazie alla peste, qui abbiamo tutti i macchinari che ci servono per analizzare ogni particolarità del sangue, fosse anche presa da una miserrima goccia ”

Crow Hogan sarebbe apparso, agli occhi degli estranei, come uno sciatto teppista appena scampato da una retata della polizia, sorpreso magari nell’atto illecito di chi lascia l’estro creativo lì dove la legge non lo consente, eppure il suo quoziente intellettivo e la sua sagacia erano di tale livello e di tale nomea da garantirsi il sicuro appoggio di un uomo scettico come Reiji Akaba, il quale aveva realizzato la propria squadra seguendo rigidi dettami di natura ignota a chiunque, Hogan in primis.

Il camice da laboratorio, trasandato in quelle pieghe che reclamavano una cura più decorosa, pendeva su un fisico asciutto e muscoloso grazie alle ingenti boccette che le tasche – sempre giudicate troppo piccole e poco capienti – sembravano pronte a far trasbordare verso l’esterno, quasi come bocche voraci troppo ricolme del cibo appena ingurgitato. In quelle, numerosi campioni appena prelevati dai pazienti che aveva in cura attendevano con ansia l’esito dei riscontri appena effettuati, il tutto giocato su un ruolo di prospettive che metteva l’unico paziente sano in corrispondenza di una nomea infinita di futuri cadaveri.

“Forse all’apparenza può sembrarti una cosa banale, ma se nemmeno mio padre è riuscito a svolgere questa impresa, sono pronto a considerarla di una difficoltà eccessiva per chiunque. Me compreso”
L’occhio vigile di Akaba scrutava ansioso i dati appena stampati che Shun, appena giunto nel suo studio, aveva consegnato con apparente noncuranza. Lo sguardo vigile del moro, nascosto dietro lenti appena inforcate per non affaticare ulteriormente gli occhi ormai gravati da eccessiva sonnolenza e dalle gravi esposizioni laddove la retina si dimostrava debole e prossima a crollare, non si accinsero nemmeno a valutare quanto consegnato, l’attenzione spostata sulla cura all’equilibrio precario che Crow esercitava sulla sedia dello studio ormai conquistata come sua personale pedana di sfida alla gravità; dall’accezione lievemente aggressiva della bocca egli sembrava quanto mai scocciato da quella volgare mancanza di decoro anche a fronte di coloro che avrebbero dovuto essere suoi superiori, e sebbene egli giudicasse veramente una persona dal suo comportamento – aveva visto scienziati più in gamba con atteggiamenti peggiori -  rimaneva universale che un dato importante, per un laboratorio, era proprio l’ordine meticoloso e la cura verso ogni particolare e dettaglio; quel suo atteggiarsi a ragazzo perduto portava inevitabilmente lo scienziato a porsi dei dubbi sulla sua efficienza e sulla sua bravura, nonostante la fiducia di Reiji Akaba a porre un freno alle sue domande, perchè non era mai esistita al mondo una persona capace di inculcare, nella mente del ragazzo, un’idea che la sua mente non potesse verificare prima di una decisiva conferma, e al suo sguardo attento quell’apparente teppista era ancora sotto stretta sorveglianza, lo sguardo penetrante a indagare con eccessiva attenzione qualunque informazione potesse essergli utile a farsi un quadro dettagliato ma soprattutto scevro da qualunque condizionamento esterno ne mettesse in dubbio la fiducia che egli voleva concedere incondizionatamente ai suoi colleghi.

“Sai chi ho visto, poco prima di entrare qui?” chiese dopo un po’ lo stesso Shun, sedutosi in maniera composta sulla poltrona poco lontana dalla scrivania, l’angolo prediletto di Akaba in quel momento lasciato incustodito “Quel pavone impettito di Roger”

Le carte furono di colpo gettate sulla scrivania, le mani a stringere convulsamente i bordi oramai spiegazzati. Le iridi magenta scrutavano stupefatti lo sguardo serio di Shun, quasi quel suo indagare ossessivo potesse mettere in discussione un affermazione che comunque, una parte della sua mente, sapeva di dover dare per sicura. Mai Kurosaki era capace di parlare senza la possibilità di dir del vero della sua ragione – uno dei motivi per cui l’uomo aveva sempre potuto contare sul suo appoggio – eppure forte fu il desiderio di vederlo in quel momento ridere, strizzare forte gli occhi e lasciarsi colpire da una risata contagiosa, con le parole burlone che lo deridevano per aver davvero dato peso ad una simile sciocchezza.

“Roger? E chi diavolo sarebbe?”

Crow Hogan era nuovo, all’interno del laboratorio di ricerca, e la sua presenza aveva rappresentato l’eccezione di fronte alla regola silenziosa che impediva ad ogni dipendente di avere contatti fisici con gente al di fuori del maniero di vetro nel quale erano stati ormai rinchiusi. La sua domanda, dunque, apparve a entrambi concretamente giustificata, sebbene lo sguardo torvo che gli rivolsero entrambi sembrava suggerire l’esatto contrario. Reiji nemmeno si prese la briga di concedergli una risposta degna di questo nome: lasciate le carte tanto attese sulla scrivania, ormai quasi illeggibili in quelle incrinature che rendevano l’inchiostro scosceso e slabbrato, si diresse di filato verso la porta, e con un gesto deciso la spalancò per dirigersi verso una nuova meta a lui sconosciuta.

Jean Michel Roger

Crow, che ancora guardava il punto dal quale il suo datore di lavoro aveva appena fatto perdere le tracce di se, quasi come richiamato da un qualche incantesimo ne imponesse la presenza altrove, sussultò alla voce di Shun, ora impegnato a scrivere qualcosa al cellulare che solitamente prendeva in mano per controllare quanto avevano da rettificare gli uomini alle sue strette dipendenze.

“Sai perché non lo conosci? Perché quell’uomo è niente popò di meno che la spalla destra di Leo Akaba... una sorta di viceré che giustifica le numerose assenze del capo

“Capisco... ma perché Reiji era così nero?”

Il giovane sul divano sorrise, quasi divertito dall’ingenuità dimostrata in quel frangente – ingenuità che gli comportò un punto a sfavore nella scala dell’arguzia che il giovane stava mentalmente compilando.

“Perché significa che il signor Leo Akaba potrebbe non voler giocare alle regole stabilite dal figlio... e mettere voce la dove dovrebbe solo stare zitto”

La vibrazione del cellulare pose termine ad un ulteriore commento che avrebbe compromesso ancora di più l’immagine creatasi a poco a poco nella mente riguardante il suo nuovo assistente. Sbloccando lo schermo, apparvero sul display due messaggi, due piccoli testi cifrati che, se scoperti, gli avrebbero comportato il licenziamento in tronco e ogni sfiducia possibile da parte di chiunque avesse posto le proprie speranze in lui; eppure simili rischi non si erano mai posti come freno tra lui e quella che era l’unica amicizia rimastagli in un mondo fatto di sole tenebre e morte, e lui si sentiva pronto ad affrontare qualunque minaccia pure se il mondo avesse deciso di ritorcerglisi contro in una serie di sfortunate rivelazioni.

Sorrise, quando ebbe concluso la sua lettura, e seppe in quel momento che i suoi sotterfugi avrebbero presto portato a nuovi sviluppi e a  nuove sfide.

‘Arriverò non appena possibile – Yuto’

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ~ E nessuno avrebbe mai avuto modo di ferirla... ***


“I

l mio fratellone ti ha fatta arrabbiare?”

Appariva come la più ingenua delle domande, il più inquieto dei timori che il piccolo potesse dimostrarle. Reira sopraggiunse quasi come un cucciolo smarrito, mentre le si protendeva con quella insolita domanda, il viso seminascosto dal peluche per frapporsi a qualunque risposta ne avrebbe violato i sogni covati negli anfratti della sua testolina piena di utopici futuri, e nei suoi occhi non sembrava nemmeno esserci il coraggio sufficiente per osservarla attentamente.

Sentirsi responsabile era il minimo, per la sua coscienza di solito adamantina, perché al suo veloce osservare degli eventi egli ebbe timore che tutto avesse da guardare lui come artefice di nefande disgrazie, e se da un lato vi era ogni giustificazione plausibile ad un volere che mai avrebbe spinto la situazione fino a simili circostanze, dall’altro non poteva che assistere impotente a quel muro di silenzio che la ragazza aveva eretto tra se e il mondo circostante, divenendo scostante sia con la madre Himika che con lui, il primo a valutare che un simile cambiamento era andato a corrispondere proprio a seguito del suo perorare cause invisibili a fronte di un fratello che sempre si era dichiarato ostile nei confronti della sua nuova sorella. Ne aveva sofferto, il piccolo, così come aveva pianto quando la ragazza non lo aveva più cercato per i giorni a seguire, nemmeno per chiedergli qualcosa che potesse dar credito agli innumerevoli rimproveri che il piccolo già infliggeva ad un’impazienza troppo corrosiva per quell’intelligenza che invece avrebbe preteso più calma, più ponderazione e più discernimento delle proprie idee, nella catalogazione di ogni possibile soluzione non implicasse il deteriorarsi di equilibri già resi instabili da coloro che non aveva mai potuto legare con un sentimento che non fosse l’astio e il dispetto reciproco.

D’altro canto, al ragazzo sarebbe andato bene anche il farsi odiare, quel giorno, se al suo agire fosse corrisposto un evento che ne portasse risultati benefici. Non aveva mai avuto modo di conoscere davvero suo padre, il suo peregrinare silenzioso si consolidava nella necessità di evitare quanti potessero divenire un ostacolo per lui e per i suoi progetti, ma a quel lieve bisbiglio che aveva udito giorni prima non era equivalso ad una qualche forma di garanzia che ne acquetasse l’animo irrequieto quanto piuttosto il sibilo del serpente era apparso prepotentemente nei suoi sogni con l’illusione di poterne imitare la minaccia sibillina. Forse era intuito, quell’empatia di cui suo fratello gli parlava con dolce rammarico – forse nel constatare che il dolore del mondo era impossibile da nascondere ai suoi occhi – ma quale che fosse la spiegazione, per Reira non vi erano stati dubbi di sorta che ne fermassero l’istinto di correre laddove sapeva di poter ottenere l’aiuto sperato.

Eppure adesso, con il constatare degli eventi, poteva davvero affermare che le sue scelte si basavano su un’unica base di buona volontà? Potevano davvero consolidarsi senza macchia nell’affermarsi al fianco della ragazza, come buon amico e compagno su cui contare?

L’abbraccio in cui Yuya lo avvolse apparve come la più gentile delle risposte. Il profumo di lei, vivace come il suo spirito prima che si obliasse nel rammarico delle cose non dette, lo avvolse come una morbida coperta, una carezza che si sprigionava nel sorriso che finalmente apparve sulle labbra della ragazza con una piccola lacrima a rovinarne l’incanto del viso.

“Sta tranquillo, Reira. Non è successo nulla, non devi preoccuparti”

Era forse una vile menzogna, e la cura con la quale soppesò quelle lievi e semplici parole sembrò quasi obbligare il ragazzino a crederci, a darle fiducia anche in un contesto dove essa si doveva rendere più labile e fragile. Ma Yuya non avrebbe mai avuto il cuore di fargli un simile sgarbo, a quel tenero bimbo pieno di buone volontà, se l’esigenza di tenerlo lontano da simili intrighi non l’avesse obbligata a prendere una simile decisione.

Capiva perfettamente il motivo del suo spaventarsi di fronte a lei, quel suo porsi come se qualcosa non andasse. Evitarlo non aveva mai avuto lo scopo di ferirlo – il farlo avrebbe davvero denotato ogni sua privazione di una qualunque coscienza umana – né quello di ingannarlo, rendendo vani quei lunghi pomeriggi e quelle notti dal freddo pungente passati insieme tra chiacchiere leggere e risate contagiose.

Era stato il suo cuore a chiederle tregua, un piccolo attimo di respiro dal vortice degli eventi che sembrava volerle privare anche della libertà del suo raziocinio. Reiji Akaba era arrivato da lei con l’assurda pretesa di cambiare ogni schematismo, ogni maschera da lei intravista all’interno di quella casa, e aveva tolto da sé quei panni narcisistici che tanto glielo avevano reso inviso per palesarsi a lei come un cavaliera dall’abito candido pronto a fare fuoco e fiamme per liberare la sua fanciulla dalle mire di potere che suo padre vantava nei suoi confronti. Parlava di fiducia, di tempo... le era apparsa come vile arroganza, quella di pretendere da lei quanto suo padre aveva appena distrutto, e se la mente non fosse stata sconvolta dal dolore sordo che ancora non era riuscita a placare, avrebbe davvero dato sfogo a quella parte di se che pretendeva ragione e silenzio lì dove il caos era stato lasciato libero di scorrere appieno.

Ma la verità non si fermava al semplice frammentarsi di ogni sua opinione nei confronti degli abitanti di quella casa. Non era stato questo a impedirle di aprirsi nuovamente verso coloro che tanto gentili si erano mostrati per averle mostrato una via di salvezze nel mondo di oscurantismo nel quale Leo Akaba – scomparso dal giorno delle rivelazioni – aveva voluto gettarla.

“Autodistruggerti non è un opzione che ti concedo”

Il solo rimembrare di quel tono accusatorio rivoltole con aggressività la spinse a stringere ancora di più a se quel frugoletto che ancora ignorava l’origine del suo turbamento.

Lei voleva davvero lasciarsi andare? Aveva paura, la ragazza, a rispondere a quella domanda. Farlo significava affondare in sabbie fragili contenenti i suoi peggiori ricordi, tutte bandiere lasciate libere di dichiarare quanto ormai inutile e superfluo fosse il suo ancorarsi alla vita di tutti i giorni.

O forse era lei a rendersi difficile un’ammissione che invece chiedeva semplicemente rinunciare a quell’orgoglio così vanesio nell’imporsi sui suoi pensieri, svelandone la patina di regalità cavalleresca nella quale aveva rilegato i suoi discorsi e i suoi pensieri passati, vedendosi come l’incarnazione di una Giovanna D’Arco giunta presso il popolo perduto per ricondurlo lontano dalle grinfie della peste. Sì, lei aveva davvero voluto cedere il passo alla morte, lasciarsi cullare dalle sue gelide braccia e lasciarsi trascinare nell’Ade senza porre alcuna resistenza ad uno spirito ormai inevitabilmente piagato. Non era il genere umano, ciò che ella voleva salvare, ma solo se stessa e quel cuore ormai divenuto insofferente a quella sofferenza che ne rendeva i battiti attutiti e allo stesso tempo odiosi. Forse nemmeno l’ingerenza di Leo Akaba aveva qualche significato recondito, nel suo proseguire in un sentiero ramificatosi al fine di nasconderle il cielo dei comuni mortali, forse il tradimenti si era andato a palesarsi più come una scusa per giustificare le sue inesorabili decisioni che come il colpo di accetta finale che aveva prevalso sulla sua dignità di persona. Il suo arrendersi poteva benissimo collegarsi con quel nefasto incidente, con quella orribile macchina nera venuta a portarsi via colui che amava di più al mondo e a distruggere tutto il normale ordine delle cose che nella vita si era faticosamente costruita.

E la cosa che davvero la sconvolgeva era che, di tutto questo, nulla era riuscita a nascondere a Reiji Akaba, l’unico a cui avrebbe dovuto tacere ogni singolo sussulto della sua anima, ogni singola debolezza gli permettesse di schernirla.

‘Ma sono stata davvero schernita da lui?’

Quel suo dichiararsi come suo salvatore, oltre che vanagloria, parlava anche di giustizia, di amore verso ideali che nemmeno il suo egocentrismo e il suo sentimento di rivalsa avrebbero potuto soffocare.

“Non sarò il mostro che libererà la tua coscienza da tutto ciò che non vuoi vedere”

E cosa, ella, non voleva vedere? La morte di migliaia di innocenti, ovviamente. Ma, forse – e questo fu per il suo ego una dura ammissione – anche la via d’uscita da ogni responsabilità le ponesse dinanzi la vita. Le sue spalle non sarebbero più state gravate dal peso di quegli orridi ricordi realizzati sui cadaveri di poveri e disgraziati che nulla avevano potuto fare per opporsi al loro spegnersi inesorabile, i suoi sogni non sarebbero più stati costellati dagli incubi di quel dì in cui tutto per lei era cambiato, non avrebbe più sentito il senso della solitudine cingerle il collo con forza, spingendola a cercare conforto anche nelle braccia di un bambino che altro non avrebbe dovuto avere se non l’affetto sincero di chi davvero lo amava e lo rispettava. Una fuga da tutto questo. E Reiji Akaba glielo aveva impedito, strattonandole la mano per fermare il suo avanzare sulla strada che il padre aveva disegnato per lei e per il futuro della generazione umana.

Che razza di odio era, quello che il ragazzo provava per lei? Quale nemico agiva in questo modo nei confronti di una vittima già da considerarsi defunta?

 

“P

erché volete perdere tempo per una risposta che forse non riuscirete mai ad avere?”

Jean Michel Roger non era uno scienziato, ma il suo dilettarsi in simili ambiti doveva averlo convinto, col tempo, che le sue parole avrebbero significato legge anche lì dove l’ignoranza non poteva che dominare sovrana. Il disporre di illimitate fonti di denaro lo aveva spinto a ritenersi come colui che deteneva un potere al pari delle divinità, e l’aberrante verità era che al mondo vi era purtroppo persone che in cuor loro la pensavano così.

Cosa fosse passato per la mente di suo padre, quando aveva seriamente chiesto l’aiuto di una simile volpe assassina, ancora sfuggiva allo sguardo indagatore di Reiji Akaba, e stare lì seduto di fronte a lui, in quella specie di sala conferenze adibita proprio allo scopo di accogliere coloro che erano sgraditi all’interno del proprio ufficio, non era altro se non un’inutile perdita di tempo e di meningi che si prodigavano a lavorare in un disastroso gioco di risposte taglienti, che nulla avrebbe comportato di buono se non lo sfibrarsi di una pazienza che aveva già esaurito le sue scorte negli ultimi tempi di ricerche andate a vuoto. E questo, probabilmente, non sfuggiva agli algidi occhi di ghiaccio di Roger, che forse aveva atteso il momento opportuno di palesarsi non per rivelazioni giunte tardivamente sul posto, ma per poter cogliere l’opportunità di afferrare il proprio nemico quando le sue mura sarebbero risultate più crepate.

‘Se davvero pensi di spuntarla con me, sei più illuso di quanto si possa immaginare’

“Trovare una cura per la peste a me non sembra affatto una perdita di tempo. O crede forse che i suoi fondi stiano andando verso un baratro che non le permetterà di riacquisire quanto investito?”

Jean Michel Roger sorrise, a quella che in altri contesti e in un clima meno teso sarebbe apparsa quasi come una battuta divertente. Non che fosse nelle intenzioni di Reiji farlo divertire, ma l’attacco frontale non aveva mai portato risultati soddisfacenti alla sua politica, il tempo aveva insegnato quanto fosse meglio mostrarsi rilassati, quasi neutri di fronte alle minacce, piuttosto che far percepire l’odore della paura lì dove la si voleva cogliere.

“Non è di soldi che parlo, e tu lo sai bene. Parlo di quella ragazzina che avete preso e che sembra avere in se la cura per la peste. Come vede, io vado dritto al sodo, signor Akaba. Gradirei che lo facesse anche lei”

L’aspetto nordico dell’uomo, accentuato dall’insano pallore che deturpava l’epidermide scarsamente esposta dal vestito violetto, avrebbe dovuto risultare temibile con quel tono di voce volutamente accusatorio, accentuato dal suo rigido alzarsi per ingrandire una statura che solitamente gli concedeva di dominare sempre di fronte a tutti i suoi avversari, dandogli il benefico vantaggio di osservarli dall’alto. Era un fattore su cui l’uomo avrebbe sicuramente contato, e su cui stava sicuramente facendo affidamento nello scrutarlo attraverso le iridi pallide con arroganza, quasi come se la sua vittoria si rappresentasse da quel semplice atto di verità che lui aveva posto sul tavolo.

“Ma è quello che sto facendo, o sbaglio? Dica piuttosto, visto che vuole essere diretto, perché è venuto qui. O devo dedurre che la sua intelligenza la porta davvero a credere che quella ragazza, da sola, possa curare tutti quanti?”

“Se preso in dosi misurate, il sangue...”

“Lei dovrebbe leggersi Dracula, signor Roger” e nello sguardo di Reiji, ancora compitamente seduto sulla sua sedia di plastica, apparve quella che era la chiara dichiarazione della sua sfida “Se lo avesse fatto, saprebbe del destino che attende la signorina Sakaki al sottoporsi di un simile trattamento”

“Si tratta di una vita al confronto di...”

“Quante altre? Cento? Mille?”

Quella conversazione era inutile. I suoi pensieri lo andavano riaffermando per l’ennesima volta, per l’ennesima sfida lanciatagli dal padre. Un uomo che adesso sentiva il dovere di odiare, un uomo per il quale il disgusto non era un sentimento sufficientemente corretto per descriverlo nella sua aberrante ombra che vestiva, un uomo che adesso non aveva più alcun desiderio di riconoscere come suo genitore.

“Io mi dovrei abbassare al livello di un assassino per cosa, signor Roger? Per una cura a metà? Per una soluzione che verrà incontro solo ad una categoria selezionata di persone?”

E non aveva nemmeno bisogno di chiederlo, Reiji, chi dovevano essere i fortunati a godere di quel miracoloso farmaco. Perché, se nel padre non vi era alcun desiderio che non fosse la vendetta su ciò che lo aveva privato del suo bene più prezioso, l’unica azione che portava Roger a continuare per la sua strada era la sopravvivenza, e una cura garantita che ne confermasse il giusto – per lui – stato di salute.

“Una boccetta di salvezza per i più magnanimi... nella donazione di cospicui fondi, suppongo”

“Non faccia quell’espressione, signor Akaba” gli rispose di rimando Roger, il viso ancora a reggere la maschera di fredda compostezza che aveva indosso dall’inizio di quella conversazione “Il mondo ha sempre girato in questa direzione, lei non può certo cambiare le regole solo perché ha degli ideali più nobili”

“Sa cos’ho io, oltre agli ideali, signor Roger?” il suo alzarsi non era solo un modo per concludere definitivamente la conversazione - oramai arrivata a livelli di sopportazione inaccettabili – ma anche un modo per invitare Kurosaki e Hogan, affacciati alle porte trasparenti della stanza, a farsi avanti e a non temere il nuovo ospite.

“La buona volontà?” gli chiese di rimando l’uomo, calcando ironicamente su questioni un tempo considerate nobili.

“No. La cura che tanto brama e che non avrà fin quando non sarò io a dare il benestare”

 

“N

on volevamo disturbarvi, Reiji. Eravamo solo venuti a comunicarti l’esito negativo degli esami appena fatti”

Crow sembrava davvero abbattuto, mentre consegnava al suo capo nuovi fascicoli che il giovane avrebbe dovuto aggiungere a quelli ancora da visionare sulla sua cattedra. Forse era troppo giovane per conoscere appieno cosa accadeva lì dentro, forse non sapeva esattamente quanto ampio si estendesse l’odio che il ragazzo covava per quella viscida serpe vestita con eleganza; qualunque fosse la motivazione, fu solo per rispetto di se e del suo malumore che non gli scoppiò a ridere in faccia.

“Chiunque mi liberi di quella volpe non disturba, Crow, tienilo a mente. E non credere che questi esami siano inutili. Il fatto che siano negativi non significa che sono un fallimento... semplicemente adesso sappiamo dove non cercare. Hai idea di quante altre piste ci sono da seguire?”

E l’uomo sorrise, al suo collaboratore, questa volta cercando di infondere in quella smorfia di solito ironica tutto l’incoraggiamento che egli riuscì a scovare in se. Almeno per la sua squadra, almeno per coloro a cui affidava tempo e vita, egli aveva il sacrosanto diritto di semplificare loro le cose.

“Adesso torniamo a lavoro, devo finire di visionare quello che Shun mi ha dato, e... giusto!”

E i suoi piedi si fermarono di colpo, proprio a fianco del giovane il cui nome aveva appena acceso nella sua mente un nuovo pensiero.

“Shun, prima che ti metta a lavoro, ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Esci dal laboratorio, va a casa mia e assicurati che Sakaki stia bene”

“Certo, lo farò... ma perché?”
“Perché quella volpe sa qualcosa, e ho paura di quello che possa accadere se la sua mente troppo vuota farà uscir fuori informazioni che nessuno deve assolutamente sapere. Conto su di te”

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ~ Coloro che provavano diletto a restituir stupore ***


“Q

uale parte di ‘Non fare nulla finché non te lo dico io’ hai frainteso... Roger?”

Da un becchino che aveva usato la più grande catastrofe abbattutasi sul pianeta come mezzo per guadagnare soldi ad alambicchi non ci si poteva aspettare altro se non un’empia simpatia che diveniva insubordinazione. Collaborazione diveniva un termine eccessivamente corrosivo, in simili frangenti, e mai come all’avvenire di simili episodi Leo Akaba aveva da maledire un’umanità troppo debole – perché davvero avrebbe accettato qualsiasi altro aiuto, se l’alternativa era quel lupo travestito da agnello.

Il giorno che vedeva il loro incontro era iniziato nei più foschi auspici. La prima – e da quel momento in poi l’unica – morte che aveva colpito il casato degli Akaba aveva costretto il povero Leo a chiedere consiglio all’unico essere vivente disposto a lasciare la propria dimora per disporre esequie onorevoli nei confronti di quella figlia tanto amata e oramai definitivamente scomparsa, l’unico che non aveva mostrato alcun problema a lasciare il suo luogo natio per avventurarsi in zone dove la peste aveva mostrato il suo ghigno funesto, minacciando eventuali nuovi morti che accordassero la loro sofferenza alla prima che si era venuta a creare. Era, quello, l’inizio dell’infestazione totale, i primi momenti che avevano visto soltanto il panico e una disperazione accecante in grado di paralizzare l’intera popolazione in attesa. In attesa di essere giustiziata da un castigo divino che, si presupponeva a quei tempi, si era abbattuto sui mortali in seguito al loro continuo agire a dispetto di ogni norma etica contrastante quella parità di diritti trascritta su volumi dalla millenaria storia e dalla veridicità ancora messa al bando. Leo non era ancora quel genio da cui dipendeva l’intero genere umano – erroneamente – e di tutto quel trambusto venutosi a creare, egli soltanto pensava al semplice piacere quotidiano che la vita gli offriva con una famiglia ancora sana e in salute.

Questo, ovviamente, fino alla morte di Ray. Fino alla scomparsa di quella figlia che aveva rappresentato tutto, che era divenuto il perno della sua vita e che – non si vergognava ad ammetterlo – l’aveva posta su un piedistallo capace di opacizzare tutti coloro che venivano dietro di lei. Predilezione, amore incondizionato, forse cieco senso del dovere nel nome di padre che portava... a lui non importava. Non cercava ragioni per spiegare quel suo profondo affetto e non volle nulla per etichettare su un livello superficiale - quale era la parola - quell’acuto dolore che annebbiava i sensi e lacerava il cuore.

“La vita è fragilità sul ciglio di un burrone. Non ho mai compreso per quale motivo, ma gli umani si sono sempre ostinati a rifiutare un simile concetto... forse perché, al contrario mio, non sono mai stati così a contatto con la morte”

Il disinteresse per ogni umana emozione aveva soffocato persino qualsiasi sfumatura capace di definire i contorni della figura di Jean Michel Roger, tramutandolo in una cassa ambulante il cui unico intento era quello di riempirsi di denaro sonante. La pecunia era diventata l’unica ragione di vita che lo muovesse, sebbene - proprio da quel contatto con la morte di cui parlava - egli avrebbe dovuto apprendere quanto inutile fossero quei conti correnti di fronte a divinità esattrici che con nulla potevano essere pagate se non con l’anima delle persone.

Leo l’aveva capito, ma a quei tempi non vi aveva visto, in quei sintomi di avidità, una motivazione sufficiente per soffocare il grido di aiuto che le sue labbra non riuscivano a soffocare. La vendetta non si otteneva con solo odio, eppure l’odio era l’unico mezzo che l’uomo poteva affermare di avere. E da quell’odio era poi scaturito un patto dalle fattezze faustiane, nel quale il probabile era divenuto fattibile solo nel mezzo concreto che Roger aveva pagato profumatamente. Finanziamenti, mecenatismi... tutti termini idonei a descrivere quello che era accaduto tra i due, eppure era quasi irritante che – sciocchi di dubbia sanità mentale – vedessero in loro una qualche forma di amicizia puramente estranea ai loro estratti conto.

“Però ero davvero curioso, non sono riuscito a trattenermi”

 L’essenza stessa del concetto di amicizia era andato bellamente alle ortiche proprio in quell’istante, con i suddetti compari che lustravano di ironia e disprezzo ogni frase usata per condire i loro discorsi. Serietà era già di per se un concetto astratto, ma con loro due acquisiva una tale forma laconica da meritare nuovi studi glottologici.

“E, giusto per curiosità, cosa pensavi di ottenere, con quell’incursione a sorpresa?” A braccia conserte, lo sguardo che Leo rivolgeva a chi gli stava dinanzi assomigliava fin troppo ad un gelido barlume di acuto disprezzo, un sentimento di astio talmente evoluto da non essere nemmeno meritevole di una maschera che lo abbellisse.

“Beh, volevo stuzzicarlo un po’, metterlo sotto pressione... e non è detto che non ci sia riuscito. Tu, d’altronde, cosa pensi di ottenere standotene chiuso qui tutto il santo giorno?”

Il laboratorio di Leo Akaba aveva assunto, nel corso degli anni, un aspetto disdicevole che tanto degenerava quanto più lui si ostinava a trattare simile asettica scientificità in una dimora nel quale sostare per un tempo indeterminato. Isolarsi non era mai apparsa come una vera soluzione, una definitiva sentenza in grado di trascinare nel baratro tutto quello che aveva costruito per la sua famiglia e per la propria felicità, e le sue scarne apparizioni avevano sempre corroborato una tesi malridotta che parlava di un padre i cui legami non dovevano in alcun modo essere separati per sempre. Ma le cose, con la grave rivelazione fatta al proprio erede, erano cambiate; non si chiamava codardia – Leo Akaba amava troppo le sfide per rifuggirle dietro un muro di silenzio – e nemmeno momentanea apnea di fuga. Era tutto un calcolo, la sua vita, una complessa equazione che – a causa dei recenti avvenimenti – presentava una variante del quale tener conto. Abbastanza da scombinare tutti i suoi piani.

“Cerca di capirmi, collega... ho bisogno di tempo, per finire al meglio tutti i preparativi del viaggio”

Quella che ormai era divenuta la sua cucina privata non aveva con se alcun artificio, se non un paio di sedie scoordinate e un tavolo traballante. Credenze e ripostigli erano stati ricavati da vecchi armadi ormai inutilizzati e che un tempo ingombravano i locali adibiti alla detenzione di medicinali - e il loro scarso livello estetico rifletteva la grande incuria nella quale l’uomo aveva deciso di vivere. Eppure, in mezzo a quel deserto di bellezza, l’uomo agiva quasi come se avesse accolto il suo ospite in una reggia di sublime eleganza, e simile – sciocca – presentazione la si intuiva nella cura con cui sostava dinanzi a Roger, seduto ora elegantemente su una delle sedie di plastica che lui stesso aveva requisito da uno studio oramai inutilizzato. Forse era eccesso dell’abitudine nelle restrizione che lui stesso si era imposto nel corso degli anni, pensò Roger, ma l’uomo era più propenso a credere che, dalla morte della figlia, quel soggetto apparentemente freddo come il ghiaccio avesse in realtà talmente subito la dipartita di lei da divenire insensibile verso qualsiasi concetto materiale. La bellezza era senza dubbio un bene superfluo, del quale l’uomo non ne avrebbe più apprezzato il piacere.

“Quindi alla fine hai deciso di andarci?” chiese Roger, un pizzico di curiosità ad aleggiare nelle iridi cristalline “Pensavo non ti saresti mosso prima di...”

“Oramai è inutile continuare questa messinscena” lo interruppe bruscamente lui, con un colpo di tosse a fermare ogni altra parola inutile “La mia ricerca aveva sempre avuto lo scopo di trovare un responsabile, un colpevole... una qualsiasi causa da debellare. Ora che l’ho trovata, che senso ha che me ne resti chiuso qui? L’hai detto tu stesso, è inutile”

“Sì, è inutile... ma credo di aver perduto un passaggio. Che significa per te colpevole? Pensi che la peste sia colpa di un qualcuno?”
“Perché, non dovrebbe esserlo?” Il tono sarcastico con il quale rispose infastidì parecchio Roger, che la figura del fesso davvero non la voleva fare, nemmeno lì dove – come aveva osservato prima innanzi Reiji – la sua ignoranza dominava sovrana.

“Non è che le malattie siano origine dell’uomo, sai?” proruppe dunque, con una mano a sollevare le sue questioni quasi fossero una sostanza solida da presentargli come prova “Parliamo della vera peste, ad esempio. Lo sanno tutti che quella malattia è nata dal batterio ...

“Tu parli della vera Peste, della malattia che decimò la popolazione europea nel medioevo e oltre. Una malattia che al giorno d’oggi non esiste più, ed una malattia che ha lavorato tanto alacremente solo perché gli esseri umani erano ancora troppo inesperti per concepire cosa fosse una vera difesa”

“Ti rendi conto, tu, che stai parlando quasi come se ipotizzassi una guerra batteriologica?” esclamò quindi l’altro, seccato dai toni sibillini che promettevano conclusioni senza mai veramente giungervi in porto “Se ci fosse qualcuno, dietro tutto questo sfacelo, il suo nome sarebbe già nella lista nera degli esseri umani, al primo posto!”

“Il responsabile, amico mio, c’è... solo che è stato furbo a non farsi trovare. Beh, non lo è stato abbastanza, dato che l’ho scoperto” il ghignò di Leo si estese allo sguardo sbalordito del suo interlocutore, occhi inespressivi che brillavano di una vittoria raggiungibile solo col mezzo della parola “E ora che l’ho scoperto... voglio davvero finire questa partita. E salvare l’umanità tutta dalla sua estinzione”

“Quindi quello che hai dato a tuo figlio cos’è? Uno specchietto per le allodole?” chiese Roger, finalmente conscio che la serietà aveva fatto la sua prima reale comparsa nel mezzo dei loro discorsi.

“Esattamente” E vi era molta soddisfazione, in quella singola parola “Lasciamolo a giocare al piccolo chimico, mentre ci riprendiamo il nostro diritto alla vita”

 

***

 

‘Come ci sono finita, io, in questa situazione?’

Era proprio lei a domandarselo, lei che in quel momento viveva quella medesima scena che tanto arduamente tentava di descrivere. Il passato ha mille difetti, il suo modo di incasellarsi al presente diviene, alle volte, talmente nocivo da risultare disturbante, se non addirittura letale, eppure aveva anche il pregio di dare un significato alle azioni che di volta in volta venivano ad accatastarsi alla storia di tutti i giorni. Per questo, per quel passato segnato dal rancore, adesso Yuya non riusciva a spiegarsi per quale assurdo ed inspiegabile motivo adesso si trovava lì, dinanzi alla scrivania di Reiji, con in mano un plico di fogli che attendevano solo il momento giusto per essere consegnati.

“Hai già completato le analisi che ti avevo richiesto? Sei stata veloce. Non per nulla sei una de Les Enfant Terrible...”

Il cameratismo di cui era stata privata ad un tempo in cui lo riteneva d’obbligo ritornava proprio quando appariva più importuno e ingiustificato. Una dimenticanza che aveva quasi del grottesco, e che Yuya non sapeva interpretare se non come una nuova messinscena, una sorta di proseguo di quanto avvenuto nei suoi primi giorni in quella dimora, oppure un nuovo schema di tortura che Reiji stava sperimentando appositamente su di lei.

L’evoluzione era stata talmente netta da risultare drastica, e vedeva il suo inizio nella figura di Shun Kurosaki e nelle parole da lui pronunciate.

“Il capo vuole parlarti. Puoi seguirmi, per favore?”

Il tempo di salutare Reira e si era ritrovata fuori - il dubbio insinuatosi nella sua mente su un possibile fraintendimento di quanto detto nei giorni precedenti – a seguire corridoi che aveva percorso un’unica volta in spiacevoli eventi. Eppure in quel momento non aveva compreso quanto davvero innovativa si rivelasse quella svolta, troppo radicata nelle sue certezze per smuoversi in qualunque teoria ne andasse ad inalberare l’ombra. Convocarla, dal suo personale punto di vista, non aveva altro valore se non al fine della ricerca – che adesso la vedeva come protagonista in quanto benefattrice di una cura la cui natura rimaneva tuttavia un mistero – e nel suo spiraglio di eventi futuri compariva solo un composto contegno in cui ella, cercando di apparire indifferente a chi le stava dinanzi, avrebbe soltanto risposto a brevi domande di circostanza nel quale, forse, si tentava di intuire utili indizi che avrebbero diretto il team verso la giusta direzione.

E invece tutto quello che aveva avuto, al suo ingresso nel piccolo studio del ragazzo, era stato solo un camice e una brutale direttiva.

“Segui Shun. Ti dirà lui cosa devi fare.”

Fosse stata una battuta, la ragazza sarebbe anche scoppiata a ridere, forse perfino in modo indecoroso – d’altronde, lei stessa, agli inizi, aveva pensato a come essere utile a quella cosa, per il semplice motivo che tutta la sua educazione partiva dal compromesso che essa si fondava sulla scienza e sulle promesse che essa concedeva – ma tanto apparvero seri quando lei si ritrovò con una sua postazione, dei suoi orari di lavoro – tra l’altro eccessivamente lunghi e privi di qualunque attimo di tregua – e dei compiti la cui risoluzione era suo espresso compito svolgere.

“Capo, come mai i miei lavori non sono diminuiti, sebbene lei abbia assunto una nuova assistente?”
Caotico come il vento in burrasca ed esagitato come ormai lei aveva imparato a riconoscerlo, Crow Hogan aveva fatto il suo ingresso con il camice spiegazzato pieno di carte e le mani che – tenacemente – tentavano di tener chiusa una cartelletta il cui contenuto minacciava di trasbordare all’esterno – cosa che mai l’uomo seduto dietro la scrivania avrebbe potuto perdonare, data l’inclinazione al pulito e all’ordine che dimostrava tenendo quel piccolo spazio angusto, chiamato pomposamente ufficio, in un nitore capace di suscitare l’invidia delle casalinghe più ossessive.

“Perché non sono i tuoi compiti a diminuire, ma il lavoro generale ad aumentare” presa dalle mani della ragazza i documenti attesi, lanciò un occhiata di sbieco a colui che sembrava essere venuto unicamente per dare aria ai denti “Piuttosto, come vanno i pazienti 1B e 2B che ti ho chiesto di osservare?”

“Vanno esattamente come spiegano queste carte!” rispose il rosso, lasciando sulla scrivania il contenitore di plastica ormai dilatato oltre il ragguardevole, producendo tra l’altro un rumore sordo che nulla prometteva se non altre estenuanti letture.

“D’accordo... Yuya, analizza i documenti di Crow, per favore. Io ho da finire questi”

Se anche la ragazza avesse avuto un briciolo di prontezze di riflessi capaci di farla controbattere, il tanto declamato capo lasciò il suo posto, gli occhi a scrutare attentamente le parole, e l’intenzione di abbandonare la stanza che si intuiva dai suoi movimenti.

“A-aspetta, capo... deve farlo da sola? Nemmeno io sono riuscito a leggerli tutti, e sono quello che li ha stampati!”
“Perché tu sei distratto, caro Crow, per questo mi fido di più a lasciarli nelle sue mani” la mano appoggiata sul pomello avrebbe dovuto segnare la fine di una discussione, ma prima che essa cingesse il metallo con più forza una nuova voce smorzò le sue intenzioni.

“Nelle mie mani? Mi era parso di capire che tu non avessi alcuna fiducia nelle mie capacità... non rischi troppo ad affidarti a colei che è troppo sentimentale per raggiungere risultati concreti?”
Se avesse dovuto definire un vero movente capace di spiegare la natura all’origine delle sue parole, la stessa ragazza avrebbe avuto serie difficoltà a trovare le giuste risposte; l’unica cosa che avrebbe saputo dire era che l’istinto si costruiva quale forza incapace di essere spiegata, eppur tuttavia anche impossibile da contraddire, e in quanto tale era la stessa Yuya a trovarsi sguarnita e senza adeguate precauzioni che la difendessero da se stessa. O forse, un po’ lo doveva ammettere, era quel suo perenne metterla in agitazione che, in un certo senso, aveva quasi invitato la ragazza a sfidarlo con domande dirette e che – in altri casi, casi in cui il suo nemico era qualcun altro – avrebbero messo in difficoltà ogni arguto interlocutore.

Non Akaba Reiji.

“Un uomo intelligente riconosce quando sbaglia le sue conclusioni, e io ammetto le mie colpe. Se davvero il tuo lavoro fosse stato errato, non avrei avuto alcuno scrupolo ad allontanarti nuovamente da questo posto... d’altro canto, credo che il mio rischio maggiore sia quando riesco a farti arrabbiare. In quel caso, è bene che ti stia alla larga

Nel dir questo, nell’enunciare quelle parole cariche di ironia – sì, ironia, ma di una forma gentile che rallegrava gli astanti – l’iride magenta di lui non staccò neppure per un istante il suo contatto con quelle carmini di lei, rossa per quel precedente schiaffo che ancora alleggiava su un rapporto dallo sbocciare incerto. E – sebbene alla ragazza apparve assurdo – egli le sorrise, un semplice piegarsi delle labbra che però ebbe il potere di scaldarle il cuore.

Mai Yuya Sakaki avrebbe pensato che il sorriso di Reiji Akaba potesse essere così affascinante.

 

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ~ E, tra corolle di luce soffusa, entrambi si conobbero chiamandosi per nome ***


A

nnaspava nell’incertezza di un corpo in procinto di crollare, eppure non ebbe alcun modo di contraddire quel sorriso spontaneo che nacque sulle sue labbra quando, al crollare sgraziato sul divanetto di uno studio adesso fin troppo frequentato, pervenne nelle sue mani la convinzione di poter davvero affermarsi come utile - ad una causa che non fosse l’eterno poltrire in coltri che straziavano la sua vitalità impigrendone gli accesi desideri di libertà. Un simile impegno si era miseramente saldato con il rarefarsi dell’immagine di un piccolo - a lei prezioso  - per la bontà che irradiava gli angoli bui del suo cuore, una luce che adesso colmava il dolore di rosso nei frangenti in cui quel povero Reira, ormai solo con la sola compagnia della madre, tentava i suoi timidi approcci per cercare anche le scuse meno plausibili, pur di scrutare ancora una volta il suo sguardo ora felice – e Himika stessa veniva più volte dabbasso, con la scusa di non aver abbastanza coraggio per lasciare al piccolo la libertà di muovere i suoi passi in un mondo tanto insicuro come in quel laboratorio, dove la vita umana era una merce pregiata purtroppo ancora incapace di avere una valuta decifrabile. Certo, il dover ammettere una simile contentezza anche su siffatto torpore amicale, tratteggiava di lei un’aura tetra che avrebbe volentieri cancellato stropicciando il cucciolo in coccole degne della più affettuosa delle sorelle – e perché lei aveva davvero iniziato ad amalgamarsi ad un ruolo che altri nemmeno avrebbero ascritto sul suo copione – ma era un lato di lei che le era stato inculcato fin dall’infanzia, e che in una tortura dalle basi psicologiche imponeva un suo impegno attivo lì dove la matematica, la chimica e la fisica la facevano da padrone. Era ormai una radice che comandava alla sua mente la prevaricazione del cuore, e che imponeva una gioia artificiale allorquando il divario dalla verità sembrava colmarsi con nuovo lavoro e imposizioni a cui altri avrebbero volentieri sbuffato, gridando pietà per orari più flessibili ed umani. A detta di molti – di tutti coloro, cioè, che sostavano all’esterno delle quattro mura candide adibite ad alcova di Reiji, che mai avrebbero potuto vantare un’interazione con lui maggiore di quella che lui stesso riservava ai muri, e che vivevano in una terra di mezzo che li chiamava al dovere pur non sapendo nemmeno quale verità aliena conservasse il loro capo nell’essere onnipresente, onnisciente e onnisapiente  - simile dedizione alla causa era solo il patetico tentativo di attrarre a se un’attenzione non dovuta e non desiderate, una moda spocchiosa che i privilegiati riservavano allo sguardo dell’invidioso, il cui compito era solo quello di osservare in silenzio ciò che probabilmente non avrebbero mai avuto il potere di raggiungere. A Yuya non interessava, né aveva timore delle chiacchiere infondate che giravano incontrollate intorno alla sua persona e lontane dalle sue orecchie; aggirava con grazia le loro parole come fossero ostacoli ingombranti e quindi prevedibili nelle loro traiettorie, e di quelle presenze evitava lo sguardo, per il semplice motivo che ogni grammo della sua pazienza e della sua forza aveva giurato eterna fedeltà ad un solo obiettivo, quel semplice eppur invalicabile obiettivo che supplicava ad ogni neurone  lo sforzo supremo di una soluzione che connettesse i vari insuccessi ottenuti. Che le risposte fossero ancora al di fuori dalla loro portata era un fatto di innegabile dolore, e questa era un’ammissione che costava dolorosamente al suo orgoglio, ma d’altro canto erano innegabili i passi conseguiti nella direzione corretta e nelle scelte alternative che erano state scartate, e per quegli innegabili traguardi ella quasi si commuoveva al pensiero di aver affiancato tutto il lavoro e di esservi stata presente.

“Sei ancora qui?”

La voce di Reiji Akaba ebbe il dono di strapparla all’atipico torpore che, invasole le membra, aveva iniziato a strisciare subdolo anche nei suoi pensieri, sommergendola con sottile maestria al fine di soffocarla senza nemmeno renderla consapevole. Le iridi vermiglie furono dunque esposte nuovamente al mondo, senza un grammo di delicatezza a segnare il passo dal nero delle palpebre alla luce accecante che il neon della stanza aveva da offrire. Al centro di quel passaggio drastico, la figura di colui che – con diverse reticenze – doveva riconoscere come suo capo si stagliava con rigidità, quasi fosse una presenza scomposta il cui divenire non era stato adeguatamente ammesso.

Erano passate diversi giorni, dall’inizio di quella strana avventura che l’aveva trascinata sull’attenti, senza la dovuta preparazione mentale, alla mole di lavoro ricadutale brutalmente tra le braccia, ma la corretta percezione di un tempo regolare aveva lasciato già da tempo i corretti binari mentali per trascinarsi in un tunnel di elucubrazioni in cui il semplice contrapporsi ad un secondo, trascorso tra i mille altri collocati sistematicamente nell’infinito scorrere, significava il rimorso sempiterno per aver davvero permesso a quel suddetto secondo di vivere con la consapevolezza di non aver rappresentato con l’adeguata correttezza l’impegno profusosi e presosi nella serietà che i suoi sedici anni non avrebbero dovuto conoscere. Yuya si era vista quindi proiettata nel giorno come un proiettile in corsa, il cui impatto avveniva solo al tramontare della luna, quando alla mente nel suo incessante lavorio seguiva il supplicare contorto del suo fisico prostrato, che attivava meccanismi di difesa per garantirle almeno le pochissime ore di sonno necessarie a non crollare definitivamente senza l’accortezza a metterla in guardia sul pericolo da lei stessa corso nel condurre una vita così frenetica.

Tutto questo, lei, lo aveva accettato quasi un obbligo imposto da altri, eppure era anche vero che nessuno avrebbe davvero desiderato la sua totale liofilizzazione in nome di una risposta che sarebbe anche potuta non arrivare, e tra questi spiccava – anche se il mondo non ci avrebbe creduto nemmeno se l’avvento di un oracolo senziente avesse davvero avuto la capacità di farlo – proprio il nome di colui che un tempo, più che vederla consumarsi nel lento sciorinarsi delle sue forze, avrebbe volentieri reso partecipe se stesso di una cancellazione definitiva – di sicuro non letale, perché era comunque di Reiji Akaba che si stava parlando  - in grado di depurare la villa e lo studio della sua presenza.

Lo stesso individuo che adesso le si era avvicinato con fare solerte, le mani a stringere la ceramica voluminosa dal cui interno proveniva un caldo aroma di cioccolato.

La parola amici era senza alcun dubbio fuoriposto se, nella frase in cui la si desiderava utilizzare, i soggetti a comparire erano proprio loro due, ma quell’atavica faida che li aveva visti contrapposti e decisi a battersi per il predominio di lui e il diritto all’esistere di lei aveva ormai concluso la sua epopea con la resa congiunta delle armi e il tacito accordo di lasciar correre una lunga e proficua tregua, al fine di congiungere le forze per un fine superiore. Erano... non avrebbe mai saputo individuare, Yuya, il termine corretto che servisse a definirli, ma la semplice constatazione che ella non fosse più indesiderata le rendeva in qualche modo più facile approcciarsi al suo indirizzo, senza la bile ad ucciderle il fegato. Lo screzio iniziale, le frecciate lanciate con giusto interesse di infierire sul passato rancoroso che li segnava, adesso si colmava con giusto quella dose di sarcasmo che colorava le giornate di un sorriso in più e di una risatina sotto i baffi, una concessione che – nelle loro circostanze – tanto diveniva utile quanto necessaria era la forza per andare avanti accanto alla signora morte lì poco distante.

Poteva anche non avere un nome, il loro legame, ma la sua esistenza era stata forgiata in un terreno che di sterile prometteva solo l’uccisione di tutto ciò che vi era presente, e come tale aveva ormai immesso radici così profonde da risultare diradicabili.

“Volevo controllare gli ultimi dati della giornata, sperando in qualcosa di nuovo... ma non è saltato fuori nulla di rilevante.”

Il sapore del cioccolato infondeva dolcezza lì dove l’amaro delle parole pronunciate incrinava i pensieri in considerazioni che martoriavano il suo buon umore. Parlava di soddisfazioni perché davvero ella aveva a cuore la possibilità di poter stare in prima linea lì dove la battaglia imperversava, ma nemmeno simile constatazione avrebbe reso la pillola meno indolore,e quella maschera che era solita indossare per nascondere simile verità, quella del sorriso smagliante e dello sguardo acceso alle nuove speranze, in quel momento era riversa al suolo priva della benché minima utilità. Cercava l’imperfezione del marmo glaciale che rivestiva il pavimento per non incorrere in una qualche forma di ira che avrebbe potuto risiedere all’interno delle ametiste solitamente dure e irreprensibili ad ogni abbattimento, e forse, per la prima volta dal loro conoscersi, era proprio lei ad evitare il confronto – perché non se ne riteneva in grado – ricercando un pallido pretesto per lasciare il guanto a rigirarsi tra le sue dita.

“Abbiamo collezionato molti insuccessi, in questi giorni... vero?”

La domanda, uscitale dalle labbra senza la ragione a chiederne le dovute spiegazioni, divenne colpa nel medesimo istante in cui la sua voce fu udita dalle sue stesse orecchie. Se le mani non fossero state artigliate alla tazza colma di cioccolato fumante, avrebbe volentieri imposto alle sue dita di sigillare quelle linee morbide che, nella libertà solitamente riservategli, avevano travalicato i limiti del possibile per gettarsi di peso nell’imbarazzo più compiuto. Aveva già formalmente firmato la resa, aveva concesso a se stessa il pensiero che nuovi diverbi dovevano essere evitati... e invece aveva appena concesso al suo passato aguzzino di accanirsi di nuovo su debolezze che invece avrebbe dovuto nascondere nel modo più coerente avverabile. La stupidità era il solo termine corretto che veniva a indicare il suo atteggiamento incontrollato.

Il leggero movimento che avvertì al suo fianco fu l’unico sollecitamento del mondo esterno capace di sommuovere tutte le pareti erette dalle sue elucubrazioni. Riflesso nel suo sguardo attonito, la figura slanciata ed elegante di Reiji - silenziosa contro ogni aspettativa – declinava dolcemente su quello stesso divanetto nel quale lei tentava assurdamente di scomparire, accaparrandosi la restante metà lasciata vuota e continuando a sorseggiare la bevanda energetica, quasi non avesse colto la benché minima parola provenire dalla sua avversaria.

Aveva appena lasciato ad un sospiro di sollievo il lasciapassare per esprimere la sua gratitudine - ad una gentilezza così inaspettata -, quando, all’improvviso, quel lui che avrebbe pregato di non infierire ulteriormente intervenne con l’insolita flemma che lo contraddistingueva.

“Io credo che tu non riconosca la preziosità dei piccoli passi... Yuya

Ciò che non conobbe come bizzarro in quella frase si disvelò fugacemente nel pensiero inconscio che, per la prima volta, e in un contesto del tutto inaspettato, quell’uomo - sempre molto rigido e fiero delle distanze poste a limite delle loro esistenze - avesse interloquito con lei chiamandola per nome. Quattro lettere, stupidaggini fonetici che tutti – lei per prima – avrebbero ignorato per la banale constatazione di un lavoro che ormai li stava portando a condividere un certo numero di tempo e spazi tali da non far apparire simile libertà come una qualche stranezza improvvisa nel loro rapportarsi, ma era vero che per lei cotale novità si irrobustiva per aver avvertito – forse per la prima volta, forse nel magico istante in cui aveva intravisto l’ombra di quel sorriso dall’unicità preziosa su un viso solitamente atono verso le proprie emozioni – un lui diverso, meno avverso, meno cinico e più umano, un qualcuno che mai avrebbe riconosciuto in quel sadico maledetto che, nel suo primo giorno da straniera in patria, aveva osato sfidarla solo perché gli appariva inconcepibile il loro respirare dalla stessa aria. Era un mondo ribaltatosi all’improvviso, i cui poli avevano inavvertitamente lasciato il loro ruolo egemone di asse portante della terra e l’avevano ceduto all’equatore, sconvolgendo tutto l’ecosistema e gli abitanti ivi compresi. Potevano esserci altre spiegazioni, per concedere la dovuta spiegazione a quanto stava accadendo?

“Abbiamo passato interi anni, decenni interi a cercare come ciechi che brancolano nel buio più totale. La tua stessa vita è stata condizionata dalla ricerca, sei parte del progetto Les Enfant Terrible... e io non sono da meno, dato che ho condiviso il tuo stesso destino, solo in maniera meno ufficiosa. Mio padre volle che il genio della sua stella passasse nelle mie mani, e fin da quando posso ricordare, al posto dei normali libri che vengono comprati ai ragazzi, ho solo consultato testi scientifici”

Comprensione, il primo sentimento natole dal cuore e riversatosi nella sua anima ora trasparente come le lacrime compresse nei suoi occhi di rubino; tristezza, per aver inutilmente sperato che la sua triste vicenda non fosse altro che una parabola riguardante il suo mondo e la sua personale prigione, mentre in verità aveva da scrutare più dimensioni di cui ella non era a conoscenza; consapevolezza, creatasi dalle ceneri di una passata valutazione entratale in testa con l’arroganza di chi detta nuove imposizioni anche laddove non sono ben accette.

‘Io... non l’ho mai capito. Perché l’ho giudicato?’ fu la constatazione del suo errore, e l’ammissione della sua colpa, della sua stupidità e del suo inizio per la redenzione.

“Molti scienziati si mostrarono contrari al progetto Les Enfant Terrible, chiamandolo inumano e ingiusto... non ricordo bene quanti furono i più fieri oppositori, ma ricordavo bene che il nome di tuo padre compariva nella lista. Mi sembra ridicolo, adesso, dopo quello che mi hai detto...”
“Comincio a chiedermi se davvero posso affermare di averlo conosciuto” commentò, dopo aver lasciato ad alcuni secondi la capacità di mettere – in lei – il dubbio di aver detto o meno la cosa giusta “Forse avrei risposto affermativamente, prima della morte di Ray. Ma adesso...”

Di Ray, Yuya sapeva poco e nulla. Le poche informazioni sbocconcellate e custodite nella sua memoria erano merito di un bambino che, palesemente, soffriva per la scomparsa di lei. Lei non la conosceva, eppure poteva affermare che il suo spirito aleggiasse nella sua stanza in ogni particella avesse condiviso un secondo dei proprietari della dimora. Era nei loro pensieri, nelle parole non dette, nei gesti mancati e nei suoi stessi riguardi, nella scelta di parole che dovevano, per qualche assurda convinzione, differire da quelle usate per comunicare con la stessa giovane spirata due anni addietro. Chiunque avesse avuto il dono dell’onniscienza, avrebbe scorto il mondo prima della prematura morte di lei nel tepore sottratto ad una figura che, per il dolore che sapeva suscitare, nemmeno aveva il permesso di essere commemorata con una foto degna della sua persona, ma per quella ragazza - così insolita in un contesto così palesemente non suo – tutto ciò che le era rimasto scoprire si riduceva al vuoto cosmico che risucchiava i loro cuori. Non chiedeva per rispetto del loro dolore, ma per quel dolore che loro vivevano, il suo rapportarsi appariva sempre inadeguato nella ricerca di parole che non sapeva se essere corrette.

“Anche Ray lavorava qui, sai?”

Il lieve sussulto della tazza sulla cattedra poco distante – un sibilo breve che Reiji aveva lasciato echeggiare nel silenzio - risuonò quasi a scandire il tempo di una nuova discussione, il riferirsi ad altre sfere di coscienza, il cui valore ella non avrebbe mai saputo giudicare. Osservava attonita un cambiamento di cui non concepiva le giuste proporzioni e, nel suo essere calma, si nascondevano i mille dilemmi di chi non comprende davvero quale evoluzione il proprio io avesse dovuto fare per adeguarsi con la dovuta precisione.

“Ho appreso molto da lei, e mi ha guidato per i primi tempi... ho iniziato a lavorare qui quando avevo sedici anni, come te. O forse erano quindici, francamente non ricordo. Rimase con me solo sei mesi, ma quello fu un periodo davvero... bello, nonostante tutto. Mi sentivo davvero a casa solo tra queste quattro mura, solo quando io, lei e papà lavoravamo insieme, senza alcuna remora e senza alcuno ostacolo a impedirci di comunicare... ma poi è morta, e da lì le cose sono cambiate. Cambiate troppo, per i miei gusti”
Aveva lasciato al suo sguardo la libertà di divagare per anfratti dello studio che forse altro valore non avevano da comunicare se non la lucentezza che egli stesso aveva da pretendere in un regno che affermava suo, perché aveva ormai ogni diritto di residenza e comando, ma nel concludere con simile sentenza, con un tono lugubre e fosco in quel sussurro che rendeva roca la voce, Yuya ebbe nuovamente su di sé quelle iridi ametista che tanto sapevano incantarla, che rimirava con ossessione per l’incapacità di saperle comprendere e di intravedere le giuste cromature in grado di disvelare il cuore di una persona ai suoi occhi, ormai, tanto diversa.

“Ray mi ha insegnato molto. Forse non esagero se dico che le devo tutto; in lei vi era quella determinazione che ammiro in tutti coloro che non vogliono arrendersi, che continuano a combattere nonostante le sconfitte. Era il mio idolo, perché nella sua fermezza vedevo la ferma volontà di non bloccarsi nemmeno per un istante, quasi il semplice pensiero di aver lasciato correre un secondo senza avergli reso giustizia con un qualche tipo di nuovo dato fosse inammissibile. Era quella volontà luminosa che la rendeva il centro di questo laboratorio, tutti avrebbero venduto l’anima al diavolo, per seguirla”

“Io credo che sarebbe davvero fiera di te, adesso”

Yuya non si rese nemmeno contò di aver parlato, e in quella stessa sera registrò mentalmente il controllo perduto sulle sue corde vocali, per un numero di volte che iniziava a preoccuparla non indifferentemente. I pensieri accumulavano decisioni e riflessioni che, certamente, tentavano il lento divincolarsi dalla matassa della gnoseologia per coordinarsi nel cammino delle parole, ma simile processo ella voleva rimasse silenzioso, caduco e neutrale, perché il nuovo che lei assorbiva potesse successivamente amalgamarsi con cura al vecchio già presente. E invece, contro la sua stessa volontà, fu sommariamente costretta a dire – con voce udibile – tutto ciò che di quel momento aveva rappreso nella sua mente. E, in simile sostrato di pensieri, comprese anche di dover rendere giustizia ad una sincerità candida nel suo essere disarmante, aprendogli il suo cuore pur col timore che esso venisse offeso un’ulteriore volta.

“Insomma... io sono qui solo da poco tempo, però ho notato il rispetto che gli altri provano per te. Non è semplice stima per il figlio del capo, è qualcosa di più... profondo. Loro riconoscono il tuo genio, e accettano la tua guida perché sanno di essersi affidati alla persona migliore. Non posso sbagliarmi su queste cose, sai? Loro... loro non sono obbligati ad avere fiducia in te, ma rispettano le tue decisioni già sapendo che sono le migliori. Anche quelle che hai preso per me...”

Il contatto visivo divenne insostenibile, una tangibilità quasi dolorosa. Lo sguardo del cremisi vivo fuggì lontano, assieme alla figura di lei che, con grazia, si sollevava dal divano – la tazza ancora colma poggiata a terra - per lasciare ai suoi passi la libertà di condurla in quello stretto angusto, al solo semplice conseguimento di una distanza oggettiva che la proteggesse al meglio.

“Ho conosciuto la disperazione, nella mia vita, e gli episodi in cui l’ho quasi abbracciata non posso più nemmeno contarli sulla punta delle dita. Mi dicevo di essere forte, che avrei superato tutto e che, se nel passato avevo già resistito ad una batosta da parte della vita, sarei rimasta in piedi anche con un terremoto a sconvolgermi l’esistenza. Semplicemente... sbagliavo” un singhiozzo, un lieve singulto sfuggito alle labbra, ma nascosto abilmente dalle ombre della camera in cui erano rinchiusi, ombre che degradavano su un viso da Reiji imperscrutabile, per quella cascata di rubini che adesso si interponeva nella sua filamentosità aggraziata come obiettivo del suo sguardo “Non mi rendevo conto delle ferite che ricevevo, di quelle che non cicatrizzavano, e alla fine mi sono ritrovata riversa al suolo senza sapere che fare. È stato... quando ho compreso che tuo padre mi aveva tolto tutto solo per un qualche beneficio personale”

L’istinto, un desiderio comandato dal cuore senza valide spiegazioni, portò Reiji a compiere i passi decisivi ad annullare le distanze tra le loro persone. Fu un incedere rapido, e in quanto tale silenzioso al punto da avvertire l’aroma di lei – quell’aura che ricordava le selve dei boschi ricolme di fiori – inebriarlo con inaudita dolcezza.

“In quel momento” ignara di lui e del suo sguardo così possente, ella continuava a parlare, grata della libertà di quei suoi occhi ormai ricolme di lacrime salate “Compresi che la disperazione mi avrebbe pervasa per sempre, e che non me ne sarei mai liberata, anche continuando costantemente a lottare per liberarmi del dolore che mi portavo dietro. Era come dicevi tu, volevo solo lasciarmi andare, sacrificarmi... uccidermi usando i miei pazienti come scusa. Ma poi... tu mi hai dato la speranza, e io...”

Ogni altro suono morì soffocato dal timore che la mano di lui suscitò al posarsi con decisione sulla sua spalla, una presa decisa che la indusse a voltarsi, a regalare a lui quei cristalli senza forma nel quale era riflesso tutto ciò che il suo cuore era in grado di custodire. Il lilla carpì a se il carminio dei suoi occhi, quegli occhi di lei che un attimo prima avevano supplicato la solitudine e che ora, per qualche misteriosa ragione, non comprendevano un mondo dove l’essere scrutati in maniera tanto intensa non fosse concepibile. Era un tripudio di sentimenti, un ammassarsi talmente caotico da chiamarsi indecifrabile, così come gli occhi di lui che comunicavano qualcosa, un qualcosa che Yuya non riusciva a cogliere. Il suo mondo, in quel momento, era fermo al battito del suo cuore, il cui agitarsi convulso lasciò interdetto ogni pensiero razionale, e ogni sguardo deciso rivolto a lui e alle pieghe magenta che nei suoi occhi spazzavano la monotonia dei primi giorni. Era un piacevole tepore, il sentirsi così osservata, un calore che l’avvolgeva al pari di una calda coperta, ma che nel suo stesso proteggerla nascondeva l’insidia di un ignoto. Era, l’ignoto, la natura, l’origine, la primigenia causa che la rese così suscettibile. Che l’aveva portata a rivalutare quell’uomo nel quale, un tempo aveva lasciato alla sua effige di ricordarle il significato dell’odio, al punto da non conoscere più se stessa e i suoi stessi giudizi.

Aveva un valore quel suo discorrere con lei? Quel suo aprirsi involontario, quel suo affacciarla ad una storia che forse escludeva dal novero delle domande da lei fattibili? Yuya, che dei rapporti umani non aveva altra esperienza ad eccezione dei suoi cari amici e dei suoi familiari, ebbe da chiedersi, in quel momento, se davvero le parole avevano in se un potere tanto disarmante.

E ne ebbe paura. Paura che in lei vi fosse un qualcosa di inspiegabile, un ragionare che chiedeva tempo per il suo essere analizzato in maniera completa e coraggio per affogare in una coscienza che, prima di allora, non gli era mai sembrata così fosca e dalle acque così agitate. Ebbe paura di lui, del potere che Reiji iniziava a suscitare in lei, di quello sguardo che sembrava abbracciarla nel candore di una carezza e in un’enigmaticità che ancor di più rendeva al caos un lavoro più semplice.

Fu lì che avvenne l’accozzarsi di due desideri contrapposti; l’istinto che le suggeriva una fuga subitanea veniva trattenuto dal bisogno del suo sguardo, un pensiero irrazionale che chiedeva però uguale attenzione e non le permetteva di distogliersi dall’origine del suo caos. Suggerimenti impazziti allarmavano una mente affollata di pensieri, etichettandola come sensibile e fragile nell’essersi esposta a tali intime confidenze, ma se anche da un lato certezze di simile livello – e a suo dire erano comunque inferiori al grado di esattezza che avevano nei confronti del reale – potevano nascondere un nucleo di verità certamente da non lasciar nell’indifferenza, pure essi non sortivano l’effetto sperato, e nel suo sostare non vi fu nulla che suggerì ai suoi piedi un deambulare veloce verso qualunque sorta di nascondiglio sicuro, una zona d’ombra qualsiasi che la nascondesse dai suoi occhi... e da quello che sembravano voler comunicare.

Li sguardi non comunicano; era uno dei pensieri che turbinava in lei, assieme alla marasma di mille altre parole in quel momento sfuggiti al controllo delle frasi. Era certezza, forse l’unica afferrabile, l’unica su cui il dubbio non avrebbe in alcun modo potuto infierire. Non c’era alternativa, altrimenti, al tumulto che la sconquassava al pari di un terremoto.

Ella avrebbe voluto davvero conoscere, cosa si celava nelle nuove cromie dell’ametista. Ma i colori non sapevano parlare... e lei non ne conosceva i significati.

 

Il mondo ritornò, e lo fece con un suono intermittente proveniente dalla porta. Crollò la magia, l’incanto dello sguardo, l’ipnosi dei loro respiri sincronizzati. La figura scompigliata di Crow, maggiormente degradata dal sonno mancato e dal turno che non aveva deciso di terminare, apparve rumorosamente, l’ordine di prestargli attenzione di tale portata da lasciare in sospeso ciò che forse avrebbe finalmente chiarito, in Yuya, i mille ansiti che avevano appena cessato di torturarle l’animo.

“Capo, per fortuna è ancora qui. Potrebbe venire con me, per favore? Credo di avere qualcosa di interessante da mostrarle. Yuya, ovviamente devi venire anche...”
“Yuya ha lavorato per tutto il giorno, ormai sarà stanca” fu l’algido commento che pose fine al fiume in piena delle parole. Lei, sgomenta da simile freddezza, ricercò allora i suoi occhi, ancora una volta, un’ennesima anche se dettata dall’ignoranza attribuibile al suo ricercare... ma non vi vide assolutamente nulla. La frangia argentea copriva ciò che il rosso della montatura non riusciva a nascondere, e il dubbio che – nuovamente – fosse tornato quel luccichio sinistro che tanto l’aveva inquietata al loro primo incontro rimase senza risposta.

“Posso ancora lavorare...” tentò dunque, un qualunque approccio, anche sciocco, ma pur sempre un tentativo per riportarlo verso di lei.

“No, preferisco che domani tu sia ben riposata. Dobbiamo lavorare sodo, e sarebbe ingiusto chiederti di lavorare oltre il tuo orario di lavoro. Ne andrebbe della tua salute”

Non vi era minaccia, né una qualche forma di velato insulto... eppure ogni sua parola risultò fredda, perché calcolata al fine di risultare imparziale. Gelida come il Reiji Akaba che era stato un tempo. Impersonale come il Reiji Akaba che non desiderava averla in simpatia

Distante come il Reiji Akaba che aveva abbandonato il suo studio, lasciandola sola.

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ~ Fermami dal ferirti ancora ***


I confini del corridoio scomparvero al suono dei suoi pensieri, l’occhio vagava il necessario per comprendere dove fosse. Nella bocca dell’inferno, avrebbe risposto, se qualcuno avesse avuto modo di chiedergli la cagione di un cupo ombreggiare che rendeva il suo sguardo ancor più affilato di quanto non inquietasse solitamente. Tanto cupo da rendere l’uragano di nome Crow Hogan uno scienziato silenzioso ed efficiente.
Se le condizioni lo avessero voluto in uno stato di completa solitudine, se le prerogative che rendevano lui un capo tanto ammirevole – come lei aveva tanto benevolmente sottolineato – non lo avessero riscosso dal suo pertugio, per lasciarlo a condursi in una sorta di male assopito nei confronti dei suoi sentimenti, avrebbe accasciato il suo corpo nel primo strato molle a sua disposizione, e quegli occhi così inspessiti dal freddo indossato avrebbero nuovamente lasciato al dolce tanto atteso la capacità di rinvenire e di correre da lei, di percorrere i suoi stessi passi e terminare ciò che stava – stupidamente – per fare. Un errore che non aveva alcun margine di spiegazione, un bisogno che nasceva da un desiderio di cui ignorava la natura, un istinto che, per quei pochi secondi, aveva difficilmente tenuto a bada. La voglia di annullare le distanze, di conoscere il suo respiro, di assaggiare il suo sapore.
‘Cosa diavolo mi sta succedendo?’
Analizzare era la ragione riconducibile ad ogni sua azione; era il diagramma di ogni mente razionale – e la sua, a tal proposito, avrebbe dovuto eccellere in simile abilità – e il costrutto sul quale fondare la propria proiezione mentale di quel mondo che meritava, nell’essere descritto, solo epiteti grotteschi e immorali. Per lui, per quel Reiji Akaba che viveva delle sue convinzioni e che, forse per questo, peccava di quella presunzione in cui versa chi – maledettamente – scopre di avere sempre l’esatta convinzione del momento, non esisteva alcun errore almeno che non fosse nel dubbio tacito di ciò che non era lecito sapere; etichettare, marchiare, rinominare... era il vezzo del suo essere scienziato, e una deformazione che aveva corrotto il suo stesso io al limite dell’asettica impersonalità,  un costrutto sostanziale nel quale racchiudere la gente in gradi macroaree e lì lasciare che le loro opinioni fermentassero, nella graduatoria da lui stabilita e ad un ordine soltanto da lui scandito. Era il suo stesso modo di rapportarsi alla gente, alla società, alla vita; un modo forse schematico oltre i limiti consentiti, ma certamente degno di quella precisione di cui amava circondarsi e su cui gli altri dovevano passare prima di arrivare alla sua augusta persona.
E invece c’era lei. Lei, che non aveva alcun rank nel quale posizionarla, alcun luogo nel quale analizzarla, alcun pensiero col quale scrutarla. I pensieri... erano da ingabbiare, al fine di evitare che assumessero la consistenza delle parole. Era l’implicito rifiuto a non voler scoprire - di se - cose che aveva ignorato, cose che non avrebbe potuto prevedere, cose che non era in grado di porre sotto un attento esame.
Provò a domandarsi quale causa – quale cataclisma naturale – lo avesse trascinato sin nei meandri della follia, tanto vicino da circuire ogni sua difesa ad onta dell’irrazionale. Non era l’aver percepito la sua vera essenza, il suo dichiararsi al pari di un fiore che sboccia alla gentile carezza dei raggi luminosi; vi aveva scorto un impercettibile piacere, quando era emersa l’ammissione della sua saggezza, quel suo prevedere delle sue intenzioni al pari – se non meglio – di colei che ne custodiva la chiave, una sorta di prova generale che – per l’ennesima volta – si fermava a confermare quanto di lui vi era di certo e consolidato.
Ma poi la mente – e la ragione al suo seguito – aveva preso una direzione che conduceva dritto nel tunnel nell’oblio. Forse quando la frizzante fragranza dei fiori di bosco lo aveva avvolto in una nuvola di soffice tenerezza, o quando i toni tremanti di lei avevano denunciato un crollo emotivo prossimo al segnale dalle lacrime. Non lo sapeva – e questo era fonte di indiscusso fastidio, per lui – ma nonostante tutto, quando quel qualcosa aveva deciso di scattare, in lui, l’istinto di avvicinarla, di stringerla, di tendersi a lei... lo aveva sopraffatto. Qualsiasi suo scudo a difesa dei gesti inconsulti dimentico al suo fianco, sciolto dalla sua persona al pari di un indumento opprimente che aveva la facoltà di essere rimosso facilmente.
Ed era stato ad un passo, ad un centimetro dal risollevare ogni suo precedente pensiero, ogni suo giudizio passato; chi ella fosse,come lo avesse stregato – ed egli era un uomo di scienza, ed era ridicolmente consapevole quanto le fatture fossero solo orpelli di fiabe da racchiudere solo nelle storie da raccontare a suo fratello – come lo avesse abbagliato, fino a quel punto...
Dio, cosa c’era di sbagliato, in lui?
Se lasciava ampio margine alla fredda razionalità che di solito decideva per lui, quella maschera di imperfezione che tutti gli riconoscevano e gli additavano in quanto sua primaria personalità, allora la ricerca di una scusa, di una qualunque costruzione convenzionale agibile in tal maniera da nascondere tutto quanto non meritava la luce del sole – ossia della rivelazione – avrebbe fatto capolino e in esso si sarebbe rifugiato. Magari, con accortezza, si sarebbe insinuato nella subdola idea che ogni colpa – ancora una volta – si andava additando al padre crudele, quel bastardo assassino che, con il suo imperversare nella sua vita, aveva capovolto con sgraziata inettitudine ogni sua basilare convinzione. No, forse non simile, catastrofica, presentazione; ma che in lui vi fosse stata, un tempo, la certezza di un Leo incapace di agire con la consapevole certezza di uccidere, era certamente una verità al quale non sentiva verso di dissentire.  Poteva essere quello, l’inizio di una crepa che aveva divelto il pavimento nel quale era solito camminare con annoiata grazia; lui, e di seguito la consapevolezza che dell’odio condiviso con lei non c’era assoluta ragione di seria complicità. Solo uno sbaglio enorme da risanare, una colpa addossatasi sulle sue spalle solo per quel sangue condiviso e adesso non più voluto.
Doveva essere solo quello, però. E la sua costruzione di carte mal celava il resto taciuto al di fuori dei suoi schematismi. Era un vento gentile, quello che aveva accarezzato il suo cuore, e in simile brezza il dovere non attecchiva, ne inquinava la purezza di un qualcosa nato dal suo primigenio io.
Che fosse quello, l’Es incontrollato che faceva tanto terrore ai medici e psichiatri?
Reiji Akaba, in quel frangente, aveva numerose scelte. Avrebbe potuto rifugiarsi nella più semplice, e lasciare nel dimenticatoio – o almeno, fino a quando il vermiglio della sua aura non fosse riapparso all’orizzonte – ogni attimo speso senza la sua amata ragione, al fine di non divenirne pazzo. Poteva – e questo però poteva escluderlo a prescindere – tendere una mano verso il suo giovane assistente, attirarne l’attenzione e porlo al vaglio della sua disperata – almeno a suo dire – condizione. Alla lunga, poteva perfino gettare al vento ogni grammo di razio e gettarsi a capofitto nella direzione di lei, in quella stanza nel quale l’aveva severamente confinata – anche se in lui, ancora scosso da se stesso, vi era stato un parziale tentativo di ingentilimento della sua voce – e porre un degno finale alle sue intenzioni.
Scelte dalla natura infingarda, e che in quanto tali si prefiguravano in una serie di previsioni a lui molto sfavorevoli. Era una multipla scelta che, a suo dire, doveva comprendere un’ultima nota, nel quale le soluzioni precedenti dovevano con forza essere escluse; non era un vigliacco, Reiji Akaba, ma – sebbene così invischiato in una situazione a lui totalmente ignota – avrebbe voluto agire in un solo e unico modo... come Reiji Akaba avrebbe davvero fatto. Come lui era solito porsi.
 
“Questo cos’è?”
La cartellina in mano, Reiji ponderò questa domanda al fine di comprendere quale recondito pensiero ci fosse nel consegnargliela, dato che Crow, sempre volto nella sua direzione, non aveva accennato ad alcun commento – e ciò era catalogabile certamente come fenomeno paranormale, data la quantità abnorme di parole capace di fuoriuscire dalle sue labbra.
“I dati che volevo tu vedessi”
Secco, conciso. Di un banale che aveva dell’irrisorio. Una stoltezza che infastidì Reiji per il suo presentarsi nel momento a lui peggiore.
I corridoi della villa, caratterizzati dal bianco candore che a molti suggeriva un clima ospedaliero, terminarono il loro infinito scorrere piazzando entrambi sul davanti di una ferrosa porta, la cui tecnologia non consentiva loro nemmeno l’ausilio di un dito per l’essere aperta. Spalancatasi, al suono dei loro passi, tutto ciò che loro ebbero da fare fu attraversare l’uscio, e nell’immediato i loro sguardi furono catapultati nel centro nevralgico dell’inferno. Era l’anticamera, il limbo dal quale si dipanavano i numerosi gironi, la stanza di controllo nel quale servi di poco conto – ma comunque uomini di fiducia da lui personalmente scelti – scorrevano con pigrizia le immagini trasmesse dai monitor, quasi vi fosse della giustificazione al sonno per la scontata definizione di immoto che loro avevano della vita dei pazienti. Uomini senza speranza, che in quanto tali erano stati posizionati laddove inabili a far danni.
E, d’altronde, non vi era null’altro, ad eccezione dei numerosi monitor e delle sedie nei quali quei severi uomini – scuri anche nelle uniformi eleganti da loro indossate – sostavano placidamente; un cubicolo tanto angusto mai avrebbe potuto garantire la sopravvivenza di coloro che ancora nutrivano la speranza.
“Se davvero tutto ciò che volevi era farmi visionare queste carte, perché non me le hai lasciate nell’ufficio?”
La voce venne fuori con irruenza eccessiva a quella concordata, una sorta di impazienza che tradiva aspettative maggiori. Crow forse se ne avvide, o forse la distrazione lo aveva convogliato – per alcuni secondi – lontano da quella stessa conversazione del quale lui in primis era l’artefice. Quale che fosse la verità, adesso lo guardava senza la benché minima punta di astio a inquinare lo zaffiro brillante. No... non doveva davvero aver prestato attenzione al suo essere scorbutico... altrimenti nulla gli avrebbe permesso di sorridere in quel modo. Un distendersi delle labbra che inquietava per la mancanza di convinzione.
“Non sono quelle carte, ciò che volevo lei vedesse ora. Ho bisogno di lei, capo... perché, se i dati che ho stampato adesso dicono qualcosa... beh, io ne ho vista un’altra. Mi vuole seguire?”
Ogni essere umano dotato di coscienza avrebbe negato con urgenza, una simile proposta. Perché il farlo comportava l’avvicinarsi ai meandri della morte, alle porte di quel cogito che tanto impensieriva nelle urla dei pazienti e nel sangue lasciato scorrere senza adeguate protezioni. Il candore nel quale i loro piedi affondavano era solo un maggior espediente per dare al posto un’idea adeguata di sanatorio, perché in nessun altro modo potevano essere viste quelle stanze, incassate con compatta precisione nei corridoi dipanati dalla camera principale, studiati per un guadagno cinico dello spazio e del tempo – quello che i medici dovevano spendere per offrire ai pazienti le blande cure di circostanza, quelle comuni e utili a offrire un briciolo di sollievo a chi nel dolore dimenticava perfino chi fosse – ed elaborati in modo tale che, in essi, il massimo contenibile non dovesse oltrepassare la soglia del letto e dei macchinari costosi che detenevano le vite dei morituri. Un posto che avrebbe disgustato anche chi poneva grande fiducia nella propria resistenza... ma che poco prevalse su Akaba, ormai assuefatto alla disperazione dei luoghi abbietti. Era un suo modo di pensarla, ossia l’aver compreso cosa fosse il male e averne sfiorato la sua più intima essenza. Niente, in quel genere di osservazione, contemplava il desistere alla debolezza. Poteva solo avanzare.
Avanzare. Dirigersi con eleganza laddove la sua presenza era richiesta, incapace di essere scalfito dai gemiti, dalle lacrime, dalle urla e dalle suppliche, dalle maledizioni nei confronti di un Dio crudele e dalle preghiere di chi ne richiedeva l’urgente presenza. Era il suo mondo, quello, e ormai in esso poteva viverci senza impazzire. A Ray, egli doveva anche quello.
Erano opachi, quei smeraldi spenti che fissavano con riluttanza il soffitto dalle luci soffuse, e in esso non vi si segnalava nulla, ad eccezione di un respiro fragile e di un cuore stanco di esistere. All’attento sguardo di Akaba, il fisico gracile del ragazzino, segnato dalle uguali macchie vermiglie che, sulla pelle diafana, lo comparavano ad ogni altro paziente lì risiedente, non era altro che un nuovo cadavere del quale Roger avrebbe dovuto occuparsi. Una nuova vittima portata via dall’assassino dell’umanità, una bestia immonda a cui non era bastato osservare il candore esile di un bimbo allo sbocciare dei suoi dieci anni per placare la sua fame. Nel cuore dell’uomo, attonito dinanzi allo spettacolo postogli innanzi, vi fu uno sfavillio terrorizzato; la sua immaginazione ebbe l’ardire di tradirlo, in quei secondi, e pose l’ombra di Reira dinanzi alla devastazione del nuovo ragazzo. Quei capelli turchini, ora caoticamente disposti sul rigido cuscino sporco della sua stessa essenza, furono, per lui, l’unico appiglio nel quale ritrovarsi per il presente.
“Può non sembrarlo, ma è ancora vivo”
Quasi vi fosse in lui una qualche impercettibile capacità telepatica, Crow predisse i suoi pensieri, e con la sua affermazione recise sul nascere qualunque sforzo da compiere per la domanda in atto di essere espressa.
“Shiun’in Sora. Secondo i dati, le sue condizioni di salute rimangono gravi, però stazionarie. Eppure, da questa mattina, ha spalancato gli occhi in questo modo, e ha continuato per tutto il giorno. Ce ne siamo accorti poco fa, ma le registrazioni hanno detto il resto”
“I suoi parametri vitali?”
“Minori rispetto alla norma... e intendo la norma dei pazienti. Però non sono irregolari, e i macchinari gli permettono di sopravvivere. Capo... lui era uno del Gruppo Sperimentale. Sa cosa vuol dire?”
Una domanda amletica, in quel preciso frangente. Il dividersi  dei pazienti tra Sperimentali e di Controllo era un calcolo programmato per il collidersi dell’ipotesi nulla e di quella alternativa. Un fattore scientifico solitamente lasciato al ramo delle cure psicologiche, ma che ormai erano divenute una voga dei settori prettamente scientifici e la cui validità ne aveva confermato il primato. Allo stadio attuale, in quanto stabilito dall’ipotesi nulla, non vi era assolutamente alcuna differenza tra i malati sottoposti alle cure sperimentali – le cui basi si dovevano al sangue di Yuya – e coloro che invece si aggrappavano alla vita per mezzo dei medicinali comuni – solitamente, i facenti parte di simile macroarea vantavano un contagio meno violento e meno incline a fulminarli nel giro di alcuni secondi. Era l’ipotesi da combattere, quella nulla, in modo da dimostrare quanto l’alternativa fosse efficiente; se in qualcuno di loro un nuovo effetto fosse stato registrato, essa sarebbe in automatico balzata in primo piano, decretando in tal modo la vittoria dell’umanità. E la vittoria di Reiji.
“Però non possiamo parlare di miglioramento. Se mai, possiamo affermare il contrario”
Era l’essere rigidi di fronte alla speranza, ma anche un modo coerente per il ruolo che deteneva. La speranza andava nutrita con le belle parole, ma la fiducia non era concessa soltanto a scampoli di indizi che, ad occhio critico, sembravano anche tendere verso una strada sterrata e maggiormente sconnessa rispetto a quella già percorsa. Non era un risultato del quale essere soddisfatti; era un dubbio, anzi, che richiedeva l’immediata risoluzione.
“Ora capisce perché avevo bisogno anche dell’aiuto della signorina Yuya?” fu il commento divertito di Crow, ancora in vantaggio nel carpire ciò che era celato dietro lo sguardo calcolatore del suo datore di lavoro “Lo so che ci vuole tutti belli e riposati... ma qui c’è del lavoro da sbrigare. E in fretta”
Reiji Akaba non era un vigliacco. Scappare da una situazione del genere avrebbe seriamente compromesso l’immagine che lui stesso rappresentava quando alla propria mente toccava di descriversi, e di certo nulla lo avrebbe spinto lontano da quel piedistallo di stoicismo nel quale amava stare... ma come affrontarla nuovamente, dopo quelle vicinanze annullate?
“A proposito, capo... Che fine ha fatto Kurosaki? È da un po’ che non lo vedo in giro...”
“Ha detto che non si sentiva tanto bene, e che preferiva ritirarsi nella sua stanza per la notte” rispose l’uomo, distrattamente.
“Aspetti, stiamo parlando della stessa persona? Di quella che lancia vampe di fuoco verso chiunque non rispetti con precisione svizzera gli orari di lavoro?”
“Parliamo del collega che andrai a cercare mentre io riporto qui Yu... Sakaki. E sbrigati; l’hai detto anche tu, non abbiamo tempo da perdere”
 
La vita sapeva essere crudele. Toglieva quanto donato, e nel suo essere sadica lasciava che ciò avvenisse di fronte ai tuoi occhi, vedendo appassire quello che più hai amato e che non rivedrai mai più.
Sora amava la sua famiglia. Quella madre tanto apprensiva e che lo cullava nella piccola bolla di vetro costruitagli con cieco amore; quel padre tanto severo quanto pronto a gettare la sua maschera fredda per accogliere i suoi figli tra le sue braccia; perfino quella sorellina pestifera, quella che urlava ad ogni ora del giorno e che gli impediva di dedicarsi ai suoi dolci con la sacra ritualità a cui un tempo non sapeva resistere.
Era tutto parte del suo mondo, della sua quotidianità. Frammenti di serena gioia che, nel loro essere scontati, sanno ferire maggiormente quando scompaiono. E Sora ancora soffriva in maniera avvilente, quando guardava il suo nuovo io e vi scorgeva solo  un vuoto brancolare.
La solitudine non aveva mai avuto simili dimensioni, la sua cupa ombra non lo avvolgeva con strette tanto soffocanti... perché un tempo egli quel termine nemmeno era arrivato a intenderlo. Era ingenuità, o forse pigrizia nel conoscere... ma lui avrebbe preferito rimanere ignorante, e lasciare alla solitudine stessa il compito di rimanere un semplice lemma del vocabolario.
Vi era una sola consolazione, nel limite prossimo alla morte. Bastava lasciar dietro quel corpo ridotto in cenere, quelle ossa e quei muscoli divenuti deboli e incapaci di rispondere ai suoi comandi, e in cambio avrebbe nuovamente rivisto tutti; famiglia e amici erano dall’altra parte della soglia, oltre i confini dei viventi, in un regno candido che aspettava solo lui. Commuoveva l’idea che tutti quanti fossero al cospetto delle porte dorate, pronte a intercettare il suo spirito e ad accoglierlo a braccia aperte, tanto felici da quella neonata riunione da dimenticare ogni buona maniera in merito all’essere piccoli, come il silenzio, le risate contenute, il fracasso che avrebbe potuto infastidire i vicini. Non ne sapeva molto, di aldilà e cose simili, ma le scarne informazioni ricevute rendevano simile destinazione la meta più agognabile nei suoi desideri.
“Dunque vorresti arrenderti così?”
Il volto di Sora non aveva alcun potere, né la forza sufficiente a voltarsi. Eppure, sebbene si rese conto che nulla, nel mondo esterno, aveva più la forza di attirare la sua attenzione, pure si convinse che la voce appena udita non era solo il germoglio dei suoi sogni allucinati; era qualcosa di esterno, la cui forza travalicava le barriere erette tra la sua mente e un mondo pronto a rifiutarlo.
“Sai, qui ci sono parecchi come te, che hanno perso la speranza e vogliono trapassare il più in fretta possibile. Però non lo fanno per i tuoi stessi motivi, no... vogliono solo smettere di soffrire, e se gli mettessero sotto al naso un farmaco capace di guarirli, allora lo arrafferebbero senza nemmeno pensare alle conseguenze. Dimmi, Sora... se io ti offrissi la cura al male che ti affligge, la prenderesti?
Per quale assurda ragione accettare un’offerta tanto ambigua? Era solo un bambino, e la sua capacità di giudizio ne risentiva per la mancata esperienza, ma non era così sciocco da credere a parole gettate solo per sadico divertimento.
E comunque la sua risposta sarebbe stata  assolutamente negativa. Anche in un contesto in cui simile miracolo fosse stato possibile, non vi era alcuna ragione, per lui, di restare. Nessuno lo attendeva, nessuno pregava per la sua salvezza, nessuno gli avrebbe sorriso se lui si fosse ripreso. Semplicemente, non aveva più alcunché per cui combattere.
“Ma dai, piccolo Sora... se fai così, ti mostri ancora più interessante... e mi fai venir voglia di salvarti. Così. Solo per farti un dispetto”
Stava... divertendosi? Quell’uomo – chiunque esso fosse – provava davvero tanto gusto nel denigrarlo, scarnificando ogni sua difesa e carpendo dalle sue elucubrazioni ciò che era necessario per lasciarsi andare alle risate?
“No, non sono davvero così crudele. Però mi servi, caro Sora... o meglio, mi serve una persona che, dopo averla guarita, non scappi via per commettere chissà quale peccato. Voglio qualcuno che mi sia fedele, e io so già come averti mio, piccolo...”
‘Stai... delirando?’
“Voglio fare un patto con te, Sora”
No, nel suo tono non vi era alcun segno di quell’irrisione prima così palese.
“Io esaudirò un tuo desiderio, di qualsiasi specie e di qualsiasi natura... ma tu in cambio dovrai portarmi una persona. Sarai la mia marionetta al fine di strappare la cara Yuya da quegli sporchi umani che vogliono usarla al pari di un burattino”
 
“Dove sei?”
Era questa, la domanda che Yuya avrebbe voluto porre nei loro ultimi istanti, quando la distanza li aveva resi al pari di due estranei, di quelli che chiacchierano freddamente quando le circostanze impongono educazione.
Non era stato altro, infatti. Semplice galanteria vuota che aveva come fine quello di scacciarla – nuovamente – e porre di nuovo quei confini prima dimentichi al suolo, freddi sotto le suole delle loro scarpe, inutili mentre entrambi conoscevano i colori delle loro vite.
Colori di cui ella non conosceva il significato, ma che avrebbe volentieri approfondito, se l’intervento di Crow non avesse rotto l’idillio.
Ma, in fondo, poteva davvero aver mal pensieri su un suo collega, quando ella stessa aveva da porsi seri quesiti sul suo coraggio? No, forse le sue labbra avrebbero custodito i suoi segreti, al pari di un forziere lontano dalla sua chiave. Non ci sarebbe stata una confessione, non maggiore rispetto a quelle già fornite, per il semplice fatto che il suo animo aveva avvertito l’indebolirsi della sua corazza, e quel lato sensibile che lasciava al suo cuore la forza di scalpitare nel petto erano un lato di lei che non meritava un emergere, nemmeno parziale. Aveva permesso all’uomo di avvicinarla – e in questo non vi era stato alcun male, l’amicizia era certamente il miglior antidoto a quella tensione che aveva avvinto i loro precedenti incontri – ma oramai doveva cominciare a porsi seri confini entro il quale non farlo entrare. Timore di essere ferita – proprio come in quel momento  - e terrore per le conseguenze da lei rese manifeste – l’esempio perfetto erano le lacrime cristalline che, imperterrite, lasciavano scie salate su guancie arrossate dall’emozione – sarebbero stati i pilastri sul quale avrebbe retto nuovamente i suoi rapporti con l’uomo.
Era questa la decisione che aveva preso, e a simili elucubrazioni pensava, quando la porta della sua stanza lasciò allo scatto automatico di immetterla nella camera dalle ombre cupe.
I suoi pensieri crollarono come cristalli duramente scagliati lontano.
 
“Fermami dal ferirti ancora...”
Fu quello il primo commento che le labbra di Yuto le concessero.

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ~ Proseguire guardandosi indietro ***


“Quindi anche i demoni si ammalano, eh?”
All’udire di quelle parole – in una tensione che concretizzava l’aere in solido spugnoso – la tazza tenuta malamente tra le mani di Shun – quella preziosa ceramica riportante sulla sua superficie il duro lavoro della sua dolce sorella Ruri, che con calma e dedizione vi aveva dipinto su un giglio dalla fioritura rigogliosa – poco mancò dovesse incontrare la sua fine sulla candida superficie del pavimento, lasciando di esso cocci scomposti e caldo latte ormai imbevibile.
Crow Hogan era da sempre paragonato alla tempesta; il fatto che non facesse assolutamente nulla per porre a tacere simili idee nei suoi confronti non era che il risultato dei mille attentati cardiaci che il giovane scienziato dagli occhi dorati ancora segnava sulle noticine di un libricino dalla copertina lisa - che nessuno sospettava essere un qualcosa di simile ad un diario personale. Poco importava l’importanza del luogo e delle occasioni, nessuno avrebbe visto arrivare la sua zazzera impazzita se non quando quella voce squillante veniva a tirarti giù tutti i santi che il paradiso aveva da offrirti; odiarlo veniva quasi spontaneo, in un ambiente dove il silenzio è un qualcosa di tanto obbligato da non richiedere nemmeno la formale richiesta di riscatto, ma per Shun – almeno fino a quel momento – quel suo essere tanto libero dalle normali convenzioni non aveva mai costituito null’altro se non del semplice tumulto in una monotonia pronta a spezzarlo.
Però quel giorno non poteva avere tutta quella gentile considerazione nei confronti di uno che sembrava trovare quasi divertente quelle sue entrate ad effetto; posata la tazza sul tavolino ingombro di carte e cartelle – e terribilmente pieno perché unico mezzo di sostentamenti per carte e fascicoli vari che non fosse il rigido pavimento in marmo – fu sua premura fulminarlo con uno di quei suoi sguardi alla soda caustica, suo fiero orgoglio e di certo sua invincibile arma per placare anche chi aveva l’argento vivo nelle vene.
“Di certo tu non aiuti la croce, portandomi l’uragano Katrina nella mia stanza”
Il luogo nel quale il ragazzo era solito ricevere i suoi ospiti – ossia i fortunati che avevano il privilegio di venirlo a chiamare le rare volte in cui faceva tardi in laboratorio – non possedeva il fascino che Reiji invece rievocava nell’elementarità del bello; il suo era un semplice triste, di quelli che dimostravano non il saper ponderare la giusta dose di pieni e vuoti, ma il semplice disinteresse verso qualunque orpello si mostrasse troppo distante dall’essenziale. Ci viveva da quasi cinque anni, all’interno di quella stanza, ma a parte quel tavolino in legno – pronto a cedere al prossimo carico di lavoro – il letto puntualmente sfatto – e di coperte che, nel loro candore, non si staccavano dal bianco dominante della stanza – due sedie rubate da chissà dove - e scomode nella plastica che era stata usata nel minimo indispensabile – e l’orologio appeso alla parete – bianco pure quello – nulla si era mai andato ulteriormente ad accumulare. Il suo vestiario era affidato ad uno scatolone poco distante dal letto, i suoi pochi effetti personali al bagno che si affacciava nella parete opposta della stanza.  Andarci – per chiunque – si trattava di andare realmente a soverchiare il significato della frugalità, e di tutta quella serie di mancanze a cui gli scienziati non sembrano nemmeno fare caso.
E di certo Shun non rimpiangeva la mancanza di un mobilio, o di soprammobili che portassero il giusto colore ad un piatto grigiore che non comunicava nulla. Aveva da lamentarsi solo dell’assenza di un divano – il luogo ideale, nel suo immaginario, per la revisione di testi e carte – ma quella era la sola debolezza a cui non avrebbe mai ceduto, la consapevolezza che, una volta stesosi su tanta morbidezza, nemmeno la forza di un titano sarebbe riuscita a farlo studiare decentemente. E questo il piccolo sofà di Reiji glielo aveva insegnato molto bene.
Fu per questo che ignorò platealmente gli ennesimi commenti del collega al riguardo della sua povertà – che nemmeno si poteva dire esatta – e fece quanto era in suo potere per fargli comprendere quanto sgradita fosse la sua presenza.
“Non lo sai che i demoni malati sono più aggressivi di quelli normali? Perché sei venuto a tuo rischio e pericolo?”
Fumare era uno dei vizi nel quale era solito cedere quando lo stress lavorativo minacciava di non farlo dormire; in quel caso, tuttavia, il risveglio malvagio delle sigarette assassine fu soltanto l’ennesima trovata escogitata per far scacciare via quel salutista sciattone il cui unico pregio era la consapevole lotta al fumo passivo.
“Questa storia te la sei appena inventata, e che tu sia un demone o meno fumare non ti farà certamente star meglio” disse infatti il collega, la piccola preziosità di tabacco sottratta dalle esili dita dell’altro e calpestata malamente su un suolo che di certo non avrebbe pulito lui. Precauzione suggerì anche una decisa distanza dal luogo del misfatto – lo sguardo minaccioso di Shun che suggeriva fulmini e saette -  e amor proprio una lesta presa del pacchetto appoggiato poco distante su quel tavolo che lo rendeva quasi invisibile.
“Comunque” affermò subito, percependo finalmente i sentimenti di Shun “non sono qui per darti fastidio, tanto meno ora che sei  malato. Sono venuto qui perché ho delle novità”
“Spero per te che si tratti di lavoro” fece il moro, il corpo a poggiarsi mollemente sul letto.
“E di cosa, altrimenti?” rovistò nelle tasche, Crow, solo per maledirsi della sua stupidità; ciò che avrebbe dovuto siglare le sue parole, dargli consistenza tattile e l’immancabile del vero, giaceva in quel momento nella stessa stanzina nella quale il grande oggetto di interesse riposava profondamente, sicuramente crollato al suolo in uno dei suoi  numerosi momenti di distrazione. Gli venne voglia di metter mano a quei capelli già di loro tanto caotici solo per poter far provare al suo cervello la stessa pressione che adesso avvertiva lui nel comprendere quanto mancasse di effetto la sua visita.
“Guarda che ci sento, puoi benissimo dirmeli a voce, i risultati dei test”
“Non è questo, è che sarebbe stato più chiaro mettere in mostra la... differenza, direi”
Crow non era mai stato un genio, nel campo della retorica. Nella sua mente andavano ad aggrapparsi circa un migliaio di pensieri, tutti riportanti anche uno stesso concetto, ma espresso in una qualche forma che ne deturpava i parametri di importanza dati ai rispettivi soggetti, e l’indecisione con il quale venivano gestiti suddetti pensieri erano la causa principale di tutte quelle frasi spezzate, di quei toni incerti e di quelle parole sostituite con poca arguzia. In breve, si otteneva un discorso incerto, traballante, e la cui comunicabilità si restringeva a pochi luminari capaci di intuire il valore essenziale anche quando il quadro generale si perdeva in un labirintico sistema espressivo.
E Shun era senza alcun dubbio uno di questi geni; da un discorso tanto disagevole e contorto comprese chi fosse Shiunin Sora, e anche cosa avrebbe potuto rappresentare.
“Insomma, so che non stai bene, ma...”
“Arrivo” concluse Shun, lapidario “Dammi il tempo di darmi una sistemata e scendo. Ci vediamo nel Limbo?”
“Aspetta, e Reiji? E andato a cercare Yuya, e...”
“E allora sarà contento, quando ci vedrà già al lavoro al suo arrivo. Lo conosci, è uno che non ama perdere tempo”
 
Shun Kurosaki non era un bugiardo; delle bugie egli odiava quella sostanza oleosa e zuccherina che condiva verità inevitabili, l’obbligo a mostrarsi come tali vincolato invece da altri che si sentivano il dovere di assurgersi il ruolo di Dio e modellarsi dunque la realtà a loro esclusiva fantasia. Mentire, dunque, era una pratica tanto lontana, dal suo modo di essere, che  mai avrebbe pensato di risultare convincente, quando aveva davvero permesso all’ombra di Reiji di invadere il campo del discorso. Forse il suo corpo contava sulla certezza di raggiungere seriamente Crow nella stanzetta di ospedale che li avrebbe operati di lavoro, forse semplicemente la sua mente sapeva tener fede alle sue priorità con una convinzione maggiore del suo cuore ballerino. O forse semplicemente lui era un pessimo bugiardo, ma Crow Hogan era troppo ingenuo per avvertire i suoi sbalzi d’umore.
Il suo era un passato noto a tutti; era nato e cresciuto nella soleggiata Heartland fino a quando gli studi e i giusti agganci non gli avevano concesso il posto di lavoro che occupava attualmente; lavorava indefessamente per guadagnarsi la pagnotta, odiava i ritardatari e chi prendeva poco seriamente il ruolo di eroi che avevano assunto e aveva come unico vizio quello del fumo. Erano le sue bio generali, quelle che qualsiasi collega anziano avrebbe potuto mettere in mano ad un novizio senza dover inventare alcuna scusa per quel palese curiosare nei fatti altrui.
Ma a Shun andava bene così e fin quando  non si scavava più a fondo, nessuno rischiava la vita nell’averlo accanto, e la sua fortuna consisteva nel lavorare in un ambiente dove il guardare al futuro ti faceva dimenticare di avere un passato. Per questo nessuno era a conoscenza di Yuto, nel racconto della sua vita, né avrebbe mai pensato che un tipo così scorbutico era stato un tempo un giovane scavezzacollo con la propensione a sfidare tutti i muri i grandi osavano porgli d’innanzi. Sapeva del progetto Les Enfant Terrible solo perché suo padre era uno dei maggiori promoter di simile pazzia, l’idea di creare delle menti asettiche di ogni sentimento talmente radicatasi in lui, talmente luminosa nelle sue promesse da fargli scordare di quel marcio che ci cresceva intorno, del pattume che non aveva considerazione di quel valore umano ormai da troppo tempo dimenticato. Lui sfidava l’impossibile, a quell’epoca, così come aveva sfidato suo padre e la sua testardaggine – sebbene col tempo fosse giunto alla conclusione che la sua non era davvero  una folle fissazione, ma una semplice fobia relegata all’idea di morte, una morte che si preannunciava sempre più vicina nelle vesti della Peste.
Quando il padre arrivò a togliergli pranzo e cena, per simili coercizioni senza risultato, balenò, nella testa di Shun, che il suo piano non era sbagliato, ma semplicemente architettato male; di un cubo non bisognava guardare un solo angolo, e per renderlo imperfetto si potevano smussare più spigoli. Fu dunque questo l’inizio che si poneva da sfondo ad un’amicizia tenuta nel silenzio del mondo, perfino di quella sorella sempre troppo curiosa di sapere in quale nuovo guaio si fosse andato a cacciare.
“Devi essere un pazzo per venirtene da solo nell’inferno”
Era solo, in quella specie di giardino che tanto ricordava l’ora d’aria dei prigionieri. Nessuna attività ricreativa, naturalmente, non un disegno e  nemmeno un fiore per cercare una ragione ultima a quella ricerca tanto avida e insensata. Stavano lì, a pasciare nell’erba come bestiame, il compito di percepire l’aria e i suoi cambiamenti a rovinare quello che loro stessi chiamavano momento di riposo. L’angolo nel quale Shun era capitato – le macchie sulla pelle a sottolineare le numerose escoriazioni che il muro e il filo spinato avevano inflitto sulla sua pelle – avrebbe dovuto rappresentare quel tipico vicolo cieco che, nel suo non condurre a nulla, rimaneva dunque privo di significato e privo di memoria. E invece c’era qualcuno lì, posto nell’angolo che il muro realizzava per distinguere quel piccolo quadrato privo di uscite all’aere circostante e comunque recluso, acquattato nel silenzio per cercare qualcuno che, evidentemente, non doveva venire a conoscenza della sua presenza.
E Shun fu malefico, quella volta, a sorprenderlo sussurrandogli all’orecchio col chiaro intento di farlo spaventare. A ripensarci, comprendeva quanto fosse stato folle simile azzardo, perché se Yuto non avesse avuto quella freddezza atipica degli uomini, l’urlo che ne sarebbe derivato fuori avrebbe certamente segnalato la sua posizione, mettendo nei guai la sua famiglia o, peggio, mettendolo assieme agli altri prigionieri.
E poi egli se ne uscì con quelle parole, con quella denuncia che nel presente Shun gli dava come corretta. Eppure, anche in quello che era davvero un inferno creato da uomini, pure non avrebbe mai mostrato il dovuto pentimento per ciò che aveva fatto. Significava negare Yuto, negare la sua amicizia, il profondo legame di fiducia che si era instaurato.
Un legame che aveva vinto le distanze, la morte e le sue nere vicissitudini per non ledersi nemmeno quando richiedeva un netto e inesprimibile sacrificio.
L’interesse per la scienza, Shun, aveva iniziato a dimostrarlo quando riconobbe una sua inferiorità nel disquisire rapido e brillante di un ragazzino più piccolo di lui eppure tanto più intelligente da far sembrare lui un pulcino capace solo di emettere timidi singulti. Era sciocco – e per tale ragione non lo andava a raccontare ad anima viva – ma a quel divario che si era innalzato tra i due – o meglio, quel grande muraglione che Shun vedeva come opprimente, senza dar conto a Yuto di come si sentisse – l’interesse primario che lo spinse ad indagare meglio le conoscenze matematiche, e in sostanza i suoi primi approcci alla fisica quantistica e alla chimica, erano dovuti alla smaniosa ricerca di un qualunque argomento, anche il più futile, che servisse come punto di forza per non farlo vacillare in una conversazione.
E a quel punto le loro divennero più amichevoli battaglie, che veri incontri fortunati; senza nemmeno essere coscienti di quanto facevano, realizzavamo uno scambio osmotico di informazioni e ne ridevano a crepapelle, quasi quella battaglia di cuscini immaginari avesse uno scopo ultimo, un vincitore che poi, nel presente, non era mai stato eletto.
‘E, in fondo, il vero vincente era sempre stato Yuto; solo, era troppo modesto per ammetterlo’ pensava ogni tanto il ragazzo, e ne sorrideva come a bearsi di un passato che non concedeva ritorni, e dunque ne emergeva l’infelicità che si segnava di conseguenza nelle parole non dette.
La vita non era stata benevola, perché, a chiunque, aveva pensato bene di togliere a tutti un qualcosa di prezioso; non aveva concesso loro la beltà di un duro legame, di un tempo discorsivo in un dispiegarsi lontano, né si era zittita a quel singolo scampolo di felicità che il mondo aveva concesso ad un povero ragazzo costretto da mostri in forma umana a scarnificare la sua esistenza per la peste; la morte dei suoi genitori aveva chiuso un capitolo prezioso della sua esistenza, e per Shun l’impossibilità di crescere Ruri si era tradotta in un obbligo forzoso che lo aveva sospinto verso Miami e dunque verso i suoi prossimi parenti, zii generosi nel loro accogliergli – e nonostante la ragione per cui loro adesso erano orfani – ma incapaci di lasciare la loro vecchia vita per permettere il perdurare di un legame che andava comunque tenuto adeguatamente occultato.
Il loro era dunque un filo prossimo allo sdrucirsi, un connettersi che si doveva interrompere con violenza e dolore. Ma Shun non lo aveva permesso, e né Yuto si era mostrato disposto a rinunciare all’unica altra persona al mondo – oltre alla cara Yuya – con cui era stato capace di aprirsi. Il segreto perdurava nelle loro lettere, nelle mail spedite con prudenza, nei messaggi da criptare in quel loro antico gioco infantile; e aveva vissuto, fino ad arrivare a quel fantomatico allarme, a quello Yuto tanto incosciente da chiamarlo in un orario lavorativo e per giunta senza alcuna occlusione che rendesse il suo numero irrintracciabile.
“Ho scoperto per quale motivo Akaba ha preso con se Yuya” aveva esordito, nessun preambolo a rubargli secondi che sapeva essere preziosi.
“Di che diavolo stai parlando? Tutti sanno perché Sakaki Yuya è qui, e dovresti saperlo anche tu, no?”
“Adesso non posso spiegarti nulla, non a telefono almeno, ma credimi... c’è, esiste una vera e ultima ragione per cui quel bastardo si è approfittato della morte di Yusho!”
Aveva dovuto allontanarsi, Shun, per evitare ad orecchie sconosciute il riconoscimento di quella voce solitamente tanto pacata e mite nel suo mostrarsi. Il momento in cui aveva accettato la chiamata era coincisa con il definirsi, nella sua mente, di frasi ingiuriose da rivolgergli per quell’increscioso rischio da lui corso, ma bastò la percezione della sua rabbia funesta per acquietare ogni stupido commento salace. No, Yuto non era sciocco, di certo il rischio lo conosceva bene anche lui, forse anche maggiormente. Quello che adesso lui trattava, dunque, andava a riguardare un tale livello di pericolosità che aveva necessitato, anzi imposto – pure ad un freddo calcolatore come lui – di buttare dalla finestra ogni ragguaglio suggerito per metterlo sull’attenti.
“Quello di Yusho è un incidente...”
“Non ho le prove per dimostrarti il contrario, ma a questo punto sono quasi spinto a credere che sia un omicidio creato ad arte”
In quei giorni, i primi dal trasferimento di Yuya, il clima del loro castello di vetro si condensava dell’odio di Reiji Akaba, ancora mortalmente offeso dallo schiaffo pubblico e ancora convinto che, nel suo bollarla come nemica, ci fosse una ragione unica firmatagli dall’universo stesso. L’immagine di lei, dunque, era solo il lontano abbaglio di molti, una bellezza ancora acerba che altri avevano complimentato con la discrezione necessaria a non perdere il loro amato posto di lavoro. Per Shun, che comunque poteva quasi vantare di conoscerla – e Yuto aveva spesso dimenticato quanto diventava logorroico, quando si trattava di renderla colei che tutto illumina al suo passaggio, nei suoi discorsi di ragazzino terribilmente cotto della sua migliore amica – la vedeva con quella simpatia che nessuno poteva negarle; scoprirla, dunque, vittima laterale di una tragedia tanto atroce, diede al ragazzo la sensazione di una secchiata gelida a ricoprire di brividi la sua pelle.
“Non posso rimanere al telefono ancora per molto, Yuto” no, non era il tempo esatto per tremare come un coniglio. Il suo amico non ci avrebbe guadagnato nulla da un moccioso pavido della sua stessa ombra “Dammi degli ordini. Cosa devo fare? Cosa devo evitare?”
“Assicurati solo che Yuya non corra alcun pericolo” rispose lapidario l’altro, la voce risuonante distorta dall’ansia “Non deve avvicinarsi troppo agli Akaba, e soprattutto non permettere che ella metta piede nel laboratorio. Non deve assolutamente entrarci!”
“Perché?”
“Perché da scienziata, temo che presto diventi lei stessa una cavia da laboratorio... e dovranno passare sul mio cadavere, prima di permettersi di farle del male! Devo portarla via da lì”
“E io ti aiuterò” rispose prontamente Shun “Come ho sempre fatto. Conta su di me, amico mio”
 
E lo aveva fatto. Mettendo in gioco il suo futuro, la sua carriera, il suo rapporto con Reiji, la sua fiducia e la fiducia nei colleghi. Dare alle cose il loro giusto grado di importanza non significava valutarle al meglio delle proprie capacità, ma essere in grado di operare le giuste scelte in un vasto assembramento di possibilità; lui aveva semplicemente messo al centro del suo grado di operosità Yuto, e tutto quello che in passato lui aveva rappresentato. Non temeva per Ruri, confidava nei suoi parenti abbastanza da sapere che nessuno l’avrebbe sfiorata senza incorrere nell’ira divina di zio Tsuyoshi; per quanto riguardava lui, era certo di quello che faceva, e tale certezza gli dava anche la forza di affrontare le dovute conseguenze dinanzi agli altri, fossero state addirittura fisiche o penali. Shun era forte  - e lo era anche dal punto di vista altrui – perché sapeva affidare la propria vita nelle mani altrui senza temere di venir stritolato dalla sua eccessiva fiducia; era, questo suo modo di fare, un attento modo per valutare gli altri e comprendere con chi davvero doveva condividere i suoi spazi, chi si rendeva degno di questa sua fiducia e chi invece doveva estromettersi all’istante dalla sua vita. Un tempo, nella sfiducia generale che il mondo aveva suscitato in lui, nell’amarezza che si era espansa nel suo cuore alla fine prematura dei suoi genitori, non avrebbe mai accettato una simile filosofia di vita, e davvero in quei giorni il concetto di fiducia si spiegava nel semplice vocabolo sciolto da ogni  umana dimostrazione o forza; aveva riacquistato tanto coraggio solo con Ruri, con i suoi nuovi familiari, e soprattutto con Yuto e la sua tenacia.
E lui doveva lasciar fiorire quel sentimento di gratitudine che sgorgava da un cuore apparentemente piatto e incapace delle sue dovute emozioni – una maschera che gli altri avevano affibbiato e che erano soliti affibbiare a chiunque non rendesse palese la sua felicità e la sua dannazione -; anche lasciando entrare quel suo caro amico di straforo nella villa Akaba, anche indicandogli la via per raggiungere Yuya, anche suggerendogli la giusta discrezione al fine di evitare le fastidiose telecamere. Lo faceva per se, per Yuto e perfino per Yuya, per quella ragazza dal sorriso sempre spontaneo e dai modi che tanto gli ricordavano la lontana Ruri.
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 Erano quella cosa che non sarebbe mai dovuta esistere ***


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Questo capitolo lo dedico a KH4
mia Sempai,
mia musa ispiratrice,
mia fida alleata
e, soprattutto,
mia preziosa amica

 

“Aspetta, Yuto! Te l’ho detto, io non voglio andarmene. Voglio rimanere qui, voglio aiutare gli altri...”
Il braccio di Yuto fu vittima di una morsa feroce, ma che nascondeva e parlava di mestizia. Gli occhi di Yuya scandagliavano l’argento per chiarire ogni eventuale malinteso circa le sue intenzioni bellicose, e in essi la tempesta non fornì altra spiegazione se non quella già avvertibile come evidente. Era lui stesso vento di bufera, aveva deciso lui di divenir tale e di trasformarla nella vittima designata. Lo aveva detto, Yuto, di fermarlo dal ferirla ancora. Era esattamente quello che Yuya tentava di fare.
“Yuya, tu sei... la donna più generosa che io abbia mai conosciuto. Salveresti il mondo, se ne avessi la forza, e non chiederesti nulla in cambio. Io lo so bene, ti ho vista crescere e, sebbene gli ultimi avvenimenti ci hanno visti distanti, io so chi sei e cosa vuoi. Per questo non dubito dei tuoi desideri, né della tua volontà. Non sei tu colei che dà incertezze, ma coloro che ti circondano”
“Akaba Reiji non mi farebbe mai del male...”
“E infatti io non parlo di Akaba Reiji”
Lo aveva pregato, per un fermarsi repentino delle sue azioni, e in quel frangente egli la accontentò asserragliandosi su di lei, le mani poste sulle sue spalle, libere da ogni suo controllo e memori di un calore che adesso non poteva più appartenergli. Era per lei, Yuto, che aveva scagliato via ogni suo destino, e per lei colmava il rischio di studiati calcoli al fine di non divenir ladro o boicottatore. Yuto era lì per lei, sogno divenuto reale dopo averlo espresso al chiarore di stelle ormai divenute cenere, e le parlava con un sentimento di animoso sospetto che gelava il sangue; tuttavia, in un viso che scoperchiava ogni suo sentimento, ella vi vide una certezza, e l’angoscia fusasi al terrore le parlavano di un ragazzo reso consapevole di quanto succedutole, degli strani quanto orribili patimenti subiti per colpa di un uomo che non si era fatto scrupolo a sfruttarne le più umane debolezze, e quindi pronto a venirle incontro per strapparla ad un torpore che rischiava di annichilirla. Era lo stesso ragazzo che, anni addietro, le confidava di amici segreti al quale lei stentava a credere, e che in quei frangenti tanto le apparve cresciuto da stentare a riconoscerlo.
Quel ragazzo, che un tempo cercava timidamente la sua compagnia senza comprendere di poterla avere senza chiedere, era ora un uomo investitosi del titolo di cavaliere al solo fine di salvarla.
“Leo Akaba... lui voleva il mio sangue... voleva salvare delle vite, farlo in nome di sua figlia. Odialo, ma non fargli del male”
“Non scenderei mai al suo livello” parlava lui, rivestito di saggezza “Ma è in inganno, se crede che il tuo sangue sia la medicina alla peste”
Lo aveva ripetuto, e con quella sicurezza che uccideva il dubbio. Indietreggiando, e venendo  incontro ad un muro rivestito di trasparenza, ella ebbe timore di lui, pur nell’amore cieco che gli cuciva addosso, perché timore era il descriversi di un sentimento che traduceva l’inganno di una soluzione creduta corretta.
“Ma quel ragazzo, Eisuke, è guarito. Non sarebbe mai sopravvissuto alla peste, eppure è vivo, adesso, e si sta rimettendo. Tu non lo hai visto...”
“E tu non hai visto ciò che ho visto io, Yuya” ancora a lei vicino, ancora colmo di verità non dette, continuava a renderla partecipe di un gioco di sguardi al quale lei non riusciva a sottrarsi “Ascoltami, Yuya... quell’uomo, Leo Akaba... non va sottovalutato. Non lo conosco, ma se ha fatto tutto questo per portarti qui, da lui, allora è venuto sicuramente a conoscenza di tutto. Non è il tuo sangue ciò che vuole, perché anche lui è cosciente che non è solo questo che può salvare la vita dei  malati”
“Vuol dire che le nostre ricerche... sono inutili?”
“E chi vi ha messo su questa pista, Yuya? Chi vi ha indotto a credere che la cura era nel tuo sangue?”
Akaba Reiji viveva per vincere una sfida intrapresa con la morte stessa. Il suo laboratorio era l’armamentario col quale si bardava per scendere in guerra, e i suoi uomini gli fornivano armi che, di volta in volta, cambiavano nome e aspetto per concedergli ulteriori speranze. L’ultima da lui indossata gli era stata effettivamente offerta dall’uomo che ne aveva tradito le attese, e nella sua forma grezza lui aveva speso tempo e fatica per farle raggiungere uno stadio di perfezione. Ma era una certezza che questo tale, Eisuke, aveva immesso nelle loro menti così come Leo Akaba aveva convinto loro che egli si fosse salvato soltanto per merito suo.
“Però... i pazienti in stato terminale sono stati trattati col mio sangue, e adesso stanno meglio! Non può essere una fantasia, questa!”
“E infatti non lo è. Questa è una sfida. Meglio, un guanto di sfida, lanciato nei confronti dell’artefice di tutto questo”
Per anni, almeno dall’inizio di quella pestilenza, l’unico ritenuto reo di quella immonda disgrazia era stato il padreterno, e nessuno aveva mai posto altri nomi capaci di togliere a quel Dio infame l’immane colpa di aver lasciato il suo gregge a morire tra atroci sofferenze. Non sarebbe dovuto esistere un uno umano capace di accaparrarsi simile colpa, perché nessun umano vivente possedeva una forza tale da travalicare il regno degli dei. O no?
“Yuto, io non capisco!” esclamò lei, disperata “Parli per enigmi, prendi le mie certezze e le rimpiazzi con dubbi a cui non riesco a trovare una risposta! Perché fai questo? Perché sei qui?”
“Perché ti amo, Yuya”
E le sue labbra furono carpite, rubate da quelle di lui, arse da un desiderio ormai divenuto irrefrenabile. Yuya non vide che la sua pelle ambrata divenir bollente, le sue mani cercare le sue, il suo cuore esplodere in una girandola di sentimenti indecifrabili, e saettare in stille di gioia che mai avrebbe pensato di conoscere. Il mondo si assottigliò alla loro mera esistenza, al contatto delle loro labbra, al calore di lacrime lasciate sgusciar fuori per parlare ancora, araldi di un sentimento che ella nemmeno sapeva di avere.
E Yuto, in quel frangente, scoprì che il mondo poteva anche conoscere la sua immediata fine, che le stelle potevano esplodere a lui innanzi, che la volta celeste poteva crollargli addosso... e per lui non avrebbe mai avuto l’ugual importanza di render vero il sogno che mai aveva voluto tradurre in realtà. Non esistevano parole in grado di descrivere il coraggio che lo aveva avvicinato a colei che più ambiva, e forse perché non si parlava di coraggio quanto di scelleratezza, di un colmarsi di sentimenti che avevano conosciuto la loro saturazione.
Cos’era la fuga, quando il sapore di lei finalmente conosceva le sue labbra? Quando finalmente poté carpire il suo viso in un lento scivolare di dita atte a conquistare il più miserrimo dettaglio di quella fine porcellana? Quando la seta dei suoi capelli andò a infrangersi sulle sue dita?
E quando sentì lei contraccambiare il suo amore?
Yuya non ricordò più chi ella fosse. Ritornò bimba, quando il mondo era nella piccola mano che stringeva con forza e nella zazzera di nera tempesta che amava tanto scompigliare. Si riconobbe nei sogni che narrava all’amico di sempre e nella ragazza che, crescendo, cominciò a desiderare un futuro con l’unico uomo – ad eccezione di suo padre – del quale aveva piena fiducia.
Dimenticò Akaba Reiji, la ricerca, il vile inganno di Leo Akaba, il lavoro febbrile lasciato in sospeso, e quell’ultimo congedo che le aveva ghiacciato le speranze; dimenticò la confusione, il dubbio, la scia di domande che Yuto aveva portato col suo arrivo burrascoso, e con esso anche i numerosi tentennamenti che avevano ostacolato il suo annuire lieto, ostracizzando i suoi desideri passati e i suoi sentimenti più profondi. Nemmeno il sorriso amorevole di Reira, o la gentilezza di Himika divennero un’ancora sufficientemente pesante per legarla al suolo; viveva di quel bacio, di quei respiri mozzati che si smorzavano in schiocchi addolciti di passione, e di quel contatto che inebriava i sensi e ridefiniva i suoi stessi confini. Divenne la Yuya che Yuto aveva amato nel profondo, e divenne la ragazza che aveva la chiave del suo cuore, stretta nella stessa mano nella quale stringeva ciò che apriva i cancelli del suo. Erano quella cosa sola che in quel frangente, in quel pericolo e in quel mistero non sarebbero mai dovuti esistere.
Imbevuti entrambi dei loro stessi respiri, ossigeno l’uno dell’altra, rapitori e rapiti dei loro sguardi, lasciarono al tempo l’inutilità di segnare il loro momento, ignari del suo scorrere e delle sue leggi. Magia, l’unico termine in grado di decifrare quel vibrare che nasceva dal cuore, che rendeva assuefatti di una tripudio gioioso immortale perfino alla peste stesse. E, da quella bolla unicamente loro, unicamente intessuta d’amore e di rosee speranze e certezze, loro non vollero uscire.
“Sei tu la cosa a cui tengo di più, Yuya” fu il sussurro di Yuto, un ansito in cui ella si perse “Ti amo, ti ho sempre amata e ti amerò sempre. Non permetterò a nessuno di farti del male, di ferirti... nessuno ti porterà via da me. Nemmeno lui”
“Lui...?”
E la magia ebbe termine. Con lui.
“Ti riferisci forse a me?”
Non ci fu nulla ad annunciare il nuovo ospite. Lo spiraglio di una porta lasciata aperta, le finestre lasciate scoperte allo sguardo altrui, un giaciglio segreto del quale nemmeno lei era a conoscenza.
Nemmeno lo vide, Yuya, perché l’oscurità più nera dominava proprio quell’angolo di stanza nel quale lo sconosciuto aveva deciso di pernottare.
E lui venne fuori. Vestito di un lacero tessuto bianco come sola difesa al freddo di una sera infelice di calore, mosse i suoi passi nella loro direzione, l’indifferenza a non renderlo partecipe del loro terrore.
“Tu sei... Eisuke?!”
Nemmeno lo avrebbe riconosciuto, ella, se non fosse intervenuto in suo aiuto l’ottima memoria da sempre resa orgoglio dei les enfant terrible. Non vi si ritrovava nulla, del moribondo lasciato alle cure delle macchine, del giovane che ancora stentava a riaprire gli occhi, del primo miracolo a cui lei avesse mai assistito. La pelle diafana appariva semplicemente come un tratto caratteriale, come neutri apparvero quei capelli candidi che lei aveva erroneamente ricollegato ad una qualche sofferenza indicibile; non era più lo scheletro rivestito di un tessuto membranoso, e il suo sangue dava linfa ai suoi passi e alla sua baldanza. Del paziente che ella aveva conosciuto come Eisuke, non rimaneva più nulla.
“Non credere che io non apprezzi ciò che hai fatto, cavaliere” e lo disse in un incedere che lo rese più palese, più umano, più vivo “So bene che non era tuo intento adirarmi. Io so riconoscere la verità, quando la vedo”
Il dorato delle sue iridi sfavillava di luci tenebrose, e Yuya troppo tardi si rese conto che in esso doveva celarsi un vero maleficio. La sua mente, quasi ipnotizzata dal tono suadente di lui, nemmeno conobbe il momento di un crollo imminente, e le palpebre si fecero pesanti negli stessi istanti in cui Yuto provò a raggiungere la misteriosa figura.
Non comprese, Yuya, di stare per svenire. Non comprese nulla, perché nei pochi istanti passati assieme a Yuto ella aveva solo accresciuto le sue domande, e in esse non vi aveva trovato alcuna delucidazione. Quasi fosse un gioco di deduzioni.
“Aspetta, ti supplico... Zarc...” fu l’ultima cosa che ella sentì.
 

 

 

 

 

Tantissimi auguri di Buona Pasqua!

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Le regole del gioco ***


Yuya Sakaki ebbe il peggior risveglio che il mondo le avesse mai concesso. E lei aveva vissuto le prime albe da orfana, quelle in cui Leo Akaba si abbassava al livello di un vampiro per comprovare la sua superiorità alla Peste. Non conosceva gli effetti devastanti dell’alcool, lei – non aveva bisogno di simili intrugli per rovinarsi una vita che aveva il provvidenziale privilegio di non necessitare alcun aiuto nel merito del male – ma non dubitò che quella morsa d’acciaio avvinta alle sue tempie e quella nausea che non le dava occasione di lasciare il letto su cui era stesa – un movimento brusco e il suo stomaco riceveva il la per un valzer scatenato – potesse facilmente rassomigliare alla famigerata sensazione post-sbronza che aveva adocchiato in un paio di romanzi indecenti che il padre aveva avuto il coraggio di offrirle – romanzi rosa per incoraggiare quel suo lato femminile ucciso dal camice, e che provocava la pena per le numerose protagoniste costrette ad aspettare il principe azzurro per essere salvate.
Ma forse, in fondo al suo cuore, un po’ doveva ammettere di avere le loro medesime colpe. Quella calda gratitudine che le illuminava il sorriso nello scorgere l’ombra di Yuto china su di lei, nasceva dalla irrazionale convinzione di essere in un luogo sicuro, tra braccia amiche che avevano disvelato un sentimento più profondo, che le avevano concesso di conoscere cosa ci fosse al di sopra dell’amicizia.
Yuya Sakaki era digiuna dell’amore, perché i romanzi erano terribilmente fuorvianti, e perché la più vicina manifestazione rintracciabile si era estinta all’età di quattro anni, quando sua madre gli aveva lasciati per volere di un affetto celeste. Parlando di Yuto, di colui che l’aveva sempre coccolata sotto il perenne cruccio inespressivo che lo rendevano così particolare, avrebbe descritto forse di un fratello, di un amico prezioso che la divina provvidenza aveva avuto la grazia di donarle, forse pentita di tutti i mali che le sarebbero piovuti addosso di lì a pochi anni.
Ma ieri sera non mi ha baciata come un fratello.
Arrossiva, lei, al ricordo delle labbra di lui premute sulle sue, gentili in carezze ardenti che le avevano accelerato i battiti del cuore fino a rendere il suo cuore stanco del suo lavoro. E le avrebbe gradite ancora, come ambrosia estatica giunta tra le sue mani dopo secoli di ombroso digiuno. Voleva avere ancora il sapore di Yuto sulle sue labbra, le sue mani congiunte alle sue, lo sguardo di vivo argento a desiderarla davvero, a trovarla bella, a chiamarla senza alcuna invocazione.
Volle bearsi nell’oro capitatole tra le mani senza preavviso, senza spiegazione alcuna sui perché lo vedevano in un luogo tanto alieno, gioire di colui che l’accoglieva sempre senza pretendere da lei null’altro se non un sorriso, una piega delle labbra che però evidenziasse la sua gioia, e la sua possibilità a continuare in un’ardita dichiarazione attesa per chissà quanto tempo.
Volle qualcuno che non la gelasse con l’indifferenza, che non si rendesse un enigma tanto indecifrabile, imprendibile nella sua eterna imprevedibilità.
Volle qualcuno che non doveva essere Reiji Akaba
 
Quanto aveva atteso l’arrivo di un simile giorno? Quanto aveva agognato quell’adorabile rossore, quegli occhi rivolti a lui con consapevolezza? Un’idiota, ecco cos’era, nei suoi dubbi e nella sua codardia. Dava solo molta rabbia, il pensiero dei mille momenti che non avevano condiviso, perché su piani ancora troppo lontani per scambiarsi semplici e complici effusioni. E non era bene volgere lo sguardo a tutte quelle sue mancate dichiarazioni, a quei dì dove la verità del suo cuore era ad un passo dal conoscere la sua vera voce e poi... semplicemente aveva lasciato correre l’attimo, permettendole di scappare nell’ignavia che avrebbe restituito giustizia ai suoi sentimenti silenti.
Era però prendersi in giro, chiamarsi irato con se stesso; Yuto, nel candore della sua più stellata felicità, non aveva alcun potere per sentire il negativo della vita. Tanto meno il pericolo nel quale ancora versavano.
“Va tutto bene?” lo bisbigliò nell’orecchio, donandole il piacevole tepore del suo respiro ad un passo dal suo lobo.
“In realtà non molto” ma rise, anche lei salva da ogni avversità, che fosse di natura mnestica o fisica “Ho come la sensazione di aver fatto un lavaggio a secco in lavatrice”
Yuto rise di gusto, mentre con la mano le sfiorava le ciocche smeraldine di una chioma sbarazzina, invadenti nel loro blando tentativo di nascondere il cremisi tanto amato.
“Non ti preoccupare. Adesso ci sono qui io”
Nessuno ti farà più del male. Era giunto sin lì, il moro, con l’ansia travestita da giudizioso pensiero e la paura come sua inseparabile amante. Li aveva visti congiungere le forze per minare la sua autostima, la fede custodita per le sue capacità, il coraggio per andare incontro ad una missione forse più grande di lui.
Forse per affrontare qualcuno più grande di lui.
“Qualcuno verrà da voi tra non molto per condurvi lontano da qui. Lasciala riposare e... lascia a me il tempo di risolvere una faccenduola”
Scoprire dell’esistenza di Zarc era stato l’equivalente di una scossa di magnitudo eccessiva, realistica nel demolire con risibile forza la torre su cui poggiavano tutte le sue certezze. E questo, più delle decisioni della sorte, più delle minacce che incombevano su di lui e su Yuya, lo aveva atterrito.
Ma ora, con quel bacio a suggellare il suo sogno di fanciullo, con quella gioia che sapeva condivisa, sentiva di avere ciò che serviva per uscirne vincitore.
E, per giunta, aveva l’appoggio di Zarc.
“Dormi, mia cara Yuya. Hai bisogno di riposo”
Ed era vero. Lui aveva consigliato di garantire un sonno quanto più duraturo possibile, perché quello che non doveva avvenire era invece accaduto. Un consiglio che aveva accolto con consapevolezza e dedizione, assieme al suo secondo ordine.
Lei non deve sapere di me.
 
Jean Michel Roger ambiva al denaro e puntava al potere per un guadagno ulteriore. Meschino e calcolatore, era stato un’abile stratega, un becchino del malaugurio e, a tempo perso, uno spregiudicato finanziere. Viveva nella parossistica convinzione degli utili, e stringeva strenuamente la sciocca idea di essere il maggior dignitario della più grande autorevolezza in quel mondo nel degrado.
Era stato tutto questo, Roger, ma Akaba non seppe mai dire se il vederlo così agonizzante, per terra, fosse davvero una cosa di cui gioire. Oltre le apparenze, era comunque l’uomo che aveva reso possibile l’ottenimento della sua più oscura verità, era colui che gli aveva indicato  una via quando Ray lo aveva abbandonato definitivamente...
Per lui, Zarc aveva scelto una fine ingloriosa e anonima, segnata da attimi di spasmodica sofferenza a cui aveva assistito in modo assente. Lo aveva lasciato avvicinare nel tempo sufficiente a squadrarlo con le sue iridi di aureo splendore, e quando lo aveva ritenuto più opportuno gli aveva ordinato di morire. No, non era un modo comico o semplicistico per rendere il fatalistico evento abbattutosi nel suo ufficio in quei miseri e stupidi secondi. Aveva pronunciato il suo desiderio con arroganza – e anche con un certo moto di stizza – e infine gli aveva rivolto le spalle quando lo aveva visto accasciarsi al suolo, non degnandolo più di uno sguardo nemmeno quando egli, disperato, aveva afferrato il lembo del suo pantalone – l’anonimo grigio che indossavano tutti i pazienti – per mimare la sua patetica richiesta di aiuto. Mimare, perché nel suo volere Zarc aveva semplicemente impedito ai polmoni dell’uomo di alimentarsi della loro essenza vitale, ed egli era spirato come se lo avessero seppellito vivo in una delle sue tombe.
Leo Akaba lo aveva fissato con allibito terrore. Sapeva di lui come di un paziente un tempo moribondo, salvato dalla dannazione per merito del sangue della ragazza. Era poco più di una cavia e poco meno di un uomo, i cui tratti volitivi erano stati avvolti dall’oblio nell’istante successivo trascorso fuori dalla stanza delle sperimentazioni.
Quella volta, aveva lasciato indietro un essere dal pallore cadaverico, privo di una muscolatura che desse alla pelle altro sostegno che non fossero le ossa, gli zigomi sporgenti e i capelli tanto candidi da sembrare incanutiti per il profondo dolore – cosa nemmeno tanto rara, nel loro sofferente mondo.
L’Eisuke che adesso aveva innanzi aveva invece un aspetto vigoroso, una muscolatura scolpita e ben messa in evidenza dall’aderente maglia nera che gli altri pazienti, al suo posto, rendevano pure troppo slabbrata su un fisico sempre più deperito, e ciò che aveva preso come un simbolo di vecchiaia e debolezza ora gli apparve nella fiera esemplarità di un caso eccezionale ma non raro, certamente sinonimo di una serie di necessità che non facevano testo ad un morbo insidioso. Lo sguardo sprezzante che gli rivolse si tinse delle cupe ombra della derisione soltanto per i frangenti in cui aveva deciso di concedergli la visione del suo viso. Poi, con fare colmo di alterigia, specchiò se stesso nella vetrata che faceva da sfondo all’unica parete dell’ufficio posta al pubblico dominio, vittima di un sole decisamente vivace che lavorava indefessamente anche quando gli umano evitavano il suo dominio.
“Immagino che tu sappia perché sono qui. D’altronde, sei stato tu a chiamarmi”
Leo Akaba gli sentì dire solo quelle parole, ma ogni dubbio venne a sciogliersi quando vide rigida furia nei palmi delle mani lasciati liberi di esplorare lo specchio del mondo in degrado. Vi si appoggio quasi stancamente, quasi volesse rimirare, con suo disgustoso gaudio, l’opera immonda portata avanti.
“E io che stavo per intraprendere un viaggio, al solo scopo di cercarti. Chi lo avrebbe mai detto che eri già qui, invece? Mi è concesso ringraziarti del disturbo o devo sentirmi intimorito dinanzi alla tua presenza?”
Zarc non diede segno di aver percepito la derisione del suo finale. Limitato ad una circospezione che lui stesso aveva scelto per se, obnubilava lo sguardo ad un altrove che sapeva individuare lui soltanto, un punto preciso dell’orizzonte che ricercava con l’occhio dorato a cristallizzare ogni dettaglio a lui utile.
“Non sono uno che da molto peso alle morti che causa, ma ho il dovere naturale di non accelerare nulla che non sia già scritto nel destino. E tu sei un grandissimo bastardo, perché ti sei premurato di assumere l’unico antidoto esistente in grado di uccidere la peste. Ogni incoraggiamento da parte dei morbi che infestano l’atmosfera terrestre è inutile”
Fu nell’attimo successivo a quell’affermazione che concluse una cerca di esito incerto e di dubbia utilità, accomodandosi con vaga soddisfazione sulla poltrona che accompagnava il regno dello scienziato – d’altronde l’unico oggetto utile a offrire comodità in un nulla amato proprio per la sua vacuità.
Per ciò che aveva da rappresentare, simile ammissione comportava moti di gioia da non dover nemmeno trattenere, gli eventuali sorrisi ad irritare chi aveva da ritenersi offeso della sua grossolana gioia e dunque ammirare soddisfatto gli effetti della sua astuzia. Nell’altro contesto, però, quello che lo volevano un razionale teorico con i piedi ben piantati al suolo, non mancò di notare che la forma data alle medesime parole frutto della sua gioia erano statiche, prive di ogni altro sentimento che non fosse la mera meccanicità di un atto locutorio, una stasi che non avrebbe nemmeno riservato ad un subordinato.
Zarc ammetteva la sua impotenza, dunque, ma non ne sembrava intimorito.
“Quindi alla fine non era errata l’intuizione della trasmissione aerea? Ammetto di aver deriso molti che lo affermavano”
Invero  nemmeno lui sapeva quale guadagno ricavare da stupide disquisizioni di bassa categoria. Zarc aveva almeno dalla sua l’effetto sorpresa, l’averlo colto in un frangente che nemmeno lo vedevano come bersaglio di un pensiero, dove nessuna arma era stata affilata e non uno scudo messo a guardia della sua persona. Il suo unico piedistallo erano quelle contromisure prese anzitempo, e a cui rivolse tutte le sue benedizioni. 
Perché Leo Akaba, se doveva aver fede in qualcosa, predicava soltanto la sua genialità. Nessuno Dio udì alcuna preghiera in merito alla liberazione di quello che era l’immagine demoniaca di una tentazione; e fu un male, quel suo perseverare nelle sue blande sicurezze, perché avrebbe avuto altrimenti modo di difendersi dal nemico che aveva cercato di distruggere.
Il male sotto forma di amore.
“Perché non la smettiamo di prenderci in giro?”
Lo aveva costruito Ray, quel fermacarte a forma di lillà, con pezzi di scarto da un suo personale laboratorio di carte e cartoni. Aveva avuto cinque anni, e quella armoniosa brillantezza era rimasta l’unica nota stonata di uno studio altrimenti rigido nella sua assenza di personalità, segnato dalla scrivania di vetro sul quale il peso maggiore era soltanto il gomito del ragazzo, mollemente appoggiato al palmo della sua mano con fare meditabondo.
“D’accordo” proruppe Leo “Ma cosa ci guadagno a dire che la persona che ha dato origine alla peste sei proprio tu?”
Ridendo – e questa volta le sue labbra erano davvero libere di esprimere un moto di ilarità sincera – Zarc fu preso dal desiderio di accomodarsi maggiormente su una spalliera di spugnosa morbidezza, dando prova di infantili desideri nel lasciarla girare sul suo stesso asse, come faceva sempre Reiji quando, a dodici anni, lo raggiungeva di soppiatto per chiedere chiarimenti in merito ad un difficile quesito.
“Ho detto che voglio smetterla di scherzare, Leo Akaba. Quindi non farlo. Non ti conviene”
Il fermacarte ancora prigioniero nelle sue mani, l’uomo continuo il suo nuovo gioco, lasciando al suo magnetico sguardo il compito di fulminarlo ad attimi sfuggenti.
“E infatti non lo sto facendo”
“Ah, no? Io direi il contrario” chiosò l’altro “Secondo il mio punto di vista, anche tu sei consapevole del fatto che io sono solo il proiettile che ha ucciso, ma che il grilletto lo ha premuto qualcun altro. E sai di chi parlo, visto che sua figlia ora è qui
Leo strinse i pugni, mentre un moto di rabbia investiva la sua persona soltanto nella residua immagine del suo vecchio amico. Di colui che invece doveva essere ricordato come il più grande traditore della storia. Di colui che aveva appena appreso la sua colpevolezza in atti che aveva solo ricostruito con la sua logica.
“Perdonami se non ne sapevo nulla di esoterismo, quindi era un mio personale parere che la colpa fosse di entrambi a pari merito. A pensarci bene” e lo aggiunse in un sogghigno “nemmeno quello che hai detto ora mi sta facendo cambiare idea”
Zarc, i piedi puntati al suolo per immobilizzare quell’irruento moto rotatorio, fece spallucce, le iridi di oro liquido segnate da un’indifferenza che feriva l’amor proprio.
“Perdonami se il tuo personale giudizio non condiziona minimamente il mio umore” affermò infatti “Di certo non sono qui perché voglio che tu mi creda innocente. In fondo, da un punto di vista oggettivo, non lo sono”
“E allora perché ti sei preso questo disturbo? Per umiliarmi in qualche modo?”
“Quasi”
Alzatosi dalla sedia, l’uomo si avvicinò alla porta che lo aveva precedentemente accolto, la vicinanza ottimale per chiamare il passo successivo quello necessario per attivare i sensori di movimento, e dunque smuoverne le pareti metalliche per rendere accessibile i corridoi del laboratorio.
“Vedi, non mi piace quando qualcuno bara al gioco che io progetto. Mie sono le regole, mia è la facoltà di escludere chi voglio dal campo. Tu, Leo Akaba, stai diventando fastidioso”
Fu difficile, per l’uomo, mantenere quell’autocontrollo necessario per non fiondarsi su di lui e strangolarlo con le sue stesse mani. Non aveva ragioni per dubitare della sua forza, e si chiamava invincibile per quella strategia che lo voleva invulnerabile al suo nefasto dono, ma fu il suo io scientifico a pretendere una calma non sua, una dignità che non uccidesse la ratio con atti degni di una bestia
“Quindi tu vorresti che io rimanga qui, immobile, ad osservare la popolazione tutta mentre muore miseramente?” urlò, misurando le parole nei denti stretti dalla rabbia.
“No. Il mio è un labirinto, di quelli dove trovare l’uscita è cosa ardua, ma non impossibile. Cercare la soluzione partendo dalla fine non è permesso, ed io sono qui per impedirti di farlo”
“Quindi sei venuto solo per mettermi sull’attenti, non è così?”
Il sorriso che si dipinse sul viso del ragazzo aveva solo  un utile aggettivo. Mefistofelico.
“Sono qui anche per prometterti che, se troverai questa soluzione, io ti donerò colei che per te significa tanto. Anzi, direi tutto, visto che la vendetta è l’unica cosa che ti muove”
A quelle parole, l’uomo sbiancò. Perché nella sua mente aveva fatto capolino un pensiero sbagliato, ma profondamente invitante. Il pensiero della tentazione.
“Esatto, Leo Akaba. Tu trova ciò che eliminerà la peste da questo mondo e io ti prometto che ridonerò la vita a chi ti sta tanto a cuore... Ray Akaba”
 
In quel frangente, nascosto nelle viscere di un nero voluto da luci mal posizionate in un corridoio comunque unidirezionale, Reiji Akaba ascoltò tutto ciò che ebbe il dono di vestirsi come rivelazione. Con pareti che non avevano il dono del silenzio, accolse tra le sue mani indizi mai sperati, e li strinse al petto consapevole di un dato importantissimo.
Aveva  un vantaggio, ora. Conosceva, sebbene non molto – e non peccava dell’ingenua convinzione di sapere tutto semplicemente chiedendo – i retroscena di una storia sanguinaria. E nessuno di coloro che l’avevano rivelata ne era consapevole.
 

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - E la Folgore non si era ancora abbattuta al suolo ***


Crow Hogan non riconobbe quel Reiji Akaba che invase il suo campo visivo, non rinvenne l'algido caporale hitleriano nei tratti distorti da un sentimento che agiva come macchia conturbante su un viso abituato ad apparire come neutrale. Akaba Junior sembrava appena uscito da una tempesta, e nell'assurdo di un'immagine retorica che solitamente veniva accostata a lui stesso, lo scienziato pensò quasi che l'uomo vi volesse tornare indietro, le mani ad afferrare i venti ciclopici solo per scoprirsi più inumano di quanto già non fosse.
A fissarlo, mentre attraversava il corridoio per entrare nella sua stanza, il giovane sentì l'inquietudine assalirlo; non che esistesse una versione di Reiji appartenente alla macroarea del buon umore, ma vederlo tanto iroso con un qualcosa che aveva scardinato dalle sue fondamenta la maschera di impassibilità che era solito portare con indifferenza lo rese timoroso, perché nessuno aveva mai davvero sperimentato cosa poteva davvero succedere quando si consegnava un quintale di tritolo nelle mani di un Akaba furioso.
"Ecco, io non so come sia successo..."
Tentativo patetico di iniziare una confessione che avrebbe volentieri distrutto sul nascere. Che poteva distruggere lui sul nascere.
Non dubitava che egli fosse novellatore di cattive nuove, perché la guardia che gli aveva comunicato il tutto aveva mostrato garanzia e serietà nel disporsi come primo intermediario tra lui e una delle situazioni più bizzarre e ingestibili dell'intera zona in quarantena. C'era anzi da maledire il fato e la sua proverbiale sfortuna, perché quello che doveva essere il primo uditore non aveva avuto la facoltà di essere immediatamente raggiungibile - e Reiji Akaba che non rimane fisso scrutatore del suo cercapersone non era un normale esemplare di Reiji Akaba - e quindi era toccato a lui l'onere di portarsi dietro quella patata bollente. A cercare pure uno con cui prendersela finiva solo per fare la figura dello scemo, perché era del mondo scientifico dubitare in modo tanto esacerbato ogni forma di divinità non spiegabile empiricamente.
E anche a comportarsi in modo così irrazionale lui rimaneva lì, fisso scopritore delle immani tragedie che capitano a coloro che pestano la coda ad un cane già furente con l'universo mondo.
"Dimmi solo una cosa, quello che è successo merita la mia attenzione in questo preciso istante?"
Gli occhi di zaffiro conobbero lo stupore, mentre fissavano cupe ametiste cariche di statica elettricità. Era necessario? Certo che lo era, perché in anni di indefesso lavoro lui non aveva mai, e si sottolinei il mai, incontrato un evento eccezionale. Perché chiunque si sdraiava sui loro asettici lettini mai riusciva ad alzarsi, non con le sue forze e non senza l'accompagnamento di una cassa di mogano fornita da Jean Micheal Roger.
"Credo di si, perché..."
"Credi o ne sei sicuro?"
Nuovo stupore, dettato dal fatto che mai, mai Reiji Akaba aveva fermato un suo sottoposto nel mezzo di una sua spiegazione. Lui era quello che ti fissava con sguardo indecifrabile, il mento appoggiato alle mani giunte, dietro una scrivania colma di rapporti già letti e revisionati. Mai, mai una volta aveva posto innanzi una sua necessità di tempo, perché aveva capito che si chiamava persa qualsiasi informazione non riportata puntualmente.
Chi diavolo era quell'uomo che si spacciava per il suo capo?
"Posso dire che è rilevante, ma..."
"Qualsiasi cosa sia, relegalo a chiunque possa darti una mano. Adesso ho bisogno del tuo aiuto. Devo immediatamente cercare Sakaki Yuya"
 
***
 
"Sei ancora qui?!"
Yuto sobbalzò malamente, quando la voce del suo migliore amico invase la stanza nel quale ancora attendeva con impaziente livore. Ebbe timore di aver svegliato la sua amata, ancora vittima dei poteri di Morfeo, ma la mano fremente non colse il senso di panico che gli era venuto incontro, e il respiro regolare di lei tolse ogni dubbio circa l'agire convulso dei suoi nervi a pezzi.
"Perché non urli un altro po'? Credo che Leo Akaba non ti abbia sentito" gli disse quindi il moro, piccato. La voce era solo uno sbuffo di vento in una notte di tempesta, ma la carica negativa del suo timore la convertì in giusto rimprovero da fornire a chi per primo doveva essere cosciente dei pericoli che correva.
"Allora datti una mossa e vattene! Si può sapere perché stai ancora qui come un beota?"
Shun Kurosaki non era ancora entrato nella stanza, quando aveva fatto il suo trionfale ingresso, e quei secondi lui li sfruttò per guardarsi intorno e verificare che nessuno avesse davvero deciso di piazzarsi in maniera sicura per seguire con diligenza le sue mosse. Non aveva bisogno di esporsi ancor di più di quanto già avesse fatto, perché dal poco che aveva incominciato a scoprire su quella faccenda aveva capito che non rischiava solo il posto di lavoro, in quell'intrigo, ma forse la sua stessa vita.
"Non posso andarmene adesso" rispose Yuto, semplicemente
"Come no? Ma si può sapere che ti prende? Reiji Akaba a chiamato tutti i suoi collaboratori per una riunione straordinaria, ci vuole tutti nel suo studio e adesso sta cercando Yuya!"
Yuto sapeva bene che Shun non avrebbe mai usato un simile tono su di lui, se la necessità non lo avesse richiesto. Forse, in quelle iridi di oro fuso che lo fissavano con tremore, vi era lo stesso pensiero che aveva appena finito di formulare. Quello delle conseguenze in merito ad un'eventuale tragedia.
Però lui non stava sottovalutando i rischi della sua missione. Semplicemente era cosciente di quello che era il suo posto, il ruolo scelto dal primo burattinaio di quella maledetta storia.
"L'ho visto, Shun. Lui era qui?"
"Di chi stai parlando?" chiese lo scienziato, palesemente stupefatto.
"Penso parli del capo, non è vero?"
La figura che si fece innanzi doveva essere un fantasma. Niente l'aveva annunciata, non un fiato né uno spostamento d'aria capace di dargli consistenza. Nemmeno la porta aveva avuto il coraggio di aprirsi, e con la scarsa luce delle stelle, anche se solo per un secondo, Yuto credette davvero di trovarsi davanti ad una figura ectoplasmatica.
Ma, seppur pallido come un morto, chi si fece avanti dalle ombre della stanza aveva corporeità, una fisicità che si racchiudeva nei tratti efebici di un ragazzino, esile come un giunco ma agguerrito come un soldato. Racchiusa nella buffa divisa dei malati, quella che solitamente non si abbandona se non in punto di morte, li raggiunse con passo leggero, quasi impercettibile, e ancora nulla segnò quell'incedere visibile ai loro occhi, quasi il mondo non riconoscesse nella sua esistenza una giustizia inerente al suono.
"Sei tu la persona di cui mi parlava Zarc?"
Shun, che non aveva nemmeno capito cosa ci facesse lì un suo paziente, quasi trasalì a quel nome, rinvenendo quindi l'identità di quel lui che aveva fatto desistere Yuto alla fuga. Eppure, guardando il suo amico, ebbe il tacito invito a non fare domande, a non porle al ragazzo e a non mostrarsi così eccessivamente sorpreso.
"Il mio nome è Sora" si presentò il piccolo, con un piccolo inchino deferenziale "Sì, è stato lui a dirmi di venirvi a prendere. E mi ha anche riferito che, per qualsiasi cosa, non devi più pronunciare il suo nome davanti a lei"
La falange eburnea del ragazzino indicò quasi con indolenza la figura ancora addormentata, pallida di un malessere che non la lasciava nemmeno nei sogni.
"Va bene, ma... dove dobbiamo andare?"
"Prima di tutto, fuori di qui" disse con decisione Sora "Leo Akaba non è uno che accetta di perdere, ma il mio capo ha fatto in modo di... tenerlo impegnato, con un enigma che terrà a freno le sue mani"
"Quindi la lascerà in pace?" fu l'ingenua domanda di Shun.
"Oh, quando capirà tutto, credo che la cercherà con ancora più affanno" rise il piccolo "Ma temo che non sia questo il momento di parlarne. Tu" e indico lo scienziato ancora stupefatto di quegli avvenimenti "devi essere lo scudiero del cavaliere"
"Lo scudiero?"
"Il tuo compito sarà quello di aiutare il cavaliere a salvare la sua bella" disse deciso il ragazzo dai capelli turchini "Quindi distrarrai l'aiutante del nemico a non scovarla"
"Stiamo parlando di Reiji Akaba?" chiese dubbioso quello
"Si, proprio di lui. Tu, invece" e indi indicò il cavaliere "Mi seguirai per sfuggire da questo triste maniero. Ordini del mio capo"
"Tanto dovevo farlo fin dal principio" disse velocemente il moro.
Il ragazzo sorrise. Tutto sarebbe andato proprio come nei piani del suo dio.
 
***
 
Leo Akaba non era cosciente dello scorrere del tempo; i meandri di riflessione nel quale era immerso richiedevano ai suoi neuroni una totale e indefessa dedizione ad un nucleo tematico tutto rivolto alle sue ricerche, alle sue scoperte e soprattutto alle sue più recenti rivelazioni.
Di Zarc, in fondo, non sapeva assolutamente nulla. Aveva meditato molto sul modo di neutralizzarlo, ma negli effettivi non aveva davvero badato al problema di quella creatura come ad un qualcosa di concreto, di afferrabile con mano. Di eliminabile.
No, il suo nemico era la peste, e in quanto tale quella doveva avere tutte le sue energie. A Zarc, nelle sue visioni, avrebbe solo mostrato l'antidoto scoperto, esibito con sguardo trionfo e un sorriso cattivo a bagnargli le labbra. Quando aveva stretto tra le mani quel sangue puro, cristallino, magico, aveva davvero creduto di essere ormai al capolinea del suo problema; il suo paziente era guarito, quel paziente su cui aveva basato la sua rivincita e che invece era proprio il suo nemico ad esigere spiegazioni.
Aveva parlato di gioco, di regole. Se il cadavere di Roger non fosse stato dinanzi ai suoi occhi, a simboleggiare un potere che di certo lui non aveva alcun modo di combattere, le sue dita si sarebbero certamente strette intorno al suo collo, e avrebbero anelato ogni spasmo della sua sofferenza fino a carpirne l'immonda vita. Perché, nel suo parlare deviato, aveva praticamente paragonato sua figlia ad una pedina caduta, così come pezzi di una scacchiera infinita erano quegli umani innocenti che, per una volta, avevano solo dovuto pagare l'indecente richiesta egoistica di una sola persona. Ed era una cosa che mai, mai nella vita avrebbe potuto perdonargli.
Ma quell'uomo aveva posto davanti ai suoi occhi un piccolo lumino colmo di speranza. Aveva parlato di una possibilità, la sua possibilità, di riavere indietro la sua Ray. Un prezzo che poteva pagare nella soluzione dell'enigma e che... che forse non esisteva. Perché la ricerca aveva parlato chiaro, non c'erano strade in grado di competere con la Peste. Cercarle era l'arte degli sciocchi, e non una persona aveva davvero dimostrato di essersi almeno avvicinata ad una qualche forma di soluzione.
Mentre si rigirava quella piccola speranza tra le mani, Leo Akaba fu colto da un dubbio. Quello inerente ad un inganno perseguito nei suoi confronti , principio di una vendetta che, nelle sue più esatte forme, allontanava le sue mani dalla ragazza al centro di tutto.
Dov'era Yuya Sakaki, in quel momento? Aveva promesso a suo figlio che ogni contatto con lei sarebbe stato definitivamente tranciato, ma in quei frangenti iniziò a concepire una scappatoia che si allineava ad un pensiero ancor più conturbante, ancor più sibillino nel far vibrare le sue sinapsi.
Un pensiero che aveva origine nelle risposte che Yuya Sakaki poteva dargli; nella possibilità che ella non fosse l'innocente ragazzina arrivata da lui senza nemmeno uno straccio di idea sulla sua vera identità, sulla sua vera esistenza, sul significato insito nella sua vita.
La sedia, la stessa su cui Zarc aveva giocato volentieri poco prima, quasi cadde dinanzi all'impeto del suo moto di alzarsi.
Doveva trovare la ragazzina. Doveva metterla al muro e farsi dire quanto sapeva su Zarc e sulla sua magia.

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