Mirror

di nikita82roma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** Otto ***
Capitolo 9: *** Nove ***
Capitolo 10: *** Dieci ***
Capitolo 11: *** Undici ***
Capitolo 12: *** Dodici ***
Capitolo 13: *** Tredici ***
Capitolo 14: *** Quattordici ***
Capitolo 15: *** Quindici ***
Capitolo 16: *** Sedici ***
Capitolo 17: *** Diciassette ***
Capitolo 18: *** Diciotto ***



Capitolo 1
*** Uno ***


New York

 

L’odore di caffè appena fatto si era diffuso velocemente in tutto il loft. Era una mattina tranquilla, una di quelle che dopo i fatti degli ultimi tempi cercavano di ritagliarsi spesso dopo che avevano ripreso la vita di sempre, dopo la convalescenza affrontata insieme ed un periodo durante il quale erano stati sballottati da una parte all’altra, interrogati da agenzie di stato delle quali ignoravano l’esistenza, richieste di interviste in tv e quella pressione insistente su Kate perché si dedicasse ad altro, perché considerasse di nuovo la possibilità del suo ingresso in politica.

 

Beckett aveva, però, scelto di prendere tempo, di pensarci, di rifletterci. In fondo era stata per poco tempo a pieno capitano del dodicesimo e voleva capire se quello era il tipo di lavoro che le piaceva oppure no. Per ora l’unica cosa che aveva deciso era di fare un passo indietro, evitare di essere sempre in prima linea, lo aveva fatto per se stessa, ma soprattutto lo aveva fatto per Castle. Aveva visto nel suo volto la preoccupazione durante tutto il periodo del suo recupero, più lento di quello del marito, aveva capito quanto mettere in gioco la sua vita lo facesse star male e non voleva più farlo soffrire. Rick valeva quel cambio, valeva più di tutto il resto ed era giunto il momento di dimostrarlo, di trovare un compromesso. Era così tornata al distretto, al suo distretto, a quel dodicesimo del quale si sentiva sempre parte, ma forse non si era mai sentita veramente il Capitano, impegnata fin dall’inizio del suo incarico più a cercare LokSat che a fare il resto. Essere dall’altra parte della barricata, quella che comanda, quella che non agiva ma delegava agli altri era difficile e spesso si chiedeva se ne era veramente capace o se era portata per quel tipo di vita. Più di una volta aveva avuto l’istinto di prendere pistola e distintivo ed uscire sul campo con i ragazzi, soprattutto in quelle azioni più complesse. Poi pensava agli occhi di Castle, sentiva quella nuova cicatrice che ancora spesso le faceva male e si mordeva il labbro e capiva che non doveva farlo. Non era un limitarsi, era proteggersi: se stessa, suo marito, la sua vita ed il suo matrimonio. Lui non le aveva mai chiesto nulla, non le aveva mai imposto niente. Era lei che lo voleva fare, per loro, per quello che erano, per quello che sarebbero stati.

 

Aveva due tazze di caffè in mano, non le sarebbe mai venuto buono come quello che preparava lui, lo sapeva, però quel sorriso che le regalava ogni volta che glielo portava faceva illuminare anche lei, come la prima volta, come sempre. Ora aveva capito cosa voleva dire quando le aveva detto che ogni mattina le portava il caffè solo per vederla sorridere, aveva capito tante cose Kate in quei mesi difficili, lunghi, dolorosi. Mesi nei quali aveva dovuto rivivere in parte quello che già aveva passato anni prima, con traumi vecchi che riaffioravano e si aggiungevano a quelli nuovi e il non essere da sola se da una parte era stato d’aiuto, dall’altra l’aveva obbligata a fare i conti con tante cose di se stessa e del suo matrimonio che non aveva mai voluto considerare a pieno. Non le erano mai piaciuti i bilanci ed invece era stata costretta a farli e non le era piaciuto nemmeno quello che aveva visto come saldo finale. Erano più le volte che avevano rischiato di morire dei giorni di vacanza che avevano fatto insieme e di fatto quella convalescenza era stato il periodo più lungo trascorso insieme senza aver corso il rischio di farsi sparare di nuovo, forse solo perché per lungo tempo non erano stati nemmeno in grado di essere autosufficienti. Era stato frustrante per entrambi, c’erano state lunghe notti insonni fatte di pianti sommessi, di mani che si sfioravano silenziose ed era tutto quello che potevano concedersi come contatto. Erano lì, erano vivi, ce l’avrebbero fatta ed era stata quella certezza a farli riemergere ancora.

Era tutto finito adesso, almeno sulla carta, suo marito era lì, sorridente, prendeva la tazza di caffè dalle sue mani, giocando volutamente con le sue dita, invitandola a sedersi sulle sue gambe. Lo accontentò ed accontentò se stessa. Appoggiò la testa sulla sua spalla, il caffè avrebbe potuto aspettare, e si godeva il suo abbraccio mentre era intento a leggere il giornale, una vecchia abitudine riscoperta proprio nei mesi di convalescenza.

 

- Hai trovato qualche notizia interessante? - Gli chiese vedendolo leggere un articolo parecchio concentrato.

- Uhm in verità sì. Hai letto la storia di quella donna? Quella che è stata ritrovata dopo sei anni dalla sua scomparsa? La credevano tutti morta, ed invece era stata rapita.

- L’agente dell’FBI di Boston dici? Sì, ho sentito qualcosa di sfuggita. Una storia assurda. - Rispose Kate visibilmente meno presa di lui da quella storia.

- Assurda ma interessante, avevano addirittura pensato che nessuno l’avesse rapita ma che era lei la serial killer, poi la verità è venuta fuori.

- Sei molto coinvolto Castle! - Gli fece notare guardandolo spostando i fogli, in modo da avere tutta la sua attenzione.

- Beh, potrebbe essere una storia interessante per un romanzo, non credi?

- Vuoi uccidere anche Nikki Heat come Storm? ti sei annoiato? - Gli chiese quasi preoccupata. Nikki Heat era il suo alter ego il pensiero che Castle potesse essersi annoiato di scrivere di quel personaggio le sembrò come se si fosse annoiato di una parte di se stessa ed era buffo perché proprio in quel momento scoprì di non essere mai stata così orgogliosa di essere la sua musa come lo era quella mattina.

 

- Non ucciderei mai Nikki e non mi sono annoiato. Magari potrebbe indagare su una storia simile. Ed in ogni caso non mi annoierei mai di te.

Voleva ribattere a tono a quella sua risata che sapeva di sberleffo mentre pronunciava le ultime parole, ma non poté farlo, perché lui, come sempre, aveva visto dentro di lei più di quanto fosse lei stessa capace di fare. Kate si sollevò e prese la sua tazza di caffè ancora caldo e ne bevve un sorso, facendo cadere l’occhio sullo stesso articolo che stava leggendo Rick.

- Il marito si è risposato e l’aveva ritenuta colpevole del rapimento del loro figlio e della nuova moglie… Praticamente è passata da vittima a ricercata in un attimo! - Kate commentò la notizia letta velocemente che però interessava tanto Rick.

- Io non dubiterei mai di te e non smetterei mai di cercarti. - Gli disse Rick diventato improvvisamente serio.

- Non ho nessuna intenzione di sparire, Castle.

- Ed io non avrei nessuna intenzione di risposarmi se tu lo facessi, Beckett.

- Beh, è una cosa che non dovrai prendere in considerazione. Come vedi, liberarti di me non è così facile. - Disse portando la mano di lui suo suo petto, dove c’erano quelle nuove cicatrici che solo con il suo aiuto aveva imparato a non temere. Rick le sorrise sospirando e poi la baciò teneramente. Non c’era bisogno di dire altro.

 

Finirono i caffè e poi Kate decise di rilassarsi con un lungo bagno: una delle cose che amava di più del loft era proprio quella grande vasca idromassaggio nella quale poteva rilassarsi da sola o rendere tutto molto più divertente ed eccitante quando Castle decideva di raggiungerla, ma quella mattina non lo fece e Kate non potè dire non esserne in parte delusa. Amava quel suo essere sempre presente, quella ricerca di lei che sfociava quasi nel bisogno. Si era accorta nei giorni di separazione forzata in ospedale che ne aveva tanto bisogno quanto lui e quel periodo non aveva fatto altro che amplificare tutto quello che aveva già provato quando aveva deciso di lasciarlo. Aveva un nodo alla gola solo a ricordare quei momenti. Scomparve per qualche istante sotto la superficie dell’acqua, chiudendo gli occhi più che poteva per non far entrare schiuma e sapone, riemerse poi concedendosi un profondo respiro: non doveva permettere a quei ricordi di farle male ancora. Decise di uscire, perché quel bagno ormai tutto era diventato tranne che rilassante. Aveva bisogno di lui e quando si fu sistemata lo trovò alla scrivania del suo studio mentre faceva delle ricerche su internet, segno che aveva qualche nuova idea che voleva sviluppare al più presto. Lo osservò per qualche istante ferma sulla porta che divideva lo studio dalla camera da letto. Gli piaceva vederlo così impegnato, così preso, aveva sempre amato quei momenti in cui la fantasia e la creatività si mettevano al servizio delle sue idee, facendo nascere teorie che erano state utili più spesso di quanto avesse mai voluto ammettere, almeno in sua presenza, o semplicemente le sue storie.

- Stai ancora cercando notizie su quella storia di Boston? - Gli chiese arrivando alle sue spalle.

- Uh uh… ho letto un po’ di articoli ed ho trovato anche questo video. - Cliccò play sul video e quello che videro era uno degli appelli del marito della donna rapita delle settimane passate. Entrambi rimasero ammutoliti quando un’immagine della donna apparve su video: era più magra, con i capelli più corti e più scuri, il viso segnato dalle privazioni della prigionia ma quella donna, quella Emily Byrne era assolutamente identica a Kate Beckett!

 



Chi lo ha visto avrà capito che questa storia è un crossover con Absentia. Non ho mai fatto storie di questo tipo, è un esperimento ed ho qualche capitolo già scritto chiuso nel mio computer, ma non so quanto regolarmente l'aggiornerò.

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Capitolo 2
*** Due ***


Boston

 

L’acqua scorreva sul suo corpo e bagnava le cicatrici. Nuove, vecchie, ancora sconosciute. Faticava a tenere il conto, a ricostruire la mappa del suo corpo. Ogni giorno scopriva qualcosa di sé che ignorava. Il rumore. Il rumore dell’acqua le dava ancora fastidio, le faceva paura, la faceva tremare. Aveva appoggiato le mani sulle piastrelle della doccia e stringeva i denti. Doveva resistere. Si imponeva di farlo, come se fosse una terapia d’urto, una nuova tortura, in realtà.

“Non serve a niente” le aveva detto il dottor Vega in una delle loro sedute che era obbligata a fare per rientrare nell’FBI. Senza il suo parere positivo non sarebbe potuta essere reintegrata e ne aveva bisogno, perché era l’unica cosa dalla quale ripartire, l’unico appiglio del passato per ricostruire il suo futuro.

La realtà, però, era che nulla fino a quel momento era servito a qualcosa. Provava a ricostruire la sua vita mattone dopo mattone, ma le fondamenta di tutto erano sabbiose ed era sempre al punto di partenza. Era lei la sabbia che faceva crollare ogni cosa che provava a ricostruire. Erano i suoi dubbi, i suoi incubi e le sue paure.

Emily Byrne non aveva più nulla, nemmeno se stessa, perché non riusciva più a capire chi fosse. Teneva dentro di se il segreto di quel ricordo che non sapeva nemmeno se fosse vero o solo frutto della sua mente. Non poteva confidarsi con nessuno, nemmeno con Vega, perché questo avrebbe voluto dire ripartire di nuovo da zero, essere di nuovo al centro di indagini, essere guardata con sospetto da tutti e non avrebbe retto ancora. Per tutti ora era stata scagionata da qualsiasi accusa, era innocente, le avevano fatto le loro scuse: Nick, Alice, Gibbs, Brown e gli altri dell’FBI. L’avevano incolpata, accusata di qualunque cosa, anche di aver provato ad uccidere suo figlio, e poi avevano liquidato tutto con qualche “mi dispiace” dopo averla braccata come un animale per giorni. Aveva risposto con sorrisi tirati e frasi di circostanza e l’unica cosa che si era concessa era non dire che era tutto ok a chi le chiedeva perdono, come aveva fatto Nick, il suo ex marito. Ex ora a tutti gli effetti, non solo perché era sposato con un’altra donna e perché aspettava un figlio da lei, ma perché aveva capito che non avrebbe più potuto esserci nulla tra loro, perché non poteva più stare con qualcuno che era riuscito a pensare di lei quello che aveva pensato lui. L’aveva ferita, più di quanto non avessero fatto coltelli e proiettili, ma non glielo aveva nemmeno detto, sarebbe stato inutile e non voleva dargli anche questo di se stessa.

Chiuse l’acqua della doccia ed uscì da lì. Trasalì nel vedere il suo volto in parte riflesso nel vetro appannato dello specchio. Chi era lei? Cosa era diventata? Aveva ragione Logan? Era un’assassina? Aveva ucciso lei Harlow? Quelle domande la perseguitavano da giorni, dal fine settimana precedente, dal compleanno di Flynn.

Flynn. L’unica cosa bella della sua vita, l’unica per la quale sentiva che valeva ancora la pena resistere, combattere, andare avanti, provare a ricostruire. Il passato era passato, così le aveva detto suo padre, e chi sopravvive deve guardare al futuro.

 

Aveva lasciato cadere a terra l’asciugamano che si era stretta intorno al corpo, si guardava nello specchio dentro l’anta dell’armadio di legno scuro cercando di ricostruire un’immagine di sè. Ogni volta cercava in quei segni spiragli di quel passato dimenticato. Suo padre le aveva detto che forse era meglio così, forse era meglio non ricordare, ma lei sapeva che senza quei ricordi non sarebbe riuscita ad andare avanti. Doveva sapere chi era stata per quei sei anni, cosa aveva subito, cosa l’avevano fatta diventare.

Erano solo flash quelli che arrivavano all’improvviso alla sua mente, nulla di più, e spesso si chiedeva anche quanto fossero veri. Non c’era più nessuno adesso che potesse rispondere ai suoi dubbi, credeva che avrebbe dovuto conviverci per sempre ed era convinta che Logan avesse previsto anche questo ed era esattamente quello che avrebbe voluto per lei, che vivere non sapendo sarebbe stato peggio di una verità difficile da accettare.

Rabbrividì sfiorando la cicatrice sull’addome e non fu solo il freddo, ma il pensiero di quella notte in cui aveva veramente pensato di morire. Pensò a Jack a quello che aveva fatto per lei, a quello che si erano detti, ai loro scontri, alla sua vita e a quante volte, inconsapevolmente, l’aveva sconvolta. Lui era più forte di quanto lui stesso fosse consapevole di essere, glielo aveva dimostrato quella notte e nei giorni seguenti. Era stato un fratello. Un fratello vero e le aveva anche offerto di rimanere da lui, ma non era giusto. Jack doveva avere modo di rifarsi la sua vita e così anche lei.

Indossò le prime cose che trovò a portata di mano nell’armadio, una calda tuta, adatta per quel colpo di coda dell’inverno, un freddo inusuale per quei giorni, o forse era lei che adesso sentiva tutto amplificato, anche il clima.

Andò nella piccola cucina e si preparò una tazza di tè. Fuori pioveva e le gocce sbattevano forte sui vetri di quella casa al piano terra di una palazzina che non era di certo il massimo, ma era tutto quello che era riuscita a trovare e che poteva permettersi. Non aveva voluto l’aiuto di Nick e nemmeno aveva voluto usare i soldi che la famiglia di Harlow aveva dovuto versarle come risarcimento. Lì aveva lasciati congelati in un fondo, magari sarebbero serviti a Flynn in futuro. Voleva farcela da sola, come aveva sempre fatto e solo a Warren aveva permesso di aiutarla, così aveva trovato quella sistemazione, la più vicina possibile alla casa di Nick, a quella che era la sua casa, per essere presente più che poteva con suo figlio. Non era facile, anzi ogni volta era più difficile entrare in quella casa, in quella famiglia e sentirsi nonostante tutto estranea in quello che era il suo mondo. Era difficile vedere una donna che cresceva il proprio figlio e che lo conosceva meglio di lei e alla quale doveva chiedere ogni cosa di lui ed era curiosa di conoscere cosa avesse fatto in quegli anni ma allo stesso tempo le faceva male ascoltare i racconti degli altri e rendersi conto di tutto quello che si era perso.

Si era persa nei cerchi scuri del tè che colorava l’acqua, stringendo la tazza che le scaldava le mani. Si spostò sul divano nell’altra stanza di quel bilocale troppo piccolo per contenere la sua voglia di ricominciare, troppo grande per abbracciare la sua vita ancora vuota. Non era abituata a stare da sola, non c’era mai stata. All’orfanotrofio erano in tanti, poi a casa con suo padre, sua madre e Jack e da lì la sua vita con Nick e poi Flynn arrivato poco dopo il matrimonio, tremendamente voluto, la persona che aveva dato un senso a tutta la sua vita, che le aveva fatto capire il suo ruolo nel mondo per la prima volta, quello che aveva calmato tutte le sue ansie e inquietudini. Doveva imparare anche quello, invece. Doveva imparare a stare da sola, a convivere con i suoi ricordi e i suoi incubi.

Se ne stava rannicchiata e forse avrebbe dovuto amare quei momenti di totale calma dopo tutto quello che aveva passato, ma non era così. Scrutava attenta quell’ambiente che ancora faticava a definire familiare: le due poltrone di pelle rosso scuro molto più nuove di quel divano di una tonalità di rosso diverso, un po’ rovinato alle estremità, dove si era accucciata in un angolo, quasi avesse bisogno di sentirsi protetta tra la spalliera, il bracciolo e i cuscini. Gli unici tocchi della sua presenza erano le foto di Flynn che aveva messo sul mobile in fondo alla stanza. C’era lui appena nato, loro insieme sulla neve e poi le foto più recenti, fino a quella del compleanno di pochi giorni prima, appoggiata, ancora da incorniciare. Non c’erano foto di quei maledetti sei anni, non sapeva ancora se era un caso o una scelta.

Appena sentì bussare alla porta i suoi sensi si allarmarono. Poggiò la tazza sul tavolino di legno all’angolo del divano e si alzò per vedere chi fosse, poi aprì la porta facendo scorrere la serratura rumorosamente.

- Ciao.

- Flynn! Cosa ci fai qui? - Disse abbracciando suo figlio accorgendosi in quel momento che era bagnato e invitandolo a togliersi la giacca che prese ed appoggiò vicino al termosifone.

- Volevo vederti. - Rispose il ragazzo alzando le spalle, impacciato ancora nel relazionarsi con sua madre. Emily strusciò le mani più volte sulle sua braccia per scaldarlo, era visibilmente infreddolito.

- Da dove vieni?

- Dalla piscina.

- Tuo padre sa che sei qui?

- No. Gli ho detto che andavo a casa di un compagno di corso. - Si giustificò.

- Potevi chiamarmi, sarei venuta a prenderti. - Lo rimproverò bonariamente stringendolo a se. Si rendeva conto delle sue difficoltà di relazionarsi ancora con lei e di come la voglia di passare più tempo insieme si scontrava con l’incapacità che ancora aveva di chiedergli qualsiasi cosa, come se fosse un’estranea, come se avesse paura di disturbare, così agiva d’istinto e invece che chiedere, si era presentato lì. Andò a sedersi anche lui sul divano e subito Emily gli mise un plaid sulle spalle che Flynn si strinse di più addosso.

- Vuoi una cioccolata? - Gli chiese e lui rispose annuendo energicamente ed accennando un timido sorriso. Gli diede un bacio sulla fronte ed andò a prepararla, tornando poco dopo con la tazza fumante in mano e una scatola di biscotti, non era ancora molto fornita, ma sapeva che quelli erano i suoi preferiti e Flynn ne prese subito un paio mentre aspettò che la cioccolata si raffreddasse un po’. Emily si sedette accanto a lui, guardandolo mangiare con gusto, notando le sue occhiate furtive nella sua direzione che lei fece finta di non cogliere. Aspettò che finì quella merenda improvvisata e poi lasciò che si distendesse appoggiato a lei. Nessuno dei due disse nulla, lei gli accarezzava i capelli senza il coraggio di chiedergli niente e lui non le diede spiegazioni del perché fosse lì. Avrebbero avuto tante cose da dirsi, del presente e del passato, di quello che lei aveva subito che poi aveva subito anche lui. Eppure non lo avevano mai fatto.

Si erano ritrovati in ospedale lei ferita nel fisico, lui nell’animo. Emily l’aveva abbracciato e lui si era lasciato abbracciare da sua madre. Avevano pianto, tutti e due e non lo avevano voluto far vedere all’altro, ma lo sapevano. Non si erano detti nulla, ma si erano capiti, per il momento bastava quello. Per le parole ci sarebbe stato tempo.

- Posso rimanere con te questa sera? - Le chiese Flynn rompendo il silenzio.

- Sì, certo che puoi.

Non gli aveva detto che avrebbe dovuto sentire suo padre, come faceva sempre. Aveva sorpreso tanto Flynn quanto se stessa. Era suo figlio non doveva chiedere il permesso a nessuno per stare con lui, tanto più se era lui che lo voleva. Sentiva che ne aveva tutto il diritto. Prese il cellulare vicino alla tazza di tè ormai freddo e mandò un messaggio a Nick per avvisarlo di quello che avevano appena deciso. Flynn sarebbe rimasto con lei. Non sapeva perché, se avesse voluto, glielo avrebbe spiegato lui poi.

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Capitolo 3
*** Tre ***


Boston

- Quando hai la prossima gara? Il prossimo fine settimana? - Flynn annuì mentre Emily gli passava le dita tra i capelli e gli accarezzava la fronte. Aveva ripetuto quel gesto milioni di volte nei suoi primi tre anni di vita, quando era l’unico modo per farlo rilassare e addormentare, le veniva istintivo e a lui sembrava piacere sempre, anche se per lei era così difficile ritrovarsi con quell’ometto tra le braccia che aveva lasciato che era solo un bambino piccolo che poteva stringere interamente a sé.

- Come è andata oggi? - Gli chiese cercando un dialogo con lui, ma lo sentì irrigidirsi e i suoi sensi si misero subito in allarme. Flynn non aveva voluto parlare di quanto era successo quando Logan li aveva rapiti, ma con lei non aveva bisogno di farlo, lei era l’unica che sapeva cosa aveva passato, cosa aveva provato e per questo aveva espresso a Nick le sue perplessità sul fatto che il loro figlio volesse tornare in piscina subito, ma l’uomo le aveva detto di non preoccuparsi, che Flynn aveva solo bisogno di tornare alla sua vita e così aveva messo da parte le sue idee e lo aveva lasciato fare. Lo aveva anche accompagnato una sola volta, ma non era riuscita a rimanere lì a guardarlo immergersi nella vasca senza provare quella sensazione di disagio, senza quella stretta al petto claustrofobica, senza aver il bisogno di uscire e respirare aria fredda. Non sapeva se lui se ne fosse accorto, era di nuovo lì quando aveva finito i suoi allenamenti, un po’ in disparte, senza riuscire a godersi quella parte di normalità della vita di Flynn. Logan le aveva rubato anche questo. Ora però sentiva che qualcosa era diverso, quel suo irrigidirsi alla sua semplice domanda nascondeva altro. Smise si accarezzarlo, rimanendo in attesa che fosse lui a fare la prima mossa e così fu. Si tirò su, si sedette vicino a lei ed Emily non riusciva a non stupirsi di quell’ometto che le arrivava alla spalla e che lì, in quel momento, stava cercando di prendere coraggio per parlarle non come ad una madre, ma come all’unica persona che pensava potesse capirlo.

- Mentre nuotavo, nel muro della vasca, ho visto quella maschera bianca riflessa. Non riuscivo più a muovermi e mi hanno tirato fuori. Volevano chiamare papà ma gli ho detto di no. - Le raccontò tutto lentamente, con voce calma e lo sguardo fisso nel muro davanti a loro. Emily strinse i denti per la rabbia, avrebbe ucciso Logan di nuovo altre cento volte in quel momento. Posò la mano sulla gamba di Flynn che si voltò a guardarla con gli occhi di chi cercava una risposta alle sue paure.

- Capita anche a me, a volte, di vedere quella maschera riflessa. Sulla parete della doccia, in una vetrina, sul fondo del lavello della cucina. - Flynn ascoltava attento le parole di Emily annuendo. - Ma non c’è più nessuno dietro a quella maschera e nessuno ti farà più del male. Mi dispiace per quanto ti è successo per colpa mia.

Emily era veramente dispiaciuta e fu suo figlio a farle coraggio, mettendo la propria mano su quella di lei.

- È questo che ti hanno fatto quando ti hanno preso? Per tutto il tempo? Era qui che pensavi a me?

Gli sussurrò solo un sì mentre istintivamente lo abbracciò e sentire le braccia di lui fare altrettanto con lei la portò sulla soglia delle lacrime. Abbattuto il muro iniziale di diffidenza lui era l’unico che si era mai preoccupato per lei, che le aveva chiesto come stava o cosa le fosse accaduto. Rimasero così per un po’, il tempo di ricomporsi e quello per Emily di capire che c’era qualcosa che mancava. Lo spostò dolcemente senza essere brusca, per guardarlo negli occhi.

- Perché dovevano chiamare tuo padre? Perché eri da solo? - Gli chiese Emily.

- Alice mi ha accompagnato. Poi mi ha detto che aveva una visita e sarebbe passata a prendermi dopo. Sai… avrò un fratello o una sorella e… - Non finì la frase, alzò le spalle e poi si buttò sullo schienale della poltrona.

- E? - Gli chiese sua madre appoggiandosi di fianco vicino a lui.

- Niente. Lei e papà sono molto felici di questo.

- E tu?

- Sì, certo. - Rispose cercando nello zaino vicino allo zaino il suo videogioco, ma Emily lo fermò, prendendolo prima che lo facesse lui.

- Flynn. Guardami. E tu? - Gli chiese scandendo bene le parole. Il bambino deglutì osservando sua madre seria. Rimase qualche istante in silenzio.

- Ieri sera papà ha detto ad Alice che è felice che avranno un figlio loro.

- Ehy Flynn Durand, ascoltami. Nessuno prenderà il tuo posto. Tuo padre e Alice ti amano moltissimo e il bambino che arriverà non cambierà quello che provano per te, avrà bisogno di più attenzioni perché sarà piccolo ed avrà la fortuna enorme di avere te come fratello maggiore.

Era difficile per lei fare quei discorsi. Per un attimo rivide in Flynn Jack e i suoi timori, le sue difficoltà nell’accettare il suo arrivo in famiglia, aveva più o meno l’età di Flynn quando era stata adottata e Jack poco più grande. Pensò a tutte le attenzioni che Warren e sua madre le avevano dato, magari sottraendole al piccolo Jack e solo ora, vedendo suo figlio, poteva capire quanto realmente ne potesse aver sofferto. Si trovò quindi a dover difendere Nick e quella donna che aveva suscitato in lei sentimenti così contrastanti. Era grata ad Alice per essere stata vicino a Flynn, avergli dato quello che lei non aveva potuto dargli, averlo protetto, rassicurato, aiutato a crescere e coccolato ma allo stesso tempo sentiva come se le avesse anche lei portato via qualcosa, ogni volta che la sentiva chiamare “mamma” da Flynn era come ricevere un pugno allo stomaco ma aveva imparato a fare buon viso a cattivo gioco. Considerava già una piccola conquista il fatto che ci chiamasse anche lei, dopo il suo rifiuto iniziale ed aveva messo da parte orgoglio e sentimenti dicendogli di non farsi problemi e di chiamare Alice come si sentiva, come aveva sempre fatto. Aveva notato, però, che da qualche giorno, da quando aveva saputo del bambino che sarebbe arrivato, gli era capitato in sua presenza che l’avesse chiamata per nome, generando un po’ di imbarazzo in lei, ma anche in Nick e Alice stessa. Stavano cambiando tante dinamiche tra loro in quei giorni e se loro, adulti, avevano tutti i mezzi per affrontarli, non era sicura che la stessa cosa si potesse dire di Flynn, evidentemente segnato dalla cosa più di quanto volesse far vedere.

La guardò con i suoi occhi grandi ed Emily si perse in lui, ritrovandoci le stesse espressioni di quel bambino piccolo che aveva lasciato, che era nei suoi ricordi indelebile. Gli prese la testa tra le mani e gli accarezzò gli zigomi un po’ umidi con i pollici. Provò ad abbozzare un sorriso per lui.

- E poi in ogni caso, tu resterai sempre il mio piccolo koala, questo non cambierà mai, nemmeno quando sarai grande, lo sai vero?

Flynn sorrise. Non sapeva dove, però da qualche parte nella sua mente quel nome non gli era nuovo, lo aveva già sentito, con la stessa voce e la stessa dolcezza nel pronunciarlo. Anche Emily ci pensò e tornò indietro nel tempo, quando Flynn correva verso di lei appena rientrata a casa e si aggrappava al suo collo e la stringeva forte e lei mentre lo baciava glielo ripeteva sempre, era il suo piccolo koala, perché non voleva mai staccarsi da lei.

Un bussare nervoso alla porta interruppe quel momento di normalità, quel primo, vero, confronto dialettico che Emily e Flynn avessero mai avuto. Gli fece cenno di rimanere seduto mentre lei andava ad aprire. Guardò dallo spioncino ed aprì venendo investita dalla foga di Nick che senza dire altro entrava nella sua casa.

- Flynn Durand, prendi la giacca, le tue cose ed andiamo a casa. - Gli intimò Nick con tono aggressivo indicando lo zaino e la giacca del figlio. Flynn si tolse la coperta dalle spalle e si abbassò per chiudere il suo zaino.

- Flynn è a casa. - Emily si mise tra Nick e suo figlio. Non aveva più intenzione di essere esclusa da tutto, di essere subalterna al suo ex marito ed anche alla sua nuova moglie. Flynn l’aveva cercata, era lui ad aver voluto lei, a scegliere di andare da lei. E lei era sua madre. Non poteva permettere che Nick arrivasse ed imponesse le sue regole senza considerarla minimamente, senza rispettare il suo ruolo.

- Emily, non erano questi gli accordi, avevamo detto che se volevi potevi stare con Flynn questo giovedì. - Le rispose con calma, come se parlasse ad una bambina che aveva bisogno che qualcuno le ricordasse le regole e questo la indispose ancora di più. Lei non gli era subalterna era sua madre, tanto quanto lui era suo padre.

- Cosa c’è Nick, se Flynn va da un suo amico va bene se sta con sua madre no?

- Non credo siano cose da discutere adesso. - Disse a Emily e poi si piegò di lato per vedere il figlio ancora seduto, con lo zaino tra le mani, senza sapere cosa fare. - Dai, Flynn andiamo.

- Ci siamo già organizzati per la cena. - Mentì Emily - Ho ordinato delle pizze per me e per lui. Rimane qui stanotte e domani mattina lo accompagno a scuola.

- Flynn? - Lo chiamò ancora Nick.

- Vorrei rimanere con la mamma questa sera. - Trovò il coraggio di dire a suo padre senza guardarlo negli occhi.

- Ok… - Nick annuì nervosamente, scuotendo la testa per niente contento di quella decisione del figlio, nè di lasciarlo lì. Guardò Emily che non si mosse di un centimetro, ferma davanti a lui, a fare da barriera tra lui e Flynn, determinata a rivendicare la sua posizione.

- Di tutto questo poi dovremo parlarne Emily. - Le disse mentre si richiudeva la porta alle spalle e solo quando fu uscito si rilassò e tornò a sedersi vicino a suo figlio, cingendogli le spalle sentendolo sospirare.

- Grazie per avermi fatto rimanere. - Le disse fissando il pavimento.

- Non è un granchè, ma questa è casa tua. Puoi stare qui quando vuoi. Adesso che dici, ordiniamo quelle pizze? - Emily gli sorrise sventolandogli sotto il naso il volantino di una pizzeria a domicilio e lui la guardò sorridendole a sua volta.

- Per me con doppia mozzarella, pollo, salsiccia e funghi. - Esclamò Flynn senza leggere il menu.

- Ne sei certo? - Gli chiese Emily perplessa e suo figlio annuì ridendo. Rise anche lei mentre componeva il numero per ordinare la loro cena.

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Capitolo 4
*** Quattro ***


New York

 

- Se è uno scherzo Castle non è divertente. - Tuonò Beckett alle sue spalle, ma le bastò leggere negli occhi del marito lo stupore e lo sconcerto per quanto appena visto per capire che no, non era uno scherzo.

- Sei tu! Cioè non tu-tu, ma una tu diversa ma uguale a te. Capisci? - le chiese perplesso e con le parole che faticavano ad uscire con un senso logico. Kate si piegò sul computer mandando indietro il nastro per vedere ancora le immagini. Emily Byrne era indiscutibilmente uguale a lei: stesso taglio degli occhi, stessa bocca, stesso naso, anche se il tutto era mascherato da un’espressione più dura e sofferta. Mise in pausa fissando quell’immagine sullo schermo. Guardò ancora Rick nella speranza di trovare un appiglio, che la sua fosse solo la perfetta interpretazione di un ruolo, ma lui la fissava sconcertato quanto lei.

- Come è possibile? - Le chiese Castle.

- Non lo so. - Rispose lei alzandosi ed andando a cercare nella borsa il suo telefono. Si avvicinò alla vetrata del loft, osservò distrattamente la sua immagine riflessa mentre scorreva velocemente i numeri sulla rubrica fino a trovare quello desiderato.

- Ciao Will. Sono Kate. Kate Beckett.

Will era Will Sorenson. Non lo sentiva da anni e l’ultimo contatto che avevano avuto era stato un suo messaggio di auguri inviatogli per il suo matrimonio, quasi due anni prima. La sua mente, però, aveva collegato le poche informazioni che aveva ed subito aveva elaborato come doveva agire. FBI - Boston - Sorenson. Castle si era alzato e l’aveva raggiunta, avvicinando l’orecchio al cellulare per ascoltare le parole di Sorenson. Kate vedendo come cercava di carpire qualcosa, gli fece cenno di fare silenzio, mise il cellulare in viva voce e lo appoggiò alla scrivania.

- Conosci Emily Byrne? - Gli chiese Kate senza girarci troppo intorno.

- L’agente scomparsa e poi ritrovata? No, mi dispiace Kate, non credo di averla mai vista o non ricordo.

- Se l’avessi vista ti saresti ricordato. - Gli disse Beckett senza spiegargli di più.

- Conosco però suo marito… Durand…

Ascoltarono il racconto di Will e Beckett fulminò il marito con lo sguardo più di una volta, appena si accorgeva che stava per fare qualche domanda, ma non riuscì a trattenerlo quando il suo ex si lasciò andare ai suoi soliti commenti sarcastici sullo scrittore fesso che si era sposata. Lo guardò divertita difendersi e rivendicare il fatto che lui, alla fine, l’aveva sposata e che sì, c’aveva ragione lui, era innamorato di lei dall’inizio. Fece sorridere e arrossire Kate allo stesso tempo, che chiuse la conversazione prima che fosse troppo tardi, andando poi a calmare Rick con un bacio, sedendosi sulle sue gambe, dimenticandosi per qualche istante di quello per cui lo aveva chiamato e di quello che gli aveva detto.

- Veramente ti eri innamorato dall’inizio? Non dicevi che ero io quella che si era innamorata per prima? - Lo prese in giro ridendo sulle sue labbra prima di baciarlo ancora.

- Uhm… potrebbe essere… uhm…

- Dopo tutti questi anni, basta così poco per tradirti? - Rise ancora Kate. - Io comunque l’ho sempre sospettato.

Kate si alzò velocemente prima che potesse bloccarla e prese un foglio appuntando alcune date e informazioni, ricostruendo quanto detto da Will.

Nick Durand e Will Sorenson erano stati nella stessa squadra dell’FBI per i primi due anni che l’ex di Kate era andato a Boston. Lo aveva descritto come un tipo tranquillo, uno che si faceva i fatti suoi, che al massimo era uscito per qualche birra dopo i loro turni di lavoro. Lo ricordava per un’operazione che avevano fatto insieme che li aveva tenuti occupati per diverse settimane, si era trovato bene con lui, perché era estremamente ligio alle regole e ai protocolli, non era uno che prendeva iniziative ma si atteneva strettamente agli ordini che gli venivano dati. Will poi era stato trasferito nella sede di Providence, dove avrebbe guidato una squadra tutta sua, l’ultima cosa che sapeva di Durand era che si era fidanzato con una giovane agente da poco entrata nel bureau e che poi si era sposato, ma nulla di più di qualche messaggio di convenevoli auguri e uno di condoglianze quando aveva saputo da alcuni colleghi che la moglie era stata uccisa da un serial killer, ma lui era già tornato a New York e non poteva dirgli altro.

- Se Sorenson l’avesse vista sicuramente te lo avrebbe detto o almeno ci avrebbe provato con lei. - Commentò Rick guadagnandosi l’ennesima occhiataccia di sua moglie. Kate era estremamente seria mentre osservava i pochi dati scritti sul foglio, impostando una scarna cronologia.

- Magari è solo qualcuna che ti somiglia molto. - Le disse Rick cercando di fugare quei pensieri che sapeva stavano offuscando la mente di Kate, perché erano gli stessi che aveva anche lui e che, se non avessero riguardato sua moglie, avrebbero già scatenato le sue teorie fantasiose che avrebbe snocciolato una dietro l’altra. Non era convinto di quanto aveva detto né era stato abbastanza convincente. Kate posò la penna si alzò di nuovo ed andò verso la finestra di nuovo, questa volta soffermandosi a guardare fuori. Intravide che lui si stava avvicinando dal riflesso sul vetro. Sentì le sue mani grandi sulle spalle che la massaggiavano e sostenevano.

- Cosa vuoi fare? - Le chiese con tono calmo.

- Capire chi è questa Emily Byrne.

- Vuoi fare delle ricerche?

Kate si voltò a guardarlo.

- Facciamo delle ricerche. - Si corresse Rick.

- Non ti dispiace se…

- Andiamo al distretto? Oh immaginavo qualcosa del genere. Io, te, indagine segretissima, due tazze di caffè, chiusi nel tuo ufficio…

- Fermati qui Castle! - Gli poggiò un dito sulle labbra che lui prontamente baciò.

- Ok, mi fermo qui. Però… - Bastò uno sguardo di Kate e fece cenno di chiudersi la bocca come se ci fosse una zip. La fece sorridere, tanto gli bastò per farlo felice.

 

Beckett aveva richiesto alla polizia di Boston i fascicoli sul caso Harlow / Colson, così lo avevano chiamato. Aveva evitato di fare riferimenti all’agente Byrne, ufficialmente voleva vedere se c’erano appigli per collegare un caso del suo distretto che da qualche anno era rimasto irrisolto che aveva degli elementi simili. Nel frattempo, però, non era stata con le mani in mano e soprattutto la sua mente non aveva potuto smettere di pensare a quella donna tanto simile a lei da sembrare la sua gemella. Era quello che non voleva dirsi, quello a cui non voleva pensare. Quello che né lei né Castle avevano mai ipotizzato, anzi, ipotesi a dire il vero non le avevano fatte di nessun tipo. Lui la aiutava nelle ricerche e non le faceva mai mancare il suo appoggio. Aveva ricercato per lei copie di giornali e notizie dal web sulla scomparsa e poi sul ritrovamento di Emily Byrne, aveva scandagliato la rete cercando ogni notizia utile, le aveva stampate, catalogate, aveva fatto schemi e compilato un quadro più dettagliato della situazione, scrivendo non solo i fatti, ma anche le sue idee, i suoi commenti, proprio come quando preparava uno schema minuzioso per i suoi romanzi, ed in effetti il primo ad interessarsi a questa storia era stato proprio lui per questo motivo. Era una storia che era certo nascondesse qualcosa di più, ma non avrebbe mai pensato un risvolto di quel tipo che aveva acceso subito la sua fantasia, frenata solo dal sapere che Kate poteva essere una inconsapevole pedina.

 

Emily Byrne, nata a Boston il 10 dicembre 1980. Così riportava ogni fonte che avevano trovato e quando Beckett lo lesse, Castle non seppe decifrare se quell’espressione era di sollievo oppure no. Camminava nello studio di Rick osservando il suo lavoro meticoloso e le slide che faceva scorrere sullo schermo, lo stesso schermo dove un tempo aveva ricostruito con minuziosa precisione il caso di sua madre.

- Ha un anno meno di me. - Si limitò a dire Kate, come se quella frase sentenziasse la fine di quel pensiero mai palesato.

- Così c’è scritto… - Le rispose Rick e conoscendolo Kate sapeva bene cosa voleva dire quella frase. Il fatto che ci fosse scritto non voleva dire che fosse necessariamente vero.

- Mi sto facendo troppe paranoie, Castle. Il fatto che una donna mi assomigli non vuol dire nulla. Quanti sosia abbiamo nel mondo? Sette no? Ecco, una mia è a Boston. - Provò a chiudere il discorso Beckett, cercando di convincere più se stessa che lui.

- Quindi vuol dire che se cerco bene troverò altre 5 donne uguali a te? Pensi che saranno tutte irrimediabilmente attratte del mio rude fascino?

- Nei tuoi sogni Castle!

- Nei miei sogni basta che lo sia tu. - Le rispose attirandola a se e baciandola con passione.

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Capitolo 5
*** Cinque ***


Il loft era di nuovo pieno di chiacchiere e persone. Era una cosa che capitava ormai di rado da quando Martha aveva preso un appartamento per conto suo vicino alla scuola di recitazione e Alexis si era trasferita a Londra con Hayley. Alla Shipton era stato offerto un importante posto di lavoro in una agenzia privata e aveva chiesto alla giovane Castle se avesse voluto fare un’esperienza all’estero: lei aveva bisogno di una collaboratrice e il rapporto con Alexis era ottimo. Dopo un momento di titubanza iniziale, soprattutto per le condizioni di suo padre e di Kate che stavano uscendo dalla loro convalescenza, aveva deciso di accettare, anche spinta da Rick che le aveva consigliato di seguire la sua strada e non preoccuparsi di loro. Aveva aspettato ancora qualche settimana e poi aveva seguito Hayley a Londra.

Era tornata proprio in quei giorni, cogliendo l’occasione del compleanno di Castle, già triste all’idea che lo avrebbe trascorso lontano da sua figlia. Alexis, invece, d’accordo con Kate era arrivata a New York un paio di giorni prima, così anche Martha aveva approfittato per passare più tempo al loft, come ai vecchi tempi.

Alexis sarebbe partita il giorno dopo, anticipando di un paio di giorni per un caso importante che avevano affidato ad Hayley e quella sera avevano approfittato per fare una cena tutti insieme per festeggiare il compleanno di Rick: avevano invitato anche Ryan con Jenny e i bambini, Esposito, Lanie e Kate aveva convinto anche Jim ad unirsi a loro. Avevano mangiato, si erano divertiti ascoltando gli aneddoti di Martha che sembravano non finire mai e i racconti della vita londinese di Alexis e le sue disavventure con la guida a destra. A fine cena il piccolo Nicholas era crollato in braccio a Jenny, mentre Sarah Grace sembrava avere un’energia inesauribile e correva in lungo e largo per il loft, sfuggendo al controllo del padre appena poteva, generando altre battute sulle sue capacità di poliziotto che doveva arrestare criminali ma non riusciva nemmeno a tenere ferma sua figlia. C’era allegria e leggerezza in quella serata, c’era la normalità di un gruppo di amici e parenti che si trovavano per festeggiare Castle, quella che per tanto tempo Rick e Kate sembravano aver rincorso inutilmente. Era già piuttosto tardi quando Kevin con moglie e figli furono i primi ad andarsene, seguiti poi da Javier che si era offerto di accompagnare Lanie. Lo stesso poi aveva fatto Jim con Martha, la sua nuova casa era di strada e non aveva senso che la donna prendesse un taxi. Erano rimasti solo loro cinque a chiacchierare sul divano con Martha e Rick stavano finendo il loro scotch.

 

- Sai una cosa che vorrei rifare? Prendere un cavallo e girare nudo per New York! - Esclamò Castle mentre parlavano di follie da fare o rifare nella vita.

- Papà, ti ricordo che ora sei un po’ troppo famoso per fare questa cosa. E poi non credo che rubare un cavallo della polizia sia l’ideale vista la situazione di Kate! - Intervenne Alexis a bloccare qualsiasi fantasia folle del padre.

- Non ho detto rubare! Lo posso sempre affittare! - Precisò lui ignorando lo sguardo feroce di Kate e le risate di sottofondo di Jim.

- E poi mio caro, vorrei ricordarti anche anche ormai hai una certa età. Magari non saresti un bello spettacolo da vedere, non come quando eri più giovane, voglio dire!

- Madre! Cosa hai da dire del tuo splendido figlio! E poi Beckett, diglielo tu che il mio fisico è sempre di tutto rispetto, sei mia moglie!

- Se lo farai, dovrai cercarti un’altra moglie, Castle! - Gli rispose Kate lanciandogli un’occhiataccia seguita da un sorriso, suscitando le risate di tutti i presenti per i loro battibecchi, al quale Rick rispose beffardo mentre finiva l’ulto sorso di scotch.

- Era solo un’idea Beckett! Ma nel caso, potrei sempre andare a Boston a cercare la tua gemella!

Non avevano più toccato quel discorso da giorni, era qualcosa che entrambi avevano lasciato cadere, senza prestarci più molta importanza, presi dalla vita di tutti i giorni, dai nuovi casi al distretto e dall’arrivo ci Alexis.

- Cos’è questa storia? - Chiese Martha incuriosita e Rick raccontò in breve di Emily Byrne e della sua somiglianza con Beckett. Kate dal canto suo fu invece attirata dallo sguardo di suo padre che sembrava perso nel vuoto, il suo volto era diventato improvvisamente serio. Jim finì di bere velocemente il suo bicchiere d’acqua e Kate vide come la sua mano tremava nell’appoggiarlo sul tavolino davanti a lui. Si accorse degli sguardi della figlia e si ricompose, alzandosi non appena vide che anche Martha aveva finito il suo drink.

- Credo che sia giunta l’ora di andare per me. - Disse Jim Beckett richiamando l’attenzione dei presenti e Martha convenne che era meglio tornare a casa. Ci fu lo scambio di saluti di rito, specialmente quello tra Alexis e sua nonna, ma anche tra Kate e suo padre.

- Tutto bene papà? - Gli sussurrò mentre lo abbracciava.

- Certo Katie, tutto benissimo, non ti preoccupare.

Quella frase, però, non aveva fatto altro che far preoccupare Kate ancora di più. Per tutta la notte aveva rimuginato sul comportamento di suo padre sul finire di quella sera, quando era diventato nervoso e ansioso. La mattina dopo Rick si era accorto che c’era qualcosa che preoccupava Beckett, le si era avvicinato mentre nel letto lei gli dava le spalle, l’abbracciò e le spostò i capelli, baciandole il collo.

- Ti prometto che non andrò in giro a cavallo nudo. E nemmeno che andrò a cercare tue gemelle in giro per il mondo se mi lascerai. Rimarrò solo, triste e disperato. - Le disse tra un bacio e l’altro tra il serio ed il faceto, facendola sorridere anche se non rilassare. Kate si voltò verso di lui, rispondendo ai suoi baci.

- Non mi stavo preoccupando di quello, perché se lo farai non avrai modo di cercare nessuno, perché ti arresterò personalmente. - Gli disse seria. - Però ti prometto che non ti lascerò mai. Al massimo ti sparo. - Sorrise e lui fece altrettanto.

- Lo preferisco. Giuro. - Ed era molto più serio di quanto lei potesse immaginare. - A cosa pensavi allora?

- A mio padre, aveva un atteggiamento strano ieri sera, prima di andare via. Ho l’impressione che volesse nascondermi qualcosa… Ho paura che non stia bene…

- Perché non lo inviti a pranzo? Io vado ad accompagnare Alexis in aeroporto, puoi andare da lui con la scusa che sei sola…

- Non ci crederà mai, Castle.

- No, ma tu saprai come farlo parlare, non ti mancano di certo i mezzi, fai crollare i peggiori criminali, riuscirai a farlo anche con lui!

 

Alla fine Kate aveva fatto come le aveva suggerito Castle, almeno in parte. Non aveva invitato suo padre, ma, saputo dalla sua segretaria che non aveva udienze per quel giorno lo aveva raggiunto a pranzo. Jim Beckett era un abitudinario e tutti i giorni pranzava sempre nello stesso posto, da anni, da quando si era ripreso dalla morte di Johanna ed aveva ricominciato a lavorare. Tutti i giorni, quando non era in tribunale, sedeva allo stesso tavolo del piccolo ristorante vicino il suo studio. Kate inizialmente lo raggiungeva ogni volta che poteva, anche per controllare come stesse, poi tra il lavoro, le responsabilità  crescenti ed infine la sua vita, capitava sempre più di rado.

 

- Katie! Come mai qui? È successo qualcosa? - Le chiese Jim appena la vide in piedi, seria, davanti a lui. Le fece cenno di sedersi e Kate si accomodò prima di rispondere.

- Dovresti dirmelo tu papà, cosa è successo?

- Niente, perché me lo stai chiedendo? - Rispose evasivo.

- Perché ieri sera ti ho visto, eri nervoso ed ansioso.

- Ti sbagli, Katie, va tutto bene.

- Papà, non mi mentire. Stai male? - Decise di essere diretta, visto che lui continuava a tergiversare.

- Ma no, ma cosa ti viene in mente! - Fece una risata forzata. - Sto benissimo Katie!

- Allora perché ieri quando tutti ridevano per le idiozie di Castle tu eri così teso? Hai bevuto l’acqua e ti tremavano le mani. - Esclamò preoccupata Kate.

- Katie, rilassati. Sto bene, ero solo stanco, nulla di più. Vuoi che ti porto le mie analisi per tranquillizzarti?

- No, papà, voglio che mi dici cosa c’è che non va. Non mentirmi, so riconoscere benissimo certi tuoi gesti e quando non mi dici la verità… - L’allusione che fece sua figlia lo colpì. Ricordava il tremore alle mani, passava interminabili minuti a guardare il segno dei suoi eccessi sentendosi ancora di più in colpa. Ricordava lo sguardo di Kate quando rientrava a casa, quel mix di disgusto, pietà e senso di sconfitta che gli riservava, la sua rabbia quando lui voleva negare l’impossibile perché erano proprio le sue mani a tradirlo, insieme a quell’odore di alcool che nauseava Kate.

- Non ho bevuto se è questo che ti preoccupa. Non ho più toccato un goccio di alcool, dovresti saperlo. - Era serio e voleva convincerla. Non poteva pensare veramente che lui fosse di nuovo caduto in quel tunnel dal quale era stato difficilissimo uscire.

- Allora dimmi cosa c’è, papà! Non mi mentire! - Kate aveva alzato la voce, si sentì sbalzata indietro nel tempo di anni, di nuovo davanti a quel padre che non le diceva la verità, lei lo sapeva, e fantasmi del passato l’attanagliavano e la preoccupavano.

- Non c’è niente che non va, Katie. Non ho ricominciato a bere e sto benissimo di salute. Ti stai preoccupando inutilmente per niente. Ero solo stanco, capita, alla mia età.

- Ok… come vuoi tu, papà. - Scostò rumorosamente la sedia per nulla convinta delle sue parole. Non si fermò quando suo padre provò a richiamarla.

Beckett salì in macchina sbuffando, poteva aver ragione lui, poteva non essere nulla, la stanchezza, l’età era tutto plausibile. Eppure sentiva che qualcosa non andava, una delle sue sensazioni, di quelle che quando indagava su un caso la portavano a trasgredire anche gli ordini dei suoi superiori per seguire il suo istinto, quell’istinto che Castle aveva sempre assecondato, fidandosi di lei. Stava per mettere in moto la macchina quando il cellulare squillò. Era lui, sembrava che la loro connessione mentale gli facesse capire esattamente quando aveva bisogno di sentire suo marito. Rick le disse che stava rientrando a casa, Alexis era appena partita e rimase poi pazientemente ad ascoltare lo sfogo di sua moglie che seduta nella sua auto, nel parcheggio di un ristorante, tirava fuori tutte le sue paure di quel passato che non aveva mai dimenticato.

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Capitolo 6
*** Sei ***


- Vieni a casa? - Le chiese Rick dopo aver ascoltato il suo sfogo

- No, devo tornare al distretto. Mi attendono un mucchio di scartoffie che avrei dovuto già sistemare. - Gli rispose Kate senza riuscire a trattenere un moto di dispiacere. Sarebbe veramente voluta andare a casa a farsi coccolare un po’ da suo marito, l’unico in grado di riuscire a scacciare tutti i suoi malumori.

- Ok. Allora ci vediamo dopo. Ti amo Kate.

- Ti amo anche io Rick.

Stava per partire, quando si accorse proprio in quel momento che era uscito anche suo padre e non stava tornando a piedi al suo ufficio ma aveva fermato un taxi. Non sapeva perché, né dove stava andando, ma decise di seguirlo. Non fu difficile pedinare il taxi alla giusta distanza, anche se il traffico di New York non facilitava le cose. Si allontanarono molto da Midtown, attraversarono Manhattan fino prendere il tunnel che portava a Brooklyn. Da lì poi Kate capì dove stavano andando e quasi si pentì della sua scelta di seguire suo padre, ma ormai voleva andare avanti.

Il taxi si fermò davanti ad un entrata fin troppo conosciuta del cimitero di Green-Wood. Attese che suo padre entrasse oltre il cancello, poi parcheggiò nella via adiacente e si incamminò dentro anche lei. Sapeva dove trovarlo, avrebbe approfittato di quel momento per chiedergli scusa, era da tanto tempo che non andavano più lì insieme e forse quella era l’occasione giusta. Percorse la strada girando intorno al laghetto, poi prese la stradina che saliva fino ad un collinetta poco rialzata. Camminava con lo sguardo basso, per paura di poter incontrare quello di suo padre, ma quando arrivò davanti alla tomba di Johanna non lo trovò. Era entrato solo pochi minuti prima di lei, sarebbe dovuto essere lì e invece di Jim non c’era traccia. Osservò i fiori appassiti, si ripromise che sarebbe tornata presto a portarne freschi, si guardò intorno, chiedendosi se magari suo padre si fosse fermato al chiosco proprio per quello, attese qualche istante e poi lo vide. Anche lui camminava a testa bassa, in mano aveva solo un fiore bianco. Sorrise Kate nel riconoscere quel giglio, il fiore preferito di sua madre e lo attese lì. Ma Jim non prese quel vialetto, girò a sinistra andando in un’altra zona del cimitero lasciando Kate perplessa che affrettò il passo per non perdere il contatto visivo con lui. Lo raggiunse e rimase dietro ad un albero osservandolo deporre quel fiore alla base di una lapide che ignorava di chi fosse. Si avvicinò a lui con cautela e quando fu alle sue spalle riuscì a leggere l’incisione sulla pietra. “Christine Beckett Novembre 1979”

- Cosa vuol dire, papà? - La voce tremante di Kate sorprese Jim alle spalle che trasalì nel sentire la figlia.

- Cosa ci fai qui, Katie? - Chiese l’uomo senza guardarla.

- Papà, rispondimi. Di chi è quella lapide? - Tutto nella sua mente cominciava ad avere un senso. La reazione dell’uomo alla battuta di Rick, il suo nervosismo, il suo essere evasivo. Aveva solo bisogno che lui lo dicesse, perché fino a quando non lo avrebbe fatto non sarebbe stato reale.

- Di tua sorella. Di Christine.”

 

Kate non ebbe la forza o la capacità di dire nulla, nonostante suo padre provasse a parlare e ad avvicinarsi a lei, lei lo respinse, indietreggiando ed allontanandosi. Aveva mille domande da fargli, mille risposte che pretendeva, ma non in quel momento. Si sentiva solo tradita, vittima di una bugia lunga tutta una vita. Tradita da suo padre ed anche da sua madre, da tutti. Perché nessuno le aveva mai detto nulla? Perché nemmeno quando era adulta nessuno le aveva raccontato la verità? Aveva dovuto sopportare traumi enormi, la sua vita era stata sconvolta da eventi che lei non aveva avuto modo di contrastare, pensavano veramente non fosse stata capace di affrontare una rivelazione del genere? Non tornò al distretto, chiamò Ryan avvisandolo che avrebbe dovuto spostare tutti i suoi impegni al giorno seguente perché non stava bene e dalla sua voce non faticò a crederle.

Il profumo di caffè la accolse appena varcò la porta del loft.

- Ehy, non ti aspettavo così presto! È il richiamo del mio caffè? Preparo una tazza anche per te. - La salutò gioioso Castle che si accorse subito che qualcosa non andava quando lei gli rispose solo con un sorriso abbozzato. Posò le tazze sul bancone ed andò da lei che si abbandonò inerme tra le sue braccia, si lasciò stringere e coccolare da suo marito che non sapeva perché, ma sapeva che era esattamente quello di cui lei aveva bisogno in quel momento.

- Che succede Kate? - Le prese la testa tra le mani sollevandola dalla sua spalla. Vide gli occhi lucidi di chi tratteneva a stento le lacrime.

- Ho una sorella, Castle. Anzi, avevo una sorella.

- Che cosa stai dicendo, Beckett? - Le chiese attonito e lei per tutta risposta si appoggiò di nuovo con la fronte sulla sua spalla. Non aspettò la riposta, non le chiese altro. Capì che aveva solo bisogno di lui e lui era lì per quello.

 

Il loro silenzioso pomeriggio fu interrotto da un bussare sommesso alla porta. Rick si alzò sollevando Kate abbandonata su di lui che fece una mugugno di disapprovazione nel doversi separare da lui.

- Jim… Cosa posso fare per te? - Rick era sempre stato molto educato e rispettoso nei confronti del padre di Kate che non si era mai intromesso tra loro mantenendo sempre una presenza discreta nelle loro vite. Si rese conto, però, di avergli risposto in modo decisamente freddo e la postura del suo corpo, a sbarrare l’entrata a loft, per tenerlo distante da Kate, era una chiara presa di posizione in favore di sua moglie, perché vedeva in lui adesso la causa del suo disagio.

- Vorrei solo parlare con Kate.

- È ok Rick, va bene. - Beckett si era alzata dal divano, asciugata gli occhi umidi e si avvicinava a loro nascondendo le mani nelle maniche del maglione. Castle si spostò lasciando entrare Jim e riacquistando il garbo che lo aveva sempre contraddistinto gli chiese se potesse offrirgli qualcosa, andando poi a preparare nuovamente del caffè, visto che quello di prima non lo avevano più bevuto.

Quando li raggiunse erano seduti uno davanti all’altra, non avevano detto una parola, sembrava che stessero aspettando lui, quando invece Rick aveva cercato di prendere tempo per lasciarli parlare da soli. Prese poi posto vicino a Kate, appoggiando una mano sulla gamba di lei, che immediatamente lei coprì con la sua. Qualunque cosa Jim avesse detto, qualunque cosa fosse accaduta, Castle voleva che lei sapesse che lui c’era e che era con lei, dalla sua parte, sempre.

Jim bevve un sorso di caffè poi mise la tazza sul tavolino tra di loro, vicina a quella di Rick e Kate, poi cominciò a parlare.

- Quando ci hanno detto che eravate due gemelle siamo stati felicissimi, preoccupati e stupiti. Io ero più stupito e tua madre più preoccupata a dire il vero. Poi però la gravidanza era continuata senza problemi, tua madre stava bene e alla fine siete nate solo poche settimane in anticipo. Eravamo felicissimi, poi però è cambiato tutto. Christine aveva dei problemi respiratori ed è stata portate subito in terapia intensiva. È rimasta lì un paio di giorni e poi non ce l’ha fatta. È stato terribile per me e per tua madre, però per fortuna c’eri tu, che eri sanissima e hai riempito la nostra vita. Non abbiamo mai dimenticato Christine, ma il giorno del suo funerale, con tua madre abbiamo deciso che tu non dovevi saperlo, che avremmo dovuto andare avanti come se nulla fosse. Abbiamo buttato via tutto quello che avevamo preso doppio per voi. C’eri tu, Katie, ed eri la cosa più importante. Non ci doveva essere spazio per la tristezza, ma solo la gioia che tu ci donavi. Eri tutto per me e per tua madre, ma Christine era in una parte segreta del nostro cuore e soprattutto dopo la morte di tua madre mi sono chiesto tante volte come sarebbe stato anche per te se lei ci fosse stata, se sarebbe stato più facile per tutti.

- Perché non me lo hai mai detto papà? Nemmeno ora che sono adulta. Avrei capito, non vi avrei giudicato. Perché tenermelo nascosto?

- Volevo mantenere la parola data a tua madre, solo per quello.

- Sono passati quasi 20 anni da quando mamma è morta. Io non sono più una bambina dovevo sapere, papà.

- Mi dispiace Katie. Noi volevamo solo che tu fossi felice, che non dovessi vivere con questo peso. Io e tua madre ti abbiamo amato più di qualsiasi altra cosa, eri tutto per noi, non volevamo farti soffrire.

- Forse fa più male adesso scoprirlo così che averlo sempre saputo.

Kate si alzò e girando intorno al divano andò verso la finestra. Aveva tanti pensieri per la testa, avrebbe voluto dire tante cose, ma non riuscì a dire altro. Rick e Jim rimasero a guardare nella stessa direzione, verso di lei, fino a quando l’uomo più anziano non si alzò.

- Mi dispiace, Katie, credimi. - E così dicendo uscì dal loft, accompagnato da Castle mentre Kate rimaneva impassibile di spalle ai suoi uomini, seguendo il rumore dei passi e poi quello della porta chiudersi. Sentì Rick avvicinarsi ed abbracciarla da dietro. Lo vide riflesso nel vetro e si appoggiò a lui. Apprezzava il suo non farle domande, anche se sapeva, conoscendolo, che avrebbe voluto chiederle tante cose. Rimase invece fermo a sostenerla, fisicamente e moralmente e lei sapeva che lui ci sarebbe stato per lei. Sempre.

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Capitolo 7
*** Sette ***


Boston

 

Aveva parcheggiato la sua Ford Explorer sul ciglio della strada. Chiuse con forza lo sportello che doveva sicuramente oliare un po’, la sua “nuova” macchina della sua “nuova” vita aveva una quindicina d’anni e una lunga serie di acciacchi, proprio come lei, almeno avevano qualcosa in comune. Era stato Warren a trovargliela, da un suo amico che aveva il figlio che vendeva auto di seconda mano, le aveva fatto un prezzo di favore e l’avrebbe potuta pagare un po’ per volta. Non voleva gravare ancora di più su suo padre e contava di riprendere presto il suo lavoro. Il dottor Vega aveva dato parere positivo, pur con una serie di riserve e obbligandola a continuare i loro incontri. Aveva accettato di buon grado, anche se sentirsi sotto osservazione non le piaceva, non la faceva sentire tranquilla, soprattutto perché aveva paura di tradirsi prima o poi, di raccontare di quel ricordo che periodicamente tornava ad assillarla, però aveva bisogno di lavorare, di riprendere la sua vita in mano ed anche di guadagnare qualcosa.

Non aveva mai pensato a tutte le cose che avrebbe dovuto fare per essere “ritornata in vita”. Documenti da rifare, assicurazioni da stipulare ed ogni volta doveva ripetete la stessa storia ed ogni volta era più frustante. Ogni giorno c’era qualcosa che si accorgeva che mancava o che doveva ancora ripristinare e così era stato un paio di giorni prima quando l’avevano chiamata perché c’era ancora una questione da sistemare. Per questo era lì e le sembrò tutto così assurdo. Era in piedi davanti alla sua lapide. Osservava la scritta che Nick aveva scelto e che avrebbe dovuto rappresentare tutto quello che era: moglie, madre, sorella e figlia. Sorrise pensando che tra tutte quelle cose, quella che era stata fatta scrivere per prima era l’unica che non era più. Guardò il piccolo vaso bianco vuoto rovesciato, quasi coperto dalle foglie secche e i resti di un mazzo di fiori rovinato dal tempo.

- Li aveva portati Flynn, qualche giorno prima che venissi ritrovata. - La voce di Nick la sorprese alle spalle ed Emily si voltò repentinamente. I suoi sensi sempre troppo all’erta catalogavano ogni voce o rumore che interrompevano i suoi pensieri come un possibile pericolo.

- Mi hanno chiamato gli addetti, serviva la mia firma perché ero stato io a…

- Ok, ok… me lo avevano detto. Pensavo che avevi fatto prima, in ufficio.

- No, ecco, sono stato impegnato e mi hanno detto di passare qui e potevo firmare direttamente i fogli che avevano gli operai. - Indicò il furgone vicino alla sua macchina ed Emily annuì.

- Alice come sta? - Gli chiese cerando di portare la conversazione su qualcosa di diverso.

- Bene, bene. Anche il bambino. È un maschio. - Rispose Nick imbarazzato.

- Sono felice per voi.

I loro rapporti erano stati altalenanti nelle ultime settimane, soprattutto per via del disagio di Flynn che cercava spesso un rifugio in sua madre e questo se da una parte faceva felice Nick, dall’altra lo destabilizzava, perché vedeva l’idea della sua famiglia normale dissolversi sempre più. Non c’era niente di normale in quella situazione e se lui poteva fare finta di niente, se Alice sembrava fare finta di niente, Flynn non ci riusciva. Aveva discusso più volte con Emily accusandola di non fare la madre ma l’amica per cercare di ottenere i favori del figlio, l’aveva ripresa ricordandole che Flynn non era più un bambino di pochi anni, ma ormai un pre adolescente piuttosto sveglio che aveva bisogno di regole più rigide. Emily, però, non pensava che decidere di passare una serata insieme minasse l’educazione di Flynn, ma solo che quello era ciò di cui aveva bisogno lui. Non era facile ricominciare per loro due, ricostruire quel rapporto madre/figlio bruscamente interrotto, le sembrava di insinuarsi in quel legame che lui aveva con Alice ma glielo aveva detto molte volte, non voleva prendere il posto di nessuno, anche se tecnicamente era lei ad aver preso il suo, voleva solo essere ciò che era, sua madre, e per questo ogni slancio che Flynn aveva verso di lei non riusciva a soffocarlo in nessun modo, anzi ne era solo felice e lo assecondava.

 

Entrambi stavano fissando quella pietra fredda, ognuno chiuso nei suoi sentimenti.

- Sono venuto qui ogni giorno dopo la tua scomparsa. Guardavo quella scritta e non ci credevo. Non è stato facile, Em, soprattutto i primi tempi. - Le disse Nick con un filo di voce senza distogliere gli occhi dalla lapide.

- Già, i primi tempi… Poi è arrivata Alice, giusto? Dopo quanto, Nick? - Gli chiese con rabbia. Non lo credeva, però quell’idea la faceva star male, perché pensava che loro fossero qualcosa di diverso, che il loro amore fosse diverso, ma forse si erano solo illusi entrambi e quello che pensava ci fosse, in realtà, non era mai esistito, era solo quello che sia lei che Nick volevano credere: un grande amore, un figlio splendido, la famiglia perfetta. Ne avevano bisogno entrambi, ma evidentemente era solo la proiezione dei loro desideri, molto lontano dalla realtà.

- Emily, cosa vuoi dire? - Si voltò a guardarla ma lei non lo fece.

- Quanto tempo c’hai messo a sostituirmi? A cancellare quello che eravamo, a ricostruire la tua vita come se nulla fosse? - Si era voltata anche lei ed aveva trovato gli occhi increduli di Nick che la guardavano senza capire bene cosa stesse dicendo.

- Possiamo? - La voce di uno degli operai interruppe i loro sguardi silenziosi.

- Sì. - Risposero in coro. Nick si girò per andare via, ma la sua attenzione fu richiamata dalla voce di Emily che aveva detto agli operai di aspettare un attimo. Vide che avevano con una piccola ruspa già sollevato la lapide e la sua mente tornò a quel giorno e a quella fredda cerimonia che avevano fatto poco più di un anno dopo la sua scomparsa, quando era appena cominciata la primavera e l’erba era verde e fresca. Nick osservò Emily mettere una mano in tasca, non riusciva a vedere cosa ci fosse, poi capì quando sentì il rumore dell’anello che tintinnava nel fondo del vaso dove lo aveva buttato. Era la sua fede del loro matrimonio, quella che le aveva ridato insieme alle sue cose appena si era sistemata nella nuova casa. Rimase bloccato a guardare quella scena e poi la seguì con lo sguardo mentre gli sfilava a fianco, salutandolo solo con un cenno della testa. Abbassò la testa e sentì il rumore della portiera chiudersi con un tonfo molesto ed il rombo incerto del motore che veniva acceso e lei andare via.

- Noi qui abbiamo finito. - Gli disse qualche minuto dopo uno degli operai. Al posto della tomba di Emily ora c’era solo un cumulo di terra smossa. Andò via anche lui.

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Capitolo 8
*** Otto ***


Boston

 

Non era così facile. Niente lo era per Emily. L’unica parte della sua vita che sembrava andare bene era quella che all’inizio le sembrava più difficile, il rapporto con Flynn che invece migliorava di giorno in giorno. Il resto era tutto sempre più ingarbugliato, come i suoi ricordi. Aveva deciso di accettare la proposta di Crown di riavere il suo posto all’FBI ma mentre fuori ostentava sicurezza, dentro di sé i dubbi e le incertezze sugli altri e su se stessa la consumavano. Mentire era sempre più difficile, anche al dottor Vega che doveva certificare la sua assoluta capacità di riprendere il suo ruolo attivo. Era convinta che lui avesse capito che qualcosa non andava, che c’era qualcosa che la stava tormentando e non era certa che l’avergli detto dei suoi timori per Flynn e i suoi incubi e i sensi di colpa che si portava dentro per questo fossero sufficienti per giustificare i suoi tormenti.

Pensava, però, che riavere il suo lavoro sarebbe stato l’unico modo per provare a scoprire la verità, continuare ad indagare per conto suo, andare a scavare lì dove tutti gli altri si erano fermati. Sperava, inoltre, che i suoi ricordi sarebbero pian piano tornati anche se più passavano i giorni più aveva la sensazione che in lei ci fosse una sorta di blocco che le impediva di ricordare cosa avesse fatto in quei sei anni. Si era pian piano convinta che la sua mente volesse proteggerla dalle sue stesse azioni: se Logan aveva ragione ed aveva veramente ucciso Harlow e Semerov, quanti altri crimini poteva aver commesso? Che persona era stata? Che persona era diventata? E cosa era che faceva tornare in superficie quella parte di lei? Poteva fare del male anche alle persone che amava? Anche a Flynn? Era questo il suo terrore più grande: era veramente “qualcosa” di così diverso che avrebbe potuto far del male al suo stesso figlio? Le sembrava di combattere quotidianamente una battaglia contro se stessa, sospesa tra la voglia e la paura di sapere.

Avrebbe voluto prendersi veramente quella vacanza che aveva detto al detective Gibbs per ricaricarsi, ma una volta che ad una cena insieme a Warren e Jack era venuto fuori questo discorso davanti a Flynn aveva notato come suo figlio avesse cambiato immediatamente anche se quasi impercettibilmente atteggiamento, ma lei riusciva a decifrare ogni minimo cambiamento di Flynn e lo aveva visto irrigidire i muscoli del viso e stringere il pugno appoggiato sulla gamba sotto al tavolo. Gli aveva quindi preso la mano e l’aveva stretta nella sua: lui l’aveva guardata deluso e lei lo aveva rassicurato che non sarebbe andata da nessuna parte senza di lui, nemmeno per una vacanza. Capiva perfettamente il suo malumore e le sue paure, soprattutto quella di essere abbandonato di nuovo. Le aveva provate lei stessa per anni dopo essere stata accolta a casa dai Bryne, quella irrazionale paura che prima o poi l’avrebbero portata indietro. Era per questo che nei primi tempi, aveva reso impossibile la vita a tutti loro, era un volerli mettere alla prova, perché se l’avessero voluta tenere con loro nonostante il suo comportamento voleva dire che la volevano veramente e di nulla aveva sempre avuto più bisogno del sentirsi parte di una famiglia, voluta da qualcuno che la amasse nonostante tutto, eppure niente era mai riuscito a cancellare il dolore per essere stata abbandonata, il non sapere perché e non sapere chi realmente fosse. Magari la sua nella famiglia originaria suo padre era un serial killer o uno stupratore. Per questo l’avevano abbandonata e non la volevano, perché lei poteva essere il frutto di una violenza di qualcosa di non voluto o, peggio ancora era arrivata a pensare in quei giorni, in lei poteva esserci qualche gene malato, di latente follia, che Logan con i suoi esperimenti era stata capace di riattivare.

In quei giorni Tommy Gibbs l’aveva chiamata alcune volte, cimentandosi in quella che poteva definire una corte maldestra ed impacciata alla quale non era preparata nè abituata, nel suo passato era stata sempre lei a conquistare gli uomini che la interessavano, non era mai stata preda, sempre cacciatore. Era passato ormai del tempo dal suo ritorno, più di sei anni dalla sua scomparsa, Nick stava per avere un altro figlio, era sposato con un altra donna e dopo quello che era accaduto dal suo ritorno sapeva bene che tra loro non sarebbe mai potuto esserci nulla più e che forse lei non aveva mai conosciuto quell’uomo fino in fondo. Eppure per lei non era passato tutto quel tempo, non nella sua mente, anche se aveva buttato via la fede sperando che questo la aiutasse a chiudere quel capitolo, non era così. Era uscita con Tommy un paio di volte, un drink, quattro chiacchiere e nulla di più. Apprezzava i suoi tentativi di tenere fuori da quelle serate le circostanze nelle quali si erano conosciuti, ma sapeva che tra loro non sarebbe potuto esserci nulla di più, non in quel momento almeno, o forse mai. Immaginava che lui l’avesse capito dopo la loro ultima uscita ed il suo tentativo di approccio che lei aveva schivato con maestria. Non era pronta, gli aveva detto, e non era una bugia, non lo era davvero. Si erano lasciati con la promessa di risentirsi, di fatto era passata una settimana e non lo avevano più fatto.

Aveva rivisto Nick e Alice alla gara di Flynn, percepiva il loro imbarazzo per la propria presenza. Si era messa dalla parte opposta della piscina rispetto a loro che non avevano lasciato suo figlio un attimo prima della gara. Lei si era avvicinata solo per un istante, lo aveva guardato negli occhi e letto le sue paure, lo aveva stretto a se e gli aveva sussurrato che non c’era nessuno che gli avrebbe fatto del male e che lei era lì. Non sarebbe stata una grande rassicurazione visto che era lei la causa di tutti i suoi problemi, ma sembrò funzionare. Lo vide titubante solo alla prima virata nella quale aveva perso un po' di terreno dal suo principale rivale, ma poi lo aveva prontamente ripreso ed infine aveva vinto al fotofinish. Non aveva fatto in tempo a raggiungerlo appena finita la gara, preceduta da Nick e Alice che erano corsi a congratularsi con lui mentre li osservava in disparte, sorridendo a suo figlio quando i loro sguardi si erano incrociati. Era la sua prima gara che vedeva e gli aveva scattato tantissime foto con il cellulare, orgogliosa di lui, perché aveva nuotato sconfiggendo un nemico ben più subdolo e pericoloso di quelli in vasca. Lei lo sapeva, era l’unica a saperlo, a sapere quanto il suo bambino era forte e coraggioso. Lo vide poi uscire dagli spogliatoi cambiato con ancora i capelli umidi insieme a suo padre ed Alice che ormai lasciava intravedere la gravidanza nelle nuove forme più morbide e generose. Le corse incontro, sfuggendo al loro controllo e quando le fu davanti tirò fuori dalla tasta la piccola medaglia che gli avevano dato poco prima.

- Sei stato bravissimo Flynn. - Si congratulò ancora guardando l’oggetto che lui faceva pendere dalle dita.

- È per te. - le disse serio ed un po' imbarazzato. Non era ancora facile per lui esternare le sue emozioni con lei.

- No, tesoro è tua, la devi mettere insieme a tutti gli altri premi che hai vinto! - gli rispose emozionata per quel gesto chiudendo la medaglia nella sua mano, ma lui testardo scosse la testa e gliela porse di nuovo.

- Voglio che la tieni tu. Non l’avrei mai vinta senza di te, mamma.

Emily lo abbracciò stringendolo forte, baciandolo tra i capelli senza riuscire a trattenere la commozione, mentre teneva nella mano la sua medaglia.

- Ti voglio bene Flynn. Questo è il più bel regalo della mia vita.

Nick arrivò a sciogliere quell’abbraccio, ricordando a Flynn che dovevano andare a casa perché quella sera avrebbero avuto a cena sua zia Maura, la sorella di Alice. Fu riluttante a lasciare sua madre, che però lo incoraggiò a seguire Nick mentre lo salutava con una mano e con l’altra stringeva sempre la medaglia di Flynn. Suo figlio era stato coraggioso, aveva sconfitto i suoi fantasmi. Doveva farlo anche lei. Prese il telefono e chiamò Crown, voleva tornare a lavoro. Si sentiva pronta. Doveva esserlo.

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Capitolo 9
*** Nove ***


New York

 

La tazza di caffè tra le mani di Kate fumava e bruciava i polpastrelli. Osservava l’ambiente familiare rimasto intatto da molti anni, forse da sempre, da quando aveva ricordi. Gli oggetti e le foto sul mobile intorno alla sala erano quelli di sempre, ricordi cristallizzati a molti anni prima, e l’unico segno del tempo che era passato era l’unica foto in più che si era aggiunta era quella del suo matrimonio, incorniciata in una sottile cornice di metallo che un po' strideva con il resto che si rifaceva ad un gusto anni 80 e 90, decisamente meno sobrio. Lo sguardo che vagava tra i ricordi senza soffermarsi troppo su nulla, si fermò invece proprio lì, sui loro sorrisi sinceri, su quegli sguardi innamorati e le sembrò per un attimo di essere di nuovo negli Hamptons, in quel momento preciso, con il cuore pieno e l’animo più leggero, per qualche istante. Si aggrappò a quella foto pensando come Castle potesse essere il suo appiglio anche quando non c’era, bastava una foto, un ricordo, un’emozione per rendere tutto più semplice.

Fu riportata alla realtà di quel momento dai passi di suo padre che scendevano le scale. Era stato lui a chiamarla qualche giorno dopo la sua visita al loft, quando tutta la sua vita in un giorno, per caso, era stravolta. Le sembrava di non sapere più chi fosse, come se tutta la sua vita fosse stata solo una menzogna. In quei giorni era stata arrabbiata, triste, delusa. Aveva provato tutta la gamma di emozioni possibili, in silenzio, dentro di sé. Era talmente tanto tutto quello che sentiva che faticava ad esternarlo, come se facendolo temesse che fosse tutto ancora più reale di quanto già non fosse. Si era rifugiata nel lavoro, ma ancora di più nelle braccia di suo marito, che ogni sera quando tornava, era pronto ad accoglierla nel modo in cui lei aveva più bisogno, in silenzio. Non le faceva domande, non le chiedeva nulla perché non ne aveva bisogno né lui per sapere né lei per stare meglio. Dopo la fine del capitolo LokSat, quando entrambi aveva rischiato tanto, troppo, il loro rapporto era cambiato, era diventato se possibile ancora più profondo. Avevano imparato a venirsi ancora di più incontro, Kate rinunciando alla sua voglia di essere sempre in prima linea a discapito di tutti e Rick mettendo da parte la sua esuberanza quando non era necessario. Avevano imparato a parlarsi ed ascoltarsi anche quando avevano bisogno dei silenzi ed era successo spesso, come era per Kate in quei giorni.

Jim appoggiò sul tavolo un quaderno con la copertina rigida ed una delicata stampa a fiorellini. I bordi erano un po' consumati, segno che era stato aperto e chiuso molte volte. Non ci mise molto a trovare in quell’oggetto il gusto familiare di sua madre.

- Credo che dovresti averlo tu, adesso. - le disse suo padre con voce bassa e un po' roca che nascondeva male l’emozione. - Era di tua madre. Aveva cominciato a scriverlo quando aveva scoperto di essere incinta, sai come è fatta lei… deve annotare tutto e… avere tutto sotto controllo.

Jim provò a sorridere dopo quello che doveva essere un bonario rimprovero alla moglie. A Kate non era passato inosservato che ne aveva parlato al presente, lo aveva fatto spesso in passato, soprattutto nei momenti peggiori: era il chiaro segno che non ne era mai uscito e forse non ne sarebbe uscito mai e quello che era successo negli ultimi giorni non aveva fatto altro che riaprire cicatrici mai del tutto chiuse, non solo in sè stessa, ma anche e forse soprattutto in lui.

- Non ha smesso nemmeno dopo. Doveva andare avanti, dovevamo andare avanti. Per noi stessi e soprattutto per te. Abbiamo sempre cercato di fare il meglio per te, Katie, questo non devi dubitarlo. Puoi forse non comprenderlo, ma non pensare che non sia così. Volevamo proteggerti e forse abbiamo sbagliato, è vero, ma quando lo abbiamo fatto credevamo fosse la cosa migliore.

Kate ascoltò in silenzio annuendo al padre. Non dubitava di quello, anche se faticò a dirglielo.

- Lo so. - ammise serrando poi subito le labbra che poi si morse nervosamente.

 

 

Era seduta sul letto tenendo il quaderno di sua madre sulle ginocchia. Sarebbe dovuta tornare al distretto, dove aveva lasciato anche Castle intento con i ragazzi a lavorare su un caso, ma aveva avvisato che si prendeva il resto del giorno libero. Aveva bisogno di stare sola, per questo aveva chiesto a Rick di rimanere lì con Ryan e Esposito per aiutarli. Si era sentito lusingato, ma allo stesso tempo aveva capito dalla sua voce la vera natura di quella richiesta: voleva stare sola, voleva avere tempo per leggere con calma, magari piangere e arrabbiarsi.

Lei ci aveva messo meno tempo di Rick ad abituarsi ad un loft più vuoto e silenzioso e non poteva negare che le piaceva, le piaceva molto avere tempo per sé stessa senza preoccuparsi che qualcuno oltre Castle potesse vederla nei suoi momenti di debolezza fisica e mentale, credeva che non sarebbe riuscita a superare i mesi passati avendo Martha e Alexis sotto lo stesso tetto: voleva bene ad entrambe, ma loro non potevano capire fino in fondo, non come Castle, perché l’avevano vissuta insieme e perché lui la capiva come nessuno al mondo.

Quel giorno però le sembrava che anche Rick fosse di troppo tra lei e sua madre. Le sembrava di essere stata risucchiata indietro di anni, quando faticava ad accettare quello che era accaduto a Johanna e, prima ancora che al killer, dava la colpa a lei stessa della sua morte, lei che metteva sempre il lavoro prima di tutto, che sembrava dimenticarsi di avere una famiglia a cui pensare, lei che avrebbe dovuto fare un passo indietro in quella storia, per suo padre e per sua figlia ed invece era andata dritta, verso la morte, perché lei aveva sempre saputo che non era stata uccisa per caso, ma qualcuno l’aveva eliminata per qualcosa che aveva fatto. Il suo istinto da detective, forse, che tante volte poi nel corso degli anni l’aveva aiutata nelle indagini, quell’istinto che le diceva che voleva sapere di più.

Le mancò il fiato per un istante pensando che tutto quello che lei da ragazza aveva rinfacciato a sua madre dopo la morte erano le stesse cose che aveva fatto lei. Aveva messo i suoi ideali, il suo lavoro, la sua voglia di verità e giustizia davanti a tutto, alla sua stessa vita e soprattutto alle persone che amava. Certo, lei non aveva una figlia, ma aveva Rick: come aveva potuto fargli questo? Scegliere di continuare ad indagare, allontanarsi da lui, mettere in dubbio il loro matrimonio, la loro vita insieme fino a rischiare di morire per non fare un passo indietro, quel passo indietro che tante volte aveva urlato che avrebbe dovuto fare sua madre e sarebbe stata ancora con lei.

 

Le pagine erano pesanti da sfogliare ed ancor più da leggere. Non erano, come le aveva detto suo padre, solo pagine piene di annotazioni per avere tutto sotto controllo, c’era molto di più. Erano i pensieri di quella giovane donna che era sua madre, la sua felicità, le sue paure, le sue speranze nel sapere che sarebbe diventata madre, l’eccitazione ed il terrore quando aveva scoperto che sarebbero state due bambine, Katherine e Christine, avevano scelto i nomi subito, l’impazienza, la trepidante attesa per la nascita, i dubbi su come avrebbero fatto a gestirne due e la forza che usciva dalle righe di sua madre con la certezza che in qualche modo ce l’avrebbero fatta. C’era poi un silenzio lungo mesi ed infine aveva ricominciato a scrivere. Da quello che aveva capito, era passato qualche mese dalla sua nascita. Johanna aveva ricominciato a scrivere come se nulla fosse. Non una parola su quanto accaduto, non uno sfogo, niente. Annotava tutti i suoi progressi, anche ogni minima cosa che faceva. Poteva sentire tra quelle righe lo stesso amore che sua madre le aveva sempre dimostrato e quell’orgoglio che provava per lei, mai detto a parole, ma che le aveva sempre fatto capire con i fatti. Era scrupolosa nell’annotare ogni visita medica con il dottor Turner, il suo pediatra, quello che le diceva, i suoi progressi. Scoprì di essere stata decisamente vorace nei primi mesi di vita mangiando più del normale, che era convinta che le avesse sorriso proprio il giorno di Natale anche se dicevano che fosse impossibile, che dormiva poco e voleva farlo solo in braccio a lei, ma anche se era stanca non si lamentava, perché amava tenerla vicino a sé.

 

Era andata avanti a leggere senza sosta per ore, fino a quando Castle non era rientrato a casa. L’aveva trovata ancora sul letto con il quaderno in mano e si sedette vicino a lei.

- Va tutto bene? - Le chiese notando sul suo viso occhi lucidi di chi aveva pianto da poco.

- Sì… È  di mia madre. - Spiegò anticipandolo, mostrandogli il quaderno. - Me lo ha dato oggi papà. Pensava dovessi leggerlo…

- Hai trovato delle risposte?

- A quali domande?

- Sicuramente ne hai molte che vorresti farle. A qualcuna.

- Non parla di mia sorella, né di cosa è successo. Parla molto di me.

- Quindi non sono il primo ad aver scritto di te! - Le disse fingendosi sorpreso e colpito. Accentuò la sua reazione proprio da degno figlio di Martha Rogers e le strappò un sorriso. Voleva proprio quello.

- No… Però tu non hai mai scritto di quando la notte non volevo dormire…

- Beh, diciamo che di alcune notti in cui non volevi dormire in realtà ho scritto, poi ho evitato di metterle nei libri ma… - Una occhiataccia di Beckett lo indusse a tacere. Forse era meglio non rivelarle di quella parte dei suoi scritti mai pubblicati ed aveva la certezza che quel discorso lo avrebbero ripreso e per lui non sarebbe stata una passeggiata, o forse sì, se magari l’avesse convinta a metterle in pratica. Gli bastò, però, guardarla ancora per tornare serio e interrompere i suoi pensieri.

- Scoperto qualcosa di interessante?

- Direi di no, a meno che non sia interessante sapere che mangiavo tanto, non volevo il ciuccio, a tre anni ho cambiato pediatra perché a mia madre non piaceva e che il primo giorno di scuola mi ha spiato ed ha visto quando mi sono messa a piangere di nascosto.

- Di nascosto?  - Chiese interessato.

- Sì, volevo che pensasse che fossi forte, che non mi dispiaceva, così ho pianto solo quando pensavo che lei fosse già andata via. Invece era rimasta lì ad osservarmi e mi aveva visto. Non me lo ha mai detto, anzi mi ha sempre fatto i complimenti perché ero stata l’unica a non averlo fatto e diceva che ero coraggiosa.

- Lo sei, non ti ha detto una bugia. E lei sicuramente era molto orgogliosa di te. - Allargò le braccia e Kate istintivamente si rifugiò nell’abbraccio familiare di suo marito. Il suo rifugio.

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Capitolo 10
*** Dieci ***


New York

 

In quella storia per Beckett cominciavano ad esserci troppe casualità, era tutto quello che riusciva a dirsi. Era tutto così assurdo che nemmeno il sempre fantasioso Castle aveva molto di più da dire, anzi era stranamente taciturno e questo per Kate voleva dire solo una cosa: i suoi pensieri erano andati molto oltre i propri.

Non sapeva se l’aveva sconvolta di più aver avuto una gemella della quale ignorava l’esistenza fino a pochi giorni prima, se era la consapevolezza che i suoi genitori le avevano mentito per anni oppure che contemporaneamente aveva trovato una donna che le assomigliava terribilmente, che aveva più o meno la sua età ed una vita con ancora più problemi della sua. Si era fatta mandare le carte di quel caso, tra il favore personale che ormai nessuno le negava, dopo la vicenda LokSat era decisamente benvista a tutti i livelli e chiunque cercava di portarla dalla sua parte data la notorietà e risonanza avuta dal caso che spesso la infastidiva anche, e mascherando il tutto con il dover indagare su degli omicidi irrisolti che poteva collegare ai serial killer di Boston. Non erano rimasti troppo sorpresi dalla sua richiesta, come le aveva confermato un solerte agente del Massachusetts erano molti i dipartimenti che alle prese con omicidi irrisolti chiedevano a loro informazioni per vedere se la soluzione era nelle azioni di quei pazzi. Lei, però, si era da subito interessata di più alle vicende di Emily Byrne che non a quelle dei suoi aguzzini.

Aveva il suo fascicolo in mano, appena finito di leggerlo. Avevano minuziosamente riportato ogni dettaglio della sua vita, di quella che doveva essere la sua presunta morte, della fuga e dell’arresto, salvo poi scagionarla da tutte le accuse. C’era anche un rapporto piuttosto dettagliato della sua infanzia, o almeno di quello che si sapeva, tutte notizie che dovevano essere utili per le indagini. Aveva così scoperto che Emily Byrne aveva passato la sua infanzia in diversi orfanotrofi, era nata a New York ed era giunta a Boston a poco più di due anni ed aveva trascorso tre anni alla Mercy Home prima di essere trasferita a Barrett House e poi di essere adottata dai Byrne.

New York. Altra coincidenza. Emily Byrne era nata a New York, come lei. Certo, la sua razionalità le imponeva di considerare il fatto che le date di nascita erano molto diverse, però c’era una voce che avrebbe sempre considerato insensata, che le diceva che non era così importante questo. Non lo avrebbe mai detto a Castle, ovviamente, perché quando tutto si sarebbe rivelato solo uno scherzo della sua mente troppo sollecitata dagli ultimi avvenimenti, l’avrebbe presa in giro per sempre e non voleva prestargli il fianco. Perché tutto si sarebbe rivelato solo un frutto della sua mente, doveva essere così, sperava che lo fosse. Forse. 

 

Rick bussò alla porta dell’ufficio di Beckett ed entrò prima di ricevere una risposta. La trovò con lo sguardo fisso su un foglio di carta. Si avvicinò lasciandole una tazza di caffè fumante sulla scrivania, posizionandosi proprio al suo fianco, così da poter vedere cosa richiedesse tutta la sua attenzione.

- AB negativo. - Disse Kate senza guardarlo. Era il fascicolo di Emily Byrne ed ora che osservava meglio sua moglie, non era attenta, era perplessa e preoccupata. - Il gruppo sanguigno di Emily Byrne è AB negativo. Sai cosa vuol dire?

- È come il tuo.

- Sì, negli Stati Uniti è presente in meno dell’1% della popolazione.

Castle appoggiò la tazza che teneva in mano ed avvicinò la sua sedia vicino a lei, sedendosi e prendendole la mano.

- Dimmi cosa pensi Rick, perché lo so che cosa stai pensando e se fosse stata un’altra situazione tu avresti già detto… 

- Che sono troppe coincidenze, che una data di nascita in un orfanotrofio può essere modificata, che dovresti indagare di più e scoprire cosa c’è sotto. Tu però mi avresti detto che queste sono solo le fantasie di uno scrittore, che un certificato di nascita è un atto ufficiale e che ci sono circa tre milioni di persone negli Stati Uniti con quel gruppo sanguigno. 

- Già… è così… - Prese la tazza con la mano libera, senza lasciare quella che lui le teneva, e sorseggiò in silenzio il caffè. Castle aspettò che finisse di bere osservando la fronte crucciata quella rughetta che le si formava quando era troppo pensierosa.

- Vuoi crederci, vero? - Le chiese sorprendendola. 

- A cosa?

- Che Emily Byrne per qualche inspiegabile motivo possa essere tua sorella.

- Io no… no… Perché dici così? - Si sentì punta nel vivo. Voleva crederci? Forse sì, non lo sapeva, non capiva più nulla di cosa volesse, in realtà. 

- Perché io per anni mi sono chiesto chi potesse essere mio padre ed ogni volta che vedevo qualcuno che potesse anche un po’ somigliarmi cominciavo a farmi domande, a chiedermi se potesse essere lui, qualche volta, quando ero un ragazzino, mi sono anche messo in mostra, sperando che magari il lui di turno, vedendomi, potesse pensare la stessa cosa. Mi sono chiesto se avessi un fratello o una sorella da qualche parte nel mondo. Tu hai scoperto di avere una sorella e…

- Non è la stessa cosa Castle, mia sorella è morta. C’è la sua tomba. L’ho vista. - Si alzò andando verso la finestra. A volte malediva il fatto che lui la capisse così tanto. Come faceva?

- Sì, ma tu non hai visto lei, hai visto la sua tomba, non lo sai. Tu hai questa notizia, hai una sorella e c’è una donna che ti assomiglia tantissimo e la tua mente si rifiuta di non considerare questa possibilità. 

Le aveva appoggiato le mani sulle spalle, sembrava sostenerla ed era quello che in realtà faceva, sempre.

- È tutto così assurdo, Castle. Non so cosa fare. La ragione mi dice una cosa però… Il mio istinto mi dice altro. 

- Beh, di solito quando segui il tuo istinto è meglio. Insomma, la tua razionalità non ha sempre fatto le scelte giuste, in passato. - Kate potè vedere il suo sorriso riflesso nella finestra, mentre le dava un bacio sulla guancia. Sapeva benissimo a cosa si stava riferendo, glielo aveva rinfacciato varie volte di quanto tempo avevano perso quando aveva seguito la sua ragione, non lasciandosi andare a quello che il cuore le suggeriva, perché aveva paura. Ed aveva paura anche in quel momento, che le sue folli idee fossero vere o forse ancora di più che non lo fossero. 

- Cosa dovrei fare, Castle? Andare a Boston, cercare questa Emily Byrne, dirle “Ehy, vedi come ci assomigliamo, potresti essere mia sorella”? Sconvolgerle la vita per una mia idea quando la sua mi pare sia già abbastanza incasinata?

- Vedi, un’altra cosa in comune. Vite incasinate. - Provò a farla sorridere, senza successo. - Ok, magari ora no. Però potresti partire dalle poche cose che dovresti sapere che sono sicure.

- Niente quindi. 

- No, qualcosa c’è. Tua sorella. Cioè, se quella sepolta è realmente tua sorella, non devi fare altro e queste sono solo tante casualità. Ma se non lo è… 

- Dovrei far riesumare il cadavere di una neonata per farlo analizzare? Come posso dirlo a mio padre?

- Beh, per ora potresti evitare di dirglielo. Non sarà una cosa lunga, devono solo confrontare il suo DNA con il tuo, non penso che ti negheranno un favore…

- Tu mi sopravvaluti Castle. Sono solo il capitano del dodicesimo… - Gli disse tornando alla sua scrivania, osservando la targa con il suo nome sopra.

- Sei tu che ti sottovaluti, Kate. Sei il Capitano Beckett e lo sai anche tu cosa vuol dire questo. Non avrebbero mai fermato LokSat se non era per te. 

Non lo voleva ricordare, anzi avrebbe cancellato quel periodo della sua vita se fosse stato possibile, con tutto quello che aveva comportato e quello che avrebbe potuto voler dire. Erano quasi morti per LokSat e se avrebbe potuto decidere di sacrificare la sua vita in nome di un indagine o un ideale, non avrebbe mai potuto mettere in conto anche quella di Castle. Era sempre difficile toccare quell’argomento, nonostante tutto, anche a distanza di mesi.

 

Aveva avuto ragione Castle, non le avrebbero negato un favore. Aspettarono la favorevole coincidenza di un viaggio di lavoro di Jim a Philadelphia che lo avrebbe tenuto fuori città una settimana e poi procedettero a riesumare il corpo di Christine Beckett. Sarebbe voluta andare da sola, ma Rick aveva insistito per accompagnarla. Seguirono in silenzio tutta la procedura, Kate firmò le autorizzazioni per il trasferimento della piccola bara bianca al laboratorio della scientifica. 

- Ancora non riesco a capire perché non mi hanno mai detto niente. - Fissava la lapide ormai vuota di sua sorella mentre Rick le rimaneva vicino.

- Alcune volte si dicono delle bugie perché si pensa che sia la cosa migliore per proteggere i figli dalla realtà, non farli soffrire.

- Pensi questo di Martha? Del perché ti ha tenuto nascosta l’identità di tuo padre?

- No, in realtà non so quanto mia madre sapesse di Hunt, non ne abbiamo più parlato. Però sì, penso che lo abbia fatto per proteggermi, per il mio bene… Ma stavo pensando ad altro…

- A cosa?

- A me. Quando Alexis era piccola mi sono trovato tante volte a doverle mentire. Tutte le volte che Meredith si dimenticava di chiamarla, saltava una visita, spariva per mesi. Mi inventavo delle storie sul perché lei non ci fosse, alcune volte le scrivevo anche delle lettere, le mandavo dei bigliettini a nome di sua madre. All’inizio mi credeva, poi mi è venuto il dubbio che facesse finta solo per non deludermi. Non è facile fare il genitore, scegliere il bene per i nostri figli, a volte vorremmo proteggerli ta tutto e con la consapevolezza di sapere che non è possibile, proviamo a proteggerli da quello che possiamo e spesso sbagliamo tutto.

Kate rimase in silenzio aggrappandosi al braccio di Rick e poi appoggiando la testa sulla sua spalla.

- Tu mi aiuterai a non sbagliare o almeno a sbagliare il meno possibile? Voglio dire, quando sarà… - Si era accorta di essere entrata in un discorso troppo complicato per quel momento.

- No. Però ti prometto che sbaglieremo insieme. - Le diede un bacio tra i capelli prima di tornare al distretto.

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Capitolo 11
*** Undici ***


Boston

 

Nuovo distintivo. Nuovo tesserino. Nuova foto.

Era giusto così, non era più lei quella di prima, più giovane, diversamente inquieta, senza quella cicatrice sulla fronte che nel corso dei mesi si era solo un po’ schiarita e che era un monito, ogni volta che si guardava allo specchio, di non dimenticarsi mai di quello che era successo, se mai ne fosse stata capace.

Aveva ripreso ufficialmente il suo posto quella mattina, dopo aver passato tutti gli ultimi test, pratici e psicologici ed aver ricevuto il via libera per tornare all’FBI. Era stato tutto molto strano, per prima cosa fronteggiare gli sguardi dei colleghi, equamente divisi tra pena e sospetto: c’erano tante facce nuove e qualche vecchia conoscenza, ma contrariamente a quanto potesse pensare erano proprio questi quelli che la guardavano più sospettosi, che la scrutavano quando pensavano di non essere osservati, che aveva sentito parlottare pensando di non essere ascoltati. Poi c’era Nick, solo qualche scrivania più in là. Pensò che fosse stata una fortuna che il suo posto, proprio davanti a lui, fosse andato ad una giovane agente entrata da poco, Amanda Cobbs che si era anche offerta di ridarle la sua scrivania, ma aveva declinato, era già difficile così. Nick non era diverso dagli altri vecchi colleghi, lo aveva visto osservarla quando appena arrivata, dopo sorrisi appena accennati ed imbarazzati, si toglieva la pistola dalla fondina per metterla nel cassetto della scrivania, uno sguardo teso, preoccupato, con la mano lasciata indugiare a lungo sulla maniglia del cassetto dove anche lui teneva la pistola, come se dovesse essere pronto a prenderla per fermare una minaccia. Una minaccia. Lui la viveva così, nonostante tutto. Perché sapeva che quelle scuse per quanto accaduto erano di facciata, che Nick viveva così la sua presenza, perché lei di fatto solo per essere tornata, minacciava tutto quello che lui si era creato, quello che lui voleva: la sua vita tranquilla ed abitudinaria, con una moglie ed un figlio, quasi due. Poi c’era Emily, una ventata improvvisa che aveva spazzato via il castello di carte che lui si era creato in quegli anni e gli aveva mostrato come la sua realtà, in fondo, fosse molto meno solida di quanto pensasse, che le sue certezze non c’erano più. Quando Nick aprì il cassetto tirò fuori solo delle gomme da masticare e da lontano le fece il gesto di offrirgliene ora. Rifiutò e si chiese se tutti questi sospetti e minacce che le sembrava di suscitare nelle persone fossero reali oppure solo frutto dei suoi stessi dubbi, quelli che teneva nascosti dentro di sè, quelli indicibili. Perché forse era lei ad aver paura di sè stessa, almeno di una parte, a considerarsi una minaccia.

 

Bussarono alla porta, andò ad aprire appoggiando sul mobile vicino all’ingresso il nuovo badge che stava riguardando.

- Ehy Jack! Come mai da queste parti? - Abbracciò calorosamente suo fratello stringendogli le spalle, sulla porta di casa ancora di prima di farlo entrare.

- Ciao Em… sono passato da papà prima e mi ha detto la novità… - Le passò velocemente una mano sulla schiena per ricambiare l’abbraccio prima di allontanarsi da lei ed entrare. Lo sguardo gli cadde subito sul tesserino lasciato sul mobile, lo prese in mano e lo guardò - allora è proprio vero. Tornata operativa.

- Eh già. - Sorrise imbarazzata, ma non c’era entusiasmo nelle parole di suo fratello per quel passo che per lei era così importante, era solo una considerazione.

- Sei sicura? Voglio dire, non è presto? - Le chiese mentre si sedevano sul divano.

- Beh, è passato quasi un mese da quando avevo parlato con Brown della possibilità, ho fatto di nuovo tutti i test, mi hanno dato l’ok quindi… - Cercava di giustificarsi, si era allontanata da lui, come se si sentisse ancora una volta sotto esame e di dover essere sotto il giudizio di qualcuno.

- Nick cosa dice?

- Francamente, Jack, di quello che possa pensare o dire Nick, adesso, mi importa veramente poco. Comunque non lavoriamo insieme, non lo facevamo nemmeno prima, non c’è motivo di farlo adesso. Mi hanno dato come compagno un agente nuovo, è qui da pochi mesi, anche se è molto esperto. Lui controlla che non faccio danni, io gli do una mano sul posto che ancora non conosce bene. Saremo una bella coppia. - Provò a sdrammatizzare per nascondere l’inquietudine che le provocavano le parole di suo fratello. Phil Jones era quanto ci potesse essere più lontano da lei. Aveva più o meno la sua età, anche se ne dimostrava molti di più. Era calmo, riflessivo, diplomatico, tutte quelle qualità che lei non aveva e non aveva mai avuto. L’agente Brown li aveva presentati e poi Jones l’aveva pazientemente aggiornata sui casi ai quali stava lavorando e dei quali da quel momento in poi si sarebbero occupati insieme. Ovviamente come tutti sapeva cosa le fosse accaduto ma non le aveva chiesto nulla, né fatto alcun riferimento. Era cortese e disponibile, vedeva che si sforzava in ogni modo per metterla a suo agio. Così fu lei a proporgli di andare a prendere un caffè insieme, per parlare in un luogo meno formale e con meno sguardi intorno. Accettò stupito, ma felice, era una liberazione anche per lui. Emily scoprì in breve che il suo nuovo compagno era anche un tipo a modo suo divertente e molto meno precisino di come sembrava in ufficio. Pensò che ci avrebbe lavorato bene insieme, tutto sommato.

- Sai ho incontrato ieri Nick, mi aveva chiesto di passare a prendere Flynn da papà, perché lui avrebbe fatto tardi… - Emily rimase sorpresa dalle parole del fratello. Perché Nick aveva chiesto a suo fratello di passare a prendere suo figlio e non direttamente a lei?

- Poteva chiederlo a me… - Si lasciò sfuggire tra i denti.

- Beh sì, in realtà lo avevo chiamato io per altro e me lo ha chiesto come favore al momento, nulla di organizzato. - Cercò di recuperare, vedendo nel volto di sua sorella un palese fastidio per la cosa.

- Vedo che andate molto più d’accordo adesso di prima. Non mi pare che ti fosse mai piaciuto troppo quando era mio marito, almeno non ricordo che lo chiamavi spesso…

- Sono cambiate un po’ di cose in questi anni, Em… Anche per Flynn quando lo portava da papà…

- Me ne sono accorta che sono cambiate un po’ di cose, Jack. E stanno cambiando ancora.

- Sì e per questo… Nick è un po’ preoccupato, per Flynn.

- Ha parlato con te delle sue preoccupazioni su nostro figlio? Perché?

- Beh ecco… Lui crede che tu lo stai mettendo contro di lui e Alice. Io l’ho rassicurato che non è così, ma…

- Io lo sto mettendo contro lui e Alice? - Emily si era alzata in piedi di scatto cominciando a camminare nervosamente. - Dopo 6 anni mio figlio a mala pena sapeva che ero esistita, che fossi sua madre.

- Per il bene di Flynn…

- Per il bene di Flynn cosa, Jack? Fargli dimenticare che aveva avuto una madre? Rimpiazzarla con un’altra dopo quanto tempo tempo?

- Non è così Emily! Tu non c’eri! Non è stato facile per nessuno! - Anche Jack aveva alzato la voce.

- Continuate a parlarmi come se avessi scelto io di andarmene, come se avessi voluto lasciare mio marito e mio figlio, la mia vita. Forse è questo che pensate ancora, in fondo no?

- No, Emily, lo sai!

- No, Jack, non lo so. Vieni qui per dirmi che Nick ha paura che io metto mio figlio contro suo padre, ma come potrei farlo? Flynn è confuso, è spaventato per tutta questa situazione, per quello che ha passato, ma Nick e Alice nemmeno ci pensano. Aveva paura di tornare in piscina, lo sapevi? Immagino di no, perché non glielo ha chiesto nessuno se voleva, davano tutto per scontato. Ed ha paura anche del fratello che sta per arrivare. Vede suo padre e Alice così presi da questa cosa che è lui a sentirsi escluso ma cosa pensate voi subito? Che sono io a metterlo contro di loro! Eppure Jack, proprio tu dovresti sapere come si può sentire, quali paure può avere, quali sono le sue emozioni. Io lo so come hai vissuto il mio arrivo e se per Flynn non è proprio la stessa cosa pensavo che tu potessi capirlo, meglio di chiunque altro.

Rimasero qualche istante in silenzio. Jack si sfregava le mani, colpito dalle parole di sua sorella. Aveva ragione, sapeva benissimo come poteva sentirsi Flynn, la paura che una nuova arrivata gli portasse via quello che era sempre stato solo suo, affetto e attenzioni, vedere tutti più presi dalla sorella che da lui, tanto da far passare i suoi bisogni in secondo piano e il dover essere per forza forte, perché l’altra ha più bisogno. Aveva anche odiato Emily per un po’ e forse una parte di lui la odiava ancora, anche se le voleva bene.

- Non ti è passato per la testa nemmeno a te che poteva non essere così, non dico di difendermi con Nick, ma almeno di non venire qui, a casa mia, a chiedermi conto del mio rapporto con mio figlio? - Era un fiume in piena, si sentiva messa da chiunque sotto la lente d’ingrandimento, osservata ancora di più di quando era rinchiusa in quella vasca. - Riprese lei nonostante si fosse accorta del disagio di Jack.

- Non sentirti attaccata, Emily. Io cercavo solo di fare il mio meglio per Flynn… Per questo ti ho detto i dubbi di Nick.

- Io non mi sento attaccata, io lo sono. Sono sempre sotto giudizio, per voi. Perché evidentemente non sono una buona madre come lo è stata Alice, perché non posso nemmeno andare a prendere mio figlio perché non rientra nell’orario di visita concordato con Nick, perché devo chiedere il permesso per vederlo ad una donna che mi vede come una nemica. Anche l’essere tornata a lavoro non va bene, vero? È troppo presto, chissà se sarò in grado, non pensi questo anche tu, Jack?

- È una situazione difficile Emily. - Jack cercava di rimanere calmo mentre sua sorella era sull’orlo di una crisi di pianto.

- Anche per me Jack, anche per me. Pensi che sia facile ricominciare da zero? Dopo che tutta la tua vita è stata spazzata via? Pensi che sia facile stare sempre sotto lo sguardo delle persone che dovrebbero aiutarti ed invece sono sospettose, sempre, qualsiasi cosa tu fai e ti guardano come se tu fossi la causa di tutti i loro problemi?

- Ma non è così! - Ribatté lui.

- Non a parole, Jack, ma nei fatti sì. Nei fatti è così, e non ve ne rendete nemmeno conto. - Si lasciò cadere esausta sulla poltrona, ben distante da lui. Jack prese le sue cose e si alzò.

- Comunque io sono felice se ricominci a riprendere in mano la tua vita e non penso che tu voglia mettere Flynn contro Nick. Non siamo tutti tuoi nemici, anche se ci vedi così. - Le disse sconsolato mentre usciva.

Non si salutarono nemmeno, vittime di quel muro di incomunicabilità e differenze che non li aveva mai uniti come avrebbe voluto. Voleva bene a Jack, ma si sentiva sempre così diversa da lui. Si sentì ancora una volta sola, come sempre da quando era tornata e non solo. Prese il telefono, cercando calore e conforto nell’unica persona che glielo aveva sempre dato, incondizionatamente. Warren Byrne, suo padre.

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Capitolo 12
*** Dodici ***


New York

 

Le avevano consegnato, dal laboratorio, i risultati sigillati dentro una busta quella mattina stessa. Nessuno nel distretto sapeva nulla delle sue ricerche. Si era risvegliata una sorta di guerra tra banda in città e in quei giorni di fine aprile, gli omicidi si susseguivano con una frequenza drammaticamente rapida e quasi per nessuno si trovava il vero responsabile, Ryan ed Esposito passavano gran tempo fuori dal distretto per interrogare testimoni reticenti, sapendo benissimo già da prima che non avrebbero cavato un ragno dal buco e questo non gli dava modo di curiosare troppo negli affari del loro capitano né di percepire il suo nervosismo, aumentato a dismisura da quando aveva quella busta tra le mani.

Chiamò Castle per avvisarlo che aveva i risultati, ma non riuscì ad attendere il suo arrivo per aprirla, la curiosità e la voglia di sapere la stavano torturando. Avrebbe messo una pietra sopra a quella storia, per quanto poteva oppure si sarebbero aperte possibilità che non aveva ancora avuto modo di vagliare razionalmente.

Rick entrò nel suo ufficio dopo aver bussato, senza attendere una risposta. Le tapparelle erano tutte abbassate, per isolarsi dal mondo, come quando era occupata in una riunione, ma sapeva benissimo che non era così. La trovò infatti con le mani sul viso, seduto alla sua scrivania, ed i fogli appoggiati sopra alla busta. Non ebbe bisogno di leggere per capire cosa ci fosse scritto.

- Non compatibile. - Gli disse senza nemmeno averlo guardato, sapeva che era lui, lo aveva riconosciuto dal profumo e dal rumore dei passi. - La neonata sepolta non è mia sorella.

Fece un respiro profondo e si tolse le mani dal volto, cercando i suoi occhi. Era molto più vicino di quando lei immaginasse, pronto a raccogliere le sue paure. Appoggiò la testa sulla pancia di Rick  in piedi vicino a lei, che la strinse a sè, proprio come si era immaginata. Non le disse nulla, non era il momento.

 

Era ritornato con due caffè, si era seduto vicino a lei. Aveva pianto, in quei pochi minuti. Di rabbia e dolore, ne era certo, lo vedeva dal viso tirato, dall’espressione contrita nascosta sotto quel velo di incredulità.

Gli accarezzò la mano, prendendo la tazza ed il tocco della pelle di suo marito riusciva a scaldarla più del caffè bollente, strappandole un sorriso di gratitudine per quel gesto semplice e consueto, per qui caffè che da sempre avevano significato molto di più per entrambi ed aveva ragione lui, riuscivano in un modo o in un altro, a farla sorridere, sempre.

Bevve un sorso e si rigirò il foglio tra le mani, leggendo ancora il risultato. Per sicurezza lo avevano ripetuto tre volte ed era sempre uguale: non compatibile.

- Perché hanno fatto questo?

- Non lo so Kate, ma scopriremo chi lo ha fatto e perché. - Provò a rassicurarla. Avrebbe smosso mari e monti, dato fondo a tutte le sue conoscenze per avere le risposte che sua moglie voleva.

- Se quella non è mia sorella, vuol dire che lei potrebbe essere da qualche parte, a New York o in un’altra città… che lei potrebbe essere viva, che potrebbe essere… - Avrebbe voluto dire Emily Byrne, ma non lo fece. Si trattenne, ma Rick la capì senza bisogno che parlasse.

 

Il 17 novembre 1979 nel Mount Sinai Hospital di New York erano nate altre 5 bambine, oltre lei e la sua gemella. Era riuscita a farsi dare i registri dell’ospedale andando personalmente nell’archivio della struttura che per sua fortuna aveva digitalizzato tutti gli atti pochi anni prima. Non fecero troppe storie vedendo il mandato firmato dal giudice Markway, un favore riscosso da Castle per accelerare le operazioni. L’addetta all’archivio le stampò una copia di tutte le cartelle dei parti di quel giorno, ovviamente inclusa quella di sua madre che analizzarono con Rick una volta tornati nel suo ufficio. Qui chiamò l’agente Rodriguez, un giovane arrivato da poco al dodicesimo, che sembrava essere molto in soggezione nei suoi confronti, chiedendogli di fare delle ricerche su quelle donne, voleva parlarci o almeno vederle, per capire. Rick non potè evitare di sorridere vedendo il ragazzo così impacciato rispondere agli ordini del suo capitano, era certo che quel ragazzino da poco uscito dall’accademia, sotto sotto subisse più che il ruolo, il fascino di Beckett e non riusciva nemmeno a dargli torto. Kate sapeva benissimo cosa pensasse il marito e lo fulminò con uno dei suoi sguardi taglienti appena vide nascere quel sorriso beffardo sul volto che non fu abbastanza svelto da nascondere.

Rodriguez tornò qualche tempo dopo, aveva trovato quattro delle cinque donne che il capitano gli aveva chiesto di rintracciare. Solo una mancava all’appello, tale Emma Smith, un nome casuale che le era stato dato dall’ospedale, partorita da una donna che voleva rimanere anonima e dichiarata adottabile appena dopo la nascita.

 

Beckett chiamò una dopo l’altra le quattro possibili sorelle, convocandole al distretto dicendo loro che doveva effettuare delle verifiche sulla loro posizione. Non era poi del tutto falso. Due di loro si presentarono quello stesso pomeriggio, le altre due nei giorni seguenti. Rick seguiva tutti gli incontri seduto vicino a Kate, che ogni volta che si presentava ad una delle donne, era sempre tesa ed emozionata, salvo poi rendersi conto, appena viste, che non potevano mai essere loro.  Nel dubbio aveva anche raccolto dei campioni di DNA delle donne, ma i risultati furono tutti negativi, come si immaginava.

- Ci rimane solo Emma Smith. - Disse Kate dopo aver congedato l’ultima donna.

- Tu hai subito pensato che potesse essere proprio lei, non è così?

- Una neonata che nessuno voleva… Ma perché sostituirla con mia sorella, che invece aveva una casa ed una famiglia?

- Magari nell’ospedale c’era qualcuno che era d’accordo con una coppia che non poteva avere figli per fargli avere una bambina, oppure venderla…

- Per favore, Castle, non formulare ipotesi peggiori. - Lo zittì e lui cambiò argomento.

- Dovremmo fare delle verifiche su chi lavorava in quel reparto quegli anni. Magari possiamo scoprire qualcosa o qualcuno si ricorda qualcosa.

- Sono passati quasi quarant’anni Castle! Hai idea di quanti bambini hanno visto nascere da quelle parti, sempre che riusciamo a trovare ancora qualcuno che lavori lì!

- Quarant’anni Beckett? Io se ti avessi vista anche da neonata, di sicuro ti avrei ricordata per sempre e poi non può essere passato tutto questo tempo, giovane moglie! - Cercò di farla sorridere, ci riuscì e le strappò un bacio.

- Tu non fai testo, lo sai Castle!

 

Concentrarono le loro attenzioni su scoprire chi fosse e che fine avesse fatto Emma Smith. Tornarono al Mount Sinai Hospital e da una meno conciliante addetta all’archivio si fecero dare l’elenco dei dipendenti del reparto di ginecologia al momento della sua nascita. Nessuno lavorava più lì, ma questo lo avevano già messo in preventivo. Il ginecologo, il dottor Hagar era morto qualche anno prima, così come l’ostetrica Emma Combs, che probabilmente aveva dato il proprio nome alla piccola Emma Smith. Nei giorni seguenti andarono a parlare con le sei infermiere che si trovavano ancora a New York e con due dei medici. Una di queste disse solo che in quegli anni i bambini che venivano abbandonati in ospedale venivano presi in cura da una struttura, la Little Miracles Home, con la quale collaborava anche il dottor Turner, uno dei pediatri dell’ospedale. Beckett ricordava bene quel nome, lo stesso che sua madre aveva annotato nel diario e che l’aveva seguita nei suoi primi anni.

La struttura, ormai, era chiusa da anni e non c’erano archivi che potevano consultare. Le uniche ricerche che erano riusciti a fare su Emma Smith gli avevano confermato che era stata trasferita in quella struttura dopo la nascita e vi era rimasta per tre anni, poi di lei si erano perse le tracce e le ricerche di Castle e Beckett erano arrivate ad un punto morto.

 

Rick aveva notato come Kate fosse sempre più tesa e pensierosa nei giorni successivi a quel muro di gomma contro il quale avevano sbattuto e all’impossibilità di sapere qualcosa in più su Emma Smith. Aveva inoltre deciso di non dire nulla a Jim di quanto aveva scoperto, non fino a quando non aveva qualcosa in più in mano, non voleva provocargli altro dolore per nulla, non se non poteva dargli qualche prova oggettiva. Castle le aveva fatto notare che il suo atteggiamento era lo stesso che avevano avuto i suoi genitori con lei, nascondere qualcosa per proteggerla ed evitarle del dolore inutile. L’avevano colpita le sue parole, ci aveva riflettuto a lungo, sapeva che lui aveva ragione, ma trovarsi dall’altra parte faceva sempre più male.

Aveva passato serate intere in silenzio appoggiata alla sua spalla e lui aveva accettato i suoi silenzi che diventavano loro, con cui avevano imparato a convivere dopo la sparatoria dell’anno precedente. La stringeva di più quando lei si rannicchiava contro il suo petto, quando gli accarezzava il volto in cerca lei stessa di conforto ed amore, bisognosa di darlo quanto di riceverlo. E lui l’aveva amata ogni volta con la dolcezza e la tenerezza di sempre, con la passione ed il desiderio che mai diminuiva, che non mutava con il tempo.  Non bastava amarla però, per darle la tranquillità di cui aveva bisogno, anche se non gli chiedeva nulla.

Fece di testa sua, quindi, come sempre in questi casi. Anche lui aveva le sue fonti, persone che non gli avrebbero negato qualche favore o da cui ancora aveva da riscuoterne qualcuno, in più di certo il fascino di Richard Castle faceva ancora effetto su più di qualche donna. Avrebbe detto tutto a Kate solo quando e se avrebbe avuto dei risultati, inutile illuderla ancora. Poi avrebbe passivamente accettato la sua ira, sicuro che ci sarebbe stata.

La chiamata tanto attesa era arrivata pochi giorni dopo da quando si era messo in moto ed aveva scomodato più di qualche amicizia importante. Era solo al loft e si precipitò al distretto, doveva parlarle subito. Durante tutto il pur breve tragitto la sua mente continuava ad elaborare piani e scenari diversi, pensare a cosa avrebbe detto o fatto.

- Beckett ti devo dire una… cosa… - Era entrato nell’ufficio di Kate senza bussare, trovandola impegnata in una riunione con il Capitano Gates ed un’altra persona della quale ignorava il grado, ma da come lo guardava male, capì che doveva essere qualcuno di importante che non amava essere interrotto. Si scusò sotto lo sguardo gelido dei tre ed aspettò nervosamente fuori dall’ufficio, camminando avanti e indietro come un leone in gabbia, senza nemmeno raccogliere le provocazioni di Esposito e Ryan. Quando la Gates e l’altro uscirono, provò con poco successo ad ingraziarsi l’ex Capitano del dodicesimo con uno dei suoi migliori sorrisi, mentre Kate, mani sui fianchi lo aspettava sulla porta dell’ufficio con un’espressione minacciosa.

- Castle! - Lo richiamò con voce squillante, tanto da farlo sussultare. Non gli servì dire altro, lui la seguì dentro chiudendosi dietro la porta.

- Si può sapere perché sei venuto qui, entrando come una furia senza bussare? - Bene, pensò Rick, si era arrabbiata ancor prima di sapere cosa avesse fatto.

- Kate io… Ho scoperto una cosa. So chi è Emma Smith e dove si trova. - Beckett lo guardò stupita avrebbe voluto dire qualcosa, ma non riuscì a dire nulla, invece. Rick guardò sua moglie, fece un respiro profondo e poi continuò. - Emma Smith e Emily Byrne sono la stessa persona. È lei tua sorella, è lei la tua gemella.

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Capitolo 13
*** Tredici ***


Boston

 

Il volo American Airlines era atterrato con pochi minuti di ritardo sulla pista del Logan International Airport. Castle aveva recuperato i bagagli e poi si erano diretti all’uscita, dove un’auto mandata dal XV Beacon Hotel li attendeva.

L’autista prese le loro valige e li avvisò che dato il traffico di quella mattina il loro viaggio sarebbe stato di circa mezz’ora per raggiungere il cuore della città. Castle amava quell’hotel sofisticato, dal fascino storico ed elegante ed era proprio lì che soggiornava ogni volta che doveva recarsi in città per promuovere i suoi libri. Era ormai un cliente affezionato da anni e come ogni di ospite del suo livello, l’hotel sapeva esattamente quali erano le sue preferenze, così gli avevano già preparato la sua camera preferita e fatto trovare una bottiglia di pregiato champagne sul tavolo. Beckett non aveva detto molte parole da quando erano partiti quella mattina, in realtà era rimasta piuttosto silenziosa tutti gli ultimi giorni. Lui le aveva tenuto la mano per tutto il seppur breve volo, durante il quale non aveva preso nemmeno un succo di frutta da bere, aveva guardato ininterrottamente fuori dal finestrino, mentre le nuvole li accoglievano avvolgendoli.

Aveva chiesto di portare via champagne ed il ragazzo che li aveva accompagnati in camera prontamente eseguì la sua richiesta. Kate abbozzò per la prima volta un sorriso.

- Hai prenotato anche un massaggio di coppia? - Gli chiese con uno sguardo che lasciava trasparire tensione o malinconia, mentre accarezzava i fiori di un’orchidea sul tavolo, prendendo alla sprovvista Castle.

- Come? No, ma se vuoi rilassarti un po’ io posso sempre farlo. - Aveva già preso in mano il telefono per chiamare il loro maggiordomo personale, quando Beckett richiamò la sua attenzione.

- Castle? Veramente non ricordi? Los Angeles, la tua suite e quel responsabile che come si chiamava…

- Maurice. Si chiamava Maurice. - Sorrise anche lui abbassando li telefono. Certo che lo ricordava, lo aveva solo preso in contropiede. - Ti ricordi bene di Los Angeles, eh…

Le si avvicinò, scostandole i capelli dal viso con una carezza e lei si appoggiò alla sua mano: il calore della sua pelle era esattamente il conforto di cui aveva bisogno.

- Non dimentico nulla di noi, Castle.

- Non eravamo un noi a Los Angeles, almeno non ancora come…

- Lo eravamo. - Gli diede un lieve bacio sulle labbra prima di appoggiarsi alla sua spalla. Non capitava spesso che parlavano del loro passato e nonostante nei mesi precedenti di convalescenza forzata avevano provato a diradare molta della nebbia che era sempre presente sulla loro storia, i silenzi avevano sempre avuto la meglio e molte questioni le accennavano appena, preferivano non parlarsi, se non con mezze frasi. Sapevano di essersi capiti il più delle volte, anche se sapevano che prima o poi, ciclicamente, avrebbero dovuto trovare il modo di chiarire qualcosa che era rimasto nascosto sotto i loro silenzi ed il loro capirsi troppo. Ma ogni parola era un macigno e pronunciarla, spesso, era uno sforzo immane che avrebbe necessariamente portato alla luce altro.

- Abbiamo sbagliato i tempi. - Le disse accarezzandole il volto.

- Abbiamo solo seguito i nostri. Forse ne abbiamo perso un po’, ma non sarebbe stato così. - Gli restituì la carezza di prima e lui si voltò baciandole il palmo della mano. Era sempre maledettamente dolce nei suoi confronti, ma da quando era cominciata quella storia assurda che le stava stravolgendo la vita lo era anche di più.

- Così come?

- Perfetto, Castle. Nonostante tutto. Difficile, estenuante, sofferto, voluto. Ma perfetto.

 

 

- Non credo di essere pronta.

Era la prima volta che Rick vedeva sua moglie così titubante. Le strinse la mano mentre stavano per uscire dalla loro suite, sarebbero andati nella sede dell’FBI di Boston ad incontrare Emily Byrne. Aveva contattato il suo capo, Brown, dicendo che doveva parlare con l’agente Byrne perché aveva delle informazioni sul suo passato, si era presentata ufficialmente come il capitano Katherine Beckett del dodicesimo distretto di New York. Non le piaceva abusare della sua posizione e le sembrava che nelle ultime settimane lo aveva fatto anche troppo, ma non aveva avuto altro modo per risolvere quella situazione più grande di lei. Così nonostante le pressioni di Brown per sapere di cosa si trattasse, era riuscita a mantenere il massimo riserbo, grazie anche all’intercessione dell’Agente Speciale Jordan Shaw, diventata poco tempo prima a capo della divisione di Boston che le aveva dato il via libera. Era stata sincera con lei, era l’unica persona con la quale si era confidata, le aveva detto che Emily Byrne era sua sorella, la sua gemella, che tutti credevano morta alla nascita e che lei aveva ritrovato per una serie di casualità. L’agente speciale Shaw capì la sua situazione e le assicurò il massimo riserbo.

Aveva così appuntamento con quella che in realtà era sua sorella tra poco meno di mezz’ora, ma lei era rimasta piantata senza muoversi davanti alla porta di camera.

- Certo che sei pronta. Tu sei nata pronta, per qualsiasi cosa. - Rick provò a rassicurarla.

- Questa volta è diverso. Io… non so cosa dire, cosa fare, ci ho pensato e qualsiasi cosa mi sembra sbagliata…

- Non ci pensare. Dì quello che ti senti in quel momento.

- Come faccio a spiegarle qualcosa che non so nemmeno io nulla di questa storia?

- Non le devi spiegare nulla, Kate. Le devi dire che ci sei, Qualunque cosa sia accaduta il giorno della vostra nascita, lo scoprirete… lo scopriremo. Abbiamo affrontato tante cose, affronteremo anche questa, insieme. - Le strinse di più la mano ed alzò le loro mani insieme per fargliele vedere. Non l’avrebbe lasciata sola, lo sapeva. Prese coraggio ed uscì con lui, una macchina dell’hotel già li aspettava fuori dalla hall.

 

 

Il rumore dei tacchi risuonava nei corridoi del palazzo dell’FBI di Boston, nel silenzio di stupore generale che si levava al suo passaggio. Gli occhi di tutti gli agenti che la vedevano passare seguivano i suoi movimenti, mentre Kate Beckett camminava guardando dritto ed ostentando molta più sicurezza di quella che in realtà aveva in quel momento. Qualcuno aveva accennato anche un saluto, subito zittito dalla gomitata di un collega. Sentiva il chiacchiericcio di sottofondo, di chi si domandava se fosse l’agente Byrne. “Eppure l’ho vista prima in ufficio” “Ma è così diversa” “E quell’uomo non è lo scrittore di gialli?”. Sentiva tutto anche Castle che in altre occasioni si sarebbe già vantato lasciando espandere il suo ego oltremodo per essere stato prontamente riconosciuto da almeno sei persone. Non si era vantato, ma le aveva contate, almeno quello dovevano concederglielo. Glielo avrebbe detto a Kate, poi, quando tutto si sarebbe risolto. Perché tutto si sarebbe risolto. Lui lo sapeva.

- Agente Byrne? Emily? - Entrata nell’ufficio dove si sarebbe dovuta trovare anche sua sorella, fu fermata da un uomo che aveva avuto sicuramente più coraggio di tutti gli altri che erano rimasti in silenzio al suo passaggio.

- Beckett. Capitano Katherine Beckett, polizia di New York. - Mostrò il suo distintivo e l’uomo lesse attentamente il tesserino, guardandola più volte, incredulo per poi spostare lo sguardo su un attento Castle. - Lui è Richard Castle, un collaboratore del mio distretto.

Avrebbe voluto dire anche che era suo marito, perché forse non era normale tenere la mano di un collaboratore come stava facendo lei, ed appena se ne rese conto la lasciò come se si stesse ustionando.

- Agente Phil Jones. Scusi, capitano ma lei… assomiglia terribilmente all’agente Byrne, se fosse qui rimarrebbe stupita! - Disse il nuovo partner di Emily stupefatto.

- Già… dovrei parlare con lei, infatti, avevamo un appuntamento. - Precisò Kate sfregandosi le mani, facendo finta di non vedere che in quell’ufficio tutti stavano osservando solo lei.

- Capitano Beckett! - Sentì una voce decisamente troppo familiare alle spalle. - Scusi il ritardo, l’agente Brown mi aveva avvisato della sua visita.

Sua sorella era alle sue spalle, doveva solo girarsi. Rick appoggiò una mano sulla sua schiena solo per un breve istante, poi entrambi si voltarono. Emily Byrne era lì, davanti a loro e appena realizzò quello che stava vedendo la sua espressione cambiò, come se avesse visto un fantasma. La donna davanti a lei era più alta, ma solo perché indossava con nonchalance dei tacchi vertiginosi che lei si concedeva solo alle feste più eleganti, capelli più lunghi, decisamente ben curati, un completo blu decisamente elegante di quelli che lei aveva solo visto in qualche negozio di alta moda e che non si sarebbe mai potuta permettere. Ma soprattutto la donna davanti a lei era decisamente uguale a lei. Emily deglutì a vuoto, mentre Kate cercò e trovò nuovamente la mano di Castle. Pensò di essere dentro uno dei suoi incubi, di vivere una qualche allucinazione. Si sentì mancare il respiro, come da tempo non le accadeva, si appoggiò allo stipite della porta dell’ufficio portandosi una mano alla gola tenendo lo sguardo fisso su Kate per qualche istante. Poi si allontanò di corsa, lasciando Beckett e Castle immobili. Di tutte le cose che avevano pensato potessero accadere, quella non l’avevano presa in considerazione.

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Capitolo 14
*** Quattordici ***


Odiava il rumore di quel vecchio distributore di fazzoletti di carta. Il cigolio metallico che produceva ogni volta che ne prendeva uno strappo aumentava il suo stato di ansia. Gocce di acqua fredda colavano sul viso mentre cercava di recuperare lucidità. Non era così facile, non lo era mai. Emily mandò al diavolo quell’aggeggio e si asciugò rapidamente con la manica della felpa. Si guardò allo specchio, forse il peggio era passato, riusciva a respirare e sembrava già una grande conquista rispetto a pochi minuti prima. La zip della felpa abbassata a metà petto, il collo della maglia deformato, lo aveva tirato più che aveva potuto, quando credeva di soffocare. Forse avevano ragione tutti, forse era tornata troppo presto. Aveva preteso troppo da se stessa, si era sopravvalutata. Aveva fatto la sua prima pessima figura, davanti a tutti i colleghi e a quel capitano della polizia di New York arrivata fino a lì solo per aiutarla con il suo caso. La sua mente le faceva ancora strani scherzi, le allucinazioni che pensava fossero passate continuavano ed erano ancora più reali. Provò a ricomporsi, per quello che poteva, sarebbe uscita da lì e si sarebbe scusata per il suo comportamento, non era molto, ma di più non poteva fare. Poi sapeva che avrebbe dovuto dare spiegazioni a Brown e di sicuro lo avrebbe saputo presto anche Nick e di certo avrebbero discusso ancora, ormai sembrava il loro unico modo di comunicare.

Uscì dal bagno facendo dei respiri profondi, sguardo dritto davanti a se, senza far caso a nessuno, doveva cercare il capitano Beckett, sempre che non fosse scappata anche lei.

- Sta meglio, agente Byrne? - Si sentì chiamare alle spalle e si voltò. Kate Beckett era lì, appoggiata alla porta del bagno. L’aveva seguita, probabilmente, non se ne era nemmeno accorta. Di sicuro aveva sentito tutti i suoi singhiozzi, i respiri affannati, il pianto. Evitò di guardarla negli occhi, ma quel poco che vide di lei, le fece capire che le sue allucinazioni stavano continuando, oppure quella donna era veramente uguale a lei.

- Meglio, grazie. Mi dispiace per… - Si vergognava di sè stessa, delle sue razioni che non riusciva a controllare, di dare agli altri quell’immagine troppo fragile, alla quale non era abituata, che non era lei, ma la realtà era che da quando era tornata non sapeva più chi fosse.

- È capitato anche a me. Mi hanno sparato al petto, un cecchino, dopo essere tornata a lavoro stavo seguendo un caso proprio su un cecchino e quando ho parlato con una donna rimasta ferita, beh, sono scappata, ho lasciato la mia squadra, il mio partner nel mezzo delle indagini. Mi sentivo soffocare e volevo solo piangere. E non volevo che mi vedesse nessuno, perché pensavo che nessuno potesse capire e non volevo apparire debole.

- Perché mi sta dicendo questo, Capitano Beckett? - Chiese rifugiandosi dietro la sua solita diffidenza.

- Perché non c’è niente di cui scusarsi. E puoi chiamarmi Kate.

- Di cosa volevi parlarmi, Kate? - Le chiese trovando il coraggio di guardarla negli occhi. Tremavano gli occhi di Beckett, come i suoi. Conosceva quello sguardo, lo aveva visto tante volte, riflesso nello specchio.

- C’è un posto tranquillo, dove possiamo parlare senza troppi colleghi intorno?

- Uhm… non saprei…

- Magari potremmo andare a mangiare qualcosa insieme vista l’ora. Che ne dite? - Castle le aveva raggiunte ostentando la sua baldanzosa sicurezza, quella maschera che tante volte indossava in tutte le occasioni mondane alle quali presenziava e che lo obbligavano a dare sempre una versione smagliante di sé, ma quella scena lo turbava più di quanto riuscisse ad ammettere con se stesso, perché un conto era vedere delle foto, altro era trovarsela davanti. Quella donna era veramente identica a Kate e nel vederla gli sembrava di fare un salto indietro nel tempo, perché più che la sua Kate di adesso gli sembrava di rivedere quella di molti anni prima, che aveva appena conosciuto, con il volto teso, serio, spigoloso ed una grande angoscia da nascondere dentro. Aveva catturato la sua attenzione, le allungò la mano per salutarla. - Richard Castle…

- Lo scrittore. - Emily accennò un sorriso e Castle gli rispose con uno compiaciuto. A Boston la sua fama era più che buona.

- Mio marito. - Intervenne Beckett che non sapeva perché aveva sentito la necessità di specificare il suo ruolo lì. Non un collaboratore del distretto, uno uno scrittore. Rick era suo marito in quel frangente. Avrebbe voluto anche aggiungere che era molto di più, ma si trattenne.

- Avevo letto qualche tuo libro. La nuova serie sulla poliziotta che immagino che ormai non è più tanto nuova essendo passati un po’ di anni… - Constatò Emily.

- Già, Nikki Heat. - Rick indicò compiaciuto Beckett facendo l’occhiolino ad Emily, mentre Kate alzava gli occhi al cielo scuotendo la testa, era proprio necessario dirlo?

- Immaginavo. - Emily sembrava essersi rilassata per qualche istante.

- Quindi, per questo pranzo…

- C’è un fast food qui vicino, ma non penso sia molto tranquillo per parlare…

 

No, il fast food non era decisamente il posto adatto per parlare, non per quel tipo di discorso che avrebbero dovuto fare. Così era stato di nuovo Castle a prendere la palla al balzo, fece giusto due telefonate e comunicò alle due che aveva il posto adatto a loro e l’autista dell’hotel a disposizione tutto il giorno. Emily aveva strabuzzato gli occhi, Kate era ormai abituata alle manie di grandezza di suo marito e di come si divertiva a farne sfoggio. A dir la verità Beckett era abbastanza preoccupata che avesse scelto uno dei suoi soliti posti esagerati, perché pensava non fosse il modo migliore per mettere Emily a suo agio. La vedeva, seduta in auto al suo fianco, che ogni tanto le lanciava qualche occhiata interrogatoria, mentre Castle osservava tutto, seduto nel sedile anteriore, dallo specchietto retrovisore. Non negava a se stessa che avrebbe preferito averlo vicino, poter stringere la sua mano, bisognosa del suo conforto emotivo e di quella sicurezza che solo il suo contatto poteva darle. Rimase sorpresa quando l’auto si fermò davanti ad un ristorante italiano non lontano dal loro hotel, dall’aspetto decisamente informale ed anche piuttosto affollato nei tavoli esterni.

- Conosci questo posto? - Chiese Rick ad Emily aprendole la portiera in un gesto di cavalleria alla quale la donna non era abituata.

- No, non ho mai frequentato molto Downtown… eravamo più da fast food e cose così. - Fece uno sforzo ripensando alla sua vita di prima, alle rare uscite con Nick che con Flynn piccolo si erano limitate quasi esclusivamente a posti per bambini e non ricordava più nemmeno quando era stata l’ultima volta che erano usciti solo loro due.

- Sono sicuro ti piacerà. Buon cibo, ambiente carino, mi ha portato qui il responsabile di Boston della mia casa editrice me ne sono innamorato, non essere gelosa Beckett! - Fece l’occhiolino a sua moglie che poi raggiunse cingendole il fianco con un braccio mentre entravano nel ristorante.

Anche la sala interna era decisamente affollata, segno che quel locale piaceva sia ai locali che ai molti turisti che vedeva consultare mappe sugli smartphone e fotografare piatti. Attraversarono la sala principale e Rick si diresse verso le due donne che venivano loro incontro a passo spedito. Le salutò calorosamente e queste poi fecero lo stesso con le sue due accompagnatrici e poi tutti e tre furono condotti in una piccola sala, arredata in tipico stile mediterraneo con quel tocco di praticità americana con tavoli di legno massiccio e comode sedie, senza le tipiche tovaglie a quadri che caratterizzavano la maggior parte dei ristoranti italiani di New York. Non c’erano altri clienti, un solo tavolo apparecchiato e la confusione ed il chiacchiericcio del resto del locale non arrivava in quel posto. Rick e Kate si accomodarono da un lato del tavolo, Emily dall’altro. Un cameriere venne a lasciare i menu e a portare dell’acqua, poi li lasciò soli. In realtà nessuno dei tre sembrava avere molta voglia di mangiare, un cenno di assenso tra Castle ed il ragazzo che era appena rientrato, sembrò sistemare la questione cibo.

- Ho chiesto di far preparare un po’ di specialità del posto, spero vada bene per tutti. - Disse rompendo il silenzio che si era creato.

- Certo, andrà benissimo. Allora… Perché siete qui? Cioè, posso in un certo senso immaginarmelo, ma… Qual è la vostra parte della storia? - Non c’era bisogno di fare troppi giri di parole, Emily non era una stupida ed aveva capito molto di più di quanto Kate aveva provato a negarsi per settimane.

Rick prese la mano di sua moglie sotto il tavolo. Ora toccava a lei e dire ad alta voce quello che mai aveva detto, rendeva tutto maledettamente più vero e difficile.

- Abbiamo letto la tua storia sui giornali e quando Castle ha visto una tua foto, ha notato diciamo così, la somiglianza. A me sembrava tutto un po’ assurdo, un suo scherzo e invece no. Scoprire il resto, è stata tutta una serie di casualità.

Kate raccontò in maniera fin troppo fredda ed impersonale, come se fosse un semplice resoconto, quello che aveva scoperto da Jim, l’esistenza di una sua sorella gemella morta poco dopo la nascita, le sue indagini, i dubbi che continuavano confermati poi dai vari esami del DNA e fino a come alla fine erano arrivati a lei. Tirò fuori dalla borsa, infine una busta da lettere che le passò.

- Questi sono gli ultimi esami del DNA che ho richiesto. Il tuo era nei database dell’FBI e della Polizia di Boston dopo il ritrovamento del cadavere di Semerov. L’ho fatto confrontare con il mio. I risultati li puoi leggere tu stessa.

Emily prese il foglio, lo lesse velocemente e lo rimise nella busta.

- Uguali. - Disse sospirando.

- Sì. Sorelle. Anzi gemelle. - Strinse ancora di più la mano di Rick, tanto che ebbe paura di fargli male.

- Beh, si vede mi pare… - constatò Emily restituendole la busta. Fece una pausa, poi guardò sua sorella negli occhi e le parlò con una freddezza che Kate non si aspettava - Perché sei qui? Cosa vuoi da me?

- Io… io non voglio nulla da te. Ho vissuto tutta la vita convinta di essere figlia unica, ho scoperto qualche settimana fa che invece avevo una sorella gemella e poi che non era morta come tutti credevano, ma che era sempre viva, che eri tu. Io… non lo so, volevo solo… conoscerti. - Provò ad essere sincera, più che poteva. Non sapeva nemmeno lei in realtà perché era lì. Sapeva solo che aveva bisogno di vederla, di sapere chi fosse e di farle sapere che esisteva, anche lei.

- Ti mandano i tuoi genitori qui? Non sono venuti perché si vergognavano? Avevano paura di me?

- Mio padre… nostro padre - si corresse Kate - non sa nulla di questa storia, non ho voluto dirgli nulla fino a quando non avessi parlato con te e nostra madre… lei è morta, molti anni fa.

Beckett sospirò abbassando lo sguardo e mordendosi l’interno della guancia. Era maledettamente difficile parlare di Johanna, ancora di più con Emily.

- Hai detto bene, tuo padre. Mio padre è Warren Byrne, è l’unico padre che mi abbia mai voluta, l’unico che non mi ha mai abbandonata e che posso considerare tale. Comunque mi dispiace per tua madre.

- Anche nostro padre ti ha voluta e non ti ha mai abbandonata, per quel che ha potuto. - Le venne naturare difendere Jim e la sua buona fede. - Nessuno ti ha abbandonata. Io non so cosa sia accaduto, ma lo scoprirò.

Negli occhi di Kate, Rick vide di nuovo quel fuoco che la animava ogni volta che aveva tra le mani una situazione che non avrebbe mollato fino a quando non avrebbe scoperto la verità. Conosceva quello sguardo di sua moglie: era ferita, arrabbiata, delusa, addolorata. Emily stava per rispondere quando portarono il loro pranzo, una serie di taglieri con specialità italiane che misero tra i commensali. Fu proprio lui il primo a prendere un pezzo di focaccia e del prosciutto, rompendo ancora una volta il ghiaccio tra loro.

Emily rimase immobile a testa bassa osservando il piatto vuoto. Erano troppe le notizie che aveva ricevuto, troppe cose da metabolizzare che a tutto poteva pensare tranne che a mangiare.

- Scusatemi, non ho proprio fame. Grazie di essere venuti fino a qui, del vostro tempo e di avermi fatto sapere questa storia ma… Adesso non è proprio il momento. - Disse alzandosi e facendo per andare. Kate la guardava senza dire nulla, si aspettava forse rabbia, delusione, sperava in un abbraccio o qualcosa in più, non ci fu nulla di questo, solo un muro che Emily aveva eretto tra di loro.

- Aspetta Emily! Noi siamo al XV Beacon. Ci fermeremo qualche giorno. Se cambi idea e vuoi parlare, ci puoi trovare lì. - Le disse Castle. La donna annuì e se ne andò a passo veloce dal ristorante.

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Capitolo 15
*** Quindici ***


Kate aveva mangiato qualcosa solo perché Rick l’aveva praticamente costretta, minacciandola che non si sarebbe alzato da lì fino a quando non fosse stato sicuro che avesse assunto una quantità ritenuta da lui sufficiente di calorie.

Era poi voluta tornare a piedi in hotel, per quel breve tragitto, con passo fin troppo veloce e Rick aveva faticato a starle dietro in sua quella camminata austera e decisa. Così l’aveva seguita sempre un passo indietro fino a quando non erano arrivati davanti alla porta di camera, dove lei si era dovuta fermare ed attendere che fosse lui ad aprire, perché non aveva preso la chiave. Kate aspettò che le dicesse qualcosa, ma non lo fece, Rick aprì e la lasciò entrare, la vide buttare rabbiosamente la giacca e la borsa sul divano. Arrabbiata con se stessa ma soprattutto delusa. Le si avvicinò abbracciandola da dietro mentre guardava fuori verso un punto indefinito. La baciò sul collo, spostandole i capelli, indugiando forse troppo sulla sua pelle, più di quanto il momento avrebbe consigliato, ma amava sua moglie non riusciva a resisterle, mai. Beckett però non si sciolse al suo tocco anzi rimase rigida e distante e per lui fu una cosa insolita.

- Perché le hai detto che saremmo rimasti alcuni giorni? Cosa dobbiamo rimanere a fare qui a Boston? Io devo tornare al distretto, tu hai i tuoi impegni per il nuovo libro. - Gli chiese in tono di rimprovero. Perché dovevano stare lì? Ad aspettare? A sperare?

- Perché se tua sorella è come te era prevedibile che scappasse, si chiudesse, rifiutasse l’affetto di estranei. - Le rispose con dolcezza accarezzandole le spalle. Conosceva fin troppo bene quel modo di fare e non l’aveva sorpreso più di tanto la reazione di Emily.

- Come me? - Chiese Kate punta nel vivo. Rick annuì con la testa sorridendo bonariamente.

- Devi avere pazienza, devi darle il suo spazio. Lasciare che metabolizzi quanto le hai detto. Ti vuoi già arrendere così? Solo perché una volta si è alzata e se n’è andata?

Le avrebbe voluto dire dire tutte le volte che lui era rimasto in attesa che lei si accorgesse della sua presenza, che accettasse il suo aiuto, che decidesse di fidarsi di lui. Quanto ci aveva messo a scardinare pezzo dopo pezzo il suo muro? Kate avrebbe dovuto avere la sua stessa pazienza con sua sorella. Ma Kate non era così paziente, lo sapeva e lei glielo stava dimostrando.

- E quanto pensi che dobbiamo rimanere qui? Qualche giorno? Una settimana? Un mese? Due? Tre? - Era delusa e non faceva nulla per nasconderlo.

- Il tempo che tu senti di darle. Quanto sei disposta ad aspettarla? - Le chiese mentre mentalmente si rispose che lui era stato disposto ad aspettarla, con piccole pause per un tempo molto lungo.

- Non quanto lo sei stato tu, Castle.

- Era una situazione diversa, Kate. Io... - Era rimasto stupito dalla sua ammissione e da quella presa di coscienza, le stava per dire che lui la amava, ma non era quello il momento, non per tornare su quel discorso. - …anche io ad un certo punto ho smesso di aspettare, poi sei stata tu a cercarmi.

I ricordi facevano ancora più male uniti alla situazione attuale. Non aveva considerato quell’aspetto, una sorella, una gemella era uno specchio scomodo nel quale vedersi, dal quale osservarsi, vedere le proprie difficoltà, le proprie incongruenze e tutti quei difetti facevano ancora più male. Ricordava vividamente quella mattina, la fila in silenzio per farsi firmare anche lei una copia del suo libro, la sua faccia stupita, i suoi sensi di colpa per averlo tenuto lontano e quel segreto che non era riuscito a rivelargli, perché faceva ancora più male ammettere a se stessa che aveva tenuto lontano per paura chi si sarebbe preso un proiettile per lei, chi l’aveva tenuta in vita dicendole di amarla.

- Pensi che abbia paura? Paura di me? - Gli chiese arrendendosi ai suoi pensieri, con quel collegamento fatto nella sua testa che aveva reso palese.

- Ha paura della situazione. Forse ha paura di tutti, non di te. Magari ha solo paura di scoprire chi è o… di essere amata. - Le sussurrò facendole capire che aveva compreso benissimo a cosa stava pensando.

- Sarà qualcosa di famiglia, allora.

- Forse sì. Ci mettete un po’ a capire che c’è chi vi vuole bene, che potete fidarvi degli altri e non fare tutto da sole. Che non dovete avere paura dei sentimenti che gli altri provano per voi. - Non era più sicuro che stavano parlando di Emily.

- Mi dispiace, Castle. Non credo di avertelo mai detto abbastanza. - Si voltò verso di lui, accarezzandogli il viso e guardandolo finalmente negli occhi e non solo il riflesso. Forse era pronta, per la prima volta.

- Non c’è bisogno, Beckett. È passato tanto tempo…

- Troppo tempo. Non volevo farti soffrire, non ero sicura di poterti amare e sì, avevo paura, per questo sono scappata. Avevo paura di avere una sola possibilità di che non era il momento giusto per poterla cogliere, che non ero pronta per andare avanti e…

- Lo so, Kate. L’ho capito.

- Non volevo farti del male.

- Non l’ho mai pensato. - Le prese il viso tra le mani e la baciò con tenerezza. Emily stava mettendo a nudo Kate, obbligandola a guardarsi dentro. Non credeva che sua moglie fosse pronta, non adesso che avevano da poco ritrovato un equilibrio precario dopo la vicenda di LokSat e non sapeva nemmeno se lui era pronto per questo, adesso.

 

 

Emily scese nella più vicina fermata della metropolitana ed entrò correndo, prendendo al volo il treno della silver line che stava ripartendo. Rimase stipata nel vagone pieno di turisti fino a quando non scese per prendere la green line che l’avrebbe portata verso casa. Dopo poche fermate si svuotò e prese posto in un sedile aggrappandosi al corrimano di ferro. Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal rumore ritmato del vento che entrava dai finestrini aperti per metà. Chiacchiericcio, ticchettio di scarpe che entravano ed uscivano dal vagone, suonerie di cellulari, bip bip di dita che scorrevano veloci e fastidiose su tastiere. Il rumore del mondo che viveva e le scorreva accanto.

Riaprì gli occhi un paio di fermate prima della sua ed improvvisamente si sentì soffocare al pensiero di essere sottoterra, circondata da sconosciuti, in quella gabbia metallica che andava da una parte all’altra della città. Scese di corsa appena il treno fu fermo e risalì velocemente le scale verso l’uscita. Le sembrò di respirare solo quando rivide la luce fuori. Camminò per vari isolati fino ad arrivare a casa si preparò meccanicamente un tè, cercando di dare sollievo allo stomaco teso per i crampi e solo quando si sedette sul divano lasciò che la sua mente pensasse a quanto appena accaduto.

Non si era mai fatta troppe domande su sé stessa quando era una bambina. Non si era mai chiesta il perché avesse passato l’infanzia tra un orfanotrofio e l’altro. Sapeva solo che doveva essere carina, quando arrivavano i potenziali genitori in visita, per farsi scegliere. Aveva fatto di tutto perché accadesse, anche quello che non doveva fare, fino a quando non erano arrivati i Byrne. Nemmeno allora si era fatta troppe domande, non si era chiesta perché alcuni bambini avevano dei genitori da sempre ed altri li trovavano dopo. Lei sapeva che Warren era il suo papà, l’unico papà che avesse mai avuto e Mary era sua madre, l’amavano e la seguivano non meno di quanto facevano con Jack, soprattutto Warren che si dedicava completamente a cercare il modo di farla stare bene, di farla sentire amata e parte di quella loro famiglia. Le domande erano cominciate dopo, si erano fatte insistenti e dolorose da quando aveva scoperto di essere incinta, da quando la sua percezione sulla vita era cambiata, da quando si era vista madre prima ancora di esserlo. Così si era tormentata, chiedendosi chi fosse, da dove venisse, perché i suoi genitori non l’avevano voluta. Aveva fatto delle ricerche su se stessa senza dire nulla a nessuno, ma non aveva scoperto niente, tutto si perdeva in una nuova di fumo quando aveva due anni ed era a Boston. Prima di quello, il nulla. Lei non era. Lei non esisteva. Lei non c’era mai stata. Non c’era una donna che l’aveva partorita ed abbandonata, una famiglia a cui era stata tolta, qualcuno che l’avesse lasciata. Lei era apparsa dal nulla, figlia di nessuno, senza una storia e non l’avrebbe mai avuta. Era nulla, senza un passato, senza origini. Si era chiesta molte volte cosa avesse spinto una donna a lasciarla così, senza niente, senza nemmeno un ricordo, qualcosa che le avesse fatto capire che lei, in qualche modo, ci teneva. Eppure l’aveva fatta nascere, si diceva, l’aveva portata dentro di sé per nove mesi, almeno un atto d’amore, un briciolo di sentimento per lei doveva averlo provato per farla nascere.

Aveva ascoltato la storia di Kate come se non riguardasse se stessa, ma qualcun altra. Era una storia assurda. La sua vita, tutta la sua vita, condizionata da uno sbaglio, da un errore. Lei era chi era solo perché qualcuno si era sbagliato. Tutto quello che era, tutto quello che aveva, era frutto di una disattenzione? Era lei stessa un errore, era tutta la sua vita un errore. Scambiare lei per qualcun altro? Dire ai Beckett che una delle loro figlie era morta e lasciare in vita la figlia abbandonata di non si sa chi. Era possibile tutto questo? E perché Kate Beckett aveva fatto tutto questo per cercare lei, per dirglielo? Cosa volevano da lei e lei cosa avrebbe voluto da loro? Voleva veramente conoscere cosa aveva perso? Quale sarebbe stata la sua vita?

Poggiò la tazza sul tavolino e si prese la testa tra le mani. Domande, solo domande, troppe domande. La sua vita era piena di domande alle quale non poteva dare una risposta, non riusciva a dare una risposta. Domande delle quali aveva paura delle risposte.

Sentì bussare alla porta e tornò alla realtà. Andò ad aprire e Flynn la guardava dal basso verso l’alto, anche se stava crescendo troppo velocemente per tutti gli anni che lei aveva perso. Dietro di lui apparve Nick con una borsa in mano.

- Alice è in ospedale. Ha avuto dei problemi e deve stare qualche giorno in osservazione. Puoi pensarci tu a Flynn? Doveva andare da Maura, la sorella di Alice ma lui non voleva. - Le chiese come se avesse veramente bisogno di una risposta.

- Può restare tutto il tempo che vuole. Spero che Alice si rimetta presto e che non sia nulla di grave. - Gli rispose prendendo la borsa di suo figlio da Nick e facendolo entrare.

- Ok, grazie. Io vado. Ci sentiamo Flynn. - Salutò suo figlio che rispose con un cenno del capo. Emily guardò Flynn. La sua vita non era tutta un errore.

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Capitolo 16
*** Sedici ***


Per qualche ora si era dimenticata di tutto, aveva pensato solo a Flynn. Lo aveva ascoltato, consolato e confortato. Aveva accolto il suo sfogo e gli aveva detto che non si doveva sentire responsabile per quanto accaduto ad Alice solo perché più volte in quei giorni gli era capitato di sperare che quel bambino non ci fosse mai stato. Si sentiva in colpa e gli dispiaceva. Così Emily lo aveva confortato, lo aveva rimproverato dicendo che quello non era un bel pensiero, ma che lui non aveva nessuna responsabilità. Si tenne per sé l’idea che se bastasse solo un pensiero per far accadere qualcosa lei sarebbe stata il peggiore dei serial killer. Forse lo era sul serio, quell’idea non riusciva a togliersela dalla mente. Preparò qualcosa per cena, un piatto di mac & cheese, una volta le piaceva cucinare ma da quando era tornata non lo faceva mai se non quando Flynn l’andava a trovare. Cucinare solo per sé stessa le metteva tristezza, quindi andava avanti a panini, toast, pizza e qualche cibo d’asporto ogni tanto. Avere lì Flynn le riportava un minimo di calore familiare, era bello avere qualcuno di cui prendersi cura, era bello prendersi cura di lui. Lo aveva poi spedito a letto dopo essersi fatto una doccia, lo aveva fatto sistemare nella sua camera ed era rimasta distesa a letto vicino a lui a guardarlo dormire per un po’ dopo che si era addormentato e lì riusciva a riconoscere ancora i lineamenti di quel bambino piccolo che era sempre impresso nella sua mente: come teneva le mani sul cuscino, la bocca appena socchiusa, il suo rannicchiarsi il posizione fetale, era sempre il piccolo Flynn che voleva dormire sempre vicino a lei e quando Nick lavorava fino a tardi lo lasciava addormentare nel letto al suo fianco, per poi addormentarsi anche lei vicino a lui. Il suo bambino, la cosa migliore della sua vita.

Era poi uscita silenziosamente e si era sistemata sulla poltrona quando i pensieri erano diventati così rumorosi da sembrarle che stessero urlando tutte le loro domande fuori dalla sua testa e mentre cercava risposte un pensiero divenne concreto: non era più nessuno, anche lei aveva una storia, era qualcuno, non solo un punto interrogativo ma nonostante le tante domande, aveva anche delle risposte. Per la prima volta sapeva chi era, sapeva che qualcuno le aveva voluto bene. Aveva un padre e una madre che non l’avevano abbandonata ma avevano scelto un nome per lei, Christine. Lei era Christine Beckett e tutto quello che sapeva della sua vita erano falsità. Era falsa anche la sua data di nascita, sorrise per la prima volta nel pensare che era anche più vecchia di un anno di quanto aveva sempre saputo. Aveva sempre festeggiato il compleanno in un giorno che non voleva dire nulla ed anche il suo nome era inventato. Non era più un nulla, era altro rispetto a quello che aveva sempre creduto di essere e non capiva cosa fosse peggio.

Pensò a Kate Beckett. Al suo sguardo carico di speranza che si spegneva man mano che si scontrava con i suoi muri, al suo racconto dettagliato che faticava a tenere fuori dall’emotività che ogni tanto le sfuggiva, quando i loro sguardi si incrociavano e si accorgeva come sotto al tavolo stringeva di più la mano di suo marito da quell’impercettibile movimento della spalla che però lei aveva notato. Era tesa, non meno di lei ed era anche emozionata. Di sicuro aveva avuto modo di prepararsi a quell’incontro al contrario di lei, però le era chiaro che nonostante questo non fosse pronta. Kate Beckett era sua sorella. Lei aveva una sorella, una sorella gemella e di certo qualunque cosa fosse accaduta alla loro nascita lei non poteva mai avere nessun tipo di colpa. Fu come se ne avesse preso pienamente coscienza solo in quel momento della portata di quanto era successo quel giorno. Si era addormentata poi sul divano quando la sua mente si era arresa ed aveva smesso di combattere con tutti quei pensieri, quando aveva smesso di elaborare scenari futuri di cosa sarebbe potuto accadere. Forse non avrebbe dovuto fare nulla, prendere la notizia così come era venuta, non aggiungere altre tessere a quel puzzle complicato che era la sua vita, andare avanti come aveva progettato negli ultimi tempi. O forse no.

 

 

Castle era stato un morbido cuscino ed un abbraccio rassicurante. Non lo aveva detto con le parole, perché sapeva che Beckett non lo avrebbe sopportato, ma ogni suo gesto le gridava “andrà tutto bene”. Lui lo pensava veramente, sarebbe andato tutto bene, in ogni caso, sia, come sperava, se Emily avesse deciso di accettare l’esistenza di Kate e concederle almeno l’opportunità di conoscerla, sia se fosse rimasta chiusa nel suo mondo, convinto che prima o poi avrebbe fatto un passo verso sua sorella. Ci avrebbe pensato lui, in caso contrario, a fare tutto quello che gli era possibile per far star bene sua moglie, come aveva sempre fatto e si sarebbe messo a nudo per lei come invece mai aveva fatto prima, per aiutarla. Lui era un’esperto, ormai, di parentele scoperte da adulto. Jackson Hunt era apparso, gli aveva sconvolto la vita più di una volta, poi era sparito di nuovo, prima ancora di riuscire a conoscerlo, prima di fargli tutte quelle domande che aveva dentro da una vita, prima di avere quelle risposte che era ormai certo non avrebbe mai avuto. Si era tenuto sempre tutto dentro, senza mai far partecipe nessuno di questo suo peso, nemmeno Kate, perché istintivamente cercava sempre di proteggerla da qualsiasi cosa potesse turbarla, anche da se stesso se lui ne era la causa. Sapeva che era sbagliato, perché a parti inverse lui avrebbe voluto sapere ogni suo dubbio ed ogni suo turbamento, si erano promessi più volte in quegli ultimi mesi fatti di confronti e di tentativi di ricucire un rapporto più solido, senza segreti e senza omissioni, che si sarebbe sforzato di farlo, ma quella rimaneva sempre una zona oscura che gli aveva causato troppi dolori da bambino e da ragazzo, sempre nascosti a tutti, per riuscire a tirarli fuori senza farsi del male ancora. Gli faceva male solo a pensarci, ma se era diventato quello che era, lo doveva anche a quello, la sua fantasia si era sviluppata in modo esponenziale negli anni, mentre inventava storie, creava mondi per darsi ogni volta una spiegazione tutta sua e tutta originale. Non sarebbe mai diventato Richard Castle senza l’assenza di Hunt, non sarebbe mai stato lì, in quel letto nella suite del XV Beacon Hotel tenendo stretta tra le braccia Kate Beckett e allora, in fondo, andava bene così. Glielo aveva già detto una volta, quando stavano ballando la loro canzone, ormai diversi anni prima, tutte le scelte che aveva fatto, tutte le cose tremende o meravigliose che gli erano capitate l’avevano condotto a vivere questo presente con lei e ogni volta che la guardava, pensava che in fondo, valeva la pena. Valeva la pena tutto.

L’aveva sentita addormentarsi a notte fonda, aveva fatto finta di dormire per un po’ prima di lasciarsi andare veramente. Lui aveva fatto finta di crederci, ma non si era addormentato fin quando non aveva sentito il respiro di lei farsi lento e regolare e solo dopo aveva ceduto anche lui, doveva essere prima certo che dormisse, non poteva lasciarla sola nei suoi silenzi e dormire, doveva vegliare su di lei, stringerla quel poco impercettibile in più, quando la sentiva sospirare, per farle capire che lui c’era, era lì, senza dire nulla. Questa era la cosa che aveva imparato nel corso degli anni al suo fianco, ad essere, quando lei ne aveva bisogno, una presenza solida e silenziosa, a placare la sua irrequietezza e la sua smania di parlare, sapere, fare domande ed accettare i suoi silenzi, leggerci dentro tutto quello che non poteva e non voleva dirgli. Ci era riuscito bene, si diceva senza troppa modestia, era stato un lavoro lungo e difficile, ma ormai sapeva riconoscerli e quello di cui aveva bisogno quando la sera lo abbracciava e nascondeva il viso tra le pieghe della sua maglietta, stringendo nel pugno un pezzo di stoffa, come a volergli chiedere, ogni volta, di non andare via. Non lo avrebbe mai fatto, lei lo sapeva, ma aveva bisogno di quel gesto simbolico per esserne sicura. Lui lo capiva e la abbracciava a sua volta, la stringeva perché si sentisse protetta tra il suo braccio ed il suo corpo, perché capisse che lei, lì poteva stare finchè voleva e nessuno avrebbe cambiato quello. Era stata una grande conquista per Castle, ricordava i primi tempi, quando invece che cercarlo si isolava, le dava le spalle rannicchiandosi sola nella sua parte di letto, e lui rimaneva a guardarla, timoroso anche di sfiorarla per non invadere i suoi spazi. Alcune volte dava per scontato tutto quello che aveva, poi gli capitava come in quella mattina di fermarsi a pensare da dove erano partiti e capire quanta strada avevano fatto, inciampando, a volte cadendo, perdendosi anche, ma erano sempre lì, nonostante le difficoltà. Erano cresciuti insieme ed erano cambiati rimanendo però, sempre fedeli a loro stessi. Lei era riuscita a tirare fuori delle cose nascoste di lui, tanto quanto lui era riuscito a farlo con lei. Lo aveva fatto maturare, aveva fatto in modo che ammettesse a se stesso prima ancora che agli altri quali erano le cose per lui veramente importanti, cosa lo rendeva felice, aveva tirato fuori quel Richard Castle che lui teneva nascosto a tutti, anche a sé stesso, dietro la maschera del playboy amante solo del divertimento. Lei era riuscito a vederlo, nonostante la sua diffidenza iniziale e lui non aveva mai rinunciato a quel suo lato leggero che sapeva essere fondamentale per affrontare insieme la vita di tutti i giorni.

- A cosa stai pensando? - Gli chiese Beckett. Non si era accorto che era un po’ che si era svegliata e lo stava osservando. Rick si ridestò ed abbassò lo sguardo per incrociare il suo.

- A noi.

- A noi?

- Sì. È strano?

- No, Castle è… bello. - Gli rispose sinceramente colpita. Anche lei pensava spesso a loro, a quanto era fortunata ad avere loro, che era più che avere lui, perché si rendeva conto che lui lo aveva avuto anche per quattro anni, quando ancora non erano “loro”, ma era diverso. La forza che aveva ricevuto dallo stare insieme non era paragonabile a niente ed era certa che non avrebbe sopportato nemmeno metà delle cose che le erano capitate in quegli anni se non ci fosse un “loro” da cui tornare, perché tornare da lui era tanto, da un uomo che l’amava e che sapeva di amare ancora prima di rendersene conto e di accettarlo, ma tornare da “loro” era di più. Lui non era suo, Castle era una bellissima mente libera che aveva deciso di vivere la sua vita con lei, “loro” sì. Loro era qualcosa che insieme avevano costruito, qualcosa di immensamente più grande che non aveva nemmeno idea di come poteva esserci riuscita, lei, Kate Beckett, a dare vita a qualcosa di così potente. Loro era quella speranza che nonostante tutto, alla fine sarebbe andato tutto bene.

- Sai, già che siamo qui, stavo pensando… potremmo fare un po’ i turisti, che ne dici?

- Non sono mai stata a Boston, in realtà. - Gli confidò.

- Io sì, ma non ci sono mai stato con te.

Le sorrise e la baciò. Sarebbe comunque andato tutto bene.

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Capitolo 17
*** Diciassette ***


In quelle giornate primaverili anche a Boston il clima si stava facendo più mite. Emily passeggiava nervosa fuori dalla scuola di Flynn. Era arrivata in anticipo per paura di essere in ritardo ed ancora faticava inconsciamente a ricordarsi che suo figlio non era più quel bambino piccolo con le guance un po’ paffute che le correva incontro ondeggiando un po’ per poi aggrapparsi alle sue gambe ogni volta che la vedeva, ma un giovane ragazzo capace anche di tollerare qualche suo minuto di ritardo, o più semplicemente le sembrava di non voler sprecare nemmeno un istante del tempo che gli era concesso di stare con lui.

In ufficio quella mattina nessuno aveva fatto una parola della visita del giorno prima, nessuno, nemmeno l’agente Jones che pure aveva assistito a tutta la scena ed aveva parlato con Kate Beckett. Di certo tutti sapevano o almeno intuivano, nessuno aveva parlato e fu intimamente grata a tutti. Complici i casi poco interessanti che aveva sottomano ed uno zelante Jones che sembrava voler fare di tutto per alleggerirle il lavoro, Emily si ritrovò quella mattina molto spesso a pensare a Kate, a sua sorella, a tutto quello che questo comportava.

Flynn uscì puntuale, felice di vederla e sempre più ben disposto nei suoi confronti. La presenza di sua madre, della sua vera madre, nella sua vita era una piacevole novità dalla quale, furbescamente, riusciva anche a trarne vantaggi. Era difficile che Emily gli negasse qualcosa, era sicuramente meno rigida di suo padre ed Alice e lui lo aveva capito. Un po’ si sentiva anche in colpa a sfruttare le debolezze di sua madre e quella voglia continua che aveva di farsi perdonare per la sua assenza, ma era un bambino sveglio e come tale cercava di ottenere il massimo. Aveva, però, col tempo capito quanto il suo rapporto con lei fosse diverso da quello che aveva con Alice, non era qualcosa che riusciva a spiegarsi bene, era qualcosa che sentiva. Alice era sempre stata molto protettiva ed affettuosa verso di lui, ma quando si era lasciato andare il modo in cui sua madre lo abbracciava e lo guardava era qualcosa di diverso. Nel loro imparare a conoscersi, Emily era diventata ben presto un punto fermo della vita di Flynn, qualcuno con cui sentiva che poteva confidarsi liberamente. Lei non lo sgridava e non lo giudicava, lo stava ad ascoltare e poi alla fine parlavano, Flynn sentiva che una parte del suo animo più ribelle era molto più vicino a lei che non a suo padre e quando gli aveva raccontato che aveva fatto a pugni con dei suoi amici per difenderla quando era in fuga, Emily immaginandosi suo figlio prima si fece una gran risata e poi lo abbracciò, commossa da quel gesto protettivo del suo bambino. Solo dopo fece uscire il suo lato da genitore responsabile, spiegandogli che non doveva farlo mai più. Almeno non fino a quando non avesse imparato a dare dei pugni e messo su qualche muscolo in più, ma questo lo tenne per sé, non glielo disse mai.

 

Aveva chiamato Warren prima di andare da Flynn e l’uomo dalla sua voce aveva subito capito che qualcosa non andava, anche se aveva negato più volte. Era l’unico di cui si poteva fidare, l’unico con cui poteva parlare, ma non per telefono. Si erano, quindi, dati appuntamento nel pomeriggio, nel parco vicino casa dell’ex poliziotto, un posto che anche Flynn amava molto e dove negli anni aveva sempre passato molto tempo con suo nonno e a giocare con altri bambini. Era quello che accade anche quel giorno, Emily e Warren rimasero seduti in una panchina, mentre lui ben presto si era lanciato in una corsa verso i giochi e i suoi coetanei.

- Cosa succede Emily? - Le chiese l’uomo senza che lei avesse bisogno di dire nulla - Ancora problemi con quell’idiota del padre di Flynn?

Warren faceva ormai fatica anche a nominarlo. Non gli era mai piaciuto e gli era piaciuto ancora meno dopo che Emily era scomparsa. Non aveva mai sopportato il suo accettare passivamente i fatti, lo smettere di cercarla così presto, il trovare dopo così poco tempo una nuova compagna, una donna che facesse da madre a Flynn. Stavano cancellando Emily dalla vita di suo figlio, ecco cosa stavano facendo, secondo lui, che invece in ogni occasione, cercava sempre di parlare di sua madre al nipote e spesso si era scontrato con Nick ed anche con suo figlio Jack: gli dicevano che così facendo avrebbe solo creato più traumi al ragazzo, ma lui non poteva lasciare che cancellassero del tutto il ricordo di Emily, lui cercava in tutti i modi di ricordare a Flynn chi fosse sua madre, ma si era reso conto che era sempre più difficile e che il bambino più passava il tempo meno era interessato a sentirlo ed anzi, aveva allontanato anche lui e questo non aveva fatto altro che aumentare il suo disprezzo per Nick.

- No, Nick non c’entra nulla, questa volta. - Warren sorrise. Quella frase di sua figlia implicitamente gli dava ragione, gli dispiaceva vederla sola, ma era contento che finalmente avesse aperto gli occhi sull’uomo che aveva sposato. - Si tratta di me e del mio passato…

- Ti sei ricordata qualcosa degli anni passati? - Aveva sempre il sospetto che lei sapesse più di quello che aveva detto, ma non aveva mai toccato il discorso né le aveva fatto pressioni. Se avesse avuto qualcosa da dirgli, lo avrebbe fatto di sua spontanea volontà, come sempre. Aveva capito fin da subito che mettere Emily con le spalle al muro ed obbligarla a fare qualcosa non era il modo migliore per ottenere qualcosa da lei, anzi così aveva solo l’effetto contrario, si chiudeva di più. Aveva bisogno dei suoi tempi e dei suoi spazi.

- No, papà, è qualcosa di prima… È venuta a trovarmi una donna e mi ha detto di essere mia sorella. - Tirò fuori tutto in un fiato, non riusciva più a tenersi tutto dentro. Warren sussultò, guardando sua figlia che teneva lo sguardo fisso su Flynn che giocava spensierato.

- Una donna? Tua sorella? E come ti ha trovato?

- Ha letto la mia storia su un giornale, ha visto una mia foto…

- Certo… certo… la tua storia ha avuto molta risonanza… Stai attenta, Emily, è facile che qualcuno si possa avvicinare a te, per ottenere qualcosa adesso… Come fai a sapere che dice la verità? - Warren era diffidente di natura, ma per quello che riguardava sua figlia, ancora di più. Non credeva fosse possibile che avesse una sorella e che questa si facesse viva solo per aver visto una foto e letto una storia, no, non ci credeva. Molto più probabile che fosse qualche mitomane o peggio, qualcuno che voleva approfittarsi di Emily in un momento di difficoltà, ma lui l’avrebbe messa in guardia, difesa ed aiutata. Nessuno avrebbe più fatto del male alla sua bambina.

- Non credo voglia qualcosa da me, e mi ha mostrato un test del DNA. È mia sorella. - Lo aveva detto ad alta voce. Era un’ammissione e una resa a quell’idea. Kate Beckett era sua sorella. Lo era, senza dubbio, se ne rese conto quando si trovò a dover difendere le sue buone intenzioni da suo padre, eppure lei era stata la prima ad attaccarla, però adesso era diverso.

- E come ha fatto ad avere il tuo DNA? Chi è questa donna Emily?

- È il Capitano Katherine Beckett della polizia di New York. È mia sorella, la mia gemella. - Fece vedere a suo padre una foto di Beckett che aveva trovato facendo una ricerca sul web. Trovare informazioni su di lei era stato molto più facile di quanto pensasse, tra i siti di intrattenimento che riportavano gossip su Castle e lei e le vecchie notizie del caso LokSat aveva avuto modo di trovare più notizie di quanto pensasse.

Warren prese il telefono dalle mani della figlia e guardò la donna attentamente, poi di nuovo Emily ed ancora lo schermo.

- È uno scherzo Emily? - Le chiese sconcertato dalla somiglianza.

- No, papà. Lei è Kate Beckett e come puoi vedere, non posso avere dubbi che dica la verità.

L’uomo le ripassò il telefono e rimasero entrambi in silenzio. Emily, la sua Emily, quella bambina che da subito aveva amato ancora di più che se fosse veramente sua figlia, aveva una sorella e quindi una famiglia. L’aveva appena ritrovata ed ebbe improvvisamente paura di perderla ancora. Emily osservò suo padre e gli passò un braccio sulle spalle, voleva un contatto, lo vedeva turbato e voleva rassicurarlo, ma Warren non voleva far vedere la sua debolezza ed immediatamente si ricompose.

- Ci hai parlato? Cosa ti ha detto? - Le chiese.

- Poco io… non ce l’ho fatta. Mi ha raccontato la storia, per quello che sapeva lei. Ha scoperto da poco di avere una sorella gemella. I suoi non glielo avevano mai detto. Erano convinti che fossi morta alla nascita, per quel che ha potuto scoprire facendo delle indagini, c’è stato uno scambio alla nascita con una donna che aveva partorito lo stesso giorno e che aveva abbandonato la figlia.

Warren ascoltò in silenzio. Possibile? Possibile che la vita di Emily fosse stata determinata tutta da uno stupido errore?

- Sai, l’unica cosa reale è il luogo dove sono nata, New York. Non mi chiamo Emily ma Christine e sono anche un anno più vecchia. - Provò a sorridere, ma non ce la fece.

- Tu per me sarai sempre la mia Emily - Bonficchiò Warren tra un colpo di tosse finto, per mascherare la sua emozione.

- Sarò sempre la tua Emily. - Ribadì lei prendendogli la mano.

- A Flynn lo hai detto? - Si informò.

- Non ancora.

- Pensi di rivederla?

- Si ferma ancora qualche giorno qui a Boston. Sì, penso che la rivedrò.

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Capitolo 18
*** Diciotto ***


Kate si era alzata in punta di piedi. Aveva indossato un paio di scarpe senza tacchi e così la differenza di altezza con Rick era più marcata. Gli aveva sfiorato le labbra con le sue, un bacio appena accennato, gli aveva annuito rispondendo ad una domanda che lui non aveva mai fatto ad alta voce, ma che lei aveva letto nel suo sguardo, mentre le spostava dal viso una ciocca di capelli, indugiando più del dovuto ad accarezzarla. Poi le prese una mano, le accarezzò il dorso con il pollice e lei si avvicinò ancora, appoggiandosi con la testa nell’incavo del suo collo. Durò tutto qualche secondo, non di più, fino a quando una donna che usciva dalla caffetteria non li urtò e si separarono come due adolescenti beccati fuori da casa. Mentre lei stava per entrare lui la richiamò e quando Kate si voltò lesse sulle labbra di lui, tra i rumori della città, un “ti amo” che la fece tremare. Rick salì sull’auto che li aveva accompagnati lì prima che lei potesse rispondere e Kate aspettò qualche istante prima di entrare, come se senza di lui dovesse trovare di nuovo la forza delle sue azioni.

Emily era nella sua vecchia auto parcheggiata all’angolo della strada. Era arrivata con largo anticipo ed aveva aspettato lì fuori. Forse aveva anche lei paura di entrare, forse voleva solo controllare la situazione, ma proprio quando aveva deciso di scendere, pochi minuti prima dell’appuntamento, li aveva visti arrivare ed era rimasta lì a guardarli. Era convinta che Castle sarebbe rimasto, da quello che aveva letto di lui e di loro, non la lasciava mai. Si stupì di vederlo andare via dopo che era rimasta quasi incantata a guardarli. Aveva osservato ogni loro gesto, il modo in cui si guardavano, in cui lei cercava sostegno in lui e lui la rassicurava. Vide la tensione di sua sorella, la sua incertezza e questo in un certo senso la rassicurò, non era la sola a temere quel momento e fu felice che fossero da sole. Aspettò che lei entrasse, dalle grandi vetrate la seguì con lo sguardo fino a quando camminando nel locale non sparì alla sua vista. Attese ancora un minuto poi si fece coraggio ed entrò. Qualunque cosa sarebbe successa non poteva essere peggio di quanto aveva già vissuto, o almeno lo sperava.

Emily superò la prima sala della caffetteria ed andò in quella più piccola e meno affollata sul retro, non si erano date appuntamento lì, ma le parve naturale che Kate avesse scelto di sedersi lì, e non solo perché nella sala più grande non c’era, ma perché era quella che avrebbe scelto lei. La trovò seduta all’ultimo tavolo in fondo alla sala, in un angolo, un po’ appartato e forse anche più stretto e scomodo. Sorrise vedendola a testa bassa, con lo sguardo fisso su un menu che faceva probabilmente faceva finta di leggere. Le si avvicinò fino a quando non spostò rumorosamente la sedia per annunciare la sua presenza prima ancora di parlarle.

- Ciao Kate. - La voce di Emily uscì molto più incerta di quanto lei stessa aveva immaginato, tradendo la sua emozione. Kate alzò gli occhi chiudendo velocemente il colorato menu di carta appoggiandolo sul tavolo e coprendolo con entrambe le mani.

- Ciao Emily.

Le due sorelle si trovarono sedute, sole, una davanti all’altra, intente a leggersi negli occhi a vicenda, a ritrovare gli stessi timori, la stessa inquietudine.

Emily prese un altro dei menu dal contenitore di plastica sul tavolo e lo porse a Kate.

- Quello è in russo. - Disse a sua sorella sorridendo indicando i caratteri cirillici sul copertina. Kate realizzò solo in quel momento di non averci fatto caso.

- Ehm sì… - Prese il menu che le stava porgendo sua sorella e rimase un attimo ferma, con il menu in mano, muovendolo impercettibilmente tra le mani che tradivano però il suo nervosismo agli occhi attenti di Emily che la stava studiando. Si sentiva sotto esame e lo era.

- In realtà va bene anche questo. - Disse Kate ritrovando il suo coraggio e porgendo ad Emily quello in inglese. - Parlo russo, almeno quanto basta per capire un menu.

Si morse la lingua, appena ebbe finito la frase, non voleva sembrare presuntuosa e forse era proprio quello che aveva fatto.

- Ah… Ya tozhe*! - Esclamò Emily sorpresa.

- Anche tu? - Chiese Kate con altrettanto stupore.

- Già mi sono sempre piaciute le lingue, soprattutto quelle un po’ insolite e poi per lavoro è stato utile in più occasioni. Tu come mai parli russo?

- Ho passato un semestre a Kiev quando ero al college.

Avevano rotto il ghiaccio. Si ritrovarono a parlare delle loro esperienze scolastiche come due persone qualsiasi che si erano appena conosciute, dopo aver ordinato i loro caffè. Così Kate raccontò ad Emily della sua esperienza a Stanford prima e alla New York University poi, di come la sua vita ed i suoi progetti erano cambiati radicalmente dopo la morte di sua madre, senza dire nulla di più sull’argomento. Emily non le fece domande e questo la stupì. Pensò che al posto suo avrebbe voluto sapere tutto di chi era, della sua vera famiglia invece non era così, lasciò scivolare via il discorso, raccontandole della sua laurea in legge alla Boston University e di come dopo un breve periodo nella polizia di Boston come suo padre, aveva deciso di entrare nell’FBI superando brillantemente tutti i test di ammissione.

Ci fu poi qualche istante di assordante silenzio, nel quale le due approfittarono per sorseggiare il loro caffè ormai non più tanto caldo. Kate rimpianse di non avere Rick al suo fianco in quel momento, si sentì per un attimo persa, non era così brava come lui nel comunicare con le persone, non in quel contesto, almeno. Castle non avrebbe voluto lasciarla sola, era una cosa che detestava fare, ma credeva che fosse necessario, che la sua presenza sarebbe stata in quel caso di troppo. Ne avevano parlato, non appena in hotel avevano ricevuto il messaggio di Emily che si era detta disposta ad incontrare Kate e dopo la telefonata tra le due per l’appuntamento quel pomeriggio Rick aveva insistito perché si vedessero da sole. Beckett aveva capito il suo punto di vista e lo condivideva, ma non per questo sentiva meno la sua mancanza. Sapeva che con una battuta avrebbe potuto alleggerire la situazione, che avrebbe ripreso una conversazione che sembrava morta e lei invece non sapeva come fare. Sentiva lo sguardo di Emily addosso e lei non aveva nemmeno più coraggio di guardarla. Sapeva di averle sconvolto ancora di più la vita e in quel momento se glielo avesse chiesto non sapeva nemmeno perché, o meglio non aveva nessuna risposta che non sembrasse decisamente egoista.

- Emily io… - Provò a giustificarsi per qualcosa che non le era stato chiesto. I loro sguardi così simili e così diversi si incrociarono, si scontrarono e rimasero incatenati, sospesi come le parole che Kate non riuscì più a dire, bloccata da quelle di tua sorella.

- Come è stato arrestare Bracken? - Pronunciò quelle parole con sincera curiosità e Beckett sentì nel suo tono un fondo di rabbia inespressa e vide i suoi occhi chiudersi appena, lo sguardo diventare più sottile, nascondendo dentro qualcosa che non riusciva a capire. Fu colpita da quella domanda che racchiudeva in sè molto di più. Emily sapeva di lei più di quanto credesse, ecco perché non le aveva chiesto nulla. Sapeva del caso di Johanna, di quello che aveva fatto, del suo omicidio. Kate fu presa in contropiede e non sapeva cosa rispondere. Non glielo aveva mai chiesto nessuno, in realtà. Castle non ne aveva mai avuto bisogno, suo padre non aveva mai avuto il coraggio, i suoi amici era convinta che non avessero mai capito fino in fondo cosa aveva rappresentato chiudere quel capitolo o forse semplicemente tutto quello che era accaduto dopo aveva fatto passare la cosa in secondo piano.

- Liberatorio. In quel momento ho capito che tutto quello che avevo fatto nella mia vita dal giorno in cui mamma è stata uccisa aveva avuto un senso.

- Come hai fatto a rimanere lucida, a non ucciderlo quando ne hai avuto occasione? Ha ucciso tua madre, ha provato ad uccidere te, più volte, tuo marito…

- Ho passato anni a cercare la verità, a volere vendetta. Mi ha annebbiato la vista più volte, sono stata sul punto di perdere tutto per questo. Mi aveva già tolto tanto, non potevo farmi portare via anche quello che mi era rimasto, me stessa, il mio futuro con Castle. Ho pensato a lui, ogni volta che la rabbia prendeva il sopravvento ed ho pensato che non potevo permettergli di privarmi anche questo. E poi ho pensato a mamma. Avrei tradito tutto quello che mi ha insegnato, quello per cui è morta, non potevo permettergli di farci questo.

Kate si rifugiò nella tazza di caffè, finendo l’ultimo sorso. I suoi occhi erano fissi sul fondo della tazza mentre Emily continuava a scrutarla.

- Perché sei venuta a cercarmi? Tu sai chi sei, hai un lavoro nel quale sei brava, un padre, un marito che ti ama…

- Perché non avevo te. E anche io da quando l’ho scoperto, non so più chi sono.

Le parole di Kate colpirono Emily come uno schiaffo. Non si aspettava quella risposta da lei, da sua sorella. Beckett trovò il coraggio di guardarla e la vide spaventata.

- Io… scusami ma… - Allontanò la sedia e fece per andarsene, ma Kate senza pensarci si sporse verso di lei e le prese la mano appoggiata sul tavolo, prima che si alzasse.

- Ti prego Emily, non fare come me. Non scappare, per favore. Io non volevo sconvolgere la tua vita e mi dispiace se l’ho fatto, ma anche la mia è stata sconvolta. Volevo solo conoscerti, farti sapere che c’ero, che ci sono e ci sarò, se tu lo vorrai.

Emily rimase ferma, osservò la mano di Kate sopra la propria. Aveva le unghie corte, laccate di nero, curate. Ne osservò la forma, ne sentì la stretta, il contatto con la pelle. Avrebbe potuto dire che sentiva il cuore battere nel palmo della sua mano. Era come la sua. Si rilassò e si riavvicinò al tavolo.

- Mi accusano tutti di essere tornata e di aver sconvolto le loro vite. Non posso fare lo stesso con te. Non è colpa tua quello che è accaduto tanti anni fa. - Le disse Emily facendo un profondo respiro.

- Non è nemmeno colpa tua se sei tornata a casa. Io sono felice che tu lo abbia fatto, sono felice di aver saputo della tua esistenza. Di avere una sorella. - Kate strinse di più la mano di Emily che non le rispose ma annuì appena con la testa. In quel momento era tutto quello che poteva darle e a Kate bastò.

 

 

* “Anche io”

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