Cross my heart, that I'll die for you.

di Pachiderma Anarchico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Malva, rosso e acido muriatico ***
Capitolo 2: *** Petali di spine ***
Capitolo 3: *** Sciroppo di Mirtilli ***



Capitolo 1
*** Malva, rosso e acido muriatico ***








 
CAPITOLO I
Malva, rosso e acido muriatico

 
 

 
Dominik_  Agosto 

 
Il suo sguardo mi sbatte addosso, feroce e prepotente come i fari di un’auto nel bel mezzo del nulla.
Mi piace quando mi guarda, mi piace quando abbandona quell’aria da stronzo pallone gonfiato e s’impossessa di quell’aria da stronzo sì, da stronzo sempre, ma sicuro di sé e determinato a vincere.
Determinato ad avermi.
Chiude la porta, avverto lo spostamento d’aria che provoca il suo corpo quando si piazza dietro al mio.
“Non dovresti essere da qualche parte a vincere un campionato nazionale di Judo?” chiedo, innocente come se non sapessi già la risposta, innocente come il morso di una vipera.
“Tu non dovresti essere da qualche parte a studiare per l’ammissione al College?”
Colpito.
Ma non affondato.
Oh Aleksander… non mi arrenderò. Sai che non lo farò.
E ti piace così.
“Allora che ci facciamo qui?”
Poggio le mani sul davanzale, gelido sotto ai polpastrelli, e mi allungo un po’, giusto per stuzzicarlo, giusto perché so come andrà a finire, giusto perchè i suoi occhi scenderanno sul mio fondoschiena.
Ci sono cose che finiscono sempre allo stesso modo, non importa quanto ci proviamo, non importa quanto siamo decisi a sfuggirgli.
Io, ad esempio, non posso sfuggire al brivido che puntualmente banchetta sulla mia colonna vertebrale, su ogni singola vertebra della mia schiena, quando Aleksander mi bacia il collo.
“Quanto tempo abbiamo?” chiedo voltandomi, perché è evidente che lui non è intenzionato ad allontanarsi.
“Quindici minuti.” risponde, e avverto le sillabe che mi sfiorano le pieghe delle labbra, agghindate del suo respiro.
“Dovremmo farcela.”
Lo bacio con foga, andando dritto al punto, andandogli dritto in gola.
Non è il momento di preamboli e giochi d’azzardo, di moine e giochetti, ha un combattimento da vincere e io dei giornalisti da evitare prima che inizino a porre domande imbarazzanti sugli ultimi mesi, pretendendo che io urli la mia vita ai quattro venti dinnanzi a un microfono così, solo perché sono il figlio del braccio destro del Primo Ministro in carica, solo perché scopo il figlio del futuro Primo Ministro.
Il padre di Aleksander, l’emblema della ‘pacatezza’, è in corsa per ricoprire uno dei due ruoli più importanti della nazione. Assurdo. E io che già me lo figuravo a distribuire uova di cioccolato vestito da coniglietto rosa durante le vacanze pasquali.
Il figlio mi afferra dai fianchi girandomi di colpo, facendomi sbattere di nuovo con l’addome contro il davanzale e abbassandosi il Jeans. Sento il tessuto ruvido strofinarmi sulla piega fra sedere e coscia.
Il suo è azzurro chiaro. Il mio nero.
Ma fa lo stesso.
Sembriamo quasi simili quando ci saltiamo addosso come animali, quando la furia di toccarci e possederci arriva oltre il limite del dicibile.
Ma non siamo gli stessi e non siamo neanche simili.
Infila le mani nell’elastico dei miei boxer (inutile specificarne il colore) facendomeli scivolare fino alla parte inferiore delle cosce, continuando a prendere d’assalto la pelle attorno alla giugulare. Piego la testa per lasciargli più spazio e stringo una mano attorno alla maniglia della finestra che da su una strada secondaria -al momento deserta- e l’altra la insinuo fra i suoi capelli, già spettinati all’altezza della nuca.
I respiri rochi di Aleksander e l’erezione che poggia sulle mie natiche è così sfacciatamente impaziente che gli do quasi il lusso di sentirmi gemere nei primi cinque secondi, ma proprio quando un lamento di piacere sta per sfuggirmi dalle labbra mi tira una pacca sul sedere.
Gemito, torna indietro, a d e s s o.
Gli serro i capelli in una morsa e gli tiro la testa all’indietro per allontanarlo dalla porzione di spalla che ha preso di mira.
Come mi aspettavo, ha la faccia da schiaffi più insopportabile che gli abbia mai visto.
Te lo taglio Lubomirski. Te lo ta..ah… ah cazzo …” schiaffo l’altra mano sul vetro, socchiudendo gli occhi, ma non accenno a lasciargli i capelli neanche quando il suo bassoventre sbatte contro i miei glutei con degli schiocchi fin troppo familiari.
Stronzo sei e stronzo rimani.
“Te… lo taglio… dopo… mag..ah-ri… ah…”
E gemo senza pensarci, senza neanche cercare di mordermi la lingua, e anche lui non c’è la fa più a mantenere la sua facciata di strafottenza.
Lo sento sussurrare il mio nome, una, due… tre volte, piano, pianissimo perché non sia mai che qualcuno possa sentirlo, sentire che Aleksander Lubomirski ha il mio nome sulle labbra mentre fa sesso.
E non mi abituerò mai, morirei purché continui a chiamarmi così.
Qualcuno bussa alla porta, impaziente.
Apro gli occhi e getto la testa all’indietro, mi aggrappo alla maniglia della finestra con tutte e due le mani, lui non si ferma, e…
“Lubomirski, è pronto? L’altro turno sta per finire.”
Lo sento agitarsi sul mio corpo. Dentro il mio corpo.
Fermati ora e ti finisco io. sibilo, la voce resa bassa e minacciosa dalla corsa in cui si destreggiano le tonsille cercando di racimolare un po’ d’aria.
“Devo… andare…” ansima, come se tutto l’ossigeno del mondo non bastasse. Ansima, senza muoversi di un millimetro.
“…ti uccido…”
“massì… chi se ne fotte…”
“Lubomirski!”
“N- paura… tuo…padre?”
“Più… di… te.”
“Se non vieni… ora… tiseigiocatoilcampionato… ah. serro il davanzale fra le dita come se volessi vederlo sgretolarsi, è così dentro dannazione, così dentro
“Non ti facevo così… disinibito… Frocetto
Lo prenderei a pugni se solo riuscissi a girarmi senza spaccarmi in due il posteriore.
E invece mi devo accontentare di raccattare l’ultimo filo d’aria ancora non evaso dalla cassa toracica, prendere il respiro che so mi costerà caro e utilizzarlo per pronunciare le ultime parole che il mio corpo riesca a condensare in vapore sui vetri senza morire d’asfissia.
“… non ti facevo così dotato ...”
Bam.
Mi si spinge dentro con un colpo secco come un grandissimo, dotatissimo bastardo pallone gonfiato pezzo di mer-
“Lubomirski suo padre minaccia di venirla a prenderla di persona.”
I muscoli del suo basso ventre si contraggono, quelli del mio didietro lo seguono a ruota, mi sussurra qualcosa sulla schiena ma non capisco, chiudo gli occhi, stringo i denti, veniamo nello stesso momento.
Non saprò mai se fu la foga con cui ci possedemmo, il tempo che ci passava davanti senza fermarsi o la prospettiva di avere il padre di Leks nella stessa stanza mentre il figlio rischiava di far tardi all’occasione di una vita perché allenava già i muscoli in modi non contemplati dal regolamento di Judo di qualsiasi paese del mondo.
Leks esce dal mio corpo con la velocità di un missile.
Pessima, davvero pessima metafora.
Io premo la fronte contro il vetro della finestra, gelido contro la pelle accaldata, e allungo un braccio quasi automaticamente: da qui a due secondi i miei vestiti mi rimbalzano tra le dita, lanciati dal ritardatario che verrà orribilmente impalato da suo padre.
Altra pessima metafora.
“Merda, merda, merda!”
“Signor Lubomi-”
“Ho un minuto esatto, sì, ho capito!”
Si infila la divisa saltellando sul piede sinistro mentre cerca di aggiustarsi i capelli con la destra e sganciare il rolex dal polso con i denti.
Il risultato?
Sembra che abbia già combattuto un campionato per conto suo.
Ma questo non glielo farò vincere.
“Santorski porca miseria, copriti, hai proprio il culo da puttana.”
Accenno un sorriso, mormoro un “che eleganza” fra lingua e muro e lascio cadere con cura il pantalone a terra, prima di piegarmi per prendere una sigaretta dalla tasca del jeans.
Il tutto in slow motion, premurandomi di passare anche il peso da una gamba all’altra.
“No, no… Santorski vecchio stronzo. Non fare così.”
“Fumare? Oh…” spalanco gli occhi come se mi avesse appena chiamato il Papa comunicandomi di avermi appena proclamandomi santo.
“Devi concentrarti? Il fumo ti distrae?”
“…Guarda, al momento non mi ero neanche accorto che stessi fumando.”
Inspiro lentamente, espiro ancora più piano, lasciando che il fumo si libri nell’aria in volute tondeggianti perché le mie labbra sono atteggiate in una chiara, disinvolta, allusiva forma ad “O”.
“No, no, smettila.”
“Lubomirski la prego!”
“Sì, arrivo…”
Mi giro completamente.
La cintura del Judogi gli cade dalle mani.
Mi osserva come se rimpiangesse amaramente il non esserselo scelto un po’ più brutto.
Perché lo so, in tutta franchezza, che faccio la mia porca figura.
“Sei… sei diventato più stronzo. Com’è possibile?”
“Ho imparato dal migliore.” sorrido, ma temo che sia più un ghigno.
“No no, tu sei proprio sadico, hai imparato tutto da solo…”
Vedo il bianco del mio incarnato riflesso nei suoi occhi che scendono dall’alto fino in basso, molto in basso.
E’ combattuto nel bel mezzo della stanza, la tenuta da Judo allacciata per metà che gli lascia scoperti gli addominali scuri quanto i suoi occhi, ormai dominati interamente dalla pupilla.
Evidentemente ciò che sta vedendo deve piacergli molto.
Mi stampo fra gli angoli della faccia e le curve delle guance l’espressione più ingenua che riesco a raccattare e credetemi, non è un’impresa facile se consideriamo i vestiti abbandonati sul pavimento, la sigaretta che fumo come se fosse un gelato e stessi decidendo da che lato leccarlo e quel baluginio di testosterone bronzeo che l’outfit scomposto di Leks lascia intravedere alla vista.
“Lubo-“
Leks fa un passo verso di me.
“Aleksander Lubomirski, se non esci immediatamente fuori da questa porta pronto per scendere in campo la butto giù e vi uccido, entrambi.
Aleksander Lubomirski vorrebbe strozzarmi e saltarmi addosso nello stesso istante, un occhio è pronto a baciarmi, l’altro –quello a cui è venuto un tic nervoso- affettarmi con una motosega.
“Vestiti.” sibila e si aggiusta alla bell’è meglio, cercando di allacciare insieme alla cintura anche il contegno che ha gettato poco prima da qualche parte insieme alla sua camicia.
“Tuo padre è consapevole del fatto che è durato un quarto d’ora soltanto il suo discorso?”
“Evita di farglielo notare se ti è possibile.”
Leks schizza fuori proprio quando Romek Lubomirski sta iniziando a prendere a testate la porta.
“Non tornare senza aver vinto.” gli urlo dietro, prima di incontrare il muso duro del Signor Lubomirski, quello più adulto, più ferreo, avvocato penale di successo e candidato a futuro Primo Ministro della Repubblica polacca, meno incline all’ironia leggera e con uno sguardo assolutamente meno invaghito di quello del figlio quando squadra il sottoscritto, il nero dei miei capelli disordinatamente sparpagliato sulla fronte e il rossore sugli zigomi.
“Santorski, stai superando il limite.”
Helga, la ragazza che stava quasi per mettersi in ginocchio sui ceci pregandoci in Uzbeko di uscire da questa stanza, mi guarda con due fanali d’occhi in allarme.
Ma io, cara Helga, sono accomodante come le ortiche.
“Oh Romek… l’ho giusto appena sfiorato.”
Non risponde –la competizione è già cominciata- e inoltre sa benissimo che se litiga con me dovrà litigare anche con suo figlio (le conquiste che si fanno con il passare del tempo) e ha deciso che per oggi non è il caso.
Ma non è finita, lo sento nell’ultima freccia tagliente che scocca il suo arco prima che scompaia nel corridoio, con la terrorizzata Helga dietro che articola un silenzioso “Scusa” dietro le sue spalle.
Chiudo la luce e la porta e mi avvio anche io verso le tribune, stando attento a lasciare netto vantaggio a Lubomirski e alla sua contrarietà, attendendo pazientemente che Aleksander si qualifichi ai mondiali perché è schifosamente ovvio che vincerà lui.
“Le sigarette.” bisbiglio d’un tratto, maledicendomi da solo.
“Che palle Dominik… ma dove hai la testa…”
Faccio dietrofront, le Converse non abbastanza silenziose nel silenzio che solo una finale sa dare.
Le stanze sono tutte vuote, la penombra si fa artefice degli strani giochi su porzioni di buio infinitamente piccole. Insignificanti.
Quasi.
Ma io la testa ce l’avevo, e ce l’avevo proprio sul collo, maledettamente funzionante, nonostante tutti i suoi difetti.
Il buio non ha più la stessa consistenza.
Eppure non c’è nessuno fra questi corridoi, solo un mazzo di fiori che prima non c’era.
Se ne sta davanti la porta chiusa del camerino di Leks, banale e addormentato.
Ma il buio ce l’ho alle calcagna come uno stalker caparbio e ingombrante.
Ingombrante come questi fiori.
Nessuno si distaccherà dall’oscurità del fondo del corridoio con una pistola, una lametta o delle pasticche in mano, nessuno mi giurerà devozione eterna puntando al cuore del ragazzo accanto a me.
Me lo ripeto, me ne convinco.
Fingo che i fiori siano solo fiori, fingo che l’Anemone al centro della composizione -il fiore dell’abbandono e dell’attesa- non mi stia sussurrando qualcosa, che i suoi larghi petali di malva e rosso violaceo non mi abbiano fatto l’effetto dell’acido muriatico sulla pelle.
Fingo che il buio sia ancora buio, che i muri siano ancora muri e non vene recise.
Fingo che i fiori siano per Leks, ma prendo l’accendino e do loro fuoco.
 
 
***
 
 
Non se ne va l’odore di vino dal divano.
Sento una delle donne delle pulizie mormorarlo come un mantra fra una strofinata e l’altra e, come se le avessero appena dichiarato guerra, si accanisce ancor di più sulla macchia rossa.
La luna di Giugno si riversa sulla terrazza dell’attico di Aleks, recente campo di battaglia di una delle sue ‘raffinate’ festicciole con un minimo di sessanta invitati, alcol come se piovesse e musica assordante a distruggerti i timpani.
Alla domanda di un giornalista “Si aspettava di vincere?” al termine dell’incontro, il pallone gonfiato ad aria compressa ed ego ha risposto “Assolutamente no, è una vittoria così inaspettata da avermi lasciato a bocca aperta.”
Peccato che abbia organizzato la festa due settimane fa.
Il bagliore argenteo del cielo rende la piscina un caleidoscopio di lucciole, mentre colf si danno da fare per gettare carte, recuperare bottiglie di vodka finite chi sa come al posto dei cactus della signora Lubomirski e tentando con la forza della disperazione di occultare anche la più piccola macchia prima che quest’ultima torni in terrazza.
“Davvero, non mi sono ancora abituato al fatto che la gente mi dia del ‘lei’, voglio dire, ho vent’anni.”
“Ma sei anche il figlio di un importante candidato alle prossime elezioni politiche e, inoltre, la tua famiglia gode di un certo rispetto.” risponde pazientemente, per la ventiseiesima o sessantaduesima volta (ne ho perso il conto quando a Samuel è venuta la brillante idea di giocare a “Hai mai…?” con i bicchierini di Sambuca) lo sponsor che oramai ronzaa attorno a Leks come i pianeti attorno al sole, in un’orbita gravitazionale composta da soldi, pubblicità e vittorie, da quando divenne chiaro a tutti che i pronostici davano lui come favorito per la vittoria alle nazionali di Judo.
Inutile rammentargli che il tipo non era lì a fargli da psicologo ma a sganciare i soldi, perché Leks continuava imperterrito a sparlare di qualsiasi cosa gli capitasse sotto la lingua, dalle anatre ai cambiamenti climatici alle aspettative di vita di una tartaruga delle Galapagos.
“Ha avuto notizie poi di quella ragazza, Signor Santorski?” butta giù la donna in guerra con l’odore del vino rosso sui preziosi divani bianchi di Barbara Lubomirski.
“Mm?” Mi siedo su un bracciolo, e nonostante siano passate settimane dalla prima volta che io e Leks ci demmo alla pazza gioia in una cucina che odorava di rabbia, rancore e attrazione sessuale repressa quasi una vita fa, ritengo che il bracciolo sia ancora un tantino troppo duro.
“Sì… la ragazza che le ha sparato, quella con i capelli rossi.”
“Ah.” dico semplicemente, perché le domande più salate non te le aspetti alle due di notte dopo una festa, nel clima di chi sta conquistando il mondo.
E probabilmente neanche se ne rende conto Katia, o Katy, o Kris quanto sia audace e vertiginosa una domanda così, di come ne senta il sale a raggrinzirmi il palato.
“E’ in una clinica di igiene di salute mentale, in attesa del processo.”
Fa uno strano effetto parlarne così, nella realtà, con parole amorfe a descrivere ciò che ancora mi annoda la bocca dello stomaco in una morsa di acqua e veleno. A descrivere la notte in cui i giullari hanno danzato con gli inferi.
“Ho sentito che aveva dei problemi psichiatrici, ma non ne so molto… Alcuni dicono sia instabile e che non fosse lucida la sera in cui le ha-”
“Ah no era lucidissima. Molto più lucida di tutti noi messi assieme.”
Non è la mia voce.
Alzo lo sguardo e Leks sposta il suo, ci guardiamo per una frazione di secondi, poi ci slacciamo di nuovo.
“Credete che stia avendo il sostegno di un professionista? Che si presenterà al processo?”
“Non lo so, ma presto andrò a chiederglielo.” affermo.
E’ un attimo, il soffio del vento che annuncia la bufera. E’ un attimo, per essere tempesta.
Leks torna a guardarmi come lo schiocco di una frusta, lo sento vibrare nell’aria con la forza di un grido.
“No, non lo farai.”
Dissimulo benissimo la prepotente voglia di alzare il mento e dire “Invece sì”; invece mi sposto i capelli dagli occhi con un gesto che tradisce il fastidio nella gola.
Mi schiarisco la voce e… “Perché no?”
“Perché forse ti ha quasi ammazzato?”
Entrambi sull’orlo del mondo degli adulti, entrambi ancora perseguitati dai fantasmi del passato: dai fantasmi di Dominik e Aleksander, non dal Signor Santorski e dal Signor Lubomirski.
Ci sforziamo di comportarci come adulti, ci sforziamo di guardarci in faccia senza scoprire i denti, di allacciare più stretta le maschere e fingere disinteresse, fingere che il sangue non ci stia ribollendo dentro.
“Ma non voleva ammazzare me,” ribatto, con il tono gentile di un nonno che spiega al nipote come fare 2+2, “Aleksander.
E’ proprio questo ‘Aleksander’ che mi tradisce, che tradisce l’idillio di nonno e nipote per fare spazio al rumore di un chiodo che viene fissato al muro.
E lui non se lo fa sfuggire, e pianta un altro chiodo proprio vicino al primo, ed è tutto un “Dominik nello stesso, identico tono.
E i nonni sorridono sui balconi della nostra maturità, ma all’interno delle case con le tende ad oscurarne le stanze, gli squali negli acquari si stanno preparando a mordere.
“Questo dovrebbe farmi stare più tranquillo?”
Alzo le spalle.
Ah, che conversazione civile. Noi sì che siamo pronti a far parte della società.
“Non vedo perché non dovrebbe.”
“Scusateci un minuto” continua allora lui, e potrei giurare che le unghie abbiano lasciato i solchi sulla pelle. “Dominik possiamo parlare?”
Non aspetta un sì, non aspetta neanche la mia risposta, marcia in casa senza guardarsi indietro.
Sa che lo seguirò, che non rinuncerei mai a far valere la mia ragione, che non lancio sassi per nascondere la mano.
E io non aspetto che lui si volti prima di aver raggiunto l’antro sicuro in cui potrà scaricarmi addosso quanto sia in disaccordo con me e con i miei sassi.
Quando chiude la porta della sua stanza so per certo che il Signor Santorski e il Signor Lubomirski ne siano rimasti fuori.
I loro servigi non sono più richiesti.
“Se pensi che te lo lascerò fare ti stai sbagliando alla grande.”
“Aaaah… ho capito…” il modo in cui serra la bocca in una linea praticamente inconsistente rivela quanto il mio sarcasmo gli dia alla testa.
“Non sapevo che recentemente avessi letto Cinquanta sfumature di grigio… Quindi adesso decidi tu cosa posso o non posso fare?”
“Che cazzo stai dicendo, coglione che non sei altro, lo dico per te, quella è pericolosa.”
Quella si chiama Sylwia e non mi farebbe mai del male.”
“No, infatti, è così magnanima che cavalca candidi unicorni alati e i cori angelici cantano in suo nome, ‘O Sylwia, O Sylwia…’”
Gradirei davvero che il Signor Santorski e il Signor Lubomirski ricomparissero giusto per chiedere loro dove cazzo è andata a finire questa conversazione.
“Ma ti senti?! Ti ha sparato Nik, sparato, in che lingua devo dirtelo? Lo ripeto più lentamente? Una fottuta pallottola che ti ha mancato il cuore per non so quanti fottuti centimetri.”
Non posso ribattere a questo e lui lo sa, e io lo so, e lo sappiamo tutti e quattro -i Signori e noi-, ma ciò che nessuno sa tranne me è che il sottoscritto morirebbe con una cannuccia infilata nella giugulare piuttosto che dargliela vinta.
Leks se ne va alla porta, crede che la discussione sia finita -o almeno lo spera- perché quando parlo non sembra né sorpreso né allibito, solo incredibilmente furioso.
“Lei mi ama.”
E allora torna a piazzarsi sulle sue gambe in posizione d’attacco: ricorda un toro che ha appena visto il rosso.
“Questo spiega tutto. Chiamalo pure amore quello che ti ha dimostrato, se ti piace.”
“Tu non capisci.”
So di aver detto la cosa sbagliata non appena prende forma, non appena diventa corpo e sangue in mezzo a noi, dividendoci inesorabilmente verso sponde opposte di un fiume in piena.
“Giusto.”
Annuisce, con quel cipiglio rigido che lo fa somigliare tanto a suo padre. “Dimenticavo, io non posso capire certe cose di voi… altri. Voi che avete sofferto insieme e lottato insieme e vissuto insieme. Voi che siete più sensibili, più profondi, più viscerali. Non ci arrivo, vero?”
Devo afferrarlo da un braccio per impedirgli di lasciarmi indietro e sbattermi la porta in faccia.
“D’accordo, d’accordo...” sospiro. “Non è quello che intendevo e lo sai.”
Lo guardo negli occhi sperando che non ci sia bisogno d’altro. Ma Aleksander diventa un cancello in titanio quando si sente minacciato.
“Devi fidarti di me.”
“E’ di lei che non mi fido Dominik!” allarga le braccia, la voce esasperata e i capelli spettinati dal continuo passarci le mani attraverso.
Persino questa stanza è troppo piccola per contenere tutti i motivi per cui voglio vederla e tutte le legittime ragioni che Leks potrebbe spiattellarmi ai piedi per impedirmelo.
Abbiamo ragione entrambi, forse un po’ più lui (ho ancora una cicatrice piuttosto vistosa all’altezza delle costole che difendono il cuore) e glielo leggo nell’inflessibilità della schiena e nel modo in cui contrae la mascella che sta solo aspettando che dica qualcosa per ricominciare a darci dentro.
Detesta Sylwia, e la detesto pure io.
Allora perché sto litigando con l’uomo per cui mi sono beccato una pallottola nel costato per andare da lei?
“E’ in una clinica psichiatrica Leks, in attesa di un processo per tentato omicidio. Sarà guardata a vista, cosa potrebbe mai farmi?”
Ma Leks ha più intuito di quello che vuole vendere al mondo, e se non è intuito è counque fin troppo sveglio.
“Guardami in faccia e dimmi che una clinica psichiatrica o qualsiasi altra cosa al mondo possa fermare Sylwia dall’ottenere ciò che vuole. Dimmelo e non dirò più niente. Credi davvero che questo possa fermarla?”
La risposta è chiara a tutti, brilla nel rintocco delle tre di notte senza bisogno che le dia vita.
“No.”
“Infatti.” E’ irremovibile.
Ma io sono instancabile e mi attacco come una zecca, se voglio qualcosa, mi attacco anche all’aria se necessario.
“Ma lei non vuole farmi niente. Non a me.”
 “Rischia di farsi vent’anni di carcere a causa nostra, per quanto ne sappiamo potrebbe fare qualsiasi cosa. Sarà disperata e pronta a tutto.”
Pronta a tutto sì, pronta a tutto già me la immagino, con il labbro inferiore screpolato, le occhiaie profonde come due caverne e i ricci indomiti di un rosso sbiadito.
Disperata? Non riesco neanche a inventarmela una Sylwia disperata, priva del controllo, priva di un piano.
No Leks, Sylwia non è né disperata come pensi tu, né pazza come affermano gli altri.
Sta giocando: lei è la Regina e noi siamo le sue pedine.
“Promettimelo Nik, promettimi che non andrai da lei.”
Faccio per parlare ma Leks mi precede, prevedendo il mio rifiuto.
“Per una volta, una sola volta, puoi fare ciò che ti dico? Ciò che mi fa dormire la notte, per tutti i numi? (ha la mania di citare sua nonna quando va in ansia). Non posso… non voglio che...”
“Ho capito.” dico, lasciandogli il fiato e la comodità di tornarsene nel suo porto sicuro.
Per quanto desideri sentirgli urlare ciò che non abbiamo avuto neanche il coraggio di sussurrare, non è il momento adatto.
“Non andrò.”
Mi prende il viso con una mano, portandomi a guardarlo.
“Promettimelo.”
Ha le sembianze di una preghiera ben nascosta.
“Te lo prometto.”
 
***
 
Gli occhiali neri a celare una metà del viso, l’altra parte di me occultata da una raffinata camicia color sabbia, un pantalone della stessa, calda tonalità e alle carpe un paio di scarponcini classici di un bel bordeaux.
Avanzo con disinvoltura, come se questa scelta sia la più intelligente che potessi fare.
E invece non è né la più intelligente, né la più saggia.
E’ l’unica esistente.
Voi credete di averla, una scelta, ma la ragazza che tenete rinchiusa in una di queste stanze non elargisce scelte a nessuno.
Non l’ho mai avuta io una scelta, con lei, non crediate di poterla avere voi.
Mi sento un ladro mentre busso al vetro dietro una commessa è rintanata a dare informazioni e a registrare visitatori, ma non mi vergogno allo stesso modo.
“Rajmund Nowak. Ho un permesso firmato dal direttore. Se lo ritiene opportuno posso mostrarglielo.”
Non mi levo gli occhiali, non mi scompongo.
Io non ho il permesso firmato proprio da nessuno, ma sono pur sempre il figlio del braccio destro del Primo Ministro in carica, e se voglio entrare in un istituto di sicurezza e incontrare una delle pazienti tenute nel reparto rosso a insaputa dei miei genitori stessi, nessun direttore potrà negarmelo.
E se me lo negheranno, Rajmund Nowak si tramuterà in Dominik Santorski e nel giro di un’ora lo rimpiangeranno amaramente.
“Non serve, il direttore è al corrente della sua visita. Mi segua.”
Non sono mai stato qui, ma le cliniche psichiatriche si somigliano un po’ tutte, con le loro asettiche pareti bianche e i corridoi infiniti che sembrano conducano al centro della terra.
La signorina mi porge un pass e mi lascia dinnanzi a una porta, bianca anch’essa, probabilmente pesante come il piombo.
Nulla si sente oltre, ma io potrei sentirla dovunque e in qualunque momento.
Perdonami Leks, ma devo sapere quali pezzi della scacchiera ha intenzione di mangiare stavolta, o se ha deciso di cambiare gioco.
Tu credi di aver imparato le regole, e lei ribalta la scacchiera.
 

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Capitolo 2
*** Petali di spine ***


//Ringrazio dal profondo delle mie viscere tutti i lettori silenziosi che hanno regalato tante visite al primo capitolo e Megara X a cui credevo di poter risparmiare il supplizio di tollerare i miei tempi inconstanti e senso del dovere inesistente. 
Have fun.





CAPITOLO 2
Petali di spine




 
Dominik_ Settembre

 
Decido che ne ho abbastanza non appena inizia a parlare.
Tutto ciò che qualunque altra persona con un briciolo di buonsenso avrebbe tenuto ben rinchiuso nella mente.
E io, che non riesco nemmeno a ricordare quand’è stata l'ultima volta che ho usato il buonsenso, l’ascolto comunque esporre concetti che agli infermieri probabilmente paiono come assurdi deliri di una ventiquattrenne mentalmente disturbata, mentre a me fanno venire l'orticaria.
"Non mi aspettavo che ti avrei rivisto qui dentro."
"Diciamo pure che non ti aspettavi che mi avresti rivisto vivo."
Accenna un sorriso, è tirato e le ferite sul labbro inferiore minacciano di riaprirsi.
Come qualsiasi altro taglio.
"Dominik... lo sai... non so neanch'io cos'è accaduto. Non ricordo niente di quella notte."
E allora facciamola finita Sylwia, arrotoliamoci le maniche fino al gomito e scortichiamo la pelle fino a vedere l’osso. Fino a gocciolare sul pavimento.
Mi disgusterebbe meno di questa farsa da giullare.
"Non ricordi, ah? Sai che me l’aspettavo? Non aspettavo altro che scoprire quale spettacolo avresti allestito questa volta."
Sylwia è tutto un programma, guardarla in faccia da le vertigini.
La pelle bianca come la mia ma più inconsistente, più rovinata, con le occhiaie che assediano le palpebre traslucide come presagi oscuri. 
I capelli sono sporchi, di un rosso stinto, spezzati e disordinati. 
Qualche riccio non ben definito le ricade sulle guance non più piene come una volta, non più da bambola. 
"Nessuno spettacolo, Dominik. Solo la verità." 
Non basta lasciare che la tinta sbiadisca e i ghirigori rosa dell'ombretto scompaiano per dire la verità, Sylwia. 
Non basterebbe una vita intera per dire la nostra di verità. 
"E qual é la tua verità? Sentiamo."
Quando risponde sembra quasi una ragazza. 
"L'unica possibile."
Non è una ragazza. 
È assenzio, è tossica, è il mio suicidio in carne e ossa. 
Nessuno degli infermieri infilati nei loro asettici camici bianchi, immersi nella loro quotidianità si accorge delle bombe che Sylwia sta piazzando sotto il tavolo con le sue parole. 
"Chi dice che sia l'unica possibile?" 
Sorride, e questa volta un taglio sul labbro si apre davvero. 
"Io." mormora dolcemente, mentre uno degli incisivi si colora di sangue. 
"Io non ricordo nulla, quindi, ogni verità è possibile." 
Inclina lievemente la testa, sfiorando con gli occhi color indaco le fasce che le bloccano i polsi. 
"Guardale. Sono bianche come le pareti e i camici degli infermieri e la normalità, come il colore delle spose…" mi afferra le mani con le sue e qualcuno è già pronto a sospingerla indietro, a trattenerla con la forza. Ma faccio un cenno con la testa, e lei ha negli occhi la vittoria, "... come le rose già colte, prive di spine, a cui sono stati strappati i petali difettosi, i petali anneriti. 
Noi siamo quei petali, noi siamo quelli difettosi e anneriti. Credi che il tuo... ragazzo -è nauseata- "sia fra i petali che vengono recisi o in quelli buoni che rimangono?" 
Alzo gli occhi al cielo, cercando di reprimere l'istinto di stringere le sue mani tra le mie. 
"Lui sa che sei qua?" 
Sfilo le dita dalle sue. 
Povero illuso. 
Mi artiglia con le unghie, mi trattiene con una brama che non credevo le fosse rimasta. 
Non mi muovo, fingo che sia tutto calcolato, che la conosca meglio di tutti loro. 
Ma forse, non è così. 
"No… non lo sa." cinguetta, e mi scruta con attenzione, mi guarda come se mi vedesse oggi per la prima volta.
"Lui non capirà mai fino in fondo... ma questo gliel'hai già detto." 
Mi lascia, finalmente; ma questa volta sono io che voglio giocare a chi toglie la maschera e inizia a ringhiere per primo. 
Le stringo i polsi, s’irrigidisce, si fa male. 
Come pensavo. 
Probabilmente sta facendo tutto il possibile prima del processo, urlando e ferendosi e parlando di strane camere; come se non avesse un piano, come se non calcolasse la lunghezza di ogni taglio in centimetri
"Non fingere di essere pazza." si dimena. "Non sei pazza. E non importa a quanti riuscirai a fare il lavaggio del cervello, io so esattamente chi sei, cosa vuoi e cosa sei disposta a fare per averlo." 
Potrebbe ringhiarmi addosso e invece si calma, la mia morsa si allenta e lei allontana le mani dalle mie, senza fretta. 
"Non giocare con me Sylwia. Io non sono Asher, non mi prostro ai tuoi piedi non appena sbatti le ciglia. Arriva un'altra volta ad Aleksander e ti giuro che il prossimo taglio sarà anche l'ultimo."
Ride, ride di pura gioia, sguaiatamente e a bocca spalancata con quel suo singhiozzo euforico come tutti i campanelli del mondo.
"Credevo che non potessi essere più sexy di quando ti punti coltelli alla gola o ti piazzi davanti alle pistole ma… porca puttana, il minacciare di uccidermi le batte tutte." 
 
 
***
 
 
Neanche l'aver portato a termine ciò che mi ero prefissato e il look più diverso possono impedire agli occhi di Aleksander di impalarmi lì, da parte a parte lì, dove mi trovo, sul primo scalino, sull’uscio della clinica. 
E no, non c'è più nulla di malizioso in questo, mi sento come se avessi appena ingoiato un gomitolo di filo. Spinato. 
Tamburella con le dita sull'auto, gli occhi celati da un paio di lenti scure. 
Ma è palese che mi sta guardando, cercando di appiccarmi fuoco con la sola forza dello sguardo. 
"Sali."
Sarà un lungo viaggio. 
Per i primi due chilometri nessuno apre bocca, entrambi consapevoli che se cominciamo a far piovere diluvierá su ogni cosa.
Aleks alza il volume della radio, io mi passo una mano sulla bocca. 
Techno. 
Maledizione.
Ha alzato il volume perché alla radio c'è una canzone techno.
E sa benissimo che io odio la Techno. 
E fino a quando vedo la velocità dell'auto divorare il tragitto fino a casa sua me ne sto zitto perché forse, in fin dei conti, ho più buonsenso di quel che credo, ma alla fine il destino (o la sfiga) vuole che ci incolonniamo dietro una carovana di macchine immobili nel traffico del centro città e allora me ne esco con un neutro, credetemi, assolutamente neutro, incolore, innocuo: "Abbassa."
E lui porta il volume a 70.
Prima era a 30.
E ora i suoni metallici di questo maledetto motivetto mi sputano in testa la loro ripetitività insulsa. 
"Quanti anni hai, cinque?" 
85.
Non so bene neanche io come faccio ad arrivare a destinazione senza cercare di uccidermi neanche una volta, ma finalmente scendo da questa fottutissima macchina di merda e mi stringo le tempie con i pollici; dovrà pur esistere un pulsante per resettare gli ultimi trenta minuti. 
Busso. 
Mi pare qualcuno mi avesse detto che oggi Samuel sarebbe stato da Leks, perché come previsto la porta si apre su una testa giallo evidenziatore. 
"Ciao Samuel." 
"Ehi Nik, ciao... Leks."
Andiamo in cucina e il biondo scambia uno sguardo preoccupato -o terrorizzato- con la ragazza ginger in felpa XXL impadronitasi della macchinetta automatica del caffè. 
Perché poi? Va tutto bene, Aleks si è solo tramutato nella fotocopia incazzata di suo padre, cosa potrebbe andare storto? 
Eruttare materiale lavico come un vulcano?
Esplodere come una testata nucleare?
Mordere come una tartaruga caretta caretta? 
"Sandra anche io vorrei il caffè, per favore." 
"Certo, se riesco a far.. funzionare.. questo aggeggio super tecnologico." 
Alza un braccio, pronta a farlo funzionare a suon di pugni e Samuel la blocca. 
Aleks si avvicina alla macchinetta dandoci le spalle e preme qualche tasto. 
L'aroma del caffè si diffonde come per magia nell'aria. 
Ma nessuno sembra notarlo. 
Perché Aleks ha detto qualcosa, e la sua voce è come rastrelli sull'asfalto. 
"Dominik, che valore ha per te una promessa?" 
Samuel segue con la testa il cauto movimento di me che scollo silenziosamente il sedere dalla sedia e con la nonchalance di un criminale me ne vado dall'altro lato del tavolo. 
Il tavolo dove ci siamo baciati e dove adesso sembra che voglia lasciarci l’impronta del mio naso. 
"Sapete... credo che lo prenderò al bar il caffè..." dico.
Samuel solleva i pollici all'insù annuendo forsennatamente; Sandra, con le vissute gambe da skateboarder, si mette in posizione centrale, pronta a fare lo sgambetto nel caso (non irrealistico) che uno dei due tenti di strangolare l'altro. 
E quando Aleksander si volta, la possibilità di un omicidio diventa certezza.
"Quella ragazza, quella... psicopatica ti ha riempito la testa con i suoi vaneggiamenti sul suicidio, ha lasciato che quell'altro sociopatico con cadute di bipolarismo paranoico cercasse di ucciderti e poi lei stessa, premendo un cazzo di grilletto, ti ha polverizzato due costole e quasi sfiorato il cuore e tu dove vai? A farle una visita di piacere."
Alzo un dito come se fossi a scuola, e sembrerei Samuel se non fosse che i miei capelli sono di venti tonalità più scure e la mia voce raggiunge picchi di sarcasmo che farebbero perdere la pazienza anche a Ghandi. 
"Tecnicamente... una costola era solo incrinata."
Se adesso mi prendesse a schiaffi non potrei dargli torto. 
Mi si lancia addosso veramente e no, scherzavo, se mi prendi davvero a schiaffi ti do torto eccom-
"LEKS!" 
"Non gli faccio niente Sandra, non gli faccio proprio niente voglio solo che questo stronzo di merda mi guardi in faccia, porca troia."
In effetti non sento dolore, non ancora almeno. 
Solo il pollice e l'indice che scavano nelle mie guance e il frigorifero freddo dietro la schiena. 
"Spiegami perché l'hai fatto comunque nonostante ti avessi espressamente chiesto di non farlo, per una. volta. Una, Dominik. Quindi adesso dammi una spiegazione e spera che sia credibile."
L’ultima volta che mi è stato così vicino voleva baciarmi.
Adesso penso che voglia staccarmi la faccia a morsi.
Ma non è abbastanza per zittire lo sciagurato orgoglio che mi balla in pancia.
"La visita di piacere -come la chiami tu- mi è servita a mettere in chiaro con la psicopatica -come la chiami tu- che se dovesse uscirsene con strane idee in testa su di te non me ne starò di certo nell'angolino a guardare."
Aleksander mi spalma la colonna vertebrale contro il frigo come marmellata su una fetta biscottata.
"Però pretendi che io me ne stia buono buono nell'angolino a guardare mentre tu
t’incarichi di fare le missioni diplomatiche con una sottospecie di terrorista che, ripeto, perché forse non si è capito," ruota su se stesso, alzando le braccia al cielo, "ti ha già sparato una volta."
È più teatrale di me quando si ci mette, il che è tutto dire. 
Ma sono ancora io il re del dramma, e la corona voglio tenermela stretta. 
"E levati!"
Lo spingo e faccio un passo avanti.  "Di' un po', come sapevi che ero lì? Mister 'è solo di lei che non mi fido'? Ti sei fidato così di me così tanto da farmi pedinare?" 
"Hahahaha, spiritoso, mi è bastato fare una telefonata. Non sei l'unico figlio di papà di Varsavia e ci tengo a ricordartelo."
Spalanco la bocca.
Ci potrebbe tranquillamente entrare dentro uno sciame di mosche per quanto la mandibola mi è caduta in basso. 
"Mi hai fatto spiare?" 
Samuel si guarda bene dall'oltrepassare i bordi della sua mattonella, lo vedo con la coda dell'occhio come vedo Sandra sorseggiare il caffè senza il rumoroso risucchio che fa con la bocca. 
Io caricherei un fucile. 
"È così che ti fidi di me?" 
Ma Aleksander non ci scherza nemmeno a furia distruttiva.
Ed è davvero, davvero furioso. 
Sbatte una sedia a terra e avanza nuovamente verso di me, con l'indice della mano destra al centro dei miei occhi. 
Non so cosa mi tenga bene ancorato al suolo.
"Non osare proclamarti vittima anche stavolta! Ci manca solo che tu dica che è colpa mia." 
"È colpa tua!"
Percepisco distintamente il plop dello schiaffo che Sandra si è data in fronte. 
Ma Aleksander si è messo a tracciare la mappa di casa sua con i piedi quasi fosse un dipendente di Google Maps: con quattro falcate è già entrato nella sua stanza, ne è uscito e si sta dirigendo in soggiorno rimuginando a testa bassa. 
"…ho fatto bene a non fidarmi di te…" 
E io gli vado dietro. 
"Ah è questo... è questo che pensi?!" 
"Sei un irresponsabile testa di cazzo, inaffidabile figlio di-"
"Sono morto? Di', sono morto?" 
Si volta di scatto ed io faccio davvero un salto indietro.
Ha l’acredine negli occhi e il fumo che gli esce dalle orecchie. 
Come una grossa, muscolosa, vagamente inquietante teiera in ebollizione. 
"Dimmi tu cosa provi per lei. Eh?!
"Non ci posso credere..." mi massaggio la fronte con due dita.
Tutto questo è davvero troppo. 
Romek vuole la guerra, Sylwia vuole la guerra, Aleksander vuole la guerra, e va bene!
Guerra sia, maledetti bastardi. Che nessuno si azzardi a dire che non ci ho provato.
Signor Santorski, se ne vada gentilmente a fanculo.
Ora Dominik prende la parola. 
Mi fiondo su di lui come un falco in picchiata, lanciando anatemi con gli occhi che spero lo inceneriscano.
"C'è un problema di fondo, non è vero Leks? Te ne accorgi anche tu che se non sei sicuro di quello che provo per te abbiamo un grosso problema."
Ma Aleksander al posto delle tonsille ha una tigre che ringhia e se ne torna in cucina.
"Ti ho chiesto cosa provi per lei e non cosa provi per me. Non rigirare la frittata come sempre."
"Una cosa esclude l'altra."  ribatto.
"Davvero Nik, davvero?" 
La testa del silenzio capitola sul tavolo, appena ghigliottinato. 
L'odore di putrefazione è quasi tangibile fra noi, il boia si aggira tra i nostri corpi in attesa di un’altra testa da far cadere.
Sandra si schiarisce la voce. "Se posso inserirmi nel discor-" 
"Pensi che provi qualcosa per lei, e allora che stiamo facendo Leks? Vuoi davvero continuare così?"
"No, infatti, fino a quando ti comporterai da sfigato come lei." 
"Leks."
Sa di aver oltrepassato il limite prima che io sollevi la testa come se dovessi reggere una corona. 
Una corona nera, di sangue e lacrime, dissestata e consunta ma è la mia, e non permetterò a nessuno di farla cadere. 
A nessuno.
"Tranquillo Samuel.” annuisco. “Leks se lo teneva dentro da troppo tempo."
Faccio un passo indietro.
"Già. Siamo sfigati 'noi altri.' Sai che c'è? Quello sfigato ha avuto troppe emozioni per oggi, potrebbe non reggerle e chiudersi in una camera buia a togliersi la vita per qualche sfigata ragione. Ti chiamo io."
Non serve a niente che Aleksander trattenga il respiro, in lotta con il suo cipiglio da capobranco e la sensazione di avermi assestato un colpo basso, e che infine provi a seguirmi.
Quando capisce che non mi volterò anche lui si impunta, alza il mento e tutto ciò che riesce a dire è un: "Non farlo." 
D’accordo. 
 
 
***
 
 
 
Le malinconiche luci di Settembre colorano la strada di periferia dove mio padre ha deciso di trasferirsi con la sua nuova compagna per sfuggire ai riflettori durante la campagna elettorale, afferma lui.
Per sfuggire da mia madre, dico io.
La nuova casa è una villa a tre piani di medie dimensioni, con tutti i comfort che due esponenti di spicco della scena politica polacca come loro possano desiderare.
La donna con cui fa pan-dan ora, infatti, è in corsa per la carica di Primo Ministro contro, fra gli altri, Romek Lubomirski. E con buone probabilità di vittoria, per giunta.
Quarant’anni, un faccino a forma di cuore frizzante ed entusiasta, una boccolosa massa di capelli biondo cenere, un paio di schietti occhi marroni e una parlantina pronta e spumeggiante.
E, ovviamente, ambiziosa e promettente nei suoi tailleur grigio perla.
E l’assistente con cui mio padre faceva i propri comodi una sera sì e l’altra pure credeva davvero che, alla fine del matrimonio con la temuta stilista di moda Agata Nowak, ex Santorski, che mio padre volesse stare con lei.
Andrej Santorski non ti guarda in faccia se prima non ha appurato che esiste un conto bancario intestato a tuo nome con almeno cinque zeri dopo la prima cifra utile.
Perché sono qui?
Beh, perché non c’è niente di meglio da vedere, durante una campagna elettorale che lo riguarda personalmente, di mio padre che sbattacchia di qua e di la per le stanze di casa, mentre urla al telefono con mezzo mondo perché non riesce a centrare la porta.
In disaccordo sempre e comunque con tutti e tutto, dal prezzo dei carciofi alla lunghezza delle autostrade, dalla sfumatura di arancione delle carote allo spessore dei computer ultrapiatti.
Ed ecco, proprio mentre uno degli uomini di servizio mi fa entrare, la voce di mio padre giunge dal terzo piano, chiuso nel suo studio, come se fosse qui davanti a me.
“No! No ti dico. Non possiamo andare a zonzo come un branco di beduini, dobbiamo agire adesso. La gente deve sentirci vicini, vicini!”
Che ti sentano è poco ma sicuro.
“Dominik ciao, che piacere vederti.”
Dorota Bronislawa, la più recente fiamma di mio padre, emerge dall’ampio soggiorno.
Il rosato del tramonto rendono le sue guance più spigolose di quanto non siano in realtà.
“Ti stavamo aspettando.”
“Dubito che mio padre aspetti qualsiasi cosa tranne una sua imminente vittoria, ma apprezzo lo sforzo.”
“Se posso consolarti, Andrej non sta prestando molte attenzioni neanche a me ultimamente.” mi informa con uno dei suoi sorrisi caldi, e io sono lì lì per dirle che mio padre non presta attenzione e basta, ma desisto.
I panni sporchi si lavano in famiglia, e i miei sono nella candeggina da un pezzo.
Che mio padre se la sbrighi con il suo nuovo amore, se durano fino alla prossima candidatura.
Mi siedo su uno dei due divani in pelle nera della stanza. Sull’altro è stravaccata per metà la figlia sedicenne, con il cellulare in mano.
La madre le da un colpetto sulla schiena per farla raddrizzare e la ragazza si siede in modo composto, abbandona per un secondo lo screen del cellulare e fa un sorriso di circostanza.
“Ciao Dominik.”
“Ciao Cecylia.”
E la conversazione finisce così com’è iniziata, senza trovare null’altro da aggiungere.
Ma la madre ci riprova, guarda la figlia e le dice: “Andiamo Cecy, chiediglielo, non farlo dire a me. Vedrai che Dominik farà il possibile per accontentarti.”
Uno, a giudicare dall’occhio vacuo come una sardina lasciata troppo tempo fuori dal freezer della ragazzina, l’unica che sembra voglia essere accontentata è lei.
Due, Dominik non è un’associazione di beneficenza e dovrà colpirlo un asteroide in testa prima che faccia il possibile per accontentare qualcuno.
“E va bene.” Cecylia poggia il cellulare sul tavolino, mi guarda e prorompe, tutto d’un fiato.
“La prossima settimana c’è una cena importante all’ InterContinental Hotel e dovrei andare con mia madre, non è che potresti parlare con la tua e chiederle un appuntamento per confezionare due abiti entro lunedì prossimo?”
Se mi avesse chiesto di penetrare nella Casa Bianca e uccidere il presidente degli Stati Uniti d’America avrei avuto più possibilità di riuscita.
“Ehm… con il lancio della nuova collezione anche in Russia mia madre non ha proprio tutti questi spazi liberi...”
Cerco di non sembrare sgarbato, ma voglio anche che capiscano che chiedere a mia madre qualsiasi favore che cozzi con la sua fitta agenda lavorativa è come lanciare missili sulla Korea del Nord e aspettarsi di non ricevere una bomba atomica in risposta.
Ma anche questa volta, Dorota Bronislawa non si arrende.
“Non potrebbe trovare uno spazio piccolino per me e mia figlia? So bene che… vista la questione fra lei e suo padre… Ma Agata è un’esperta nel settore, e ora che il suo marchio sta prendendo piede in tutta l’Europa Orientale non farebbe male neanche a lei che i suoi abiti vengano indossati da persone con un alto grado di visibilità.”
Ora capisco come ha fatto ad arrivare dov’è arrivata.
Caparbietà, vocaboli adatti e questo suo riferirsi a se stessa come una verità universale e inequivocabile.
Ma non ha ancora conosciuto mia madre.
“Parlerò con lei e vi farò sapere, va bene?”
“Grazie Dominik. Posso darti del tu? Sei un tesoro.”
Io e Cecylia ci guardiamo di striscio, complici dello stesso istinto.
D'altronde lei ha sedici anni, non sei e io ne ho diciannove, non sessantanove.
Gli occhi le schizzano sul soffitto mentre i miei si abbassano a seguire le venature del parquet.
“Faccio fare del the, ne volete?”
Proprio quando arriva il the arriva anche mio padre, rosso e ansante come dopo una maratona, ed è in procinto di salutatarmi ma, per un fortuito tempismo del destino, alla tv trasmettono di colpo la campagna elettorale del più acerrimo rivale della sua signora e si dimentica di me. O di chiunque altro nella stanza.
Poco male, anch’io mi posiziono difronte al televisore di ultima generazione, giro il cucchiaino nel the allo zenzero e mi godo lo spettacolo di mio padre che sbatte il palmo della mano sul tavolino cercando a tentoni la tazza per non perdersi neanche una parola che esce dalla bocca risoluta di Romek.
Provo una punta di fierezza -o è soddisfazione- nel constatare che ad ogni domanda Lubomirski risponde con assoluta prontezza e mio padre affonda sempre di più nel divano.
Dorota dovrà impegnarsi se vorrà persuadere i lettori che la mascella squadrata firmata Lubomirski e la dialettica senza fronzoli non siano la scelta giusta.
Per quanto io e Romek possiamo cordialmente detestarci, devo ammettere che non c’è stata occasione in cui non abbia fatto esattamente ciò che aveva detto, con grande disappunto del fratello (simpatico) Ruben.
Nella logica del Signor Lubomirski i fatti vanno a braccetto con le parole, senza via di fuga o scorciatoia alcuna.
Come Hitler, ma senza baffi, con un bel po’ di centimetri in più e principi morali un tantino più ragionevoli.
“Dominik.” Cecylia si volta verso di me. “Tu stai con il figlio… vero? Il campione di Judo.”
“Aleksander.” annuisco, chiedendomi se è ancora vero che sto con lui.
“Potresti chiedergli di passare... dalla mia scuola a… prendermi… sì… un giorno di questi? Sai… tutte le ragazze impazziscono per lui e anche io… beh -in modo molto più dignitoso- ma ecco, è parecchio… insomma Dom, è un figo illegale e voglio farle schiattare tutte d’invidia.”
La seguo così attentamente che inzuppo sette biscotti nel the, uno dietro l’altro; poi accenno un sorriso, mio malgrado.
“E’ questo lo sa anche lui, purtroppo.”
“Ci manca solo che quelle oche fondino il fun club. Se succede ti avviso.”
“Siete a questi livelli? Anche nella mia scuola aveva il suo immenso stuolo di ammiratrici, ma non credo siano mai arrivate a tanto… almeno spero.”
Recupero il cadavere di qualche biscotto col cucchiaino.
“Allora? Glielo dici?”
Appena mi sarà passata la voglia di ucciderlo.
“Dammi il tuo numero, questo non c’è bisogno di farlo sapere a tua madre.” bisbiglio, con il suono della voce di Romek in sottofondo.
“Grazie, grazie, grazie.”
Scrive qualcosa sul cellulare a velocità supersonica, tutta compiaciuta, i sedici anni che le sprizzano da tutti i pori, poi, accorgendosi probabilmente che mi conosce da un mese, che nel giro di un’ora mi ha chiesto più favori lei di mia madre in quasi vent’anni di vita e che è bene darsi un tono, ricompone il sorriso in una smorfia soddisfatta e aggiunge: “Se non è un disturbo.”
“Ma quale disturbo, consideralo già fatto. Non si è mai visto che Aleksander abbia perso l’occasione di pavoneggiarsi.”
 
 
***
 
 
Attraverso la strada alzando il cappuccio della felpa sulla testa.
Ho lasciato l’auto da qualche parte alla fine della strada residenziale, vicino a un SUV del valore di una casa.
Le villette a schiera mi guardano negli occhi mentre gli anfibi raschiano qualche pietra sull’asfalto.
Nell’aria della sera alcune folate di aria gelida sembrano sussurrare che l’inverno non si farà attendere.
E’ lì che accadde, sotto il cielo di Settembre.
In uno dei quartieri più tranquilli di Varsavia.
In una delle strade più dritte, rettilinea come una freccia.
Dov’è facile accelerare un po’ di più e distrarsi per rischiare di investire qualcuno.
Ma l’auto che accelera non è distratta, il suo conducente non vuole rischiare di investire qualcuno, vuole averne la certezza.
Vuole il corpo sull’asfalto, vuole il tonfo contro la carrozzeria, altrimenti non si spiega perché non abbia ancora rallentato, perché i fanali mi entrino nelle pupille, perché scarto di lato quando capisco che è troppo tardi, ma è troppo tardi.
La botta mi fa rotolare a terra per diversi metri, finisco in un cespuglio, le spine dei fiori mi graffiano la faccia e il dolore esplode come un antro di fuoco rosso, ma non ho voce per urlare.
Respiro ancora, ma ho negli occhi le luci dei fari a coprir le stelle.

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Capitolo 3
*** Sciroppo di Mirtilli ***


// Neanche ve lo dico da quanti mesi non pubblico un capitolo di questa storia, ma tra i vari impegni, drammi e organizzazione del proprio tempo (e della propria sanità mentale) pessima eccoci qui, giunti nel vivo di un 2019 frizzante come la Ferrarelle. Mi auguro che vi stiate divertendo e che l'estate vi permetta di contnuare a seguire "Cross my heart, that I'll die for you" nonostante la discutibile tempistica dell'autrice. 
Detto ciò, grazie a tutti coloro che leggono e perennemente grazie a Megara X
Il tempo non ci scalfirà
 


CAPITOLO 3
Sciroppo di Mirtilli
 
 
 
Aleksander_ Settembre
 
 
Appena mi chiamarono ebbero giusto il tempo di pronunciare le parole “Incidente”, “Ospedale, “Dominik” che me lo figurai in poltiglia sanguinolenta sulla strada, da qualche parte nel bel mezzo del nulla dove amava gironzolare lui.
Perché è così che t’immagini Dominik Santorski se ti dicono che è stato coinvolto in un incidente.
E m’immagino anche che sia il primo essere vivente (spero che sia ancora tra i viventi) che vedrò non appena varcherò la soglia dell’ospedale, attanagliato come sono dal rimorso (non lo ammetterò ad alta voce) di avergli detto cose un tantino brutte che non pensavo realmente.
Sono ancora incredibilmente arrabbiato con lui, e sono anche più incazzato perché è una settimana che non ci rivolgiamo la parola, né di persona né per un pidocchioso whatsapp, neanche con il passa-parola, perché me lo sono scelto con solo una piccola, minuscola, quasi inesistente punta d’orgoglio.
Però me lo sono scelto, e adesso accanto all’irritazione c’è anche quella fastidiosa, rancida sensazione nelle viscere che mi suggerisce di non affrettarmi troppo perché potrei trovarlo in condizioni che non potrei sopportare.
Aleksander Lubomirski può sopportare qualsiasi cosa, dannazione, anche l’eventuale corpo di Dominik Santorski spappolato.
Oppure no?
Ma quando io e mio zio finalmente entriamo nella stanza dove tengono in ostaggio la testa di rapa mora che non fa altro che morire e farmi prendere attacchi di cuore, non è Dominik, spappolato o meno, la prima cosa che vedo.
E forse l’eventuale suo maciullamento non è lo scenario più terrificante.
Mio zio capisce l’antifona con un secondo in ritardo ed entrambi indietreggiamo come se ci fossimo trovati difronte un gruppo di Zombie.
Ma la scena che ci si para davanti è molto più agghiacciante.
Mia madre, dove effettivamente deve stare -accanto al paziente di cui al momento scorgo solo una scarpa- che osserva con crescente preoccupazione un allarmato Andrej Santorski discutere animatamente con la sua ex-moglie Beata Nowak, sorretto moralmente dalla sua nuova compagna candidata-premier-bionda-di cui-non-mi-sforzo-di-ricordare-il-nome che gli fa pat pat sulla schiena, smentita a sua volta da mio padre che palesemente non aspettava altro che trascinarla in un dibattito sui fondi europei.
Il tutto infiocchettato dalla presenza (terrorizzati anche loro, poverini) di due poliziotti che parlano con una ragazza bionda ad un lato di Dominik.
E Dominik oh… appena riesco a vederlo in quell’ammasso aggrovigliato di voci e insulti è l’esatto riflesso di come mi sento.
Una mano sulla bocca, a metà fra la rassegnazione e l’orrido.
“E’ mai possibile che ogni qual volta mio figlio si trovi in tua presenza gli succeda qualcosa che lo fa finire in ospedale?!”
“Be-Beata, posso spiegarti…” E’ quasi comico l’effetto deciso che Andrej vorrebbe imprimere alla voce, con il risultato di sembrare un cane a cui hanno appena pestato la coda.
“Beata mi scusi, ma davvero non è nostra la responsabilità, Dominik era già uscito di casa quando…”
“Mi auguro per lei che non sia così che intende gestire il paese.” Ed ecco mio padre, che invece in quanto a decisione sembra quello che ha pestato la coda del cane.
“Ma cosa c’entra questo, Lubomirski?” 
“Ah, dunque c’era anche lei?”
Non ho mai visto la madre di Dominik davvero furiosa, ogni volta in cui la situazione rischiava di degenerare quest’ultimo mi trascinava a fare qualsiasi cosa lontano da lei, dal mangiare tre gelati a ripetizione allo studiare le posizioni del Kamasutra pur di non assistere a quegli spettacoli.
E solo adesso capisco che non lo faceva perché voleva provare la posizione numero 55.
Beata lievita come un panettone, si gonfia come un canotto da salvataggio, trattiene il respiro e sputa, letteralmente, fuoco.
A nulla valgono i tentativi di mio padre e del suo nuovo compagno -un certo francese Ambroise Amedè di pacificarla, è semplicemente un fuoco d’artificio sfuggito ad ogni controllo, impazzita come solo il figlio sa fare.
Ed è favoloso, davvero, vedere come Andrej Santorski si rimpicciolisca a vista d’occhio, di come la bionda gli si nasconda dietro, di come persino mio padre sia rimasta senza parole.
Ambroise, che ha visto in me lo stesso, tragico destino di esserci inna… beh, di provare cose per le persone che meno si adattano ad uno stile di vita tranquillo, si affianca al sottoscritto, in silenzio reverenziale.
“Incontri Dominik con lei dal primo giorno in cui te la sei trovata! Ti è mai passato per quella testolina bacata che forse non aveva nessuna voglia di vedere con chi te la spassavi questa volta, a meno di un mese dalla fine del nostro matrimonio?!”
Andrej ci prova a rispondere, davvero, lo sforzo c’è, si vede, ma non supera neanche la linea di partenza che la bionda prende il sopravvento.
“Beata, non mi sembra affatto il caso di rinfacciare ciò che è avvenuto in passato e non mi sembra neanche il caso che sia così scettica nei modi in cui Andrej si rapporta con suo figlio.”
Ed è l’Apocalisse.
Beata scaccia con uno scatto così repentino del polso la frangia dagli occhi da ricordare un serpente a sonagli.
Assomiglia così tanto al figlio da far paura.
“Mio marito” sibila, “anzi, grazie al cielo il mio ex marito, non si rapporta con suo figlio, lui fa le stronzate e poi pretende di nascondere tutta la merda sotto al tappeto.”
La bionda avrebbe fatto meglio a lasciare che Andrej si ritirasse come una camicia sgualcita nella sua disfatta piuttosto che toccare l’argomento.
Ma lei non sapeva, non poteva sapere cosa ci fosse dietro, quanto l’iceberg fosse profondo.
La punta sembrava già ingombrante a sufficienza.
Ma lei pensa che sia solo una mera questione d’interessi sentimentali, che Beata sia stata lasciata dal Signor Santorski per lei.
La signora, o signorina, non è al corrente del fatto che sia stata Beata a chiedere, no, pretendere il divorzio e a sbattere Andrej fuori di casa prima che lui facesse la sua conoscenza.
“Non mi sembra il luogo adatto per esprimersi in questi termini Beata.” 
“Non le sembra di potersene andare a f-“
Ambroise si getta in avanti posandole le mani sulle spalle, zio Ruben se ne va da mio padre a chiedere cosa diamine sia successo prima che lo shock gli passi e ricominci a parlare del suolo pubblico e vorrei saperlo anch’io a questo punto, cos’è successo.
Mi avvicino all’unica persona sana di mente nella stanza.
E definire Dominik Santorski sano di mente vi fa capire quanto io sia disperato.
“Mi dici cos’è successo?”
“Non lo vedi da te? La famiglia Addams, la famiglia Simpson e i Griffin si sono incontrati.”
“La tua qual è?”
“La famiglia Addams ovviamente, non ti do una somigliata a Mercoledì?”
“Ovviamente. Comunque mi riferivo all’incidente, e al surclassabile dettaglio che hai una spalla ridotta a brandelli.”
“Per quanto brutto sembri è solo un’ematoma, Aleksander” mi comunica mia madre con il suo tipico tono professionale da specialista.
“Chiamalo ematoma… e’ più nero dei suoi capelli.”
Dominik si siede meglio sul lettino e fa un gesto di noncuranza con la mano.
“Non è uscito nemmeno sangue.” 
“Ed è già un record per te. Che stavi combinando stavolta?”
Alza le mani. “Camminavo, ecco cosa combinavo. Non è stata colpa mia stavolta, una macchina ha improvvisamente dimenticato come si frena appena mi ha visto.”
Osservo i poliziotti e incrocio le braccia al petto. “Perché parlano con quella ragazza?”
“E’ stata la prima a trovarmi dopo che sono rotolato in un cespuglio per non finire morto ammazzato.”
“Un… cespuglio?” sbuffo rumorosamente e lo guardo con rimprovero, una mano su un fianco e il corpo ruotato di 60 gradi, e mi rendo conto troppo tardi che questa è una classica posa di mio padre.
“Ehi, ha attutito l’impatto, avrei potuto sbattere la testa e allora avresti parlato con i resti del mio cervello.”
Gli do ragione in silenzio e con un cenno indico la bionda in miniatura. 
“Chi è comunque? La tua nuova fiamma?”
“La mia?” Nik accenna un sorriso e non so davvero cosa ci sia di divertente fino a quando non chiama “Cecylia” e la ragazza si volta.
La borsa le cade dalle mani.
Cerco Dominik con lo sguardo, ma lui se la sta godendo troppo per darmi spiegazioni.
Cecylia si piega per recuperarla senza staccarmi gli occhi di dosso, quasi temesse di vedermi scomparire da un momento all’altro.
“Aleksander, questa è Cecylia, la figlia della nuova compagna di papà; Cecylia, questo è Aleksander Pallone-Gonfiato Lubomirski, Primo del suo nome.”
Faccio una smorfia e mi faccio avanti per stringerle la mano.
Lei mormora un “Lo so” con aria sognante e io apprezzo sul serio questo effetto vagamente cinematografico, ma inizio a preoccuparmi che vada in apnea.
E non accenna a lasciarmi la mano.
“Chiamami Leks.”
“Ti chiamo come vuoi.”
Chiedo aiuto a Dominik ma è troppo impegnato ad abortire un attacco di ridarella nei colpi di tosse.
“Quindi… sei stata tu a trovarlo?”
“Ero uscita di casa per chiedergli una cosa su di t… una cosa, e l’ho visto nel cespuglio al lato della strada con le spine delle rose sulla faccia e i petali in testa.” 
“Una visione celestiale” mormora Dominik.
“E non hai visto chi c’era in quella macchina?” continuo, ormai avvezzo al suo sarcasmo.
“No, i fari erano troppo luminosi.”
“Crediamo fossero luci al led, bianche e abbaglianti, ma non ne siamo certi.” I poliziotti si avvicinano. “Sono vietati.”
“Credete che sia stato Asher Brown?” chiedo, consapevole di essermi inacidito sulle ultime due parole.
“E’ l’ipotesi più plausibile ovviamente, ma non escludiamo altre strade. Signor Santorski, è giusto chiederle di non andare in giro da solo per un po’, almeno fino a quando non ne sapremo di più o non l’avremo preso.”
E’ chiaro come il sole che Dominik è lì lì per protestare, ma è ancor più chiaro che ricorda fin troppo bene cosa Asher sia capace di fare, e rinuncia all’ultimo momento.
“Certo che sono pazzi” commenta Cecylia a mezza voce, con l’attenzione rivolta verso il capanello di donne e uomini al centro della stanza.
Mia madre s’è aggiunta al ‘confronto’, la faccia tesa da primario.
“Per cortesia potreste risolvere le vostre battaglie irrisolte fuori dal mio ospedale?”
Il tipo francese cerca di far ragionare la madre di Nik, ma è un collaudatore di alberghi di lusso non un domatore di leoni, e Beata sembra una leonessa inferocita.
Io e Dominik rispondiamo in contemporanea.
“Tu non ne hai idea.”
 
 
***
 
 
_ Ottobre
 
 
Dovevo saperlo che mi avrebbero presentato il conto.
Li vedevo confabulare già da qualche giorno, e se prima i bisbigli e le occhiatine in tralice erano passate inosservate, a pranzo sono compromettenti.
Samuel si premura di lisciare il tovagliolo da venticinque minuti, è diventato così liscio che credo abbia due ferri da stiro al posto delle mani.
E’ sudore quello sulla sua fronte?
Per non parlare di quel ragazzaccio della fidanzata.
Gli occhi verdi appaiono come palline da tennis, saltano da una parte all’altra che neanche un Terminetor, da Samuel a me a Dominik alla madre che ha sporto la testa per chiederci se volessimo ancora cheescake ai frutti di bosco.
“Allora io papà andiamo dai Czarcek, fate i bravi.” Sorride e le manda un bacio prima di scomparire.
Un bacio sibillino, un sorrisetto di troppo.
Samuel sprofonda nella sedia, Dominik sorseggia il suo vino senza guardare nessuno e Sandra si alza di botto.
Manda indietro la sedia con un colpo di anche ed esce. Ma deve aver pensato a qualcosa durante il tragitto dalla veranda alla cucina, perchè prende la torta e la sbatte sul tavolo così forte che il mascarpone oscilla e qualche frutto si suicida.
“Glielo dico io.”
“Che?! No, no, no… ne abbiamo già parlato-“
“Ora dovresti parlare. con loro. Ora Samuel.”
Samuel ha appena ingoiato un limone rancido e io davvero non capisco cosa ci possa essere di tanto grave.
Andiamo, è di Samuel che si parla.
Il massimo che abbia mai fatto di male è stata la colossale sbronza in terza media senza neanche finire in ospedale, si è solo risvegliato con un’emicrania andata avanti per cinque giorni.
E con Sandra come pastore tedesco sarebbe matematicamente impossibile fare altro.
Eppure guardateli… come cercano il coraggio per dirlo.
Samuel soprattutto, Sandra sembra averle già trovate da un pezzo, e vuole spiattellarle tutte insieme alla cheescake.
Taglia la torta con la delicatezza di un macellaio, la spiaccica nel piatto e ci passa i piatti uno per uno, continuando a corrodere il mio amico con lo sguardo.
Non è che anche lei è una lontana parente di Beata? Così, per dire.
“Sì beh… ecco, sì. Sì, ecco, io e Sandra… noi… noi avremmo pensato di… sì beh… pensavamo di… proprio noi… di-“
Ci sposiamo.
Samuel si affloscia.
Un mirtillo mi è appena andato storto.
Vengo assalito da un attacco convulso di tosse e Dominik mi batte una mano sulla schiena senza nemmeno guardarmi.
“Voi… COSA?”
“Che c’è di male?”
“Sandra tu… in tutta franchezza non stai bene fattelo dire. Samuel… neanche ti commento. Dimmi solo che ti ha costretto, ricattato, minacciato di tagliarti le palle perché potrei svenire tipo: adesso.”
“Beh… Leks… me l’ha chiesto lei in realtà. Ma io ho detto subito… sì, ecco.”
Dominik sposta la mia fetta di cheescake.
“Non svenire nel piatto.”
“Subito sì… subito sì. Avete vent’anni porca miseria, in America non potreste neanche votare.”
“Io ne ho quasi ventuno.” La tedesca sorride, irremovibile. “E poi in America si sposano presto.”
“Non a vent’anni” sibilo. “Oh andiamo… Nik di’ qualcosa anche tu.”
Il moro si raddrizza, fa schioccare la schiena, poi il medio, poi l’indice. Posa il bicchiere e… “E’ molto romantico. Congratulazioni.”
Mi spiaccico le mani in faccia. “A chi ho chiesto.”
“Eddai, stanno bene insieme.”
“Questo NON basta per sposarsi.”
“Ci amiamo.” 
“E ‘sto cazzo Samuel, il matrimonio è la fine di tutte le gioie, non te l’hanno detto? Che bisogno c’è di farle finire ora?”
Averto lo sfarfallio dello sguardo di Nik danzarmi attorno, se la sta spassando troppo anche solo per parlare. Si sta divertendo più del dovuto ultimamente.
“Non se ne parla. No, no, no. Sempre e per sempre no. Non darò mai la mia benedizione.”
Nik alza gli occhi al cielo e Samuel risponde con una voce sottile sottile che sa già di colpevole: “Allora sarebbe inutile chiederti di farmi da testimone…?”
Potrei uccidermi.
O ucciderlo.
O uccidere tutti i presenti per risparmiarci la follia di questa conversazione.
“Cosa vuoi chiedermi?!”
Si guardano tutti, escludendomi nella mia isolotta di sanità mentale.
Perché sono assolutamente certo che l’unico ad avere ancora la facoltà d’intendere e di volere qui dentro sono io.
Scuoto la testa. “No… no in salute e malattia, in tristezza e in povertà-“
“Ci lasciate soli un attimo?”
“…per amare e onorare il no finchè morte non ci-“
“La finisci? Mi metti ansia.”
Quei due traditori sgattaiolano dentro casa.
Dominik finalmente ha negli occhi un luce più grave.
Avrà compreso finalmente la serietà della cosa?
“Voglio uccidermi.”
“Dopo ti spiego come si fa. Ora mi ascolti?”
Non gli dico di sì ovviamente, perché se altrimenti si monta la testa e chi lo ferma più, ma smetto di commiserarmi.
“E’ una cosa tanto brutta che il tuo migliore amico ti voglia come testimone in un momento così importante per lui?”
“E’ proprio il momento che non digerisco.” 
“Quanto sei megalomane, sarà un’occasione come un’altra per metterti quei costosi smoking d'alta sartoria e fare la sfilata nella navata della chiesa.
Sa di cosa sta parlando, ma rimango fermo nella mia isolotta di buonsenso.
“E potrai dare un decisivo contributo all’organizzazione perché non vogliamo che Samuel vada in crisi esistenziale prima di pronunciare il sì.”
Alzo il mento, accavallo le gambe -questo Jeans mi sta proprio bene- e volo molto più in alto della sua capacità di raggiungermi.
Non farai breccia dentro questo muro stavolta, Dominik.
“Non se ne parla neanche per sogno, neanche per sbaglio. ASSOLUTAMENTE, INCONTROVERTIBILMENTEA, INNEGABILMENTE N-“
“…pompino.”
Il ‘no’ affoga nella mia stessa saliva.
Ho capito male.
“Come?” rantolo con voce strozzata.
Ho capito benissimo.
“Ti faccio un pompino se dirai di sì, farai da testimone e non romperai più le palle.”
Dominik se non ‘fa breccia’, il muro lo fa saltare in aria.
Sbatto le palpebre, attonito come dopo una dose di anfetamina.
“Ma se non vuoi…” si fa passare la lingua sulle labbra, ritornando a concentrarsi sul suo bicchiere di vino.
Che grandissimo bastardo.
Come se già una volta questo gesto non mi abbia mandato in escandescenza.
Come se la sua bocca non mi faccia impazzire.
“Davvero ci stai pensando?”
“Che? Non ho già detto sì? Devo averlo fatto solo nella mia mente.”
Sospiro allargando le braccia.
“Certo che non ci sto pensando, a che devo pensare? Accetto. Accetto tutto. Faccio anche il prete se vuoi.”
“Ragazzi…" annuncia Dominik a voce alta, "è un sì.”
Formo con un labiale silenzioso la parola 'vigliacco' nella sua direzione mentre Sandra mi getta le braccia al collo e Samuel si lascia cadere su una sedia.
Il biondo avvicina la mano per battermi il cinque.
Lo guardo comunque male mentre le nostri palmi schioccano.
“MA, non metterò mai il color pesca.”
La ragazza bacia Dominik sulla guancia. “Se Dom accetta di farmi da testimone credi che potrei fargli indossare il color pesca?”
“E poi perché il color pesca?” chiede il mio forse-ancora migliore amico con tono più rilassato, ora che il pericolo è scampato.
“E che ne so, è così che fanno nelle commedie americane. E dato che voi mi sembrate una commedia americana, meglio metterlo in chiaro.”

 
***
 
 
Dominik_ Novembre
 
 
“Tutti ai posti di combattimento, il piano è il seguente.”
Sandra dispiega sull’enorme ripiano di cottura elettrica nella cucina di Samuel (compresa di gas elettrico, termostato ad alta precisione e in vetro inossidabile) un’enorme mappa della città di Varsavia, come se fossimo turisti sperduti provenienti dal villaggio di Umululo o ribelli della Resistenza polacca durante l’occupazione Nazista.
Sandra ricorda più un Nazista che un Umululo, con gli incroci e le linee di dieci colori differenti che ha tracciato fra strade, piazze e zone pedonali.
“Io, cugina Karol e Nik ci troveremo qui a Chmielna, mentre tu Samuel, tua sorella –Ciao Sarah- e Leks sarete qui, in Nowy Swiat. In questo modo non dovremmo incontrarci durante l’acquisto dei vestiti. E se i miei calcoli sono esatti, a Samuel verrà l’ansia al terzo vestito, darà di matto e sceglierà quello che non avrà misurato, il tutto in una ventina di minuti. Leks farà la passerella per tutto il negozio, passando davanti ad ogni specchio due volte, e sceglierà quello che gli fascia meglio il didietro –o quello che avrà fatto svenire almeno tre commesse su cinque- quindi almeno un'ora piena per lui. Katia è una povera anima che compatisco profondamente e che impiegherà dieci minuti giusto per uscire dalla boutique e andarsi a prendere un superalcolico che le resetti il cervello e le faccia dimenticare tutto. Intesi?”
Samuel prova a spiaccicare parola, credendo che questo sia il momento di avere un'opinione, ma Sandra si stava soltanto riprendendo fiato e continua.
“Noi, invece, cambieremo cinque negozi perché la mia cara cuginetta è l’indecisione incarnata, ed è pure rompipalle: una giacca sarà troppo stretta, un pantalone troppo lungo, una camicia troppo bianca, un bottone troppo abbottonato. Contiamoci quarantacinque minuti a negozio. Nik, se ci ho capito qualcosa, proverà tutti i vestiti in vendita e, abbinando ad ogni abito un paio di scarpe diverse, facendo tagliare le vene a commesse e commessi perché, per quanto gli stia bene il modello attillato, non ne possono più di vederselo ancora tra i piedi dopo essersi infilato in cinquanta smoking differenti, alla fine prenderà il primo che avrà misurato e che in realtà aveva già scelto. Da un’ora in su. Ti invito lo stesso Nik.”
Finalmente respira e ci guarda, e noi davvero non sappiamo se avremo mai voce in capitolo o meno.
E’ certo che Samuel abbia rinunciato anche al capitolo.
“E si può sapere tu quanto c’impiegherai?” chiede Karol.
“Io sono la sposa, fino a sette giorni sono giustificata.”
Sento Leks armeggiare alle mie spalle e portare sul tavolo sei tazze di caffè.
“E i colori?” s’informa.
 Scommetto che sta già pregustandosi la visione di se stesso in una giacca nuova di zecca di una qualche nuova collezione esclusiva.
“Blu e argento, o grigio per gli smoking, se volete.”
“Come a Capodanno?” a Sarah quasi non cedono le gambe.
“Ma dai, sarà una cosa diversa dai soliti rosa avorio, giallo calendula e gelsomino. E poi non esiste che io metta un abito bianco" risponde Sandra.
Il sorriso di Leks straborda da dietro la tazza.
“Sei ancora così sicuro che sia stata una buona idea?”
Samuel lo guarda stralunato. “Ma… ma… Sandra” quasi piagnucola.
“Oh, d’accordo! Ti facilito ancora di più la cosa, tu vestirai di blu con qualche cosa di grigio o argento, fai un po’ tu, e io d’argento con qualcosa di blu.” Alza le mani, schiarisce la voce, sventola le braccia come bandiere.
“I testimoni vestiranno al contrario di noi, ovvero di blu i miei, di grigio i tuoi. Tutto chiaro? Bene? Bene. Pronti, partenza, via. Vestitevi bene o non vestitevi affatto.”
 
 
***
 
 
Le previsioni di Sandra si rivelano esatte non appena varchiamo la soglia del quinto negozio e cugina Karol decide di non riuscire a decidere.
Io vago fra i corridoi, indicando vestiti e cercando nella povera ragazza che mi viene dietro un parere che in realtà non voglio.
Dopo una decina di smoking, quindici cravatte, venti papillon, trenta fantasie e otto tessuti per lui e cinque giacche, “camicia libera o gilè?”, “scarpe classiche o moderne?”, “questo blu si sposa perfettamente con i suoi occhi!” per me, è palese che la sposa non sembra neanche più Sandra.
“Prima che chiamiate il parrucchiere per decidere l’acconciatura potremmo dedicarci al mio vestito?”
Un’ora e mezza dopo siamo in uno sfavillante atelier di abiti da sposa, circondati da persone eccitate, gridolini isterici, occhi che brillano e una Sandra totalmente fuori luogo.
“Lei mi sta dicendo che io dovrei camminare su tacco 12 per tutti gli scalini e la navata in questo coso lungo?!”
E’ evidente che credeva di sposarsi in jeans e maglietta, e l’avrebbe pure fatto se Samuel per una volta non si fosse impuntato, pretendendo l’abito lungo e più tradizionale.
Ha aggiunto che lo diceva perché voleva vederla sotto una ‘luce diversa’ dalle solite felpe e code di cavallo, ma la ragazza non sembrava intenzionata a dargliela vinta, e non lo sembra neppure tutt’ora.
“Va bene, ma ne voglio uno argentato e blu, corto dietro e lungo davanti."
Leks scoppia a ridere senza ritegno.
"Che vuoi?! Ah, corto davanti e lungo dietro. Va bene così Leks!??"
Aleksander nasconde il sorriso tra due dita.
"Perfetto."
La ragazza squadra la commessa.
"No signorina, è inutile che mi guarda così, io il bianco non lo metto. E non osi rifilarmi una di quelle gonne da principessa Disney. Le sembro una principessa io??”
Sembra uno squalo che ha appena fiutato il sangue, sbraitando a destra e a manca su quanto il tradizionale sia sopravvalutato e puzzi di muffa.
“Il bianco, puah. Il colore della purezza e poi si presentano all’altare che ne hanno viste e fatte di tutti i…” 
Ma non seppi mai cosa ne avessero viste e fatte, perché un bagliore azzurrino e un cappuccio decisamente troppo nero mi facero un cenno con la mano.
Fuori dal negozio.
Di seguirli.
E non seppi mai davvero perché andai così, di botto, buttando già una scusa qualunque e mollando tutti lì, nella loro vivace normalità, per andare incontro a una figura minuta della quale non se ne vedeva il volto.
Questa non si ferma, attraversa la strada non appena capisce che la seguirò, ed entra in una tavola calda dallo stile vagamente americano, anonima e vuota per metà.
Si siede su un divanetto in pelle rossa e io mi ci siedo di fronte, poggiando i gomiti sul tavolo e intrecciando le mani sotto al mento.
Le mani che rischiano di tremare se solo le lasciassi libere.
Non c’è bisogno di presentazione.
Non c’è bisogno di fingere che i brividi non abbiano un nome, che non riconosca la sensazione del sangue che corre nelle vene.
L’avrei riconosciuta anche senza la ciocca di capelli turchesi che le ricade sul seno, sfuggita al cappuccio, o senza la discrezione misteriosa di chi ha tutto da perdere.
“I tuoi capelli sono più chiari del tuo avatar” dico, e so di non sbagliarmi.
“Invece i tuoi occhi sono dello stesso azzurro di come li aveva il tuo” e alza la testa, rivelando un volto bianco e due occhi cerchiati dal nero del kajal.
“Che ci fai qui?”
Dovrei correre via, dovrei alzarmi e tornare alla vita che ho adesso, che mi piace, che è proiettata in avanti, che mi promette il futuro, ma che forse non ho rammendato così bene, se il passato continua a farmi visita.
Dovrei correre via e invece me ne sto inchiodato qui, su un sedile di pelle consunto, lontano dalle luci della ribalta, lontano dalla perfezione a cui mi stavo nuovamente abituando, ad ascoltare voci che parlano nonostante le porte chiuse, nonostante le case abbandonate.
“Dovevo starmene zitta. Accada quel che accada. Lascia che sia, diceva sempre lei.” 
Le metafore, la poesia… il rumore dei cuori infranti, la musica dell’oblio, la dolcezza del silenzio.
Mentre parla è tutto caldo e familiare; come ritornare nella casa in cui sei cresciuto, come rivedere la tua famiglia.
“Ma non lascerò che sia questa volta. Non lascerò che sia di nuovo.
Si piega in avanti, le spesse ciglia finte danzano mentre si guarda attorno, poi fissa gli occhi scuri nei miei, senza più sbattere le palpebre.
“Non credo che sia finita. Non lo credere neanche tu. Non l’ho mai vista rinunciare così facilmente, non lo farà neanche adesso. Soprattutto adesso.”
E’ sconfortante ammettere che è molto più facile abituarmi a questo, a mezze verità sussurrate nel vento piuttosto che allo scampanellio acuto della vita sotto al sole.
“Stai parlando di Sylwia, vero?” sussurro anch’io. “Perché adesso non dovrebbe rinunciare? A cosa non rinuncerà?”
“A te” risponde semplicemente.
Ma questa volta, neanche io riesco a leggere tra le righe.
“Non capisco.”
“Un’altra sola volta l’ho vista tenere a qualcuno, e sai com’è finita?”
Non ha fretta, aspetta che ci arrivi, ma forse il vento parla davvero in un codice che non riesco più a decifrare, forse la mia vecchia vita vuole tenermi stretto, questa volta.
La guardo e scuoto impercettibilmente la testa.
O forse, credo nei sentimenti altrui più di quanto dovrei.
“Suicidio.”
Un cameriere si avvicina e lei ordina due piatti di pancake senza distogliere neanche per un secondo gli occhi da me.
“Ma nessuno di noi ci ha mai creduto.” 
“Perché l’avrebbe fatto?”
“Perché lo amava. Ma lui era diverso da lei, totalmente diverso.” Si zittisce di colpo quando due pile di pancake ci vengono piazzate davanti.
Non appena il cameriere si allontana prende il coltello e si dimentica della forchetta, o della sua ordinazione, o di qualsiasi altra cosa che non sia il rigirarsi la lama tra le dita.
“Ricordo come se fosse ieri… quei momenti.”
Per un attimo non sembra più qui, persa in un interminabile tunnel senza uscita; poi afferra anche la forchetta e inizia a tagliare il cibo come una comune mortale.
“Per tutti gli altri fu facile credere che si fosse ucciso perché la frequentava, ma noi che l’avevamo conosciuto sapevamo che non era possibile. Lui non ha mai voluto neanche entrare nella Stanza, voleva ripigliarla, salvarla, fare tutte quelle stronzate nobili che fanno gli innamorati -ma lei non ne voleva sapere- e lui le diceva che non potevano continuare così, che non sopportava tutto questo, che doveva scegliere: o noi o lui.”
Prende una caraffa con dello sciroppo di mirtilli e io non sono sicuro di voler risvegliare i morti.
“Puoi immaginarti com’è finita. Lei non sceglie. Lei prende tutto o niente. Scelse noi, ma non permise a lui di scegliere nient’altro che non fosse lei.”
Il sugo dei mirtilli cade sui pancake con la grazia di un corpo che sviene, scivola, lieve e scarlatto, sul pallore scheggiato del piatto.
“C’era sangue ovunque. Ovunque. Non avrebbe mai funzionato. Lui sveniva alla vista del sangue...” e ride, ride con il tintinnio di ossa rotte e notti in bianco svegli ad aspettare un miracolo, o la fine.
Si getta indietro come una bambola stramba, sinceramente divertita dall’ironia della sorte.
“Ma tu… tu sei diverso. Tu non hai paura del nostro mondo, tu non hai paura di lei, di quello che potrebbe fare… dovresti averne, Dominik. Dovresti iniziare ad avere un po’ paura del sangue anche tu.”
Credo di essermi perso da qualche parte, fra le dune sanguinolente di un deserto avvizzito, e lo sciroppo continua a gocciolare e a gocciolare, inesorabile.
E credo di aver capito dove voglia arrivare, ma non mi preme saperlo, non voglio sapere cosa questo sciroppo potrebbe diventare, che il rosso non è solo il colore delle tende e dello smalto per unghie.
Si caccia uno spicchio di cinque pancake in bocca e non aspetta di ripulirsi le labbra dal rosso, quando ricomincia a parlare.
“Se amava lui… non oso neanche pensare cosa provi per te.” non dirlo, non dirlo… “Tu che sei stato il Re del suo mondo.”
Ma lo dice, e su quel tavolo non c’è più posto per tutti e due.
La consapevolezza sgomita con prepotenza, il passato non è più un vecchio pagliaccio di porcellana riposto nella credenza e dimenticato, la mia capacità di trattenere la conversazione su un livello normale se ne va a puttane.
E allora: “stai tradendo la tua Regina venendo da me.”
“Io domani potrei non avere più la forza per vivere, e allora a che sarebbe servito? Ma non rimarrò a guardare mentre le sue ossessioni consumano chi questa forza ce l’ha. La Stanza non era nata per questo.”
So che sta dicendo la verità perché non si mente sulla propria morte.
Ho parlato con lei per giorni e settimane intere attraverso la chat di un pc, e non la conosco affatto.
Eppure, il formicolio della familiarità rimane, la sensazione di provenire dallo stesso luogo, di aver provato sulla pelle gli stessi morsi resta.
Come in una grande città straniera, fra un milione di lingue, tu trovi proprio il tizio sconosciuto che parla la tua, ed è subito casa.
Una casa a cui si restringono le pareti. Che rischia di crollarti addosso.
“Non mi farebbe mai una cosa del genere.”
Le parole non si accavallano, non hanno pressa. Sono pacate e incolori quando sgusciano fra le mie labbra, perché ci credo.
Nonostante tutto, io ci credo.
Ma lei è già al funerale di qualcuno, e non sono certo se sia il suo, il mio o quello dei suoi ricordi.
“Non abbassare la guardia Dominik, e non dimenticare mai dove hai sotterrato l’ascia di guerra.”
Mi alzo sul serio a questo punto, l’ascia di guerra è bella che sepolta e con l’aroma di zucchero e vaniglia dei pancake sul palato non si può davvero credere che il sole non sorga il giorno dopo.
Lascio i soldi sul tavolo e le passo accanto, inclinando il capo per guardarla.
“Non morire prima di aver visto se hai ragione.”
 

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