Luce

di wolfymozart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte III ***
Capitolo 3: *** Parte II ***
Capitolo 4: *** Parte IV ***
Capitolo 5: *** Parte V ***
Capitolo 6: *** Parte VI ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Non aveva sofferto. Così aveva assicurato il dottor Ceppi dopo essere stato mandato a chiamare per constatarne la morte. Ed infatti il volto sembrava disteso, sereno, le membra rilassate, l’espressione pacificata di chi, dopo lunghe sofferenze, ha trovato requie. La cuffia di pizzo bianco perfettamente calata sul capo, le mani ossute e bianche sovrapposte, il capo leggermente reclinato in avanti sul cuscino ricamato con lo stemma di famiglia. Così l’avevano lasciata Fabrizio ed Elisa, dopo che la sera precedente li aveva mandati a chiamare per congedarsi, e così la vedeva Anna nell’incerta luce del primo mattino di un giorno di settembre, estromessa da quell’ultimo commiato, incapace di perdonarsi per non essere accorsa lei stessa al capezzale della madre morente per un ultimo saluto, ma nello stesso tempo risentita per non essere stata tenuta in considerazione in un frangente tanto importante.

Non era arrivata in tempo per vederla viva, quella notte. Eppure una strana sensazione le suggeriva in quelle ore notturne di alzarsi, di indossare la veste da camera, di prendere una candela e di scivolare per i corridoi fino alla porta della stanza di sua madre. Un presentimento che lei aveva ricacciato come stupido, infondato, irrazionale, e aveva dunque continuato a rigirarsi fra le coperte senza riuscire a prendere sonno. Così, soltanto verso l’alba, dopo una notte d’inferno tra risentimenti, rimorsi, gelosia verso quella servetta a cui la madre sembrava dedicare più attenzione che a lei, sua figlia, era stata vinta dall’amore filiale e si era decisa a far visita alla madre. L’aveva trovata immobile, ormai fredda, impassibile. Le ci erano voluti pochi istanti per dedurne la morte. In fretta e furia aveva svegliato Fabrizio, che si era affannato a mandare a chiamare d’urgenza il dottor Ceppi. Anna aveva opposto resistenza: che bisogno c’era di convocare con tanta fretta il medico, visto che era ormai evidente che la loro amata madre era spirata? Che cosa avrebbe potuto risolvere il dottor Ceppi, pur con tutta la sua perizia, di fronte alla morte? Sarebbe stato perfettamente inutile. Anzi, la vista del medico le avrebbe aggiunto angoscia ad angoscia, ma questo al fratello non lo disse. Le sue resistenze si rivelarono inutili, Angelo poco tempo dopo fece il suo ingresso nel corridoio facendo strada al dottore. Anna si ritrasse immediatamente nelle sue stanze, senza dargli nemmeno il tempo di scorgerne la figura allontanarsi per i corridoi. 

Furono ore concitate. Ordini da impartire alla servitù affinché predisponesse i preparativi per il funerale, che, secondo il costume dei Ristori, sarebbe dovuto essere austero ma solenne; lettere da inviare alla nobiltà locale per annunciare la dipartita della contessa Agnese; formalità legali da sbrigare. Tra queste, la più importante, la convocazione del notaio per l’apertura del testamento. Fabrizio si era offerto di assumersi questa incombenza. Sebbene fosse distrutto dalla morte della madre, manteneva i nervi saldi e disponeva con prontezza ogni faccenda pratica. Elisa, invece, non faceva che detergersi gli occhi arrossati con fazzoletto di seta ornato dello stemma dei Ristori, vegliando accanto al corpo della defunta con tanto di velo nero di pizzo calato sugli occhi. Amelia le teneva compagnia deplorando la scomparsa della beneamata contessa e sgranando con devozione le decine del rosario che teneva in mano.

La luce obliqua del sole autunnale aveva invaso la stanza adibita a camera ardente, dove due ceri torreggiavano ai piedi della bara, facendosi largo tra numerosi omaggi floreali portati dalla campagna dai contadini. Il profumo dei fiori e il silenzio regnavano nell’aria greve di quel primo pomeriggio di settembre, ancora caldo del sole dell’estate. La notizia della morte di Agnese Ristori non si era ancora diffusa per la contea, le prime visite al feretro erano previste per la sera o per la mattinata seguente. Ogni tanto si udiva in sottofondo il ronzio sommesso delle orazioni di Amelia e delle altre serve che l’anziana guidava nella recita del rosario per la padrona defunta. Elisa non aveva lasciato il suo posto alla sinistra della contessa e sillabava sottovoce la cantilena delle preghiere, mentre i suoi occhi scrutavano di tanto in tanto la porta in attesa della comparsa di Fabrizio, seguito dal notaio. Sulla soglia comparve, invece, di lì a poco Anna, che aveva trascorso l’intera mattinata a scrivere lettere listate a lutto, chiusa nelle sue stanze.

-Voglio restare sola con mia madre, uscite per cortesia. – esordì facendo il suo ingresso nella stanza. S’era cambiata d’abito, vestiva di nero, tinta che le conferiva un’eleganza austera, quasi ieratica, accentuata da suo sguardo altero, asciutto, dominante. Le domestiche lì radunate per la recita del rosario ebbero un istante d’esitazione, si volsero alla padrona con occhi compassionevoli, come a porgerle mute condoglianze. Anna non gradì la loro compassione: non aveva bisogno della pietà della servitù, non aveva bisogno nemmeno del conforto di suo fratello o di quell’Elisa che si era ormai insinuata nella loro famiglia, non aveva bisogno delle viscide attenzioni del marito, che, anzi, si augurava restasse lontano più al lungo possibile. Non aveva bisogno proprio di nessuno, voleva restare a tu per tu con la madre, per un ultimo confronto, per un estremo chiarimento. Così, non avendo ottenuto risposta, rincarò rabbiosa: - Mi avete sentita? Fuori! Andatevene al più presto di qui! – ma i suoi occhi scuri lampeggiavano di disperazione, non d’ira.

- Contessa, io vorrei…- accennò timidamente Elisa.

- Che cosa vorresti? Vattene insieme alle altre, non sei nulla più di loro. – spense così sul nascere ogni possibile richiesta. Anche la ragazza s’avviò dunque a testa china verso la porta, che richiuse delicatamente, accompagnando il gesto con un inchino fin troppo ossequioso. Una volta sola nella stanza, Anna si sedette sulla poltrona di raso, accostandosi alla salma. Chiuse gli occhi, con un profondo sospiro si fece il segno di croce, devotamente, senza fretta, concentrando dentro di sé tutta la forza d’animo e la fede che possedeva. La vita la chiamava ad una nuova, difficile prova: non era bastata la scomparsa prematura del padre quand’era poco più che una ragazza, non era bastata la lontananza protratta per anni del fratello, non era bastato il fallimento, sempre più evidente agli occhi di tutti, del suo matrimonio. Le veniva imposto anche di affrontare la perdita della madre, proprio in quel frangente delicato, con Fabrizio invaghito di una serva, con suo marito totalmente incapace di tenere le redini delle sue finanze, con Emilia da crescere il più lontano possibile dalle nefandezze e dalle ingiurie di suo padre. Ma lei era una donna forte, o così aveva sempre dovuto dimostrare di essere: forte, risoluta, per alcuni quasi arrogante. Nessuno avrebbe mai messo in discussione il fatto che Anna Ristori, la marchesa Radicati, avrebbe affrontato ogni ostacolo con quel suo piglio superbo e sprezzante, con quel suo sguardo sdegnoso, con i suoi toni taglienti. Nessuno. Tranne, forse, due sole persone. Una, tuttavia, giaceva fredda e immobile davanti a lei, composta, silenziosa. Non l’avrebbe più potuta accompagnare, consigliare, proteggere: ma, si disse Anna, nemmeno in vita l’aveva fatto fino in fondo, l’aveva abbandonata al suo destino, pur conoscendone i segreti struggimenti, i sentimenti nascosti, le ambizioni cullate. La seconda persona, invece, era ancora viva, sì, ma era da anni morta nel cuore di Anna. Erano anni che i loro contatti si limitavano allo stretto necessario imposto da quelle formule di cortesia che con lui Anna, sempre ineccepibile in questioni d’etichetta, tendeva ad infrangere, respingendo ogni seppur minino contatto, sfuggendone lo sguardo con fare scostante, rivolgendosi a lui con il solo titolo di “dottore”, come a voler cancellare dalla sua memoria quel nome che le era stato tanto caro e voltandogli con freddezza le spalle ogni volta al momento dei saluti. Eppure, ormai, lui soltanto in questo mondo ne conosceva la vera natura, soltanto lui avrebbe saputo leggere il dolore dai suoi sguardi fieri, soltanto lui intuirne la dolcezza dietro quei gesti imperiosi, forzatamente impostati. A quanto pare, tuttavia, aveva smesso quest’arte anni e anni prima, preferendo a quella natura così delicata e malinconica ma al contempo così suscettibile e complessa, un animo più mite, semplice, rassicurante. La strada più facile, ma soltanto in apparenza: la strada che avrebbe spalancato una voragine di dolore davanti a tutti gli attori di quel dramma.

 

Fasci di luce del tramonto fluivano vellutati dalle finestre della stanza, al cui interno si muovevano composti e silenziosi gli ospiti giunti a dare l’estremo saluto alla contessa. Anziani marchesi zoppicanti appoggiati al braccio di un qualche servo, duchesse dagli abiti listati a lutto e dall’aria sgomenta, giovanotti sgargianti nella divisa militare, contessine tutte trine e pizzi neri, dagli occhi lucidi e dalla pelle candida, insofferenti alla luce del sole: via via sfilava davanti al feretro di Agnese Ristori tutta la nobiltà locale, afflitta e incredula. E poi avvocati, notai, faccendieri di ogni genere che si erano occupati delle finanze della famiglia, avevano sostenuto cause, difeso interessi, intessuti rapporti finanziari o di altra natura. Insomma un corteo senza fine che dal tardo pomeriggio percorreva silenzioso i corridoi della residenza fino alla camera ardente di Agnese. Ciascuno aveva parole di stima, di affetto per l’anziana contessa, si raccontavano aneddoti, si sgranavano felici ricordi, parole gentili, gesti affettuosi. Ciascuno, poi, manifestava il proprio cordoglio ai figli, rivolgendo loro accorate condoglianze, stringendone le mani.

E i due figli se ne stavano in piedi vicino alla bara: Fabrizio, con un sorriso cordiale e uno sguardo fermo, accoglieva gli ospiti con modi garbati e calorosi, ne riceveva la commossa partecipazione, scambiava con loro qualche parola sulle circostanze della dipartita della cara madre, senza mai indulgere ad espressioni insofferenti o scocciate. Di tanto in tanto volgeva uno sguardo d’intesa ad Elisa, in disparte in un angolo della stanza, col pizzo nero e il fazzoletto agli occhi, ma pur sempre presente a quel ricevimento che avrebbe dovuto riguardare solo loro, i figli.

Lei non era nessuno, non faceva parte della loro famiglia, non era altro che una servetta squallida che si arrogava prerogative non sue, si atteggiava a nobildonna, solo per via di quell’insana passione di suo fratello Fabrizio e dell’affetto che le portava da sempre la contessa Agnese. Un oltraggio impossibile da tollerare, proprio nel giorno della morte della loro madre. Questo pensava Anna mentre con frasi di circostanza congedava quell’aristocrazia locale che era venuta a far visita. Ma, a differenza di quelli del fratello, i suoi gesti non erano calorosi, il suo sguardo non era risoluto e deciso, né riusciva a nascondere quel suo nuovo dolore dietro a un sorriso di circostanza.  Si torceva le mani, le labbra serrate, lo sguardo basso e sfuggente, quasi ad evitare gli occhi dei presenti, traeva di tanto in tanto profondi sospiri rivolti alla salma della madre. Il caldo di quel pomeriggio di settembre non le aveva impedito di indossare con studiata noncuranza quel vestito di pesante raso nero, per la prima volta dopo le esequie di suo padre, quindici anni addietro.

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Capitolo 2
*** Parte III ***


L’aria frizzante della sera era un piacevole ristoro dopo quel tedioso banchetto funebre a cui aveva dovuto presenziare, intrattenendo gli ospiti, nascondendo il fastidio per quelle condoglianze ipocritamente recitate, per quel dolore ostentato,  per quelle conversazioni fatue di nobildonne, fingendo di non sentire le voci che si diffondevano circa l’assenza di suo marito, non ancora giunto nonostante le promesse, circa la presenza poco opportuna di Elisa al loro stesso desco, circa il suo contegno troppo riservato. Perciò molto le era gradita quella brezza leggera che smuoveva le cime dei grandi alberi del giardino, oltre la fontana. La respirava a pieni polmoni, in quell’angolo recondito del giardino, protetta dall’oscurità. Le era sempre piaciuto, quel luogo, fin da ragazza. Era lì che si rifugiava a riflettere, meditare, fantasticare; era quel luogo che aveva accolto i suoi sospiri, le sue speranze, i suoi sogni d’amore giovanili. Da molto tempo non metteva più piede nei giardini della tenuta: le sue brevi visite alla madre non le consentivano di attardarsi a passeggiare per i camminamenti di ghiaia, osservare gli zampilli d’acqua della grande fontana, cogliere i fiori dalle aiuole. La sua vita ormai era altrove, a palazzo Radicati a Torino, tra visite di cortesia, chiacchiere da salotto e quegli sfarzosi e smodati ricevimenti allestiti da suo marito, a cui lei cercava in ogni modo di sottrarsi. Le erano, dunque, preziosi quegli attimi di pace e tranquillità, di cui poteva godere soltanto nella sua amata Rivombrosa. Ma quella sera, insieme alla serenità e alla pace, riaffioravano anche quei malinconici ricordi che la vista fugace di Antonio le aveva riportato alla mente. Da molto tempo non lo rivedeva, per lunghi anni non aveva fatto altro che evitarlo: le poche volte in cui non si era in alcun modo potuta sottrare ad un incontro, l’aveva trattato freddamente, con distacco, anzi quasi con disprezzo. Come quel pomeriggio. Non poteva incrociare il suo sguardo perché non avrebbe sopportato che lui scorgesse, dietro il biasimo, la delusione e la rabbia, l’amore mai sopito che provava per lui. Ed era sicura che per scovarlo sarebbero bastati pochi istanti a lui, al quale non era mai stata in grado di nascondere nulla della sua vera natura; lui, l’unico che sapeva leggere nel suo animo sognatore e malinconico.
Un fruscio alle sue spalle la fece tutt’a un tratto trasalire e la riscosse delle sue malinconie. Si voltò di scatto.
-Non volevo spaventarvi, perdonatemi. –
La sua voce calda, rasserenante, solo appena un po’ incerta, nel buio della sera la fece paralizzare, la rese incapace di qualsiasi gesto. Mai si sarebbe aspettata di trovarselo di fronte, lì, in quell’angolo remoto del giardino, di notte. Che ci faceva ancora alla tenuta? Non se ne sarebbe dovuto andare già da ore, dal momento che al ricevimento funebre erano stati invitati soltanto i nobili amici della loro amata madre? Ma la risposta a queste domande non era impellente come a quella che le balenò immediatamente per la mente. Che cosa voleva da lei? Per quale motivo la stava cercando? Lo interrogò dapprima con lo sguardo, ma, nella semioscurità attenuata soltanto dalla luce argentata della luna, i suoi occhi celesti le rimandarono soltanto un’espressione dolce e compassionevole, timida e incerta. Non le restava che esprimere a parole quell’interrogativo che la attanagliava.
-Che cosa state cercando, dottore? – domandò senza sforzarsi minimamente di dissimulare l’aggressività di quell’esordio. Antonio se ne stava a qualche passo da lei, la braccia lungo i fianchi, immobile finché non abbassò il capo a quella domanda, quasi a voler prendere tempo. Anna non distolse nemmeno per un attimo i suoi occhi indagatori: per la prima volta dopo anni si stupì di essere in grado di sostenere la sua vista.
- Volevo parlare con voi, esprimervi il mio dispiacere per la morte di vostra madre. – si limitò a rispondere, senza muovere un passo, in attesa di un suo cenno per avvicinarsi a lei. La fissava negli occhi, adesso, senza filtri, senza inutili difese dettate dall’orgoglio. Fu Anna a distogliere per prima lo sguardo, rivolgendolo ai cespugli fruscianti alla sua sinistra.
- Non mi pare questo il contesto adatto, anzi mi pare una situazione del tutto inopportuna per porgere le vostre condoglianze: avreste dovuto aspettare di essere ricevuto questo pomeriggio, come tutti gli altri amici della nostra famiglia. Anche se dubito che vi si possa annoverare come tale.- ribatté freddamente, senza smettere di tenere gli occhi fissi su cespugli.
- Questo pomeriggio non me l’avete permesso. – si giustificò Antonio in tono pacato, scevro da ogni recriminazione.  Con estrema circospezione fece un passo verso di lei.
- Vi riferite al fatto che ho dovuto ricevere il duca Moreschi di Moncalieri? – domandò sarcastica, poi aggiunse senza aspettare una superflua risposta. – Dovreste sapere che l’etichetta impone di ricevere prima gli aristocratici. E voi non lo siete più. Dunque…- ora lo sfidava con lo sguardo, con quegli occhi tanto profondi.
Antonio si astenne da ogni reazione a quella risposta provocatoria, ma nei suoi occhi si poté leggere la pena crescente che provava per lei, per quei suoi disperati tentativi di difesa. Di difesa da che cosa, poi? Da lui?  Credendo di aver riportato una vittoria, Anna infierì: - Ciò non toglie che avreste potuto aspettare il vostro turno; sapete bene che in una simile circostanza non avrei negato la mia attenzione nemmeno alla gente del volgo. – concluse sorridendo sarcastica, soddisfatta almeno in apparenza della propria prontezza di spirito in un quell’assurdo frangente.
-Anna. –
Lei sussultò: il suo nome pronunciato così, a bruciapelo, senza preavviso, senza altro motivo se non quello di volerlo pronunciare, quel nome. Avrebbe potuto scegliere altri appellativi, più consoni, forse, al rapporto che intercorreva tra loro: marchesa, contessa, signora. E invece no, quel nome, che non poté non farla svolgere all’indietro i calendari fino alle sere d’estate di molti anni prima. Lo odiò, in quel momento, il suo nome; eppure avrebbe voluto sentirglielo ripetere all’infinito.
-Io non sono qui per litigare, volevo solamente dimostrarvi il mio cordoglio, in nome dell’affetto che, malgrado quel che pensate, mi lega alla vostra famiglia da sempre. – proseguì lui, forse ignaro del turbinio di emozioni che le aveva scatenato al semplice chiamarla per nome. Anna non fu in grado di sostenere quell’affermazione ribattendo con il suo solito sarcastico disprezzo, non fu in grado di spegnere con parole crudeli quel barlume di speranza, mai sopito in lei. Perciò rimase in silenzio.
 Per qualche istante i loro occhi si incrociarono, poi Anna si voltò, dandogli le spalle e sistemandosi il mantello sulle spalle ad un refolo di vento freddo.
Antonio le si avvicinò, seguitando a parlare, come a voler infrangere quel muro di silenzio che lei gli opponeva.
-Potete anche non credermi, ma vi assicuro che sono molto legato alla vostra famiglia, a questa tenuta, a questo giardino anche. Vorrei solo che sapeste che la mia pena è sincera; vorrei che capiste…no, lo so, non lo capireste. – lasciò a metà il discorso, preso da una sorta di pudore; scosse il capo e abbandonò le braccia lungo i fianchi.
- E’ tardi perché io possa capire. E’ tardi perché io possa comprendere il vostro affetto, la vostra sincerità, il vostro dispiacere. E la colpa di questo non è certo mia. –  un profondo sospiro suggellò queste parole.
Il muro che aveva innalzato sembrava invalicabile: ogni dialogo era precluso, ogni parola sembrava cadere nel vuoto, risuonare inerte nella notte. Eppure lui percepiva chiaramente la dolorosa solitudine in cui si era richiusa. E voleva provare a scalfirla, ma non ne aveva il coraggio.
-Avete ragione, non posso darvi torto. Ma se c’è qualcosa che possa fare per alleviare la vostra sofferenza io…- abbozzò incerto, sfiorandole timidamente la spalla.
- Voi cosa? Ah certo, siete un medico, avete una cura per tutto. Che sbadata, me ne stavo dimenticando!- lo interruppe maldestramente: aveva paura di quello che avrebbe potuto sentirgli dire, aveva paura di doversi abbandonare alle sue premure, alla sua dolcezza. Aveva paura di essere costretta a deporre le armi e offrirsi a lui ormai senza difese.
- Non vi sto parlando da medico, per questi dolori non esistono rimedi che la medicina possa fornirvi. Vi sto parlando da uomo. – replicò, ma con un tono tanto dolce e sincero che Anna dovette stringere gli occhi per trattenere quelle lacrime che per tutta quella funesta giornata era riuscita faticosamente a ricacciare. Le mani che torceva convulsamente si arrestarono di colpo avvertendo il contatto delle dita di lui che le stringevano le spalle.
Stava per reclinare il capo all’indietro e appoggiarlo sul suo petto abbandonandosi ad un pianto liberatorio, quando dal piazzale giunsero lo scalpiccio dei cavalli sulla ghiaia e delle voci imperiose e concitate. Vennero portate delle fiaccole. Il marchese era arrivato.
-Non ho bisogno di alcun farmaco, sono benissimo in grado di prendermi cura di me stessa. – si risolse a rispondere infine, riprendendo un certo contegno dopo quell’attimo di debolezza. – E ora, vogliate scusarmi, ma devo andare ad accogliere mio marito. – concluse sottolineando con amaro compiacimento queste ultime due parole. Poi si voltò e si dileguò con un lieve fruscio della veste sull’erba umida di rugiada notturna. Antonio restò ancora per qualche minuto a fissare lo spazio poco prima occupato da lei, come se sperasse che la sua sagoma prendesse corpo dall’oscurità in cui quell’angolo recondito era precipitato.   
 
 
-Che spreco di tempo questa buffonata, dopo il brutto tiro che ci ha giocato vostra madre! – bofonchiò spazientito Alvise all’orecchio della moglie che gli sedeva accanto nel primo banco della piccola chiesa. Lei non si scompose e continuò compita nella recita delle orazioni guidata dal monsignore. A quella voce roca e funerea rispondevano le voci dei fedeli lì radunati per le esequie della contessa. Rispondeva dal primo banco Fabrizio, il capo chino, la voce profonda e malinconica; rispondeva Anna accanto a lui, devota e assorta; rispondeva Emilia, con la sua voce squillante; rispondevano le nobildonne amiche di famiglia, esibendo la loro devozione come un punto d’onore; rispondevano i loro consorti, le voci impastate e arrochite; rispondevano, infine, i membri della servitù negli ultimi banchi: Amelia, affranta e preoccupata, Angelo, Bianca, e tra loro anche Elisa, il velo nero a coprirle il volto, addolorata, inconsolabile. Era lì, in mezzo alla servitù, nonostante tutto, pensavano i presenti. Nonostante quelle concessioni che andavano ben oltre la giusta ricompensa dovuta ad una serva fedele. Tra un Salve Regina e un Eterno Riposo non si vociferava d’altro che dell’iniquo, a detta dei nobili, del generoso, a detta della servitù, testamento della contessa, reso noto quella mattina stessa. Questo mormorio giunse alle orecchie di Antonio, che aveva preso posto negli ultimi banchi, fra la gente del popolo, contadini e domestici. Del resto era quello il posto che gli competeva, non avrebbe potuto né voluto ambire a prendere posto tra l’aristocrazia della contea.
- Lasciare ad Elisa quel diamante, quasi come fosse una figlia! –
- La contessa Agnese l’amava molto, proprio come una figlia, anzi più della sua stessa figlia-
- Come biasimarla! La marchesa ha dei modi davvero insopportabili, prepotente e presuntuosa! -
- Hai proprio ragione, una vera megera! Non come il conte Fabrizio, così affabile…-
- La contessa avrà pensato bene di tagliare fuori quel pallone gonfiato di suo genero. Il marchese non si merita nemmeno una briciola dell’eredità dei Ristori. –
- Già! Ben detto! Lui uno sbruffone avido e debosciato, lei un’arpia arrogante e insopportabile. Mi spiace solo per la bambina, lei avrebbe meritato qualcosa in più dell’eredità dei Ristori. –
Queste erano le chiacchiere sussurrate a mezza voce durante l’omelia che Antonio riuscì a raccogliere. Ogni parola rivolta contro ad Anna gli pareva un insulto verso lui stesso. Accuse ingiuste, anche se comprensibili da parte di chi non poteva conoscere la vera Anna, di chi si limitava a giudicare i suoi atteggiamenti stizzosi senza comprenderne le intime cause. Sospirava Antonio, quello era l’unico modo per manifestare il suo dissenso e per sfogare il dispiacere che provava per lei.
-Lasciamelo dire, cara, ma Agnese si è comportata proprio in modo superficiale. Lasciare un gioiello di tale valore a una serva e menzionare solo di sfuggita la figlia nel testamento? Ti pare corretto?-
- Certo che no. Un’imprudenza da parte sua. E un’ingiustizia nei confronti della marchesa. Già deve sopportare gli eccessi di quel depravato del marito…-
- Oh Cielo, poveretta! Non mi ci far pensare! Tutta Torino conosce i suoi festini…donnicciole, alcol e ogni genere di vizio. Anna, anche solo per quello che sopporta, avrebbe dovuto ereditare l’intera Rivombrosa-
- A mio parere, invece, la contessa Ristori è stata molto saggia. Ha agito nel migliore dei modi lasciando a Fabrizio la tenuta. Pensate se fosse finita nelle mani del marchese Radicati…un vero scempio! –
- Anna sta scontando quel matrimonio disgraziato che le è toccato in sorte. Ha concluso un pessimo affare la contessa Agnese dando in sposa la figlia a quel vizioso. Quel marito è la rovina di Anna! –
La diretta interessata coglieva qua e là qualche scampolo di discorso di nobildonne che non si peritavano di abbassare la voce nemmeno durante la distribuzione della comunione, davanti al feretro di sua madre. Che vergogna, pensava tra sé, che disonore! Doveva fare un immane sforzo per trattenere le lacrime che le salivano agli occhi. Lacrime di indignazione, di vergogna per le chiacchiere della gente, di rabbia e delusione per le ultime volontà di sua madre e insieme di dolore per la sua perdita. Ma non si sarebbe mai potuta permettere il lusso di piangere in pubblico, davanti a nobili e servitù riuniti in quella piccola chiesa. Doveva ingoiare le lacrime amare, stringere le labbra in una smorfia di superiorità, tenere la testa alta, la schiena dritta e sfogare la sua frustrazione unicamente attraverso i gesti convulsi delle mani.
-Ite, missa est. – pronunciò solennemente il sacerdote, ponendo fine all’ufficio funebre. Dietro al feretro della contessa Agnese cominciarono ad accodarsi dai primi banchi i figli, Anna e Fabrizio, la nipotina Emilia, il genero e il resto della parentela; via via, lungo la navata, si aggiunsero, uscendo silenziosi dai banchi, gli aristocratici; solo quando la testa del corteo avesse già raggiunto il sagrato, si sarebbero potuti unire tutti gli altri, la servitù e la gente del popolo. Antonio non perse di vista Anna nemmeno per un istante da quando si era allontanata dal suo posto per raggiungere il fratello dietro al feretro. Ne aveva seguito i movimenti austeri ma aggraziati, aveva cercato in ogni modo il suo sguardo, ma teneva il capo chino e la veletta di pizzo nero le copriva in parte il viso. Alvise le si accostò, poggiandole con fare forse troppo disinvolto una mano sull’avambraccio, trascinando goffamente il passo, puntellandosi col bastone. - Che impudenza!- pensò Antonio non appena il marchese la prese a braccetto. Ma, realizzò subito dopo, correggendo quel pensiero che era sfuggito al suo controllo razionale, si trattava pur sempre di suo marito. Trattenne il respiro quando Anna gli sfilò a fianco, uscendo di chiesa. Lei si voltò nella sua direzione e i loro sguardi si incrociarono. Fu questione di pochi istanti, ma entrambi trattennero il respiro. Gli occhi lucidi di lacrime trattenute, di indignazione, di frustrazione e di dolore per un attimo incrociarono quelli limpidi e accorati di lui, che non poté far altro che esprimerle con lo sguardo la sua vicinanza, il suo supporto, convinto, però, che lei l’avrebbe frainteso, o meglio, avrebbe fatto di tutto per ignorarlo. Non avrebbe mai ceduto al suo orgoglio, avrebbe piuttosto negato a se stessa il bisogno di averlo vicino.

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Capitolo 3
*** Parte II ***


Era una fredda giornata d’inverno, il vento gelido sferzava i rami nudi degli alberi intorno alla cappella di famiglia, il cielo grigio e pesante ammutoliva tutti i commossi partecipanti al funerale del compianto conte Ristori. Il corteo funebre procedeva lento e cadenzato, il sacerdote scandiva con voce possente le orazioni in un latino stentoreo e implacabile, mentre cavalli neri bardati a lutto trascinavano il carro funebre su cui posava la bara in legno scuro. Nell’aria non un lamento, non un pianto, solo un silenzio profondo e agghiacciante. Alla testa del corteo la contessa Agnese, sostenuta dal figlio Fabrizio, allora giovanotto di diciotto anni, alto e snello; accanto a loro Anna camminava con un’andatura fiera, solenne, mascherando gli occhi lucidi grazie alla veletta di pizzo nero, di tanto in tanto si stringeva nel mantello, nero anch’esso, rabbrividendo alle folate del vento che trascinava con sé i primi fiocchi di neve. L’aveva seguita con lo sguardo per tutto il tempo, combattuto tra il desiderio struggente di avvicinarsi a lei, stringerla, asciugarne le lacrime e l’etichetta che gli imponeva un distaccato decoro. Non era ancora noto a tutti i presenti il legame che univa la giovane e bella contessa Ristori al figlio del duca Ceppi. Il cerimoniale aristocratico aveva i suoi i tempi per ufficializzare accordi informali tra famiglie: ci sarebbe voluto un ricevimento, un ballo o chissà che altro, per annunciare il fidanzamento, l’evidenza del sentimento in sé non bastava a quella pomposa e retriva nobiltà a cui entrambi appartenevano. Forse ciò sarebbe avvenuto già al prossimo carnevale, assicurava Anna, raccomandando ad Antonio di evitare qualsiasi gesto affettuoso in pubblico, qualsiasi cenno d’intesa, qualsiasi sguardo tenero, insomma qualsiasi cosa che sarebbe potuta essere equivocata, che avrebbe potuto dar adito ai più maliziosi pettegolezzi tra le gran dame e i loro blasonati consorti, tra gli amici delle loro famiglie ma soprattutto tra i nemici, tra quelli che non aspettavano altro che un pretesto per malignare e mettere zizzania tra le casate. Antonio non capiva, non riusciva a fare propria quella logica fredda e insincera che presiedeva i rapporti sociali in quel mondo fatuo e vanesio dell’aristocrazia: odiava con tutto il cuore queste regole rigide e inappellabili, questa forma vuota da rispettare ad ogni costo, la vacuità di parole come “onore” e “buon nome” in bocca a certi squallidi individui che non si facevano scrupoli a trattare i sottoposti al pari di bestie. Non tollerava tutto ciò, lui al solito così mite e tollerante, ma per Anna l’esteriorità delle convenzioni contava, contava assai, ne sarebbe andata di mezzo la sua dignità, così diceva, il nome della sua famiglia. E dunque Antonio, per amore di lei, si limitava a seguirla di spalle dal fondo del corteo e poi in disparte dalla navata laterale della chiesa, senza mai osare non solo avvicinarsi, ma neppure incrociarne lo sguardo. Solo alla fine della cerimonia, mentre Fabrizio, insieme all’amico Giulio e ad alcuni tra i più fedeli dei servi si avviavano a scortare la bara, adagiata sul carro funebre, verso il cimitero ed Anna, tenendo a braccetto la madre, usciva all’aria gelida di gennaio sul piazzale esterno spazzato dal vento, i loro sguardi si incrociarono per un istante fugace. Ma in quell’istante corsero tra loro le più dolci delle parole.

 

Quell’abito non poteva non fargli ritornare alla mente quella giornata nevosa, quel silenzio triste nei suoi occhi, quell’atteggiamento orgoglioso ma al contempo mesto che aveva mantenuto faticosamente – e solo lui poteva immaginare quanto le fosse costato- per tutta la durata delle esequie. Non mancava nemmeno di ricordargli quello sguardo intenso e profondo che si erano scambiati all’uscita della chiesa, la dolcezza ineffabile di quell’istante, la forza che si sprigionava dai suoi occhi ogni volta che lui ne incrociava lo sguardo. E valeva ancora, anche in quel momento, mentre la osservava ricevere le condoglianze dei presenti con fare cortese, inappuntabile, ma freddo, quasi velatamente infastidito. Lo sguardo indignato le ricadeva spesso su Elisa, così compita e addolorata per la sua padrona da toglierle quasi la scena, da attirare su di sé le attenzioni premurose di suo fratello, come se fosse stata lei e non Anna la figlia della contessa Agnese, come se solo lei fosse capace di soffrire, di piangere, mentre Anna fosse soltanto una statua di cera, fredda, severa, senza alcun sentimento. Così le era stato insegnato, così le avevano spesso imposto l’etichetta, il decoro, la dignità aristocratica. Ma priva di sentimenti non era di certo, tutt’altro: aveva in sé una sofferta sensibilità da difendere tale da imporle di indossare la maschera più inespugnabile che ci fosse. E lui lo sapeva bene, conosceva bene quello che si nascondeva dietro all’apparente severità dei suoi sguardi e la rigida freddezza dei suoi gesti. Perciò, dalla soglia dove la osservava scambiare qualche distante parola di circostanza con quelli che avevano invece riservato al fratello Fabrizio una ben più calorosa partecipazione, non poté non avvertire nel cuore una stretta di tenerezza nei suoi confronti. Ma, come quindici anni prima, non osò in quel momento avvicinarsi. Se ne stava in piedi, il tricorno rigirato nervosamente fra le mani, un po’ impacciato in mezzo a tutta quella sfarzosa nobiltà che gli sfilava davanti.

 

-Antonio! – lo chiamò infine Fabrizio. – Grazie di essere qui, amico mio. – lo accolse con un sincero sorriso. Il medico a quel punto si mosse dalla soglia e fece qualche passo nella stanza. Anna, impegnata ad ascoltare i vecchi ricordi di una nobildonna amica di sua madre, come presa da una misteriosa forza, avvertì la sua presenza e si voltò, incrociandone per un attimo lo sguardo. Ma entrambi non riuscirono a sostenere lo sguardo dell’altro e stornarono immediatamente gli occhi: lei per assentire distratta alle parole dell’anziana duchessa, lui per sorridere a Fabrizio e scambiare un abbraccio con il vecchio amico.

- Non avrei mai voluto trovarmi qui in questa circostanza, credimi. – rispose il medico di rimando. – Avrei preferito essere mandato a chiamare per la consueta visita alla contessa. -

Anna, conversando distrattamente, tendeva l’orecchio ad ogni singola parola pronunciata da Ceppi e da suo fratello in quello scampolo di conversazione.

-Lo so, so bene quanto mia madre si fidasse di te sopra ogni altro medico. Quanto sono pentito di non esserle stato vicino negli ultimi anni…- confessò Fabrizio scuotendo il capo. – Ma per fortuna mia madre è sempre stata in ottime mani, quelle di Elisa e le tue. – concluse sorridendo alla giovane che ricambiò il sorriso.

- Già, Elisa è stata davvero preziosa per la nostra compianta contessa. – confermò Antonio con un sospiro, senza accorgersi della feroce occhiata di biasimo scagliatagli da Anna.

Fabrizio prese a tessere l’elogio della ragazza, raccontando di quanto la madre le fosse legata, di quello che lei aveva fatto per la serenità dell’amata contessa in quell’ultimo periodo, della sua compostezza, della sua pazienza, della sua dolcezza. Poi passò a narrare i fatti di quell’ultima infausta notte, di quanto la madre lo aveva implorato di mandare a chiamare Elisa perché voleva rivolgere un ultimo saluto a quella che considerava ormai “come una figlia”, la più devota, la più fedele.

 Antonio ascoltava l’amico, ma seguiva con gli occhi della mente ogni minima reazione di Anna a quelle parole: ne intuiva il disappunto, ne coglieva la sofferta indignazione, percepiva il senso di esclusione che lei doveva aver provato negli ultimi frangenti di vita della madre. Poteva persino figurarsi la luce indignata e amareggiata nei suoi occhi scuri, i movimenti convulsi delle mani con cui cercava di celare ai presenti la sua insofferenza. Poteva farlo, anche senza azzardarsi a levare lo sguardo nella sua direzione.

-E vostro marito, il marchese Radicati? Non è qui con voi in questo momento di lutto? – domandò un’impertinente nobildonna canuta, dal naso appuntito e dalle mani ossute. Gesticolava con foga, come indignata per la mancata delicatezza di Alvise. Più che dall’apprensione per le sorti di Anna, era presa dalla smania di raccogliere qualche scabroso pettegolezzo da rivendere a caro prezzo nelle conversazioni da salotto: il tutto ammantato da un’esagerata preoccupazione che non poteva non suonare falsa alle orecchie di Anna.

- Mio marito Alvise dovrebbe arrivare a momenti. In questi giorni si trovava a Torino per certi affari, ma alla funesta notizia mi ha comunicato tramite un servo che avrebbe sbrigato tutto il prima possibile e sarebbe stato qui prima del tramonto. –

- Oh mia cara, sono più sollevata sapendo che avrete presto il conforto del vostro caro marito! Sapete, ero in pensiero anche per la piccola Emilia, in questo momento difficile avrà di certo bisogno della presenza di suo padre. – replicò pomposa la contessa, enfatizzando espressioni e gesti, portandosi le mani, scarne e inanellate, al viso in segno di sollievo.

Anna manteneva il solito decoroso contegno, con qualche sorriso tirato di circostanza cercava di liquidare la donna, che, al contrario, non voleva saperne di smettere di magnificare le qualità di Alvise, sottolineando più e più volte quanto fosse stata fortunata Anna a stringere quel matrimonio e quanto bene ci avesse visto la compianta Agnese. Il tutto sarebbe suonato ridicolo e paradossale alle orecchie di chiunque, ma a quelle tese di Antonio suonava invece molesto e irritante. Conversando con Elisa e Fabrizio, o meglio ascoltando passivamente quello che i due, a voci alterne, gli andavano raccontando, scrutava di nascosto le reazioni di Anna a quelle parole, sperando vivamente in cuor suo di leggerle in volto un’espressione di disaccordo o anche solo di insofferenza verso quelle chiacchiere infondate. Ma dovette restare deluso: il volto di Anna, il suo sorriso composto, non lasciavano trasparire alcun’emozione.

Finalmente quella dama indisponente si congedò da Anna, dopo averle sfiorato le guance con un bacio; Fabrizio allora tacque e invitò con un cenno Antonio ad avvicinarsi alla sorella, in quel momento stranamente sola in mezzo all’andirivieni degli ospiti. Il medico restò per un attimo interdetto; si ingarbugliò congedandosi dai due, che nemmeno se ne accorsero presi da una coppia appena sopraggiunta; fece per avviarsi nella direzione di Anna dall’altra parte della stanza. Lei alzò lo sguardo e incrociò i suoi occhi celesti e limpidi, che le impedirono ogni altro gesto. Antonio si fece coraggio, le si avvicinò con discrezione, fece per sfiorarle le mani.

-Anna, io…- sussurrò appena. Fu questione di un istante. La marchesa era già sgusciata via, con garbo ed eleganza, pronta ad accogliere un anziano duca, vecchio amico di suo padre, che si era appena affacciato sulla soglia. Non una parola per Antonio, non un cenno, non uno sguardo.

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Capitolo 4
*** Parte IV ***


Una piacevole brezza spirava lungo il percorso verso il cimitero di famiglia. Passi cadenzati e preghiere erano gli unici suoni che spezzavano il silenzio di quel pomeriggio di settembre. Anna sentiva il disagio crescere dentro di sé: avrebbe voluto che tutto finisse in fretta per rifugiarsi nelle proprie stanze. Lì avrebbe potuto piangere la morte della madre e, al contempo, deplorare l’umiliazione, l’ennesima, che le era stata inflitta durante la lettura del testamento. Non avrebbe voluto vedere nessuno, tranne Emilia. Ma, nel frattempo, doveva mantenere la maschera ancora per un po’, doveva salutare, ringraziare, congedare un esercito di amici, o presunti tali, di famiglia. Compito per lei gravoso, quel giorno più che mai.
 
La terra ricadeva implacabile a ricoprire il feretro, colpi secchi di zappa non portavano alcuna pietà. Il vento frusciava tra le fronde del bosco vicino, mentre il prete benediceva con l’aspersorio la tomba della contessa. I presenti, in cerchio e con il capo chino, ascoltavano le orazioni funebri e rispondevano, chi a tempo, chi con breve ritardo. Soltanto uno dei presenti sembrava preso dalla smania di andarsene il prima possibile di lì. Alvise. Non avrebbe sopportato di perdere un minuto di più del suo tempo dietro a quella vecchia strega di sua suocera che gli aveva riservato quell’odioso trattamento, voleva andarsene al più presto, tornare a Torino prima che facesse buio per radunare i soliti ospiti e dare il via all’ennesimo festino sfrenato. Tanto meglio se la moglie si fosse trattenuta ancora per quella notte a Rivombrosa: gli avrebbe risparmiato quei suoi severi sguardi di muto rimprovero che lo irritavano così tanto. Una donna cupa, saccente, intransigente, moralista, e, cosa più grave di tutte, incapace di divertirsi: meno Alvise l’aveva tra i piedi e meglio stava. Seguitava ad agitarsi spostando l’ingente peso del suo corpo da un piede all’altro, puntellandosi con il bastone, borbottando tra sé parole di stizza. Quando ormai la cerimonia sembrava finalmente volgere al termine, si avvicinò ad Anna, la prese sottobraccio con fare al limite della sgarbataggine e la trascinò in disparte:
-Cara consorte, sono dolente, ma debbo lasciarvi: affari urgenti mi richiamano in città stasera stessa. Partirò immediatamente, sempre se quegli scansafatiche dei vostri servi si sono degnati di prepararmi una carrozza. - le comunicò con un tono teatrale, falsamente dispiaciuto, accompagnando il tutto con gesti plateali, che nessuno poté fare a meno di notare. Non era Anna la destinataria di tutta quella sceneggiata, bensì gli ospiti lì radunati da ogni angolo della contea per l’estremo saluto alla contessa: di fronte a loro voleva recitare la parte del marito affranto e premuroso.
- Alvise, dei vostri affari m’importa ben poco. Andate, se credete, e non fate finta di preoccuparvi per me. – gli sibilò all’orecchio in tutta risposta, cercando al contrario di non farsi udire da nessuno dei presenti. Poi, come a sancire la fine di quella conversazione, si voltò e prese ad agitare, con studiata noncuranza, il ventaglio di pizzo nero.
- Cara moglie, quanto siete magnanima! – esclamò con un ampio sorriso che gli deformò le guance paffute, sorriso di cui soltanto Anna comprese l’ironia. – Non come quella spilorcia di vostra madre! – aggiunse con un sussurro ringhioso, come rinfacciandole la mancata menzione nel testamento.
Anna evitò ogni risposta, non si voltò nemmeno. Continuava ad agitare nervosamente il ventaglio, pur non essendoci bisogno di refrigerio in quella giornata tiepida di settembre. Alvise si avviò con passo goffo e malsicuro verso la carrozza che l’avrebbe ricondotto alla residenza, pregustando fra sé i lazzi che lo attendevano quella sera e sghignazzando sotto i baffi per essere riuscito a sbarazzarsi della moglie. 
Antonio aveva seguito tutta la scena, sussultando dentro di sé ad ogni gesto troppo confidenziale che il marito le rivolgeva: quel prenderle il braccio, toccarle una spalla, cingerle avidamente la vita mentre la conduceva con sé, gli lasciarono un senso di intenso fastidio, a cui non osava dare il nome di gelosia. Una repulsione istintiva e incontrollata, un ribrezzo per quella che sembrava essere stata ai suoi occhi una profanazione. La profanazione di quel corpo, sacro, che amava. Di questo Antonio non era del tutto cosciente, non permetteva a se stesso di formulare questi pensieri: si rendeva soltanto conto che quel breve tête-à-tête tra marito e moglie l’aveva indisposto più di quanto si sarebbe aspettato. -Non ne hai diritto, non ne hai alcun diritto.- si rimproverava fra sé, mentre con capo chino osservava i suoi passi nella campagna che lo conducevano, dietro al corteo degli ospiti, verso il palazzo.
-Antonio! – si sentì chiamare e sollevò la testa – Grazie per essere venuto. – Fabrizio gli si avvicinò con passo deciso e abbracciò con calore e autentica gratitudine il vecchio amico. Il vento fresco scuoteva le foglie dagli alberi e portava con sé le parole.
- Non devi ringraziarmi, come ben sai, sono legato alla vostra famiglia da un profondo affetto. – gli rispose sincero, guardandolo con quegli occhi limpidi e malinconici. All’amico non poté sfuggire quella nota triste e velata.
- Lo so, Antonio, e ti vedo veramente affranto. Tutti noi lo siamo. È una perdita enorme, incommensurabile, non solo per me ed Anna. Spero soltanto che mia sorella non rovini con il rancore il ricordo di nostra madre. Sai, nel testamento nostra madre non è stata molto generosa con lei, anzi, l’ha praticamente diseredata. So quanto stia già soffrendo, mi auguro soltanto che questo non aggravi ancor di più la situazione. Anna sembra forte, ma è così fragile in realtà…- sospirò Fabrizio, preoccupato per le sorti della sorella, ignaro della stretta al cuore che ogni parola provocava al suo interlocutore. Camminavano fianco a fianco a capo chino e così Fabrizio non poté scorgere l’espressione angosciata che si era impadronita del viso dell’amico. Sollevando il capo, infine, Antonio gli rispose:
- Se la contessa ha agito in questo modo avrà avuto i suoi validi motivi: non fartene una colpa, Fabrizio, Anna non ti odierà per questo. –
- Non me ne faccio una colpa, solo temo per lei. Quell’impostore di mio cognato la sta rovinando senza che lei muova un dito, anche poco fa, tutte quelle cerimonie...E’ evidente che non vedeva l’ora di andare a spassarsela con i suoi amici depravati e le donnicciole di malaffare… Ma, suvvia, non voglio tediarti con le nostre faccende famigliari, avrai sicuramente molti pazienti che ti attendono, ti lascio tornare al tuo lavoro. – e, detto questo, lo congedò con una vigorosa stretta di mano. Erano ormai arrivati al piazzale della tenuta.
Antonio si avviò pensieroso verso il suo calesse. Mille immagini, frasi, pensieri affollavano la sua mente e convergevano tutti verso un unico centro: Anna.
Si guardò attorno in cerca di lei, ma non poté scorgerla tra la piccola folla dei partecipanti alle esequie che in quel momento si accomiatavano da Fabrizio. Acuì la vista, volse lo sguardo tutto intorno al piazzale, al giardino, alle scalinate della residenza, ma di lei non v’era alcuna traccia. Eppure poco prima era lì, accanto alla lapide a scambiare convenevoli con le nobili amicizie di sua madre, a scusare prontamente la precipitosa partenza del marito, che certamente non era passata inosservata. Quand’è che l’aveva persa di vista? Forse quando si era messo a conversare con Fabrizio, staccandosi dal corteo funebre? O forse Anna non si era nemmeno accodata, al corteo, era rimasta là, sulla tomba della madre, a recriminare, a piangere la sua morte, a biasimare la sua decisione? Aveva già raggiunto il suo calesse, la mano sul bordo, un piede sul predellino, quando l’idea di ritornare sui suoi passi per andare a cercarla gli balenò per la mente. Aveva ancora qualcosa da dirle, non sapeva di preciso che cosa, ma sentiva che doveva farlo e che stavolta lei non sarebbe riuscita in nessun modo ad impedirglielo.
 
-E così, anche voi avete preferito una serva a me. A vostra figlia, perdio. Qui, davanti al Signore che mi è testimone, vi giuro che mai mi sarei aspettata un’umiliazione del genere. Ed Emilia? Che disonore anche per lei. Non avete pensato che anche la vostra unica nipote meritasse un trattamento più dignitoso? Lo so, volevate farla pagare a mio marito. Ma io non ne ho nessuna colpa e nemmeno Emilia…- in ginocchio, con l’ampia veste che si spandeva tra la polvere dell’inginocchiatoio, Anna lanciata accuse alla propria madre che poco prima era lì, chiusa in una bara, davanti ad una folla ipocritamente addolorata e che ora riposava, muta e sorda, sottoterra nel cimitero della famiglia Ristori. Ma Anna voleva pensare che lì, nella piccola chiesa in cui aveva ricevuto il battesimo e gli altri sacramenti, potesse ancora sentirla, potesse accogliere le rimostranze di una figlia defraudata di quanto le spettava e umiliata di fronte all’intera contea. Essere declassata rispetto alla dama di compagnia, una serva. Proprio questo le bruciava: per la seconda volta nella sua vita le veniva anteposta una serva, una semplice donna del popolo. Dopo tutti quegli anni, ancora non riusciva a capacitarsi della decisione di Antonio, non l’aveva mai perdonato. In fondo era anche colpa sua se si trovava in quella penosa situazione. Colpa di Antonio e di sua madre, le due persone da cui mai si sarebbe aspettata del male.
La luce del pomeriggio entrava dalle vetrate, stampando rettangoli arancioni sul pavimento polveroso della chiesa; tutto intorno silenzio e buio e odore di cera sciolta delle candele.
-Eppure lo sapete benissimo che non è dipeso da me, che questo matrimonio l’ho accettato, non l’ho voluto, l’ho subito, non desiderato. Voi e mio padre non vi siete fatti scrupoli, avete approfittato del momento di debolezza e sconforto che stavo attraversando per cedermi a quello che pensavate essere il migliore offerente. Quanto vi sbagliavate! Ve ne siete accorta, adesso? E questo è il premio per avere assecondato fino in fondo la volontà della famiglia? Per aver difeso l’onorabilità dei Ristori, che mio fratello platealmente infanga ogni giorno dormendo con quella serva in casa nostra? –
Il bisbiglio si faceva sempre più alto. Anna, la fronte sulle mani giunte, i gomiti appoggiati al corrimano del banco, sputava accuse e lacrime insieme. La solitudine del luogo le permetteva di sfogare il livore e la sofferenza provata in quei giorni. L’aveva desiderata, quella solitudine, aveva desiderato lasciarsi alle spalle quelle ipocrisie declamate, quelle facce di circostanza, quei sussurri maligni, quelle allusioni dei nobili amici. E poi la servitù guardinga e pettegola. E suo fratello, apprensivo e fintamente dispiaciuto per lei. E suo marito, insoddisfatto e rancoroso dopo la lettura del testamento, intento a riversare su di lei le proprie colpe. Ed Elisa, con quel visino contrito, che sotto sotto gongolava per il lascito di sua madre. Si era voluta liberare di tutti loro e quella chiesa, ancora bardata a lutto ma ormai vuota dopo il funerale, le era sembrato il posto ideale in cui rifugiarsi, il posto in cui nessuno l’avrebbe trovata, dove sarebbe potuta sparire per qualche ora.
-Sapevate benissimo che non era il marito giusto per me, che io non l’amavo e non l’avrei mai potuto amare. Eppure non vi importava nulla, purché fosse di antico casato, possedesse beni e terreni, un palazzo in città; non vi siete curati nemmeno di appurare che non fosse pieno di debiti; non vi siete accorti che aveva sperperato al gioco le sostanze di famiglia fino all’ultimo centesimo e che era a caccia di una moglie che gli portasse una dote cospicua per ripagare i creditori. Ed io, povera stupida, a credervi, ad immedesimarmi nella parte della figlia impeccabile che non discute le volontà dei genitori. Mi sono rovinata con le mie stesse mani!-
Di quando in quando si faceva rapida e nervosa un segno di croce, a mo’ di scusa per tutto quello che stava rinfacciando ai genitori proprio lì, davanti al crocifisso, in quella chiesa dove qualche ora prima la madre aveva ricevuto l’estremo saluto. Ma si era trattenuta fin troppo a lungo: in quel momento aveva bisogno di sfogare tutto il risentimento covato negli anni.
-Se non fosse per Emilia, maledirei questo matrimonio fino all’ultimo dei miei giorni, ma mia figlia è l’unica cosa al mondo che mi rimane, l’unica ragione per cui continuare a vivere. E vi giuro, madre, che la voglia di vivere l’ho persa quel giorno di tanti anni fa, quel giorno che voi ricorderete di certo, visto che non avete perso occasione di buttarmi in faccia le vostre convinzioni: “Lo detesti perché ha offeso il tuo cuore” insinuaste. Ebbene sì, lo detesto per questo, ma non riuscirò mai a smettere di amarlo, anche se non potrò mai ammetterlo, anche se continuerò a recitare agli occhi di tutti la parte della sposa felice. Voi sapevate e sapete che non potrà mai essere così. Quello che devo sopportare ogni giorno, però, lo so soltanto io: i ripetuti tradimenti, che mio marito ormai non si cura più nemmeno di nascondere, le umiliazioni, le recriminazioni, le angherie. A tutto questo devo fare fronte quotidianamente, madre. E sono sola. Estremamente sola. Se non fosse per Emilia, chissà, forse avrei già messo fine…-
All’improvviso un fascio di luce si proiettò lungo il corridoio centrale, spezzando in due l’oscurità che regnava silenziosa. Un cigolio di cardini male oliati, un tramestio di passi.  Il bisbiglio di Anna si interruppe. Iniziarono a filtrare dall’esterno il canto degli uccelli al tramonto, le folate di vento, l’odore della campagna, di erba e di fieno fresco. Anna per qualche istante rimase al suo posto, non si prese la briga di voltarsi: non aveva nessuna voglia di dare spiegazioni a chicchessia, desiderava soltanto essere lasciata in pace. Ma il vento continuava ad insinuarsi lungo la navata, facendo oscillare le fiamme dei ceri, scuotendo i mazzi di fiori degli addobbi funerari, sollevando i paramenti che guarnivano l’altare. Un vento fresco, leggero, settembrino. Fu così che si voltò. La sagoma di un uomo si stagliava in controluce sulla soglia, teneva aperta con un braccio la pesante porta di legno massiccio. Ad Anna non ci volle molto per riconoscerlo.
 

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Capitolo 5
*** Parte V ***


Mentre era ancora inginocchiata nel banco, le mani giunte, il suo volto si contrasse in un’espressione di disappunto che via via prese il posto dell’iniziale stupore. Non disse nulla e lui restò immobile, in silenzio. Tutto rimase sospeso.
-Avevo sentore che vi avrei trovata qui. – esordì Antonio, cauto, con un tono conciliante, lasciando delicatamente richiudere dietro di sé la porta. La chiesa precipitò nella semioscurità.
Anna si levò in piedi e lo fissò torva.
-Perché continuate a seguirmi? – domandò con aria minacciosa, rievocando l’episodio della sera precedente.
- Perché ho bisogno di parlarvi. È dai ieri che cerco di farvelo capire. – spiegò, pacato, compiendo qualche passo lungo la navata.
- Ma io non ho alcuna intenzione di parlare con voi. – ribatté lei accigliata, senza smettere di fissarlo con sguardo freddo. Uno sguardo talmente penetrante e, nello stesso tempo, cupo, che lo fece rabbrividire.  Uno sguardo che mai aveva incrociato. Che le era successo? Quali oscure sofferenze aveva dovuto patire e pativa tuttora? Ma l’orgoglio quello no, non le mancava nemmeno allora, brillava più che mai nei suoi occhi scuri. Quell’orgoglio le avrebbe impedito di fare anche il più piccolo passo verso di lui.
-Ve ne potete andare, per quanto mi riguarda. – gli ordinò con fare padronale, quello della marchesa nei confronti dell’umile medico di campagna, non quello dell’Anna che aveva conosciuto. Antonio non si decideva a fare dietrofront e lasciare quella chiesa, ad abbandonare quello che era il suo proposito: aprire un varco di dialogo con lei.
- Perdonatemi se vi ho disturbato, ma lasciate che vi spieghi…- abbozzò incerto, per prendere tempo.
- Andatevene, ho detto! – la sua voce squassò il silenzio della chiesa e suonò come inappropriata per un luogo sacro, quasi blasfema. Se ne pentì subito, Anna, e si fece immediatamente un segno di croce a mo’ di espiazione.
Antonio, rassegnato, ormai inerme di fronte a tale risposta, fece per ritirarsi, aprire la porta e andarsene.
Quando la porta cigolò sui cardini e la luce filtrò prepotente per poi spegnersi a poco a poco dietro alle spalle di lui, Anna si pentì per la seconda volta di quell’ordine poco garbato a cui era stato troppo prontamente obbedito.
-Aspettate! – gli gridò, raggiungendolo con passo rapido sul piazzale esterno. Antonio si stava già incamminando, si dominò per non voltarsi immediatamente: voleva avere la certezza del ripensamento di lei, temeva che fosse soltanto una trappola per rinfacciargli di nuovo di averla cercata.
- Non ve ne andate, vi prego. Ho sbagliato poco fa, vi chiedo perdono. – lo supplicò con voce che non pareva neppure appartenerle, un tono remissivo, docile, affranto.
Lui fermò il passo e si fece raggiungere. Il vento autunnale spirava tutto intorno, staccando le prime foglie dagli alberi, mulinando la polvere sul piazzale, scompigliando loro i capelli. Si venne a trovare a poca distanza da lei, gli occhi negli occhi.
-Vi perdono. – le rispose laconico, studiando ancora poco convinto il suo volto.
- Ho sbagliato a trattarvi in quel modo e me ne scuso. – aggiunse lei desiderosa di non far cadere il filo del discorso, di giustificarsi, di trattenerlo lì ancora per qualche istante.
- Modo non tanto dissimile da quello che assumete di solito verso di me. – precisò lui, critico, anche se dentro di sé gioiva di quella richiesta di perdono: un primo cedimento del suo dannato orgoglio.
- Non nego di essermi comportata in modo poco cordiale nei vostri confronti, ma se l’ho fatto ho i miei buoni motivi, che mi sembra superfluo spiegare: li conoscete già. – si difese assumendo nuovamente il solito tono freddo, distaccato, rimangiandosi quei piccoli passi di apertura che aveva fatto verso di lui.
- Anna, io non voglio discutere di questo con voi, non voglio rinfacciarvi nulla. E’ da ieri che cerco di parlarvi per un altro motivo. –
- E quale sarebbe questo motivo? – domandò quasi beffarda.
- Voi state soffrendo, non negatelo, ve lo si legge in faccia. – rispose a bruciapelo, fissandola dritto negli occhi.
Anna ammutolì. Contraddirlo non poteva, assecondarlo chissà dove l’avrebbe condotta. Abbassò lo sguardo e, nervosa, prese a torcersi le mani, fissandosi la punta delle scarpe. Per qualche istante si sentì solo il frusciare delle foglie del vicino bosco sul piazzale illuminato dalla luce radente del tramonto autunnale.
-State soffrendo e volete nasconderlo a tutti, agli amici di famiglia, alla servitù, a Fabrizio, a vostro marito…- proseguì lui. – Ma non potete in alcun modo nasconderlo a me. – concluse, infine, avvicinandosi, troppo forse.
- Che dite? Non sto nascondendo nulla. È naturale che sia addolorata per la morte di mia madre…- abbozzò una giustificazione, divagando con lo sguardo.
- Allora perché nascondervi in questa chiesa? Perché sparire dalla vista di tutti? Fabrizio è in pensiero per voi, e anch’io…-
- Basta! – lo interruppe concitata. – Basta! Non sapete nulla della mia vita, e non avete diritto di sapere nulla! Io sto bene, se è quello che vi preoccupa, se siete venuto fin qui per lavarvi la coscienza. -
- Sai benissimo che non sono qui per lavarmi la coscienza. – la interruppe tutt’un tratto. Quel brusco passaggio al tu sconcertò entrambi: Anna si irrigidì, senza neppure riuscire ad abbozzare un tentativo di replica a quell’interruzione, Antonio abbassò il capo, farfugliando delle generiche scuse.
- Ecco, vedete, perdonatemi se mi sono permesso, ma…-
Dopo qualche istante di imbarazzo, Anna riprese in mano la situazione:
-Antonio, non fingiamo, non ce n’è bisogno. Un tempo non avremmo trovato imbarazzante darci del tu, anzi ci sarebbe sembrata la cosa più naturale. Perché siamo arrivati a questo punto? Non lo so, non ho mai saputo spiegarmelo. – Dopo aver pronunciato queste parole, si voltò dandogli le spalle: le era diventato insopportabile il suo sguardo, limpido e mite come sempre, ma imbarazzato come non lo era un tempo. Un abisso ormai si era interposto fra loro, un abisso di parole non dette, di accuse sottaciute, di scuse che non sia aveva mai avuto il coraggio di pronunciare.
- Mia madre è morta. Mi ha estromesso dalle sue ultime volontà, mentre una serva prendeva il mio posto nel suo cuore e nel suo testamento. Mi ha lasciata sola, in balìa di un marito vizioso che lei ha scelto per me. Ed ora che mi resta? Nulla, al di fuori di mia figlia. – proseguì con voce stentata, quasi parlasse tra sé e non volesse che Antonio udisse. Ma lui le si era avvicinato e non s’era perso una sola parola.
- Anna, mi dispiace. Mi dispiace per non essere riuscito a mantenere in vita tua madre; mi dispiace che tu ora stia soffrendo, come ti si legge chiaramente negli occhi; mi dispiace più di tutto che tu ti senta sola. È anche colpa mia. – le dichiarò alle sue spalle, traendo infine un profondo sospiro. Anna si voltò infine e lui immediatamente rialzò lo sguardo su di lei, il dispiacere negli occhi. Anna interruppe il contatto scuotendo il capo.
- Che differenza fa, ormai? Che sia colpa tua, che non lo sia. La mia vita è segnata, questa è la realtà.- lo squadrò con aria rassegnata, la severità stava lasciando il posto alla nostalgia.
Il sole era ormai tramontato, l’aria si faceva più frizzante, il crepuscolo inghiottiva le ombre, la natura abbandonava i ritmi diurni per far posto ai rumori della notte. Nessuna presenza umana, tranne loro due.
-Non dire così, non è vero. Niente è compromesso, tutto si può aggiustare, se si vuole. – la guardava dolcemente, sforzandosi di infonderle speranza. Era del tutto consapevole della difficoltà della situazione, di tutti gli ostacoli, i vincoli, le imposizioni a cui lei doveva necessariamente sottostare, prima fra tutte, il decoro della famiglia.
- Aggiustare che cosa? Non c’è più nulla che si possa aggiustare. Domattina Emilia ed io lasceremo Rivombrosa, non ha più alcun senso la mia presenza qui: questa non è più casa mia, ma di quella serva, di Elisa. Raggiungerò mio marito in città, quello è il mio posto. – rispose amara, inchiodandogli addosso quegli occhi d’ebano, tanto penetranti quanto desolati.
Questa rivelazione non poté lasciare indifferente Antonio.
-Lascerete Rivombrosa? Non ne avete motivo, Fabrizio sarebbe felice se vi fermaste ancora qualche giorno, anche Emilia credo che preferirebbe stare qui ancora un po’, farebbe bene anche alla sua salute. – tentò di dissuaderla facendo appello alla ragionevolezza.
- No, Antonio, non resteremo. Ci sono vincoli da rispettare. Mio fratello ha ereditato questa tenuta, io non voglio starci da ospite. E mio marito non gradirebbe che mi fermassi ancora: ci attende a palazzo Radicati al più presto. – tagliò corto lei, con il cipiglio di chi sa di compiere l’azione giusta, anche a costo di mettere da parte i propri desideri.
Antonio trattene per un istante lo sdegno che gli aveva invaso la mente a queste parole. Suo marito? Che se n’era fuggito senza alcun riguardo a cerimonia funebre non ancora conclusa? Che le si era rivolto in quel modo ipocritamente cerimonioso per nascondere ai presenti la smania di andarsene? Che cosa tornava a fare, a Torino, se non per darsi alla pazza gioia insieme a quei viziosi dei suoi nobili amici? Non poteva comprendere il perché Anna si ostinasse a tributargli obbedienza, lei che con tutti gli altri si mostrava così risoluta, al limite della superbia.
- Questo non è un valido motivo, anzi, al contrario, dovresti stargli alla larga il più possibile. – si limitò a risponderle, laconico, piantando quegli occhi vividi e azzurri in quelli foschi di lei. 
-Sono sua moglie: anche se volessi, non potrei stargli alla larga. E poi, chi sei tu per dire una cosa simile? Chi sei tu per giudicare? – reagì in modo scomposto Anna, cercando disperatamente di evitare il suo sguardo.
- Non sono nessuno, è vero, ma non ho potuto fare a meno di notare il suo comportamento. Non ignorerai certo il motivo per cui se n’è andato. – le rispose circospetto, consapevole del fatto che si stava addentrando in un terreno rischioso.
- Che cosa vorresti insinuare?- domandò , lo sguardo fiero ma al tempo stesso minato da una vena fragilità.
- Lo sai. Non mi permetterei mai di mancarti di rispetto ribadendo ciò che è chiaro. – rispose Antonio, continuando a fissarla negli occhi con aria grave.
- Chiaro a chi? –
- Chiaro a tutti, Anna. Soprattutto a tuo fratello Fabrizio.-
- Come fai a dire questo? –
- Me l’ha detto lui stesso. –
- Che vergogna, che vergogna…- sibilò sommessamente, dando le spalle ad Antonio perché non scorgesse il turbamento sul suo volto. Antonio fu svelto ad afferrarle il polso, una stretta delicata ma decisa.
- No, Anna, no. Tu non hai nulla di cui vergognarti. – le disse dolcemente.
 Anna si voltò piano, titubante, incerta. Si voltò, ma senza sollevare lo sguardo, timorosa di incontrare gli occhi di lui. Non disse nulla, si limitava a trattenere le lacrime, a non permettere loro di tradire la sua debolezza di quell’istante. Ma non ci riuscì. Antonio se ne accorse e prese ad accarezzarle le guance, asciugando le lacrime che avevano iniziato a rigarle il viso.
Si vennero a trovare fronte contro fronte, le mani nelle mani, mentre il buio ormai calava intorno, il freddo dell’autunno si insinuava con sporadiche raffiche di vento. Non parlavano, si limitavano a stare fermi, così, senza parole che in quel frangente sarebbero risultate solo superflue. Infine le loro labbra non poterono far altro che avvicinarsi, lentamente, delicatamente; le loro mani si lasciarono per carezzare le guance, passare fra i capelli, stingere, abbracciare.
-Non l’avrei mai creduto possibile. – le sussurrò lei all’orecchio, ripercorrendo nella mente tutti quegli anni di attesa sofferta, senza speranza, stringendolo in uno strettissimo abbraccio.
Antonio si limitava a cingerle la vita e a sorridere, senza che lei lo potesse vedere. Un sorriso colmo di gioia, di affetto, di amore ritrovato.
-Antonio, - pronunciò, infine, il suo nome, accarezzandogli le guance, - mi sei mancato.  – confessò titubante, abbozzando un sorriso timido, mentre una luce nuova lampeggiava in fondo ai suoi occhi.
- Anche tu. – le rispose con un sorriso così pieno e sincero che non poté non contagiare anche lei.
- Non te l’ho detto prima, ma eri l’unica persona che avrei voluto vedere, questa sera.- rivelò.
- Lo so, ed è per quello che non avrei mai smesso di cercarti finché non ti avessi trovata. –

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Capitolo 6
*** Parte VI ***


Le sue parole, la sua voce, i suoi occhi, tutto le era ben impresso nella mente mentre rievocava quei momenti, fissando i cespugli scossi dal vento. Dalla finestra aperta la investivano folate d’aria fresca, ma era piacevole respirare a pieni polmoni, finalmente, dopo tanto tempo, sentirsi di nuovo libera, viva. La notte volgeva al termine, nuvole scure lasciavano di tanto in tanto filtrare gli ultimi raggi della luna al tramonto. Si avvolse nello scialle, indosso soltanto la veste da camera, i piedi nudi sul pavimento. Ogni tanto rabbrividiva, ma il freddo non era altro che una gradita sensazione di vitalità: come se ritornasse finalmente a vedere i colori del mondo, a provare sensazioni dimenticate, a sentire suoni, rumori, ad assaporare i profumi della natura notturna. La vita si dischiudeva davanti a lei, una nuova vita.
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-D’ora in poi non smettere più di cercarmi. – lo pregò, baciandolo sulle labbra.
- Te lo prometto. – rispose prendendole il viso fra le mani.
L’aria notturna li nascondeva, li proteggeva, ma la notte sarebbe dovuta finire, prima o poi, il sole sarebbe sorto e avrebbe rimesso ogni cosa al suo posto, cancellando le tracce di quella breve fuga dalla realtà. Nuvole scure si avvicendavano coprendo a turno la luna già alta, lasciandoli a tratti nella più profonda oscurità. Anna ad un tratto si sciolse dall’abbraccio, si guardò attorno, scorgendo soltanto sagome nell’ombra. Si accorse così del tempo che aveva continuato a fluire senza che se ne accorgessero, e il passare del tempo le riportò alla mente obblighi, convenzioni, vincoli di cui si era dimenticata. Alla tenuta sarebbero stati tutti in pensiero, l’avrebbero cercata, credeva, ma non si risolveva ad andarsene di lì, a staccarsi da quel luogo che ora aveva assunto ai suoi occhi una nuova importanza, ma, più di ogni altra cosa, le costava immane fatica lasciare Antonio. Perciò indugiò ancora per un po’ rituffandosi fra le sue braccia; Antonio la accolse, benevolo, paziente, per nulla impensierito dall’ora tarda, dall’arrivo della notte. Ma ad un tratto riemersero da quell’incantesimo:
-Si è fatto molto tardi. Forse Fabrizio ti starà cercando, Emilia sarà in pensiero per te. – le disse Antonio, con un sorriso rassicurante, accarezzandole i capelli.
- Hai ragione, sono stata una stupida. Chissà che cosa penseranno di me, che sono una figlia ingrata a sparire così nel giorno del funerale di mia madre…ed Emilia, non vorrei che si mettesse in agitazione non vedendomi. – rispose Anna, affliggendosi per la situazione che probabilmente aveva creato alla tenuta.
- Ti accompagno. – si offrì Antonio, prendendole la mano.
Anna si lasciò prendere per mano, si incamminarono sul sentiero che conduceva alla residenza, quando ad un tratto lei si fermò di colpo.
-Non me la sento, non ora. Non ho il coraggio di affrontare quel luogo, le premure di mio fratello, le chiacchiere della servitù, Emilia, il ricordo di mia madre…- esclamò passandosi una mano sul viso. Antonio restò immobile a guardarla, incerto.
- Ti prego, per questa notte, portami via da tutto questo. Tienimi con te, come se potessimo cancellare tutti gli errori e le sofferenze di questi anni. – lo supplicò prendendo le mani di lui fra le sue.
Antonio non esitò nemmeno un istante e accondiscese a quell’accorata richiesta che, del resto, rappresentava il suo desiderio: quello di non separarsi da lei. In un altro momento sarebbe parso a entrambi sconveniente, irragionevole, inammissibile violare le regole non scritte del decoro, sovvertire quell’ordine che avevano preso le loro vite, mettere in discussione vincoli, gerarchie, rapporti formali. Ma alla luce della luna di settembre, mentre il vento stormiva tra gli alberi e le civette facevano risuonare il loro richiamo, in quel luogo dove nessuno li avrebbe cercati, ritornare indietro nel tempo e trasformarsi nei giovani innamorati di quindici anni prima era la cosa più naturale che potesse accadere. 
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-Anna. – si sentì chiamare alle spalle. Una folata di vento più forte delle altre l’aveva fatto svegliare. – Che fai lì? – domandò alzandosi dal letto e afferrando la coperta. Le si avvicinò nella luce azzurra dell’alba, la camicia aperta, la voce assonnata. - Prenderai freddo. – spiegò avvolgendole le spalle con la coperta. Poi prese a baciarle il collo, scostandole i capelli sciolti. Anna lo lasciò fare e gli prese le mani che le lambivano i fianchi.
Non avendo ricevuto alcuna risposta, Antonio interruppe la sequenza di baci e domandò con una certa apprensione:
- Qualcosa non va? –
- No, non c’è nulla che non vada. – fu la risposta, elusiva, in tono trasognato. Anna seguitava a fissare noncurante gli alberi mossi dal vento alla fioca luce che da oriente incominciava a rischiarare la notte.
- Anna, se è per quello che diranno a Rivombrosa, non ti devi preoccupare. Mi assumerò io la responsabilità…-
Anna si girò di scatto, gli pose un dito sulle labbra per zittirlo, ritrovandosi così fra le braccia di Antonio. -Non mi importa nulla di quel che diranno a Rivombrosa, né di quel che potrebbe rinfacciarmi mio marito. Domani ci penserò. Questa notte è solo per noi due. – concluse baciandogli dolcemente le labbra. Un lungo e appassionato bacio che non bastò a placare l’apprensione di Antonio.
-E domani? Domani che accadrà? – le domandò staccandosi per un attimo dalle sue labbra, con gli occhi celesti che scrutavano quelli di lei, nella luce sospesa dell’alba. Domani tutto sarebbe tornato come prima, Anna avrebbe raggiunto il marito in città, nel borgo la vita sarebbe ripresa monotona e tranquilla, alla tenuta avrebbero salutato la marchesa e la figlia sulla carrozza fatta preparare per loro e poi sarebbero ritornati tutti quanti al loro lavoro, sollevati, forse, dalla sua partenza. E lui che avrebbe fatto? Sarebbe riuscito a riprendere la sua attività, a girare per la campagna per le visite i suoi pazienti, a rispondere alle chiamate dalla tenuta dei Ristori, dimenticandosi di quello che era accaduto quella notte? Impossibile.
- Che ci importa di domani, Antonio? Che ci importa di ieri? Viviamo adesso, non sprechiamo nemmeno un attimo di questa notte. – gli rispose, accarezzandogli i capelli, lo sguardo perso nel suo, un tono carezzevole nella voce. Un altro bacio, per non sciupare alcun istante, per dimenticare il domani. Si guardarono, infine, inquieti e speranzosi insieme. Un abbraccio per fermare quel momento fuggevole.
- Ma la notte finirà tra poco ed io non voglio perderti di nuovo. – le sussurrò Antonio all’orecchio, tenendola stretta.
E il primo raggio di sole del nuovo giorno, insinuandosi dalla finestra aperta, lo ferì negli occhi.
 
 
 
 

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