Solo quelle verdi

di Mel_mel98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Credi nelle fate? ***
Capitolo 2: *** Solo quelle verdi ***



Capitolo 1
*** Credi nelle fate? ***


Credi nelle fate?

 


C’era un passato lontano che ricordava appena, e che mai avrebbe dimenticato.

Popolato da fantasmi e fate ubriache.

 

 

Ennesima giornata uguale alle altre, ennesima lezione di rompicapo o, come la chiamavano loro, ennesima lezione stanca-cervello.

Tutti i ragazzi del turno pomeridiano del Gruppo A sedevano ai banchi bianchi, inutili come poche cose al mondo, visto che non era permesso loro usare carta e penna per risolvere i rompicapo, ma solo le loro meningi.

Divisi a gruppi di tre, discutevano, chi più chi meno appassionatamente, sull’ennesima questione proposta dalla professoressa.

Minho, Newt e Alby, che avevano sempre affrontato insieme quelle lezioni da che avessero memoria, parlavano piano, concentrati sul problema.

“Allora” cercò di ricapitolare Newt, che era sempre stato incaricato di ricordare il testo, che la professoressa leggeva ad inizio lezione, per poi non ripeterlo più “alla festa di compleanno della principessa si presentano tre fate, ognuna con una bottiglia.
Nelle bottiglie può esserci o elisir di lunga vita, o veleno mortale. La fata vestita di rosso si presenta dicendo Uno dei flaconi delle mie compagne contiene l’elisir, l’altro il veleno.
La fata verde invece dice che il flacone della fata rossa contiene veleno, mentre la fata blu, che arriva di corsa e tutta trafelata-”

“Perché, fosse arrivata in anticipo alla festa sarebbe cambiato qualcosa?” lo interruppe Minho.

“Non si sa mai, potrebbe essere un dettaglio rilevante invece” ribatté Alby, che sapeva che certi di quei problemi avevano la loro soluzione dei dettagli più impensabili.

“Stavo dicendo...” Newt ripresa la parola, zittendo gli altri due “la fata blu, quando arriva, in ritardo, dice il mio flacone contiene lo stesso liquido che c’è in quello della fata rossa. Ora, sappiamo che la fata o le fate che hanno l’elisir dicono il vero, mentre quella o quelle che hanno il veleno dicono una bugia...”

“Perché evidentemente lungo lo strada il veleno se lo devono essere sniffato. Io dico che la fata blu è una drogata di veleno ed è per questo che è arrivata in ritardo” disse Minho, allungandosi sulla sedia come se elaborare quella teoria lo avesse stancato tantissimo e dovesse fare un riposino per riprendersi.

Alby non mancò l’occasione di pizzicargli la pancia, facendolo ritrarre immediatamente e quindi cadere quasi dalla sedia.

“Scemo” fece l’orientale, rimettendosi composto.

“Scemo sei tu e la tua fata blu” rispose Alby sghignazzando.

Newt sospirò, roteando gli occhi “Evitate di ammazzarvi l’un l’altro e cerchiamo di capire da quale flacone dovrebbe bere la principessa mentre mangia la torta senza schiattare, va’.”

 

 

Non era poi così male la vita dentro la W.C.K.D., ad essere sinceri.
C’era cibo, c’erano persone con cui parlare, con cui scherzare e, ogni tanto, anche ridere.
E anche frequentare le lezioni, organizzate appositamente per studiare i loro cervelli da ogni punto di vista possibile, non era brutto, in fondo.

Ma la sera, quando arrivava l’ora di coricarsi, era senza dubbio il momento peggiore.

Era allora, quando la luce si spegneva e i ragazzi erano costretti nell’immobilità dei loro letti, che venivano fuori tutte le paure, le incertezze, tutti i vuoti lasciati dalla W.C.K.D. nei loro cuori.

Era per evitare di rimanere immobile con il cervello in movimento, che Newt aveva cominciato a disubbidire alle regole e a esplorare di notte l’edificio in cui li avevano rinchiusi.

Camminare, o meglio, sgattaiolare solo tra i corridoi bui, lo aiutava a non pensare a ciò che lo faceva stare male. Così come risolvere rompicapo. Trovarne la soluzione gli dava la speranza che un giorno sarebbe riuscito a risolvere quello che stava nella sua testa.

Era camminando di notte che aveva scoperto lo scantinato, che sarebbe poi diventato il rifugio dei tre amici. E sempre di notte, aveva scoperto che il dormitorio del Gruppo B era più vicino di quanto pensasse.

Sapere che sua sorella non era poi così lontana, che sebbene avesse un altro nome, e un altra luce negli occhi, lei era lì, a loro qualche porta di distanza, lo faceva sentire meglio quando tutto il resto sembrava inghiottirlo in un enorme buco nero. Si aggrappava al suo ricordo, alla sua immagine e la stringeva forte, impaurito come non avrebbe mai dovuto essere.

Dopotutto, sono i fratelli maggiori che devono proteggere le sorelle minori, no?

Era riuscito a proteggerla, in qualche modo. Vero o falso?

 

Vero, falso. I suoi pensieri finivano sempre tutti lì.

Era vivo, vero. Era sano, vero. Era solo, falso. Era felice… falso.

Era utile alla causa? Ne dubitava seriamente. Non era un Mune, ci tenevano a ripeterglielo ogni volta che venivano a prelevargli il sangue.

Era indispensabile a qualcuno, là dentro? No, ma non gli importava. Le ultime persone che era certo avessero tenuto a lui erano morte con una pallottola in testa.

Tutto quello che gli stavano facendo sarebbe servito a qualcosa un giorno. Certi giorni, quelli che nel suo cervello chiamava i giorni sì, gli sembrava fosse vero. Ma durante i giorni no, si sentiva convinto del contrario. Falso, falso, falso.

Quella gente aveva ucciso per prendere Lizzy. Avevano ucciso i suoi genitori.

Ma avevano anche avuto cura di portare lì lui, che non era immune all’Eruzione.

Meglio morire.

Meglio continuare a vedere sua sorella dalla grata di un condotto di ventilazione.

Meglio, vero o falso. Peggio.

Si sentiva peggio, quando non riusciva ad uscire dalla camerata e rimaneva a letto tutta la notte senza dormire. Sapendo che lo stavano osservando, sapendo che stavano registrando tutti i suoi movimenti, i suoi respiri.

Lo vedevano, cosa gli passava per la testa?
Lo vedevano, quando pensava allo scantinato dove erano venuti a prenderlo, dove immaginava il corpo di suo padre in putrefazione sul pavimento delle scale, e quello di sua madre accasciato in un angolo?
Lo capivano, quando era sul punto di urlare, ma si mordeva la lingua fino a sentire il sapore del sangue, così da avere la certezza di essere sveglio, di essere vivo?

Odiava quel posto, vero.

Era completamente inutile e lo era sempre stato, vero.

 

“Ehi, amico.”

Minho era appoggiato al suo letto, e con una spinta si fece spazio sul materasso, per finire così accanto a lui, in una posa plastica che neppure i modelli nelle foto sulle riviste di moda sarebbero stati capaci di mantenere per più di cinque secondi.

“Minho...” boccheggiò Newt, senza fiato.

“Stavi iperventilando. Ho pensato ti servisse una dose di pensieri se non felici, quantomeno non depressi.”

“Accomodati” sorrise appena il biondo, chiudendo gli occhi e affondando la testa nel cuscino.

“Com’è che stasera non sei a fare la tua solita passeggiata trasgressiva?” chiese Minho.

“Non ce la faccio. Credo mi abbiano preso più sangue del solito oggi e a cena ho mangiato poco.”

“Come si fa a rifiutare una prelibatezza come il polpettone di fine settimana della mensa? Ingrato” commentò l’altro “con tutta quella fantastica carne, le uova, il prezzemolo tagliato male che ti rimane sempre tra i denti… per non parlare di quella poltiglia rossa che ci mettono sopra e vogliono spacciarti per sugo di pomodoro!”

Newt fece una faccia schifata “Io lo trovo rivoltante, sinceramente.”

“Beh, però pensare al polpettone ti ha fatto smettere di avere il fiato corto. Dovresti benedirlo, quel concentrato di schifezze!”

“Già… effettivamente dovrei pensare più spesso al polpettone.”

“A cosa pensi, esattamente?”

“Non so spiegarlo, a dire la verità. Non credo sia tanto il cosa, comunque, ma più il come. Sono tanti, pensieri, concatenati, uno tira l’altro e-”

“E sono uno peggio dell’altro” concluse Minho, facendoglisi impercettibilmente più vicino.

Newt girò la testa per guardarlo negli occhi con i suoi che luccicavano di paura e sofferenza.
Il cuore gli scoppiava nel petto, e aveva un immenso bisogno di aggrapparsi a qualcosa di reale, a qualcosa di vivo. E Minho era venuto lì di sua spontanea volontà, quindi…

“Mettiamola così: se fossi la principessa del problema di oggi, mi scolerei volentieri la bottiglia della fata verde.”

 

 

“Newt, io voglio andarmene da qui.”

“Che vorresti dire?”

“Voglio dire che… ho intenzione di trovare il modo di levare le tende.”

“Perché?”

“Perché?! Che domanda del… del caspio è?”

“No, beh, scusa ma… cosa pensi di trovare là fuori? È tutta una vita che viviamo qua dentro, come farai a sopravvivere?”

“Cosa penso di trovare? Beh, non ne ho idea, ma so cosa non troverò: non troverò la CATTIVO, non troverò prelievi del sangue giornalieri o noiose lezioni di storia. Non mi hanno preso abbastanza presto da non permettermi di ricordare che nonostante tutto, quella era vita, questa no.”

“...”

“Newt, non fare quella faccia.”

“Non posso darti torto. Ma non posso neanche darti ragione. E questo… mi preoccupa.”

“Cerca di vederla dal mio punto di vista: io non ho legami di famiglia che mi tengano qua dentro. E ho una paura fottuta che si portino via quel poco che so di me stesso. Non voglio restare qui.”

“Sì, e poi soprattutto tu non rischi di morire semplicemente respirando l’aria là fuori… effettivamente vista così ha più senso.”

“Non era questo che volevo dire...”

“Ehi, tranquillo, non è un segreto che io sia qui per caso praticamente. Non sono molto coraggioso e sono a rischio di estinzione come la maggior parte della popolazione mondiale, quindi non ho molta scelta. Tu però ce l’hai.”

“Newt...”

“Qui si sopravvive, non lo si può negare Mihno. È un posto sicuro come pochi altri. Ma forse, vivere è un’altra cosa.”




Note dell'autrice
Ho diviso la storia in due capitoli, perché mi sono resa conto che forse era leggermente troppo lungo e non volevo penalizzarne la lettura.
Ringrazio come sempre chiunque sia arrivato fin qui, tutto ciò che ho scritto è stato direttamente ispirato da ciò che ho letto in The Fever Code, quindi siamo nell'ambito del Bookverse, mentre nel prossimo capitolo ci sarà la parte maggiormente Movieverse. Spero che questo passaggio da libro a film, che nella mia testa accade automaticamente, perché così è andato formandosi il mio hadcanon, non vi dia troppo fastidio!
Inserisco qui il link alla pagina doe ho trovato il prompt che mi è entrato come un tarlo nel cervelo e ha permesso la nascita di questa storia
https://it100.livejournal.com/429935.html
Al prossimo -ed ultimo- capitolo!
Mel

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Capitolo 2
*** Solo quelle verdi ***


Solo quelle verdi


 

C’era un passato che ricordava bene, e avrebbe voluto dimenticare,

seppellire sotto litri di alcol rubato a quelle fate che non si erano più fatte vedere.

 

“Ciao Minho… come ti senti?”

Avrebbe solo voluto gridare. Gridarle in faccia che la odiava, che l’aveva sempre odiata, e che avrebbe fatto meglio a smettere di fingersi sua amica. Avrebbe solo voluto gridare. Ma restava in silenzio, il capo chino a fissare il tavolo davanti al quale lo avevano fatto sedere.

“Spero ti faccia piacere sapere che ci siamo quasi: la cura è quasi completa. Capisci Minho?”

Avrebbe davvero voluto non capire di cosa stesse parlando, non capire perché lo dicesse con tanta emozione nella voce. Invece capiva. La cura. Quella che cercavano da anni, senza risultati. Quella che lui aveva nel sangue, e che cercavano di replicare da tempo immemorabile.

Gli avevano fatto di tutto, per prendere quella cura. Lo avevano gettato nel Labirinto senza memoria, per ottenerla.

“Minho… ti ho fatto togliere il Filtro, ho pensato che-”

“Non avresti dovuto farlo” parlò allora lui, con voce roca, graffiandosi la gola secca da giorni.

“Cosa?”

“Non avresti dovuto farmi ricordare.”

Teresa deglutì, a disagio. Era più difficile del previsto, affrontare quella conversazione.

“Ho pensato che ricordando come era il mondo prima del Labirinto avresti capito che tutto quello che stiamo facendo ha una giustificazione...”

“Tu, Teresa, non mi sei mai piaciuta. Me lo ricordo benissimo. Mi sei sempre stata sul cazzo. Ci hai sempre presi in giro tutti.”

“Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per cercare una soluzione all’Eruzione! L’ho fatto per salvare milioni di vite, l’ho fatto per-”

“Però di salvare le nostre non te ne sei preoccupata eh? Di tenere al sicuro chi non era immune te ne sei sbattuta le palle, perché serviva qualche soggetto di controllo, dico bene? Ad impedire che persone immuni morissero dentro il Labirinto di disperazione non hai pensato? Ma lo capisco, lo capisco… Avevi da pensare a quelle milioni di vite là fuori e, ah già: alla tua.”

Minho aveva gli occhi iniettati di sangue, e una irrefrenabile voglia di saltarle addosso.
Aveva il respiro corto e pensante, e la testa ingombra di un sacco di ricordi che ad un certo punto gli avevano fatto dimenticare, e adesso avevano voluto riprendesse in considerazione.

Forse lei pensava si sarebbe ricordato dei suoi genitori, morti a causa dell’Eruzione, che avrebbe così trovato la forza di collaborare.
Che si sarebbe così fatto torturare di sua spontanea volontà.

Ma tutto ciò che vedeva erano i suoi amici in fila davanti ai medici che dovevano prepararli per le prove del Labirinto, mentre lei e Thomas li guardavano dall’altra parte della stanza.

Ricordava il suo tentativo di fuga e le sue conseguenze. Ricordava il pugno che aveva dato a Gally quando era riuscito a tornare in sé, e aveva usato lui per sfogare la frustrazione, e ricordava… Le notti insonni, passate ad elencare mentalmente gli ingredienti del polpettone.

“Non te n’è mai fregato un cazzo di noi, Teresa, quindi smetti di far finta che questa sia una rimpratriata. Quello che ho io nel sangue ce l’hai anche tu. Perché non lo prendi da lì quello che stai cercando, eh?” gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, alzandosi, e nonostante le mani legate per precauzione, spostando il tavolo verso la ragazza, che in fretta e furia si diresse verso la porta, mentre la sicurezza accorreva ad immobilizzarlo.

“Erano un branco di sadici pervertiti, e tu sei diventata una di loro, Teresa! C’erano così tanti modi per salvare l’umanità, e avete scelto il più stronzo possibile!”

E adesso piangeva, mentre qualcuno gli infilava un ago nel collo.
Piangeva come la prima volta che aveva visto un Dolente, e come la prima volta che lo aveva raccontato a qualcuno.

 

Pochi giorni dopo la sua tentata fuga, e dopo la sua punizione, lo avevano reinserito nel Gruppo A, quando in realtà tutto quello che avrebbe voluto fare era stare da solo in una stanza a fissare il soffitto.

Non era pronto a parlare con gli altri, non era pronto a fare finta di stare bene, a fare finta che non gli avesse fatto tremendamente male, fallire nella sua fuga.

Non aveva voglia neppure di parlare con i suoi amici, che avevano gli occhi gonfi di apprensione, e la bocca evidentemente colma di domande a cui Minho non sapeva rispondere.

“Come stai Minho?” gli aveva chiesto Alby appena lo aveva visto, e tutto quello che era riuscito a fare lui era stato alzare le spalle.

Newt invece era rimasto ad osservarlo in silenzio. Minho non avrebbe saputo dire se si trovasse in una delle sue giornate sì, o in una di quelle no, ma sembrava incredibilmente stanco.

 

“Ti va il mio polpettone?”

Erano state quelle, le prime parole che aveva sentito pronunciare dal biondo, dopo essere tornato.

“Va bene… ma dovresti mangiarne almeno la metà, sei più bianco del sottoscritto...”

“Sono sempre stato più pallido di te, idiota” gli aveva risposto, facendosi spazio sulla panca accanto a lui “E comunque lo sai che mi fa schifo questa roba, mentre a te servirà.”

“Sì, a riempirmi lo stomaco di schifezze, grazie, molto gentile da parte tua.”

“Sì, a quello, e a pensare a qualcosa di non deprimente prima di addormentarti stanotte.”

 

Quella sera, Newt lo aveva salvato dai suoi fantasmi, avvicinandosi al suo letto a notte fonda e sedendosi ai suoi piedi con fare non troppo discreto.

“Non si dorme stanotte, eh pive?”

“Non credo, no” aveva sussurrato lui.

“Beh, neppure io. Posso restare qui?”

Minho aveva annuito, sentendosi immediatamente un idiota perché era buio pesto e Newt non poteva certo vederlo. “Fa’ come vuoi” aveva detto.

“Minho”

“Sì?”

“Ti prometto, che dopo quello che ti hanno fatto non mi permetterò più di pensare che questo posto sia sicuro. Che non ci sia niente di meglio. Te lo prometto.”

 

Ed era in quel momento che aveva iniziato a piangere. Newt ancora non lo sapeva neanche, che cosa gli avevano fatto, eppure era pronto a mettere da parte quegli unici pensieri che gli davano un po’ di sollievo, per essergli solidale.

Protetto da quello scudo di oscurità, Minho si era finalmente lasciato andare, mentre le immagini di quegli esseri rivoltanti che lo avevano attaccato minacciavano di fargli perdere di nuovo la testa.

Ma la presenza di Newt sul fondo del letto lo teneva ancorato al presente, impedendogli di scivolare via.

Quella sera, Newt gli aveva offerto l’elisir di lunga vita, senza neppure rendersene conto.

 

 

Adesso, dopo aver passato anni all’oscuro di ciò che ci fosse stato prima del Labirinto, Minho sapeva.
Sapeva che quell’amico che lo aveva salvato, aveva sempre sofferto di depressione, e che sotto gli occhi di tutti quei medici e psicologi si era trascinato lungo la sua faticosa vita senza che nessuno facesse niente. Sapeva che li avevano usati senza nessun riguardo, e se anche quello fosse stato l’unico modo per raggiungere una cura per salvare il pianeta, avevano quantomeno sbagliato nell’approccio che avevano avuto nei loro confronti.

Brividi di freddo gli percorsero la schiena quando, chiuso a chiave nella sua stanza dove lo avevano portato, si distese malamente sul pavimento, lasciando vagare il suo cervello, finalmente libero, tra i ricordi.

Dov’era Newt in quel momento? Stava bene? Se gli avesse detto che solo tre anni prima avevano parlato di fate e polpettoni per addormentarsi, c’avrebbe creduto?
Sorrise debolmente.
Per qualche ragione faceva piuttosto male, ricordare quelle cose.
Eppure, non riusciva a non sorridere.
Forse, a forza di tutti quei sedativi, lo avevano trasformato in un ubriaco.

 

“E comunque, anche se non era lei che aveva il veleno, la meglio rimane la fata blu.”

“Sì, certo, come vuoi Minho. Io, se dovessi scegliere comunque, sceglierei quella rossa. Secondo me la rossa è meglio. Quella blu è ubriaca, lo hai detto tu stesso!”

“Lo dici solo perché l’ho scelta io quella blu Alby! E comunque gli ubriachi sono simpatici, secondo me”

“Ovviamente. Come se se ne vedessero tanti di ubriachi, qui in giro.”

“Io invece, vorrei essere la fata verde.”

“Cosa? Vorresti essere una fata? Newt mi sa che il purè di oggi ti ha dato al cervello.”

“Ma poi la fata verde era quella con il veleno, no?”

“Esatto. Vorrei essere quella verde, e dare la mio boccetta a quel medico incapace che stamattina mi ha fatto le analisi: guardate qua che livido mi ha lasciato con quel suo ago maledetto!”

“Cavolo amico… allora se tu diventi una fata, anche noi lo diventeremo: io quella blu, e Alby quella rossa! Ti accompagniamo nella missione, che quel dottore sta troppo antipatico anche a me!”

“Mmh… io non mi fiderei delle fate blu… sono sempre in ritardo!”

“E io non mi fido delle fate rosse: rompono sempre le scatole!”

 

 

E poi c’era il presente. Dove i fantasmi si erano moltiplicati, e non c’era più nessuno che credeva alle fate.

“Zio Minho?”

“Dimmi pive.”

“Ho trovato la soluzione all’enigma delle fate.”

“Non avevo dubbi, marmocchio.”

“L’elisir di lunga vita sta nella bottiglia della fata rossa e in quella della fata blu. Mentre la fata verde ha il veleno, e infatti è bugiarda perché dice che la rossa ha il veleno ma non è vero!”

“E bravo il nostro campione di indovinelli. Stai diventando sempre più sveglio.”

“Zio Minho, posso chiederti una cosa?”

“Spara.”

“Ma tu... ci credi alle fate?”

“Solo a quelle verdi.”

 

E lui, lui aveva smesso di credere a tante cose.

Col tempo aveva smesso di credere ci fosse qualcosa di assolutamente giusto, o qualcosa di assolutamente sbagliato, al mondo.

Aveva smesso di credere ai suoi incubi, e aveva smesso, prima di molti altri, di benedire il sole che sorgeva ogni mattina sulle loro teste. Accadeva e basta, non c’era niente di giusto, niente di sbagliato, nel fatto che lui fosse ancora lì a poter vedere la luce del giorno.

Non credeva più agli elisir di lunga vita, perché la cosa che più gli si avvicinava che avesse mai conosciuto li aveva portati tutti sull’orlo di un baratro senza fine.

Ma alle fate, ci credeva ancora. Soprattutto credeva ancora a quella bugiarda che aveva conosciuto, la cui risata rimbombava forte nei suoi ricordi, quando si spingeva con lo sguardo al di là del mare.

Bugiarda, ma non abbastanza da negarsi il proprio destino, e che alla fine se n’era andata, senza dirgli niente.

 

Gli mancava, gli mancava tanto Newt.

Ogni tanto si domandava cosa avesse dovuto provare, mentre si sentiva scivolare la sanità mentale tra le dita.
Thomas gli aveva detto che non aveva mai pensato a sé stesso, il suo unico pensiero era sempre stato tirarlo fuori dalla W.C.K.D.

Adesso avrebbe voluto tornare indietro al momento in cui l’aveva rivisto nel corridoio dove tanti anni prima si erano conosciuti, quando l’aveva abbracciato a aveva sentito dal calore della sua pelle, che c’era qualcosa che non andava.

Avrebbe voluto tornare lì e raccontargli tutto quello che lui non poteva ricordare. Non poteva salvarlo, lo sapeva fin troppo bene.
Non poteva salvarlo adesso, che era troppo tardi, non aveva potuto farlo allora, perché era troppo presto per quella dannatissima cura.

Ma avrebbe potuto stringerlo più forte, avrebbe potuto restare con lui più a lungo.

Ma quel compito era toccato a Thomas, che lo aveva accompagnato fino alla fine.

Newt s’era sempre fidato ciecamente di Thomas, ma non perché credeva potesse salvarlo: semplicemente perché era capace di trasmettergli quella forza che tanto gli mancava nei giorni no.

E sotto sotto, Minho non riusciva a cancellare quella sorta di risentimento che provava nei confronti di tutti quelli che lo circondavano. Non riusciva a cancellare neppure il risentimento che provava verso sé stesso.

Avevano fallito.

Avevano fallito tutti.

Non c’era rimasto niente in cui credere, se non in Darwin e la sua vomitevole teoria sull’evoluzione della specie.

 

“Zio Minho?”

“Sì?”

“Tu l’hai mai vista una fata verde?”

“Forse, è probabile.”

“Si può credere solo in qualcosa che si è visto con i nostri occhi?”

“Niente affatto. Anzi, è il contrario: il più bravo a credere è quello che crede a cose che non ha mai visto, ma solo sentito.”

“Allora ci credo anche io, zio, alle fate verdi, va bene?”

“Certo che va bene, scemo di un pive, mica devi chiedere il permesso a me.”

 

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Note dell'autrice
E adesso è proprio finita, spero vi sia piaciuta la lettura di questa fanfiction almeno la metà di quanto è piaciuto a me scriverla. Sarebbe già un risultato di cui andrei fiera!
Lascio nuovamente il link alla pagina dove sono raccolti i prompt delle Lontre Templari ma non solo, così che anche voi possiate farvi travolgere dalle mille idee che questi prompt riescono a suscitare!
Voi fate i bravi, lasciate un commentino e fatemi sapere dove potrei migliorare (a parte nella grafica, che mi fa sempre schifo ma cambiando computer come spazzolini da denti ultimamente è diventato sempre più difficile gestire le storie dal punto di vista estetico!)
Alla prossima,
Mel <3

 

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