Gotham: The City of Rain di ArtemisiaSando (/viewuser.php?uid=134075)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ~ Prologo ~ Goodmorning Gotham ***
Capitolo 2: *** ~1~ The Giant and the Bat ***
Capitolo 3: *** ~2~ Between carpets ***
Capitolo 4: *** ~3~ Nice to meet you, Mr Wayne ***
Capitolo 5: *** ~4~ What's on the inside ***
Capitolo 6: *** ~5~ Founders lounge ***
Capitolo 7: *** ~6~ Voice and strings ***
Capitolo 8: *** ~7~ He'll be here soon ***
Capitolo 9: *** ~8~ Sold to Mr Wayne! ***
Capitolo 10: *** ~9~ Who's afraid of a machine gun? ***
Capitolo 11: *** ~10~ Sky roundabout ***
Capitolo 12: *** ~11~ The one side of a medal ***
Capitolo 13: *** ~12~ Flowers ***
Capitolo 14: *** ~13~ Rock-climbing ***
Capitolo 15: *** ~14~ Who are you, Bruce? ***
Capitolo 16: *** ~15~ Day shift 1 ***
Capitolo 17: *** ~15~ Day shift 2 ***
Capitolo 18: *** ~16~ Ask Alice ***
Capitolo 19: *** ~17~ Never do it again! ***
Capitolo 20: *** ~18~ Heart issues 1 ***
Capitolo 21: *** ~18~ Heart issues 2 ***
Capitolo 22: *** ~19~ Gordon for Mayor 1 ***
Capitolo 1 *** ~ Prologo ~ Goodmorning Gotham ***
~
Prologo ~ Goodmorning Gotham
« On me dit que le destin se moque bien
de nous
Qu'il ne nous donne rien et qu'il nous promet
tout
Parais qu'le bonheur est à portée de main,
Alors on tend la main et on se retrouve fou
Pourtant quelqu'un m'a dit ...
Que tu m'aimais encore,
C'est quelqu'un qui
m'a dit que tu m'aimais encore.
Serais ce possible alors ?* »
È
una linea sottilissima quella che si trova fra rabbia e rimorso.
Entrambi divorano, consumano, a grandi morsi strappano e lacerano
lasciando un vuoto senza uscita, un vuoto in cui è facile
affondare, dimenticare. La differenza si trova nella colpa.
Chi
ha colpa non prova rabbia, ma rimorso. Le parole non dette si dilatano
nella morte, assumono forme e colori che prima non avrebbero mai avuto,
diventano un pozzo senza fondo, lo specchio impietoso, insospettabile
di un segreto troppo a lungo mantenuto. Marcisce in chi è
rimasto indietro, si trasforma in dubbio, in mostro feroce da cui non
c'è scampo.
Per
i vivi non c'è conforto nella morte ed i morti non hanno
più orecchie per sentire, né
possibilità di perdonare.
Gli
occhi azzurri di suo padre si erano chiusi su un mondo da cui lei
stessa l'aveva escluso.
Così
era scappata. Inseguita dal fantasma del proprio rimorso aveva scelto
di non vedere, di non capire che a lei, ed a lei sola era rimasto il
compito di ricordare, di perdonare.
_________________________________________
Il
treno per Gotham City era semi deserto il giorno in cui April aveva
deciso di partire. Odore di tabacco ed urina si mescolavano oltre il
vetro sporco del vagone. Gli altri passeggeri, come lei, facevano
semplicemente finta di non vedere.
Avrebbe
voluto dire di essere felice, ma quella vaga nebbia che sporcava il
paesaggio sembrava essersi insinuata anche fra i suoi pensieri. Che
cosa provava? Orgoglio? Impazienza? Paura, forse. Sapeva solo che oltre
il finestrino umido il mondo sembrava scivolare via senza meta, senza
trasmetterle nient'altro che un vago senso di nausea.
Gotham
apparve nella nebbia come una strana visione. La ferrovia sopraelevata
l'attraversava simile ad una gigantesca ferita, squarciando un velo di
fumo biancastro che pareva sollevarsi dalle strade quasi stessero
respirando intorno a lei, sotto di lei.
Era
impressionante. Architetture immense si sporgevano nel vuoto di una
città insonne, frenetica, sporca, come guardiani, come
nemici nascosti. Sentì un brivido percorrerle la schiena
mentre la luce a tratti svaniva, coperta dai grattacieli, per poi
tornare più accecante ancora sui bronzi anneriti, sulle
insegne ancora spente.
Per
un lungo istante rimpianse Boston, i suoi edifici di mattoni cotti dal
sole, bassi e tozzi, i comignoli anneriti dal fumo depositatosi in
centinaia di anni, le strade ampie, le avevano sempre dato uno strano
senso di sicurezza che ora sembrava essere svanito nel vuoto di quella
ferrovia sospesa.
L'appartamento
avrebbe dovuto trovarsi a pochi passi dalla stazione della
metropolitana, eppure fece fatica ad orientarsi una volta scesa dal
treno. Erano giorni che faceva avanti e indietro per sistemare tutto
ciò che aveva, per tentare di dare una forma, seppure goffa
ed abbozzata, a quella sua nuova vita, ma riuscì a perdersi
ancora, trovando la strada giusta solo dopo un paio di tentativi.
Il
gelo sembrava essere sceso precocemente su quel settembre piovoso, si
era insinuato nelle persone, ai lati delle strade ghiacciando la brina
del mattino. Osservò ancora una volta il palazzo di un
curioso rosso mattone, la scala antincendio a vista sulla facciata
disegnare una sgraziata geometria e di nuovo si pentì di non
essere riuscita a decidersi in tempo per trovare qualcosa di meglio.
L'appartamento
era modesto, ma accogliente, nulla a che vedere con il lusso moderno
degli edifici circostanti, eppure quella calda facciata di mattoni era
riuscita, almeno in parte, a restituirle una sensazione di curiosa
familiarità.
Non
le era piaciuto, di primo acchito, quello spazio semivuoto ed informe,
non assomigliava affatto agli ambienti in cui era cresciuta, ma col
passare dei giorni e con l'aumentare degli scatoloni aveva cominciato
ad apprezzare il ventre vuoto dell'appartamento all'ultimo piano. Sulla
facciata ad est un'unica grande vetrata si affacciava su un enorme
balcone in cemento e mattoni, vuoto anch'esso, ma che l'agente
immobiliare, complice la sua fretta, aveva abilmente saputo venderle
come un locale in più, uno spazio multiuso.
Nonostante
questo, April non era ancora sicura di che cosa ne avrebbe voluto fare
di quell'enorme sottotetto impolverato che il gatto color miele
sembrava già adorare.
Il
resto della casa non aveva demarcazioni di sorta, si apriva in un unico
ambiente sovrastato dal tetto di mattoni ed archetti di sostegno a
vista, eccezion fatta per la camera da letto con bagno adiacente.
Waffle
l'aspettava già sulla soglia, affamato, sembrava felice di
vederla nonostante l'avesse lasciato solo nel nuovo appartamento per un
paio di giorni. Riempì la ciotola all'angolo della cucina e
si concesse un sospiro. Erano quelli i rari momenti in cui rimpiangeva
la mancanza di un uomo nella sua vita. In ventotto anni non era
riuscita a costruire nulla che fosse mai durato davvero e non
perché avesse sempre incontrato la persona sbagliata,
piuttosto perché era sempre stata lei ad essere in difetto.
Dopo
la morte di suo padre, allontanare chiunque provasse ad entrare era
diventata la sua dote migliore. Aveva visto le sue amiche sposarsi,
senza mai riuscire ad immaginarsi al loro posto. Solo una volta aveva
quasi ceduto, per un istante aveva desiderato deporre le armi,
abbassare la guardia, lasciare che qualcuno si occupasse di lei. Poi la
paura aveva inevitabilmente preso il sopravvento.
Aprì
le tende e lasciò entrare la luce bianca di quello strano
mattino, aveva ancora decine di scatole da aprire, i mobili sembravano
essere stati disposti da un uragano nell'ampio salotto eppure la
ragazza sorrise. Nell'angolo più lontano della stanza il
distintivo di suo padre scintillò appena.
_________________________________________
*
Da: "Quelqu'un m'a dit" Carla Bruni.
Mi
hanno detto che il destino si prende gioco di noi
Che
non ci da niente e ci promette tutto
Sembra
che la felicità sia a portata di mano
Allora
tendiamo la mano e ci ritroviamo pazzi
Ancora,
qualcuno mi ha detto..
Che
tu mi ami ancora... E' qualcuno che mi ha detto che tu mi ami ancora.
Come
può essere possibile?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** ~1~ The Giant and the Bat ***
~1~
The Giant and the Bat
Il
Gotham Mercy si trovava solo a pochi isolati dall'appartamento, era una
struttura tozza e slargata, di chiaro stampo moderno, distribuita in
piano su diversi ettari di terreno edificato, districandosi fra i
grattacieli in maniera violenta, sgraziata. Solo pochi edifici
superavano i dieci piani e la medicina d'urgenza non si trovava fra
questi. Non era stato il suo sogno lavorare come medico delle
emergenze, eppure nonostante il suo lungo internato in cardiologia al
Boston Memorial non era riuscita a strappare un contratto diverso.
Gotham
non aveva bisogno di cardiologi, ma di medici pronti a gestire quelle
urgenze che, a quanto si diceva, sembravano essere all'ordine del
giorno. Quasi si perse fra i lunghi corridoi che connettevano il pronto
soccorso ai vari reparti, dovendo spiegare a più riprese di
non essere un visitatore, ma un medico con un regolare contratto
d'impiego. Nonostante l'alto tasso di criminalità, il Gotham
Mercy era davvero un ospedale d'eccellenza ed April poté
facilmente intuirlo dalla grande organizzazione che regnava sia negli
ambienti quanto fra il personale specializzato. A differenza del Boston
Memorial non era un ospedale universitario, sapeva che sarebbe stata
sola per la prima volta, che nessuno avrebbe avuto l'obbligo
d'insegnarle nulla, ma se c'era una cosa di cui fosse davvero certa era
ciò che aveva imparato in quei lunghi anni di sacrifici.
Suo
padre le aveva lasciato una piccola rendita per il college, era vero,
ma che pure non sarebbe mai bastata a coprire le spese per la
facoltà di medicina, tantomeno April non avrebbe mai potuto
chiedere a sua nonna di mettere in gioco una cifra del genere.
Aveva
lavorato sodo per mantenersi, accettando piccoli lavori che le
permettessero di ottenere una borsa di studio all'anno, non l'aveva
fatto per suo padre, ma per se stessa. Il prezzo era stata la sua vita.
Era diventata una donna diversa dalla bambina che era stata,
più determinata, ma meno felice. Aveva lasciato andare tutto
il superfluo, aveva guardato le proprie amiche uscire, divertirsi,
innamorarsi senza mai davvero desiderarlo per se stessa. Forse per
quello stesso motivo aveva deciso di lasciare Boston senza guardarsi
indietro, di cominciare una nuova vita da qualche altra parte.
Ad
accoglierla trovò il dottor Simon Heagen, primario, sorriso
teso su denti affilati, le diede il benvenuto con la convinzione di uno
squalo. Piuttosto giovane per aver assunto il controllo dell'intero
dipartimento di emergenza, sembrava perfettamente a suo agio
accompagnandola nel dedalo di corridoi di sua competenza, come un gatto
che sa di trovarsi nel suo territorio.
Le
parlò a lungo di quel reparto, di quello che aveva
significato per Gotham in quegli ultimi anni, un orgoglio a malapena
trattenuto dietro il tono composto, mentre mostrava l'assoluta
efficienza di ogni anello della catena. Fu lui stesso a consegnarle il
tesserino e, con un'ultima stretta di mano, la lasciò sulla
doppia porta a soffietto del pronto soccorso, di nuovo quel sorriso
teso sui denti di lupo.
Il
lavoro al Gotham Mercy la assorbì completamente nei giorni
che seguirono, così impegnata ad abituarsi ai ritmi dettati
dalle emergenze che quasi dimenticò il senso di opprimente
solitudine che l'aveva accompagnata al suo arrivo.
Per
i primi tempi fu affiancata a due giovani colleghe, Nadine Johnson e
Samantha Keller, come lei avevano lasciato le proprie città
di origine per lavorare al Gotham Mercy e l'avrebbero assistita
finché non avesse imparato a districarsi fra le nuove
procedure e qualsiasi cosa concernesse il funzionamento interno
dell'ospedale.
Non
era mai stata sua abitudine intraprendere amicizie sul posto di lavoro,
né si era mai trovata a suo agio nel fingere qualcosa che al
di fuori di quelle mura bianche non aveva la stessa importanza. A sue
spese aveva imparato che la competizione era più importante
di qualsiasi altra cosa in quell'ambiente, così non aveva
mai perso tempo ad inseguire rapporti che nessuno si sarebbe dato la
pena di mantenere.
Eppure
si stupì dell'intimità che, con una
facilità insospettabile, si era creata fra loro, nonostante
ricoprissero ruoli molto simili, e per una volta non sentì
il bisogno di declinare qualunque invito le venisse proposto.
Lasciò che la introducessero alla vita della
città, oltre che alle responsabilità del nuovo
lavoro ed April scoprì quanto potesse essere piacevole avere
qualcuno che l'aspettasse alla fine del turno anche solo per poter
mangiare qualcosa insieme.
Le
prime settimane trascorsero come in uno strano sogno. Per quanto si
sforzasse di sentirsi a suo agio nel contesto di quella nuova
realtà, qualcosa nel suo cuore remava inevitabilmente
contro. Quel sottile senso di repulsione, il brivido che l'aveva
accompagnata il primo giorno stentava ad andarsene.
Gotham
non era una metropoli qualunque. Sotto l'aspetto fiero, severo di un
maciste della finanza e dell'industria, si celava un brusio di
squallore e di criminalità sussurrata. Tutti sapevano, ma
nessuno ne avrebbe mai parlato apertamente. Gotham stava marcendo e non
c'era nessuno che sapesse come invertire quel disgraziato processo. I
criminali si aggiravano a piede libero nella notte, dormivano nella
pancia di una città dai funzionari corrotti o corruttibili.
La
paura rendeva muti i suoi cittadini, sorridevano per le strade alla
luce del sole, ma la notte interi quartieri morivano. Deserti,
abbandonati. Non si facevano domande, neppure sussurrate, dove la mano
di quel marcio senza fine si stendeva, si sgranchiva fra le case vuote.
Si
parlava di un giustiziere, un uomo terrificante dietro la maschera di
un gigantesco pipistrello. Sulle prime la ragazza sorrise alla notizia,
ma il rispetto che l'inquietante vigilante aveva evocato sul volto
delle nuove colleghe le provocò di nuovo quel vago senso di
nausea che aveva avvertito sin dal primo giorno. Si diceva collaborasse
con la polizia, che tenesse pulite e sicure le strade della
città, eppure doveva essere soltanto un uomo. Un uomo solo
contro il mondo, un destino a parer suo terribile. Chi mai avrebbe
potuto auto infliggersi una tale punizione?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** ~2~ Between carpets ***
~2~
Between carpets
Nei
giorni che seguirono April apprese che l'uomo pipistrello non era il
solo benefattore di Gotham City. Un giovane imprenditore miliardario
sembrava cavalcare una ribalta senza precedenti. Bruce Wayne.
Filantropo e dai gusti bizzarri, questo dicevano di lui, eppure
sembrava organizzare puntualmente una volta al mese un party
elegantissimo nella propria tenuta solo per poter riunire i
più grandi magnati, e quindi potenziali finanziatori, di
Gotham.
L'ospedale
era da anni generosamente finanziato dalla famiglia Wayne, lo stesso
Thomas Wayne, eccellente medico e uomo d'affari, vi aveva lavorato per
anni prima di morire in circostanze quanto mai sospette, qualcosa di
cui nessuno aveva apparentemente voglia di parlare. Il consiglio di
amministrazione aveva perciò un invito garantito ad ogni
evento organizzato dall'erede di quella sfacciata fortuna, costruita
sui resti della brava gente di Gotham.
Eppure
il Gotham Mercy sembrava aver continuo bisogno di fondi e risorse per
poter rimanere al passo con le nuove tecnologie, gentilmente fornite in
concessione dalla più che ovvia Wayne Enterprises, qualcosa
che ad April suonava più o meno come un buco nero per le
finanze dell'ereditiere Bruce Wayne.
Quando
si accorsero che al loro team di dirigenti d'impresa mancava una figura
femminile che potesse addolcire il portafoglio della crema di Gotham,
il dottor Heagen si prese la libertà di proporre il nome di
April senza neppure consultarla.
A
cose ormai fatte le disse che sarebbe stata un'occasione imperdibile,
da cui la ragazza non avrebbe avuto che da imparare, che era toccato a
tutte prima di lei ed, in quanto nuova arrivata, le sarebbe spettato
l'onore di presenziare insieme a loro alla serata di beneficienza.
Nessuno sembrò interessato a chiederle che cosa avrebbe
desiderato, mettendo invece di mezzo la sua carriera,
perciò, a conti fatti, si trovò costretta ed
eseguire quello che, più che di una proposta, aveva preso le
sembianze di un ordine.
Erano
anni che non aveva occasione di indossare un abito elegante, inutile
dire che, a differenza dei quattro uomini che l'avevano accompagnata,
la cosa la metteva leggermente a disagio. Non era mai appartenuta a
quel mondo, e dubitava seriamente che vi sarebbe appartenuta dopo un
party per finanziatori.
Quasi
avrebbe preferito scappare, se solo i tacchi glielo avessero permesso,
nel momento in cui l'auto nera li lasciò davanti alla
gigantesca tenuta all'elegante periferia di Gotham. Era una costruzione
angosciante e proporzionata allo stesso tempo, quasi simmetrica fra le
due torri svettanti ai due lati del palazzo. Ben piazzata al suolo
quasi una mano invisibile avesse scavato per poggiarvela sopra
donandole quell'aria di eternità, di
impenetrabilità che la colpirono. Le lunghe vetrate
blasonate brillavano di mille bagliori nel buio di quella notte di un
settembre gelido, impassibile.
Un
giovane maggiordomo in livrea aprì l'immenso portone di
quercia intagliata al loro passaggio accogliendoli in un foyer di
un'eleganza stranamente composta, senza pretese che cozzava
irrimediabilmente con la fama del padrone di casa. I caminetti dovevano
essere stati accesi da ore per regalare alla sala quel confortante
tepore che avvolgeva la stanza in una curiosa armonia, il freddo
esterno un lontano ricordo.
Lo
stesso domestico li scortò oltre la preziosa scalinata in
legno scuro, proiettandoli laddove la festa doveva raggiungere il suo
apice. Una sala da ballo immensa si apriva oltre un altro portoncino in
quercia annerita in un turbinio di persone dagli abiti più
eleganti che la ragazza avesse mai visto. Lo champagne correva sui
vassoi che si aggiravano con maestria fra gli invitati, colossali
lampadari in ferro battuto pendevano solenni dal tetto a botte
illuminando l'ambiente sopra di loro, intorno a loro, non c'era cenere
nei camini sempre accesi, né ombra sui costosi quadri alle
pareti. Niente era stato lasciato al caso, seppure con una naturalezza
disarmante.
I
suoi accompagnatori, perfettamente a loro agio nell'ambiente, non
persero tempo gettandosi fra la folla, trascinandola con loro. In breve
tempo strinse più mani di quante potesse ricordarne, sorrise
e scambiò battute con completi estranei, persone che forse
mai più avrebbe rivisto nella sua vita. Si lasciò
guidare finché non le si offrì una via di fuga.
Si perse un paio di volte cercando una toilette a cui non voleva
arrivare, da cui non voleva tornare e, prima di potersene accorgere, il
riparo di un lungo corridoio tappezzato di arazzi era diventato
un'attrattiva troppo seducente per poterla ignorare.
Quando
Bruce poté finalmente sottrarsi alla confusione del salone
principale le guance gli dolevano. Era una volontaria tortura a cui
sapeva di doversi sottoporre almeno una volta ogni tanto, si ripeteva
che fosse per una buona causa e quello in realtà era l'unico
motivo che lo spingesse ancora a sorridere come un idiota in quelle
situazioni.
Prese
a misurare i corridoi a passi ampi, impazienti, senza meta. Pensare lo
tradiva più di ogni altra cosa. Il pensare lo rendeva
preoccupato e la preoccupazione lo rendeva inquieto. Avrebbe potuto
mandare tutto in malora, chiedere a tutti di andarsene e tornare al
lavoro, ma aveva promesso. E più di qualunque altra cosa
oltre che a suo padre, lo doveva a se stesso, a quel poco che della
vita di Bruce Wayne era rimasto.
Sospirò
sonoramente prendendo la via a ritroso per la sala, sconfitto,
massaggiandosi la barba già ispida e le guance indolenzite
per l'ultima volta prima di ributtarsi nella mischia, quando qualcosa
all'angolo del suo campo visivo lo bloccò a metà
strada.
C'era
qualcuno insieme a lui nel corridoio, qualcuno che non l'aveva sentito
arrivare tanto sembrava distratto dal paesaggio buio oltre la lunga
finestra damascata. Era una ragazza quella affacciata al vetro chiuso,
stranamente concentrata su qualcosa che Bruce fece fatica ad
identificare.
Si
avvicinò cautamente di qualche passo, quel tanto che bastava
da poterla vedere con chiarezza, ma senza farle notare la sua presenza
quasi avesse temuto che al solo vederlo sarebbe scappata.
Per
la prima volta dopo tanto tempo, l'uomo si sentì davvero in
difficoltà. Non solo la ragazza sembrava essersi sottratta
come lui alla vita oltre la porta chiusa del corridoio degli arazzi, ma
doveva essere probabilmente anche una delle donne più belle
che avesse mai visto.
C'era
un vago sorriso sulle piene labbra appena più scure, una
strana concentrazione negli occhi chiari fissi oltre il vetro antico,
una sottile tensione nel corpo esile e sensuale, fasciato nel lungo
abito monospalla del tenue colore dell'oro. Una ciocca sottile di
capelli ramati ricadeva distrattamente dalla crocchia sulla nuca,
tracciando la linea delicata del collo nudo, delle spalle esili,
rendendola simile ad una bizzarra apparizione fuori contesto.
Per
un lungo istante rimase paralizzato, quasi trattenuto da una forza
invisibile, inevitabilmente attratto ed allo stesso tempo incapace di
creare un contatto con lei, qualcosa da cui sapeva non ci sarebbe stato
ritorno. Eppure, per un una volta, la voce del cuore fu più
forte del suo buon senso e senza esitare si avvicinò alla
misteriosa ragazza della finestra.
-
Si è persa? - chiese all'improvviso qualcuno alle sue
spalle, facendola sussultare. Non era di certo un maggiordomo, l'uomo
che aveva interrotto la sua interminabile fuga. Sembrava anzi
più vecchio di lei di più di qualche anno,
stranamente attraente e forzato insieme nel completo elegante.
Sorrideva ancora scrutandola con i chiari occhi blu che incorniciavano
il volto squadrato, severo, i corti capelli neri scompigliati quel
tanto che bastava da far sembrare il movimento del tutto naturale.
-
Oh ... no, no. In realtà mi sono già persa un
paio di volte, ma ora credo solo di essere scappata per un po'. Non
credo di essere tagliata per queste cose. - ricambiò il
sorriso senza fatica, lasciandolo avvicinare di qualche passo. Doveva
essere alto almeno due metri, pensò sollevando il viso per
poter guardare il suo bello e maturo.
-
Neppure io, temo. - rise appena lo sconosciuto puntando le mani ai
fianchi stretti, dandole uno strano senso di sicurezza. Non era certo
come loro, come gli uomini e le donne che ridevano oltre la porta alle
loro spalle, non avrebbe potuto nasconderlo.
-
Quindi anche lei sta scappando. - chiese delicatamente la ragazza e,
con suo enorme disagio, Bruce notò che gli occhi di lei
brillavano del più intenso e bizzarro colore dell'oro.
-
Si, credo proprio di si. - rispose cercando di mascherare il lieve
imbarazzo in cui, per qualche motivo, la ragazza riusciva a tenerlo in
scacco. Avrebbe dato qualunque cosa per poter recuperare il proprio
savoir fare, la propria padronanza di sé, ma d'altro canto
aveva anche l'assoluta certezza che l'avrebbe messa in fuga se solo
avesse cercato di strafare.
-
Conosce il padrone di casa? -
La domanda arrivò all'improvviso, una domanda a cui Bruce in
realtà non aveva una risposta precisa.
-
No. Direi di no. - gracchiò al sorriso di lei, bello come
nient'altro al mondo. Ancora una volta aveva preferito mentire,
piuttosto che qualcuno lo vedesse per com'era in realtà.
-
Neppure io, mi sento un po' a disagio in realtà. Mi sembra
quasi di approfittarne. -
La ragazza sembrò rilassarsi visibilmente, forse ritrovando
in lui qualcosa di molto simile a ciò che stava provando e
Bruce non se la sentì di rompere l'illusione. Sarebbe
bastato che lei restasse, ancora per poco.
-
Sembra il classico ricco idiota, non trova? - scherzò
indicando gli arazzi, ad alcuni dei quali ricordò che
avrebbe volentieri dato fuoco da ragazzo.
-
Non sia ingiusto. Ho sentito cose molto positive su di lui e poi,
è una bella festa. - lo rimproverò senza
convinzione, bella come una mattina di sole. Avrebbe voluto dirglielo,
dirle quanto fosse piacevole dopo tanto tempo provare un simile
interesse per qualcuno.
-
Peccato che lei non sembri godersela. - insinuò in risposta
senza poter distogliere lo sguardo dai chiari occhi d'oro, accostandosi
a lei ancora di un passo, quel tanto che bastava da poter avvertire con
chiarezza il lieve profumo di fiori intorno a lei.
-
Oh non faccia caso a me! Non metto un vestito così elegante
da anni ormai, da quando mi sono iscritta alla facoltà di
medicina, credo. -
-
E' un medico? -
Gli occhi azzurri di lui sembrarono illuminarsi di un guizzo di quello
che la ragazza avrebbe solo potuto definire orgoglio. Era difficile
ignorare quanto fosse bello, quanto quel leggero sorriso sulle labbra
sottili avesse inevitabilmente cambiato il corso della sua serata.
-
Si. Lavoravo al Boston Memorial fino a qualche settimana fa, poi mi
hanno offerto un posto qui. È un ottimo ospedale,
impossibile rifiutare. - si schermì lei senza nessun
apparente motivo, distogliendo per un istante lo sguardo dal suo di un
azzurro terso, sincero.
-
L'ammiro molto. Anche mio padre era un medico, aveva il suo stesso
sguardo ora che mi ci fa pensare ... -
Era così vicino ora che le parole quasi sussurrate avrebbero
potuto benissimo perdersi nel vuoto del lungo corridoio. Per un lungo
istante gli occhi della ragazza incontrarono ancora quelli dell'uomo
gentile e piazzato accanto a lei, in una strana, delicata armonia.
C'era qualcosa in lui, qualcosa di familiare e remoto al tempo stesso,
un dolore profondo, antico simile a quello che la ragazza nascosta
nello specchio le rimandava ogni mattina.
Lo
ascoltò respirare per un attimo che parve infinito
finché la porta di legno scuro non si aprì
riversando di nuovo il brusio del grande salone nel silenzio
incorniciato dagli arazzi intorno a loro.
-
April? -
La voce morì in fretta fra le lunghe pareti, mentre il busto
noto del dottor Heagen faceva capolino oltre la soglia.
-
Credo stiano cercando me. Mi scusi. È stato bello conoscere
un altro fuggitivo, purtroppo per me la fuga è finita.
Davvero mi ha fatto molto piacere. - si congedò sperando di
vedere, anche solo per un istante, lo stesso dispiacere anche nei
chiari occhi azzurri di lui.
-
Anche a me, dottoressa. Anche a me. -
A cosa sarebbe servito afferrarle la mano, anche solo per sentirne il
lieve tepore, anche solo per un attimo? Sorrise guardandola sparire
oltre la porta che si era aperta e già richiusa sul loro
incontro. Era bella, era forse quella giusta, ma Bruce non l'avrebbe
mai saputo. Qualsiasi cosa avesse mai potuto sperare, in un battito di
ciglia era già andato perduto. La ragazza non si
voltò mai indietro a guardarlo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** ~3~ Nice to meet you, Mr Wayne ***
~3~
Nice to meet you, Mr Wayne
L'atmosfera
nell'immenso salone non era cambiata durante la sua fuga, gli stessi
uomini e le stesse donne stavano ancora discorrendo, ridendo, bevendo
costoso champagne al tepore dei preziosi caminetti blasonati, a spese
di quel misterioso Bruce Wayne che aveva evitato di accoglierli per
quasi una notte intera. April cominciò a sentirsi usata
mentre uno dopo l'altro magnati dell'imprenditoria di Gotham le
venivano garbatamente introdotti, tutti uomini, pochissimi con moglie
al seguito.
C'era
uno strano equilibrio di potere in quella sala, un equilibrio in cui la
ragazza si sentiva più che mai fuori posto, quasi fosse
nient'altro che un bel soprammobile, sorrideva e chiacchierava con
loro, per loro, eppure la rabbia stava montando silenziosa oltre quel
velo di scoperta ingenuità. Avrebbe più che mai
preferito tornare a perdersi fra le sale curate della tenuta, al lungo
corridoio degli arazzi, all'incontro con il suo nuovo, bizzarro amico
piuttosto che sottostare a quella squallida esibizione di potere.
Non
seppe quanto tempo fosse passato quando, all'improvviso, il
più anziano dei suoi accompagnatori si fermò
teatralmente a parlare con qualcuno che April dalla sua posizione non
poteva vedere.
-
Oh, signor Wayne. Non credo lei conosca ancora il nostro nuovo
acquisto. Lasci che vi presenti. - esordì attirando la sua
attenzione, allora il tanto azzimato signor Wayne esisteva davvero e
davvero sia aggirava indisturbato fra i suoi ospiti portando, a quanto
pareva, scompiglio e riverenza.
-
April, il signor Bruce Wayne, il nostro ospite. Signor Wayne, la
dottoressa April Holloway. - si rivolse questa volta a lei, invitandola
gentilmente a voltarsi.
-
E' un piacere, dottoressa. - che la voce dell'uomo non fosse affatto
sconosciuta arrivò alla sua coscienza con qualche secondo di
ritardo. Si accorse dello scherzo in cui era caduta inevitabilmente
vittima solo nell'istante in cui gli occhi blu profondo del signor
Wayne si posarono ancora una volta sui suoi, confusi e quasi
stranamente amareggiati.
-
Lei? - si accigliò, sorpresa dal sorriso sul volto bello e
maturo dell'uomo che fino a poco prima, così vicino da
poterne ascoltare il lieve respiro, aveva giurato di non conoscere il
padrone di casa.
-
Vi conoscete? - interruppe il loro scambio di sguardi l'anfitrione che
per la seconda volta li aveva posti l'uno di fronte all'altra. April
non se la sentì di guardarlo ancora, si sentiva tradita da
quel suo comportamento infantile ed arrabbiata con se stessa per aver
riposto la propria fiducia, anche se solo per un istante, in un
affascinante quanto bugiardo sconosciuto.
-
Temo di si. Il signor Wayne si è preso gioco di me poco fa.
- sorrise appena per dissimulare la tensione, che il signor Wayne
dovette comunque percepire dato che tornò a cercare i suoi
occhi, sopra la mano tesa che le stava offrendo. Sembrò
sincero mentre le dita di lei scivolavano diffidenti fra le sue, grandi
e calde, in un'armonia che April aveva già conosciuto nel
momento in cui si erano incontrati di fronte alla lunga finestra del
corridoio.
-
Non era mia intenzione, davvero. Mi è sembrato curioso che
una ragazza come lei se ne stesse tutta sola in disparte e poi cercavo
davvero un po' di pace. - ricambiò il sorriso con quella
voce raspante e profonda che difficilmente qualcuno avrebbe potuto
dimenticare.
Bruce
avrebbe decisamente preferito non incontrarla una seconda volta, non
per svelare quella sua infantile bugia, non per vedere quello sguardo
nei chiari occhi d'oro. Non si fidava di lui, forse non l'avrebbe mai
fatto ora che aveva capito. Eppure mentire sarebbe stato inutile. Per
una volta, ed una soltanto, avrebbe voluto essere Bruce Wayne e
nient'altro, avrebbe voluto che dell'uomo che c'era in lui fosse
rimasto molto di più che un insano groviglio di rabbia e
senso del dovere. Le avrebbe voluto mostrare la parte migliore di
sé, se solo avesse saputo quale fosse.
-
Ora capisco perché hanno mandato proprio lei a caccia di
finanziatori. - sorrise invece lasciando andare la mano piccola e
tiepida della ragazza, sicuro che non volesse prolungare quel contatto
con lui. Era bella persino ora che le preziose iridi del delicato
colore dell'oro si sottraevano insistentemente alle sue.
-
Non credo di essere stata granché produttiva finora. - si
schermì con un sorriso distratto che pure avrebbe fatto
impallidire le stelle, le dita sottili che correvano a sistemare
nervosamente una ciocca di capelli ramati dietro l'orecchio.
-
Lei si sbaglia di grosso, dottoressa. Si da il caso che ne abbia appena
trovato uno. - la contraddisse godendo per un istante dell'espressione
più ammirata che stupita sulle labbra scure e piene.
-
Ha intenzione di stanziare quella cifra da solo? -
-
Certo. Mio padre ha lavorato in quell'ospedale prima di lei,
è mio dovere. - continuò più
dolcemente e questa volta la ragazza tornò a guardarlo, nei
chiari occhi d'oro la diffidenza che prima gli avevano riservato
sembrava essersi dissolta come neve al sole e Bruce non poté
nascondere a se stesso quanto ancora di sé avrebbe voluto
dirle. Quanto avrebbe voluto farle davvero cambiare opinione.
Non
distolse lo sguardo da quello della ragazza per un lungo istante, in un
leggero silenzio che venne rispettosamente interrotto dalla presenza di
Alfred al suo fianco. Gli sussurrò all'orecchio parole che
non avrebbe mai potuto ignorare, qualcosa si era mosso a Gotham,
qualcosa che se trascurato avrebbe potuto colpire chiunque, persino la
giovane dottoressa dai grandi occhi di lupo.
Di
nuovo Bruce Wayne cedette senza remore il passo all'uomo dietro la
maschera, augurandosi che almeno lui riuscisse a dimenticarla, a fare
finta ancora una volta che quelle due vite fossero anche condotte da
due uomini diversi, diametralmente opposti.
-
Ora vogliate scusarmi, credo che un paio di faccende richiedano la mia
presenza. - sorrise per togliersi d'imbarazzo, recitando una parte che
aveva meticolosamente imparato nel corso degli anni, una parte che
stranamente di fronte a lei non riusciva ad eseguire al meglio.
-
Signori. Dottoressa, è stato di nuovo un vero piacere. Spero
di rivederla presto. - di nuovo le dita della ragazza si strinsero
gentilmente alle sue, l'avrebbe lasciata andare non appena varcata la
soglia umida della caverna, l'avrebbe lasciata indietro con qualcuno
che non era più Bruce Wayne. Un uomo codardo per una vita di
mediocri apparenze, l'avrebbe disprezzato se solo avesse saputo. Questa
era la sua unica certezza.
-
Anche per me. Arrivederci, signor Wayne. -
April
lo guardò sparire fra la folla, oltre il corridoio in cui
poche ore prima si erano conosciuti. Guardò le spalle ampie
nel vestito costoso e non poté che chiedersi che cosa ci
fosse di sbagliato, di così dissonante in lui. Era forse
l'uomo più bello che avesse mai conosciuto, eppure nei
chiari occhi azzurri si nascondeva la sua stessa infelicità,
lo stesso senso di profonda solitudine con cui la ragazza non aveva
potuto che confrontarsi per tanto tempo. Forse aveva provato qualcosa
per lui quella sera, qualcosa che l'aveva lasciata con uno spiacevole
batticuore ed un vago senso di nostalgia.
-
Sembra che tu abbia fatto colpo. - interruppe i suoi pensieri il dottor
Heagen, sporgendosi verso di lei con un fare confidenziale che la fece
rabbrividire. Eppure April non poteva che dirsi confusa, a patto che il
signor Wayne avesse provato interesse per lei, perché
mentirle? Uno scherzo innocente, forse, ma April non era una stupida.
C'era qualcosa in lui, qualcosa che, di sicuro, se glielo avesse
permesso, l'avrebbe ferita.
-
Può darsi, comunque quell'uomo ha qualcosa di strano.
Sembrava odiare sinceramente tutto questo. Quale sarebbe allora il
senso di dare una festa come questa, odiando una festa come questa? -
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** ~4~ What's on the inside ***
~4~ What's on the inside
Nonostante
dopo la morte di Joker il sottobosco criminale di Gotham fosse caduto
in una strana quiete, forse semplicemente in attesa che la piramide del
potere si riorganizzasse, Bruce non riusciva a rassegnarsi a quella
stasi più che mai sospetta. Il suo istinto gridava al lupo,
un istinto che raramente lo aveva portato ad un vicolo cieco. Per
questo continuava a pattugliare le strade, notte dopo notte,
ossessivamente avrebbe osservato qualcuno ed a volte persino invano.
Eppure sapeva quanto importante fosse mantenere un livello costante di
terrore persino nei pesci più piccoli della malavita
annidata nei peggiori bassifondi, per assicurarsi che nessuno credesse
Gotham terreno fertile per nuovi, sordidi affari.
Come
i precedenti, i due giorni che seguirono il party Bruce li trascorse
nella caverna, senza alcun contatto col mondo esterno che non fosse
Alfred, Tim o con indosso l'armatura. Vagliare il computer in cerca di
indizi, correlazioni e piste fredde in qualche modo lo tranquillizzava,
riusciva a restituirgli quell'illusione di controllo sugli eventi che
sempre più spesso negli ultimi tempi era sembrata sfuggirgli.
Eppure
più volte si sorprese a mettere da parte il proprio lavoro
per concentrarsi sul pensiero di lei e più di una volta fu
quasi sul punto di cedere alla tentazione di cercare informazioni sulla
ragazza. Con quello che era in ballo al momento nella sua vita, non si
sarebbe concesso tanto facilmente una simile sciocchezza come lasciare
che un capriccio prendesse il sopravvento sui propri doveri, quindi,
ogni qual volta la curiosità si faceva strada fra i suoi
pensieri, metteva a tacere la coscienza con la stessa disciplina con
cui avrebbe affrontato un caso aperto.
Quella
continua indecisione era diventata una lenta tortura, una volontaria
agonia che riuscì a spezzare solo il terzo giorno, dopo una
meticolosa analisi del loro primo incontro. La pace scese sui suoi
pensieri solamente quando si convinse che sarebbe stato necessario
sapere qualcosa di più su di lei, prima di cercarla per
definire i termini del finanziamento all'ospedale.
Così,
dal suo contratto d'impiego e dal curriculum con cui era stata assunta
al Gotham Mercy, Bruce risalì come aveva fatto infinite
altre volte fino alla cartella medica ed al certificato di nascita,
ricostruendo l'intera vita della ragazza fino al suo trasferimento a
Gotham. Una volta di fronte a tutte quelle informazioni, mentre le
pagine si aprivano una ad una sullo schermo azzurrino, quasi si
pentì di averle cercate. Con che diritto stava curiosando
nella sua vita come avrebbe fatto per un ricercato qualunque?
-
Padron Bruce? - la voce distante di Alfred interruppe bruscamente il
filo dei suoi pensieri e, di nuovo, Bruce si accorse di aver saltato la
cena per lavorare al computer della caverna.
-
Sono qui, Alfred. - chiosò di rimando, lasciandosi andare
allo schienale perfettamente sagomato della sedia che si
piegò abbastanza da regalargli la visuale del maggiordomo
brizzolato in elegante abito scuro nonostante l'ora tarda, abitudine
che non aveva perso nei lunghi anni in cui gli era rimasto accanto.
L'uomo
arrivò a passi lenti risalendo con calma gli scalini in
ferro che separavano le enormi pedane su cui si snodava l'intera
caverna e, per un lungo istante, Bruce non poté che sentirsi
in colpa, costringendolo ogni giorno a quel continuo andare e venire.
-
Le ho portato la cena, che ovviamente non consumerebbe mai calda. -
puntualizzò con la solita pungente ironia, posando come
d'abitudine il vassoio d'argento accanto a lui sulla plancia d'acciaio
temperato. Sapeva che non l'avrebbe toccata, ancora per qualche ora
almeno, eppure non sembrò infastidito. Era una giostra
quotidiana a cui entrambi, dopo anni di confidenza e di reciproca
accettazione, avevano finito per abituarsi.
-
Ah, quella non è forse la ragazza alla cui compagnia l'ho
strappata qualche sera fa? - osservò invece guardando di
sottecchi lo schermo azzurrino oltre la sua spalla. Nella voce misurata
dal pacato accento inglese, una lieve inflessione di condiscendenza che
Bruce conosceva fin troppo bene, ma a cui non prestò
volutamente attenzione.
-
Si, è lei. -
-
Vedo che è riuscito a reperire una certa quantità
d'informazioni. Il perché, se posso chiedere? Ha motivo di
sospettare della dottoressa? - continuò imperterrito senza
scomporsi, Bruce sapeva che questa volta non l'avrebbe scampata, c'era
un motivo per cui aveva voluto frugare nel passato della ragazza ed
Alfred era abbastanza intelligente da non poterlo ignorare.
-
Non è questo. Si è appena trasferita e volevo
saperne di più a riguardo. Nessuno viene volontariamente a
Gotham, se non sta scappando da qualcosa. Non è schedata, ma
ha comunque un suo fascicolo alla polizia di Boston. - cedette Bruce,
grattandosi distrattamente le guance già ispide, le
sopracciglia innaturalmente vicine sulla fronte in un cipiglio che
abbandonava ormai sempre più raramente.
-
Non sarebbe stato sufficiente chiedere direttamente alla signorina? -
insinuò Alfred oltre la sua spalla, ma ormai era troppo
tardi, i file erano già stati aperti e l'uomo ne stava
leggendo mentalmente il contenuto.
-
Ovviamente no. - lo rimbeccò sarcasticamente l'anziano
maggiordomo, eppure rimase accanto a lui mentre uno dopo l'altro foto,
documenti e riconoscimenti della ragazza apparivano ordinatamente sullo
schermo al semplice tocco della tastiera olografica.
-
È davvero molto bella. Ed intelligente anche. Ha frequentato
scuole poliglotte fin da bambina, oltre l'inglese parla fluentemente
arabo, spagnolo e francese. Laureata a pieni voti al Massachusetts
Medical College, ha seguito per due anni un internato in cardiologia al
Boston Memorial prima di trasferirsi. - sembrò leggergli nel
pensiero, mentre il sorriso distratto, che Bruce aveva già
visto sulle sue labbra durante il loro primo incontro, occupava ora
silenziosamente lo schermo illuminato attraverso la foto del profilo
accademico. C'era molto su di lei nei file della polizia di Boston,
nonostante fosse incensurata e Bruce non tardò ad afferrarne
il motivo aprendo la cartella diagnostica allegata.
-
La sua cartella clinica, signore? - azzardò Alfred con una
nota di malcelato stupore nella voce, quasi avesse valicato una sorta
di confine all'umana decenza, mentre Bruce scorreva fra fogli ed esami
con la stessa meticolosa attenzione che riservava a chiunque fosse
stato passato al vaglio su quello stesso computer.
-
Nulla di rilevante, tranne un breve periodo in cui risulta in cura da
una certa dottoressa Ross. A quanto pare a tredici è stata
in terapia per qualche mese dopo ... la morte in servizio di suo padre,
agente anziano alla BCPD. Ecco il perché del fascicolo. -
lesse ad alta voce, il cuore che affondava di un poco nel petto, e
più che mai sentì il peso della propria
intrusione. La giovane dottoressa non aveva un passato felice, non
c'era da stupirsi se aveva preferito lasciarsi una vita alle spalle per
ricominciare altrove.
-
April Holloway, 29 anni, figlia dell'agente Trent Holloway e della
biologa Yael Dahan. Quando aveva cinque anni, sua madre morì
di una leucemia causata da una rara mutazione genetica tipica del medio
oriente. Suo padre è stato dichiarato cerebralmente morto in
seguito ad uno scontro a fuoco nei bassifondi di Boston. La custodia fu
affidata alla nonna paterna, ancora in vita, con cui ha vissuto fino
all'ammissione al college. - continuò a leggere una volta
aperto il fascicolo riservato nella banca dati della polizia,
sporgendosi appena verso lo schermo che rimandava ora l'immagine
smarrita di una bambina in sobria divisa scolastica grigia. Vide
qualcosa di dolorosamente familiare nei suoi occhi, una rassegnazione
che conosceva fin troppo bene, e fu quasi sul punto di spegnere tutto e
scappare il più lontano possibile, impedirle di costringerlo
a guardarsi dentro. Invece, stringendo le mani ruvide sotto il mento ed
i gomiti puntati alla plancia d'acciaio fino a fargli male, cadde in un
silenzio assorto da cui non voleva emergere, non per ora.
Da
quanto risultava nel dossier della polizia di Boston, era stata la
telefonata della bambina al distretto per avere notizie su suo padre ad
allertarli. Le foto della scena parlavano chiaro, non era avvenuta una
sparatoria in quel vicolo, ma un'esecuzione. L'uomo aveva chiaramente
tentato di interrompere da solo qualcosa di molto pericoloso. Il caso
risultava tutt'ora aperto nei server della polizia e Bruce
dubitò fermamente che la sua situazione sarebbe cambiata nel
breve periodo.
Nonostante
un brivido familiare, quanto sgradevole si fosse improvvisamente
instillato alla base della sua nuca, la scoperta non aveva fatto altro
che acuire quella strana sensazione che aveva provato dal momento in
cui si erano conosciuti.
-
La ragazza le somiglia più di quanto crede, signore. -
sorrise dolcemente Alfred accanto a lui, sapeva cosa volesse dire e per
un attimo sembrò aver dato curiosamente voce ai suoi
pensieri, ma questo non cambiava affatto le carte in tavola, anzi forse
non poteva che rafforzare la sua determinazione.
-
E' sola, Alfred. - sussurrò dopo un po', quasi atterrito, il
cuore che batteva appena più accelerato nel petto mentre
ripensava al sorriso della ragazza, a quanto di lei tenesse nascosto.
-
Lei più di chiunque altro sa che cosa si prova, padron
Bruce. - azzardò Alfred sibillino, tornando infine sui
propri passi, lasciandolo solo ad una riflessione che di certo
l'avrebbe costretto a riaprire vecchie ferite.
-
Di chi stai parlando ora? Di me o della ragazza? - lo
rimbeccò Bruce poco prima che l'uomo potesse sparire oltre
le scale che conducevano all'ampia piattaforma principale,
costringendolo a voltarsi.
-
Questo deve scoprirlo da solo. Ma per farlo, temo che dovrà
permetterle di vedere quello che ha dentro. -
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** ~5~ Founders lounge ***
~5~ Founders lounge
April,
suo malgrado, non aveva avuto un attimo di pace dal giorno in cui era
tornata dal party alla tenuta Wayne.
Samantha
e Nadine, nonostante avessero già avuto a che fare con
eventi del genere, per amore del pettegolezzo avevano preteso una
minuziosa descrizione di tutto ciò a cui la ragazza avesse
assistito all'interno della favolosa abitazione di uno degli scapoli
più ricchi ed ambiti della città. Non riuscirono
tuttavia a strapparle più di un sommario resoconto sul
tenore generale della serata e sul suo incontro con Bruce Wayne.
Già
per natura non incline a raccontare molto di sé, tantomeno
abituata a regalare i propri pensieri più intimi a
chicchessia, la ragazza non soddisfò mai la loro
curiosità in materia. Convinta, per di più, che
ciò che era avvenuto fra lei ed il bizzarro miliardario
avrebbe fatto bene a rimanere nel lungo corridoio tappezzato di arazzi,
lontano da orecchie indiscrete.
Era
accaduto qualcosa fra loro quella notte, d'incerto forse, ma qualcosa
che, per quanto oscurato dall'ombra di un'infantile menzogna, a stento
aveva voluto lasciare il suo cuore nei giorni che seguirono. Non
avrebbe neppure ceduto alla facile tentazione di strappare qualche
informazione sul bugiardo padrone di casa Wayne dai giornaletti
scandalistici che affollavano le sale d'attesa dell'ospedale, sicura
che non avrebbero saputo raccontarle di più di quel momento
d'intimità che l'uomo le aveva mostrato lontano dal pubblico.
L'unico
modo che conosceva per mettere a tacere la coscienza era concentrarsi
sul lavoro, tenendo la mente ben lontana da qualcosa di così
fragile che, con tutta probabilità, non aveva avuto per
Bruce Wayne lo stesso significato che April gli aveva attribuito nei
suoi pensieri.
Così
i giorni cominciarono a scorrere via più facilmente. Nelle
serate libere continuava a farsi coinvolgere dalle colleghe, uscivano
assieme tre o quattro volte a settimana, sperimentando locali e piccoli
ristoranti nei quartieri più moderni di Gotham. Aveva
instaurato ormai un buon rapporto con loro, tanto da considerarle
piuttosto intime amiche, eppure continuava a mentire nelle brevi
telefonate scambiate con sua nonna. Per tranquillizzarla le diceva di
essere felice, di essersi ambientata nella nuova città ed in
un certo senso era vero, eppure una parte di sé, quella che
per anni le era rimasta in agguato nel cuore dopo la morte di suo
padre, continuava a trascinarla irrimediabilmente in una nota spirale
di pensieri. Non aveva importanza quanto si allontanasse da Boston.
Poteva
illudersi di condurre una vita piuttosto normale, ma non c'era uscita
dalla prigione che si era costruita con il proprio dolore. Il rimorso
la teneva incatenata in un passato che odorava di silenzio e di ricordi
stagnanti. Un passato che le calzava così stretto da non
farla respirare, da cui non poteva liberarsi.
Razionalmente
era certa che suo padre non avrebbe voluto questo per lei, avrebbe
preferito saperla felice, serena, libera dal peso della sua morte, ma
d'altra parte suo padre non aveva più occhi per vedere,
né orecchie per sentire ed April rimaneva lì, in
quella palude di ricordi da cui non aveva più la forza,
né la volontà di scappare.
I
giorni divennero settimane, due settimane lunghissime.
Finché una mattina, di fronte al caffè annacquato
della sala medici, Nadine informò le colleghe che la sera
stessa si sarebbe tenuta la chiacchierata riapertura di un piccolo
locale a Ryker Heights, affacciato proprio sulla Wayne Tower. Il
finanziatore era stato ovviamente lo stesso Bruce Wayne, deciso a
mandare un messaggio morale oltre che politico alla
criminalità di Gotham tramite l'ambizioso piano di
riqualificazione della città partito, qualche tempo prima,
proprio dall'infame isola di Arkham.
-
Il mio ex ragazzo lavora lì. – ghignò
con un candore che la lasciò perplessa, poco prima di
mostrare loro degli stropicciati lasciapassare per la serata,
altrimenti strettamente riservata ai soli invitati sulla lista della
WEnt.
Certo,
la prospettiva di un evento che, in qualche modo, coinvolgesse l'uomo
che aveva turbato per giorni la sua concentrazione, non era molto
allettante, ma April non se la sentì di rovinare il
buonumore dell'amica con quelle sue insane elucubrazioni. Per questo
accettò l'invito, tenendo fede alla ritrovata motivazione
che ormai le impediva sempre più spesso di trascorrere le
notti in solitudine nell'appartamento vuoto. Si separarono per il giro
visite con un accordo per una cena fuori ed un taxi per Ryker Heights.
Qualche
ora più tardi, di fronte alla palazzina più
vecchia del quartiere, un freddo inaspettato frustò a
tradimento le guance delle tre ragazze appena scese dallo sgraziato
tassì giallo. Quasi l'autunno avesse già deciso
di battere in ritirata di fronte ai colpi di un precoce inverno.
Nel
cielo stranamente terso la Wayne Tower svettava imponente,
districandosi con la superbia di un rapace fra le architetture della
vecchia Gotham ed i binari sopraelevati della moderna metropolitana.
Eppure la brezza gelida che s'insinuava fra le strade semibuie,
aggredendo le caviglie dei passanti, non sembrava aver scoraggiato le
personalità più in vista della metropoli, accorse
alla riapertura dell'anonimo locale all'angolo della strada sventolando
un invito esclusivo su carta intestata in oro.
Fino
a quel momento insignificante e dimenticato fra i grattacieli in
costruzione a Founders Island per gentile concessione dei colossi
LexCorp e WEnt, il "Founders Lounge" doveva ora la sua nuova vita a
Bruce Wayne. Lo stesso uomo capace di alternare filantropia, scandalosi
avvistamenti abbracciato a modelle europee o ballerine del
Bol'šoj di Mosca, e giornate intere senza mostrarsi in
pubblico, segregato nella solitudine della sua immensa tenuta.
Giornalacci
scandalistici e non poco audaci speaker radiofonici non mancavano mai
di rimproverargli l'assenza di una donna fissa al suo fianco, il
plateale disinteresse per il pettegolezzo e l'ostinata chiusura verso
qualunque evento mondano che non fosse organizzato a soli scopi
benefici.
Eppure,
quella che per tutti i gothamiti sembrava essere più che
altro una bizzarria nel comportamento, un motivo di discussione da talk
show mattutini, April l'aveva interpretata come semplice riservatezza,
una sincera modestia che lasciasse parlare le azioni piuttosto che
equivocabili intenzioni.
L'insegna
al neon sulla facciata tingeva di un tiepido color oro il marciapiede e
l'aria circostante, ma anche una ad una le facce degli avventori che
disciplinatamente scendevano dalle macchine di lusso per lasciarsi
aprire la doppia porta di metallo intarsiato da un azzimato buttafuori.
Arrivò anche il loro turno, mentre nel piacevole tepore
dell'interno il freddo della strada si dissipava in un lontano ricordo.
L'ambiente
era ampio, moderno, soffusamente illuminato dalle poche luci chiare
presenti sui tavolini quadrangolari, distribuiti ad intervalli regolari
in due ampie pedane ai lati corti della sala. Un lungo bancone in marmo
e legno, sottolineato da un'unica striscia luminosa a led bianco e
sormontato da una complessa struttura decorativa in acciaio lucido,
dominava invece il lato destro in tutta la sua lunghezza.
Diametralmente opposto, fra le due pedane, un modesto spazio
semicircolare era occupato da un imponente pianoforte a coda, ancora
deserto. L'unico accompagnamento musicale presente al momento era una
pulsante melodia di sottofondo al cui ritmo parecchie persone avevano
già ceduto, cimentandosi in qualche movimento poco
coreografico al centro della sala.
-
Vi avevo detto che ne sarebbe valsa la pena. Sarà pure uno
stramboide, ma sa il fatto suo quel Wayne. – sorrise Nadine
al suo orecchio, sovrastando di poco la musica.
Sedersi
ad un tavolo sarebbe stato impensabile, considerando la folla ed il
tenore generale di chi aveva già occupato quasi tutte le
poltroncine disponibili. Quindi si limitarono a cercare posto al
bancone in marmo striato senza scoraggiarsi troppo, mentre Nadine
scansionava col piglio di un segugio i giovani baristi per scovare il
suo contatto. Fu lui a trovarla per primo.
-
Hey, Nadine! –
Dall'altra
parte della spianata un ragazzo dal fisico asciutto e slanciato in
camicia da smoking, bretelle nere e farfallino bianco,
accennò un sorriso sghembo ed una strizzata degli occhi
clamorosamente verdi nella loro direzione, mentre le mani scorrevano
indaffarate su uno straccio nel tentativo di asciugare un bicchiere.
-
Mark ... vedo che sei riuscito finalmente a darti da fare anche tu.
– lo punzecchiò lei di rimando, con
un'intimità che poco aveva a che fare con l'amicizia. Eppure
sorrise.
-
Ragazze, questo è Mark. Mark, le mie colleghe: April e
Samantha. –
-
Cosa vi porto, ragazze? – chiese lui in scioltezza, dopo una
fugace stretta di mano. Non era certo il tipo d'uomo che si potrebbe
immaginare accanto ad un medico d'ospedale, piuttosto un punk troppo
ben vestito per recitare in un serie televisiva anni '90. Eppure April
non fece fatica a capire come le braccia tatuate fino alle nocche, la
zazzera corta alla moicana ed i piercing sul viso, si fossero fatti
strada nel carattere ruvido e schietto dell'amica.
-
Tre bicchieri del drink più costoso che hai. –
ironizzò Nadine, impedendo alle colleghe di replicare. Non
c'era dubbio che stesse flirtando con lui, qualunque fosse il motivo e
d'altra parte Mark non ne sembrò affatto turbato. Le resse
il gioco invece, attento a non distogliere lo sguardo vagamente
compiaciuto dalle iridi grigio azzurre della ex compagna.
-
Oh, fidati, non lo volete. Tre Cosmopolitan, siano. –
Si
allontanò giusto il tempo da permettere alle ragazze di
appollaiarsi sugli eleganti sgabelli foderati di pelle color pece,
tornando in tempo record con tre calici da Martini sciabordanti di un
impalpabile liquido rosato. Li posò attentamente uno di
fronte a ciascuna, con la padronanza di chi probabilmente non aveva
fatto altro nella sua vita e aspettò.
-
Ecco a voi. –
-
Come sta andando? Sembra che l'iniziativa abbia dato i suoi frutti.
– esordì Samantha dopo la prima sorsata. Lo chiese
guardandosi intorno, probabilmente solo per rompere il ghiaccio dato
che il ragazzo non dava segni di voler tornare al proprio lavoro, non
in tempi brevi almeno.
-
Bene, in effetti. Solo un po' di casini con i musicisti. –
rispose in un sospiro, abboccando all'amo. Un impercettibile tremore,
all'angolo del suo sopracciglio sinistro, diceva che quel "po' di
casini" gli sarebbero costati una terribile emicrania da lì
a qualche ora.
-
Vi hanno dato buca? – la crudele ironia di Nadine
sembrò affondare di un poco il coltello nella piaga. Forse
era stato proprio quel suo lato così spigoloso a mettere
fine alla relazione fra lei ed il barista dalle nocche tatuate, April
avrebbe voluto chiederglielo. Mark non si scompose, stringendosi nelle
spalle appuntite sotto la camicia bianca.
-
Non proprio. La pianista avrebbe dovuto essere qui fra un'ora. Era in
agenda da mesi, è una tipa piuttosto quotata nel giro, ma si
è degnata di farci sapere di avere un altro incarico solo
dieci minuti fa. Eppure Wayne paga bene ... bé credo sia il
prezzo per aver pestato più di qualche piede qui a Gotham.
–
-
E' davvero così grave? – osservò April
che, fino a quel momento, aveva solo preferito osservare divertita il
curioso linguaggio del corpo dei due ex amanti. Si chiese che razza di
città fosse quella in cui la riqualifica ed il progresso
urbano potessero essere osteggiati tanto apertamente da ignoti
manipolatori. Quanto ancora in basso potesse spingersi.
-
Si, e no. La jazz band arriverà solo intorno a mezzanotte e
io ho un'ora di buco non prevista dal programma. Se la gente decide che
questo posto è troppo noioso e se ne va a bere da qualche
altra parte, la riapertura sarà stata un fallimento. E
indovinate le palle di chi sono in gioco? – rispose Mark
tutt'altro che divertito, massaggiandosi la fronte come per scacciare
un pensiero molesto. Il sorriso sornione di pochi istanti prima aveva
lasciato il posto ad un'unica ruga trasversale al centro della fronte
alta, regalandogli infine l'aspetto dei trent'anni che si portava sulle
spalle.
-
E' presto detto. April qui, si dà il caso che abbia lavorato
come barista e cantante in un lounge bar. –
La
soluzione di Nadine la prese in contropiede come uno sgambetto alla
fine di una maratona, innescando un curioso meccanismo di rifiuto nel
suo cervello. Non avrebbe mai immaginato che di quelle poche cose che
aveva raccontato di sé, una avrebbe finito col ritorcersi
contro di lei con la forza d'impatto di un boomerang. Quel livello
d'intimità non le si addiceva affatto.
La
fulminò con lo sguardo, ignorando l'abbozzato sorriso di
scuse sulle labbra scarlatte, ma il ragazzo era già partito
in quarta.
-
Davvero? E' perfetto. –
-
Oh, no, no. Non tirarmi in mezzo, adesso. – irritata, si
affrettò a posare il bicchiere mezzo pieno sulla
costosissima lastra di marmo e sembrò quasi sul punto di
scappare, qualcosa che aveva già fatto in un altro tempo e
in un altro luogo. Invece rimase seduta sullo sgabello assurdamente
scomodo, mentre il volto di Mark s'illuminava come una lampadina con
troppi watt.
-
Aspetta, aspetta ... prima di rifiutare sappi che mi salveresti il culo
e che i drink li offre la casa. Tutti quelli che prenderete stasera. Si
tratta solo di un paio di canzoni per salvare le apparenze, nulla di
più. Qualunque siano le tue doti, saranno comunque meglio
del niente assoluto. Ti prego. – mercanteggiò
sporgendosi oltre il bancone, tanto che April trattenne di riflesso il
bicchiere temendo che sarebbe caduto, allagando il ripiano.
Soppesò l'offerta per un istante interminabile, un tempo
infinitamente lungo per trattenere il respiro in quella posizione
innaturale, eppure il ragazzo non mosse un muscolo.
-
E va bene. – cedette infine, regalandogli il sollievo di un
sospiro. Non era affatto convinta di aver preso la giusta decisione, ma
a conti fatti si rese conto di non aver avuto poi molta scelta. Odiava
sentirsi alle strette, eppure, mandare tutti al diavolo e lasciare il
locale senza una spiegazione, di certo non avrebbe giovato alla propria
vita sociale. Doveva cambiare, doveva farlo per il rispetto che ancora
nutriva per se stessa.
-
Grazie ... ti faccio un fischio appena il palco è pronto.
– ghignò Mark a denti stretti, lasciando
intravedere il piercing nero sopra gli incisivi e con un'ultima
strizzata d'occhio s'infilò fra gli altri baristi che si
affaccendavano dietro al banco.
La
sua cognizione del tempo finì per annegare in quella
insistente musica di sottofondo, nella penombra del locale, nelle
chiacchiere serrate scambiate con le colleghe. Non avrebbe saputo dire
che ore fossero quando Samantha, accanto a lei, le strattonò
appena il braccio, costringendola a voltarsi.
-
Eccolo là. Bruce Wayne. Non pensavo sarebbe venuto davvero.
Dicono che passi la metà delle sue giornate a riprendersi da
sbornie colossali, e che ogni notte ci sia una donna diversa nel suo
letto. – cercò di sussurrare sporgendosi verso di
lei, mentre accennava all'uomo appena entrato nel locale, alto e
piazzato nel sobrio completo blu scuro. Gli occhi la tradivano, mentre
lo osservava torturarsi i polsini della giacca in un gesto nervoso.
Nonostante Sam fosse fidanzata da anni con un ingegnere edile del
comune, Wayne le piaceva e non solo perché aveva
personalmente finanziato la ricostruzione dell'impresa di suo padre a
seguito di un incendio doloso.
April
non aveva bisogno di ricordarsi di lui. Anche in quella artificiale
penombra avrebbe riconosciuto gli occhi blu, che ora scrutavano la sala
tradendo un sorriso tirato. Ricordava perfettamente anche il loro primo
incontro, avvenuto solo poche settimane prima sotto lo sguardo arcigno
degli inestimabili arazzi di casa Wayne.
Si
era preso gioco di lei, volontariamente, era vero eppure non riusciva
ad immaginarlo come lo ritraevano molti dei rotocalchi da due soldi che
giravano a Gotham. Il modo in cui le si era accostato, quello sguardo
gentile, il sorriso bello e sincero sulle labbra sottili avevano
lasciato una certa impronta nel suo cuore. Sarebbe stato stupido
negarlo, ma non avrebbe mai trovato il coraggio di parlargli quella
sera, assediato com'era.
A
che scopo poi? Appartenevano a due mondi talmente lontani da farle
girare la testa al solo pensiero. April aveva scelto di sacrificare
ogni cosa per essere dove si trovava, aveva trascorso gli ultimi anni
della sua vita ad allontanare qualsiasi occasione di vivere una normale
relazione amorosa ed in quella solitudine si era costruita una nicchia
tranquilla.
Lui
era un uomo impegnato, affermato, ridicolmente ricco, un filantropo con
una strana attitudine all'isolamento. Non era mai apparso ad eventi
pubblici con una fidanzata e, quelle poche volte in cui era stato
accompagnato, non si era mai trattato della stessa donna per
più di due volte di seguito. Quasi s'impegnasse ad apparire
mortalmente superficiale e, con tutta probabilità, era un
uomo infelice. Qualsiasi cosa avesse provato quella notte, nel lungo
corridoio tappezzato d'arazzi, non poteva avere futuro.
Per
questo forse distolse velocemente lo sguardo, avrebbe evitato
d'innamorarsi dell'uomo sbagliato, di farsi consapevolmente del
male.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** ~6~ Voice and strings ***
~6~ Voice and strings
Bruce non riusciva a concentrarsi su nulla di quanto gli
fosse passato davanti agli occhi da quando aveva lasciato la macchina.
L'aria era pesante all'interno del locale. Magari era solo
un'impressione suggerita dalla forzata penombra in cui versava
l'ambiente, eppure lo rendeva vagamente nervoso quasi quel velo
d'oscurità si fosse attaccato alla bocca del suo stomaco.
Si
aggiustò il colletto della camicia, faceva fatica a
respirare e la clavicola destra pulsava ancora terribilmente, persino
sotto la lieve pressione della giacca di costosa sartoria. Mentre
muoveva i primi passi nella calca, di nuovo si chiese se qualcuno
avrebbe notato la difficoltà con cui stava sorridendo da
quando il gorilla all'ingresso gli aveva aperto la porta.
Odiava
quando le persone gli si affollavano intorno a quel modo, soprattutto
se aveva un tarlo conficcato nel cervello a rosicchiare le sue buone
intenzioni. Era un comportamento da bambino viziato, Alfred aveva
ragione, alla sua età avrebbe dovuto acquisire sufficiente
controllo da fingere interesse e gentilezza in qualunque situazione.
Invece si sentiva stiracchiato come carta da parati troppo consumata,
mentre gli invitati di una lista che non aveva redatto si affannavano
in saluti e complimenti.
Sapeva
anche che Vicky Vale era in agguato da qualche parte, in attesa di
coglierlo in fallo e strappargli qualche parola di bocca con la ferocia
ostinata di un felino selvatico. Se solo fosse stato più
crudele le avrebbe confessato che aveva perfettamente capito l'intento
dietro i loro recenti trascorsi a cena.
Prima
di potersene accorgere stava scansionando nervosamente la sala in cerca
di una via di fuga, una scusa qualunque per tornare indietro. Un brutto
vizio che aveva acquisito nel corso degli anni. Senza contare che, di
recente, la sua tolleranza nei confronti delle chiacchiere e delle
tentate interviste scandalistiche aveva raggiunto un minimo storico.
Erano
settimane che si trovava in quello stato d'insofferenza, il peggio era
che ne conosceva perfettamente i motivi. Non era più solo la
sgradevole sensazione che qualcosa stesse sfuggendo al suo controllo,
qualcosa a cui aveva dovuto dedicarsi con la pazienza di un entomologo
per non impazzire. Il suo pensiero era inchiodato ai Panessa Studios,
certo, ma non del tutto.
L'incontro
con la giovane dottoressa l'aveva ossessionato per giorni dopo l'evento
alla tenuta. Oscillava continuamente fra il maledirsi per non averle
chiesto un numero di telefono, e la spietata consapevolezza di aver
fatto la scelta più giusta e quest'altalena di realizzazioni
non aveva fatto altro che peggiorare drasticamente il suo umore.
Ripercorrere,
con la stessa cura che impegnava nel lavoro, il dialogo avvenuto con la
ragazza aveva esponenzialmente acuito il suo desiderio di solitudine.
Si stava torturando pur avendo già preso la decisione di non
cercarla, eppure il ricordo dei morbidi capelli scuri, di quell'unica
ciocca a disegnare la curva sottile del collo, la pelle bronzea
fasciata dal semplice abito lungo, i grandi occhi di quello strano
colore dell'ambra avevano deciso d'instillarsi fastidiosamente in un
punto imprecisato fra le sue costole.
Se
solo ne avesse parlato ancora ad Alfred, era certo che l'avrebbe
tormentato finché Bruce non avesse ceduto, ma lei era
così giovane e Bruce sentiva il peso della
responsabilità schiacciarlo senza via di fuga. Eppure,
almeno nel suo intimo, mentire non sarebbe servito a niente, avrebbe
davvero voluto vederla, ancora una volta.
L'unico
modo che aveva avuto per sfogarsi erano le pattuglie notturne, agire
occupava quasi totalmente i suoi pensieri evitandogli di soffermarsi su
quell'unico insistente ricordo. Aveva preso più che mai
l'abitudine di consumare tutti i pasti nella caverna senza un'apparente
motivo, uscendo allo scoperto solo un paio di volte a settimana. Alfred
non faceva che rimproverarlo, quasi fosse tornato ragazzino, e solo
dopo un'insistenza infinita ed una meticolosa opera di convincimento lo
aveva persuaso a presentarsi quella sera all'inaugurazione.
Scrutava
ancora la sala in cerca di quell'appiglio nel tentativo di evitare un
incontro diretto con la giornalista, che si avvicinava pericolosamente
rapida alla sua postazione; e gli sembrò un crudele scherzo
del destino quando gli occhi azzurri si posarono sui familiari capelli
mogano dall'indescrivibile sfumatura ramata.
Non
poteva vedere molto di lei da quella posizione, riconobbe la linea
gentile del collo, la schiena inarcata per mantenersi dritta anche
sullo scomodo sgabello, i capelli mossi disordinatamente scostati su
una spalla ed il profilo dal naso piccolo e dritto. Non lo stava
guardando, eppure sorrideva, un sorriso che a lui non aveva mostrato la
prima volta e, per un istante, Bruce ne fu sollevato. Sembrava felice.
-
April. Hai detto di averci parlato, vero? - s'interruppe bruscamente
Samantha, lasciando finalmente morire il dettagliato racconto su
tradimenti e vita amorosa di qualcuno che conoscevano a malapena.
Era
leggermente sbiancata ed il bicchiere, dal fragilissimo stelo di vetro,
aveva appena impattato con il marmo del bancone in un sonoro cling. Gli occhi nocciola calamitati in
un punto imprecisato in mezzo alla calca.
-
Con chi? - la rimbeccò April distrattamente, quasi
infastidita da quell'improvviso cambio di toni.
-
Wayne. Hai detto di conoscerlo. -
-
Si, si è vero. Vi ho già raccontato di lui.
Perché? - confermò in un sorriso tirato per
confondere le acque, non voleva parlare di Bruce Wayne, non di nuovo.
Parlarne avrebbe significato ammettere che aveva un debole per lui e,
in tutta franchezza, la sola idea la metteva profondamente a disagio.
Per
questo aveva finto un distacco che non sentiva nei confronti dell'uomo
che sapeva trovarsi da qualche parte in quella stessa sala. Troppo
spaventata dall'idea che le amiche potessero, in qualche modo,
incoraggiarla ad interagire con lui.
-
Perché sta venendo qui. - s'intromise Nadine, con un sorriso
che tradiva una comprensione che per un attimo le diede la nausea.
April non riuscì a raccogliere in tempo le idee per
rispondere che qualcuno interruppe il discorso, facendola sussultare
visibilmente.
-
Dottoressa Holloway? -
Era
difficile da dimenticare quella voce profonda e raspante che, solo
qualche settimana prima, le aveva parlato con inaspettata
intimità. Per un lungo istante l'idea che si fosse liberato
del suo entourage solo per parlarle riuscì a terrorizzarla,
eppure sorrideva quando si voltò a fronteggiarlo. Se solo
fosse stata sola si sarebbe rimproverata per la piacevole stretta al
cuore che aveva provato nel ritrovare i begli occhi azzurri nei propri.
-
Signor Wayne. -
Sorrise
ed era bella come la ricordava. Eppure il lieve sussulto l'aveva
tradita, si vedeva che non era la calca a renderla nervosa e Bruce ne
fu stranamente compiaciuto. Per una volta non si pentì di
aver fatto una scelta azzardata.
-
Si ricorda di me, allora. - la provocò gentilmente,
avvicinandosi ancora. Stava facendo lo smargiasso, ma le dita
torturavano i polsini della camicia sotto la giacca. Se fosse stata
intelligente almeno la metà di quello che credeva, avrebbe
smascherato la sua tensione in un secondo.
-
Questo dovrei dirlo io. - scherzò lei di rimando, facendogli
provare lo strano impulso di dirle che erano settimane che pensava a
quel loro primo incontro.
Erano
anni che non provava un interesse così sincero per qualcuno.
Per quanto preferisse negarlo, una parte del suo cervello si rendeva
perfettamente conto di volere che quegli occhi lo guardassero, senza
vedere nient'altro.
-
Non dimentico facilmente la faccia di chi riesce a farmi strappare un
assegno così generoso. -
Nonostante
quel suo pessimo sfoggio di savoir-faire, fu lieto di vederla ridere
con lui. Togliendolo d'imbarazzo, la dottoressa si affrettò
ad indicare con una stretta di spalle le due ragazze in sua compagnia.
-
Signor Wayne, queste sono le mie college Nadine Johnson e Samantha
Keller. -
-
Dottoresse, è un piacere. Ho la netta sensazione che
potremmo essere già stati presentati. - osservò
distrattamente dopo una fugace stretta di mano. Aveva una precisa idea
di chi fossero, le aveva viste più di una volta accompagnare
ad uno dei suoi eventi il consiglio d'amministrazione del Gotham Mercy.
Ma non avrebbe mai tradito l'aria da perfetto svampito che gli regalava
quel suo modo superficiale di salutare le persone.
-
I suoi party per il consiglio d'amministrazione. Sono mandatori per le
nuove reclute di sesso femminile, un usanza in linea diretta dal
pleistocene. - replicò, con una schiettezza disarmante, la
ragazza dai lisci capelli biondo cenere, le labbra scarlatte tirate sui
denti bianchissimi. Gli strappò un sorriso.
-
Ma certo. Ho sempre avuto il sospetto che non fossero adesioni
volontarie. -
-
Sono felice che siate venute stasera e che lei si sia ambientata
così bene a Gotham. - continuò dopo un attimo di
esitazione e i loro sguardi si annodarono di nuovo, oltre le parole di
circostanza.
-
Oh, certo. È un bel locale. -
Trasse
un sospiro, come se la tensione dentro di lei si fosse finalmente
allentata. Era bella, interessante, anche nel sobrio abitino nero,
anche con quella strana illuminazione ad appiattirne tutti i colori e,
per una volta, Bruce si concesse un'impensabile sciocchezza, dato che i
giornalisti presenti avrebbero potuto mangiarseli vivi con l'edizione
del mattino.
-
Senta, mi stavo chiedendo, le andrebbe di bere qualcosa? Ho un tavolo
riservato che, al momento, non mi andrebbe di dividere con un
giornalista. Potrebbe raccontarmi della donazione, magari. -
azzardò e le parole uscirono più impacciate di
quanto avesse preventivato, mentre si concedeva uno sguardo evasivo
alle spalle per controllare che il tavolino non fosse già
stato assediato. L'invito sembrò coglierla in fallo e per un
attimo parve quasi sul punto di rifiutare.
-
Non mi fraintenda ... mi farebbe davvero piacere, ma ecco ... - si
schermì April con un sorriso tirato, accennando appena alle
colleghe, fin troppo divertite dalla goffaggine di quel loro contorto
approcciarsi. Stava cercando aiuto, anche un idiota l'avrebbe capito.
-
Certo, lo capisco. Non volevo metterla in difficoltà. -
Finse
un certo distacco, eppure dentro di lui l'orgoglio mordeva come un cane
messo all'angolo. Magari si era solo illuso e la ragazza non voleva
saperne di un ricco bizzarro ed asociale come Bruce Wayne. Si
domandò come avrebbe reagito sapendo che quello non era il
completo che utilizzava più spesso.
-
Quello che April voleva dire è che accetta volentieri.
Possiamo cavarcela per qualche ora senza di te, tranquilla. -
s'intromise la bella ragazza dal viso rotondo sotto la cascata di
riccioli scuri, scambiando con la giovane dottoressa uno sguardo fugace
quanto eloquente.
-
In tal caso le farò compagnia volentieri. -
Le
ore seguenti Bruce le trascorse in una sorta di curioso rapimento. Non
ci avrebbe scommesso, ma nonostante la leggera tensione che ne tradiva
i gesti, la dottoressa si lasciò accompagnare al tavolo,
offrire da bere ed in compenso gli mostrò il suo mondo.
Parlarono con un'intesa che l'uomo, con pochissime eccezioni, di
recente non aveva mai sentito nei confronti di una donna.
Era
una donna gentile, intelligente, dotata di una visione piuttosto
precisa del mondo, senza che questo le impedisse di aprirsi a nuove
opinioni. Nutriva una passione invidiabile per il suo lavoro, glielo
leggeva negli occhi che brillavano di un orgoglio in cui non c'era
malizia, mentre raccontava dei motivi che l'avevano spinta a
trasferirsi a Gotham. Non aveva avuto paura di mettersi in gioco, di
scommettere su un ruolo che non le competeva appieno. Sembrava non aver
paura di nulla in realtà e Bruce ne fu piacevolmente
colpito. Era stata infelice, traspariva dalle emozioni che guizzavano
quasi impercettibili sul suo viso, aveva sperimentato la solitudine e
Bruce più di chiunque altro avrebbe potuto capirlo.
Anche
lui finì inevitabilmente col parlarle di molte cose, le
parlò di sé, di quello che voleva, di quello che
avrebbe desiderato per la sua città. Senza andare troppo a
fondo, ignorando le cose più importanti come se non fossero
mai esistite, ma sentiva che per ora sarebbe bastato.
Sembrava
sinceramente interessata ed ammirata, non stava tentando di comprare
né vendere nulla, gli parlò invece con una
franchezza disarmante e piacevole allo stesso tempo. Sorrideva quasi
non avesse mai fatto altro in sua presenza, quasi lo conoscesse da
sempre, quasi avesse sempre nutrito per lui una stima profonda e
sincera.
Lo
fece ridere, riflettere, chiese più volte la sua opinione e
così Bruce desiderò ascoltarla, capirla. Ed i
bicchieri rimasero inevitabilmente pieni su quel loro secondo incontro.
Bruce
Wayne, a dispetto di quanto dicessero i rotocalchi, era un uomo gentile
ed umano. Non c'era nulla di quella sua difesa, di quella ostinata
chiusura di cui tutti parlavano in ciò che le disse quella
sera. Aveva un profondo senso della giustizia ed una visione del mondo
molto netta, magari non sempre praticabile, ma certamente
più onesta di quella di chiunque stesse amministrando Gotham
al momento.
Era
estremamente colto ed intelligente, era chiaro che qualcuno avesse
investito enormi somme di denaro per regalargli un'istruzione tanto
accurata, eppure sentiva che c'era qualcosa di più. Parlava
di Gotham con la dedizione e le aspettative di un padre, quasi fosse
stata da sempre una sua responsabilità.
Si
rivelò un conversatore piacevole ed affabile e
più di una volta April notò che gli occhi azzurri
brillavano mentre le sorrideva.
Non
era solo bello e forte, era modesto e sincero nelle opinioni. La
lasciò parlare, l'ascoltò con estrema attenzione
e così lui le parlò di sé, squarciando
in piccoli punti quel velo di diffidenza che sembrava riservare al
resto del mondo. Non seppe dire da quanto si erano avvicinati, quasi a
sfiorarsi oltre il basso tavolino quadrangolare, ma quando il rumore
del suo respiro le arrivò netto a portata d'orecchio
sentì il cuore balzarle in gola.
Bruce
Wayne ammutolì all'improvviso. La musica si era fatta appena
più pressante nella realtà ovattata di quelle
quattro mura. Forse si era accorto della sua reazione, forse era stato
solo infastidito dal cambio d'atmosfera, era difficile leggergli
attraverso, come sarebbe stato altrettanto facile per lui cogliere la
sua emozione.
Ricordava
l'odore vagamente aspro della sua acqua di colonia, ora lo sentiva
così vicino da riempirle le narici. Per sfuggire
all'imbarazzo, tentò di concentrarsi un istante sulle
ciocche nerissime di capelli che gli ricadevano scomposte sulla fronte,
ma fallì e lo sguardo si legò di nuovo al suo,
così intensamente da darle la nausea.
Il
cuore le batteva talmente forte che per un folle attimo credette che il
suo interlocutore l'avrebbe sentito e si sarebbe messo a ridere. Voleva
scappare, glielo gridava ogni fibra muscolare del suo corpo, in un
ossesso imprecisato di istinti. Invece rimaneva ferma, le gambe di
piombo, assurdamente vicina ad uno sconosciuto.
La
voce di Mark fece sussultare entrambi sui divanetti in pelle ecologica.
-
April, è tutto pronto se sei ancora convinta. -
-
Si, certo. Mi perdoni se la lascio così, signor Wayne, ma
devo andare. In realtà sarò proprio lì
a ... cantare. - sorrise per camuffare la voglia che aveva di sparire
senza guardarsi indietro, evitare ad entrambi l'imbarazzo di scambiarsi
qualcosa di troppo intimo.
-
Cantare? -
Lo
vide alzare un sopracciglio nero, ma non c'era traccia di umorismo
nella sua espressione sorpresa. Se fosse stata più sfacciata
gli avrebbe intimato di andarsene via.
-
Si ... lunga storia. Ci vediamo più tardi, allora. - rispose
in fretta, aggiustando nervosamente sulle cosce il bordo stretto
dell'abito.
-
Certo. A più tardi. - lo sentì sorridere, ma si
era già voltata per seguire Mark in mezzo alla calca di
pigri ballerini e statuarie signore in abito da sera.
Bruce
ci mise un po' a valutare l'idea di raggiungere, insieme agli altri
avventori, lo spiazzo semicircolare occupato dal costoso pianoforte
nero. Come giorni prima, leggendo quei file sul computer della caverna,
si sentì più che mai un intruso nella sua vita.
Per
quanto potessero somigliarsi, per quanto fosse innegabile quella una
sorta di tensione elettrica che invadeva l'aria ogni volta che
s'incontravano, era altrettanto chiaro che viaggiassero in due correnti
diametralmente opposte. Della sua perdita Bruce aveva fatto un voto,
una promessa piena di rabbia e rimorso, qualcosa che aveva guidato la
sua vita in maniera gelosa e totale, che era penetrato così
a fondo nel suo essere da rendere indistinguibile il confine fra
ciò che era giusto e ciò che avrebbe desiderato.
Lei
aveva scelto di rimanere legata ad un mondo a cui Bruce non sentiva
più di appartenere da troppo tempo. Le sue chance di essere
un uomo normale si erano assottigliate a dismisura negli anni, faceva
quello che doveva, lo faceva perché era giusto, ma non era
felice.
Dell'uomo
che a passi lenti si stava avvicinando al minuscolo palco, schivando la
calca, era rimasto poco o niente. Se avesse tenuto davvero a lei,
glielo avrebbe detto, le avrebbe impedito di farsi del male. Invece la
osservò raggiungere trafelata uno degli altri sgabelli del
bar, temporaneamente collocato di fronte al pianoforte, afferrare con
naturalezza la chitarra acustica abbandonata lì accanto e
sistemarsi il più comodamente possibile.
La
folla sembrò accorgersi realmente di quella minuta presenza,
solo quando la prima nota, abbastanza incerta da tradire il fine
tremore delle dita, invase l'aria, seguita poco dopo dalla voce di lei,
densa e delicata allo stesso tempo.
Le
sembrò di vederla per la prima volta. La stessa strana
creatura di prima, gli occhi grandi, il sorriso distratto, i lunghi
capelli mogano nervosamente raccolti sulla spalla destra, non
particolarmente alta in contrasto con l'enorme pianoforte a coda,
eppure sembrava all'improvviso aver acquisito l'autorità e
la saggezza di un essere superiore.
Una
voce chiara, elegante, ma senza troppe pretese, riuscì a
rubare il silenzio in quelle parole misurate, intelligenti abbastanza
da accennare solamente ad un pensiero d'amore.
Bruce
quelle parole se le sentì nelle ossa. Non riusciva a
distogliere lo sguardo, stavano toccando posti di lui che non ricordava
neppure di avere, scavando sentieri nascosti sotto la sua pelle. Solo
in quel momento ebbe la reale percezione di ciò che si erano
impressi l'uno nel cuore dell'altro, senza averne coscienza
né controllo.
Gli
occhi allungati della ragazza trovarono i suoi attraverso la folla solo
sul finire della canzone, in un tempo che parve raggelare fra le luci
polverose del locale. Non riuscì a ricambiare il sorriso,
non aveva neppure deglutito negli ultimi minuti, la paura lo
paralizzava. Paura per lei, ovviamente. Per quello che un suo momento
di debolezza avrebbe potuto significare.
La
vibrazione improvvisa del cellulare nella tasca interna della giacca
interruppe bruscamente il loro scambio di sguardi. Non ebbe bisogno di
vedere chi stava chiamando, per capire che la serata era finita.
Con
una studiata abilità Bruce tornò fra la folla,
eclissandosi in un angolo ben protetto del locale dove potesse parlare
senza essere disturbato.
<<
Signore, il segnale. >> lo avvertì Alfred con
voce monotona, mentre Bruce già accostato ad una delle
vetrate sbirciava fuori.
<<
Lo vedo, Alfred. >> rispose seccamente scansionando il
cielo sopra la Wayne Tower. L'alone polveroso, acceso dal tetto della
GCPD, si stagliava contro il cielo ferendo il manto di nuvole grigie.
In quei momenti la sua mente si metteva in moto alla
velocità della luce, tagliando fuori tutto il superfluo.
Gettò
solo un ultimo sguardo all'interno del locale e all'ovale delicato del
viso di lei, alle labbra che pronunciavano parole nuove. Se avesse
notato la sua assenza non l'avrebbe saputo dire.
Bruce
Wayne sarebbe rimasto, sarebbe rimasto per lei, per dirle tutto quello
che avrebbe meritato, ma non era più Bruce Wayne quello che
trafelato uscì a grandi falcate dal locale strapieno.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** ~7~ He'll be here soon ***
~7~ He'll be here soon
-
E' qui. Non ci credo, è venuto davvero. –
Forse
avrebbe voluto rimanere serio, invece una risatina nervosa gli
scappò dalla gola in un curioso verso gutturale. Bruce si
accostò al ragazzo, appena ventenne, che armeggiava sulla
console dell'enorme computer come faceva ormai da settimane.
-
Devi andare, Tim. Adesso ci penso io. –
Suonò
più come un ordine, che un consiglio di prendersi qualche
minuto di riposo dalla sfiancante attività con cui lo teneva
impegnato da troppo tempo. Sapeva quanto la odiasse, quanto avrebbe
preferito trovarsi insieme a lui nelle lunghe nottate in strada, a
sputare sangue e sudore, strappandosi qualche muscolo di troppo, ma con
la sensazione di aver fatto davvero qualcosa.
Un
tempo era stato come lui, si sarebbe spaccato la schiena pur di fare la
differenza là fuori, una differenza che scorticava le nocche
e faceva ribollire il sangue di morbosa esaltazione. Una cosa a cui si
faceva l'abitudine fin troppo presto.
-
Se pensi di avere tutto sotto controllo ... - azzardò Robin
senza il coraggio di finire la frase, gli occhi azzurri che seguivano
attentamente la lenta discesa dell'elicottero sulla sgangherata pista
d'atterraggio dei Panessa Studios.
Non
gli rispose e Tim non aspettò che lo facesse, ormai lo
conosceva abbastanza da capire quando un discorso era chiuso.
Riaggiustò la mascherina nera sul naso per non rischiare
avvistamenti indesiderati e si avviò verso l'uscita di
quello che, in un tempo non troppo remoto, era stato il salone
principale di uno degli studi cinematografici più importanti
della costa.
Con
la coda dell'occhio Bruce captò il giallo della fodera
interna del mantello baluginare per un istante ancora all'angolo del
suo campo visivo, come se Tim avesse esitato prima di sparire in uno
dei corridoi che collegavano il salone agli studi. Un istante di troppo
e il momento era già passato, qualunque fossero state le sue
rimostranze morirono nel silenzio assordante che li separava.
Prima
che potesse riflettere più a fondo sulla piega infelice che
aveva preso il loro rapporto negli ultimi tempi, una piega che
purtroppo portava il suo nome stampato a lettere cubitali, l'ascensore
si azionò cigolando alle sue spalle in un tonfo di cardini
mal oliati.
Spense
il computer, nascondendo dettagli che ancora non era pronto a rivelare
a chiunque stesse per attraversare la pedana circolare che ronzava
sotto i suoi piedi nell'oscurità azzurrina. Si
accostò all'entrata, lontano dalla luce, più per
abitudine che per reale necessità, e attese.
Jim
Gordon aveva un vizio. Un vizio che aveva il potere di minare
pericolosamente la pazienza di chi aveva intorno. Tamburellava con le
dita. Sulla scrivania, sul mento, sulle gambe, nelle tasche della
giacca, in un tic nervoso che spesso lo alienava dalla
realtà permettendogli di pensare.
Lo
faceva quando qualcosa non andava. Quando annusava qualcosa di losco,
quando i pezzi non si incastravano perfettamente e adesso ... diavolo,
adesso non sapeva nemmeno più se stava guardando un puzzle.
Si
sentì smarrito come un marmocchio quando la grata
arrugginita dell'ascensore si aprì sull'immenso salone. Con
tutta probabilità avrebbe dovuto rappresentare la perfetta
fusione tra la modernità dell'acciaio e lo stile coloniale,
invece assomigliava più al ventre vuoto di un grosso
pescecane morto da decenni e lasciato a marcire in cima a quella
collina.
Come
chiunque altro fosse nato e cresciuto a Gotham, conosceva abbastanza
bene i Panessa Studios da sapere che quella specifica sala avrebbe
dovuto essere vuota, ma non lo era.
Addossata
al fondo, proprio di fronte a lui, era stata forzatamente costruita una
torre di raffreddamento alta almeno quindici metri. Non ne capiva di
computer quanto sua figlia Barbara, ma di sicuro non era un
climatizzatore d'ambienti.
Assomigliava
piuttosto ad un complesso sistema di server connessi, più in
basso, alla plancia di un calcolatore. Da questo si dipartivano poi due
bracci identici, composti ciascuno da tre cubi d'acciaio e collegati
anch'essi, tramite enormi cavi neri, a quell'assurda torre di babele.
-
Che diavolo di posto è questo? –
Le
parole rotolarono via da sotto i baffi grigi con uno schiocco secco,
disperdendosi nel silenzio di tomba muffita senza ricevere risposta.
Era
abituato alle stranezze di Batman, per così dire, ma una
cosa del genere non l'aveva mai vista. Un brivido gli drizzò
i capelli sulla nuca, quando si accorse che cinque dei sei cubi altro
non erano se non celle d'isolamento.
"ATTENZIONE:
Quarantena." Recitava a caratteri cubitali il lato lungo di ciascuna di
esse, quasi facessero parte di uno zoo molto bizzarro, forse
addirittura macabro. Si fidava di Batman, sarebbe stato più
preciso dire che era stato costretto a farlo, ma non l'avrebbe mai
creduto capace di qualcosa di tanto inquietante. E questo era tutto
dire.
Gordon
approcciò le celle una ad una, tentato ed allo stesso tempo
inorridito dalla voglia di guardare all'interno. Il vetro, fino a quel
momento opaco ad ostruire volontariamente la vista, schiarì
all'istante rivelando un'assurda accozzaglia di soggetti. Eppure erano
persone, molto probabilmente rinchiuse in quelle anguste scatolette di
metallo contro la loro volontà.
Un
paio gli sembrarono persino familiari, come quel cantante country con
la faccia stampata su diversi cartelloni in città. Non
riusciva a ricordare il suo nome, Donny, Ronny forse ... aveva poca
importanza, il punto era che Batman stava trattenendo impunemente degli
ostaggi, proprio sotto il suo naso.
Se
l'avesse avuto a portata e se non se la facesse nei pantaloni all'idea
di piantare le nocche nei denti di un armadio in armatura, di certo
l'avrebbe arrestato.
Di
una cosa però era sicuro, nessuno dei prigionieri aveva un
aspetto del tutto normale. Forse era l'effetto di qualche droga
sconosciuta, una di quelle robacce chimiche che si spacciavano al
mercato nero. Magari ce n'era almeno una che avrebbe potuto ridurre la
pelle di quei poveretti come se fosse stata rosicchiata da un topo e
friggergli il cervello allo stesso tempo.
Deliravano
in maniera inquietante, in maniera familiare.
-
Oh, sei tu! Il commissario Noia ... cos'hai fatto alla mia anima
gemella? Immischiati tra di noi e ti inciderò un sorriso
così largo da farti cadere la testa. –
abbaiò la donna a piedi nudi nella cella numero 3, sorrideva
mimando uno sgozzamento e di nuovo a Jim si rizzarono i capelli in
testa. Familiare, l'aveva già detto.
Solo
uno, l'uomo nella cella numero 4, più anziano degli altri
tre, aveva conservato un aspetto del tutto normale. Lo riconobbe
immediatamente. Era Henry Adams, scomparso solo un paio di settimane
prima.
Jim
ricordava perfettamente i volantini appesi nei bar, agli angoli delle
strade e sulla bacheca della GCPD. Ricordava persino gli occhi castani
della nipote, piantati duramente nei suoi, quando era venuta ad
appenderli armata del più profondo disgusto.
-
Commissario? Grazie al cielo! Dovete tirarmi fuori di qui, mi tengono
rinchiuso e mi sottopongono a test continui! Come una cavia! Ma non
c'è nulla di strano in me ... - gracchiò
indicandosi il brutto maglioncino bianco e rosso. Sotto le lenti
rotonde degli occhiali, le iridi azzurre dardeggiavano di paura e
frustrazione ma non un segno che accennasse ad un delirio simile a
quello dei compagni in cattività.
Le
dita di Jim si mossero svelte nella tasca della giacca blu, cercando la
radio trasmittente. Se Batman era impazzito, sarebbe stato compito suo
fermarlo. E che Dio avesse avuto pietà di lui.
Indietreggiò
alla cieca, deciso a tornare sui propri passi, lontano da quella
follia, le unghie che graffiavano sulla plastica del dispositivo e per
poco non gli venne un accidente quando si trovò faccia a
faccia con l'enorme vigilante di Gotham.
Non
l'aveva sentito arrivare. Doveva essere alto quasi due metri, pesare
come un piccolo bastimento e non lo aveva sentito arrivare.
-
Batman ... - boccheggiò, tentando di calmare i battiti
feroci del cuore nella gola. Avrebbe persino imprecato, se l'aria non
gli fosse stata strappata dai polmoni alla velocità di un
pugno in pieno stomaco.
-
Lieto tu sia qui, Jim. Dai un'occhiata. –
Quella
voce sempre calma e misurata lo mandava in bestia, quasi lo avesse
invitato a prendere un tè e non ad un giro turistico di
un'inquietante prigione privata per stramboidi. Tuttavia non avrebbe
mai trovato il coraggio di dirglielo apertamente, per quanto lo stesse
guardando con la tranquillità di una belva ammansita, per
questo lo seguì fino al braccio opposto della struttura.
Quello occupato dai tre individui deliranti con cui aveva
già avuto uno spiacevole
tête-à-tête.
-
Che posto è questo? Chi è questa gente?
– sbottò senza più trattenersi, non
voleva guardarli, non voleva vedere le facce pallide e sfigurate, il
ghigno storto sulle labbra insanguinate.
Batman
sembrò trarre un sospiro, a differenza dei suoi gli occhi
azzurri del Cavaliere Oscuro erano calamitati sull'interno delle celle,
distanti anni luce.
-
Prima di morire, Joker ha inviato sangue infetto a tutti gli ospedali
dello stato. –
-
Si, li abbiamo trovati tutti. – lo interruppe Jim, fingendo
che qualcosa d'indefinito dentro la sua testa non stesse scavando un
buco nelle sue certezze. Perché ne era stato certo fino a
quel momento. Joker era un capitolo chiuso, l'aveva chiuso lui stesso
premendo il tasto dell'inceneritore.
Eppure
quel tarlo gli stava sussurrando che presto si sarebbe pentito di
quella sicurezza, che c'era ancora un prezzo da pagare per le
atrocità che erano state commesse.
-
Ne mancano alcuni. –
-
Come?! – abbaiò senza rendersene conto, il tarlo
aveva smesso di picchiare, in compenso un brivido si era fatto strada
lungo tutta la sua spina dorsale. L'uomo accanto a lui parlava con il
controllo di una statua di sale, ma Gordon riuscì comunque a
percepire la frustrazione che doveva ribollire sotto la spessa armatura.
-
Errori ospedalieri, trasfusioni non registrate. Cinque persone
contagiate, senza cure. Il sangue si è sviluppato a lungo,
le sta alterando. Stanno diventando ... -
-
Joker. – concluse per lui, senz'aver realizzato che l'aveva
già capito, l'aveva capito dal momento in cui li aveva
sentiti parlare. Il suo cervello si era solo rifiutato di accettare una
prospettiva tanto ignobile.
-
Mio Dio ... -
-
E' una forma della malattia Creutzfeldt Jacob, mutata oltre ogni
precedente medico. – continuò Batman, come Jim se
avesse dovuto saperne qualcosa. Ciò che aveva portato Joker
all'involuzione finale, era capace di friggere anche il cervello altrui
e questo era già abbastanza da procurargli incubi a
sufficienza per le settimane, forse mesi, a seguire.
Poi
si ricordò di Adams, il suo viso non portava gli stessi
segni degli altri e la sua percezione del mondo era apparentemente
intatta.
-
Quello sembra diverso dagli altri ... - chiese con un barlume di
speranza, indicando l'ometto nervoso al di là dello
squallido stanzone.
-
Henry Adams. È quello infetto da più tempo, ma
non ha sintomi. È immune al sangue di Joker. Robin sta
conducendo analisi per scoprire il perché. Una cosa
è certa, Henry è la chiave di tutto. –
Batman
misurò a passi lenti lo spazio che li separava, gli occhi
fissi sul prigioniero in uno sguardo indecifrabile. Qualunque cosa gli
frullasse per la testa, si stava comportando in modo strano. Se l'idea
non fosse suonata tanto assurda, Jim si sarebbe azzardato a pensare che
poteva persino avere paura.
-
Ho collaborato! Ho fatto tutto quello che mi avete chiesto! Dicevi che
ci sarebbero voluti pochi giorni ... - piagnucolò l'uomo
oltre il vetro, una protesta che restò inascoltata.
-
Non puoi trattenerlo contro il suo volere. –
Bruce
sapeva che Jim aveva ragione, lo sapeva fin troppo bene, e contro
quella ragione si scontrava ogni volta che metteva piede ai Panessa
Studios, che guardava quegli occhi cedere ogni resistenza e rassegnarsi
inevitabilmente alla follia.
Nel
tentativo di vincere una battaglia contro il tempo, stava sacrificando
fin troppo della sua vita, al punto che forse, a guerra finita, sarebbe
rimasto bene poco per cui sopravvivere.
-
Manca poco, Jim. Non possiamo lasciarlo andare se non salviamo gli
altri. – replicò, sperando che sarebbe bastato a
confondere le acque, a mascherare la reale esigenza che si nascondeva
dietro quella sua ossessiva ricerca. Questa volta non erano solo le
vite degli altri ad essere in gioco.
-
Aspetta ... hai detto cinque, ma ne vedo solo quattro. Ne manca uno.
–
Era
per questo che apprezzava Jim Gordon, per questo aveva scelto di
fidarsi di lui. Aveva fiuto per le menzogne e l'arguzia necessaria a
fare le domande giuste.
Bruce
fissò la cella vuota e sentì raggelarsi il
sangue. Si era sempre illuso di avere il controllo, su se stesso, sul
mondo che si era costruito e così aveva finito per credere
di poter soggiogare la paura, di poter avere il più completo
controllo persino su ciò che più a fondo avrebbe
potuto spaventarlo o ferirlo. Aveva finito per non temere la morte.
La
verità era che esisteva un destino peggiore, un destino con
cui ora doveva confrontarsi.
-
Presto sarà qui. –
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** ~8~ Sold to Mr Wayne! ***
~8~ Sold to Mr Wayne!
April
odiava i periodi di riposo, un odio che le si era insinuato dentro con
la determinazione di una pianta infestante, durante gli anni di
solitudine trascorsi a Boston. Tuttavia non aveva potuto ignorare la
calda raccomandazione da parte dei suoi superiori di restare a casa per
un paio di giorni, evitando futuri grattacapi al consiglio
d'amministrazione al momento della stesura del bilancio aziendale.
Erano
trascorsi tre giorni ormai dalla sera dell'inaugurazione, in cui Bruce
Wayne si era defilato senza neppure salutare, lasciando a bocca
asciutta giornalisti ed ammiratori.
Negare
che la sua improvvisa sparizione non l'avesse in qualche modo turbata
sarebbe stato immaturo, eppure dalle sue passate esperienze aveva
imparato a non fare affidamento sulle proprie sensazioni in fatto di
uomini. Se si fosse illusa, anche solo per un istante, che entrambi
avevano provato qualcosa seduti a quel tavolo, sarebbe entrata in una
spirale di dubbio senza uscita. Qualcosa in cui non voleva cadere,
semplicemente perché non aveva voglia, né tempo
di affrontare.
Infondo,
quello del signor Wayne, era stato un comportamento più che
prevedibile, perfettamente allineato con il ritratto che si era
costruito nell'immaginario di chiunque. Un personaggio tanto scostante
in merito alla permanenza agli eventi mondani, quanto presente ed
impegnato sul versante politico ed imprenditoriale di Gotham.
Le
colleghe evitarono di toccare l'argomento con la circospezione di
soldati su un campo minato, a volte persino in maniera goffa, quasi
imbarazzata. Forse in virtù del senso di colpa per averla
spinta ad accettare l'invito dell'uomo che tanto improvvisamente era
apparso, quanto in fretta si era volatilizzato.
Più
volte cercò di rassicurarle, di rassicurare anche se stessa.
Aveva ben chiara l'idea di essere stata per lui una semplice
alternativa alla compagnia di una manciata di giornalisti d'assalto.
Non avrebbe dato a Bruce Wayne il potere di ferirla.
<<
April, non ti lascerò trascorrere chiusa in casa due
preziosissimi giorni di ferie. Solo perché io e Nadine
stiamo lavorando non significa che tu abbia il diritto di abbrutirti in
questo modo. Devi uscire, vedere gente. >> la
rimproverò Samantha all'altro capo del ricevitore,
lasciandosi sfuggire una punta d'invidia nel tono squillante.
Aveva
pagato la propria distrazione nel lasciare acceso il cellulare con una
tirata d'orecchi a cui non era affatto abituata. A stento trattenne un
moto d'orgoglio, mentre le dita picchiettavano nervosamente intorno
alla tazza di caffè.
<<
Te ne pentiresti, dammi retta. >> continuò poi
più dolcemente per non lasciare che l'argomento morisse
insieme al suo ostinato silenzio. Forse Samantha aveva ragione, la
solitudine non le avrebbe ridato il controllo sulla sua vita, ma
ammetterlo sarebbe stato molto più doloroso di quella
stoccata al suo nervo scoperto.
<<
A quanto pare non ho scelta. Cosa proponi? >>
La
proposta in realtà era semplice: le sarebbe bastato infilare
un abito da cocktail ed accompagnare lei ed il fidanzato, Lester
Morgan, ad un'asta letteraria alla biblioteca pubblica di Gotham.
Nadine,
d'altro canto, era riuscita abilmente a trarsi d'impiccio grazie ad un
inspiegato recente ritorno di fiamma per il tatuato barista Mark.
Rimaneva perciò ad April l'onere di assumere il ruolo di
terzo incomodo, idea che non le suonava poi così allettante.
Eppure,
poche ore più tardi, seduta nel retro sgangherato di un taxi
diretto a Bleake Island, attendeva di veder comparire oltre il
finestrino appannato l'imponente struttura greco-romana della
biblioteca pubblica.
La
Gotham Public Library era una delle istituzioni più antiche
e più belle della città. Vantava, nella sua
costruzione, la mano degli architetti storicamente più
famosi dello stato ed enumerava una collezione bibliotecaria pari
soltanto alle sorelle Harvard e John Hopkins.
L'imponente
facciata in marmo riprendeva lo stile ateniese molto in voga nel 1800,
con un colonnato di dodici fusti grandi come un tronco d'albero e
sormontato da un timpano triangolare fregiato con scene tratte dalla
fondazione di Gotham. Ai due lati della struttura principale si
distaccavano due piccole ali pressoché identiche, una delle
quali ospitava gli uffici del personale, nell'altra invece venivano
conservati, a temperatura e pressione adeguati, i testi più
antichi.
Oltre
due immense porte in bronzo cesellato, sempre aperte a rivelare una
doppia entrata in moderno plexiglass, si apriva l'immenso salone
centrale. Un unico spazio rettangolare in stile tardo coloniale su cui,
lungo l'intero perimetro, prendevano vita cinque piani sovrapposti
completamente ricoperti di scaffali stracolmi ed esposti al ventre
vuoto dell'ala principale.
In
alto, sospeso almeno venti metri sopra le loro teste, un lucernario
blasonato in semplice vetro bianco apriva la prospettiva sui tenui
colori rosa e giallo del tramonto. Nonostante la luce si stesse
già affievolendo, i colori neutri della sala, tendenti al
bianco e all'oro, regalavano la piacevole illusione che l'intero
ambiente godesse di un'illuminazione naturale, mascherando
perfettamente le discrete lanterne in bronzo dislocate su ciascun piano.
Al
posto delle scrivanie da consultazione, sul semplice pavimento in marmo
bianco, decorato a geometrie nere, erano state collocate abbastanza
sedie da ospitare un centinaio di persone, un leggio per il banditore
ed un rinfresco nelle nicchie ai lati.
Un
lieve colpo di martelletto segnò l'inizio dell'asta,
annunciando ai mariti attardatisi al buffet dei liquori che era il
momento di tornare alle consorti impazienti, già a proprio
agio sulle sedie foderate di broccato rosso.
April
e i suoi accompagnatori, non disponendo delle finanze necessarie
neppure a pensare di depositare un'offerta, rimasero in disparte a
fondo sala, chiacchierando a bassa voce e godendo dell'atmosfera
volutamente sommessa.
Si
susseguirono un numero impressionante di pezzi antichi, prime edizioni
che sarebbero state più adatte alla vita di un museo che
alla casa di un privato collezionista. Eppure il tempo scorreva
stranamente rapido fra i cenni e i bisbigli dell'asta, interrotti
solamente dagli annunci periodici del banditore in livrea bianca.
April
sorrideva da un po', sorseggiando il flute pieno di champagne solo fino
a metà, come si addiceva alle buone norme dell'aristocrazia,
ma il suo interesse per la conversazione era morto da tempo.
Per
quanto fosse un uomo senza dubbio onesto e capace di trasmettere
l'illusione di un certo controllo sulla propria vita, Lester Morgan era
fin troppo noioso per quei suoi trentaquattro anni che svanivano
inevitabilmente sulla precoce stempiatura dei capelli biondicci e i
grandi occhiali rotondi.
Parlava
del proprio lavoro al comune col tono misurato di chi sa di essere
indispensabile e non vuole in alcun modo sforzarsi di nasconderlo, cosa
che, dopo venticinque minuti buoni di conversazione, era riuscita a
trasmetterle un vago senso di nausea.
Per
un po' Lester aveva chiesto una sua opinione, si era interessato alla
sua vita, poi il discorso era deragliato in un monologo da cui la
ragazza, a differenza di Sam, era rimasta totalmente estranea.
Lo
sguardo le si smarrì nella sala, vagando fra gli incredibili
spazi disegnati dalle sottili colonne in stile corinzio, le graziose
geometrie prodotte dalla luce che rimbalzava sull'oro discreto delle
decorazioni ed i volti compassati dei presenti.
Finché,
d'un tratto, le iridi distratte non trovarono per caso quelle di Bruce
Wayne oltre la folla.
Bruce
ricambiò il sorriso impacciato della ragazza con uno
altrettanto goffo, mentre le dita sottili di lei si alzavano appena in
un timido cenno di saluto.
Prima
di poter riflettere si stava già facendo largo fra gli
invitati per raggiungerla e fu sorpreso di scoprire che anche la
giovane dottoressa si era affrettata a coprire la distanza che li
separava, incontrandolo a metà strada.
La
osservò prendere un respiro, le guance appena più
rosse ed i familiari occhi d'oro che brillavano, quando incontrarono i
suoi finalmente lontani dalla confusione.
-
Signor Wayne ... avevo letto della sua leggendaria avversione per gli
eventi mondani, eppure continuiamo ad incontraci. –
esordì con un sorriso che tradiva qualcosa di molto
più profondo dell'ironia e Bruce ne fu stranamente sollevato.
-
Potrei dire lo stesso di lei, dottoressa. Non ero il solo a nascondermi
in corridoio qualche settimana fa. –
-
Touché. –
Gli
occhi di lei saettarono altrove per un attimo, sull'abito di seta blu,
nella sala dove i rumori dell'asta e le chiacchiere sommesse del
pubblico saturavano lo spazio di un costante brusio.
-
Ha intenzione di fare qualche offerta? – le chiese
aggiustandosi i polsini dello smoking in un gesto nervoso. Avrebbe dato
qualunque cosa pur di liberarsi di quella morsa allo stomaco, della
profonda insicurezza che sentiva ogni volta che si incontravano.
-
Mi piacerebbe, ma il mio conto in banca non sarebbe d'accordo. No, sono
qui su invito di una coppia di amici. Lei piuttosto, ha già
comprato qualcosa? – sorrise di rimando con una certa
naturalezza, ma le dita sottili si stringevano alla pochette nera come
per aggrapparvisi.
-
Quasi tutto, direi. Forse avrei dovuto lasciare più spazio
agli altri offerenti. – rispose a voce più bassa,
il solito tono da miliardario svampito che ormai faceva sempre
più fatica a lasciare a casa. Non voleva giocare con lei, ma
era difficile ricordare chi fosse Bruce Wayne sotto l'ingombrante
presenza di Batman.
La
dottoressa alzò un sopracciglio scuro, senza distogliere lo
guardo, il resto del viso impercettibilmente più teso, ma
non proferì parola.
-
Conosco quell'espressione, ha appena pensato che mi sia comportato da
ricco idiota. –
Bruce
attese un moto di disgusto che non le si presentò mai alle
labbra, fu sorpreso invece di sentirla ridere.
-
Mi creda, non ho pregiudizi su chi è sfacciatamente ricco.
–
Gli
aveva appena dato dell'idiota. Giusto. Non poteva certo biasimarla, ma
si lasciò comunque scappare un ghigno di sollievo.
-
Sono dei bei pezzi, capisco perché li voglia nella sua
collezione. – continuò poi più
dolcemente e non poté che perdonarle quel fraintendimento
poco lusinghiero. In fondo non le aveva mostrato altro che la pessima
imitazione di un uomo frivolo e scostante.
-
Non è per questo. I fondi raccolti andranno direttamente
nelle casse delle scuole pubbliche di Gotham. Non c'è niente
di meglio di un po' di sana competizione per convincere qualche
portafogli ad aprirsi. – soffiò Bruce divertito,
quel tanto che bastava a nascondere l'insicurezza. Eppure, come qualche
sera prima, lo sguardo della ragazza si annodò al suo
così stretto da togliere il respiro. Non se lo sarebbe mai
aspettato, non da lei almeno, ma la mano piccola e curata si sporse
appena a toccare la manica della sua giacca.
-
Lei è un brav'uomo, signor Wayne. Non permetta a nessuno di
dirle il contrario. –
Accadeva
qualcosa fra loro ogni volta che parlavano, non era sicuro che anche la
ragazza ne fosse consapevole, ma aleggiava nell'aria con il ronzare di
una scossa elettrica.
Era
difficile ignorare quanto fosse bella, distogliere gli occhi dalle
labbra rosee, dalle ciocche scure, sfuggite alla treccia morbida sulla
spalla per disegnare con naturalezza la linea esile del collo, l'ovale
del viso.
Le
doveva una spiegazione, doveva farlo per il poco rispetto che ancora
nutriva nei confronti dell'uomo che era diventato.
-
Senta, per quanto riguarda l'altra sera ... - si fece coraggio non
appena riuscì a deglutire di nuovo contro la gola riarsa, ma
le parole morirono a mezz'aria quando la voce del banditore d'asta
sovrastò la sua, facendoli sussultare.
-
... ovviamente tutto questo non sarebbe stato possibile senza l'aiuto
del CEO della più florida impresa di Gotham, Bruce Wayne.
Signor Wayne, la prego, solo due parole. –
Decine
di volti s'intromisero contemporaneamente in quel loro intreccio di
sguardi, costringendoli a battere in ritirata. Si scambiarono solo un
goffo cenno d'intesa, prima che Bruce Wayne si tuffasse di nuovo nella
confusione per raggiungere il massiccio leggio in legno di ciliegio.
Anche
volendo, April non avrebbe potuto dire un bel niente per trattenerlo
mentre il cuore finalmente decelerava lasciandola respirare. Per
qualche istante ancora, guardò Wayne, alto e bello nel
costoso smoking, accostarsi al microfono e ringraziare i presenti, ma
non stava più ascoltando.
Parlare
con lui riusciva a confonderla in maniera sgradevole, come se alla fine
tutto si riducesse ad un loro scambio di sguardi e silenziosamente, a
quegli occhi blu, April riusciva a confessare cose di se stessa che non
avrebbe voluto portare alla luce.
Non
sarebbe tornata da Lester e Samantha, non per sentirsi chiedere se
conosceva Bruce Wayne e che cosa si fossero detti. Un comportamento
estremamente maleducato da parte sua, lo sapeva, ma preferì
comunque allontanarsi dalla sala per curiosare oltre la massiccia porta
in noce che conduceva all'ala sinistra della struttura.
A
differenza del salone principale, il nuovo ambiente non era altrettanto
ben illuminato e gli occhi dovettero adattarsi al repentino cambio di
luce prima che la ragazza riuscisse a realizzare dove si trovava. Un
familiare odore di polvere e umidità aleggiava nell'aria
ferma, estremamente fredda, di quello che assomigliava più
ad un museo in miniatura che ad una sala di lettura.
Decine
di moderne vetrine in plexiglass scandivano lo spazio spoglio,
monocolore, dominato da un imponente soffitto di architravi a vista. Il
silenzio era assoluto, come se all'improvviso qualunque cosa chiusa al
di fuori fosse stata ingoiata in un vuoto cosmico e ovattato.
Curiosò
a lungo fra le sottilissime pergamene incartapecorite, gelosamente
custodite sotto gli spessi strati di vetro. Senza fretta, quasi avesse
tutto il tempo del mondo mentre, ad ogni passo, il marmo candido
schioccava sotto la spinta dei tacchi sottili ai suoi piedi.
Poi,
nel silenzio, i cardini della doppia porta cigolarono di nuovo,
gettando sull'interno in penombra una netta falce di polverosa luce
bianca. Col respiro bloccato nei polmoni, April cercò di
pensare ad una scusa plausibile in tempo record, ma da sempre era una
pessima bugiarda e la prospettiva di un richiamo, con annessa
figuraccia, le sembrò pericolosamente vicino.
Ma
non era un guardiano l'uomo in smoking che si faceva avanti nella
penombra, esiliando di nuovo i rumori della sala dietro una porta
chiusa.
-
Ecco l'uomo del momento. – ghignò per dissimulare
il sollievo, mentre a passi pesanti Bruce Wayne copriva la distanza che
li separava guardandosi intorno. Non ci aveva mai riflettuto davvero,
ma, considerando la disarmante bellezza di cui disponeva, era strano
che non fosse sposato.
-
Così pare. – rispose con un sorriso distratto, gli
occhi blu che volarono colpevoli sulle scarpe lucide, nere come pece.
Era
bello di una bellezza malinconica. Avrebbe potuto avere qualunque donna
della città al suo fianco e forse l'aveva avuta, ma qualcosa
stonava in sottofondo, rimaneva distante dal resto, per quanto fosse
abile a fingersi Bruce Wayne, l'eccentrico miliardario.
-
Mi chiedevo dove fosse finita. –
Si
fermò di fronte a lei, sovrastandola e questa volta April
preferì non incontrare il suo sguardo, non dopo le sue
recenti considerazioni. Ignorando semplicemente il fatto che fosse
tornato a cercarla, ma non era per il freddo che stava tremando.
-
Vecchie abitudini ... ho voluto curiosare un po' in giro. È
una bellissima biblioteca. –
-
Lo è. –
Frasi
di circostanza, poi nient'altro. April si ritrovò a contare
i secondi di silenzio, uno poi due, poi tre. Si sovrapponevano
perfettamente ai battiti pesanti del suo cuore e per un attimo credette
che sarebbe finita lì, che ognuno sarebbe tornato alla
propria vita.
Perché
avevano entrambi voglia di scappare, ma, invece di assecondare
l'istinto, Bruce Wayne sfilò la costosa giacca di sartoria.
-
Ecco, tenga questa. Fa piuttosto freddo qui dentro. –
gracchiò posandola gentilmente sulle sue spalle nude. Un
brivido le corse lungo la schiena e, per un folle attimo, si chiese se
il leggero profumo di colonia sarebbe rimasto sul suo abito quando
fosse tornata a casa.
-
Grazie ... –
-
Immagino di non essere il primo a dirlo, ma lei è davvero
molto bella. –
Non
sorrise nel pronunciare quelle parole, le sopracciglia aggrottate come
a rimproverarsi qualcosa, eppure negli occhi blu brillava una luce che
forse non era esistita prima di quel momento.
April
avrebbe voluto essere diversa, abbandonarsi per una volta a quello che
stava accadendo senza pensare, invece il suo cervello lavorava alla
velocità di un frullatore impazzito.
-
Grazie. In realtà ... non so cosa dire. Non succede
così spesso come crede. La verità è
che cerco di evitare interazioni come questa. –
boccheggiò stringendosi nella giacca nera, la fodera interna
che frusciava a contatto con la seta dell'abito ricamato.
-
E quali sarebbero? – ghignò di rimando il signor
Wayne, quasi a prenderla in giro, ma se fosse stato ferito da quel suo
passo indietro non lo diede a vedere. Non l'avrebbe mai ammesso, ma
quel suo modo di deviare l'attenzione riusciva spesso a ridarle un po'
di coraggio.
-
La prego, non si prenda gioco di me. Non sono brava in queste
situazioni. –
-
Mi creda, neppure io –
Stava
ancora sorridendo, mentre le dita volavano distrattamente a grattarsi
una guancia ispida. Non gliela avrebbe mai data a bere, nemmeno in
mille anni.
-
Lei? Il playboy scapolo più ambito di Gotham? Mi riesce
difficile crederlo. – lo rimbeccò, forse un po'
troppo audacemente, ma non poteva che fare fatica ad accettare quel suo
goffo modo di approcciarsi, quasi avesse avuto paura di lasciarsi
scappare la verità fra una frase e l'altra.
Era
ben protetto il cuore di Bruce Wayne, non solo dalla maschera di
bizzarro miliardario che portava ostinatamente indosso, ma dietro una
profonda indecisione, un vago senso di noncuranza.
-
E' così che mi vede? Forse mi sta giudicando troppo in
fretta, dottoressa. Non creda a tutto quello che scrivono di me i
giornali. –
Rise
di nuovo Bruce per allontanare il fatto che avesse ragione, sapeva che
non ci sarebbe cascata. Poteva sentire gli occhi chiari della ragazza
soppesarlo attentamente nella penombra.
Per
un attimo credette che l'avrebbe rimbeccato di nuovo, invece trasse un
sospiro.
-
Certo che no. Ha ragione, mi scusi. Non volevo essere maleducata.
–
-
E' stata onesta, non capita molto spesso qui a Gotham. – e lo
pensava davvero, probabilmente si meritava la sua diffidenza, ma non
riusciva comunque a non cercare i suoi occhi, cangianti dall'oro al
bronzo alla luce ronzante delle plafoniere ai lati della stanza.
Si
guardarono a lungo nel silenzio assordante che sapeva di muffa e
polvere, vicini, più vicini di quanto non fossero mai stati.
Ascoltò i respiri sovrapporsi, diventare uno nella condensa
che riempiva lo spazio sempre più esiguo fra loro.
Avrebbe
dovuto allontanarla, non permettere al cuore di intromettersi nei suoi
doveri, invece stava lasciando che quegli occhi gli si imprimessero a
fondo, nella carne, che entrassero in circolo e guardassero in posti di
lui che non doveva mostrare.
Respirò
il profumo di fiori confondersi a quello della sua colonia e si
sentì in trappola. Era così vicina da poterne
avvertire il calore sulla pelle, sarebbe bastato allungare le dita per
toccarla ma era innegabile che la ragazza condividesse le sue paure, i
suoi stessi dubbi, il leggero tremito l'aveva tradita.
-
Sembra quasi abbia voglia di scappare. – azzardò
fingendo una sicurezza che non possedeva, non voleva trattenerla, non
le avrebbe mai fatto del male. Il suo silenzio punse più di
un rifiuto. Stava aspettando qualcosa che Bruce non poteva darle.
-
Ha la mia giacca, eppure continua a tremare. –
-
Invece lei sembra perfettamente a suo agio, quasi l'avesse fatto altre
volte. –
Gli
occhi saettarono lontani dai suoi in un secondo, il volto
improvvisamente teso, le labbra contratte. Si era accorta che stava
giocando con lei e non le era piaciuto.
-
Perché sta alzando un muro fra noi, dottoressa? –
Era
vero, April stava ponendo una strenua resistenza a lasciarlo entrare,
non riusciva a fidarsi di quell'immagine da giovane miliardario dagli
occhi sfuggenti che voleva propinarle.
Eppure
quella scoperta bugia riuscì comunque a ferirla. Troppe cose
aveva trascurato negli ultimi anni, troppe erano sfuggite volente o
nolente alla sua attenzione ed April non aveva mosso un dito per porvi
rimedio, aveva semplicemente lasciato andare, forte delle sue
convinzioni.
-
Senta come mi batte il cuore, April. Le sembra che sia a mio agio?
– gracchiò accigliato, mentre le dita,
inaspettatamente ruvide, bollenti afferravano quasi sgraziatamente le
sue bloccandole al centro del suo petto. La ragazza ebbe la netta
percezione che il viso fosse in fiamme, mentre, sotto la camicia
immacolata, il cuore di lui batteva al ritmo di un treno in corsa.
Per
quanto quel gesto avesse azzerato all'improvviso le sue connessioni,
non gli avrebbe permesso di fare giochetti con lei, di trascinarla in
qualcosa in cui non voleva impegnarsi.
-
Perché mi dice queste cose, signor Wayne, se lei
è il primo a nascondere qualcosa? Chiunque sano di mente
capirebbe che il resto è tutta una messinscena. Come posso
crederle? –
Ritirò
in fretta la mano, sfuggendo alla sua presa, gli occhi nei suoi,
azzurri, intensi. Non le stava dicendo la verità, non le
stava dicendo un bel nulla.
-
Mi sta chiedendo qualcosa per cui non ho una risposta. –
evitò accuratamente la domanda, quasi avesse ripetuto la
scena decine di volte, un copione già scritto per una donna
diversa. Di nuovo ebbe la più assoluta certezza che
quell'uomo le avrebbe fatto del male, se solo glielo avesse permesso.
Per quanto avesse provato, era sicura che in lui niente sarebbe mai
stato trasparente, spontaneo.
Un
istante ancora attese una risposta che chiaramente non voleva darle. Lo
vide indietreggiare di un passo per lasciarle spazio e capì
che la discussione era finita.
Non
l'avrebbe mai lasciata entrare ed April aveva troppa paura per poter
combattere quella battaglia, perdere avrebbe significato arrendersi ad
una consapevolezza in cui la ragazza non voleva guardare, in cui non
voleva vedersi. Preferì scappare, stessa scena, diversa
ambientazione.
-
Ora devo proprio andare, mi scusi. Grazie mille per la giacca, e per la
bella serata. –
Tentò
di fermarla, mentre liberava le spalle dalla giacca per restituirla al
legittimo proprietario, ma non si sfiorarono.
-
Quando posso rivederla? –
-
Buonanotte, signor Wayne. – sorrise e non si
guardò indietro.
Avrebbe
solo voluto mettere una distanza più ampia di poche sale fra
sé e quello che l'uomo le aveva detto fra le pergamene
incartapecorite, ma soprattutto da quello che aveva provato avendolo
accanto.
Afferrò
sgraziatamente il cellulare dalla microscopica borsetta, quasi
imprecò mentre le mani, che ancora tremavano, persero la
presa rischiando di lasciarlo impattare col suolo. Scrisse un messaggio
frettoloso a Samantha, scusandosi per la sua improvvisa sparizione, che
non si sentiva bene ed avrebbe preferito tornare a casa.
Finché
finalmente raggiunse l'uscita e rallentò la corsa, lasciando
che l'aria fredda della sera le ferisse i polmoni.
-
Dottoressa Holloway? –
Il
richiamo la scosse e per un attimo credette che qualcuno l'avesse
pizzicata a scapicollarsi fuori dalla biblioteca come una forsennata.
Con estremo sollievo notò invece che ad averla trattenuta
era un uomo sulla settantina, in elegante livrea nera. Sorrideva
tranquillo, guardandola di sbieco attraverso gli occhialetti rotondi.
-
Si? –
-
Lei non mi conosce, sono Alfred Pennyworth. Il maggiordomo del signor
Wayne. –
-
Ma certo, mi ricordo lei. – sospirò abbandonando
di un poco la tensione, eppure faticava a comprendere il motivo di
quell'approccio data la loro totale mancanza di rapporti fino a quel
momento.
-
Lasci che l'accompagni a casa, signorina. Gotham è
pericolosa a quest'ora. – sorrise indicando la berlina nera a
pochi passi da loro, prendendola in contropiede. Fino a pochi istanti
prima l'unica sua preoccupazione era stata lasciare la biblioteca il
più in fretta possibile, solo ora l'uomo l'aveva messa di
fronte alla sua totale assenza di un piano di ritorno.
Dovette
interpretare il suo silenzio come un rifiuto perché
continuò più ostinato, aprendo la portiera.
-
Insisto. –
-
Va bene, grazie. – cedette infine. Doveva essere stato il
signor Wayne a mandare il maggiordomo a cercarla, a preoccuparsi che
non tornasse sola a casa. Un gesto goffamente premuroso che
riuscì a strapparle un sorriso, mentre si accomodava sullo
spazioso sedile posteriore e Alfred Pennyworth prendeva posto alla
guida.
Trovò
casa sua senza problemi, quasi conoscesse Gotham alla perfezione e solo
quando la macchina si fu arrestata e l'uomo tornato ad aprirle la
portiera, April infranse il lungo silenzio in cui avevano viaggiato.
-
La prego, dica al signor Wayne che mi dispiace, che non è
solo colpa sua. –
-
Riferirò. – sorrise quasi sapesse, quasi fosse
stato altre volte spettatore di una stessa scena ed in qualche modo
sentì che era dalla sua parte.
-
Vorrei davvero che le cose fossero andate diversamente. –
confessò quello che non era riuscita a dire all'uomo rimasto
alla biblioteca. Avrebbe voluto essere diversa, aver provato qualcosa
di diverso, qualcosa che l'avesse indotta a restare, a porre un lieto
fine su quel loro incontro.
-
Buonanotte e grazie ancora. Di tutto. –
Non
aveva bisogno di risposte, l'uomo aveva capito e lo seppe per certo
mentre la salutava, dritto sul marciapiede annerito dalla persistente
umidità.
-
Buonanotte, dottoressa. – gracchiò educatamente,
gli occhi azzurri nei suoi finché l'immagine non
sparì, ingoiata dalle pesanti doppie porte del palazzo di
mattoni con la scala antincendio a vista.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** ~9~ Who's afraid of a machine gun? ***
~9~ Who's afraid of a machine gun?
Nei
giorni che seguirono l'autunno morì prematuramente,
lasciando che un bizzoso inverno s'instillasse con prepotenza fra le
strade affollate in un perpetuo viavai. I gothamiti ormai battevano i
denti nelle giacche ancora ostinatamente leggere ed un cielo color
piombo si era appiccicato alle cime dei palazzi come un manifesto ormai
sbiadito dalle intemperie.
Il
gigante brunito che, il giorno del suo arrivo in treno, si stiracchiava
nella luce riflessa dei grattacieli oltre il finestrino, era entrato
all'improvviso in una curiosa stasi di nebbia e umidità,
quasi fosse precipitato sul fondo dell'oceano.
Fuori
dalla grande vetrata, all'ultimo piano della tozza palazzina
all'incrocio fra la settima e l'undicesima, i giorni si confondevano in
una bruma biancastra che risaliva imperterrita la facciata di mattoni,
poi la scala antincendio, su fino al cornicione consumato dal vento e
dalle piogge notturne.
Sarebbe
stato facile, nella realtà sfilacciata di quel purgatorio di
umidità e inquinamento, credere che le ultime settimane non
fossero state nient'altro che un sogno.
Dove
in lontananza si disperdeva la luce azzurrina che disegnava, giorno e
notte, la gigantesca W in cima al grattacielo delle Wayne Enterprises,
perdeva consistenza anche il ricordo dell'uomo che aveva preso la
spiacevole abitudine di entrare ed uscire dalla sua vita a piacimento.
Era
stato davvero così semplice per Bruce Wayne? Bello da far
girare la testa, atletico e miliardario?
Lo
era stato di sicuro. Più ripensava a quello che era
successo, più si stupiva di essere caduta in quel trucchetto.
Qualche
sguardo languido ben assestato, chiacchiere pretenziosamente intime di
fronte ad un cocktail e ci era cascata con tutte le scarpe. Non sapeva
un bel niente di lui, a parte qualche informazione che avrebbe potuto
facilmente reperire su internet o su un qualsiasi giornaletto
scandalistico da due soldi.
Quello
che non riusciva a capire era il perché continuasse a
cercarla, solo per tenerla meticolosamente fuori dalla propria vita con
la precisione ossessiva di un chirurgo.
Le
relazioni amorose non erano mai state il suo forte, ma sapeva per certo
che escludersi vicendevolmente a quel modo non era un buon modo per
iniziare ed April aveva la sua parte di colpa. Non sapeva quello che
voleva da se stessa, figuriamoci ciò che avrebbe voluto da
lui.
Lambiccarsi
il cervello, d'altra parte, sarebbe servito ben poco alla propria
autostima e con l'ospedale in subbuglio di certo non poteva prendersi
il tempo necessario per rifletterci in tutta calma.
Pronto
soccorso e reparto d'urgenza venivano giornalmente subissati da numeri
impressionanti di piccoli delinquenti e tirapiedi della peggior specie,
tutti con in comune una storia da raccontare.
Ossa
fratturate, lividi, tagli e denti fuori posto. Con il terrore negli
occhi confabulavano di un gigantesco pipistrello, il misterioso
vigilante di Gotham, che feriva decine di criminali abbastanza
seriamente da richiedere un ricovero in ospedale, ma senza mai
ucciderne nessuno.
April
cominciava ad essere davvero spaventata da quei racconti. Quel Batman,
che si vociferava vigilasse insonne sulle strade e sui vicoli bui della
città, aveva infine preso forma nei suoi pensieri, una forma
ripugnante e temibile. Uno sguardo malevolo ed impietoso che pareva
avesse l'abilità di spandersi ovunque a Gotham, persino nel
cuore delle persone.
Si
era guadagnato la fedeltà e la stima di buona parte dei
cittadini di Gotham al prezzo del sovraffollamento dell'ospedale, delle
ossa frantumate degli uomini su cui si era abbattuto.
Eppure
le notti a Gotham erano più sicure, dicevano, per merito
suo. Notti che sempre più spesso si ritrovò a
dover trascorrere fra quelle asettiche mura di cemento e
linoleum.
Fino
a quel giorno maledetto.
Il
sole era tramontato presto la sera del 3 ottobre ed April se ne accorse
solo a giro visite finito, mentre con le colleghe percorreva a ritroso
il lungo corridoio del decimo piano diretta alla sala medici ed al
conforto di un caffè prima di affrontare la lunga notte.
Un'unica
lastra nera scorreva limpida fuori dalle spesse vetrate, interrotta
solo a tratti dalle luci pulsanti delle strade e dai lumicini lontani
dei grattacieli circostanti. Delle nubi temporalesche dei giorni
precedenti non restava neppure l'ombra.
L'ora
di cena era già passata, ma nell'aria aleggiava ancora
l'odore familiare e desolante del pasto d'ospedale, misto a quello di
medicinali ed antisettici. Le dottoresse chiacchieravano sommessamente
per non disturbare i pazienti nelle stanze già chiuse, di
sottofondo solo il ronzio ovattato delle lampade alogene disturbato a
tratti dal vocio di una televisione accesa.
Poi
nella quiete uno strappo. Quasi quel cielo pece si fosse all'improvviso
squarciato come un lenzuolo vecchio, in qualche punto non lontano dal
palazzo. Un boato risalì dal suolo, un cupo ruggito dalle
viscere della terra, in un tremito che scosse pavimenti e finestre,
costringendo le tre ragazze ad aggrapparsi ai corrimani d'emergenza per
non rovinare a terra.
Dopo
un lunghissimo istante di fatale silenzio, in cui l'intero edificio
sembrava aver trattenuto il respiro in attesa di qualcosa, dalle stanze
emersero grida di terrore, mentre i vetri s'incrinavano come scrollati
da una forza invisibile.
I
neon sfarfallarono pericolosamente sopra le loro teste e, con un unico
schiocco secco, tre squilli di sirena annunciarono il blocco
d'emergenza.
Senza
neppure osare esprimere a parole i propri timori, ingoiando la paura
che affiorava insieme ad un tremito incontrollabile, le dottoresse si
divisero immediatamente secondo lo schema che era stato loro
meticolosamente insegnato nelle esercitazioni.
Sapendo
di non poter perdere la testa, raggiunsero ciascuna una corsia del
decimo piano, bypassando con il badge dell'ospedale il blocco delle
porte sterili.
Un
denso fumo grigio si fece strada attraverso i condotti di ventilazione,
serpeggiando sul linoleum verde chiaro mentre April passava in rassegna
le stanze con la rigidità di un automa, mascherando le
proprie valutazioni su un'eventuale evacuazione con un tentativo di
calmare i degenti terrorizzati.
Chiunque
l'avesse vista in quel momento si sarebbe certo complimentato per il
suo sangue freddo, la realtà non sarebbe potuta essere
più diversa. Stava solo ripetendo meccanicamente qualcosa
che aveva imparato una volta, da qualche parte, non lo sapeva
più, era così difficile pensare con il rombo del
cuore nelle orecchie.
Sentiva
le loro voci, ma alla sua coscienza sembravano arrivare col ritardo di
un'eco, di una radio dalla cattiva ricezione. Avrebbe voluto fermarsi a
riflettere, ma allo stesso tempo era dannatamente sicura che se
l'avesse fatto, avrebbe finito col ritrovarsi anche lei risucchiata in
un attacco d'ansia.
Se
non era riuscito ad arrivare alla sua mente, perlomeno non
completamente, di certo il panico si era impossessato del suo corpo.
Stava tremando e se ne accorse solo quando perse involontariamente la
presa su una boccetta di valium. Il vetro si frantumò ai
suoi piedi ad una lentezza esasperante.
Erano
soli, tagliati fuori dal resto dell'edificio, senza notizie su cosa
fosse accaduto, su chi fosse rimasto coinvolto e da cosa.
Con
i primi, inconfondibili, rumori di spari, il buio calò sul
piano prima che si azionassero con un lieve ronzio i generatori
d'emergenza. L'aria era di nuovo ferma, satura di qualcosa che April
non aveva mai provato prima, non era solo paura, ma qualcosa di
più tangibile, di più profondo.
Di
nuovo silenzio, poi con uno schiocco assordante che riaprì
molte delle gole asciutte intorno a lei, gli allarmi del piano
scattarono contemporaneamente, dando il via al piano di evacuazione.
Da
quando si era trasferita a Gotham non era mai stata coinvolta in
un'esercitazione vera e propria, ma conosceva il protocollo, ricordava
le lezioni che aveva seguito insieme a tutto il personale in tarda
serata, anche se ora sembravano immagini sbiadite di un'altra epoca.
Sapeva
che i generatori avrebbero convogliato tutta l'elettricità
verso gli ascensori di emergenza bypassando il blocco, per consentire a
medici e infermieri di spostare i pazienti sul tetto dove gli
elicotteri avrebbero provveduto al trasferimento.
Mentre
i battiti del cuore le rimbombavano nelle orecchie minacciando di
sovrastare le sue parole, April cercò di spiegare brevemente
il piano di emergenza. Avrebbero dovuto fidarsi di lei, prestarle tutta
la loro collaborazione perché potessero essere evacuati in
tutta sicurezza. Le tremava la voce, ma non avrebbe ceduto al conforto
di accasciarsi in un angolo e piangere, lasciando ad altri
quell'incombenza.
Con
tutta la lucidità che le era rimasta riuscì a
farli uscire dalle stanze, uno dopo l'altro, liberandoli da elettrodi e
cannule il più velocemente possibile, evitando che qualcuno
di loro nella foga strappasse gli aghi e rischiasse un'emorragia di cui
non poteva occuparsi.
Si
predispose a chiudere la fila, aiutando chi era impacciato nei
movimenti a causa di punti di sutura ancora troppo freschi, mentre si
avviavano nel corridoio in penombra, apparentemente deserto. Verso la
salvezza o un ignoto pericolo.
Quando
d'improvviso un colpo d'arma da fuoco fece saltare il quadro elettrico
della porta sterile alle loro spalle, April avrebbe voluto gridare ma
aveva la salivazione azzerata e i pensieri le si accavallavano nel
cervello ad una velocità impressionante.
Cercò
di far accelerare il passo, ma chiunque in buona forma fisica li
avrebbe raggiunti in non meno di dieci secondi e quasi la ragazza
cedette alla disperazione, quando la doppia porta rovinò al
suolo con un tonfo assordante.
Ne
vide emergere chiaramente quattro massicce figure e, per un istante che
le parve interminabile, pregò con tutto il cuore che fossero
poliziotti o perlomeno qualcuno in grado di aiutarla ad evacuare i
pazienti.
Nulla
si mosse finché la penombra non le restituì il
rombo di quattro risate, sgradevoli, assordanti.
-
E' un medico. – biascicò uno degli uomini a volto
coperto, il fucile automatico che occhieggiava angosciante alla luce
intermittente dei neon.
Fu
una fuga senza speranza quella che April tentò per i propri
pazienti e per se stessa, ma c'era ancora troppa distanza fra loro e
l'ascensore, e gli aggressori godevano di un non trascurabile vantaggio
fisico.
Come
previsto, li raggiunsero senza fatica, senza fretta, lasciandosi il
gusto di terrorizzarli, mentre le lame dei coltelli stridevano contro
la parete lucida di linoleum.
In
preda ad un istinto sconosciuto la ragazza si voltò a
fronteggiarli, non sarebbe fuggita, non di fronte a quel tipo di
uomini, la stessa risma di vigliacchi che aveva tolto la vita a suo
padre. Quello più grosso si chinò su di lei, gli
abiti luridi puzzavano di grasso e benzina.
-
Fatti da parte, dolcezza. –
Era
così vicino che l'odore di fumo e alcol scadente nel respiro
le arrivò fino in gola. Non riuscì a reprimere un
moto di disgusto, le unghie che si conficcavano nei palmi delle mani
mentre le dita ruvide dell'aggressore raggiungevano il suo viso. Le
sentiva stringere così forte da bloccarle la circolazione.
-
Non vi permetterò di fare loro del male. –
abbaiò sottraendosi con violenza alla presa, scioccata da
quell'insano coraggio che non proveniva dalla parte cosciente del suo
cervello.
I
muscoli erano in fiamme e le guance pulsavano terribilmente in
sincronia col treno che le correva nel petto.
Non
era il momento di giocare a fare l'eroina, non poteva certo risparmiare
nessuno dal male che avrebbero potuto fare a chiunque di loro, e
l'avrebbero fatto, glielo leggeva chiaro in faccia.
Eppure
un tarlo insistente nella sua testa continuava a suggerirle che se
avevano assaltato in quel modo un ospedale non era stato certo per
assassinare una manciata di medici, ma per assicurarsi farmaci e cure
gratuite, incuranti dell'illegalità.
-
Voglio proprio vedere come ... - ribatté quello a denti
serrati, un ghigno sdentato attraverso il passamontagna, ma gli occhi
neri, furiosi, baluginavano come pozze d'acqua stagnante.
Accadde
tutto in poche frazioni di secondo. No, non al ritmo rallentato dei
film dell'orrore, ma ad una velocità lucida, nauseante.
Il
braccio armato dell'uomo si sollevò all'improvviso per
sferrare un colpo. April serrò istintivamente le palpebre,
tendendo i muscoli, pronta a ricevere in pieno volto il calcio di
fucile che avrebbe dovuto tramortirla. Invece nulla.
Un
istante più tardi il rumore di uno sparo esplose a pochi
centimetri da lei, assordandola.
Una
delle luci al neon del soffitto, ormai in frantumi, gettava scintille
rosse sui presenti. Attraverso il soffitto squarciato, un intrico di
vecchie tubature borbottava e sbuffava, congelando la scena su quella
nuova falce d'ombra.
Poi
qualcuno gridò. Qualcuno di loro.
Uno
degli uomini incappucciati venne atterrato in una frazione di secondo
da qualcosa che, dietro di sé, lasciò solo un
corpo esanime e nient'altro. Il panico dilagò in quei pochi
metri di corridoio come una folata di vento gelido, portando con
sé qualcosa di stonato e terribile.
Con
le orecchie che fischiavano, April dovette sbattere le palpebre un paio
di volte per mettere di nuovo a fuoco l'ambiente mentre la luce
sfarfallava pericolosamente, a tratti svaniva, quasi qualcosa di
inumano fosse piombato fra loro. Trattenne inconsciamente il respiro
per un interminabile momento, senza poter calmare il battito assordante
del cuore, e allora la vide.
Una
gigantesca ombra nera si era frapposta alla sua visuale, deviando
miracolosamente il colpo di fucile con un sordo clang. Un istante ed era già
sparita, senza poterne afferrare i contorni, portando con sé
un altro degli uomini con il passamontagna.
-
Cazzo! È lui! –
Minacce
e bestemmie invasero il corridoio, mentre una sconosciuta ed
apparentemente inafferrabile minaccia stava terrorizzando i loro
assalitori.
Una
nuova raffica di spari la scosse dal torpore e la ragazza si
gettò istintivamente in ginocchio, lasciandosi sfuggire
qualcosa che non assomigliava affatto ad un grido, piuttosto ad un
singulto strozzato. Strinse a sé la paziente più
giovane, paralizzata a pochi passi da lei, chinando la testa di
entrambe.
I
rumori che seguirono terrorizzarono le sue notti nei mesi a seguire.
Alcuni non li riconobbe, ma altri si, assomigliavano allo schioccare di
ossa spezzate.
Avrebbe
voluto gridare per la violenza inaudita che si stava consumando alle
sue spalle, ma la paura le aveva tolto il respiro. Di una sola cosa era
certa, c'era qualcun altro là con loro, una furia cieca,
terribile.
-
E' il pipistrello ... è venuto a salvarci. –
-
Non ci farà del male, vero? –
In
contrasto con tutto ciò che le stava gridando il suo buon
senso, April sollevò cautamente lo sguardo. Uno ad uno, i
loro aggressori svanirono nel buio di quell'ombra, come ingoiati,
finché non ne rimase uno soltanto, terrorizzato latrava al
vuoto sconnesse minacce.
Per
l'ultima volta qualcosa di pesante uscì dalle tenebre
affilate, April la vide distintamente strisciare alle spalle
dell'assassino armato ed ignaro, alta e minacciosa, era la sagoma di un
enorme pipistrello. Non aveva mai avuto paura come in quel momento,
eppure scoprì di non poter distogliere lo sguardo.
Vide
il braccio enorme del vigilante stringersi alla gola dell'uomo,
bastò un istante di pressione ed il corpo cadde a terra
privo di sensi.
Per
un attimo che parve interminabile, la creatura rimase lì a
fissarli, immobile, gli occhi due dischi di luce bianca nel buio, in
cerca di qualcosa che la ragazza non sapeva indovinare. Si
augurò che sarebbe sparito, così come si era
manifestato, invece rimase, raggiungendola in poche falcate.
April
non avrebbe saputo dire con quale forza riuscì a rimettersi
in piedi, dominando il tremito delle gambe, per fronteggiare l'enorme
pipistrello. Nella penombra le orbite illuminate della maschera si
spensero con un guizzo, rivelando due iridi azzurre che si conficcarono
impietosamente nelle sue.
Alto
come un armadio, tremendamente massiccio nell'armatura grigia, se solo
avesse voluto, avrebbe potuto spezzarle il collo con una sola delle
mani avvolte dai guanti rinforzati e senza neppure sforzarsi troppo.
Represse
un tremito che le si era instillato alla base della nuca. Una leggera
nausea si stava impossessando della bocca del suo stomaco, ma era
troppo spaventata per distogliere lo sguardo, quasi tenere d'occhio le
sue mosse fosse servito in qualche modo a proteggersi da lui.
-
Non voglio problemi ... -
Stava
annaspando e il cuore batteva così forte che credette di
sentirlo rimbombare sulle pareti del corridoio. Di certo lui se
n'era accorto o non l'avrebbe soppesata con quello sguardo
insopportabilmente diretto, come se cercasse di guardarle fin dentro le
ossa.
-
Non sono qui per farle del male. Sta bene? – le chiese
perentorio rompendo il silenzio, una voce scura, raspante. Avrebbe
dovuto sentirsi sollevata, invece fece fatica a dominare la paura.
-
Questo dovrei chiederlo a lei. –
E
quella spacconata? Da dove veniva? L'adrenalina le stava giocando dei
brutti scherzi, nessuno sano di mente si sarebbe messo a provocare un
ammasso di muscoli in armatura, ma l'uomo rimase impassibile,
continuava a fissarla, lo sguardo indecifrabile sotto la maschera nera.
-
Si, sto bene. – cedette infine la ragazza, era chiaro che non
l'avrebbe degnata di una risposta se non avesse prima soddisfatto
quella sua semplice richiesta.
-
Stanno sequestrando i medici. Molti dei suoi colleghi sono al sicuro,
barricati in una stanza dall'altra parte del piano. Deve andare.
Penserò io a loro. – riprese con lo stesso fiero
distacco, era un ordine, ma April non avrebbe mai ceduto ad un
compromesso simile.
Al
di là della paura, le era rimasta ancora lucidità
sufficiente per capire che sarebbe servito ben poco alla sua autostima
lasciare quelle persone in balia di un destino sconosciuto, Batman o
non Batman.
In
un'intrusione poco gradevole da parte del suo inconscio,
ricordò la voce di sua nonna di fronte ad una tazza di
tè fumante. La stava rimproverando per qualcosa che non
riusciva più a focalizzare.
"Sei troppo orgogliosa, bambina mia. Tu soffrirai."
-
Se lo scordi. Non posso lasciarli così. Alcuni di loro hanno
subito da poco un intervento, fanno fatica a camminare. Devono essere
accompagnati da un medico. – si accigliò, forte di
quella convinzione.
Per
un attimo temette che l'uomo l'avrebbe colpita, o addirittura rapita,
visto il tempo che impiegò a soppesare le sue parole.
-
Va bene. La scorterò fino all'ascensore di emergenza,
farò in modo che arriviate sul tetto. –
gracchiò invece, il corpo massiccio che la sovrastava
avvolto nel lungo mantello color pece.
-
Grazie. –
Si
lasciò sfuggire un sospiro, per la prima volta davvero
sincera da quando il vigilante era comparso nel corridoio, salvandole
la vita.
Aiutata
dall'enorme uomo pipistrello riuscì a rimettere in piedi
tutti i pazienti, a riprendere la fuga verso l'ascensore. Nonostante si
confondesse ancora nella penombra del corridoio, April sentiva ben
chiara la sua presenza accanto a sé, un respiro misurato,
profondo che a passi pesanti si adattava alla loro andatura.
-
Sapevo che sarebbe arrivato, dottoressa ... Batman, non l'avevo mai
visto così da vicino. È davvero impressionante.
– mormorò la ragazzina aggrappata al suo braccio,
tremava ancora, ma gli occhi azzurri scrutavano avidamente l'uomo al
suo fianco, adoranti.
-
Lo è davvero. –
April
abbozzò un sorriso, osservandolo di sottecchi per non farsi
pizzicare. Non aveva mai visto niente del genere in vita sua.
Non
c'erano dubbi che fosse un uomo, eppure il mantello che ondeggiava
nella scia dei loro passi, la complicata armatura e quella maschera
appuntita riuscivano a conferirgli un macabro aspetto bestiale.
Il
petto ampio si alzò in un respiro, poi in un altro e di
nuovo gli occhi blu incontrarono i suoi, fulminandola.
C'erano
notti buone a Gotham e notti meno buone. Quella andava sicuramente ad
accrescere di una tacca l'elenco delle notti pessime.
Un
fianco gli doleva, nella confusione qualcuno aveva sferrato un colpo
fortunato ed era riuscito a ferirlo. Tuttavia non era l'idea del livido
violaceo che sarebbe comparso da lì a poche ore a
disturbarlo.
Gestire
dei malviventi da quattro soldi come aveva fatto negli ultimi tempi era
stato fin troppo semplice, tipi come quelli se li mangiava a colazione.
Ma fermare un assalto armato ad un ospedale, quella era tutt'altra
cosa. Rozza, certo, eppure era difficile capire di chi fosse la mano
dietro quel disastro.
Bruce
cercò di dominare la rabbia, mentre a grandi falcate si
addentrava nella penombra insieme alla giovane dottoressa. Qualcuno
avrebbe pagato per lo scempio a cui stava ancora tentando di porre
rimedio, l'avrebbe trovato e l'avrebbe fatto parlare. E non con le
buone maniere.
Erano
mesi, forse anni, che nessuno dei vermi che nel frattempo il suo
cervello stava enumerando alla velocità della luce, tentava
una mossa audace come quella. Qualcosa non tornava e il pensiero che
potesse essergli sfuggito un particolare nel quadro generale dei fatti,
batteva nel retro del suo cervello con la perseveranza di una goccia
d'acqua.
A
questo si aggiungeva la totale mancanza di lucidità che la
dottoressa aveva mostrato opponendosi agli aggressori, un errore che
avrebbe potuto costarle ben più del proprio orgoglio. Gli
sarebbe bastato arrivare un istante più tardi.
Quel
pensiero lo mandava ai matti. Forse era stata l'adrenalina, forse
altro, ma il fegato che la ragazza aveva mostrato nel ribellarsi,
fronteggiando quattro uomini armati per proteggere i propri pazienti,
riuscì a metterlo in soggezione. Era stata una scelta
stupida, avventata, ma la diceva lunga su di lei, su quello che ancora
non gli aveva mostrato.
L'istinto
di controllo avrebbe voluto gridarle che era stata un'incosciente ad
esporsi a quel modo, ma vederla terrorizzata alla sua comparsa nel
corridoio in qualche modo lo aveva turbato. Secondo lo scanner il cuore
aveva continuato a batterle all'impazzata anche dopo le sue
rassicurazioni, anche se tutti gli uomini armati erano stati
neutralizzati. Per lei il pericolo non era mai cessato.
Per
questo cercò di non guardarla mentre procedevano,
concentrandosi invece sull'ambiente circostante, sui rumori che di
rimando arrivavano ovattati dai condotti di areazione.
La
via rimase libera fino alle lucide porte tagliafuoco dell'ascensore.
Bruce premette sgraziatamente il pulsante di richiamo e con estrema
lentezza il meccanismo si mise in moto.
Neppure
dieci secondi e diversi colpi di fucile automatico annunciarono che non
erano più soli nella corsia del decimo piano, in lontananza
le minacce degli inseguitori si persero nelle grida dei pazienti
terrorizzati.
Una
granata fumogena esplose a pochi passi da loro, spargendo in fretta un
denso fumo chimico che grattava la gola con un vago sapore di benzina.
Sentì la ragazza tossire accanto a lui ed istintivamente
cercò di proteggerla dagli effluvi schermandola attraverso
il mantello.
Gli
assalitori avanzavano senza fretta, razziavano le stanze, distruggevano
finestre, qualunque cosa pur di lasciarsi alle spalle quanta
più devastazione possibile. Bruce valutò
attentamente quanto tempo rimaneva prima che li raggiungessero, quanto
tempo poteva guadagnare per la loro fuga. I muscoli tesi, il cervello
forzatamente quieto.
Finalmente
le doppie porte si aprirono alle loro spalle con uno stridore
angosciante, aiutò la ragazza a sistemare tutti nell'ampia
cabina, tranne se stessa.
-
Vada. – le ordinò spingendola bruscamente
all'interno. Se le fosse accaduto qualcosa non se lo sarebbe mai
perdonato.
Bruce
attese un insulto che non arrivò mai, gli occhi chiari lo
guardarono invece con una dolcezza che non si sarebbe aspettato in
quella situazione.
-
La prego, faccia attenzione. –
Le
porte ingoiarono le sue ultime parole e la sagoma impaurita nel camice
bianco, sporco di sangue e polvere. Per un lungo istante Bruce la
guardò sparire attraverso il sottile spiraglio fra le
lamiere.
Passi
pesanti di scarponi sul linoleum, gli dissero che l'attesa era finita.
-
E' Batman! –
La
salita verso il tetto sembrò dilatarsi all'infinito fra le
quattro pareti, improvvisamente soffocanti, del grande ascensore
d'emergenza e sui volti spaventati dei pazienti.
Quei
minuti interminabili le diedero il tempo di fermarsi, di riflettere a
mente appena più lucida su quello che stava accadendo, su
ciò che aveva visto.
Si
chiese se le sue colleghe fossero già sane e salve su un
elicottero, se Batman avesse salvato anche loro e l'incertezza di
quelle terribili domande riuscì quasi a farle perdere quella
compostezza che era riuscita in qualche modo a tenerla in piedi fino a
quel momento.
Con
un cigolio assordante la cabina d'acciaio si fermò
all'ultimo piano del grattacielo, aprendosi sulla pista d'atterraggio
spazzata dalle enormi pale di un elicottero di soccorso. Uno dei piloti
venne loro incontro in tutta fretta, aiutandola a sistemare al meglio
gli otto degenti che aveva portato con sé. Troppi.
-
Dottoressa, non posso trasportare un uomo in più. Torneremo
a prenderla, glielo prometto. –
Le
grida del soccorritore, il volto semicoperto dal casco isolante, si
persero nel rumore assordante dei rotori eppure April riuscì
comunque ad afferrare l'angoscia dietro le sue parole.
Di
nuovo la paura tentò di sopraffarla, sarebbe rimasta sola su
quel tetto, senza possibilità di tornare indietro,
né di essere evacuata assieme agli altri.
Sentiva
Il cuore battere dolorosamente nelle orecchie, sovrastando il rumore
sordo e pulsante delle pale sopra le loro teste, impedendole di pensare.
-
Andate! Portateli via, io aspetterò. –
esclamò d'istinto.
Non
sapeva gestire il surplus di adrenalina, e questo era un fatto. Stava
mettendo ancora una volta a repentaglio la propria vita senza la minima
esitazione. Guardò il pilota alzare il pollice, rimontare
sull'elicottero. Ormai era tardi per i ripensamenti.
Non
avrebbe potuto sperare in un secondo portentoso intervento del
vigilante di Gotham, era sola. E il coraggio si trasformò in
dubbio atroce, in profonda disperazione nel momento in cui l'elicottero
riprese quota, allontanandosi in una nuvola di polvere e detriti,
lasciandola indietro.
Lo
vide sparire oltre i grattacieli, nascosto ormai dalla Wayne Tower
quando le ginocchia tremarono all'improvviso, così forte da
farle credere che non l'avrebbero retta per un altro istante.
La
strada sottostante, lontanissima, era un tripudio di sirene e grida.
Rumori ovattati di spari si confondevano all'urlo del vento, polvere e
detriti le ferivano il viso e i polmoni mentre il mondo sembrava
sgretolarsi sotto i suoi piedi.
Per
un lungo attimo pensò a suo padre, alla paura che doveva
aver provato quel maledetto giorno di quindici anni prima.
Era
curioso come ricordasse gli eventi di quei giorni quasi fosse stato
qualcun altro a viverli, ricordava se stessa sull'uscio di casa, mentre
due colleghi di suo padre erano stati mandati a prelevarla. Si
ricordava accanto a quel letto, occupato da un uomo già
morto dal cuore battente, la sua mano tiepida e molle fra le proprie.
Per
tre giorni aveva parlato al silenzio, finché sua nonna aveva
deciso di far staccare la spina, ma non le permise di rimanere mentre
il respiro di quell'involucro vuoto cessava per sempre. Per anni era
stata furiosa con lui, per averla tradita, per averla lasciata sola,
solo ora April poteva capire.
Perdonare
era tutta un'altra faccenda, non avrebbe mai perdonato se stessa,
né lui.
Il
tonfo alle spalle la scosse, facendo deragliare quei pensieri in un
panico istintivo, l'ascensore stava scendendo. Si maledisse fra i denti
per non averlo bloccato, ma non c'era via di fuga ora che qualcuno
stava arrivando. Fu un viaggio breve, di un solo piano forse e di nuovo
la cabina d'acciaio tornò a cigolare, aprendosi lentamente
sull'ignoto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** ~10~ Sky roundabout ***
~10~ Sky roundabout
La
ragazza cercò di convincere i polmoni a fare il loro dovere,
mentre uno spiraglio polveroso si apriva sulla cabina inondata dalla
luce tremolante dei neon. Il nodo alla gola non voleva sciogliersi, ma
la sua paura non poteva fermare il tempo in quel confortante ignoto e,
dal bianco sporco che feriva l'oscurità, emersero infine tre
figure armate. I passamontagna rossi e neri a nasconderne i tratti
sconosciuti del volto, mentre gli occhi neri ammiccavano attraverso le
fessure in un tremendo dejà-vu.
-
Pensavi davvero che sarebbe stato un buon nascondiglio? –
Più
che una voce, le parve il latrare roco e sguaiato di un animale
selvatico, a cui l'istinto aveva insegnato l'odore di una preda a
portata di mano, il controllo perfetto del territorio. April non
rispose, non avrebbe saputo come. La gola riarsa, paralizzata dalla
fatale consapevolezza di essere in balia di tre sconosciuti. Fra lei e
la salvezza, solo un salto nel vuoto.
-
Ora farai la brava e verrai con noi, dottoressa. –
continuò più dolcemente, le labbra tese sul
sorriso sbilenco, sui denti ingialliti dal fumo, ma l'arma rimaneva
puntata su di lei in un'antitesi nauseante.
-
No. –
La
parola rotolò fuori senza che il suo cervello l'avesse
autorizzata, rimbalzò sul cornicione del tetto, raggiunse
l'ascensore ed era troppo tardi per richiamarla indietro. Tremava,
eppure fra i suoi pensieri era calata una patina nuova, una furiosa
rassegnazione che non le era mai appartenuta.
Dopo
tutto quello che aveva visto, dopo tutto ciò che era andato
perduto non avrebbe mai accettato di consegnarsi in quel modo o non
sarebbe più stata in grado di guardarsi allo specchio.
L'alternativa del resto era agghiacciante.
-
Avete sentito? La dottoressa non vuole venire. Ti do una notizia,
tesoro. Non sei poi così importante. –
gracchiò l'altro di rimando, April vide la pistola fra le
sue mani tremolare pericolosamente mentre rideva della sua
determinazione. Qualcosa si inceppò nel suo cervello,
fermò la macchina in moto ed un silenzio di tomba si
sovrappose ai battiti feroci del suo cuore.
Per
la seconda volta in una sola notte, vide un'arma sollevarsi su di lei,
un unico occhio malevolo baluginare più scuro della penombra
del tetto, mentre l'uomo dall'altra parte della canna prendeva la mira.
Le
sarebbero bastati una manciata di secondi per morire, eppure il tempo
non aveva rallentato come in un prevedibile cliché da film,
la vita non le si era dipanata davanti agli occhi. Si sentiva congelata
in quell'istante. Intrappolata nel susseguirsi di flash che
illuminavano la sua coscienza annebbiata.
Poi,
effettivamente, un colpo partì. Risuonò
assordante nel buio del tetto, ma non per lei.
Qualcosa
di più nero della notte era calato fra loro, qualcosa che
dovette deviare o ricevere lo sparo al suo posto e ancora una volta era
sparito, senza che April potesse afferrarne i contorni. Gli aggressori
sembrarono disorientati quanto lei, scrutavano il buio come forsennati,
abbaiando bestemmie, ma le armi imbracciate tremavano come canne al
vento.
Non
durò più a lungo di qualche istante. Uno ad uno
vennero ingoiati da quell'ombra con la forza di dieci uomini.
Questa
volta lo vide chiaramente, lo vide atterrarli, colpirli con una forza
inaudita, furiosa finché non rimase più nulla se
non quattro fagotti pesti, privi di coscienza. Non stava neppure
ansimando, mentre si stagliava con la solidità di una roccia
nella luce sporca dei fari guida, minaccioso, terribile e di nuovo la
ragazza ne ebbe una folle paura.
-
Non è al sicuro qui. Ne arriveranno altri. –
gracchiò avvicinandosi a grandi falcate, gli occhi impietosi
inchiodati nei suoi come schegge azzurre nel buio.
-
Venga. Stretta a me. –
Di
nuovo, era un ordine. April avrebbe voluto chiedere perché,
odiava sentirsi alla mercé di uno sconosciuto come lo era
stata degli uomini armati che l'avevano minacciata, ma sentiva pure di
non avere altra scelta. Non si fidava di lui, ma la paura le serrava la
gola, faceva macinare il suo cervello alla velocità di una
lavatrice impazzita.
Lo
vide aprire le braccia, invitandola a stringersi senza muovere un
muscolo, una sensibilità che le parve fuori posto in un uomo
tanto brutale. Guardandosi intorno cerò un'alternativa,
pregò di averne una, ma il vento ruggiva oltre il cornicione
del tetto, frustava il mantello nero pece alle spalle di lui. Non c'era
modo ormai di tornare indietro.
Trattenne
istintivamente il respiro, mettendo a tacere il cervello e strinse
cautamente le braccia al collo dell'uomo pipistrello, senza sapere che
cosa aspettarsi. Lui non la cinse a sua volta come sarebbe sembrato
naturale, si limitò invece ad assicurare un cavo sottile
estratto dal cinturone attorno alla sua vita.
Era
tanto più alto di lei che April si trovò
costretta a salire sui suoi stivali per poter mantenere la presa,
eppure Batman non sembrò turbato. Si sentì
un'idiota, abbarbicata a quel modo al corpo del vigilante in armatura e
per un istante il pensiero che non sarebbe accaduto un bel nulla
accarezzò pericolosamente la sua coscienza.
Prima
che potesse elaborare un pensiero più complesso uno strano
fischio invase l'aria ed un attimo dopo una forza invisibile li stava
risucchiando verso l'alto ad una velocità suicida,
spezzandole il fiato.
Avrebbe
voluto gridare, ma l'aria gelida della sera le ferì la gola,
le serrò le palpebre costringendola a nascondere il volto
contro la spalla bardata dell'uomo pipistrello.
La
notte si era spalancata d'un tratto sotto i loro piedi. Attraverso le
ciglia ostinatamente chiuse un arcobaleno di neon e lampioni filtrava
con l'assurda lucidità di un incubo ricorrente. I suoni
ovattati delle strade sottostanti si impastavano dolorosamente alla
pressione dell'aria sui suoi timpani, in un concerto di sirene lontane
e del ronzare di cavi elettrici. Il mondo si allontanò al
ritmo frenetico dei battiti del suo cuore, accompagnato dall'assurda
certezza che l'unica cosa a separarla dal cemento, una cinquantina di
metri più in basso, era quell'uomo fra le sue braccia.
Lo
sentì gonfiare il petto largo per prendere un respiro,
mentre la salita si interrompeva bruscamente, le braccia poderose si
allargarono irrigidendo il mantello quasi l'avessero fatto centinaia di
volte e, senza turbamento alcuno, cominciò a planare fra i
grattacieli.
La
pressione su di loro si era allentata, adesso il corpo del vigilante
fendeva l'aria con folle naturalezza, scartando fra palazzi e pensiline
della metropolitana come in un'assurda giostra.
-
Dove abita, dottoressa? –
La
voce roca di Batman le arrivò sovrastando di poco il fruscio
del vento. April ci mise un istante a raccogliere i pensieri, le gambe
molli che tremavano e la gola asciutta come sabbia.
-
All'incrocio fra la settima e l'undicesima, poco oltre la Wayne Tower.
Il palazzo con la scala antincendio sulla facciata. – rispose
senza fiato, le unghie che affondavano invano nella corazza grigia
sulle sue spalle.
-
Stia tranquilla, non la lascio cadere. Non voglio farle del male.
– gracchiò lui, questa volta più
dolcemente, quasi divertito, prendendola in contropiede con un poco
galante riferimento al cuore impazzito della ragazza che scalpitava
contro il suo petto.
Per
poco non si scusò April, che nella propria vita non aveva
mai dovuto dubitare della propria determinazione, delle proprie
convinzioni, non fino a quel momento, almeno.
Invece
rimase per un lungo istante a guardare di sottecchi il viso severo,
indecifrabile sotto la maschera, la linea dura della mandibola, le
labbra sottili, l'innaturale profilo del vigilante che chiamavano
Batman, ingoiando il proprio orgoglio.
Le
aveva salvato la vita, per due volte, ma non avrebbe saputo come
ringraziarlo, né avrebbe voluto farlo davvero, troppo
indecisa se il suo fosse stato davvero coraggio, incondizionato
altruismo o solamente un macchinoso tentativo di uccidersi lentamente,
dolorosamente.
L'uomo
virò all'improvviso la planata ed un colpo di vento li
travolse con una secca frustata, la stabilità del volo non
ne risentì affatto, eppure April avvertì i
capelli turbinare in libertà nella scia e troppo tardi si
accorse che si erano liberati dal piccolo ornamento d'oro sulla nuca.
Impotente,
l'osservò perdersi nel buio terrificante delle strade
sottostanti.
-
Oh, no. Il fermaglio ... -
La
voce della ragazza arrivò alle sue orecchie non
più forte di un sussurro, stranamente scossa e Bruce cedette
quasi alla tentazione di rimproverarla per la futilità della
sua preoccupazione.
-
Era di mia madre. – aggiunse, quasi avesse indovinato la
durezza di quel pensiero e Bruce si sentì di nuovo
stranamente scoperto, in soggezione come la sera in cui l'aveva sentita
cantare.
-
Mi dispiace. – gracchiò senza guardarla per non
vedere se gli occhi chiari di lei stavano cercando qualcosa, scavando
ostinatamente fino al suo cuore.
Ma
non rispose, la sentì invece stringersi più
forte, nascondere di nuovo il viso nell'incavo della sua spalla,
solamente il cuore batteva ancora accelerato contro il suo petto,
infliggendogli una ferita che non si sarebbe aspettato di ricevere.
La
dottoressa non parlò più, non finché
Bruce atterrò il più gentilmente possibile
all'ultimo piano del palazzo da lei indicato, sul largo balcone senza
inferriate dove si affacciava la porta finestra di un appartamento
buio. La liberò dal cavo, lasciandola allontanare di qualche
passo.
Sembrava
stranamente contrariata, nonostante le poche parole che si erano
scambiati.
-
La prego, mi dica che non lo fa con tutte le donne. –
Il
tono sarcastico cozzava con le sopracciglia innaturalmente vicine sulla
fronte, mentre le dita raccoglievano affannate sulla spalla destra i
lunghi capelli mogano che il vento aveva scarmigliato durante il volo.
-
Che cosa? –
-
Questo romantico passaggio fino a casa. –
Era
spaventata, glielo leggeva nei chiari occhi d'ambra, nella distanza che
si stava affrettando a mettere fra loro. Nonostante Bruce avesse
cercato di tenere Batman il più possibile lontano dalla
ragazza, in qualche modo quel loro incontro era avvenuto e lei lo stava
rifiutando. Fingere che la cosa non avesse ferito il suo orgoglio,
sarebbe stato inutile.
Avrebbe
potuto rituffarsi nella notte e sparire, l'aveva fatto altre volte,
invece rimase immobile contro il parere del proprio raziocinio.
-
Non crede di essere un po' ingrata adesso, dottoressa? –
Non
voleva ferirla, solo capire che cosa si nascondeva dietro quella
freddezza. Quell'imbeccata sembrò far crollare parzialmente
le sue resistenze, poteva vederla tremare appena stringendosi al camice
impolverato.
-
Ha ragione. Lei mi ha salvato la vita e la ringrazio di cuore.
È che tutta questa situazione mi sembra francamente assurda
... lei si è preso una pallottola per me. –
fiottò portandosi le mani alle tempie, quasi volesse
scacciare un pensiero molesto, ma Bruce faceva fatica ad accettare quel
suo rifiuto.
Comprendeva
lo shock e la confusione che di certo si erano impadroniti di lei, li
aveva già visti in altri occhi, in altri volti eppure
faticò a tenere a bada la rabbia che stava montando nel suo
petto ad ogni respiro.
-
Avrei dovuto lasciarla morire? – si accigliò sotto
la maschera, cercando di non lasciar trasparire quanto in
realtà si sentisse coinvolto in quello che la ragazza aveva
da dire.
-
E a che cosa sarebbe servito se fosse morto al mio posto? Lei non sa
niente di me. Chiunque sia la sua esistenza è certamente
più preziosa della mia per questa città.
–
April
avrebbe volentieri ricacciato indietro la dolcezza che si era lasciata
sfuggire, non voleva passare per ingrata, ma già qualcun
altro si era sacrificato per lei. Qualcuno che non aveva visto la sua
vita trasformarsi in un groviglio di rimpianto e dolore.
Non
voleva essere responsabile per chiunque avesse pianto la sua perdita.
-
Sta dicendo che la mia vita vale più della sua? –
Era
furioso, gli occhi blu ridotti a fessure confuse dietro la maschera
nera. Doveva sentirsi in qualche modo responsabile per lei, per quello
che le sarebbe potuto accadere e la sua incolumità non era
stata inclusa nell'equazione.
-
Sto dicendo che ogni vita vale qualcosa. E lei non ha esitato a mettere
in gioco la sua. Non me lo sarei mai perdonato se fosse morto per colpa
mia. – sospirò di rimando ed era sincera. Per
quanto non riuscisse ancora a comprendere appieno le ragioni che lo
avevano spinto a rischiare tutto per degli sconosciuti, il suo coraggio
era innegabile.
Le
labbra contratte del vigilante sembrarono distendersi appena. Quegli
strani occhi azzurri si impressero silenziosamente nei suoi per un
lungo attimo, come se stessero soppesando le sue parole con estrema
cura.
-
Ha uno strano modo di ringraziare. – gracchiò
infine, accigliato o forse erano solo le venature della maschera a
farlo apparire in quel modo.
Si
avvicinò per la prima volta da quando l'aveva lasciata sul
balcone. Quasi la sovrastava, tanto era più alto e possente,
ma April non ne aveva più paura.
-
E lei ha uno strano modo di comunicare, visto che parla a monosillabi.
–
-
Chiuda gli occhi. – le ordinò nel silenzio
ovattato dalla bruma, interrotto solo dall'urlo di sirene lontane,
cogliendola in fallo. Eppure il suo sguardo interrogativo non
trovò alcuna risposta nei chiari occhi blu, annodati ai
suoi, ora in una strana armonia.
-
Perché? –
-
Li chiuda e basta. –
Un
tono più basso questa volta, più caldo. Non era
più un ordine, che lui ne fosse consapevole o meno ed April
non avrebbe mai accettato di sottrarsi in quel modo alla
realtà di fronte ad un minaccioso sconosciuto, ma quello era
un altro tempo, un altro luogo. Qualcosa nella sua più
intima natura le disse che poteva lasciarsi andare, solo per una volta,
solo per un momento.
Doveva
fidarsi di lui.
Nel
buio dietro le palpebre, sentì l'aria scaldarsi e troppo
tardi capì che, quel tepore sulle labbra, altro non era se
non il leggero respiro dell'uomo. Esitò e per un lungo
attimo condivisero lo stesso ossigeno.
Se
avesse voluto tirarsi indietro quello sarebbe stato il momento giusto.
Schiaffeggiarlo non suonava come una buona idea, ma qualunque altra
cosa sarebbe andata bene. Invece rimase immobile, sapendo che era
lì, così vicino che se avesse detto qualcosa le
parole gli sarebbero rimbalzate sulla pelle, il cuore che
all'improvviso batteva vicinissimo come se qualcuno lo avesse spostato
appena oltre la soglia dei suoi respiri.
Il
momento passò e con una strana lentezza, le labbra sottili
ed inaspettatamente morbide del vigilante si sovrapposero alle sue in
un bacio.
Odore
di sangue, di fumo e gomma ... si, gomma bruciata. C'era uno strano
sapore metallico sulla sua pelle come se fosse passato attraverso dei
fumogeni accesi, la barba ispida le sfregava il mento e la corazza in
kevlar la schiacciava all'altezza delle clavicole. Eppure non voleva
lasciarlo andare.
Bruce
aveva fatto una cazzata e lo sapeva. Ne era più che
consapevole premendo la bocca su quella tiepida della ragazza, in un
bacio che Bruce Wayne non aveva mai osato tentare. Lo sapeva, ma
lasciò perdere il buon senso.
Non
era la prima donna che baciava in quel modo, forse non sarebbe stata
l'ultima, ma c'era anche qualcosa di profondamente diverso. Forse
lasciarla andare non sarebbe stato facile quanto aveva sperato, in
qualche modo la ragazza era riuscita ad insinuarsi nel suo cuore
portando un curioso scompiglio.
Avrebbe
potuto sottrarsi, ma non accadde, le labbra rimasero sulle sue
finché Bruce non decise di interrompere quel tenero contatto.
La
guardò riaprire lentamente i chiari occhi d'oro, soppesarlo
per un lungo attimo ancora prima di parlare, il calore del suo respiro
ancora indistinguibile dal proprio.
-
Perché mi ha baciata? –
Era
una domanda a cui l'uomo non aveva una risposta precisa.
-
Non lo so. – rispose onestamente e di nuovo si
sentì fastidiosamente inerme, scoperto di fronte a quello
sguardo attento, capace di penetrare sotto la maschera, cogliere
qualcosa che Bruce non avrebbe voluto lasciarsi sfuggire.
-
Ci conosciamo? – mormorò stringendo appena i
lunghi occhi color del tramonto, ancora così vicina che
l'uomo avrebbe potuto indovinarne il quieto respiro.
-
Impossibile. –
-
Eppure c'è qualcosa nei suoi occhi ... qualcosa di
così familiare ... -
Le
dita sottili della ragazza volarono audacemente verso il suo viso, una
leggerezza che Bruce non le avrebbe concesso. D'istinto le
afferrò il polso, forse più forte di quanto
avesse voluto.
-
No! – ringhiò come un cane messo all'angolo e
strinse. Strinse così forte che credette di non riuscire a
controllarsi, spezzandole il polso.
Era
stato incauto a rimanere, ora lo vedeva chiaramente. Sarebbe stato
troppo facile farle del male e con tutta probabilità gliene
avrebbe fatto se solo avesse saputo.
Lo
sguardo terrorizzato della ragazza, l'improvviso affanno nel suo
respiro, lo scosse, inducendolo a lasciare la presa. Aveva di nuovo
paura di lui e forse avrebbe dovuto continuare ad averne. Non c'era
niente per lei sotto quella maschera che non fosse un groviglio di
rabbia e disperazione.
Il
polso era in fiamme, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di
saperlo, di sapere che l'aveva ferita. Un uomo coraggioso quanto feroce
si nascondeva sotto quella complessa armatura, si vergognò
ad aver creduto in qualcos'altro. Sentì le mascelle
contrarsi involontariamente per resistere al dolore.
-
Anche se ha la forza di dieci uomini, non creda che questo le dia dare
il diritto di ferire chi vuole. –
Indietreggiò
di un passo, cercando di mettere una distanza che fosse definitiva fra
lei e l'uomo pipistrello. Scappare, non voleva nient'altro, sottrarsi a
quegli occhi impenetrabili che troppo a lungo l'avevano costretta a
guardarsi dentro, a vedersi riflessa in quella freddezza
così simile alla propria.
-
La ringrazio ancora per avermi salvato la vita, non potrò
mai ripagarla per questo. Ora però deve andarsene e
possibilmente non tornare mai più. Addio. –
Non
si aspettava una risposta e l'uomo, dopo un lungo istante, non fece che
voltarle le spalle.
Lo
guardò inoltrarsi nella bruma sottile che sporcava il buio,
un'ombra minacciosa che si allungava oltre il cornicione, ma non lo
guardò sparire, né seppe se si era voltato
indietro, quando aprì la porta finestra rifugiandosi nelle
tenebre calde e familiari dell'appartamento.
Nell'aria
immobile di quella lunga notte, lo sguardo ferito della giovane
dottoressa tornò più volte a tormentarlo, come un
pungolo nel cuore, un battere fastidioso fra le costole ed il proprio
rimorso. Si era convinto così a lungo che la ragazza
l'avrebbe rifiutato, se solo avesse conosciuto quella parte di lui, che
aveva finito con l'accadere.
Che
cosa doveva essere Batman per lei, se non quello che era per qualunque
altro cittadino di Gotham? Un'ombra, un ricordo sfuggente, tremendo
prima dell'alba, eppure Bruce l'aveva baciata, aveva lasciato che le
parole di lei s'insinuassero tanto a fondo da lasciarlo scoperto, umano.
Avrebbe
potuto passare delle ore a riflettere sui motivi che l'avevano spinto
ad avvicinarsi a lei, ad ignorare per una volta le ferree regole che si
era imposto, eppure, prima di poterlo realizzare davvero, si era
già messo alla ricerca del fermaglio che dai capelli mogano
le era sfuggito durante il volo.
Lo
trovò prima del sorgere del sole, curiosamente indenne,
impigliato ad un filo per il bucato. Esitò a stringerlo nel
palmo quasi quelle sue mani grandi, sgraziate avessero potuto mandarlo
in frantumi da un momento all'altro.
Lo
guardò per un lungo istante, indeciso, chiedendosi per una
volta quale fosse la cosa giusta da fare, senza esserne ciecamente
convinto. Si chiese se Bruce Wayne e Batman avrebbero mai potuto
convivere innamorandosi della stessa persona, due volte, in due momenti
diversi, se quei sentimenti un giorno non l'avrebbero distrutto.
Pensò
ad Alfred, a quello che per lui aveva sempre voluto. Alfred che su di
lei aveva già una chiara opinione. "Potrebbe diventare una
straordinaria Signora Wayne, un giorno." gli aveva detto qualche giorno
prima, ma Bruce aveva riso per scacciare l'illusione di qualcosa che in
quel momento era doloroso anche solo immaginare.
Nel
suo cuore quel fermaglio pesava come un macigno, un oggetto tanto
insignificante all'apparenza, eppure fra le sue dita stava acquisendo
nuova luce, un nuovo significato. Cercò di ricordare quello
che suo padre gli aveva insegnato sull'amore, ma le parole erano andate
perdute fra la polvere del tempo.
Erano
stati amori fugaci i suoi, intensi. Tanto velocemente erano divampati
quanto facilmente si erano spenti, ma nessuna si era fermata tanto a
lungo da rimanere, Bruce le aveva deluse tutte in un modo o nell'altro.
Non
voleva questo per lei, solo di questo era dannatamente sicuro.
Quella
mattina, come tante altre, fu Waffle a svegliarla con le sue fusa
insistenti. Eppure April avrebbe preferito non alzarsi dal letto, non
accendere la TV per scoprire che ciò che aveva vissuto fosse
ancora vero, ancora tanto vicino da serrarle la gola al solo ricordo.
Un
rivolo di sudore freddo stava ancora colando lungo la sua schiena, non
aveva dormito bene quella notte, forse non aveva dormito affatto. Aveva
ricordi di un sonno turbato, superficiale, quella spiacevole sensazione
di quando si è troppo stanchi per tenere gli occhi aperti,
ma troppo vigili per perdere conoscenza.
Nel
buio dietro le palpebre serrate in una morsa, come quelle di una
bambina terrorizzata da un temporale troppo vicino, l'occhio nero della
pistola baluginava in un angosciante ripetersi di scatti.
Annegando
quei pensieri in un angolo del proprio inconscio, accarezzò
per un lunghi attimi l'esile gatto color miele, quasi a scusarsi per
quella sua negligenza. Non voleva raggiungere la cucina, prendere in
mano un cellulare che non avrebbe fatto altro che squillare.
Quelle
ultime ore sembravano essere trascorse nel tempo rallentato dei sogni,
irraggiungibili, sfilacciate quasi fossero state vissute da qualcun
altro, eppure le ferite sottili alle dita, al viso, le raccontavano una
storia diversa.
Sul
polso il segno rosso dove si erano chiuse le dita dell'uomo pipistrello
doleva ancora, un dolore sordo, pungente, che stranamente la ragazza
avvertiva nel cuore invece che sulla pelle. Lui le aveva salvato la
vita, una vita che April non aveva mai sentito tanto in pericolo, ed
allo stesso tempo l'aveva ferita tanto a fondo da lasciarla
più stordita di quanto non fosse stata in cima a quel
grattacielo, sola, terrorizzata.
Sapeva
che cosa l'avrebbe aspettata nei giorni successivi, oltre ad un
meticoloso recupero di tutti i documenti sensibili dell'ospedale, di
sicuro le sarebbero state imposte diverse sedute di terapia per
valutare l'entità del trauma subito.
Non
voleva parlare di lui, di quello che aveva significato per lei guardare
nei chiari occhi azzurri, freddi e terribili, di quanto assomigliassero
a quello che sentiva, a quello che di se stessa non aveva mai voluto
vedere.
Di
nuovo desiderò ardentemente non essersene mai andata, di
avere ancora accanto la presenza ruvida e rassicurante di sua nonna,
qualcuno che le dicesse che cosa doveva provare. Avrebbe dovuto essere
terrorizzata per aver rischiato la vita a quel modo, ma non lo era,
avrebbe dovuto essere grata all'oscuro vigilante di Gotham, ma non
voleva.
Richiuse
gli occhi d'oro sulla tenue penombra della stanza, sperando di ricadere
nel sonno, sperando di poter cancellare quella confusione dietro le
palpebre chiuse, ma inutilmente. Pensare era l'unica cosa che non
avrebbe mai potuto negare a se stessa.
Raggiunse
a passi lenti la cucina, preceduta da Waffle, riempì la
ciotola a tentoni, ma non riuscì neppure a pensare di poter
mangiare qualcosa. L'idea di tornare per qualche giorno a Boston
accarezzò pericolosamente i suoi pensieri, mentre la luce
sporca del mattino entrava copiosa dalle tende finalmente aperte.
Guardò
per un attimo il luogo esatto dove solo poche ore prima lo aveva visto
sparire, un'ombra immensa, terribile. Non le aveva neppure detto il suo
nome, Batman, quasi avesse dato per scontato il fatto che la ragazza
avesse dovuto conoscerlo, o forse no. Ricordò quello sguardo
fisso, impenetrabile nel suo, quasi a volerla tenere fuori a tutti i
costi, una strana reazione la sua per un eroe.
Il
solo pensiero la fece talmente arrabbiare che si convinse a distogliere
sguardo e pensieri da quell'angosciante ricordo, eppure, un attimo
prima che si allontanasse dalla finestra qualcosa brillò
distintamente all'angolo del suo campo visivo, attirando la sua
attenzione.
Bastò
a fermarle il cuore, a farle spalancare la doppia porta finestra ed
uscire sulla grande terrazza a piedi nudi, ignorando il freddo.
Raccolse con cura il piccolo fermaglio d'oro, che qualcuno aveva
depositato di fronte all'ampia vetrata.
Il
sole stava già sorgendo oltre la Wayne Tower,rimbalzava
frantumandosi in mille colori fra i neon spenti e le finestre oscurate.
April osservò il terrazzo, quasi l'uomo fosse ancora
lì a guardarla e sorrise.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** ~11~ The one side of a medal ***
~11~ The one side of a medal
- Padron Bruce, temo che svegliarsi alle tre del
pomeriggio sia troppo tardi persino per un giovane miliardario.
–
La
voce pungente di Alfred interruppe il suo sonno all'improvviso, in modo
piuttosto dissonante rispetto al vuoto senza sogni in cui era caduto
addormentandosi.
L'ambiente
odorava di caffè e le braci ancora accese nel caminetto
impregnavano l'aria di un vago aroma di pino, ma qualcos'altro si
mescolava pungente alle sue narici premute sul cuscino. Sangue, doveva
essere sangue.
Bruce
aprì lentamente gli occhi blu, accecati dal sole
pomeridiano, su una stanza che per poco non riconobbe, data la sua
recente quasi totale permanenza nella caverna. I muscoli gli dolevano
tutti, come se avesse corso una maratona in quelle poche, sfuggenti ore
di reale riposo, dopo giorni di pattuglie notturne.
-
Caustico come sempre, vedo. – biascicò tirandosi
su a fatica fra le lenzuola disfatte, appena sporche di sangue rappreso.
Non
lo degnò di una risposta, anni al suo fianco gli avevano
regalato la saggezza necessaria a non cedere alle provocazioni di un
malconcio vigilante in riposo.
Lo
guardò abbandonare il vassoio con la colazione e
l'occorrente per medicazioni sul comodino in ciliegio intarsiato, gli
occhi azzurri che cercavano i suoi sotto le sopracciglia aggrottate.
-
Pare che Batman sia di nuovo in prima pagina. –
osservò cautamente, srotolando il giornale che ogni mattina
piegava con cura e riponeva accanto alla tazza di caffè
bollente.
Bruce
non aveva certo bisogno di leggere per sapere come Batman aveva
contribuito a sventare l'attentato al Gotham Mercy, avvenuto quasi tre
giorni prima. Né aveva bisogno di un promemoria sul buco
nero in cui sembravano essere cadute tutte le piste che aveva battuto
per cercare il responsabile.
Non
un nome, né una traccia in tre notti. Era un fantasma ad
aver orchestrato quella complessa dimostrazione di forza.
-
Già. – rispose atono, grattandosi distrattamente
la barba ispida. Sapeva benissimo dove Alfred aveva intenzione di
condurre quel discorso, ma non aveva alcuna voglia di parlarne.
Si
alzò in piedi, ignorando il caffè ed il pane
tostato, per cercare di scaldare i muscoli dolenti e intorpiditi, di
sbloccare le articolazioni ormai fredde.
Un
brivido involontario gli attraversò la spina dorsale, quando
alle sue orecchie arrivò il sordo cling della
boccetta di disinfettante appena aperta.
-
Ha telefonato alla signorina? Sono sicuro che si sarà presa
un bello spavento dopo tutto ciò che le è
capitato. – insinuò Alfred con una
casualità che non si addiceva alla sua intelligenza,
strappando a Bruce solo un breve sospiro.
Non
era più lui a condurre quella conversazione, ma l'uomo che
ora lo guardava impietosamente fare flessioni alla velocità
di un forsennato sul pavimento gelido pur di non rispondere.
-
Sta bene. –
-
Allora l'ha vista, signore? –
Doveva
rendergliene merito. Sembrò quasi stupito, mentre impregnava
distrattamente un batuffolo di cotone del liquido scuro nella temuta
boccetta. Gli anni lo avevano reso di certo un attore migliore di
quanto non avesse creduto.
-
Si, e non è andata come credi. Mi ha chiesto di sparire
dalla sua vita. – si accigliò Bruce, rialzandosi
in piedi per accostarsi alla grande finestra blasonata all'altro capo
della stanza.
Al
di là del vetro umido di bruma, il paesaggio si stava
già spegnendo sotto i colpi incessanti di quel gelido
autunno. Guardando le foglie smorte turbinare sul lungo viale
d'accesso, in balia di un vento bizzoso, era facile dimenticare il
tepore interno dell'ambiente.
Abituato
com'era alla pioggia notturna, fitta e penetrante come chiodi
sull'armatura, il freddo ormai era diventato una parte di lui. Se lo
sentiva nelle ossa, sotto la pelle, aveva scavato un tunnel fino al suo
cuore dove si era impastato indissolubilmente al rimorso che gli
cresceva dentro.
Non
esistevano braci accese abbastanza a lungo da strapparlo a quel senso
di solitudine.
Il
dolore pungente alla spalla interruppe il filo dei suoi pensieri,
serrandogli le mascelle in uno schiocco sordo.
-
Lo sai che fa male, vero? – abbaiò eloquente
all'uomo alle proprie spalle, rabbrividendo al tocco inaspettato del
cotone impregnato di disinfettante sulla ferita alla schiena che, solo
la notte precedente, Alfred lo aveva aiutato a ricucire.
-
Certo che sì. Mi perdoni, signore, ma mi pare di capire che
la signorina abbia chiesto a Batman di ... sparire. Non a Bruce Wayne.
– lo rimproverò con quella colpevole dolcezza che
Bruce aveva imparato a conoscere dopo tanti anni, ma alla quale non
aveva mai saputo come sottrarsi.
Era
perfettamente consapevole di quanto di più sensato ci fosse
in quelle parole, lo aveva sempre saputo, eppure aveva permesso che la
paura prendesse il sopravvento, tagliandola fuori.
-
Non posso ... - sospirò a denti stretti, lasciando che il
dolore occupasse anche solo per un attimo la sua mente, che lo
costringesse a lasciarsi andare.
-
Se non ora, quando? Anche lei ha diritto ad essere felice, padron
Bruce. Non la lasci andar via, per una promessa fatta ventisette anni
fa. L'ha mantenuta più a lungo di quanto non avrebbe fatto
una qualunque persona sana di mente. – ribatté
piano, senza perdere la calma.
-
Batman ha fatto la differenza. La notte è più
sicura ... è più sicuro per le famiglie
passeggiare in strada, è più sicuro tornare a
casa. –
Era
stato Batman a riportarla sana e salva su quel tetto, per quanto ne
fosse rimasta terrorizzata. Non sarebbe bastato un suo rifiuto a farlo
desistere dalle proprie convinzioni.
-
Questa è solo una faccia della medaglia, padron Bruce. So
cosa la trattiene, ma credo che lei abbia già reso fieri i
suoi genitori mille volte tanto. Forse è il momento di
rendere fiero se stesso. –
Avrebbe
voluto accontentarlo, poter mettere da parte il proprio rimorso, ma non
faceva parte di lui e temeva che non lo avrebbe mai fatto.
In
tutti quegli anni essere felice non era mai rientrato nelle
possibilità che Bruce si era concesso. Il lusso di amare,
essere amato, avere una famiglia non si addicevano all'uomo che era
diventato. Si era scelto una gabbia ed in quella gabbia era vissuto per
trentasei anni, senza mai voltarsi indietro.
Aveva
un debito nei confronti di suo padre, di se stesso, un debito che non
aveva mai smesso di nutrirsi della sua rabbia, del suo rimpianto e con
essi era cresciuto, fino a togliergli ogni cosa.
Senza
degnarlo di una risposta, si diresse verso lo scrittoio in mogano che
era appartenuto a suo padre prima di lui, afferrò una penna
e della carta intestata su cui scrisse solo poche righe.
-
Mandale dei fiori ... con questo. – gracchiò
porgendogli il biglietto chiuso, che Alfred prese fra le dita curando
attentamente di non incontrare il suo sguardo.
-
Come desidera. –
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** ~12~ Flowers ***
~12~
Flowers
Le
avevano detto che Gotham era una città piovosa.
L'acqua
scorreva sullo sporco, lavava via il marcio dalle strade, portava via
segreti indesiderati che si celavano agli angoli delle strade, a volte
trascinava via con sé persino qualche chiacchierone di
troppo.
La
pioggia era un sollievo. Oscurava la luce, celava la trasparenza
insopportabile della corruzione, cosicché paura e
preoccupazioni potessero sciogliersi e scivolare via lontano, dove
nessuno era costretto a guardare.
Ma
l'acqua non era caduta sulla patina di cenere e sporco che ricopriva
ancora il piano terra del Gotham Mercy. Il silenzio era assordante nei
corridoi in macerie, si mescolava all'odore penetrante di benzina e
stoffa bruciata, al grigio smorto del linoleum carbonizzato.
Non
c'era da sorprendersi se nessuno volesse rimanere in ascolto.
Dimenticare era una prospettiva fin troppo allettante e i gothamiti
sapevano dimenticare.
Il
sole stava già calando su quella nitida domenica d'autunno,
la prima davvero libera da quando April si era trasferita a Gotham. Ci
erano voluti un assalto armato e la distruzione di un intero reparto a
regalarle quell'attimo di pace, una pace che pure la ragazza non sapeva
come godersi.
Erano
stati tre giorni frenetici quelli che erano seguiti all'incidente,
così lo avevano chiamato i notiziari.
La
polizia non aveva fatto altro che andare e venire, chiedendo
deposizioni, facendo rilevamenti, le armi in bella vista appese ai
cinturoni di cuoio ed un insopportabile guizzo di colpa negli occhi
sfuggenti sotto le visiere dei berretti.
Uno
stormo di assicuratori in colletto bianco aveva già
provveduto a calcolare l'entità dei danni strutturali e
morali, mentre medici ed infermieri, ammutoliti dalla paura e dalla
fretta di dimenticare, si erano limitati a raccogliere flaconi in
frantumi e cartelle bruciacchiate per ridare un senso alla
quotidianità fra quelle quattro mura.
April
aveva rassicurato così a lungo, e così tante
persone, che ormai si era quasi convinta di non aver più
nulla da dire, di non avere lacrime per ciò che era
successo. Se fosse vero, non l'avrebbe saputo dire. Teneva di gran
lunga di più alla salute di sua nonna, che a qualsiasi
timore le attanagliasse la gola alle prime luci dell'alba.
Rivedeva
spesso quella pistola puntata diritta al suo petto ed, allo stesso
tempo, anche l'ombra spaventosa dell'uomo che si era interposto fra
loro, risparmiandole il colpo. A volte avrebbe giurato di aver scorto
la sua sagoma di solida pece in lontananza, di notte, proprio sul tetto
del palazzo adiacente, ma il tempo di un battito di ciglia ed era
già sparita.
Trascorsero
quei tre giorni come in un sogno, lunghissimo, si, eppure senza peso,
ininfluente, culminato in quella domenica pomeriggio in cui qualcuno
bussò insistentemente alla porta dell'appartamento,
distraendola dal computer portatile e dal divano in pelle usurata.
-
E' lei la dottoressa April Holloway? – chiese atono un
ragazzino slavato in divisa marrone, i pigri occhi color topo che
sbirciavano attraverso lo spiraglio della porta serrata dalla catena di
sicurezza.
-
Si, sono io. –
-
Una consegna per lei, dal signor ... Wayne. –
sospirò gettando una veloce occhiata alla cartellina
consunta su cui era appuntato il modulo da contrassegnare.
April
dovette raccogliere un istante i pensieri, prima di aprire la porta e
prendere in mano la penna che il ragazzo le stava già
distrattamente porgendo.
-
Firmi qui, prego. –
Sulle
prime l'istinto fu quello di rifiutare. Non si vedevano dalla serata
dell'asta in cui la ragazza lo aveva goffamente respinto, lui d'altro
canto non aveva dato segni di volerla vedere ancora, né si
era interessato alla sua recente esperienza, ancora stampigliata in
prima pagina sugli ultimi numeri del Gotham Gazette.
Più
si sforzava, meno capiva quel suo comportamento da sfinge svampita.
Forse voleva qualcosa da lei, forse anche April si era scoperta ad aver
immaginato qualcosa di più di semplici incontri fugaci ai
margini della vita di entrambi.
Eppure,
che ne fosse consapevole o meno, Bruce Wayne finiva col dissipare quei
tentativi d'intimità in una strenua chiusura, nell'ostinata
finzione di chi sa come mentire ed ha avuto tutta la vita per imparare
a farlo.
Diceva
di non avere risposte per lei, come a mettere un punto fermo fra
ciò che poteva e non poteva essere nel suo cuore, ed ora le
spediva dei fiori. Un uomo così indeciso non poteva portarle
nulla di buono.
Eppure
firmò, attese pazientemente che il ragazzo in palese piena
pubertà le consegnasse il più delicato ed
elegante bouquet che avesse mai ricevuto, e per un lungo istante rimase
sulla soglia, i fiori stretti fra le braccia che quasi non potevano
contenerli, guardando il corriere sparire.
Più
irritata che realmente sorpresa tornò nell'appartamento,
indecisa se destinare immediatamente l'omaggio floreale a qualcun altro
o se assecondare il fastidioso batticuore, e chiamare il centralino
della Wayne Tower nella speranza di essere messa in contatto col suo
ufficio.
Erano
belli, quei fiori, non erano rose, né gigli, ma orchidee,
gladioli e tulipani, inusuali per qualcuno che volesse chiedere scusa o
forse solo chiederle di uscire. Aveva visto benissimo il piccolo
biglietto poggiato fra i petali inebrianti, eppure le dita esitavano ad
afferrarlo.
Si
decise a leggerlo solo dopo qualche minuto, una volta sistemato il
bouquet in un vaso e raggiunto un compromesso con se stessa. Solo poche
righe, in una calligrafia slanciata ed elegante, tracciate su di un
piccolo foglio intestato alle Wayne Enterprises.
"Dottoressa, ho saputo solo oggi dai giornali
dell'incidente al Gotham Mercy. Vorrei scusarmi per non averla cercata.
Anche se sono cosciente possa sembrare una scusa banale, purtroppo ero
fuori città per affari. La prego, accetti questo mio goffo
tentativo di chiedere perdono.
Con la speranza che stia bene e che le piacciano i
fiori,
Bruce Wayne."
April
avrebbe desiderato la forza di strappare quel biglietto filigranato,
l'enorme banalità con cui era stato scritto e dimenticare
quel Bruce Wayne, che dal primo momento non aveva fatto altro che
propinarle menzogne.
L'aveva
detto lui stesso. Un gesto insipido, per un uomo distratto, impegnato
in qualsiasi cosa al di fuori dei sentimenti altrui. Era stata ingiusta
con lui e se ne era pentita, ora quei sentimenti avevano intrapreso una
brusca inversione di marcia.
Avrebbe
voluto non facesse così male, avrebbe voluto davvero contare
qualcosa di più seppure avesse preferito non ammetterlo a se
stessa. La forza di strappare il candido cartoncino non
arrivò, rimase abbandonato accanto al semplice vaso di
porcellana sul basso tavolino in legno grezzo. Monito di ciò
che avrebbe dovuto ricordare.
Le
guardò un'ultima volta, prima di tornare allo schermo del
vecchio portatile ancora acceso sul divano, e trattenne a stento le
lacrime di rabbia che si affacciarono ai suoi occhi.
Che cosa vuoi da me?
April
lasciò che i giorni scivolassero via, mentre i fiori
appassivano sul tavolino del salotto spargendo un vago aroma dolciastro
in tutto l'appartamento. Non li guardava nemmeno più
rientrando a casa da un lavoro da cui avrebbe preferito non riemergere,
non per ora.
E
neppure aveva raccontato alle colleghe quella prodezza del signor
Wayne, sicura che l'avrebbero, in un modo o nell'altro, convinta a
cercarlo, a ringraziarlo. Per cosa poi? Per averle regalato menzogne ed
insicurezze, per averla illusa su qualcosa in cui la ragazza non aveva
mai creduto in vita sua.
Aveva
trascorso la propria infanzia guardando suo padre, quello che era
diventato dopo la morte dell'unica donna che avesse mai amato. Forse
lui aveva sempre creduto di saper fingere, di non dare a vedere il
varco che la morte di sua madre gli avesse aperto nel cuore, purtroppo
April aveva presto intuito quanto scarse fossero le sue doti di
bugiardo.
L'aveva
amata, le era stato ciecamente accanto fino al giorno in cui era
tornato per l'ultima volta dalla sua stanza di ospedale senza dire una
parola. Lo ricordava ancora seduto sulle asettiche sedie in plastica di
un corridoio che odorava di disinfettante e disperazione. Un uomo
vinto, solo, al cui dolore non era mai riuscito dare voce.
A
lei che era ancora una bambina, era stata sua nonna a dare la notizia.
Parole che April ormai faceva fatica a riportare alla mente, ma suo
padre no, suo padre la realtà l'aveva compresa fin dal
principio, ci si era scontrato alla velocità di un treno in
corsa, doveva essersi impressa nel suo cuore con la forza inesorabile
di un cataclisma.
Di
quei bei momenti non era sopravvissuto il caldo ricordo che tutti gli
avevano assicurato sarebbe rimasto. Aveva cresciuto sua figlia con
l'amore goffo e ruvido di chi non fa affidamento sulle parole, ma pur
sempre con amore. L'aveva guardata assomigliare a sua madre ogni giorno
un po' di più, eppure il dolore non si era mai attenuato.
Poi suo padre era morto, così com'era vissuto, infelice nel
profondo.
Solo
allora April aveva compreso che l'amore non era quello che tutti
credevano che fosse, ma un'arma a doppio taglio, una scelta azzardata
nell'equazione della vita. Nulla di quello che aveva vissuto era mai
riuscito a darle prova del contrario, ed ora Bruce Wayne aveva
dimostrato, come lei, di non voler accettare quel rischio, che sarebbe
stato più facile non illudersi, non desiderare.
Nel
frattempo il Gotham Mercy era quasi tornato alle sue vecchie funzioni
dopo l'attentato. Nonostante i lavori ancora in corso, tutte le macerie
erano state rimosse dal piano terra, le porte sterili sostituite ed i
pazienti erano tornati nei rispettivi letti dopo il breve trasferimento.
Grazie
all'intervento di Batman quasi tutto il personale medico era uscito
dalla disgrazia con le proprie gambe e perfettamente incolume, eppure
sull'intera faccenda era caduto ben presto il più completo
silenzio. Giornali e speaker radiofonici dai toni isterici, erano
passati a rosicchiare l'osso successivo ed i gothamiti erano tornati a
sonni ben più tranquilli.
Quella
notte, come lei, più d'uno dei suoi colleghi aveva annusato
la prospettiva di ricevere una pallottola con su scritto il proprio
nome ed occupare la mente in una familiare routine sembrava l'unico
modo abbastanza allettante da permettere loro di guarire.
Le
cartelle versavano ancora in un disordine pietoso, dopo l'incursione da
uragano in cui gli aggressori a volto coperto sembravano essersi
divertiti a mandare all'aria persino il lavoro d'archivio.
Molte
andavano chiuse, altre erano disperse o distrutte, perciò la
maggior parte dei medici più giovani era stata assegnata a
lavori d'ufficio, in attesa che l'ingranaggio tornasse alla consueta
efficienza.
Le
scartoffie apparentemente infinite, che si accumulavano sulla scrivania
d'acciaio di uno degli ambulatori al decimo piano, finirono per
ingoiare il suo tempo.
Era
trascorsa una settimana dal giorno in cui aveva ricevuto quei fiori che
l'aspettavano smorti al suo ritorno, senza voler mai appassire del
tutto. Una settimana in cui la ragazza aveva tentato in tutti i modi di
dimenticare la frustrazione, d'ignorare la ferita che l'incuranza di
Bruce Wayne aveva aperto fastidiosamente dentro di lei.
Era
sempre stata sicura delle proprie convinzioni, del proprio giudizio,
aveva intuito fin dall'inizio che quell'uomo l'avrebbe ferita, in un
modo o nell'altro, eppure, per quanto avesse deciso di spingerlo fuori,
il volto squadrato, gli occhi sfuggenti ed il sorriso un po' spento
erano comunque riusciti a farsi strada dentro di lei.
Di
una cosa era certa, se queste erano le condizioni non lo voleva accanto
a sé. Poteva aver ingannato il mondo intero per quanto le
interessava, con quella sua apparenza da sregolato miliardario. Eppure,
dietro la maschera, April aveva intravisto un uomo pieno di
contraddizioni e di incertezze, che nel goffo tentativo di fare la cosa
giusta avrebbe ferito chiunque intorno a sé.
Si
scoprì a leggere la stessa riga per la terza volta, quando
il telefono bianco semicoperto dalla pila di cartelle
squillò, riportandola bruscamente alla realtà.
-
Si? – rispose distrattamente sollevando la cornetta e la voce
metallica dall'altro capo le suggerì immediatamente che
fosse una chiamata interna.
-
Dottoressa, una telefonata per lei. – chiosò con
una certa urgenza la voce da topo dell'infermiera all'accettazione.
Sembrava
sulle spine a tenere l'interlocutore in attesa ed April non
tardò a capirne il motivo.
-
E' il signor Wayne ... riguardo la donazione ... - continuò
l'altra in tono eloquente, quasi a voler risparmiare le parole, e la
ragazza ebbe la fulminea sensazione che il cuore avesse clamorosamente
fallito una contrazione.
Avrebbe
preferito firmare altre cento cartelle, piuttosto che rispondere a
quella chiamata. Sarebbe scappata, se avesse potuto, lontana dall'uomo
che con meticolosa insistenza tornava a tormentarla ogni qual volta
avesse fatto un po' di chiarezza fra i propri sentimenti.
-
Si, certo. Me lo passi pure. – rispose invece dopo qualche
secondo di esitazione.
Aveva
dato parola di occuparsi personalmente di quella donazione, rifiutare
avrebbe significato, tra le righe, compromettere la sua posizione
lavorativa. L'infermiera non la salutò neppure prima di
riagganciare, con una fretta figlia di un rispetto che tutti sembravano
riservare incondizionatamente all'uomo all'altro capo del telefono.
-
Signor Wayne? – azzardò non appena
sentì qualcuno riprendere la linea, qualcuno che pure
tardò un istante a rispondere.
-
Dottoressa ... come sta? Ha ricevuto i miei fiori? – sorrise
Bruce Wayne, la voce profonda leggermente arrochita dal ricevitore.
-
Bene. Si, si. Erano splendidi, grazie. –
Ignorò
dolorosamente l'istinto di riagganciare, di impedirgli di sorriderle a
quel modo dopo il loro ultimo, brusco incontro.
-
Mi spiace non aver chiamato prima, io ... -
Sembrava
mortificato, nonostante l'usuale compostezza nei toni, ma April non gli
avrebbe mai permesso di continuare, non per mentirle ancora una volta.
Perché scusarsi per qualcosa che non aveva voluto portare a
termine?
-
Signor Wayne, perché ha chiamato? –
tagliò corto lei, nascondendo la leggera irritazione nella
voce, qualcosa che non seppe dire se l'uomo avesse colto o meno.
-
Certo. Sarei passato di persona oggi stesso, ma ho avuto un
contrattempo. Le spiacerebbe raggiungermi più tardi qui alla
tenuta Wayne con i documenti per la donazione? –
L'invito
la colse di sorpresa, accelerando i battiti del suo cuore, e per un
lungo istante, l'idea di delegare qualcun altro accarezzò
pericolosamente le sue intenzioni.
I
documenti erano lì sul tavolo, accanto a lei, le dita li
raggiunsero istintivamente quasi avessero potuto aggrapparvisi per
avere una risposta e, di nuovo, la ragazza si lasciò andare
al ricordo del loro primo incontro nel lungo corridoio tappezzato
d'arazzi, al viso bello e piacevole dello sconosciuto dagli occhi blu.
-
Si, nessun problema. – cedette infine, gettando
consapevolmente alle ortiche il suo buon senso.
-
Posso mandarle una macchina se preferisce. –
azzardò l'uomo, forse altrettanto indeciso sulla natura di
quel loro rapporto, quasi entrambi si stessero ancora muovendo a passi
lenti su un campo minato.
Eppure
April era ben lontana dal poter accettare, già una volta se
n'era andata bruscamente consapevole di essergli debitrice di una
premura come quella ed aveva solo finito col pentirsene.
-
Non si disturbi, prenderò un taxi. A più tardi,
allora. –
Lo
salutò in fretta, sperando che l'uomo non intuisse quanto
quel leggero batticuore le stesse togliendo il respiro.
-
A più tardi, dottoressa. –
Sembrò
che stesse ancora sorridendo, mentre la ragazza riagganciava senza
salutarlo un'ultima volta.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** ~13~ Rock-climbing ***
~13~
Rock-climbing
Salendo
sul taxi qualche ora più tardi, April si limitò a
guardare in silenzio i contorni grigi della città svanire
sotto le ruote consunte della sbiadita vettura gialla.
Nell'aria
umida, la diafana luce rosata del tramonto rimbalzava sulle vetrate dei
grattacieli con la prepotenza di un colore acrilico. Si frammentava sui
neon ancora spenti, nella fine pioggerella sospesa in quell'atmosfera
densa e odorosa.
Era
ormai troppo tardi per tornare indietro, troppo presto per farsi
un'idea sbagliata sulle intenzioni di quel Bruce Wayne che,
dacché si erano conosciuti, non aveva fatto altro che
mandarle messaggi contraddittori.
Sembravano
quasi eseguire entrambi una complicata danza, si rincorrevano a tratti
per poi lasciare la presa, facendo finta che tutto quello che si
fossero mai detti fino a quel momento fosse stato niente più
che un sogno bizzarro.
Aveva
rinunciato al pomeriggio di libertà prima del turno di notte
per raggiungerlo, per ascoltare qualunque cosa avesse avuto da dire.
Non l'avrebbe mai ammesso eppure, nel cuore, la speranza che le cose
tra loro potessero ancora funzionare, era viva, nonostante tutto.
Per
la terza volta da quando si era trasferita a Gotham, l'auto
lasciò il centro affollato di grattacieli per dirigersi
verso l'ariosa periferia. Ritaglio grigio fra le colline tinte di uno
spento giallo autunnale, Wayne Manor era l'unica costruzione visibile
già da qualche miglio di distanza, rendendo difficile per i
gothamiti considerarlo ancora parte della metropoli.
Il
gigantesco cancello affacciato sul viale d'ingresso si aprì
automaticamente al loro arrivo, permettendo al taxi di accompagnarla
fino al portone in quercia annerita.
Una
volta arrestata la corsa Il nerboruto tassista non proferì
parola, anche se dallo sguardo diffidente sotto le spesse sopracciglia
nere, April indovinò quanto raro dovesse apparire un ospite
in pieno giorno alla tenuta della famiglia Wayne.
Non
le chiese neppure se dovesse aspettarla, afferrò
sgraziatamente le banconote e invertì la marcia, lasciandola
ancora una volta sola di fronte al minaccioso portone.
Bruce
sentì a malapena il rumore del campanello. Sedendosi, in
attesa, sulla poltrona nello studio di suo padre doveva essere piombato
in un sonno istantaneo.
Avvertì
i passi di Alfred sul marmo del corridoio, il cigolare ovattato della
porta d'ingresso sui cardini e sbadigliò, grattandosi
distrattamente le guance già ispide.
Avrebbe
voluto offrirle una vista più presentabile di un completo
sporco di due giorni, occhi cerchiati e quel lieve assopimento che
l'aveva accompagnato per tutto il giorno.
Lei
non l'avrebbe mai indovinato, ma proveniva dal computer della Batmobile
la telefonata di quella mattina, una mattina in cui era stato talmente
impegnato nell'evitare di tornare a casa da essersi scordato di essere
ferito.
Fu
il dolore a ricordarglielo, mentre azzardava un leggero stiramento nel
tentativo di valutare i danni. Sarebbe rimasto in piedi senza problemi,
magari avrebbe dovuto sbrigare quell'incontro più
velocemente di quanto avrebbe voluto, ma con un po' di fortuna la
ragazza non si sarebbe accorta di nulla.
-
Padron Bruce, la signorina la sta aspettando all'entrata. Non ha voluto
accomodarsi. – esordì Alfred, attraverso la porta
semiaperta dello studio, deludendo all'improvviso le sue aspettative.
Forse non era il solo ad avere fretta di terminare l'appuntamento,
eppure il pensiero riuscì comunque a turbarlo.
-
Arrivo. –
Si
rimise goffamente in piedi, stringendo i denti per ingoiare le fitte di
dolore, e seguì Alfred fino al foyer sperando nel frattempo
di riguadagnare un aspetto civile ed un'espressione serena.
Non
si era tolta neppure il cappotto, pensò, guardandola sostare
a pochi passi dal portone, ringraziare Alfred sottovoce mentre l'uomo
li lasciava l'uno di fronte all'altro. Sapeva quanto poco si fidasse di
lui, quanto possibilmente ancora meno di Batman, eppure sorrise
vedendolo comparire sulla soglia.
-
La ringrazio per essere venuta con così poco preavviso.
–
-
Non si preoccupi. Spero di non essere in ritardo. –
Scosse
delicatamente il capo facendo ondeggiare la lunga coda di cavallo sulle
spalle.
-
Sembra sempre molto impegnato, non vorrei farle perdere tempo.
– continuò senza guardarlo negli occhi, le dita
che stringevano saldamente la cartellina blu con i documenti, quasi
avessero voluto aggrapparvisi.
Era
bella anche infagottata nella sciarpa grigia per proteggersi dal gelo
fuori stagione. Bruce avrebbe voluto dirglielo, dirle quanto la sua
presenza cambiasse qualcosa dentro di lui, invece ricambiò
il sorriso in silenzio, avvicinandosi di un passo ancora.
-
Incontrarmi con lei non potrebbe mai essere una perdita di tempo, non
si preoccupi. – rispose con una dolcezza che sempre
più raramente traspariva nei suoi discorsi. Era facile
parlare con lei, mostrarle il suo cuore.
-
Ho portato con me tutti i documenti, possiamo guardarli insieme o posso
lasciarglieli se preferisce. –
Sentiva
fitte ad ogni respiro, una spalla ancora non rispondeva del tutto ai
suoi comandi, probabilmente avrebbe dormito per quindici ore filate
appena toccato il letto, ma in quel momento non se la sentì
di lasciarla andare come aveva preventivato.
-
Possiamo visionarli nel mio studio, venga. –
continuò con l'accenno di farle strada, lasciando andare in
un respiro il dolore che defluiva dalla ferita ancora aperta.
-
Signor Wayne, lei sta sanguinando. –
Le
parole allarmate della ragazza lo fermarono bruscamente, ma solo quando
ne incontrò gli occhi, calamitati sulla camicia scoperta, si
accorse della chiazza scarlatta che si allargava a vista d'occhio sul
suo fianco sinistro.
Un
errore stupido, il suo, lasciarle vedere qualcosa del genere.
-
No, la prego. Non è niente. –
Tentò
di richiudere in fretta la giacca, ma le dita esili di lei
già lo stavano trattenendo, allontanandone l'avambraccio
dalla visuale.
-
Dalla quantità di sangue non si direbbe. Deve farle male,
forse ci vorranno dei punti. – chiosò facendosi
più vicina, la mano ancora sulla sua giacca in una curiosa
naturalezza, ma non tentò di toccare la ferita, limitandosi
ad inchiodare lo sguardo impietoso al suo.
-
Ne dubito fortemente. È solo un graffio. – si
schermì Bruce, sperando di deviare la sua attenzione, eppure
si sentiva in qualche modo lusingato dalla sua preoccupazione.
-
Non faccia il bambino! Venga in ospedale con me. –
Le
sopracciglia sottili si avvicinarono sulla fronte in un piglio di
disapprovazione. Se fosse stato nei paraggi, Alfred l'avrebbe
applaudita per l'audacia di quel rimprovero.
-
Niente ospedale. – ribatté forse con
più freddezza di quanta avrebbe voluto mostrarne e, com'era
accaduto solo pochi giorni prima, la ragazza sembrò accusare
il rifiuto rinunciando al contatto col suo braccio.
-
Almeno mi lasci dare un'occhiata. –
Bruce
si limitò a prendere un respiro, indeciso sul da farsi.
Lasciarla entrare avrebbe significato mettere in gioco qualcosa di
molto più delicato ed instabile della propria salute fisica.
Si fidava di lei, sapeva che sulla sua intelligenza e discrezione
avrebbe potuto contare, ma se si fosse innamorato, di certo l'avrebbe
perduta.
Coniugare
quelle due metà della sua vita era già difficile
abbastanza, senza dover coinvolgere i sentimenti e la vita di qualcun
altro. Nella promessa che aveva fatto non rientrava nulla che fosse
abbastanza simile alla felicità da concedergli il lusso di
una vita amorosa, come quella di qualunque altro uomo.
La
dottoressa avrebbe meritato di meglio, di quello era sicuro, eppure
continuava a cercarla, anche nel profondo del cuore. Continuava a
ripetersi che gli sarebbe bastato averla accanto, anche per quei brevi
momenti rubati al caso.
-
Lei è proprio un gran testardo, sa. –
incalzò dato il suo prolungato silenzio sulla questione.
-
Da che pulpito. –
Si
lasciò sfuggire un sorriso divertito, che contrariamente
alle sue aspettative addolcì l'espressione della ragazza in
un vago, quanto spontaneo sorriso.
-
Va bene. Venga, le faccio portare l'occorrente. –
gracchiò infine, cercando di captare con lo sguardo la
presenza di Alfred nelle vicinanze.
-
Alfred ... -
Lo
schiocco dei passi sul marmo lucido precedette la sagoma esile, che
già emergeva dalla penombra dietro l'enorme scalinata in
legno del foyer.
-
Ho sentito, signore. –
Il
salotto della tenuta, così come il foyer e la sala da ballo,
era un ambiente arioso, quanto dal gusto sofisticato.
La
luce polverosa del tramonto filtrava diafana dalle impalpabili tende
bianche alle finestre blasonate, aperte su un giardino dal curato prato
inglese. Accarezzava i pannelli in ciliegio che ricoprivano le pareti,
regalando all'ambiente un naturale senso di tepore.
Due
grandi divani in pelle Chesterfield Oxford troneggiavano di fronte ad
un caminetto in pietra finemente intagliata. Nel ventre nero del
focolare braci rosse scoppiettavano nel silenzio, diffondendo un
piacevole odore di pino e cenere.
Ciò
che delle pareti non era nascosto dalle preziose perline in ciliegio,
era occupato da pesanti librerie e paesaggi dipinti ad olio,
interrompendosi solo nelle due larghe finestre sul lato della stanza
più esposto alla luce del giorno.
Solo
allora April trovò il coraggio di liberarsi dal cappotto
grigio, abbandonandolo insieme alla sciarpa sullo schienale trapuntato
di uno dei due divani, mentre il signor Wayne sfilava a denti stretti
la giacca scura, senza riuscire a nascondere una smorfia di dolore.
Lo
osservò sedersi sul divano più ampio, sbottonare
la camicia azzurra, senza trovare il coraggio di aiutarlo.
Da
quando lo aveva visto sanguinare, non aveva riflettuto neppure un
istante sulle conseguenze delle proprie azioni.
Aveva
pensato spesso a lui negli ultimi tempi ed era giunta sempre alla
medesima conclusione, ma adesso che era lì, così
vicino che April poteva distinguere chiaramente l'odore della sua
colonia in mezzo a quello del legno, delle braci e della pelle tirata a
lucido dei divani, mentire sarebbe stato inutile.
Nel
profondo del cuore sapeva di voler solo riuscire a penetrare quella
spessa maschera di solitudine che Bruce Wayne portava indosso.
Gli
si sedette accanto, aspettando pazientemente che sfilasse anche la
camicia macchiata e, per la prima volta esitò ad incontrare
i suoi occhi, sentendo nell'aria la stessa intimità che
più volte aveva avvertito nei loro incontri. C'era ancora
una strana armonia in quel loro silenzio, qualcosa di tiepido, quanto
stranamente familiare.
Lo
sentì deglutire a vuoto e di nuovo lo sguardo
inciampò nel suo, bello come il cielo d'agosto. Nonostante
quella sua stazza minacciosa da pugile, i muscoli tesi sul torace e
sulle braccia, sembrava stranamente a disagio, quasi facesse fatica a
trovare le parole adatte ad infrangere il silenzio.
-
Mi dica se le faccio male. – fiottò April
sollevandogli delicatamente il braccio per scoprire il fianco sinistro,
dove un taglio netto e trasversale sanguinava appena all'altezza del
costato.
Ne
tastò appena i contorni gonfi, cercando di indovinarne la
profondità, sforzandosi di ignorare la tenerezza con cui le
iridi blu dell'uomo vagavano su di lei.
-
E' un brutto taglio, ma non credo siano necessari punti di sutura. Solo
qualche steri-strip. – dichiarò infine, aiutando
il braccio a riabbassarsi delicatamente per tornare in posizione di
riposo.
-
Come se l'è procurato? –
-
Roccia. Facendo roccia. – rispose prontamente il signor
Wayne, con un candore che non l'avrebbe convinta neppure in mille anni.
Aveva
lavorato in un pronto soccorso abbastanza a lungo da riconoscere quel
tipo di ferita, ma soprattutto abbastanza da smascherare un bugiardo
patologico.
-
Roccia ... - ripeté con una malcelata nota di sarcasmo,
mentre Alfred posava delicatamente il vassoio con l'occorrente per la
medicazione sul basso tavolo in noce di fronte a loro.
Bruce
non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi mentre si allontanava,
sicuro di trovarvi nascosto un meritato rimprovero.
-
Cos'ha da guardarmi così? – sbottò
invece rivolto alla ragazza, gli occhi d'oro piantati nei suoi in un
chiaro sguardo di diffidenza.
-
Lei deve pensare che io sia o molto stupida o molto ingenua. Mai vista
una parete di roccia procurare una ferita da coltello. –
Non
si sarebbe mai concesso la leggerezza di pensarlo, Bruce aveva sempre
saputo che la dottoressa era fin troppo sveglia per credere ad una sola
delle sue balle, eppure doveva tentare, per quante volte fosse stato
necessario.
-
Senta, tutti abbiamo diritto ad avere i nostri segreti, signor Wayne.
Quindi non indagherò oltre e farò finta di
essermela bevuta. Però, la prego, la prossima volta faccia
più attenzione. Qualunque cosa stia facendo. –
continuò con una dolcezza che Bruce non si sarebbe
aspettato, mentre le dita sottili impregnavano una garza di acqua
fresca, quel tanto che bastava a ripulire la pelle dal sangue quasi
rappreso.
-
Ci proverò. –
Rabbrividì
al contatto, scoprendo quanto la ragazza gli fosse curiosamente vicina
ora che poteva avvertirne il delicato profumo, il leggero respiro.
Per
un lungo attimo si concesse di osservarla, cedendo alla consapevolezza
che il cuore batteva più forte fra le costole ammaccate da
quando si trovava così inerme di fronte a lei, di quanto
l'avrebbe desiderata nella sua vita, come qualcosa di più.
-
In cambio le chiedo solo di smettere di essere così formale.
Mi chiami Bruce. Infondo ormai mi ha visto senza camicia. –
-
Va bene ... Bruce. Solo se mi chiamerai April. –
Sorrise
e solo allora l'uomo si accorse di quanto si era perduto, di quanto
avrebbe potuto essere felice accanto a lei, se solo avesse voluto.
-
April. È un bel nome, molto meglio di Bruce comunque.
– gracchiò, incontrando i suoi occhi oltre quel
velo di diffidenza ormai lacerato, stupendosi di quanto suonasse
naturale quella loro conversazione.
-
Grazie. Mi è sempre piaciuto. –
Posò
sul vassoio la garza rosata, solo per impregnarne una seconda con la
scura soluzione disinfettante dell'infame boccetta.
-
Scusami ... brucerà un pochino. –
sussurrò April una volta poggiato il cotone sulla ferita
aperta, vedendolo serrare i denti, senza pure lasciarsi sfuggire un
lamento.
Sarebbe
stato stupido da parte sua negare quanto la vicinanza dell'uomo
riuscisse a cambiare il suo umore, quanto ancora di lui avrebbe voluto
sapere.
Stava
tremando e pregò che Bruce non se ne accorgesse. Erano anni
che non si trovava così vicina ad un uomo, che non provava
quelle stesse sensazioni, eppure per la prima volta dopo tanto tempo
scoprì di non desiderare solamente di voler scappare.
Il
cuore batteva come un tamburo nel petto, mentre l'uomo respirava quieto
accanto a lei, gli occhi blu che ora vagavano distratti fra le trame
del tappeto persiano sotto i loro piedi. Poteva avvertire il lieve
profumo di colonia e sapone della pelle chiara, la tensione forzata nei
muscoli del torace.
Un
fisico fin troppo allenato per un giovane miliardario, la cute ruvida
stramente marchiata da una fitta mappa di diafane cicatrici, segni che
aveva già visto nella sua vita, quelli sul corpo di suo
padre.
-
Quante cicatrici. A vederti normalmente non si direbbe. –
fiottò d'istinto, accigliata, tracciando con la sola punta
delle dita le trame d'avorio sottile sulle spalle, sulla schiena,
persino sui pettorali.
Sembrava
aver combattuto in una battaglia infinita, una battaglia di cui April
non riusciva ad indovinare la ragione.
-
Non fanno più male ormai. – mormorò di
rimando Bruce Wayne, lo sguardo esitante, quasi confuso, perso nel suo
in contrasto con la dolcezza della voce bassa, raspante.
Solo
allora April si accorse di quanto avevano dovuto essersi avvicinati in
quei pochi minuti e le sembrò stranamente naturale il modo
in cui le loro labbra si incontrarono nel leggero silenzio.
Durò
solo qualche istante, le labbra morbide della ragazza premute sulle
sue, il leggero respiro di lei sulla pelle, i battiti accelerati della
carotide sotto il palmo della sua mano. Non era la prima volta che la
baciava a quel modo, eppure non poté negare quanto di
sincero ci fosse stato in quel gesto.
La
dottoressa non aveva dato segno di volersi sottrarre, eppure Bruce non
poteva dimenticare la sua esitazione ogni volta che aveva provato ad
avvicinarsi a lei.
-
Mi dispiace, non avrei dovuto ... - sussurrò ancora sulla
sua bocca, una volta che le labbra della ragazza ebbero lasciato le sue.
-
No, va bene. – sorrise lei, provocandogli uno strano quanto
rapido tuffo al cuore.
-
Pensavo non volessi per ora ... con qualcuno ... -
Cercò
nei suoi occhi una traccia della diffidenza che era esistita in ogni
loro incontro, ma non la trovò, sembrava solamente ferita,
quasi si fosse pentita di aver dubitato di lui.
-
Non è questo. È che ho come la sensazione che
potrei farmi male con te. Capisci? –
Si
sottrasse delicatamente, abbassando per un istante l'orizzonte nei
chiari occhi d'oro e Bruce non se ne stupì. L'aveva voluta
con sé, senza raccontarle nulla di ciò che era,
di ciò che avrebbe desiderato.
-
Si, lo capisco. –
-
Tu mi piaci davvero, Bruce, non voglio allontanarti. Ma devo prima
potermi fidare e tu non mi stai aiutando. –
Avrebbe
voluto confessarle molte più cose di quante non ne avesse
dette a se stesso, quanto avesse significato quel bacio per lui, dopo
tanta solitudine.
Quasi
cedette, ma più di qualunque altra cosa, più di
quanto facesse male sapere quello che per gli altri era diventato,
voleva proteggerla, tenerla fuori da quella parte della sua vita.
-
Ha senso. – gracchiò distogliendo lo sguardo da
quello allungato ed elegante della ragazza, lasciando che riprendesse
quietamente a medicare la ferita.
-
Ecco, ho fatto. Cerca di cambiare la medicazione una volta al giorno e
di tenere pulita la ferita e nel giro di qualche settimana
andrà meglio. Evita la roccia per un po'. –
esordì dopo un poco, rompendo il silenzio denso in cui erano
caduti dopo quel loro primo, bizzarro bacio.
-
Farò del mio meglio. – ridacchiò Bruce,
testando con cautela la tenuta della medicazione, eppure avrebbe dato
qualunque cosa perché Alfred fosse stato lì con
lui a suggerirgli la cosa giusta da fare.
Ci
pensò su un istante, se l'avesse lasciata andare ora senza
dire una parola di certo non l'avrebbe aiutata a fidarsi di lui.
-
So che può sembrare improvviso, ma ti andrebbe di rimanere
per cena? Qualcosa di informale. –
Sentì
il cuore battere fastidiosamente vicino alla gola, sorpreso dalla sua
stessa avventatezza.
-
Mi piacerebbe molto, ma sono di turno stanotte. Mi dispiace ... -
rispose abbattendo le sue speranze, eppure sembrava sincera, non stava
cercando di scappare.
-
No, no non devi scusarti, davvero ... -
Non
lo lasciò finire, mentre le dita raggiungevano le sue oltre
la distanza che era tornata a separarli, un dolce sorriso sulle labbra
piene.
-
Potremmo sempre rimandarla a domani, quella cena informale. Se per te
va bene. –
-
Si. Si, domani sarebbe perfetto. –
-
Ora devo proprio andare. – sussurrò poi in un
respiro mentre la mano scivolava via dalla sua, rialzandosi a prendere
il cappotto grigio, i lunghi capelli mogano che si tingevano di nuovi
riflessi alla luce del caminetto acceso.
-
Ti accompagno. –
Fu
difficile salutarla senza parlare ancora di quello che era avvenuto nel
salone, di quanto avesse significato per entrambi.
Si
lasciarono forse in maniera un po' goffa, coscienti di aver tradito lo
scopo di quell'incontro, eppure Bruce non avrebbe scambiato quei pochi
attimi con nient'altro al mondo.
Si
era sentito vivo dopo tanto tempo, un uomo qualunque, libero di amare
chiunque avesse desiderato, lieto per una volta di essere stato
solamente Bruce Wayne per la ragazza che in silenzio aveva accettato
finalmente la cortesia di un passaggio fino a casa.
La
guardò sparire nella lussuosa macchina nera attraverso le
strette finestre del foyer, la cartellina che gli aveva lasciato ancora
stretta fra le mani ed il petto pieno di sentimenti contrastanti.
Quasi
non si accorse della presenza di Alfred alle sue spalle, mentre l'auto
percorreva a ritroso il lungo viale alberato nella luce del giorno che
moriva.
-
Padron Bruce, sono molte le cose per cui un uomo dovrebbe
rimproverarsi. A mio parere, innamorarsi non è una di
queste. –
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** ~14~ Who are you, Bruce? ***
~14~
Who are you, Bruce?
Non
era mai stata sua abitudine, eppure April si ritrovò a
contare le ore che la separavano dal goffo invito a cena con cui lei e
Bruce Wayne si erano accomiatati il giorno precedente.
C'era
una strana emozione in quell'attesa, una quiete delicata nel pensiero
di lui, di quello che con naturalezza li aveva portati così
vicini fino a sfiorarsi oltre ogni sensata previsione.
April
avrebbe voluto lasciare a casa le proprie paure, tutti i dubbi che in
quegli anni le avevano impedito di abbandonarsi ai tiepidi sentimenti,
che anche adesso si affacciavano con insistenza al suo cuore.
Eppure
era difficile dare un nome a ciò che provava, a quello che
aveva sentito accanto a Bruce Wayne su quel divano, lo stesso familiare
senso di intimità che aveva guidato ogni loro incontro. Se
solo avesse saputo come parlargliene lo avrebbe fatto, ma dubitava che
avrebbe creduto a qualcosa che lei stessa stentava a capire.
Più
di una volta nei suoi occhi aveva notato un bagliore che da tempo
sembrava essere scomparso dalla sua vita, una tenerezza strana, fragile
per un uomo come lui.
C'era
qualcosa fra loro, qualcosa di curiosamente armonico ed esitante, era
sicura di averlo avvertito nei momenti in cui gli era stata
così vicina da ascoltare il moto lieve del suo respiro.
Per
quanto potesse sembrare in contrasto con tutto ciò su cui
aveva rimuginato negli ultimi tempi, April non aveva paura, non
più.
Certo,
Bruce Wayne non era esattamente il tipo d'uomo che avrebbe desiderato
accanto a sé, se solo avesse saputo cosa desiderare. Le
aveva mentito, più di una volta, ma le aveva anche sorriso
con una sincerità che mancava in qualunque ritratto di se
stesso preferisse mostrare in pubblico. L'aveva guardata con
quell'intima, confortante tenerezza.
Avrebbe
voluto essere diversa, riuscire a penetrare quel velo di solitudine
dietro ai suoi occhi senza doversi guardare dentro. Avrebbe voluto
offrirgli di più di una donna sola, avvelenata da un antico
rimorso.
La
sua presenza non le era indifferente, di questo era assolutamente
certa, eppure, più di qualunque altra cosa, desiderava che
l'orologio tornasse indietro, che le regalasse anche solo per un
istante la compagnia di sua madre. Lei avrebbe saputo cosa dire,
avrebbe saputo cosa fare.
Non
tornò a casa per cambiarsi dopo il lavoro, tenendo fede alla
loro promessa di concedersi solo una cena informale. Così,
per la terza volta da quando si era trasferita a Gotham,
salì silenziosamente su un taxi diretto alla tenuta della
famiglia Wayne.
Al
suo arrivo, molte delle vetrate del gigantesco maniero occhieggiavano
luminose penetrando le ombre gonfie di brina, come la notte in cui si
erano conosciuti, ma la ragazza non trovò alcun maggiordomo
ad aspettarla all'ingresso, bensì Bruce stesso.
Sorrideva
accostato al portone di quercia annerita, quasi avesse atteso
pazientemente il rumore delle ruote sul selciato. April si
sentì sollevata nel notare la semplice polo blu, tesa sul
petto allenato, i pantaloni di un neutro color kaki e non il solito
completo italiano.
La
salutò piuttosto goffamente per essere il playboy
miliardario più ambito di Gotham, e per la prima volta la
ragazza ebbe l'impressione di aver toccato un nervo scoperto, quasi
l'uomo non avesse messo in conto da molto tempo l'idea di essere
semplicemente se stesso.
L'accompagnò
nella moderna cucina al pian terreno, la più grande che
April avesse mai visto, dove già l'anziano maggiordomo
trafficava sapientemente fra gli imponenti fuochi a gas.
La
luce di diverse lanterne d'ottone, sospese sui lucidi pensili in
acciaio e legno laccato, riverberava piacevolmente sulle piastrelle dai
delicati motivi azzurri che attorniavano il mobilio dal gusto
sofisticato e funzionale, degno di un ristorante stellato.
Cenarono
nell'aria densa e profumata, seduti al bancone in granito della lunga
isola addossata al lato più lungo della stanza, ed insieme
alle loro prime parole di nuovo quella fragile intimità
tornò a farsi strada nel suo cuore.
Ascoltarono
i racconti di Alfred sull'infanzia, quasi idilliaca, dell'uomo che
già arrossiva seduto accanto a lei, come se si conoscessero
da sempre, quasi si fossero ritrovati dopo una lunga assenza.
Quei
sette lunghi anni che li separavano la ragazza non riusciva a sentirli,
mentre ridevano l'uno accanto all'altra abbarbicati sugli sgabelli in
legno antico, i piatti semi vuoti e gli occhi blu dell'uomo che per una
volta non esitavano ad incontrare i suoi oltre i bicchieri di vino
rosso ancora pieni.
-
Ti piace qui? - le chiese ad un tratto, senza conoscerne il reale
motivo, forse solo per godere di quel sorriso sulle labbra scure ancora
per un istante.
-
Si, moltissimo. Non avevo mai visto una cucina così grande
ad essere onesta. -
Rise
in un respiro, gli occhi d'oro che già si perdevano fra le
pareti grigio chiaro del locale che Bruce non aveva mai sentito come
proprio, come quasi nessun'altra parte della casa, eccezion fatta per
lo studio di suo padre e la caverna parecchi metri sotto i loro piedi.
-
Cucini spesso? -
La
domanda lo colse in fallo. Dietro lo sguardo quieto della ragazza si
nascondeva la stessa ingenuità in cui l'uomo aveva esiliato
qualsiasi altro rapporto avesse mai avuto con una donna ed,
inaspettatamente, il pensiero tornò a pungolarlo come in
tempi meno frenetici.
-
Dio, no. Combinerei un disastro. Se non ci fosse Alfred credo che
morirei di fame nel giro di qualche giorno. - si schermì,
grattandosi la barba già ispida, chiedendosi pure da quanto
non avesse avuto l'occasione di sentirsi tanto inadatto di fronte a
qualcuno.
La
ragazza non sembrò affatto sorpresa, lo sguardo annodato al
suo senza malizia, sorrideva quasi a prenderlo in giro, qualcosa di cui
l'uomo non l'avrebbe mai rimproverata.
-
Ne convengo. Una volta ha provato a cucinare un uovo fritto, non le
nascondo di aver pensato ad un furto di qualche genere date le
condizione pietose in cui versava la cucina. - intervenne Alfred,
tutt'altro che in suo soccorso, eppure Bruce non poteva essere
più lontano dall'aversene a male.
Erano
anni che la risata di una donna non invadeva quelle pareti.
Assomigliava curiosamente a quella, ormai sbiadita, di sua madre o
forse la memoria gli stava solo giocando qualche brutto scherzo.
-
E lei, signorina? Le piace cucinare? - continuò Alfred,
guardandola di traverso, gli occhi azzurri sporti sopra le piccole
lenti rotonde. Lo stesso sguardo complice che aveva usato con lui in
tempi migliori.
-
Ho dovuto imparare. Mia nonna, a discapito dei cliché,
è una cuoca terribile. In un paio di occasioni credo abbia
tentato di avvelenarmi. Non la biasimo del tutto, sotto esami diventavo
intrattabile. -
Non
si tradì April, nascondendo i sentimenti dietro un ghigno
appena trattenuto, eppure nel fondo dei chiari occhi color del tramonto
era in agguato lo stesso dolore che più di una volta Bruce
aveva dovuto ingoiare nei lunghi giorni di solitudine della sua
infanzia.
La
guardò raggiungere il bicchiere con le dita sottili, un vago
sorriso sulle labbra bronzee, senza mai berne il contenuto.
Avrebbe
voluto offrirle molto di più dell'uomo ferito ed
intrattabile che era, dell'uomo che non avrebbe bevuto neppure una
goccia del vino costoso nel calice di cristallo per paura di dover
all'improvviso lasciarsi Bruce Wayne alle spalle, diventare la creatura
che sempre più spesso si cibava delle sue notti, lasciandolo
stanco e desolato.
-
E' stata mia madre ad insegnarmi. Non direttamente, purtroppo. Per
fortuna mio padre aveva conservato tutti i suoi libri di ricette. -
Il
sorriso non lasciò il viso delicato, ma si spense nella
tenerezza volutamente distante di quella piccola confessione. Alfred,
come lui, dovette notarlo perché interruppe il frenetico
sciabordio di stoviglie per riservarle tutta la sua attenzione.
-
Deve esserci molto legata. -
-
Si, è così. -
Non
sembrava turbata, mentre lo sguardo si allacciava grato a quello
dell'uomo oltre il bancone in granito.
Alfred
aveva la straordinaria dote di toccare la corda giusta al momento
giusto, per tanto tempo Bruce aveva detestato questa sua precisione
meccanica, capace di affondare dritta ai suoi punti deboli.
Ora
capiva che altri avevano saputo cristallizzare i propri ricordi in
qualcosa di meno distruttivo di una promessa dedita al sacrificio di
sé.
Con
uno scatto secco mise a tacere il mormorio delle fiamme azzurre che
danzavano sul ripiano e, dopo aver impilato nel lavello le stoviglie
usate, si accomiatò con la solita flemma.
-
Bene, è meglio che mi ritiri ora. Più si
invecchia più è difficile fare le ore piccole.
È stato un piacere, miss. La prego, torni a trovarci presto.
Lasciate tutto così com'è, ci penserò
io domattina. Buonanotte, signorina, signorino Bruce. -
-
Buonanotte, e grazie di tutto. -
Le
parole della dottoressa lo inseguirono fino all'entrata della cucina,
dove Alfred s'inoltrò con un cenno del capo per sparire nel
corridoio, accompagnato solo dal lieve rumore delle scarpe italiane sul
marmo lucido e dalle ombre che da secoli si aggiravano silenziose fra
le pareti.
-
E' un uomo meraviglioso. Si vede che ti vuole molto bene, sei fortunato
ad averlo accanto. - constatò la ragazza tornando a
guardarlo e Bruce non trattenne un sorriso.
-
Lo so, non troverei neppure i calzini senza di lui. -
Fu
sorpreso di dare voce così facilmente alla pura e semplice
verità. Di recente non si era soffermato troppo su spesso su
chi o che cosa stava lasciando indietro nel disperato tentativo di un
mettere ordine al caos che si consumava intorno a lui.
-
Spostiamoci, ti va? - continuò balzando giù dallo
scomodo sgabello in legno antico. Le porse la mano e, con inaspettata
naturalezza, April l'afferrò, lasciandosi aiutare a
riguadagnare terra.
-
Si. -
April
lo seguì attraverso le stanze al piano terra, stranamente
consapevole della mano ruvida e tiepida dell'uomo nella sua, mentre il
tramestio dei loro passi si perdeva nel silenzio profondo di quel
veliero di pietra abbandonato sulla collina.
La
guidò di nuovo nel salone foderato di perline in ciliegio in
cui si erano baciati solo un paio di giorni prima, trasfigurato dalle
lunghe ombre della sera.
L'aria
densa che emanava dal camino acceso profumava di pino e cenere,
conferendo alla penombra un chiarore aranciato che accarezzava appena
la pelle lucida dei Chesterfield e la superficie intagliata del legno.
Metteva
in risalto un particolare che April non aveva notato durante il
trambusto della sua prima visita. Lambito vivacemente dalla luce
tremante delle braci, un grande dipinto ad olio troneggiava sull'intera
sala dalla mensola in marmo del caminetto.
La
ragazza riconobbe immediatamente il padrone di casa nel compassato
ragazzino dai vivaci occhi blu, incastonato per sempre fra le figure
genitoriali in elegante abito da sera.
Bruce
la fece accomodare sul divano dirimpetto al focolare, tornando da lei
con due bicchieri dal taglio irregolare in cui sciabordava un liquore
ambrato che April riconobbe subito come scotch.
-
Sono contento che tu abbia accettato l'invito di stasera. -
esordì lui sovrastando lo scoppiettio burbero delle fiamme
in sottofondo.
-
Lo sono anche io. -
Stavano
di nuovo tergiversando. Mistificare è un'arte, un'arte che
chi ha bisogno di allontanare determinati pensieri conosce fin troppo
bene.
Sembrava
nervoso. April lo guardò prendere un sorso amaro, solo per
tornare a rigirasi nervosamente fra le mani il bicchiere, minuscolo al
confronto con le sue dita, mentre le iridi azzurre si perdevano fra le
trame di uno spento verde foresta del tappeto persiano.
-
So che i nostri ultimi incontri sono stati alquanto ... burrascosi e me
ne prendo la colpa. Ma c'è una cosa che vorrei chiederti e
vorrei che rispondessi sinceramente. Cosa c'è che non ti
convince di me, April? -
Per
quanto non fosse preparata ad una domanda così diretta,
April aveva pure una chiara idea di quale fosse la risposta. L'aveva
maturata nel proprio cuore per giorni, dal momento in cui si erano
incontrati.
-
Non è questo. Io penso davvero che tu sia un uomo
decisamente migliore di quanto tu stesso non creda o non lasci credere
agli altri. Eppure ... chi sei veramente, Bruce? - soffiò
cercando i suoi occhi attraverso le trame del tappeto, smarriti. Li
annodò ai propri e sorrise.
-
Se c'è una cosa che maman mi
ha insegnato è che il valore di un uomo non si misura dalla
sua ricchezza, né dalla sua forza, ma da quello che
costruisce, quello che dà agli altri. Da quando sono
arrivata a Gotham ho visto entrambe le cose in te. Tu costruisci,
faresti qualunque cosa per questa città. Quindi mi chiedo,
perché fingere di essere quello che non sei? -
continuò con una dolcezza che da tempo non riconosceva nella
propria voce, trattenendo l'istinto di sfiorarlo.
-
Una donna saggia, tua madre. -
-
Lo era. -
-
Mi spiace, non volevo sembrare insensibile. - si affrettò a
dire con il cipiglio di chi sa di aver toccato un nervo scoperto, ma
era sorprendentemente facile parlarne con lui, con quel fisico da
puglie e gli occhi sperduti di un ragazzino.
-
Non fa niente, è stato tanto tempo fa. - lo fermò
con una scrollata dei lunghi capelli scuri.
-
Mentirei se dicessi che non sento la sua mancanza ogni giorno, che non
darei qualunque cosa pur di averla accanto anche solo un altro momento,
ma ho imparato a conviverci anni fa. È il tempo che ci
è stato concesso. -
Ed
era vero. Per anni aveva cercato nella sua memoria, nello specchio e
fra le pareti della vecchia casa il fantasma di sua madre. La ricordava
con la vaghezza tiepida di un sogno, con la certezza che aleggiasse
ancora da qualche parte fra il suo cuore e ciò che si era
lasciata alle spalle.
A
volte le era persino sembrato di vederla. Li spiava, muta, con la sua
consistenza eterea di bruma primaverile attraverso le stanze vuote, la
sua risata argentina che rimbalzava sulle pareti macchiate
dall'umidità salmastra. Solo suo padre sembrava non
essersene mai accorto.
-
Lo capisco, non sai quanto. - sospirò Bruce lasciandosi
sfuggire più di quanto, con tutta probabilità,
aveva preventivato di lasciar intendere.
-
Bruce, so che qualcosa ti tormenta. Credimi, so riconoscere
quell'espressione. Dopo la morte di mio padre ho chiuso il mio cuore a
qualunque cosa, a qualunque sentimento purché riuscissi a
sentire meno dolore. Dopo un po' diventa più facile. Quindi
lo capisco. Non dobbiamo parlarne per forza. -
-
No, va bene, mi fido di te. -
Gli
occhi blu saettarono attraverso le fiamme, senza vederle, per
inchiodarsi al grande dipinto ad olio che la ragazza aveva notato poco
prima.
Dalla
cornice di uno spento color oro, i tratti sereni e giovanili dei
precedenti padroni di casa restituirono distrattamente i loro sguardi
incastonati in quel perpetuo istante.
-
I miei furono assassinati davanti ai miei occhi, in un vicolo accanto
al cinema Monarch. Avevo otto anni. -
Disse
quelle poche parole come se gli fossero costate una fatica terribile,
pesanti come piombo doveva averle dissotterrate dai detriti del tempo e
dalla polvere dei ricordi.
Vide
la linea dura che si era disegnata sulla sua fronte, il volto teso e la
mascella rigida mentre le iridi azzurre vagavano fra le figure dipinte
e le scintille del focolare acceso senza trovarvi appiglio.
April
era scioccata. I pensieri le s'ingarbugliarono nel realizzare il motivo
per cui ai gothamiti non piaceva parlare degli illustri benefattori a
cui erano dedicate fondazioni, istituti e reparti d'ospedale.
Portavano
il peso della vergogna, di quegli occhi che ora vedeva nei suoi, ma che
erano rimasti anni indietro dove la felicità era marcita in
un vicolo che puzzava di urina e spazzatura.
Per
un lungo istante rimase in silenzio ad ascoltare il battere anomalo del
proprio cuore sovrapporsi al respiro inquieto dell'uomo stentoreo
accanto a lei, le mani in tensione che quasi si sfioravano sulla pelle
tiepida del divano.
Non
c'erano parole per quel vuoto che si era risucchiato tutto il calore
dell'ambiente, lo conosceva bene, aveva avuto anni per guardaci dentro
nella solitudine della sua camera.
-
Mio Dio ... E' terribile. Bruce, non so che dire, io ... non riesco
neppure ad immaginare cos'abbia voluto dire per te, che peso abbia
avuto sulla tua vita ... - mormorò con un filo di voce,
quand'ebbe ripreso coraggio sufficiente a raccogliere i pensieri.
Non
si aspettava una risposta, era chiaro che Bruce Wayne vivesse in un
passato che fin troppo aveva a che vedere con l'uomo schivo e bugiardo
che era diventato. Ma c'era anche dell'altro.
Per
quanto si affannasse a nasconderlo, a vivere con la tenacia di un
eremita, era riuscito a convincere Gotham che la sua eredità
non era andata perduta.
-
Eppure devono aver fatto un lavoro stupendo con te, per averti reso
l'uomo che sei, nonostante tutto. -
Lo
sguardo appannato dai ricordi e dalla furia, tornò a legarsi
al suo con una chiarezza che le tolse il respiro. Sentì il
sordo cling del
cristallo fra le sue dita, mentre si avvicinava a lei fino a che le
spalle non si sfiorarono, bollenti.
-
Lo stesso vale per te. - sorrise e le parole le rimbalzarono tiepide
sulla pelle, le ciglia nere nascosero alla vista le iridi blu e Bruce
azzerò con un bacio la minima distanza che li separava. Lo
sentì prendere un respiro, stava tremando, ma non era la
sola.
Il
cuore minacciava di esplodere, mentre un istante più tardi
le labbra si separavano di nuovo e gli sguardi vagavano torbidi in quel
calore di respiri confusi. Bruce sembrò indeciso e le dita
esitavano affondando nei suoi capelli, ma durò solo lo
spazio di una manciata dei battiti in tumulto che scalpitavano fra loro
per tornare a baciarla con una disperazione ed un'esigenza di cui non
lo credeva capace.
Se
Bruce aveva creduto che quel bacio avrebbe ingarbugliato ancora
più strette le sue intenzioni, si sbagliava. C'era silenzio
fra i suoi pensieri mentre la stringeva a sé nel tepore
profumato della stanza.
I
battiti da treno in corsa che gli rimbombavano fino alle tempie
scandivano il tempo in maniera strana, ovattavano e acuivano insieme le
sue sensazioni.
La
consapevolezza che nella sua vita non c'era posto per quel legame
avrebbe dovuto frenarlo. La storia di Batman sarebbe finita con la sua
morte, perché semplicemente non c'era altro modo. Combattere
fino al giorno in cui il corpo l'avrebbe tradito e Batman sarebbe
caduto. Era solo questione di tempo.
La
prospettiva avrebbe dovuto terrorizzarlo, ma non era così.
Non in quel momento.
Tornò
a respirare solo quand'ebbe trovato il coraggio di lasciarla andare, il
delicato profumo di fuori ancora nelle sue narici. Guardò il
viso arrossato, i capelli appena scarmigliati dal tocco ruvido delle
sue dita e le sembrò di una bellezza irresistibile.
-
April, accanto a te mi sento strano. Come non mi sono mai sentito in
vita mia. - confessò senza pensarci troppo, era la
verità, non voleva dirle altro.
-
Lo so, provo la stessa cosa. -
Le
dita esili volarono verso il suo viso, accogliendo la guancia ispida
sotto il palmo piccolo e tiepido. Sembrò quasi sapere che
cosa sarebbe seguito.
-
Ma io non posso ... -
Non
lo lasciò finire, forse era spaventata, forse, come altri,
aveva riconosciuto il suo pessimo tempismo.
-
Non dobbiamo per forza farne qualcosa. Non subito, almeno. Anche io ho
paura, di deludere me stessa, ma soprattutto di deludere te. Diamo
tempo al tempo. - sorrise con una comprensione che tradiva una certa
insicurezza.
Qualunque
cosa fosse nato fra loro, Bruce lo sentiva fragile come il cristallo
che stringeva fra le dita, sarebbe bastato un respiro a cancellarlo.
-
Grazie. -
-
E' stata una bellissima serata, ma ora devo proprio andare. -
soffiò April alzandosi in piedi, mentre la mano scivolava
via dalla sua per abbandonare il bicchiere ancora pieno sul basso
tavolino in noce di fronte a loro.
-
Ti accompagno a casa. -
Bruce
guidò in silenzio la pretenziosa auto sportiva, che aveva
comprato solo per dar adito a certe voci, fino al palazzo in mattoni
rossi con la sgraziata scala antincendio sulla facciata.
Seguì
le indicazioni di April come se non sapesse, ma ricordava fin troppo
bene la notte in cui l'aveva depositata sul largo terrazzo all'ultimo
piano.
Si
lasciarono in maniera piuttosto goffa, troppo intimi per una stretta di
mano, troppo poco per un ultimo bacio sulle labbra, scambiandosi i
numeri di telefono come adolescenti al primo appuntamento. Un gesto che
valse ad entrambi una risata imbarazzata, complice abbastanza da
sciogliere la densa quiete in cui avevano trascorso le ultime miglia.
Bruce attese che la ragazza si
avviasse verso la doppiaporta in acciaio, sollevò le dita in
un ultimo saluto e la guardò sparireinghiottita dall'androne
immerso nell'oscurità.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** ~15~ Day shift 1 ***
~15~
Day shift 1
Le
notti a Gotham potevano essere inclementi. Assalivano e mordevano. Si
abbattevano con la stessa veemenza di quella pioggia, fitta e
martellante, che aveva deciso di aprirsi un varco nel cielo per tre
giorni consecutivi.
L'odore
penetrante di umidità e foglie marce impregnava l'aria,
s'insinuava sotto gli ombrelli, nelle narici, fino alle ossa.
Ti
entrava dentro più insistente e subdolo del puzzo di quelle
fogne in cui Bruce aveva sguazzato per due notti in cerca di Harley
Quinn, rediviva e a piede libero per l'intrico di tunnel nel sottosuolo
di Gotham.
L'aveva
cercata ovunque dopo la notizia della sua fuga da Blackgate, anche se
sarebbe stato decisamente più corretto definirla prelievo.
Un
muro sfondato dall'esterno, un paio di guardie a terra, niente nastri
di sorveglianza e la ragazza era semplicemente svanita.
Dopo
l'incendio di un anno prima, erano bastati un'impresa edile e qualche
mano di vernice per commettere gli stessi errori negli stessi posti.
Gotham non imparava mai.
Bruce
aveva battuto uno per uno i vecchi nascondigli di Quinn, fino a
trovarla nello snodo fognario sotto l'isola di Arkham, dove Joker, solo
una manciata di anni prima, aveva dato libero sfogo a tutta la sua
folle creatività facendosi costruire un personalissimo parco
giochi.
Un
cimitero per dementi, seppellito con cura nel cuore della vecchia
città.
Purtroppo
i fantasmi non erano le uniche creature a sonnecchiare nel marcio e ad
aggirarsi all'ombra di vecchi ricordi e antichi terrori.
Fra
il pattume, le esalazioni nauseabonde e la viscida melma, che gli si
era appiccicata sotto gli stivali come una vecchia abitudine, Bruce
trovò la dimora acquatica del fu Waylon Jones.
Quella
bestia affamata si era fatta strada nel sottobosco criminale a colpi di
denti, guadagnandosi il soprannome Killer Croc sul
sangue e le ossa rosicchiate delle sue prede. Di fronte a tanta
brutalità l'aspetto squamoso e taurino di quell'abnorme
gigante passavano paradossalmente in secondo piano. Quasi.
C'era
chi ancora insisteva che il suo nutrirsi di carne umana fosse una
leggenda metropolitana, ma Bruce ricordava fin troppo bene i corpi
martoriati e muffiti nella tana da cui lo aveva scovato solo qualche
anno prima. Chiudere gli occhi era di certo l'alternativa
più appetibile.
Dimenticato
in quelle fogne dopo la chiusura del manicomio di Arkham, aveva potuto
coltivare una bestialità senza precedenti, perdendo quel
poco di umanità che forse gli era rimasto per rimuginare su
vecchie ossa sbeccate.
Gli
scontri con Croc lo lasciavano sempre a brandelli, sfinito e ammaccato
dall'odore di decomposizione, dagli sballottamenti e dalla fatica di
resistere alla forza muscolare dello squamato golia, ma stavolta le
cose erano andate diversamente.
Waylon
Jones aveva dimostrato per Batman un'ossessione maniacale fin dal loro
primo incontro, un desiderio di annientamento che Bruce aveva molto
spesso faticato a tenere a bada, ma, in quelle fogne, fra le sconnesse
minacce e i grugniti bestiali, Croc si era lasciato sfuggire
inquietanti stralci d'informazioni.
Qualcuno
lo aveva voluto a guardia di quelle fogne, sapendo che Bruce ci sarebbe
caduto fino alle ginocchia.
Waylon
sosteneva fosse Quinn il mandante, forse lo credeva davvero, forse
stava mentendo per coprire qualcuno. Di certo l'ex psichiatra non era
mai stata sveglia abbastanza da congegnare trappole di quelle
dimensioni, neppure ai tempi di Joker.
No,
Harley Quinn era ancora un braccio armato ed il compito di Batman era
scoprire al servizio di chi. Almeno prima di rimetterci la pelle.
Era
l'alba e la luce tenue del giorno già schiariva i contorni
specchiati dei grattacieli rimbalzando in un curioso impasto di rosa e
grigio nell'aria gelida, quando Bruce riuscì a trascinarsi
fino al punto di rendez-vous con
il Batwing.
Odiava
il ronzare sopra le righe dei motori a jet a quell'ora del mattino, ma
l'auto giaceva ancora inerte e sconquassata nella caverna con
quell'aria macilenta da ferrovecchio fin troppo costoso, ricordandogli
quotidianamente passate imprudenze.
Zuppo
e insanguinato, crollò per un paio d'ore in un torpore senza
sogni che poco aveva a che fare con un sonno ristoratore, almeno
finché il trillo del cellulare non gli ricordò
che la presenza di Bruce Wayne era richiesta ai cancelli della vecchia
Arkham City per presentarne pubblicamente il progetto di
riqualificazione.
Pregando
di non esalare come la melma in cui aveva sguazzato fino alle caviglie
per una notte intera, raggiunse Alfred alla macchina immersa nella
nebbia filacciosa che si era posata di buon mattino sul selciato del
cortile.
-
La copia del suo discorso è sul sedile, signore. –
annunciò Alfred guardandolo di traverso dallo specchietto
retrovisore, mentre si sistemava ammaccato e stanco sul sedile
posteriore.
L'auto
si mise immediatamente in moto, mentre Bruce afferrava il modesto
papier nella speranza di ricordare tutto ciò che avrebbe
voluto dire senza essere tacciato d'idiozia.
-
Nulla di più terrificante del parlare in pubblico. Lo
detesto. – sospirò, leggere era difficile con
quelle poche ore di sonno strappate al mattino a torturargli le
palpebre.
Avrebbe
voluto che lo sciabordio dell'automobile non fosse tanto soporifero.
-
Non mi sorprende. I playboy miliardari sono un mucchio di codardi. Ma
è meraviglioso che, nonostante Batman sia rimasto alzato
fino a tardi, Bruce Wayne riesca comunque ad essere tanto mattiniero.
–
La
voce di Alfred lo raggiunse ovattata attraverso un velo di nebbia densa
e Bruce non stava più ascoltando.
Dopo
la cena di due notti prima April aveva scambiato con Bruce solo qualche
frettoloso messaggio, niente più che poche, lapidarie
informazioni sulle reciproche attività del momento.
Si
capiva che non fosse affatto a suo agio in quella goffa corrispondenza,
più simile ad un bollettino di guerra che a uno scambio
amichevole di notizie, ma April non poté che apprezzare lo
sforzo.
Scoprì
che le bastava quel ruvido interessamento nei suoi confronti, per
quanto telegrafico ed impacciato, sapere che Bruce Wayne aveva dedicato
qualche attimo della sua vita frenetica ad assicurarsi che quei baci
rubati non fossero caduti nel vuoto della quotidianità.
April
era a conoscenza dell'evento che si sarebbe svolto quella mattina di
fronte ai cancelli sbarrati della vecchia Arkham City, il campo di
detenzione in cui, solo pochi mesi prima, l'ex sindaco Sharp aveva
deciso di trasferire tutti i detenuti del manicomio criminale.
Un'idea
delirante, a suo parere, che al tempo aveva però incontrato
il consenso dei più influenti cittadini di Gotham. Il resto
dei gothamiti si era limitato a battere i denti di fronte alla
prospettiva di ritrovarsi assassini e maniaci fuori dalla porta di
casa, segregati dietro spesse sbarre di metallo come in un bizzarro
trucco da circo.
Non
ci sarebbe stato bisogno di precisare che l'impresa si era rivelata un
fallimento, aveva anzi minacciato di intaccare le altre isole della
metropoli quando una rivolta dalle proporzioni bibliche era divampata
al suo interno.
Era
toccato a Batman, ovviamente, ripulire il disastro di cui ormai i
giornali non parlavano più quasi fosse avvenuto altrove, in
tempi lontani. Invece in profondità ardevano ancora le braci
della ribellione e del malcontento, ben nascoste sotto un groviglio di
lamiere, spazzatura e disperazione.
Adesso
Bruce Wayne si era assunto l'onere di risanare parte del buco fiscale
che si era aperto alla caduta del progetto "Arkham City", sostituendolo
con un proprio slogan decisamente meno inquietante e volto al recupero
delle zone abbandonate della città.
"Gotham
Reborn".
-
Dottoressa, alzi il volume della televisione ... non vede che sta
parlando il signor Wayne? – chiosò burbera la
signora Jennings, affondando fra le lenzuola appena cambiate e i rotoli
di ciccia da imponente matrona.
Nonostante
fosse ricoverata in degenza post operatoria da più di due
settimane, Paula Jennings non aveva perso un solo giorno ad imporre la
sua presenza impeccabile da cantante d'opera a chiunque si fosse
occupato di lei.
-
Signora, sto cercando di misurarle la pressione. –
April
non si scompose, mentre gli occhi porcini della donna s'inchiodavano
duramente ai suoi. Non era il primo né l'ultimo capriccio a
cui avrebbe dovuto assistere durante una lunga giornata di lavoro.
-
Lo farà dopo, dottoressa. – borbottò
facendo tremolare il maestoso doppio mento, mentre sottraeva
prontamente il braccio paffuto alla sua portata.
-
E' una promessa. – cedette April con un sospiro e si
avvicinò al moderno televisore a parete su cui, di fronte ad
un'enorme W su sfondo rosso, si stagliava l'immagine a tutta figura
dell'uomo con cui aveva cenato solo due notti prima.
La
voce familiare di Bruce Wayne invase la stanza con grande soddisfazione
dell'abbondante signora Jennings.
«In definitiva, le nostri recenti
traversie collettive mi hanno fatto capire che è giunta
l'ora che quelli di noi che più hanno beneficiato dello
spirito e della storia di Gotham respingano le sue notti oscure.
È giunta l'ora di concedere a Gotham le sue più
che meritare giornate di sole. Faremo in modo che Gotham
rinasca!»
La
piccola folla, gremita ai piedi dell'improvvisato palco in legno,
esplose in un applauso fragoroso mentre Bruce si congedava con un
ultimo saluto, lasciando la ribalta più precipitosamente di
quanto non ci sarebbe aspettato da un personaggio pubblico della sua
importanza.
Prima
di quel momento, April non aveva mai assistito ad un'apparizione
televisiva di Bruce Wayne e solo allora capì il motivo di
tanta deferenza da parte dei suoi concittadini.
Non
c'era niente di affettato o dissimulato in quel suo interesse verso il
destino della metropoli del crimine, come la chiamavano le testate
giornalistiche al di là del fiume. Bruce Wayne si sentiva
parte integrante di quei cambiamenti, ne sentiva la
necessità perché avevano il potere di alterare i
suoi ricordi, l'affetto che provava guardandosi indietro.
Era
difficile non notarlo e non restare coinvolti dal suo entusiasmo, dalla
speranza che davvero un giorno Gotham si sarebbe affacciata a tempi
migliori.
April
stava quasi per spegnere il televisore e tornare al proprio lavoro,
quando il rumore dolorosamente familiare di un colpo di pistola
gettò la piccola folla oltre lo schermo nel caos
più completo.
Si
sentì raggelare.
Mentre
la giovane giornalista dai capelli ossigenati si affannava ancora a
documentare l'aggressione, sovrastando a malapena le grida e cercando
di difendersi dal parapiglia, April, per quanto inorridita, non
riusciva a distogliere lo sguardo.
Deglutì
a fatica contro la gola riarsa. Il video oscillava pericolosamente ma,
persino fra lo statico e i colori stiracchiati della diretta, April
riuscì a distinguere una manciata degli stessi uomini dai
cappucci rossi e neri che solo poche settimane prima si erano fatti
strada a colpi di fucile automatico all'interno dell'ospedale.
Prima
che la trasmissione s'interrompesse definitivamente, soffocando la voce
strozzata della reporter, April si rese conto che le dita stritolavano
spasmodiche il cellulare nella tasca del camice.
Bruce
conosceva fin troppo bene l'odore dei fumogeni e della polvere da
sparo, il rumore spacca timpani dei colpi d'arma da fuoco, ma di certo
non aveva messo in conto di trovarcisi faccia a faccia a quell'ora del
mattino e con indosso il completo sbagliato.
Ci
mise una frazione di secondo a realizzare che, chiunque avesse
assoldato quella manciata di disperati, aveva anche armato il gruppo di
vandali e assassini che solo pochi giorni prima aveva raso al suolo due
interi reparti del Gotham Mercy.
Si
sarebbe volentieri gettato nella mischia, incurante della stampa e
dell'abbaiare di Jim Gordon a pochi passi da lui.
-
Se ne vada di qui, Wayne! – sbraitò il
commissario, spingendolo lontano dal palco crivellato di colpi, ignaro
del suo bisogno d'interporsi al caos che aveva sovvertito quei pochi
metri di strada di fronte alla vecchia Arkham City.
I
battiti del cuore accelerarono facendosi incessanti, l'ondata di
adrenalina sarebbe svanita presto, ma non era ancora solo, doveva
ragionare con lucidità senza lasciarsi trasportare
dall'istinto.
Prima
che potesse elaborare un piano d'azione più complesso
dell'inzaccherarsi le nocche nei denti di quella manciata di vagabondi
troppo ben armati, qualcosa lo afferrò per la collottola,
spingendolo brutalmente indietro.
Il
nodo della cravatta premeva indiscreto sulla sua laringe, mentre uno
degli uomini armati tentava invano di sollevarlo per il bavero della
camicia.
Si
stupì di quante volte aveva sentito lo stesso odore acre di
alcol scadente, fumo di sigaretta e mancanza di basilare igiene
personale, quando si trovò a pochi centimetri dal sorriso
sdentato del malcapitato in logoro passamontagna nero.
Gli
acquosi occhi verdognoli si conficcarono impietosamente nei suoi,
vomitandogli addosso tutto il loro sdegno.
-
Bruce Wayne in persona. L'uomo del momento. Sembra proprio che abbiamo
colto la gallina dalle uova d'oro fuori dal pollaio. Allora, mister
miliardi, quanto mi dareste tu e i tuoi amichetti gonfi di soldi per
lasciarti andare? –
Normalmente
un tipo come quello se lo sarebbe mangiato a colazione, ma se
giornalisti e chiunque fosse stato in possesso di un telefono cellulare
erano riusciti a mettersi al sicuro abbastanza in fretta, di certo la
zona non era libera da sguardi indiscreti.
Doveva
solo trovare un punto cieco, una via di fuga verso l'auto.
-
Niente. –
-
Ne dubito. Ma se è vero hai cinque secondi per convincermi a
non farti saltare la testa. –
Bruce
avvertì l'odore inconfondibile dei gas d'innesco, la canna
bollente della pistola sfiorargli i capelli poco sopra la fronte. Il
solo contatto sarebbe stato sufficiente a ustionarlo, eppure non
trattenne un ghigno.
Era
fin troppo facile sottovalutare qualcuno imbalsamato in un completo
nero da ragioniere.
-
Uno, due ... -
-
Cinque. – lo interruppe prima che potesse accorgersi che
qualcosa nelle sue previsioni era andato storto e premere il grilletto,
sfruttando la guardia baldanzosamente abbassata per neutralizzarlo.
Afferrò
Lucius Fox per il bavero del cappotto senza tanti complimenti,
trascinandolo via con sé dal centro dell'azione.
-
Sai di che cosa ho bisogno. È nel bagagliaio. –
chiosò a denti stretti, mentre tentava di schermarlo il
più possibile dalle indesiderate attenzioni degli scagnozzi
rimasti ancora in piedi, nonostante le raffiche intimidatorie dei pochi
poliziotti presenti sulla scena.
-
Appena l'avrò preso, voglio che tu salga in macchina e te ne
vada di qui. –
Il
fumo stava cominciando ad irritargli la gola, arrochendo la voce e
inumidendo gli occhi, quando finalmente raggiunsero l'auto ancora
intatta a pochi passi da uno dei giganteschi piloni della ferrovia
sopraelevata.
Prima
che potessero avvicinarsi abbastanza da permettergli di aprire il
bagagliaio in tutta sicurezza, Bruce si accorse che uno sparuto
gruppetto degli uomini a volto coperto si era gettato al loro
inseguimento.
Mentre
li atterrava uno ad uno pregò che nessuno nei paraggi fosse
stato colto dall'ardire di riprendere la scena, ma Fox era, per sua
fortuna, un uomo molto più intelligente quando si trattava
di azzardare previsioni e fu lui inaspettatamente a sferrare il colpo
che mandò a terra l'ultimo dei loro assalitori.
-
Non male. – ansimò Bruce, cercando nel frattempo
di riacquistare l'aspetto convincente del miliardario preso di mira da
un manipolo di mercenari armati.
Il
colletto della camicia lo stava soffocando ed era certo che la giacca
si fosse strappata irrimediabilmente in più punti.
-
Si chiama deviare l'attenzione da Bruce il lottatore e
mostrare, a chiunque stia scattando foto, che tutti i gothamiti sono
disposti a sporcarsi le mani quando serve. –
L'aveva
già detto, un uomo molto più previdente di lui.
Probabilmente se Lucius Fox non avesse preso parte alla sua crociata,
la carriera di Batman sarebbe finita nel sangue molto tempo prima.
-
Sempre tre passi avanti, per questo guadagni tanto. –
-
Sentiti pure libero di darmi un aumento. – sbottò
guardandolo di traverso da dietro le lenti storte sul naso fuligginoso,
mentre spingeva fra le sue braccia la valigetta nera che si era
affrettato a recuperare dal portabagagli dell'auto.
-
Sarà strano vederti in azione con il sole ancora alto.
–
Sapeva
quanto Fox odiasse quel suo modo di fare, ma prima che potesse finire
la frase Bruce era già sparito fra i vicoli abbandonati di
Arkham City.
Spazio
Autrice:
Salve a tutti! Questa volta ho deciso di
ritagliarmi un piccolo spazio per due motivi.
Innanzitutto ci tenevo a dirvi una piccola
curiosità e cioè che la scena della
simpaticissima signora Jennings è una storia di vita vissuta
(immaginate quanto può essere gratificante a volte il mio
lavoro) XD
Poi volevo scusarmi per aver tagliato in due un
capitolo così denso di azione. Purtroppo nella sua interezza
sarebbe stato un polpettone indigeribile e frenetico da leggere online,
per questo ho preferito dividerlo.
Detto ciò ringrazio tutti di cuore e
buona lettura!!!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** ~15~ Day shift 2 ***
~15~
Day shift 2
Bruce
si cambiò con tanta foga nella penombra sporca che per poco
non dimenticò la cravatta annodata al collo, ma non fu
comunque abbastanza in fretta.
L'improvvisa
comparsa di Harley Quinn sulla scena confermò le
informazioni che aveva strappato a Croc notti addietro e quindi il suo
coinvolgimento in entrambi gli attentati avvenuti a distanza di pochi
giorni l'uno dall'altro. Eppure qualcosa non lo convinceva ancora.
Per
quanto fosse chiaramente disturbata, Quinn non si era mai sottratta
all'azione, eppure, da quando l'aveva pizzicata nelle fogne, non aveva
fatto altro che scappare. Poteva essere la paura di essere rispedita a
Blackgate, certo, allora perché prendersi la briga di
organizzare ben due assalti armati tenendosi a prudente distanza?
Se
non l'avesse conosciuta abbastanza da essere completamente certo del suo modus operandi da
eterno gregario, avrebbe detto che stava cercando di ottenere qualcosa.
La vera domanda era per conto di chi.
Si
maledisse fra i denti ancora una volta per aver distrutto l'auto, quando vide la ragazza sparire a
velocità suicida in sella ad una motocicletta, i capelli
assurdamente colorati frustati dal vento e una scia di sangue dietro di
sé.
Del
suo passaggio erano rimasti i vetri infranti dell'auto con cui Lucius
sarebbe dovuto scappare, un tablet scomparso e Fox semi svenuto con un
dito in meno alla mano destra.
April
scese dall'ambulanza con la sensazione di trovarsi in una zona di
guerra.
Solo
pochi minuti prima, l'allerta del comando di polizia aveva colto gran
parte del personale di pronto soccorso col naso incollato agli schermi
della sala d'attesa, intento ad ascoltare una serie infinita di
supposizioni sulla natura del parapiglia che si era scatenato
sull'isola di Arkham.
Il
dottor Heagen, abituato com'era alle stranezze di Gotham, non aveva
perso tempo in lacrime, radunando in quattro e quattr'otto un gruppetto
di medici disposti a saltare su una vettura medica, armati di sangue
freddo e una conoscenza basica di triage.
Non
l'avrebbe mai ammesso, ma non riuscì a respirare
regolarmente finché il cellulare non vibrò
indiscreto nella sua tasca, dandole conferma che Bruce ne fosse uscito
sulle proprie gambe prima che cominciassero gli spari.
Nonostante
il messaggio avesse sciolto in parte la tensione, non poté
liberarsi del vago senso di nausea che azzannò la bocca del
suo stomaco alla vista della violenza che si era consumata ad Arkham in
quella manciata di minuti.
Aiutata
dalla squadra di paramedici e scortata da un buon numero di agenti di
polizia, cominciò a farsi largo fra la polvere, il frantume
e i bossoli ancora fumanti che trillavano in un angosciante concerto
accanto ai loro piedi.
L'aria
era satura dell'odore pungente dei gas d'innesco, misto al puzzo
dolciastro di sangue e gomma bruciata che esalavano dal cemento in
spire sottili, nascondendo alla vista pattume e detriti.
April
rischiò d'inciampare un paio di volte nel tentativo di
raggiungere i feriti esanimi o quelli ancora ben nascosti fra le
lamiere nel tentativo di proteggersi da una minaccia ormai sedata.
Lavorò
con calma, senza tralasciare nessuno e senza dover spuntare alcun
codice nero dal registro che l'aveva accompagnata alla sua partenza dal
Gotham Mercy. Nonostante il risultato del triage fosse perfettamente
compatibile con uno scontro a fuoco, un dettaglio, apparentemente
trascurabile, stonava nella violenza del complesso.
Trovarono
Lucius Fox raggomitolato sul sedile anteriore di un'auto nera,
semidistrutta e abbandonata accanto ad uno dei piloni principali della
ferrovia sopraelevata. In stato di shock e parziale incoscienza,
schiacciava convulsamente la mano destra in un fagotto lurido e
insanguinato, vago ricordo del costoso cappotto di sartoria.
April
dovette scansarsi prontamente dalla traiettoria, quando, riuscite a
vincere le deliranti resistenze del signor Fox, un giovane agente di
polizia non trattenne un conato di vomito alla vista dell'indice
amputato di netto.
Non
era certo in pericolo di vita, ma la sparizione di quel dito era quanto
mai sospetta. Nel bel mezzo di una sparatoria qualcuno era riuscito a
sfruttare il parapiglia per sgattaiolare nell'auto, cogliere di
sorpresa il conducente e strappargli via un dito con estrema freddezza.
Non
fu affatto meravigliata nell'apprendere che, l'uomo semi incosciente
che aveva appena spedito al pronto soccorso, era uno dei membri
principali nel consiglio d'amministrazione delle Wayne Enterprises.
Chiunque
avesse ferito Lucius Fox mirava senza dubbio a colpire Bruce Wayne e la
crescente esposizione politica della sua azienda.
Cercò
di scacciare con un respiro l'idea insistente che, l'uomo con cui aveva
deciso di frequentarsi, avesse nemici abbastanza potenti da scatenare
una rivolta armata in pieno giorno, senza doversi preoccupare delle
conseguenze.
Sottraendosi
al ricordo della notte da incubo di qualche settimana prima,
notò con la coda dell'occhio le fattezze allampanate
dell'uomo che, all'indomani dell'attacco al Gotham Mercy, si era
presentato per raccogliere le deposizioni come il capo della GCPD.
Conficcato
nel liso cappotto beige, tamburellava nervosamente con le dita sulla
plastica della radio trasmittente, mentre lo sguardo stanco dietro le
lenti degli occhiali scansionava la schiera di ambulanze pronte a
partire.
Si
avvicinò a lui ai piedi del palco crivellato di colpi, le
schegge di legno che crocchiavano sotto le suole degli stivali come
neve fresca.
-
Commissario Gordon, si ricorda di me? -
L'uomo
sussultò visibilmente, colto alla sprovvista, perso com'era
nella valutazione dell'ennesimo disastro di cui la polizia aveva dovuto
occuparsi di recente. Eppure, dopo il primo istante d'esitazione in cui
gli occhi azzurri la squadrarono diffidenti attraverso le lenti chiare,
ricambiò il sorriso.
-
Ma certo, dottoressa. Come sta? Mi spiace doverla incontrare di nuovo
in una situazione del genere. - gracchiò porgendole una mano
ruvida e impolverata.
-
Non lo dica a me. Preferirei sorvolare. -
-
Cosa mi sa dire di questo bel quadretto? - ridacchiò tirato
sotto i curati baffi grigi, ma non c'era traccia d'ironia nella ruga
sottile che si era installata nel bel mezzo della sua fronte.
Qualcuno
stava smontando Gotham pezzo per pezzo, in un'angosciante stillicidio
senza il minimo controllo, non c'era da stupirsi se il capo della
polizia non fosse in vena di chiacchiere.
April
prese un respiro, gettando un'occhiata fugace al registro macchiato di
sangue.
-
Il bilancio non è così grave, in
realtà. Abbiamo una quindicina di ferite d'arma da fuoco,
tutte lievi, nove traumi cranici e due donne in stato di shock. Poi,
ovviamente, c'è il signor Fox con un'amputazione netta
all'indice della mano destra, anche se per il momento questo
particolare sfugge alla mia comprensione. Dalla telefonata comunque
temevo qualcosa di molto peggio. -
-
Abbiamo avuto un po' d'aiuto. - chiosò Gordon con una
strizzata d'occhio che la lasciò interdetta.
Qualcosa
nelle iridi azzurre era improvvisamente cambiato, un lampo di furbizia
che gli restituì molti degli anni che doveva trovarsi alle
spalle.
-
Dottoressa, conosce il nostro cavaliere oscuro? -
-
Ne ho sentito parlare. - rispose evasiva senza trattenere l'istinto di
abbassare lo sguardo. Sapeva di essere una pessima bugiarda, a un
poliziotto non sarebbe sfuggito, e dare spiegazioni sul suo primo e
ultimo incontro con Batman si trovava in fondo alla lista dei suoi
desideri.
-
Lasci che vi presenti. -
-
Cosa? -
Troppo
tardi si accorse dell'imponente figura apparsa accanto a Jim Gordon,
inosservata e silenziosa, piantata al suolo negli stivalacci neri come
una statua di sale, quasi fosse stata presente fin dal principio.
-
Batman, la dottoressa Holloway. - li introdusse il commissario,
facendosi da parte perché il vigilante potesse sporgersi
verso di lei.
April
raggelò. Non riusciva a distogliere lo sguardo e, al tempo
stesso, avrebbe voluto poter dare ascolto ai muscoli che la imploravano
di darsela a gambe.
Magari
era solo una sua impressione, ma sembrava ancora più alto
alla luce del sole, più scuro in contrasto con il chiarore
sfuggente dei gas di scarico e della polvere sollevata dal vento.
-
Dottoressa. - gracchiò Batman porgendole la mano fasciata
dallo spesso guanto in pelle e per un attimo April esitò a
stringerla nella propria.
Come
aveva sospettato le sue dita sottili parvero annegare in quel palmo
enorme e impolverato, quasi fossero quelle di una bambina.
Ricordava
i suoi occhi senza bisogno di ricambiare lo sguardo insistente con cui
la stavano trapassando, conficcandosi spiacevolmente sotto la sua
pelle, cercando forse di strapparle qualcosa a cui la ragazza non
sapeva dare un nome.
Era
assurdo pensare che, solo qualche notte prima, quelle labbra sottili e
fuligginose si erano impresse sulle sue con inaspettata tenerezza. E fu
ancora più spiacevole il modo in cui il ricordo
rubò un battito al suo cuore.
-
Siamo in pieno giorno. Credevo agisse solo di notte. Come ...
bé, i pipistrelli. - annaspò in fretta nella
speranza di togliersi d'impiccio, mentre la mano scivolava via dal
calore della sua.
Si
accorse dell'idiozia di ciò che aveva detto solo una
frazione di secondo più tardi, quando ormai le parole erano
rotolate via, attraversando inesorabili la distanza che li separava.
-
Ed è vero. La maggior parte delle volte. -
Nonostante
fosse difficile decifrare l'espressione compassata nella minacciosa
maschera nera, era certa in qualche modo che non si stesse prendendo
gioco di lei. Eppure April non poté che maledirsi per aver
abbassato la guardia. Batman era l'ultima persona a cui avrebbe voluto
dire qualcosa di tanto stupido.
Mister
"non stiamo discutendo perché ho
ragione io". Il fenomeno che l'aveva portata via in volo da
un tetto a sessanta metri d'altezza, l'aveva baciata a tradimento per
poi scappare come un ragazzino.
-
Credo di doverla ringraziare per aver interrotto la sua routine,
allora. -
Trasse
un sospiro dalla gola asciutta con la speranza che nessuno dei presenti
percepisse il suo disagio e, prima che potessero fare qualcosa per
trattenerla, si congedò tentando qualche passo all'indietro.
-
Ora vogliate scusarmi, ma dovrei procedere coi trasferimenti. Mi
terrò in contatto con lei per i detenuti, commissario.
Arrivederci. -
Solo
quand'ebbe raggiunto una delle ambulanze ancora in attesa di partire,
April poté tornare a respirare.
La
dottoressa Holloway si defilò con la fretta di chi vuol
trarsi d'impiccio, una fretta che Jim conosceva fin troppo bene.
L'aveva vista altre volte quando era arrivato a scavare abbastanza a
fondo da annusare la verità.
Osservò
divertito la sagoma esile in camice bianco destreggiarsi insicura fra
detriti e lamiere che ostacolavano il percorso, chiedendosi
perché Batman fosse rimasto con lui.
-
Un tipo sfuggente, la nostra dottoressa. - azzardò con
un'intimità che sentiva di essersi guadagnato negli anni in
cui aveva dovuto sopportare le stranezze dell'austero vigilante.
Lo
sbirciò con la coda dell'occhio. Lo faceva spesso, a volte
per capire che cosa gli frullasse in quella testa da grand'uomo, altre
volte solo per accertarsi che fosse fatto di carne e sangue, proprio
come lui.
Sentiva
il suo respiro leggero e cadenzato, l'ingombrante presenza da maciste
in armatura, ma non un fiato né un mugugno. Era come parlare
ad un muro. Un muro molto violento.
-
Vi intendereste alla perfezione, voi due. - gracchiò Jim
cercando di fare sensazione, non si aspettava una risposta o forse si,
diavolo! Dopo anni di collaborazione due chiacchiere non l'avrebbero
certo mandato in malora.
Si
voltò per dirglielo, per spiattellargli in faccia che non
c'era nulla di accattivante in quel suo andare e venire di soppiatto
come un maledetto ladro.
Prima
che potesse dare sfogo alla sua frustrazione, si accorse che Batman era
già sparito.
-
Ecco, appunto. -
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** ~16~ Ask Alice ***
~16~
Ask Alice
Una
pioggia densa e tagliente lavò via in poche ore sangue e
polvere dall'asfalto martoriato di Arkham City.
La
notte nascose alla vista bossoli e detriti, ripulì l'aria
fuligginosa, squarciata a tratti dalla luce accecante di un temporale
troppo vicino.
Era
fin troppo facile dimenticare, quando le tenebre cadevano sul marcio
che si annidava in profondità fra le strade di Gotham. Per
alcuni il buio non recava terrore, non si gonfiava di fantasmi insonni,
ma forniva un alibi, una scusa per sottrarsi agli occhi di chi
è troppo pigro per guardare.
Le
gocce fitte come schegge di quel gelo indiscreto frustavano impietose
le guance ispide, mentre planava fra i lucidi specchi dei grattacieli,
fino a che i neon azzurrini del Gotham Mercy non spezzarono la
monotonia della cortina di pioggia.
I
piani superiori del tozzo edificio del pronto soccorso erano
già immersi nell'oscurità quando Bruce
s'intrufolò come un ladro nella stanza di Lucius Fox.
Esitò
un istante nel silenzio, cercando di captare il respiro dell'uomo oltre
l'ovattato gocciolare della pioggia che scivolava via dal mantello
fradicio. Prima che potesse dire qualunque cosa, la piccola lampada sul
comodino in acciaio si accese con un secco click, gettando la stanza di linoleum
verde chiaro in una penombra diafana.
-
Non c'è bisogno di essere così teatrali.
– biascicò a denti stretti l'uomo, ancora pallido
e sbattuto, adagiato fra le lenzuola fresche di disinfezione, la bocca
impastata dagli antidolorifici.
-
Mi conosci. Non rinuncerei mai a un'entrata ad effetto. –
Bruce
finse di concentrarsi sulla porta serrata della camera, opponendo un
certo sarcasmo. L'odore di disinfettante industriale e di plastica
sterile lo nauseava, era sempre stato così dacché
aveva memoria, persino in tempi più felici quando era
costretto ad accompagnare suo padre al lavoro.
La
verità era che avrebbe preferito scontrarsi di nuovo con
Croc fra i liquami nelle viscere di Arkham, piuttosto che prendere atto
della mano mutilata di Lucius nascosta sotto decine di bende sterili.
-
Come ti senti? – azzardò avvicinandosi al letto di
degenza, gli occhi scuri dell'uomo che cercavano i suoi attraverso le
lenti squadrate, senza perdere un colpo.
Lucius
scacciò via le parole con la mano integra quasi fossero
state insetti fastidiosi, pungolo inutile per il suo orgoglio ferito.
Lo conosceva fin troppo bene, per un individuo tanto razionale la paura
non era mai stata una nota degna di considerazione.
-
Se pensano di essere stati furbi a rubare quel tablet si sbagliano di
grosso. Quell'affare ha dei protocolli impostati e se non mi loggo ogni
quindici minuti si cancella automaticamente. Quindi a quest'ora Harley
Quinn e la sua brigata di svitati avranno per le mani un inservibile
pezzo di plastica e metallo da duemila dollari. –
Scartò
la domanda con l'agilità di un quarterback del Gotham
College, ma era ben lontano dal riuscire nel proprio intento. Pessima
mossa mentire a un bugiardo.
-
Perfetto, ma ti avevo chiesto ... -
Fox
lo interruppe con un'insofferenza che doveva aver maturato negli anni
di lavoro alla WEnt. In circostanze migliori l'avrebbe rimbeccato, ma
Bruce si sentiva fin troppo colpevole per quello spazio anomalo che
saltava all'occhio fra pollice e medio della sua mano destra.
-
Sto bene, ma non chiedermi di digitare troppo. La dottoressa
tornerà da un momento all'altro, meglio se ti levi dai
piedi. – lo congedò con un scrollata di capo, nel
tono la stessa bonaria indifferenza con cui aveva imparato a
confrontarsi sin da ragazzino.
Fece
scorrere il pannello di vetro della finestra che aveva forzato per
entrare e lo scroscio incessante dell'acquazzone inghiottì
la silenziosa penombra della stanza.
-
Chiederò a uno dei miei di rintracciare il tablet e spero
salti fuori una pista. Prenditi la giornata libera domani. –
chiosò arrampicandosi sul telaio umido, ma, prima che Lucius
potesse opporsi alla sua decisione, lo squarcio remoto di un tuono
invase l'aria nascondendo la sua fuga.
Bruce
avrebbe voluto sentirsi più tranquillo, ma la pioggia
insistente non era l'unico tarlo a battere insistente sui suoi pensieri.
L'attacco
di Quinn si era rivelato inutile, certo, non era la prima volta che
aveva a che fare con un maldestro tentativo d'intrusione nei suoi
sistemi, eppure la sfacciataggine della ragazza lo preoccupava.
Per
mesi era rimasta quieta dietro spesse sbarre di ferro a Blackgate,
distrutta dalla morte di Joker, come un animale che ha perso il padrone
e forse Bruce si era lasciato trarre in inganno. Non aveva mai creduto
che, con Joker fuori dal quadro, Quinn avrebbe racimolato il fegato
necessario per tentare qualcosa in proprio.
Non
era affatto sicuro di che cosa volesse o chi la stesse aiutando ad
ottenerlo e la cosa lo preoccupava non poco.
Se
l'obiettivo era sempre stato alimentare la paura, soffocare la poca
speranza che era rimasta a Gotham di creare un futuro migliore,
perché rubare il tablet? Certo, aizzare noti ricercati
contro Batman era un comune passatempo delle sue conoscenze, ma
perché ora? Perché unirsi con una così
succulenta posizione di potere ancora vacante?
Poteva
essere una semplice rappresaglia, un metodo come un altro per
schiacciare la brava gente della metropoli nel morso della paura, ma il
suo istinto gridava al lupo e, persino sotto quel gelo indiscreto,
poteva sentirlo ribollire di feroce consapevolezza.
Gotham Reborn non
sarebbe stato un messaggio sufficiente, non più. Non erano
la ferrovia e i palazzi il sangue e le ossa di quella città,
non lo erano mai stati.
Non
si può riporre la propria fiducia in mattoni e ferro, ma si
può confidare in un simbolo di integrità anche
nei momenti più oscuri. A Gotham serviva qualcuno che
avrebbe guidato la metropoli della criminalità dritta verso
il futuro, qualcuno che non vivesse nell'ombra, che avesse
già dato prova di aver guardato nel marcio senza perdere la
testa.
C'era
un solo nome possibile per quel compito, un nome che avrebbe lavato via
l'infamia con cui Sharp aveva insozzato il seggio sindacale.
Di
certo non sarebbe stato facile convincerlo, non con la testa dura che
si portava sulle spalle, né con un lavoro totalizzante come
quello di commissario del GCPD.
Tornando
verso l'attico della Wayne Tower, si chiese se Barbara sarebbe stata
d'accordo.
Il
recente incontro con Harley Quinn non aveva fatto altro che ribadire la
mancanza di un'auto adeguata alle sue esigenze. La carcassa ingombrante
della vecchia Batmobile riposava ancora irrecuperabile su una delle
pedane in acciaio della caverna, riflettendo la poca luce delle lampade
alogene con la fierezza di un maciste sconfitto.
Bruce
non si sarebbe lasciato scappare altre occasioni, non con quella spina
conficcata nel cervello che penetrava più a fondo ad ogni
vicolo cieco in cui erano state risucchiate di recente le sue piste.
Per
questo si affidò a Fox che, con la discrezione accumulata in
anni di lavoro, era riuscito a prendere contatti per vie poco battute
con un ex ingegnere militare tedesco. Il migliore nel campo della
progettazione automobilistica, dicevano.
Lavorando
come intermediario per Batman e aggirando con cautela qualche politica
aziendale, aveva commissionato al dissidente confinato in un bunker nei
pressi di Stoccarda, un veicolo da capogiro.
I
progetti erano ovviamente sperimentali, tecnologia per cui si poteva
tranquillamente incappare in incidenti diplomatici, ma Batman pagava
bene e non avrebbe preteso meno del meglio che poteva offrire il
mercato classificato d'oltre oceano.
Qualcosa
di inaudito, che non aveva mai solcato le strade di Gotham, solo
così avrebbe mantenuto intatto il mito della sua
inattaccabilità.
La
settimana seguente, tramite una società prestanome, il
carico sbarcò puntuale sulla banchina di un piccolo porto
commerciale quaranta miglia fuori città, diretto a un
anonimo deposito noleggiato tramite una consociata della WEnt.
Nonostante le infinite precauzioni con cui Bruce acquisiva regolarmente
parte del suo equipaggiamento, il camion di trasporto senza insegne fu
intercettato da ignoti.
La
telefonata arrivò al suo cellulare, mentre attendeva insieme
a Fox l'arrivo del carico previsto per la mezzanotte.
Il
container era stato sottratto poco fuori Gotham da un elicottero
militare sconosciuto. Qualunque fosse il problema, Bruce sapeva di
doverlo risolvere prima che la notizia arrivasse alle orecchie della
GCPD per non incorrere in futuri grattacapi.
Sempre
più persuaso dall'esistenza di qualcosa di più
grosso in ballo di una semplice rappresaglia contro il progetto Gotham Reborn, si recò sul
posto di persona sfruttando il segnale tracciante del prototipo.
Custodito
all'interno di una scatola di metallo da un centinaio di tonnellate,
passeggiava indisturbato nei cieli della periferia agganciato ad un
anonimo elicottero cargo.
Non
trattenne un verso di disappunto, quando, raggiunta la pancia vuota del
velivolo, scoprì che dietro quella mossa così ben
calcolata c'erano i fratelli Tweedle Dee e Tweedle Dum, due ebeti
troppo cresciuti per correre dietro a favole infantili e soprattutto
poco propensi a strisciare fuori dal loro covo a China Town senza un
ragionevole compenso in denaro.
Sarebbe
stato facile liberarsi di loro, tagliare i cavi per poi agganciare il
container al Batwing, troppo facile. Ma i Tweedle non erano soli in
quel mezzo militare ben camuffato dal valore di qualche milione di
dollari persino sul mercato nero, tutt'altro che a portata delle loro
tasche.
Bruce
sentì la presenza dell'energumeno altro due metri e piazzato
come un toro, solo quando il pugno da quarto di bue gli si
piazzò fra le costole spezzandogli il respiro e sbalzandolo
fuori dal velivolo in quota.
L'impatto
con l'instabile lastra d'acciaio del carico, sospesa qualche metro
più in basso, per poco non gli dislocò una
spalla, ma era pronto quando il maciste in tenuta tattica gli
piombò addosso con la bava alla bocca.
Colpiva
con furia cieca, gli occhi scuri fuori dalle orbite in un bieco delirio
di violenza. Bruce conosceva quello sguardo, l'aveva visto altre volte
accendersi nelle intenzioni di chi combatteva senza sapere
perché, convinto da un misto di delirio egomaniaco e chimica
da quattro soldi.
Quell'uomo
era stato drogato, ma nel putiferio di calci e pugni non gli sarebbe
bastato il tempo per riflettere su chi avrebbe avuto motivi sufficienti
a fare il lavaggio del cervello a un malcapitato qualunque e
aggiungerlo al duetto idiota dei fratelli Tweedle.
Chiunque
fosse doveva avere una visione piuttosto ampia sui suoi metodi di
rifornimento, non era perciò da escludere che conoscesse la
sua identità.
Nonostante
i muscoli gridassero tregua e il cuore battesse pesante fra le costole
ammaccate, riuscì a liberarsi dell'energumeno in pieno
delirio con un'esplosione controllata sul tetto del container. Si mise
alla guida di un'auto che non conosceva, rischiando di mandare in fumo
milioni di dollari quando atterrò pesantemente col veicolo
su un tetto parecchi metri più in basso.
Dopo
aver messo fuori gioco gli altri due membri, decisamente meno
pericolosi, dell'accresciuta famiglia Tweedle, fece atterrare
l'elicottero cargo, confidando nell'intervento della polizia per la sua
rimozione.
Lasciò
i tre malcapitati di fronte all'edificio squadrato della GCPD. La luce
che filtrava attraverso le spesse porte a vetri, disegnava con una
geometria pallida e distorta i contorni polverosi della bassa scalinata
in pietra.
Era
solo questione di tempo prima che qualche agente notasse i fagotti
pesti abbandonati accanto a uno dei veicoli in sosta, un quadro che si
era ripetuto sempre più spesso negli ultimi anni.
Dall'ombra
in cui si era acquattato, più per abitudine che reale
necessità, Bruce percepì immediatamente i passi
pesanti dei piantoni di guardia, impastati al suono strascicato di
qualche parola svogliata prima della fine del turno.
Li
vide emergere dalla spessa condensa che si era posata sul lastricato
lurido, fermarsi a guardare i tre uomini pronti per l'arresto senza
traccia di genuino stupore.
-
Due dei ricercati più pericolosi di Gotham. Più
un nuovo ... complice. Il vostro capo saprà cosa fare.
– gracchiò attraverso il buio denso come nebbia,
ma nessuno dei due uomini in divisa trasalì.
-
I Tweedle sono vivi, quindi? Credevo avessi finalmente deciso di fare
sul serio con questi farabutti. –
Le
mani ben conficcate nel cinturone di cuoio, il più tarchiato
dei due agenti spolverò, con un gesto schifato, la punta
dello stivale sul corpo pesto di uno degli uomini esanimi ai loro piedi.
Bruce
sentì il tarlo tornare a scavare nel retro del suo cervello
più insistentemente di prima. Qualcosa stava decisamente
sfuggendo al suo controllo e, non essere in grado di porvi rimedio, lo
mandava lentamente ai matti.
-
Di che diavolo state parlando? –
-
Hai ammazzato altri sfigati negli ultimi giorni, perché non
questi tre? Avresti risparmiato alla città la spesa e la
seccatura del processo. Cioè, è questo il
messaggio ora, no? "Datti una raddrizzata o Batman ti fa secco".
– ridacchiò l'agente in risposta facendo tremolare
il vistoso doppio mento nel colletto della camicia, gli occhietti
porcini inchiodati ai suoi in un gelido sarcasmo.
Il
rombo assordante del motore coprì lo schiocco secco della
sua mascella. Qualcuno stava ammazzando a sangue freddo i criminali di
Gotham spacciandosi per Batman, lo stava facendo proprio sotto il suo
naso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** ~17~ Never do it again! ***
~17~
Never do it again!
«Ci
sono notizie dal laboratorio?»
«No,
dottoressa e chiamare ogni venti minuti non accelererà il
processo. A quanto ho capito hanno poco o nulla su cui lavorare,
perciò, la prego, smetta di chiamare.»
La
voce arcigna della caposala s'interruppe bruscamente in acuto,
trapanandole il cervello, quando riagganciò senza tanti
complimenti dopo l'ennesima chiamata dal pronto soccorso.
Dopo
una giornata come quella April avrebbe dovuto sentirsi distrutta,
crollare su uno degli scomodi divanetti della sala medici senza
sognare, senza scervellarsi. Invece i pensieri la tormentavano, non le
davano tregua, grattavano con la precisione di un artiglio affilato,
facendosi strada nella solidità delle sue convinzioni.
L'avevano
avvertita quando aveva accettato quel posto al Mercy.
Gotham
era un mostro esigente, un gigante spietato e divoratore, sapeva punire
con la stessa meticolosa volontà di una madre bisbetica e
ingoiava il suo tempo libero con la voracità di un felino
affamato.
Eppure
non avrebbe mai immaginato di confrontarsi con qualcosa che odorava
così profondamente di guai da darle la nausea.
Dopo
l'attacco alla presentazione del progetto Gotham Reborn, al pronto soccorso erano
cominciati ad affluire strani casi di intossicazione. Alcuni pazienti
mostravano solo sintomi leggeri, sarebbe stato impossibile identificare
un pattern comune dietro quelle apparenti casualità, ma
all'ennesimo ricovero nel giro di pochi giorni la realtà era
diventata innegabile.
Si
muoveva una precisa volontà dietro quegli accadimenti, di
che natura fosse non era certo suo compito stabilirlo, ma il bilancio
era senza dubbio preoccupante.
Con
il proseguire delle ore i sintomi si aggravavano, i soggetti passavano
da blande alterazioni della coscienza a gravi episodi allucinatori,
fino alla paranoia franca e ad un'incontenibile agitazione motoria.
L'ultimo
caso era giunto all'osservazione quella mattina stessa. Un anonimo, un
uomo di cui nessuno probabilmente avrebbe segnalato la sparizione, il
soggetto perfetto per un esperimento.
Il
solo pensiero bastava a farla rabbrividire.
Poteva
essere paranoia, certo, c'erano droghe a sufficienza in circolazione
per sedare i dubbi anche del medico più sospettoso, il
problema tuttavia era che il laboratorio non riusciva mai a
identificare il composto intossicante.
I
tecnici erano stati in grado di stilare una lista accurata solo di
ciò che la sostanza poteva non essere. Di certo non veniva
ingerita, né iniettata, perciò, data la
velocità con cui era degradata ed eliminata dall'organismo,
erano giunti di comune accordo alla conclusione che si trattasse di un
gas volatile.
Purtroppo
la scoperta era servita solo ad angosciare la polizia. Rimanevano in
silenzio dall'altra parte della cornetta, le mani nei capelli e una
lista di confronto inesistente su cui lavorare.
Persino
sul mercato nero, non esisteva all'attivo una droga gassosa che
circolasse fra le sostanze illegali conosciute a Gotham.
April
controllò il cellulare nella tasca del camice per un
semplice riflesso, senza vederne realmente lo schermo azzurrino.
Dovevano essere le otto passate, era questione di tempo prima che
montassero i colleghi del turno di notte, eppure le gambe si
rifiutavano di allontanarla dalla sicurezza e dall'illusione di
controllo del piccolo studio al decimo piano.
Telefonare
a ripetizione, come aveva fatto, riusciva in parte a calmare le sue
preoccupazioni, ridimensionava il problema, lo rendeva in qualche modo
meno evanescente alla sua comprensione.
Guardando
nella tetra oscurità fuori dalla doppia finestra incassata
solidamente nel nuovo telaio, quasi cedette alla tentazione di chiamare
Bruce. Era stato spesso fuori città per lavoro negli ultimi
giorni e, con i suoi turni massacranti, le possibilità di
incontrarsi si erano drasticamente assottigliate.
Erano
stati fuori a cena un paio di volte dopo il loro ultimo incontro a
villa Wayne, ristoranti discreti, quasi asfittici per non incappare
nell'ovvietà di un locale in grande stile come si sarebbero
aspettate le iene del Gotham Gazette.
Incontri
informali, permeati da quell'intimità che era cresciuta a
dismisura dal giorno in cui avevano deciso di comune accordo di deporre
le armi e lasciare che accadesse ciò che doveva, senza
opporre strenue resistenze.
I
messaggi continuavano ad arrivare puntuali ogni giorno al suo
cellulare, quegli scarni bollettini di guerra a cui ormai April aveva
fatto l'abitudine. Sorrideva leggendo le telegrafiche preoccupazioni di
Bruce Wayne circa la sua giornata, in qualche modo, seppur impacciato e
vagamente formale, dava l'idea di volerci provare davvero.
Accantonò
il pensiero di un appuntamento quando il riflesso lattiginoso sul
plexiglass tirato a lucido le restituì un volto pallido e
stanco, qualcosa che avrebbe fatto bene a rimanere lontano da sguardi
indiscreti.
La
brezza gelida della sera le sferzò le guance arrossate,
mentre, conficcata nel cappotto nero, cercava d'infrangere
l'umidità pesante di quell'ottobre traditore per raggiungere
la fermata della metropolitana.
Gli
ultimi gothamiti che, come lei, aspiravano al ritorno al tiepido
focolare domestico si attardavano infreddoliti sotto la pensilina
gocciolante alla fermata Bristol di Miagani Island in attesa del treno.
Il
metrò arrivò sferragliando in maniera
angosciante, spazzando la pensilina col suo carico di condensa e vapori
dal vago sentore di bruciato.
La
corsa fu breve fino a Kingston.
Nonostante
il cielo nero fosse macchiato dal riverbero rosso di qualche nuvola
passeggera, non una goccia di pioggia lavò i vetri
impolverati della carrozza immersa nella luce intermittente dei fari
alogeni in fila sul soffitto d'acciaio.
April
lottò contro il gelo che filtrava indiscreto attraverso le
fibre del cappotto, fino alla doppia porta a vetri del palazzo con la
scala antincendio sulla facciata. E quando finalmente il ventre scuro
dell'appartamento si aprì davanti a lei, si sentì
così stanca da non desiderare altro che il rifugio del
proprio letto.
Waffle
l'accolse sulla soglia con un miagolio di rimprovero, gli occhi cerulei
inchiodati ai suoi attraverso la penombra. Trotterellò
affamato al suo fianco finché la ragazza non si decise a
riempire la ciotola su cui l'animale si avventò voracemente,
senza degnarla d'altre attenzioni.
Restò
a guardarlo leccarsi i baffi con aria di profonda soddisfazione per
lunghissimi istanti, indecisa. La solitudine non le faceva bene, la
costringeva a flettersi su se stessa, sui suoi dubbi, lasciando poco
spazio al resto. Lo sapeva.
Eppure
in notti come quella era difficile scrollarsi di dosso i brutti
presentimenti, ignorare i fantasmi che si rincorrevano fluidi come
acqua nelle ombre dense fuori dalla finestra.
Il
delicato strofinio di Waffle contro la sua caviglia la scosse, la
guardava con occhi languidi, ammiccanti come a chiederle un favore.
-
Va bene. Vieni. – fiottò sollevandolo cautamente
fra le braccia, mentre, con uno schiocco secco, la porta finestra
scorreva sui cardini e un gelo pungente veniva soffiato all'interno da
un mantice invisibile.
Il
gatto non parve minimamente turbato dal morso del freddo che si
avvinghiava traditore ad ogni passo al corpo della ragazza, annusava
l'aria umida con l'impazienza tipica dell'istinto.
April
lo strinse teneramente a sé, inspirando l'odore neutro del
morbido pelo color crema. Il cuore della bestiola che batteva come un
fringuello sotto il palmo della mano, mentre sfregava contro la sua
guancia il tiepido muso baffuto.
-
Vai, divertiti. Almeno tu. – sussurrò in sospiro
che si appannò in condensa, mentre lasciava che il gatto
scivolasse elegantemente via dalla sua presa.
Si
aspettò di vederlo balzare sul cornicione e sparire per un
po' inghiottito dal buio denso che avvolgeva in spire geometriche e
contorte il resto del balcone. Invece l'animale inchiodò
sulle zampe anteriori, arruffando il pelo e inarcando la schiena, gli
occhi attenti fissi su qualcosa d'imperscrutabile in quel mare di pece.
Un
miagolio minaccioso spezzò la monotonia del soffio del
vento, rimbalzò sul cemento, spandendosi come un onda in
quel nulla apparente. April trattenne il respiro, mentre Waffle
gorgogliava in acuto senza cedere di un passo.
Si
accorse dei due dischi luminosi che la fissavano attraverso le tenebre
solo quando un rumore strascicato e stridente mise l'animale in fuga.
Le passò accanto alla velocità di una miccia
accesa, rinunciando alla lotta, per rifugiarsi nel tepore
dell'appartamento.
Fra
i denti la ragazza si maledisse per non aver portato con sé
il cellulare, indietreggiando lentamente nella speranza che il cuore
che batteva al ritmo di un frullatore impazzito non l'avrebbe tradita.
Soffocò
a malapena un verso di disappunto quando, accompagnato da un
angosciante fruscio, la sagoma familiare dell'enorme pipistrello emerse
dalle tenebre nella penombra aranciata dei neon, niente più
che sfarfallii lontani nella condensa notturna.
-
Oh ... è lei. Per l'amor di Dio, non lo faccia mai
più! Mi ha spaventata. –
Tentò
di riguadagnare il controllo e dominare i biechi pensieri che in un
istante le si erano affollati dietro le palpebre chiuse.
-
Che ci fa qui? – chiese poi in un sospiro di sollievo, l'aria
che stentava ancora ad attraversare la gola asciutta.
-
Ho bisogno di informazioni. –
La
voce raspante si trasformò in vapore denso e lattiginoso,
prese corpo nella distanza che li separava spazzata dal fischio del
vento in quota.
Eppure
non le sembrò reale quella presenza più scura
della notte, la sagoma sgraziata e impietosa che torreggiava su di lei
nella spessa armatura grigia, lo sguardo impenetrabile dietro le
cavità sfavillanti di luce azzurrina incastonate nella
maschera nera.
-
Capisco. E di che aiuto potrei esserle io? È lei il
vigilante con straordinarie capacità deduttive, infondo.
–
Non
gli doveva un bel nulla, questa era la verità, anche se
trovare il coraggio di ammetterla di fronte a quegli occhiacci
indagatori era tutt'altra storia.
Lui
la spaventava, a morte, ma April non poteva neppure negare la
gentilezza di cui era stato capace a fronte di tanta barbara violenza.
Batman si ostinava a non rispondere, con la pazienza di una statua di
marmo respirava quieto nella bruma autunnale, in attesa.
-
Mi scusi, non volevo essere meschina ... l'aiuterò.
–
-
Grazie. Gli uomini ancora ricoverati in terapia intensiva ... avete
scoperto la natura della tossina? –
Non
poterlo guardare negli occhi, come aveva fatto altre volte, la metteva
profondamente a disagio, quasi l'uomo avesse deciso di non combattere
ad armi pari quella schermaglia di botta e risposta. Eppure non
trattenne un moto di impazienza quando il vigilante rivelò
di sapere molto più di quanto avrebbe dovuto.
-
Come fa ad avere queste informazioni? – chiosò
sorpresa e forse le parve quasi naturale l'ostinato silenzio che oppose
il suo bizzarro interlocutore.
Lo
guardò in cagnesco per qualche istante, chiedendosi se
poteva fidarsi di lui, perché, fra tanti, aveva scelto di
tornare a tormentarla con quel suo savoir-faire da
incubo.
-
No. Tutto quello che sappiamo è che non è solo un
gas, può essere assorbito oltre che inalato. I sintomi sono
sempre gli stessi allucinazioni, paranoia, tachicardia, agitazione
motoria, alterazioni della coscienza fino alla disattivazione del
sistema, se presente in dosi massicce nell'organismo. Quegli uomini
sono stati esposti per giorni. – cedette infine, cosciente di
essere in svantaggio anche se, per un breve istante, percepì
un vittorioso sollievo nel constatare di non essere la sola turbata da
quelle strane intossicazioni.
-
Che cosa sta succedendo? Non può negarmi una spiegazione.
–
Si
fece più vicina, provando ad incalzarlo seppure con la
strana certezza che non avrebbe soddisfatto la sua curiosità.
Batman
sembrò trarre un sospiro che morì in fretta nella
luce diafana delle orbite accese, la voce roca appena più
dolce oltre il sibilo del vento.
-
Non ne sono ancora sicuro, ma le prometto che sarà la prima
a sapere. –
Di
nuovo credette che sarebbe sparito, ora che aveva ottenuto
ciò che voleva, senza degnarla di una sola altra parola.
Invece il vigilante rimase lì a guardarla, avvolto in quelle
tenebre in cui sembrava trovarsi perfettamente a suo agio, gli occhi
opachi legati ai suoi, penetrando le ombre.
Poteva
sentire il suo respiro, cadenzato e profondo nel silenzio ovattato
della terrazza, quasi i rumori del mondo esterno fossero diventati
improvvisamente distanti anni luce, sospesi in una stasi che poco aveva
a che vedere con il clima.
Poteva
vederlo trasformarsi in bruma al gelo di quella notte di fine
settembre. Colmare lo spazio fra loro in una curiosa
intimità. C'era qualcosa in lui ... qualcosa, che,
nonostante il naturale timore che emanava dalla sua figura, la
costringeva a rimanergli accanto.
-
Il suo cuore ha le palpitazioni ... lei ha paura di me. –
Un
sibilo roco incrinò la quiete, i dischi candidi conficcati
nei suoi si spensero con un guizzo lasciando scoperte le iridi blu,
impenetrabili quanto le sue intenzioni. Solo allora, April
capì che si combatteva davvero una lotta impari in quel loro
scambio di sguardi.
Eppure
il tono della voce sembrava essersi rilassato, nonostante la mascella
serrata e, forse inconsciamente, l'espressione composta di chi ha
già avuto in pugno qualcuno.
-
Questo non è giusto, lei non ha il diritto di leggermi in
questo modo! Soprattutto dal momento che è praticamente
impossibile farlo con lei ... -
April
fece istintivamente un passo indietro, sottraendosi all'incombenza di
quella figura. Il corpo l'aveva tradita lasciando che la mente vagasse
su ciò che provava per lui, per quanto complicato, qualunque
cosa fosse.
Non
avrebbe mai trovato, però, il coraggio di dirgli che si
sbagliava.
-
Qual è il suo nome, dottoressa? –
Bruce
lo chiese con la stessa sfacciataggine con cui le aveva mentito la
prima volta, in quel corridoio tappezzato d'arazzi, un posto che prima
di quel momento non era mai esistito fra i suoi pensieri.
-
April. – rispose lei di rimando, dopo un istante
d'esitazione, le sopracciglia innaturalmente vicine sulla fronte in un
piglio di momentanea diffidenza.
-
Non voglio farle del male, April. – sospirò Bruce
fra i denti, una dolcezza che non riconobbe nella propria voce mentre
cercava di riavvicinarsi e, questa volta, la dottoressa non si
tirò indietro.
-
Lo so. Non l'ho mai ringraziata per aver ritrovato il fermaglio di mia
madre. So che è stato lei. Ha significato molto per me.
–
Gli
occhi d'ambra s'inchiodarono ai suoi senza esitazione, quasi impietosi,
eppure c'era di nuovo quella strana nota di dolcezza nelle sue parole,
come il giorno in cui l'aveva spinta nell'ascensore appannato dai
fumogeni.
-
Dovere. –
-
No, non lo era. Eppure lo ha fatto. Perché? –
Era
persino più sveglia di quanto Bruce avesse preventivato,
aveva penetrato la sua freddezza con l'abilità di uno
schermidore. Non poteva lasciarsi scappare qualcosa del genere, provava
troppo rispetto per lei per farle intravedere i crateri che il suo
sguardo e le sue parole avevano aperto sotto la corazza, fin nella
pelle.
Sembrava
atterrita, esile quanto Bruce era imponente, esposta al gelo di quella
bruma appiccicosa eppure non distolse le iridi appannate dalle ombre,
senza retrocedere al suo silenzio.
-
Sta tremando. – gracchiò nel silenzio, gli sarebbe
bastato allungare il braccio per sfiorarla, stringerla a sé
come aveva già osato in precedenza.
-
Non per il motivo che crede lei ... -
Forse
per la prima volta si era lasciata scappare più di un
accenno ai suoi sentimenti, e Bruce si stupì di essersi
avvicinato a lei a tal punto da poterne distintamente avvertire il
fiato tiepido sulle labbra.
Respirò
appena, senza tirarsi indietro. Conosceva il suo odore, un vago bouquet
floreale, disinfettante ospedaliero e bucato appena fatto. Avrebbe
voluto perdersi in quel profumo, tanto da confessarlo a se stesso.
Poteva sentire una familiare energia, quasi una scossa elettrica,
pulsare fra la sua pelle e quella della ragazza e si sarebbe volentieri
perduto anche in quella sensazione, ma ... c'era sempre un ma.
Era
una cazzata quella cosa fra loro, uno sbaglio che non potevano
permettersi e Bruce lo sapeva meglio di chiunque altro.
-
Devo andare. –
Indietreggiò
a tentoni fino al cornicione scorticato dall'umidità
impertinente e la ragazza non mosse un passo per trattenerlo.
-
Si, deve. – sussurrò, immobile nella condensa dal
vago odore di smog e di un temporale lontano. Bruce si gettò
nell'abbraccio del vuoto senza guardarsi indietro una seconda volta.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** ~18~ Heart issues 1 ***
~18~
Heart issues 1
La
paura è un cannibale.
Si
nutre di se stessa senza esitazione, insaziabile, inesorabile. Venirne
divorati è questione di un attimo, abbassare la guardia,
lasciare un punto scoperto. È sufficiente un battito di
ciglia per rimanere intrappolati in questa spirale senza fine. Provare
paura per nutrire la paura.
Ti
entra dentro, invade i polmoni, s'impossessa di qualsiasi pensiero
sensato finché del coraggio non rimane più nulla.
E' facile annegare nel mare calmo della sua inesorabile potenza,
abbandonare ogni appiglio per lasciarsi andare alle acque gelide del
terrore.
La
paura era merce di scambio preziosa a Gotham. Non si nascondeva solo
negli anfratti più bui, nello squallore di una periferia
dimenticata, ma nelle strade affollate, fra i grattacieli
più imponenti e nei locali ben frequentati. Non era un
segreto che in quella moneta si potesse commerciare, quanto potere si
annidasse dietro azioni apparentemente di poco conto. Gotham era una
scacchiera in costante mutamento, una polveriera in equilibrio
instabile sullo stallo precario dell'apparenza. Sarebbe bastato un
niente ad accendere la miccia, un paio di labbra guidate da bieche
intenzioni a soffiare su una caldera già in ebollizione.
L'aria
era già satura. Lo si poteva avvertire nella brezza densa
della sera, nella condensa lattiginosa che si appiccicava impertinente
ai cappotti, imperlando i capelli, velando l'asfalto tetro nei pressi
della metropolitana. Guardando il manto pece stiracchiarsi fra i
grattacieli e la pensilina, April non poté che ricordare
l'ottobre innevato di Boston. I tetti ricoperti di una densa coltre
bianca, la bruma perenne intorno ai comignoli accesi, l'orizzonte
arancione rimbalzare sui mattoni sbiaditi. Si chiese se sarebbe mai
successo a Gotham, se l'umidità incessante avrebbe mai
ceduto il passo alla coperta gelida e soffice dei suoi ricordi.
Dal
fondo della lurida scalinata in ferro della pensilina,
avvertì lo sferragliare del treno in arrivo come un rombo
stonato fin nelle suole delle scarpe bagnate. Forse sarebbe riuscita a
salire al volo se avesse percorso gli scalini d'un fiato senza
respirare, si sarebbe strizzata fra le porte in chiusura e sarebbe
riuscita a trovare posto a sedere evitando la calca dell'ora di cena,
ma un grido strozzato a pochi metri dal marciapiede la scosse.
-
Aiuto! Un medico! -
Dalla
bruma leggera che oscurava l'angolo cieco oltre la pensilina, emerse
una donna trafelata in berretto nero e cappuccio grigio, interrompendo
di fronte alla ragazza la corsa sgraziata di chi è troppo
spaventato per riprendere fiato. Il respiro affannoso si trasformava in
condensa in grandi sbuffi attraverso la bocca sdentata, gli occhi
stralunati conficcati nei suoi oltre un velo di cieco terrore.
-
Che succede? - le chiese April di rimando, senza concentrarsi troppo
sull'odore penetrante di sporco che emanava dagli abiti anneriti
persino in quella brezza pungente.
Seppur
sconvolta, la donna continuò a guardarsi intorno, forse in
cerca di un appiglio più concreto della ragazza mingherlina
conficcata nel pesante cappotto grigio che aveva di fronte.
-
Un uomo ... un poliziotto, è stato aggredito. È a
terra, forse è morto ... - chiosò dopo un istante
di esitazione, le mani callose che tremavano visibilmente, la voce
stridula semicoperta dallo schiocco secco del chiudersi delle porte a
soffietto del treno.
-
Cerchi di calmarsi, mi dica dove è successo. -
-
Dietro l'angolo, ma lì non ci torno. - scosse la grossa
testa nel berretto di lana nera, mentre con un gesto nervoso indicava
la strada di comunicazione oltre lo snodo ferroviario. Non avrebbe
ottenuto altro da lei, lo sapeva, quindi non provò neppure
ad insistere per farsi accompagnare sul luogo.
Cercò
invece gli occhietti acquosi e spaventati della donna nella coltre
fumosa che spazzava la strada sotto le arcate in ferro battuto,
sperando che recepisse il messaggio.
-
Ho visto un auto di pattuglia passare da qui poco fa, li raggiunga e li
avverta. Si sbrighi! -
Non
perse tempo a guardarla sparire dalla luce strozzata dei grandi
lampioni ricurvi, accompagnata dalla condensa lattiginosa del suo
respiro pesante e s'inoltrò invece a ritroso le tenebre del
vicolo da cui era comparsa conficcandosi ancor più
profondamente nel caldo cappotto grigio.
Tutto
si sarebbe aspettata fuorché di trovarsi in un'altra zona di
guerra.
L'aria
sembrò svanirle dai polmoni mentre, sullo sfondo della
strada principale ormai deserta, la penombra vitrea si
squarciò danzandole davanti agli occhi alla tremula luce di
un'auto pattuglia in fiamme. Poco lontano un'ambulanza giaceva riversa
su un fianco come la carcassa di un grosso animale ferito, le porte
spalancate sull'interno candido in penombra.
In
quel commisto di neon e scintille, le sagome dei quattro uomini in
passamontagna presenti sulla scena parvero distorcersi e scompattarsi
in un ritmo angosciante.
Per
un istante che le parve interminabile, April si limitò ad
osservarli radere al suolo a colpi di mazza e bastoni tutto
ciò che capitasse a tiro, ascoltò le risa
sguaiate, le bestemmie fra i denti a sovrastare lo scoppiettio del
fuoco. Dovette sbattere le palpebre, esiliare lo scroscio di vetri in
frantumi e il sordo clangore del metallo battuto per ritrovare la
lucidità necessaria ad accovacciarsi dietro una macchina e
scansionare la zona in cerca dei feriti.
Un
agente giaceva riverso sull'asfalto umido a pochi metri da lei,
immobile, le dita ancora serrate intorno alla radio accesa. Dalla
posizione in cui si trovava poteva scorgerne un altro,
laggiù accanto al veicolo in fiamme, a portata degli
stivaloni sudici che ancora infierivano sul corpo immobile.
Col
cuore che le martellava fin nella gola e un respiro che proprio non
voleva entrare nei polmoni, April si lanciò verso l'auto
successiva. Sentì la schiena impattare contro il metallo
cromato dello sportello, spezzarle il fiato. Era una follia, lo sapeva,
eppure le sarebbe bastato allungarsi per toccarlo, sempre che non li
avessero avvistati prima.
Controllò
che i quattro uomini a volto coperto fossero ancora distratti, le
serviva un istante, un barlume di fortuna, nient'altro. Si
allungò di nuovo, senza pensare, senza guardare e i rumori
cessarono. Per un folle attimo fu certa di essersi tradita, mentre si
affrettava a controllare i segni vitali del poliziotto ferito, eppure
non era di soddisfazione il grido che s'insinuò fra la
cenere che saturava l'aria.
-
Batman! -
Una
pesante ombra nera piovve dal cielo violaceo ad una velocità
suicida, impattando sull'asfalto con un tonfo sordo. April fece fatica
a seguirne i movimenti resi fluidi dal mantello color pece, nonostante
la lega dell'armatura riflettesse a tratti l'ardere angosciante delle
fiamme che ancora divoravano l'auto pattuglia.
Come
era accaduto altre volte, osservò impietrita i contorni
taglienti del vigilante piombare sugli uomini armati, trascinarli in un
turbine di violenza, ingoiarli fra le pieghe delle nere ali di stoffa.
Se
li sentì rimbalzare fra le costole quei colpi studiati e
brutali, il tristemente familiare schiocco di ossa spezzate, il gemere
strozzato del nemico sopraffatto. Non durò più di
un minuto e, mentre la ragazza tentava di deglutire contro la gola
riarsa dal fumo e dal terrore, Batman aveva già sottratto il
secondo agente di polizia alle fauci del fuoco depositandolo ai suoi
piedi, al sicuro.
-
Perché è qui? -
Non
le disse altro. Gli occhi blu che baluginavano taglienti attraverso le
fessure allungate della maschera, il respiro tranquillo, soppesandola.
-
Mi hanno detto che qualcuno era stato aggredito. - rispose senza
scomporsi, in qualche modo aveva imparato a non temerlo, a non temere
per la propria vita quando torreggiava su di lei a quel modo.
-
Come stanno? -
April
si chinò sull'uomo di circa ottanta chili che il vigilante
aveva appena deposto accanto a lei senza sforzo apparente.
Tastò il collo taurino a tentoni sotto il colletto sudato
della divisa, il pulsare dell'arteria era inequivocabile per quanto
fosse stato pesantemente percosso.
-
Vivi. - sospirò e quasi ebbe la tentazione di lasciare che
le gambe cedessero al tremore che si era impossessato di lei da quando
era uscita dal vicolo.
Prima
che entrambi potessero cullarsi nell'illusione che il peggio fosse
passato, tuttavia, l'angosciante sferragliare di un'auto lanciata
sull'asfalto a folle velocità saturò il silenzio.
Il malmesso tassì giallo sterzò nella loro
direzione in una cacofonia di gomma bruciata e stridio di freni a disco
per arrestarsi al centro dell'incrocio.
-
Non uscirai vivo da qui, stronzo. - ringhiò un maciste male
in arnese, scendendo dal trabiccolo insieme ad altri quattro
malintenzionati in logora tuta da lavoro. Con uno schiocco secco accese
l'enorme taser che stringeva fra le mani da palombaro ed April
avvertì distintamente il calore lasciarle il viso, mentre
osservava la corrente azzurrina danzare fra i due poli dell'arma.
All'improvviso
si sentì in trappola, schiacciata contro quell'automobile
troppo piccola per sottrarli alla cieca violenza cui aveva assistito
spesso negli ultimi tempi.
-
Stia qui. Non esca per nessun motivo. -
La
voce di Batman richiamò il suo sguardo, non era un
consiglio, lo sapeva bene, ma non riuscì a rispondere.
Mentre si allontanava a passi pesanti nella complessa armatura,
tornò a posare le iridi immobili su di lei, frapponendosi
alla sua visuale.
-
No ... non guardi. -
Per
un attimo le era sembrato qualcuno di molto più dolce.
Bruce
aveva imparato a non temere il dolore. Né la perdita. Forse
persino la paura stessa. Aveva sanguinato, si era frantumato e
schiacciato fin troppe volte per pensare di tirarsi indietro di fronte
alla prospettiva di provare dolore.
Disciplina,
concentrazione, respiro, misura erano stati l'esercizio fondamentale su
cui aveva costruito la propria vita, pezzo dopo pezzo. Eppure c'era
qualcosa nella consapevolezza che lei fosse lì, a pochi
metri dallo scontro, che riusciva ad insinuarsi pericolosamente fra le
pieghe della sua coscienza. Sapeva come frenarlo, come esiliare quel
pensiero in altri tempi, in altri luoghi del suo cervello, ma sarebbe
bastato un attimo di esitazione per rovinarla. Come allora.
Non
esitò a fronteggiare i cinque uomini scesi dallo sgangherato
tassì giallo, non era più nella sua natura
esitare, ma doveva essere cauto. Meglio armati, meglio addestrati. Il
che significava che si muoveva un'unica precisa volontà
dietro quegli attacchi e non una mera coincidenza dettata dall'idiota
cupidigia delle bande di strada.
Ne
era quasi certo ormai. Prima o poi tutti si tradivano, prede dell'ansia
della belva braccata commettevano un errore, per quanto impercettibile.
Tutti.
Merda!
In
qualche modo la scossa del taser era arrivata alla carne, bruciando la
pelle, spezzandogli il respiro mentre il peso del manganello gli
incrinava una costola.
Strinse
i denti così forte da sentire la mandibola schioccare,
avvertì sulle labbra il sapore del sangue, ma non era ancora
abbastanza, non l'avevano ancora atterrato. Prese un respiro fra le
mascelle serrate, ingoiò il dolore insieme al ferro che
macchiava il sapore neutro della saliva e tornò a colpirli
con rinnovata violenza.
L'asfalto
fremeva sotto gli stivali bardati, scricchiolava sotto i corpi
schiacciati dei suoi oppositori, l'aria satura gonfiava il mantello ad
ogni colpo finché di loro non rimase altro che cinque corpi
pesti, doloranti, senza più alcuna volontà
omicida. Solo allora Batman si fermò.
Bruce
tentò di respirare a fondo, sentì l'aria gelida
della sera, mista all'odore penetrante dei gas di scarico ferirgli i
polmoni, ma senza poter alleviare in alcun modo quella spiacevole
sensazione di morsa al petto.
Sapeva
che Alfred lo stava monitorando dalla caverna, sapeva che di
lì a poco avrebbe sentito la sua voce, ma dubitava
seriamente di poter tornare alla macchina con le proprie gambe.
Cercò di concentrarsi, d'ignorare i battiti assordanti nelle
orecchie, il doloroso martellare nel petto, ma seppure ben ancorato al
suolo, la strada aveva cominciato a girare intorno a lui.
Controllò
velocemente il computer al polso, sforzandosi di metterlo a fuoco, la
sua frequenza cardiaca era in aumento, sentiva quei duecento battiti
scuoterlo nel profondo, togliergli il respiro. Stava sudando, le gambe
sembravano essere improvvisamente diventate di piombo, eppure non
poté evitare di preoccuparsi per lei.
Si
guardò intorno, in un ultimo, disperato tentativo e
finalmente la vide, era rimasta in disparte, per una volta, proprio
come le aveva detto. I loro sguardi s'incontrarono per un lungo
istante, un istante in cui la ragazza dovette capire che cosa stava
succedendo perché, prima che il mondo cadesse nel buio,
Bruce fu certo di vederla correre verso di lui.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** ~18~ Heart issues 2 ***
~18~
Heart issues 2
April lo vide improvvisamente crollare. L'uomo che per ben
due volte le aveva salvato la vita, invincibile nella complicata
armatura, ora si accasciava al suolo davanti ai suoi occhi sgomenti.
L'impulso
fu più forte della ragione. Per quanto le avesse intimato di
rimanere al sicuro, per qualche motivo, April era solamente rimasta a
guardare, a osservarlo inebetita combattere con la forza di dieci
uomini.
Corse
da lui, ormai immobile al centro della strada appiccicosa per la cenere
e la pioggia, nel silenzio inghiottito dal gorgogliare di fiamme vive,
ignorando gli uomini stramazzati attorno a quella scomposta ombra nera.
Sulle
prime ne ebbe quasi paura, come la prima volta che l'aveva incontrato.
Alto, scuro, minaccioso, eppure ora che il petto si muoveva irregolare
a ogni respiro, le lunghe dita nere contrarsi come a voler afferrare
qualcosa d'impalpabile, non esitò a inginocchiarsi.
Quasi
non riconobbe la tenerezza con cui posò entrambe le mani
sulle fredde spalle bardate, scuotendolo appena.
-
Riesce a sentirmi? Può aprire gli occhi? -
L'uomo
pipistrello non rispose, le palpebre ancora serrate sotto la maschera
nera, il fiato corto attraverso la mascella contratta. Sudava
copiosamente, poteva vederlo persino attraverso lo spesso strato in
fibra di carbonio che si portava addosso.
Cercò
di fare mente locale, chiamando in soccorso tutto il sangue freddo che
le fosse rimasto nelle vene per quella notte. Le parve il compito
più difficile e ingrato a cui fosse mai dovuta sottostare.
Osservò
più e più volte, tracciandone i contorni con dita
tremanti, la bardatura in qualcosa di molto simile al kevlar in cerca
di un punto scoperto, qualcosa che potesse ricondurre la sua mente alla
vista familiare di una ferita, una lesione qualsiasi a cui potesse
porre rimedio.
Sotto
i polpastrelli erano scorse ormai quasi tutte le placche umide e lisce
all'altezza del petto e dell'addome quando, al suo tocco, il corpo
pesante e abbandonato dell'uomo si contorse in un leggero sussulto.
All'improvviso
sembrò che qualcuno avesse prepotentemente acceso un faro
nel suo cervello inceppato dalla paura e dall'adrenalina.
Nonostante
avesse compreso ben poco della bolgia di colpi che si era susseguita
davanti ai suoi occhi, April si accorse di ricordare distintamente il
momento in cui uno degli aggressori aveva raggiunto l'addome del
vigilante con un grosso taser.
Per
quanto Batman avesse continuato a combattere senza avvisaglie di aver
accusato il colpo, l'arma doveva essere riuscita a scalfire la corazza,
fulminandolo.
Avrebbe
voluto più tempo per pensare lucidamente, per rallentare i
battiti dolorosi del cuore nella gola, mentre il suo istinto la
proiettava verso ben poco rosee previsioni. Eppure strinse i denti e
ingoiò la paura.
Succedeva
un po' troppo spesso ormai, da quando quell'ombra nero pece era
piombata a gamba tesa nella sua vita.
Dato
che i polsi dell'uomo sembravano impenetrabili quanto il funereo
stoicismo dietro cui barricava il resto della propria vita, con un po'
di coraggio April fece affondare delicatamente due dita sotto la
protezione in gomma spessa che avvolgeva il collo ispido.
Tornò a respirare solo quando poté avvertire la
carotide pulsare frenetica e irregolare contro i polpastrelli sudati.
Contò
mentalmente i battiti, li sovrappose a quelli altrettanto furiosi nel
proprio petto e capì che l'uomo era in pericolo. Se non
avesse trovato il coraggio e il modo di fare qualcosa l'avrebbe perduto
senza neppure averlo ringraziato ancora una volta di aver vegliato
sulla sua vita.
Chiamare
un'ambulanza era certo fuori discussione, d'altra parte era consapevole
che non sarebbe mai riuscita a trasportare quel maciste in armatura da
qualche parte con le sue sole forze. Si ritrovò a cercare
freneticamente qualcosa sulla superficie della corazza che potesse
darle la certezza di non essere completamente sola a guardarlo morire,
che qualcuno, da qualche parte, lo stesse aiutando.
Scavò
e graffiò in cerca di un appiglio finché le
unghie non si scheggiarono e i polpastrelli non sanguinarono, poi la
pelle impattò con una superficie diversa, quasi morbida al
tatto, a livello dell'antibraccio bardato. Con un sordo click il
metallo si aprì sotto le sue dita rivelando un fascio di
luce.
Trattenne
un'imprecazione quando, di fronte ai suoi occhi atterriti, si
proiettò a mezz'aria la schermata azzurrina di un computer.
Accanto alla sagoma in scala del vigilante si allinearono tre
isodifasiche, ciascuna delle quali sembrava apparentemente monitorare
con precisione i parametri vitali dell'uomo accasciato di fronte alle
sue ginocchia doloranti.
Un
unico puntino rosso pulsava frenetico all'altezza del petto, sbraitando
silenzioso un segnale di allerta. Tachicardia ventricolare.
April
raggelò. I suoi timori si erano appena solidificati, avevano
preso vita nel modo più sgradevole e grottesco che avesse
potuto immaginare, impattando fra i suoi pensieri con la violenza di
una bomba a mano.
Pensare
ancora, pensare in fretta. Non poteva lasciarlo morire, non in quel
modo. Dietro le palpebre serrate per la paura e la tensione,
all'improvviso comparve in un flash la carcassa ammaccata
dell'ambulanza che aveva adocchiato solo pochi minuti prima al lato
della strada.
-
Torno subito. Resista. - fiottò, senza essere neppure certa
che il vigilante potesse sentirla, prima di scattare in piedi fra i
detriti che le ferivano le caviglie.
Incespicò
sull'asfalto umido, tossendo all'odore acre di fumo e cenere che le
feriva i polmoni, il cuore che batteva ribelle nelle tempie al ritmo di
un martello pneumatico, fino al retro in penombra del mezzo di soccorso.
Con
la disperazione dell'adrenalina che le urlava nelle vene, mise a
soqquadro ogni centimetro dei cassetti semiaperti nel ventre vuoto e
lurido di metallo cromato finché i polpastrelli non
riconobbero il vetro e gli occhi d'ambra non lessero a fatica Lidocaina sull'etichetta.
Afferrò a stento una siringa sterile e tornò sui
propri passi, i muscoli in fiamme e le ginocchia livide per l'impatto
con l'asfalto.
-
Se può sentirmi, la prego, mi aiuti. -
Quasi
non osò sperarlo, eppure all'improvviso l'uomo
riaprì lentamente le palpebre serrate. I velati occhi blu si
conficcarono nei suoi per un lungo istante, mentre il respiro affannoso
di entrambi si trasformava in condensa scontrandosi nell'aria satura.
Batman
sollevò con fatica la mano sinistra protetta dal guanto
rinforzato solo per slacciare sapientemente l'antibraccio destro. Il
tonfo sordo sull'asfalto parve rimbombarle fra le costole, fino alla
gola riarsa sciogliendo di un poco il nodo di tensione che le bloccava
il respiro.
-
Andrà tutto bene. -
Non
conosceva la tenerezza con cui gli aveva parlato, non sapeva da quale
piega del suo cuore fosse traboccata, eppure, mentre le palpebre scure
tornavano a chiudersi, lasciò che la punta delle dita
sfiorasse il viso ispido, madido di sudore freddo.
Prese
un respiro, poi un altro tentando di raffreddare i pensieri che si
agitavano incessanti sotto la superficie, di sedare il fine tremore
delle mani mentre riempiva goffamente la siringa.
Era
una sciocchezza. Forse la sciocchezza più pericolosa che
avesse tentato in vita sua. Iniettare un farmaco in vena era facile in
ospedale, circondata da infermieri, sterilità e la certezza
di poter rimediare. Farlo in un momento come quello sarebbe stato come
giocare d'azzardo ed April non era mai stata una giocatrice.
Trovato
l'accesso esitò ancora un istante, il più lungo
della sua esistenza, l'ago così vicino da sfiorare la pelle,
le dita rigide come ghiaccioli, ma il cuore in subbuglio.
Avrebbe
potuto ucciderlo, certo, ma non tentare nulla avrebbe significato
comunque averlo sulla coscienza. L'istante fortunatamente
passò e l'indecisione scivolò via con le gocce di
sudore che le imperlavano la fronte gelata, bastò una minima
pressione perché l'ago bucasse la vena. Non le restava che
aspettare.
Il
tempo sembrava non scorrere mai, intrappolato com'era in quell'aria
densa e appiccicosa, si stiracchiava pigro fra le pulsazioni sempre
troppo elevate sulla proiezione azzurrina all'antibraccio del vigilante.
Rallentarono
infine e così le sue, permettendole di respirare,
finché finalmente il cuore non tornò a battere
regolarmente sotto la corazza impenetrabile in fibra di carbonio.
Le
calze si erano strappate e le ginocchia sanguinavano, tanto a lungo
avevano strisciato sull'asfalto per rimanere sopra di lui, eppure April
si lasciò scappare un sorriso nervoso quando i chiari occhi
blu si aprirono di nuovo sui suoi.
Non
aveva ucciso l'unica speranza di Gotham.
Bruce era stordito.
Il
petto gli doleva come se uno dei fratelli Tweedle ci si fosse appena
seduto sopra, la gola così secca quasi avesse ingoiato una
manciata di cenere e il mondo danzava ancora in spire grottesche
attraverso le palpebre di piombo.
Le
dita cieche graffiarono l'asfalto lurido in cerca di un appiglio in
quella realtà che sfuggiva improvvisamente al suo controllo,
i muscoli rigidi si contrassero a vuoto in un respiro affamato.
Eppure,
persino attraverso il rombo del sangue nelle orecchie,
riuscì a captare una presenza solida accanto a sé.
Sarebbe
scattato in piedi se solo le gambe avessero collaborato, avrebbe
affrontato qualunque cosa gli si fosse parata davanti con la stessa
metodica determinazione che si addiceva a condizioni fisiche migliori.
Invece non erano nemici quei contorni morbidi e familiari, quei chiari
occhi d'ambra legati ai suoi così stretti da fargli
dimenticare perché si costringesse a trattarli con tanta
freddezza.
La
ragazza lasciò sfuggire un sospiro dalle labbra socchiuse e
solo allora Bruce riuscì a riguadagnare lucidità
a sufficienza da sbilanciarsi su quanto fosse appena accaduto.
Lei
gli aveva salvato la vita, avrebbe potuto scappare, mettersi in salvo,
invece aveva deciso di rimanere con lui, per lui. Difficile non
montarsi la testa.
-
Sembra proprio che io e lei siamo pari ora. -
Il
sorriso sulle labbra piene era tirato e stanco. Nonostante il freddo
pungente tracce di sudore solcavano le tempie scoperte e due ciocche
scomposte di capelli mogano ondeggiavano ribelli nella brezza
fuligginosa. Le dita piccole tremavano appena premute sull'incavo
dell'avambraccio destro, privo della corazza che Bruce vagamente
ricordava di aver slacciato.
Eppure
era bella.
-
Lei è un'incosciente. -
Non
c'era spazio per la comprensione in quel suo mondo violento e distorto.
La ragazza aveva rischiato fin troppo per essergli accanto, era
qualcosa a cui non sapeva rispondere se non con la disciplina dietro
cui aveva imparato a trincerare il suo cuore.
-
A quanto pare è già tornato in sé. -
ridacchiò nervosamente al suo cipiglio, mascherando dietro
il sarcasmo qualcosa che somigliava a sincera preoccupazione, poteva
leggerlo chiaramente fra le rughe sottili che le erano sbocciate in
fronte.
Bruce
non poteva abbandonarsi a quel momento, per quanto sapesse di doverle
molto, non poteva lasciarsi distrarre, né rischiare di
metterla di nuovo in pericolo. Come sempre avrebbe ignorato il dolore e
la spossatezza che gli accartocciavano il cervello e sarebbe sparito il
più in fretta possibile.
-
Devo andare. -
Lapidario,
distante. Questo doveva essere per lei, come per chiunque altro avesse
incrociato il suo cammino. Cercò di sollevarsi, ingoiando lo
strappo dei muscoli in fiamme, senza che l'ombra della sofferenza gli
oscurasse il viso. Inattaccabile.
-
Ci scommetto. Ma qualcuno le ha appena defibrillato il cuore con un
taser. Ha rischiato l'arresto cardiaco, dovrebbe seriamente considerare
di restare sdraiato per qualche minuto. -
Tentò
di trattenerlo a terra, era infastidita, ma Bruce stava già
cercando a tentoni l'antibraccio sull'asfalto umido. Il corpo gli
doleva tutto, eppure si rimise prontamente in piedi non appena
riuscì ad afferrarlo e a ripristinare l'integrità
della propria protezione.
-
Come non detto. Senta ... -
La
dottoressa cercò di tenergli dietro, zoppicava appena e,
solo quando le dita esili si aggrapparono al suo braccio per
trattenerlo, Bruce notò le ferite sottili alle nocche, le
ginocchia graffiate e sanguinanti. Non riuscì a reggere
l'insostenibile preoccupazione accesa dietro le iridi color miele.
Quel
contatto lo turbò con la veemenza di una scossa elettrica.
Non avrebbe permesso a se stesso una tale leggerezza, non l'avrebbe
legata a sé per doverla un giorno seppellire come era
accaduto con Talia.
-
Mi lasci! - abbaiò sperando di spaventarla, che la sua
irriconoscenza riuscisse in qualche modo a incuterle lo stesso orrore
che più di una volta aveva visto negli occhi di chi aveva
soccorso, ma April non cedette di un passo, solo le dita scivolarono
lontane dal loro precedente appiglio.
-
Non mi pento di essere rimasta. Altrimenti a quest'ora sarebbe morto. -
Le
pupille di pece immobili nelle sue in un moto di cieca determinazione,
nonostante il respiro lasciasse le labbra in rapidi sbuffi di condensa,
e per un istante Bruce non seppe come ribattere.
-
Quindi la prego. La prego, faccia attenzione. So che l'ospedale
è fuori questione, ma se dovesse avere problemi ... al cuore
intendo, se dovesse sentire qualche aritmia, venga da me. Non le chiedo
di promettere, solo almeno di pensarci. Sa dove abito. -
continuò più dolcemente, lasciando andare un
sorriso storto sul volto tirato.
Non
le promise nulla. Non rispose né si, né no,
temendo che la voce l'avrebbe tradito, portò solo nel cuore
quelle parole mentre distoglieva lo sguardo dal suo, tornando a passi
lenti verso la Batmobile.
April
fu scortata a casa dalla polizia quella sera.
Nel
tripudio stonato di sirene e idranti antincendio, la lasciarono parlare
solo quando ebbe mostrato loro il tesserino di riconoscimento del
Gotham Mercy, permettendole di raccontare in breve ciò a cui
aveva assistito.
Tralasciò
volutamente i dettagli del suo incontro con Batman, senza soffermarsi
sull'indiscutibile vulnerabilità dell'uomo verso cui gli
agenti provavano un atterrito rispetto.
Le
sembrò di aver trascorso giorni senza dormire nel momento in
cui mise piede nel proprio appartamento, la stanchezza le
crollò addosso come un macigno mentre raccoglieva i
pensieri, guardando il soggiorno buio con occhi vuoti.
Avrebbe
voluto farsi una doccia, andare immediatamente a dormire ignorando la
cena e le insistenze di Waffle, ma non poté fare a meno di
ripercorrere mentalmente le poche parole che aveva scambiato con
l'oscuro vigilante di Gotham.
Per
quanto si sforzasse, non riusciva a trovare un senso alla tenerezza con
cui gli aveva parlato, all'istinto incosciente di preservare la sua
vita.
Era
un uomo vinto, distrutto quello dietro la maschera nera, un uomo che
pure le aveva mostrato un cuore altruista, dedito al sacrificio di
sé, seppure in modo impacciato, quasi goffo. Di nuovo
l'aveva guardata a quel modo, quasi sapesse, quasi la sua vita contasse
davvero qualcosa per lui.
Si
lasciò andare pesantemente sul divano di pelle scura, il
volto fra le mani ferite di cui non aveva la forza di occuparsi.
Pensò
a lui, a quello che doveva aver sofferto a causa di quel suo voto
dissennato alla giustizia, al perché fosse tornato a
tormentarla, finché, prima di potersene accorgere, si
addormentò di un sonno profondo e senza sogni.
Oltre
il vetro della porta finestra, il bagliore prepotente di un lampo
s'insinuò sotto le palpebre chiuse, riportandola bruscamente
alla coscienza. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso da
quando era tornata all'appartamento, ma le luci erano quiete nei
grattacieli vicini, suggerendole che fosse ancora notte inoltrata.
Con
un sospiro si convinse ad alzarsi, ignorando i muscoli intorpiditi, per
tornare a dormire nel proprio letto. Il miagolare profondo di Waffle,
tuttavia, richiamò la sua attenzione, se non fosse stata
troppo esausta perfino per pensare avrebbe giurato che un'ombra si
fosse mossa entro i confini della terrazza.
Il
cuore perse un battito. Trattenne il respiro concentrando le pupille
cieche sull'oscurità ignota oltre il vetro umido della porta
finestra, finché l'ombra non divenne stranamente familiare.
Alta, massiccia, somigliava in maniera inquietante alla sagoma di un
gigantesco pipistrello dalle ali ben chiuse.
Le
ultime parole che aveva scambiato con il vigilante si allargarono a
macchia d'olio nel cervello ancora intorpidito e d'istinto
spalancò la finestra per fronteggiarlo nel buio appiccicoso,
squarciato a tratti dalla luce dei neon e di lampi lontani.
-
Santo Dio. Sta bene? - esclamò preoccupata, ma il cuore
batteva pianissimo quasi a non volersi far riconoscere dalla gigantesca
figura davanti a lei.
Eppure
per un lungo istante il suo bieco interlocutore non rispose,
continuando solamente a guardarla con occhi che la ragazza non poteva
vedere.
-
Sì. - gracchiò infine uscendo dall'ombra,
impalmato nella corazza di solitudine e freddezza che si portava
addosso, ma ad April parve l'ombra di un sorriso quella che si
stiracchiava sulle sue labbra sottili.
Stranamente
quella risposta riuscì a ferirla, il cieco senso del dovere
che lo aveva portato quasi a sacrificarsi per lei già una
volta, lo aveva riportato lì per dirle addio.
-
Non pensavo sarebbe tornato. Non è in debito con me, non
doveva venire fin qui per forza. -
Stava
tremando e sapeva che, di quel fine tremore che si era impossessato del
suo corpo, il gelo della sera era responsabile solo in parte.
-
Mi ha detto che sarei dovuto tornare ... in caso avessi avuto problemi
col cuore. -
Di
nuovo quella voce profonda, raspante, eppure questa volta le parole
fecero fatica a penetrare la sua coltre di diffidenza.
-
Cosa? -
Non
fece in tempo a chiedere altro, che, di nuovo, com'era accaduto solo un
paio di settimane prima, chinandosi appena su di lei, la bocca
dell'uomo aveva raggiunto delicatamente la sua, accogliendo il suo
respiro in un bacio intenso, istintivo.
April
sentì il cuore accelerare bruscamente la sua corsa, mentre
le mani dell'uomo esitavano nel cingere la sua schiena, spingendola
solo delicatamente verso il corpo alto, piazzato. Di nuovo ebbe la
stessa sensazione di familiare calore, di aver colto qualcosa in lui
che non esisteva se non erano così vicini.
Lasciò
che il respiro si adattasse alla frequenza del suo, profondo, regolare
nel petto ampio premuto contro di lei. Inalò l'odore leggero
di colonia ormai evaporata, di fumo e polvere, sentì il
calore della lingua dell'uomo sulla propria, esitante e delicata,
finché non allontanò le labbra sottili dalle sue
in una curiosa armonia.
Lo
guardò lasciarsi sfuggire un respiro, quasi un rimprovero,
ma negli occhi blu la tensione di qualche ora prima era già
scomparsa.
-
La prego, non mi chieda di nuovo perché l'ho baciata. -
azzardò Bruce ancora così vicino a lei da poterne
percepire il respiro tiepido, leggero sulla pelle.
Era
stato forse il bacio più intenso che avesse mai scambiato
con una donna, almeno in quella tenuta.
Ascoltò
il cuore della ragazza rallentare appena le pulsazioni nel petto
premuto contro il proprio e quasi si lasciò sfuggire un
sorriso.
-
Non era esattamente quello che avevo in mente. -
Gli
occhi velati dalla penombra umida nella condensa dei loro respiri
saettarono distanti, in attesa di qualcosa che Bruce non sapeva come
comunicarle.
Conosceva
bene la natura della propria attrazione per la dottoressa e altrettanto
bene conosceva i rischi a cui l'avrebbe esposta se solo si fosse
lasciato andare. Sarebbe bastato un istante di distrazione e avrebbe
potuto perderla per sempre.
-
Neppure lei sa cosa fare, vero? In un certo senso mi ricorda qualcuno
... - sorrise poi, quasi fosse riuscita a leggergli sotto la pelle
qualcosa che non aveva avuto il coraggio di confessare neppure a se
stesso. Forse provava qualcosa per lui, forse era persino Bruce Wayne
l'uomo nei suoi pensieri, non Batman, l'uomo che era riuscito a
strapparle un sorriso come quello.
-
Credo di averla messa nei guai. - gracchiò contro la gola
improvvisamente secca, soppesando attentamente la luce dietro le iridi
opache nella speranza di non illudersi. Invece la ragazza scosse
leggermente il capo, i capelli ribelli contro la brezza notturna che
già odorava di pioggia.
-
Mai quanto ci si è messo lei. Come ha fatto ad innamorarsi
di me? Mi conosce appena. -
Lo
stava chiaramente prendendo in giro, c'era ora un piacevole misto di
confusione e sincera curiosità nel fondo delle iridi
cangianti nei colori bizzarri dei neon. La franchezza di quella domanda
riuscì a spiazzarlo, accelerò i battiti del suo
cuore in uno strano equilibrio nell'umidità elettrica della
terrazza.
-
E lei che cosa prova, dottoressa? -
Non
riuscì a risponderle se non con una domanda, complice
l'evasività imparata nei lunghi anni di addestramento. La
richiesta parve turbarla più di quanto Bruce avrebbe voluto,
eppure non poté negare di averle sempre voluto chiedere cosa
la giovane dottoressa provasse per lui, se il suo cuore non avesse
battuto invano nelle lunghe notti di incertezza e solitudine.
-
Non lo so. Lei non è il primo uomo ad essere piombato nella
mia vita di recente. Forse c'è qualcosa fra noi, ma ho
passato così tanto tempo ad allontanare chiunque che potrei
averlo perso senza neppure saperlo. Eppure, in qualche modo, mi fido di
lei, la sua vita mi sta a cuore per qualche motivo. - soffiò
in un sospiro e di nuovo gli occhi grandi e allungati brillarono dei
riflessi del tramonto, confessandogli una verità che Bruce
aveva agognato e temuto allo stesso tempo.
Ora
che sapeva, tornare indietro sarebbe stato impossibile. Senza esserne
pienamente coscienti avevano provato le stesse sensazioni, le stesse
emozioni.
La
ragazza era nel suo cuore da molto più tempo di quanto Bruce
avesse mai voluto ammettere, forse Alfred aveva ragione, forse avrebbe
dovuto seguire il suo cuore una volta tanto, lasciarla guardare quello
che si agitava sotto il groviglio di lividi e dovere che era diventato.
-
Lo stesso vale per me. Non sono qui per dirle addio, dottoressa. -
rispose ignorando la paura, sperando che la ragazza riuscisse a
scorgere il suo cuore oltre quelle parole, chiunque lei stesse
guardando, chiunque stesse amando. Bruce sapeva che non l'avrebbe
tradito.
Non
rispose, ma le guance avevano appena cambiato colore alla luce fioca
delle distanti insegne al neon.
-
Grazie per avermi salvato la vita. - continuò ancora
così vicino a lei da poterne captare il lieve respiro, non
le avrebbe mai dato l'occasione di vederlo, eppure più di
qualunque altra cosa temeva un suo rifiuto.
Ora
che l'aveva trovata, perderla per sempre sarebbe stato insopportabile.
-
Dovevo. -
Gli
occhi d'ambra si conficcarono nei suoi attraverso la coltre
d'umidità, finché le dita della ragazza si
mossero verso il suo viso. Poteva vederle tremare ancora sospese a
mezz'aria, quasi non avessero dimenticato i suoi precedenti rifiuti.
Bruce
si lasciò cullare per un attimo nell'illusione di poterla
amare, di essere amato a sua volta e, per quell'unico breve istante, si
concesse di godere di quei sentimenti, di quanto fossero veri,
istintivi. Avvertì il tepore delle dita sfiorare la pelle,
ignorando la maschera, e si stupì di quanto avesse rilassato
i suoi muscoli, calmato i suoi pensieri febbrili.
Erano
anni che qualcuno non lo guardava in quel modo, con la stessa
disinteressata tenerezza che vedeva impressa sul volto imperlato dalla
pioggia che aveva preso a cadere al ritmo dei loro cuori in subbuglio.
Avrebbe
voluto sorriderle se ne fosse stato ancora capace, ricambiare il
sollievo di quel colpevole tepore ma che cosa era rimasto ormai
dell'uomo che non fosse rabbia, testarda autocommiserazione?
Invece
rimase immobile, il calore della mano di lei ancora sul viso, come una
strana promessa.
-
Buonanotte. -
April
si accomiatò in un sussurro, leggendo nel suo ostinato
silenzio che era arrivato il momento per entrambi di tornare ciascuno
al proprio mondo.
Né
si aspettò una risposta, mentre l'uomo pipistrello
già percorreva a grandi falcate l'oscurità che lo
separava dal parapetto, abbracciando la pioggia densa di quella notte
gelida e immobile con un salto nel vuoto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** ~19~ Gordon for Mayor 1 ***
~19~
Gordon for Mayor 1
James
Gordon era sempre stato un individuo estremamente pratico. Il tipo
d'uomo che sa di poter dubitare di qualunque cosa, tranne che della
propria marmorea testardaggine.
Proprio
quello sguardo disilluso e affilato da tutta la necessaria diffidenza
gli aveva permesso di restare per anni a galla nel marcio in cui
sguazzava la sua città.
La sua città.
Il
cumulo di pigra avidità che era diventata, perlomeno. I
cittadini di Gotham si sarebbero affidati a chiunque purché
riuscisse a mantenere una sola promessa, per quanto piccola, per quanto
meschina.
Era
stato quel putridume a risputare fuori la carcassa percossa e masticata
di Batman, più volte di quante Jim ne potesse contare.
In
quello schifo ci era nato, il Cavaliere Oscuro. E Gordon era piuttosto
sicuro che, in quello stesso pattume, un giorno o l'altro, ci avrebbe
tirato le cuoia. Troppa colpa, troppo onore in quel precario gioco di
guardia e ladri. Il confine continuava ad assottigliarsi, giorno dopo
giorno, inesorabile, finché non sarebbe più
esistito un noi o loro.
Per
questo non si era mai ritenuto degno di ricoprire carica alcuna, fra i
seggi concavi e impolverati di Gotham, così come avrebbe
rifiutato l'incarico di commissario se avesse potuto, se le pressioni
politiche non gli avessero accartocciato il cervello fino a
costringerlo ad accettare.
E
per questo stesso motivo il ticchettio dei suoi pensieri si era
bruscamente inceppato quando gli occhi acquosi e affilati di Bruce
Wayne si erano piantati nei suoi quella mattina di ottobre, nel bel
mezzo del suo ufficio, fra il cartone di una pizza unto e impolverato e
un bicchiere dall'alone giallognolo di quell'ultimo scotch consumato a
tarda notte.
Lo
guardò attentamente aggiustarsi i polsini del completo
italiano, come se fosse atterrato appositamente da un altro pianeta per
comunicargli quell'assurda fesseria.
-
Il fatto è, commissario, che sto pensando di investire i
miei soldi su di te. –
-
Di che diavolo stai parlando, Wayne? –
Sorrideva
con il piglio soddisfatto di un gatto lasciato a poltrire al sole, per
questo gli occhi di Jim vagarono immediatamente alla ricerca dello
sguardo terreno e occhialuto di sua figlia Barbara.
Avrebbe
dovuto sospettarlo. Sospettare che si trattasse di un'imboscata nel
momento in cui la sua zazzera rossa era comparsa fra le porte d'acciaio
dell'ascensore. Barbara non lasciava nulla al caso, tantomeno era mai
venuta a mettere il naso fra le sue cose alla stazione di polizia senza
qualche testardo proposito in mente.
L'avrebbe
rimproverata, se ne avesse avuto la forza, ma il più delle
volte sapeva che sarebbe stato come parlare a un muro. Un muro con la
stessa ostinata potenza d'intenti che gli aveva reso vita difficile in
molteplici occasioni.
-
Papà, è il momento. –
sentenziò con la stessa risoluta dolcezza con cui gli aveva
parlato da quando era riuscita a mettere insieme un paio di sillabe.
Jim
odiava quando i ruoli si ribaltavano a quel modo, ma non avrebbe pure
saputo vivere un istante senza quella certezza.
-
E' il momento di prendere sul serio la fiducia che i cittadini di
Gotham ripongono nel loro amato commissario. Dici sempre che questa
città è governata da ombre, che avrebbe bisogno
di un nuovo sindaco, qualcuno che non tema la luce del
giorno. Sono anni che parli del tipo di persona che dovrebbe guidare
Gotham nel futuro. Papà, noi pensiamo che quella persona sia
tu. –
Gordon
era più che certo di essersi perso da qualche parte, fra la
fiducia e i dannati soldi che Wayne voleva investire, eppure gli
sembrò quasi che fossero entrambi lì, in mezzo al
caos impolverato dei fascicoli che muffivano sulla sua scrivania, a
chiedergli qualcosa che odorava tremendamente di guai.
- Gotham Reborn è
ancora troppo giovane, Jim. Spendo venticinque ore al giorno
proteggendola da burocrati che vedono Gotham solamente come una cassa
in cui riempirsi le tasche. Chi di noi ama ancora questa
città, chi ha vissuto tempi migliori, ha bisogno di qualcuno
che possa ricordargli quanto le cose possano cambiare. –
continuò Wayne allineandosi alla sedia di Barbara, non
voleva guardarlo e scoprire di dovergli qualcosa, più
onestà di quanta ne stesse mostrando al momento perlomeno.
Invece
gli occhi vagarono sui ciondoli viola appesi al manubrio della
carrozzina, soffermandosi testardamente sul click ovattato
della plastica contro il metallo cromato.
-
E di qualcuno coraggioso abbastanza da trascinarci fuori dal passato. O
abbastanza stupido. Tendo a dimenticare quale delle due. –
sbuffò Barbara con la bonaria teatralità di chi
sa di avere la vittoria in tasca, non era mai durato più di
cinque minuti con lei, scartava i suoi rifiuti con la testardaggine di
un quarterback.
-
Di solito non spendo soldi in idee stupide, Jim. Sei l'investimento
più intelligente su cui ho messo gli occhi da un po' di
tempo a questa parte. –
L'acqua
di colonia di Bruce Wayne, invece, lo stava innervosendo. Emanava dal
colletto, stirato con cura maniacale, della camicia assurdamente
costosa quasi volesse schiaffeggiarlo. Jim faticava a capire
perché fosse lì, perché di tutti i
pezzi d'oro colato di Gotham si fosse insinuato proprio sotto le sue
sottane logore e stanche.
-
In breve, vogliamo che sia tu a candidarti per il seggio sindacale,
papà. –
La
bomba fu sganciata alla velocità della luce, quasi fosse la
naturale prosecuzione di una carriera costellata da emicranie e notti
trascorse a spaccarsi la schiena per dormire a una scrivania di legno
da quattro soldi. L'aveva detto davvero e ora non c'era modo di tornare
indietro, di far sì che quelle parole tornassero quatte al
mittente per non presentarsi mai più.
Jim
Gordon prese un respiro prima di parlare, sicuro che la vena che
pulsava frenetica sulla tempia destra sarebbe scoppiata se non avesse
dosato le parole. Avrebbe voluto la sua stessa sicurezza, quell'acuta
determinazione cristallizzata nelle iridi verdi di sua figlia come in
un caleidoscopio.
-
Barbara, sai che ti voglio bene. E Wayne, diciamo che tollero la tua
presenza e il tuo cuore è generalmente nel posto giusto, ma
volete che vi faccia una lista dei motivi per cui credo vi siate bevuti
il cervello? – esordì con più veemenza
di quanta ne avesse preventivata, le dita che cercavano di allentare
frenetiche il nodo della cravatta al collo. Stava soffocando.
-
La polizia al momento agisce sul filo del rasoio a Gotham e,
ciò che penso il prossimo sindaco debba fare per porre
rimedio a questa situazione, va contro tutto quello che ho professato
nella mia carriera. Tutto quello in cui credo. La GCPD dovrebbe passare
sotto il controllo federale, ma non voglio essere io a fare quella
telefonata. Ci sono state giornate storte, parecchio storte, lo
ammetto, ma i poliziotti non sono i criminali qui. Se facessi quello
che va fatto, li tratterei come se lo fossero. Ho bisogno che tu lo
capisca, tesoro. – continuò più
dolcemente chinandosi alla sua altezza, odiava quella nuova
necessità, l'impossibilità di guardare sua figlia
negli occhi e non dall'alto in basso.
Afferrò
una mano piccola e tiepida fra le proprie, come in giorni migliori,
come se un singolo maledetto proiettile non li avesse mai costretti in
quella situazione. Cercò delle parole che morirono nella
colpevole dolcezza con cui la ragazza si aggrappò a lui.
-
Forse è proprio per questo che dovresti essere tu a
ricoprire la carica, papà. Come hai detto, il prossimo
sindaco sarebbe comunque costretto a farlo. Almeno saresti nella
posizione per fare pressioni e aiutare chi alla GCPD ha bisogno di te.
–
Le
dita morbide volarono al suo viso ispido e accartocciato, tracciandone
i contorni stanchi con una saggezza che non si sarebbe aspettato da
qualcuno di tanto giovane. Gliel'aveva fatta di nuovo. Vincere, con
lei, era impossibile.
-
Okay, okay. Dovreste almeno organizzare uno di quei ... comitati
esplorativi, o come diavolo si chiamano. –
Il
tono burbero raschiò pericolosamente contro la commozione
che gli serrava la gola, rischiando di tradirlo, mentre riacquistava la
stazione eretta insieme al proprio orgoglio.
-
Ed è già pronto. Mi serve solo un sì.
– chiosò Wayne con la soddisfazione di un felino
incastonata negli occhi azzurri. Si era quasi dimenticato che fosse
lì, nonostante la stazza da energumeno piantato nelle
costose scarpe italiane.
-
Papà, non devi decidere per forza oggi. Abbiamo ancora tanto
tempo per venirne a capo. Ed è per questo che
lascerò voi grandi a discutere i dettagli. Mi raccomando,
non rovinate tutto. –
La
voce acuta di Barbara lo distrasse dai pensieri che, nel suo cervello,
si aggrovigliavano ancora attorno a quella disfatta come edera
rampicante. Le aveva appena promesso qualcosa di assurdamente
pericoloso per la propria sanità mentale, nonché
per la sua carriera.
Avrebbe
potuto rimangiarsi la parola, rifiutarsi di mettere volontariamente la
testa in quel covo di vipere, invece osservò la carrozzina
di pelle consunta e metallo cromato scivolare oltre la porta
sgangherata dell'ufficio, la mano esile accennargli un saluto prima che
le porte dell'ascensore ingoiassero il sorriso storto e la zazzera
rossa.
-
Lasciare che Barbara facesse il lavoro sporco al posto tuo è
stato un colpo basso, Wayne. – borbottò Jim sotto
i baffi a spazzola, le mani conficcate così a fondo nelle
tasche dei pantaloni grigi da suggerire quasi l'idea che vi stesse
cercando il coraggio. O almeno la stessa sicurezza e fiducia che
Barbara sembrava riporre ciecamente nei suoi confronti.
-
Hey, io sono solo il portafogli. Non è stata una mia idea,
te lo garantisco. Ma so come riconoscerne una buona quando la sento.
– gracchiò Bruce Wayne senza scalfire il suo
entusiasmo, stava fremendo, glielo si leggeva nei chiari occhi azzurri.
Si muoveva nel suo territorio d'azione con la sicurezza di uno squalo.
Jim
temeva il momento in cui sarebbero rimasti soli, in cui avrebbe dovuto
concretizzare i propri propositi e l'idea di passare il resto della
giornata a lambiccarsi il cervello su numeri e proiezioni lo
esasperava. Per quanto ardentemente l'avesse desiderato, Wayne non
svanì magicamente nella nuvola di costosa acqua di colonia
che si portava dietro, rimase invece a osservarlo, in attesa.
Svogliatamente Gordon
liberò una mano rovinata dalle tasche logore e, dopo un
lungo attimo d'esitazione, accennò un invito verso il
maciste in impeccabile completo scuro.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3324457
|