Gotham: The City of Rain

di ArtemisiaSando
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ~ Prologo ~ Goodmorning Gotham ***
Capitolo 2: *** ~1~ The Giant and the Bat ***
Capitolo 3: *** ~2~ Between carpets ***
Capitolo 4: *** ~3~ Nice to meet you, Mr Wayne ***
Capitolo 5: *** ~4~ What's on the inside ***
Capitolo 6: *** ~5~ Founders lounge ***
Capitolo 7: *** ~6~ Voice and strings ***
Capitolo 8: *** ~7~ He'll be here soon ***
Capitolo 9: *** ~8~ Sold to Mr Wayne! ***
Capitolo 10: *** ~9~ Who's afraid of a machine gun? ***
Capitolo 11: *** ~10~ Sky roundabout ***
Capitolo 12: *** ~11~ The one side of a medal ***
Capitolo 13: *** ~12~ Flowers ***
Capitolo 14: *** ~13~ Rock-climbing ***
Capitolo 15: *** ~14~ Who are you, Bruce? ***
Capitolo 16: *** ~15~ Day shift 1 ***
Capitolo 17: *** ~15~ Day shift 2 ***
Capitolo 18: *** ~16~ Ask Alice ***
Capitolo 19: *** ~17~ Never do it again! ***
Capitolo 20: *** ~18~ Heart issues 1 ***
Capitolo 21: *** ~18~ Heart issues 2 ***
Capitolo 22: *** ~19~ Gordon for Mayor 1 ***



Capitolo 1
*** ~ Prologo ~ Goodmorning Gotham ***


~ Prologo ~ Goodmorning Gotham

« On me dit que le destin se moque bien de nous 
Qu'il ne nous donne rien et qu'il nous promet tout 
Parais qu'le bonheur est à portée de main, 
Alors on tend la main et on se retrouve fou 
Pourtant quelqu'un m'a dit ...

Que tu m'aimais encore, 
C'est quelqu'un qui m'a dit que tu m'aimais encore. 
Serais ce possible alors ?* »


È una linea sottilissima quella che si trova fra rabbia e rimorso. Entrambi divorano, consumano, a grandi morsi strappano e lacerano lasciando un vuoto senza uscita, un vuoto in cui è facile affondare, dimenticare. La differenza si trova nella colpa.

Chi ha colpa non prova rabbia, ma rimorso. Le parole non dette si dilatano nella morte, assumono forme e colori che prima non avrebbero mai avuto, diventano un pozzo senza fondo, lo specchio impietoso, insospettabile di un segreto troppo a lungo mantenuto. Marcisce in chi è rimasto indietro, si trasforma in dubbio, in mostro feroce da cui non c'è scampo.

Per i vivi non c'è conforto nella morte ed i morti non hanno più orecchie per sentire, né possibilità di perdonare.

Gli occhi azzurri di suo padre si erano chiusi su un mondo da cui lei stessa l'aveva escluso.

Così era scappata. Inseguita dal fantasma del proprio rimorso aveva scelto di non vedere, di non capire che a lei, ed a lei sola era rimasto il compito di ricordare, di perdonare.

_________________________________________

Il treno per Gotham City era semi deserto il giorno in cui April aveva deciso di partire. Odore di tabacco ed urina si mescolavano oltre il vetro sporco del vagone. Gli altri passeggeri, come lei, facevano semplicemente finta di non vedere.

Avrebbe voluto dire di essere felice, ma quella vaga nebbia che sporcava il paesaggio sembrava essersi insinuata anche fra i suoi pensieri. Che cosa provava? Orgoglio? Impazienza? Paura, forse. Sapeva solo che oltre il finestrino umido il mondo sembrava scivolare via senza meta, senza trasmetterle nient'altro che un vago senso di nausea.

Gotham apparve nella nebbia come una strana visione. La ferrovia sopraelevata l'attraversava simile ad una gigantesca ferita, squarciando un velo di fumo biancastro che pareva sollevarsi dalle strade quasi stessero respirando intorno a lei, sotto di lei.

Era impressionante. Architetture immense si sporgevano nel vuoto di una città insonne, frenetica, sporca, come guardiani, come nemici nascosti. Sentì un brivido percorrerle la schiena mentre la luce a tratti svaniva, coperta dai grattacieli, per poi tornare più accecante ancora sui bronzi anneriti, sulle insegne ancora spente.

Per un lungo istante rimpianse Boston, i suoi edifici di mattoni cotti dal sole, bassi e tozzi, i comignoli anneriti dal fumo depositatosi in centinaia di anni, le strade ampie, le avevano sempre dato uno strano senso di sicurezza che ora sembrava essere svanito nel vuoto di quella ferrovia sospesa.

L'appartamento avrebbe dovuto trovarsi a pochi passi dalla stazione della metropolitana, eppure fece fatica ad orientarsi una volta scesa dal treno. Erano giorni che faceva avanti e indietro per sistemare tutto ciò che aveva, per tentare di dare una forma, seppure goffa ed abbozzata, a quella sua nuova vita, ma riuscì a perdersi ancora, trovando la strada giusta solo dopo un paio di tentativi.

Il gelo sembrava essere sceso precocemente su quel settembre piovoso, si era insinuato nelle persone, ai lati delle strade ghiacciando la brina del mattino. Osservò ancora una volta il palazzo di un curioso rosso mattone, la scala antincendio a vista sulla facciata disegnare una sgraziata geometria e di nuovo si pentì di non essere riuscita a decidersi in tempo per trovare qualcosa di meglio.

L'appartamento era modesto, ma accogliente, nulla a che vedere con il lusso moderno degli edifici circostanti, eppure quella calda facciata di mattoni era riuscita, almeno in parte, a restituirle una sensazione di curiosa familiarità.

Non le era piaciuto, di primo acchito, quello spazio semivuoto ed informe, non assomigliava affatto agli ambienti in cui era cresciuta, ma col passare dei giorni e con l'aumentare degli scatoloni aveva cominciato ad apprezzare il ventre vuoto dell'appartamento all'ultimo piano. Sulla facciata ad est un'unica grande vetrata si affacciava su un enorme balcone in cemento e mattoni, vuoto anch'esso, ma che l'agente immobiliare, complice la sua fretta, aveva abilmente saputo venderle come un locale in più, uno spazio multiuso.

Nonostante questo, April non era ancora sicura di che cosa ne avrebbe voluto fare di quell'enorme sottotetto impolverato che il gatto color miele sembrava già adorare.

Il resto della casa non aveva demarcazioni di sorta, si apriva in un unico ambiente sovrastato dal tetto di mattoni ed archetti di sostegno a vista, eccezion fatta per la camera da letto con bagno adiacente.

Waffle l'aspettava già sulla soglia, affamato, sembrava felice di vederla nonostante l'avesse lasciato solo nel nuovo appartamento per un paio di giorni. Riempì la ciotola all'angolo della cucina e si concesse un sospiro. Erano quelli i rari momenti in cui rimpiangeva la mancanza di un uomo nella sua vita. In ventotto anni non era riuscita a costruire nulla che fosse mai durato davvero e non perché avesse sempre incontrato la persona sbagliata, piuttosto perché era sempre stata lei ad essere in difetto.

Dopo la morte di suo padre, allontanare chiunque provasse ad entrare era diventata la sua dote migliore. Aveva visto le sue amiche sposarsi, senza mai riuscire ad immaginarsi al loro posto. Solo una volta aveva quasi ceduto, per un istante aveva desiderato deporre le armi, abbassare la guardia, lasciare che qualcuno si occupasse di lei. Poi la paura aveva inevitabilmente preso il sopravvento.

Aprì le tende e lasciò entrare la luce bianca di quello strano mattino, aveva ancora decine di scatole da aprire, i mobili sembravano essere stati disposti da un uragano nell'ampio salotto eppure la ragazza sorrise. Nell'angolo più lontano della stanza il distintivo di suo padre scintillò appena.

_________________________________________

* Da: "Quelqu'un m'a dit" Carla Bruni.

Mi hanno detto che il destino si prende gioco di noi

Che non ci da niente e ci promette tutto

Sembra che la felicità sia a portata di mano

Allora tendiamo la mano e ci ritroviamo pazzi

Ancora, qualcuno mi ha detto..

Che tu mi ami ancora... E' qualcuno che mi ha detto che tu mi ami ancora.

Come può essere possibile?

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Capitolo 2
*** ~1~ The Giant and the Bat ***


~1~ The Giant and the Bat

Il Gotham Mercy si trovava solo a pochi isolati dall'appartamento, era una struttura tozza e slargata, di chiaro stampo moderno, distribuita in piano su diversi ettari di terreno edificato, districandosi fra i grattacieli in maniera violenta, sgraziata. Solo pochi edifici superavano i dieci piani e la medicina d'urgenza non si trovava fra questi. Non era stato il suo sogno lavorare come medico delle emergenze, eppure nonostante il suo lungo internato in cardiologia al Boston Memorial non era riuscita a strappare un contratto diverso.

Gotham non aveva bisogno di cardiologi, ma di medici pronti a gestire quelle urgenze che, a quanto si diceva, sembravano essere all'ordine del giorno. Quasi si perse fra i lunghi corridoi che connettevano il pronto soccorso ai vari reparti, dovendo spiegare a più riprese di non essere un visitatore, ma un medico con un regolare contratto d'impiego. Nonostante l'alto tasso di criminalità, il Gotham Mercy era davvero un ospedale d'eccellenza ed April poté facilmente intuirlo dalla grande organizzazione che regnava sia negli ambienti quanto fra il personale specializzato. A differenza del Boston Memorial non era un ospedale universitario, sapeva che sarebbe stata sola per la prima volta, che nessuno avrebbe avuto l'obbligo d'insegnarle nulla, ma se c'era una cosa di cui fosse davvero certa era ciò che aveva imparato in quei lunghi anni di sacrifici.

Suo padre le aveva lasciato una piccola rendita per il college, era vero, ma che pure non sarebbe mai bastata a coprire le spese per la facoltà di medicina, tantomeno April non avrebbe mai potuto chiedere a sua nonna di mettere in gioco una cifra del genere.

Aveva lavorato sodo per mantenersi, accettando piccoli lavori che le permettessero di ottenere una borsa di studio all'anno, non l'aveva fatto per suo padre, ma per se stessa. Il prezzo era stata la sua vita. Era diventata una donna diversa dalla bambina che era stata, più determinata, ma meno felice. Aveva lasciato andare tutto il superfluo, aveva guardato le proprie amiche uscire, divertirsi, innamorarsi senza mai davvero desiderarlo per se stessa. Forse per quello stesso motivo aveva deciso di lasciare Boston senza guardarsi indietro, di cominciare una nuova vita da qualche altra parte.

Ad accoglierla trovò il dottor Simon Heagen, primario, sorriso teso su denti affilati, le diede il benvenuto con la convinzione di uno squalo. Piuttosto giovane per aver assunto il controllo dell'intero dipartimento di emergenza, sembrava perfettamente a suo agio accompagnandola nel dedalo di corridoi di sua competenza, come un gatto che sa di trovarsi nel suo territorio.

Le parlò a lungo di quel reparto, di quello che aveva significato per Gotham in quegli ultimi anni, un orgoglio a malapena trattenuto dietro il tono composto, mentre mostrava l'assoluta efficienza di ogni anello della catena. Fu lui stesso a consegnarle il tesserino e, con un'ultima stretta di mano, la lasciò sulla doppia porta a soffietto del pronto soccorso, di nuovo quel sorriso teso sui denti di lupo.

Il lavoro al Gotham Mercy la assorbì completamente nei giorni che seguirono, così impegnata ad abituarsi ai ritmi dettati dalle emergenze che quasi dimenticò il senso di opprimente solitudine che l'aveva accompagnata al suo arrivo.

Per i primi tempi fu affiancata a due giovani colleghe, Nadine Johnson e Samantha Keller, come lei avevano lasciato le proprie città di origine per lavorare al Gotham Mercy e l'avrebbero assistita finché non avesse imparato a districarsi fra le nuove procedure e qualsiasi cosa concernesse il funzionamento interno dell'ospedale.

Non era mai stata sua abitudine intraprendere amicizie sul posto di lavoro, né si era mai trovata a suo agio nel fingere qualcosa che al di fuori di quelle mura bianche non aveva la stessa importanza. A sue spese aveva imparato che la competizione era più importante di qualsiasi altra cosa in quell'ambiente, così non aveva mai perso tempo ad inseguire rapporti che nessuno si sarebbe dato la pena di mantenere.

Eppure si stupì dell'intimità che, con una facilità insospettabile, si era creata fra loro, nonostante ricoprissero ruoli molto simili, e per una volta non sentì il bisogno di declinare qualunque invito le venisse proposto. Lasciò che la introducessero alla vita della città, oltre che alle responsabilità del nuovo lavoro ed April scoprì quanto potesse essere piacevole avere qualcuno che l'aspettasse alla fine del turno anche solo per poter mangiare qualcosa insieme.

Le prime settimane trascorsero come in uno strano sogno. Per quanto si sforzasse di sentirsi a suo agio nel contesto di quella nuova realtà, qualcosa nel suo cuore remava inevitabilmente contro. Quel sottile senso di repulsione, il brivido che l'aveva accompagnata il primo giorno stentava ad andarsene.

Gotham non era una metropoli qualunque. Sotto l'aspetto fiero, severo di un maciste della finanza e dell'industria, si celava un brusio di squallore e di criminalità sussurrata. Tutti sapevano, ma nessuno ne avrebbe mai parlato apertamente. Gotham stava marcendo e non c'era nessuno che sapesse come invertire quel disgraziato processo. I criminali si aggiravano a piede libero nella notte, dormivano nella pancia di una città dai funzionari corrotti o corruttibili.

La paura rendeva muti i suoi cittadini, sorridevano per le strade alla luce del sole, ma la notte interi quartieri morivano. Deserti, abbandonati. Non si facevano domande, neppure sussurrate, dove la mano di quel marcio senza fine si stendeva, si sgranchiva fra le case vuote.

Si parlava di un giustiziere, un uomo terrificante dietro la maschera di un gigantesco pipistrello. Sulle prime la ragazza sorrise alla notizia, ma il rispetto che l'inquietante vigilante aveva evocato sul volto delle nuove colleghe le provocò di nuovo quel vago senso di nausea che aveva avvertito sin dal primo giorno. Si diceva collaborasse con la polizia, che tenesse pulite e sicure le strade della città, eppure doveva essere soltanto un uomo. Un uomo solo contro il mondo, un destino a parer suo terribile. Chi mai avrebbe potuto auto infliggersi una tale punizione?


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Capitolo 3
*** ~2~ Between carpets ***


~2~ Between carpets

Nei giorni che seguirono April apprese che l'uomo pipistrello non era il solo benefattore di Gotham City. Un giovane imprenditore miliardario sembrava cavalcare una ribalta senza precedenti. Bruce Wayne. Filantropo e dai gusti bizzarri, questo dicevano di lui, eppure sembrava organizzare puntualmente una volta al mese un party elegantissimo nella propria tenuta solo per poter riunire i più grandi magnati, e quindi potenziali finanziatori, di Gotham.

L'ospedale era da anni generosamente finanziato dalla famiglia Wayne, lo stesso Thomas Wayne, eccellente medico e uomo d'affari, vi aveva lavorato per anni prima di morire in circostanze quanto mai sospette, qualcosa di cui nessuno aveva apparentemente voglia di parlare. Il consiglio di amministrazione aveva perciò un invito garantito ad ogni evento organizzato dall'erede di quella sfacciata fortuna, costruita sui resti della brava gente di Gotham. 

Eppure il Gotham Mercy sembrava aver continuo bisogno di fondi e risorse per poter rimanere al passo con le nuove tecnologie, gentilmente fornite in concessione dalla più che ovvia Wayne Enterprises, qualcosa che ad April suonava più o meno come un buco nero per le finanze dell'ereditiere Bruce Wayne.

Quando si accorsero che al loro team di dirigenti d'impresa mancava una figura femminile che potesse addolcire il portafoglio della crema di Gotham, il dottor Heagen si prese la libertà di proporre il nome di April senza neppure consultarla.

A cose ormai fatte le disse che sarebbe stata un'occasione imperdibile, da cui la ragazza non avrebbe avuto che da imparare, che era toccato a tutte prima di lei ed, in quanto nuova arrivata, le sarebbe spettato l'onore di presenziare insieme a loro alla serata di beneficienza. Nessuno sembrò interessato a chiederle che cosa avrebbe desiderato, mettendo invece di mezzo la sua carriera, perciò, a conti fatti, si trovò costretta ed eseguire quello che, più che di una proposta, aveva preso le sembianze di un ordine.

Erano anni che non aveva occasione di indossare un abito elegante, inutile dire che, a differenza dei quattro uomini che l'avevano accompagnata, la cosa la metteva leggermente a disagio. Non era mai appartenuta a quel mondo, e dubitava seriamente che vi sarebbe appartenuta dopo un party per finanziatori.

Quasi avrebbe preferito scappare, se solo i tacchi glielo avessero permesso, nel momento in cui l'auto nera li lasciò davanti alla gigantesca tenuta all'elegante periferia di Gotham. Era una costruzione angosciante e proporzionata allo stesso tempo, quasi simmetrica fra le due torri svettanti ai due lati del palazzo. Ben piazzata al suolo quasi una mano invisibile avesse scavato per poggiarvela sopra donandole quell'aria di eternità, di impenetrabilità che la colpirono. Le lunghe vetrate blasonate brillavano di mille bagliori nel buio di quella notte di un settembre gelido, impassibile.

Un giovane maggiordomo in livrea aprì l'immenso portone di quercia intagliata al loro passaggio accogliendoli in un foyer di un'eleganza stranamente composta, senza pretese che cozzava irrimediabilmente con la fama del padrone di casa. I caminetti dovevano essere stati accesi da ore per regalare alla sala quel confortante tepore che avvolgeva la stanza in una curiosa armonia, il freddo esterno un lontano ricordo.

Lo stesso domestico li scortò oltre la preziosa scalinata in legno scuro, proiettandoli laddove la festa doveva raggiungere il suo apice. Una sala da ballo immensa si apriva oltre un altro portoncino in quercia annerita in un turbinio di persone dagli abiti più eleganti che la ragazza avesse mai visto. Lo champagne correva sui vassoi che si aggiravano con maestria fra gli invitati, colossali lampadari in ferro battuto pendevano solenni dal tetto a botte illuminando l'ambiente sopra di loro, intorno a loro, non c'era cenere nei camini sempre accesi, né ombra sui costosi quadri alle pareti. Niente era stato lasciato al caso, seppure con una naturalezza disarmante.

I suoi accompagnatori, perfettamente a loro agio nell'ambiente, non persero tempo gettandosi fra la folla, trascinandola con loro. In breve tempo strinse più mani di quante potesse ricordarne, sorrise e scambiò battute con completi estranei, persone che forse mai più avrebbe rivisto nella sua vita. Si lasciò guidare finché non le si offrì una via di fuga. Si perse un paio di volte cercando una toilette a cui non voleva arrivare, da cui non voleva tornare e, prima di potersene accorgere, il riparo di un lungo corridoio tappezzato di arazzi era diventato un'attrattiva troppo seducente per poterla ignorare.

Quando Bruce poté finalmente sottrarsi alla confusione del salone principale le guance gli dolevano. Era una volontaria tortura a cui sapeva di doversi sottoporre almeno una volta ogni tanto, si ripeteva che fosse per una buona causa e quello in realtà era l'unico motivo che lo spingesse ancora a sorridere come un idiota in quelle situazioni.

Prese a misurare i corridoi a passi ampi, impazienti, senza meta. Pensare lo tradiva più di ogni altra cosa. Il pensare lo rendeva preoccupato e la preoccupazione lo rendeva inquieto. Avrebbe potuto mandare tutto in malora, chiedere a tutti di andarsene e tornare al lavoro, ma aveva promesso. E più di qualunque altra cosa oltre che a suo padre, lo doveva a se stesso, a quel poco che della vita di Bruce Wayne era rimasto.

Sospirò sonoramente prendendo la via a ritroso per la sala, sconfitto, massaggiandosi la barba già ispida e le guance indolenzite per l'ultima volta prima di ributtarsi nella mischia, quando qualcosa all'angolo del suo campo visivo lo bloccò a metà strada.

C'era qualcuno insieme a lui nel corridoio, qualcuno che non l'aveva sentito arrivare tanto sembrava distratto dal paesaggio buio oltre la lunga finestra damascata. Era una ragazza quella affacciata al vetro chiuso, stranamente concentrata su qualcosa che Bruce fece fatica ad identificare.

Si avvicinò cautamente di qualche passo, quel tanto che bastava da poterla vedere con chiarezza, ma senza farle notare la sua presenza quasi avesse temuto che al solo vederlo sarebbe scappata.

Per la prima volta dopo tanto tempo, l'uomo si sentì davvero in difficoltà. Non solo la ragazza sembrava essersi sottratta come lui alla vita oltre la porta chiusa del corridoio degli arazzi, ma doveva essere probabilmente anche una delle donne più belle che avesse mai visto.

C'era un vago sorriso sulle piene labbra appena più scure, una strana concentrazione negli occhi chiari fissi oltre il vetro antico, una sottile tensione nel corpo esile e sensuale, fasciato nel lungo abito monospalla del tenue colore dell'oro. Una ciocca sottile di capelli ramati ricadeva distrattamente dalla crocchia sulla nuca, tracciando la linea delicata del collo nudo, delle spalle esili, rendendola simile ad una bizzarra apparizione fuori contesto.

Per un lungo istante rimase paralizzato, quasi trattenuto da una forza invisibile, inevitabilmente attratto ed allo stesso tempo incapace di creare un contatto con lei, qualcosa da cui sapeva non ci sarebbe stato ritorno. Eppure, per un una volta, la voce del cuore fu più forte del suo buon senso e senza esitare si avvicinò alla misteriosa ragazza della finestra.

- Si è persa? - chiese all'improvviso qualcuno alle sue spalle, facendola sussultare. Non era di certo un maggiordomo, l'uomo che aveva interrotto la sua interminabile fuga. Sembrava anzi più vecchio di lei di più di qualche anno, stranamente attraente e forzato insieme nel completo elegante. Sorrideva ancora scrutandola con i chiari occhi blu che incorniciavano il volto squadrato, severo, i corti capelli neri scompigliati quel tanto che bastava da far sembrare il movimento del tutto naturale.

- Oh ... no, no. In realtà mi sono già persa un paio di volte, ma ora credo solo di essere scappata per un po'. Non credo di essere tagliata per queste cose. - ricambiò il sorriso senza fatica, lasciandolo avvicinare di qualche passo. Doveva essere alto almeno due metri, pensò sollevando il viso per poter guardare il suo bello e maturo.

- Neppure io, temo. - rise appena lo sconosciuto puntando le mani ai fianchi stretti, dandole uno strano senso di sicurezza. Non era certo come loro, come gli uomini e le donne che ridevano oltre la porta alle loro spalle, non avrebbe potuto nasconderlo.

- Quindi anche lei sta scappando. - chiese delicatamente la ragazza e, con suo enorme disagio, Bruce notò che gli occhi di lei brillavano del più intenso e bizzarro colore dell'oro.

- Si, credo proprio di si. - rispose cercando di mascherare il lieve imbarazzo in cui, per qualche motivo, la ragazza riusciva a tenerlo in scacco. Avrebbe dato qualunque cosa per poter recuperare il proprio savoir fare, la propria padronanza di sé, ma d'altro canto aveva anche l'assoluta certezza che l'avrebbe messa in fuga se solo avesse cercato di strafare.

- Conosce il padrone di casa? - 
La domanda arrivò all'improvviso, una domanda a cui Bruce in realtà non aveva una risposta precisa.

- No. Direi di no. - gracchiò al sorriso di lei, bello come nient'altro al mondo. Ancora una volta aveva preferito mentire, piuttosto che qualcuno lo vedesse per com'era in realtà.

- Neppure io, mi sento un po' a disagio in realtà. Mi sembra quasi di approfittarne. - 
La ragazza sembrò rilassarsi visibilmente, forse ritrovando in lui qualcosa di molto simile a ciò che stava provando e Bruce non se la sentì di rompere l'illusione. Sarebbe bastato che lei restasse, ancora per poco.

- Sembra il classico ricco idiota, non trova? - scherzò indicando gli arazzi, ad alcuni dei quali ricordò che avrebbe volentieri dato fuoco da ragazzo.

- Non sia ingiusto. Ho sentito cose molto positive su di lui e poi, è una bella festa. - lo rimproverò senza convinzione, bella come una mattina di sole. Avrebbe voluto dirglielo, dirle quanto fosse piacevole dopo tanto tempo provare un simile interesse per qualcuno.

- Peccato che lei non sembri godersela. - insinuò in risposta senza poter distogliere lo sguardo dai chiari occhi d'oro, accostandosi a lei ancora di un passo, quel tanto che bastava da poter avvertire con chiarezza il lieve profumo di fiori intorno a lei.

- Oh non faccia caso a me! Non metto un vestito così elegante da anni ormai, da quando mi sono iscritta alla facoltà di medicina, credo. -

- E' un medico? - 
Gli occhi azzurri di lui sembrarono illuminarsi di un guizzo di quello che la ragazza avrebbe solo potuto definire orgoglio. Era difficile ignorare quanto fosse bello, quanto quel leggero sorriso sulle labbra sottili avesse inevitabilmente cambiato il corso della sua serata.

- Si. Lavoravo al Boston Memorial fino a qualche settimana fa, poi mi hanno offerto un posto qui. È un ottimo ospedale, impossibile rifiutare. - si schermì lei senza nessun apparente motivo, distogliendo per un istante lo sguardo dal suo di un azzurro terso, sincero.

- L'ammiro molto. Anche mio padre era un medico, aveva il suo stesso sguardo ora che mi ci fa pensare ... - 
Era così vicino ora che le parole quasi sussurrate avrebbero potuto benissimo perdersi nel vuoto del lungo corridoio. Per un lungo istante gli occhi della ragazza incontrarono ancora quelli dell'uomo gentile e piazzato accanto a lei, in una strana, delicata armonia. C'era qualcosa in lui, qualcosa di familiare e remoto al tempo stesso, un dolore profondo, antico simile a quello che la ragazza nascosta nello specchio le rimandava ogni mattina.

Lo ascoltò respirare per un attimo che parve infinito finché la porta di legno scuro non si aprì riversando di nuovo il brusio del grande salone nel silenzio incorniciato dagli arazzi intorno a loro.

- April? - 
La voce morì in fretta fra le lunghe pareti, mentre il busto noto del dottor Heagen faceva capolino oltre la soglia.

- Credo stiano cercando me. Mi scusi. È stato bello conoscere un altro fuggitivo, purtroppo per me la fuga è finita. Davvero mi ha fatto molto piacere. - si congedò sperando di vedere, anche solo per un istante, lo stesso dispiacere anche nei chiari occhi azzurri di lui.

- Anche a me, dottoressa. Anche a me. - 
A cosa sarebbe servito afferrarle la mano, anche solo per sentirne il lieve tepore, anche solo per un attimo? Sorrise guardandola sparire oltre la porta che si era aperta e già richiusa sul loro incontro. Era bella, era forse quella giusta, ma Bruce non l'avrebbe mai saputo. Qualsiasi cosa avesse mai potuto sperare, in un battito di ciglia era già andato perduto. La ragazza non si voltò mai indietro a guardarlo.


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Capitolo 4
*** ~3~ Nice to meet you, Mr Wayne ***


~3~ Nice to meet you, Mr Wayne

L'atmosfera nell'immenso salone non era cambiata durante la sua fuga, gli stessi uomini e le stesse donne stavano ancora discorrendo, ridendo, bevendo costoso champagne al tepore dei preziosi caminetti blasonati, a spese di quel misterioso Bruce Wayne che aveva evitato di accoglierli per quasi una notte intera. April cominciò a sentirsi usata mentre uno dopo l'altro magnati dell'imprenditoria di Gotham le venivano garbatamente introdotti, tutti uomini, pochissimi con moglie al seguito.

C'era uno strano equilibrio di potere in quella sala, un equilibrio in cui la ragazza si sentiva più che mai fuori posto, quasi fosse nient'altro che un bel soprammobile, sorrideva e chiacchierava con loro, per loro, eppure la rabbia stava montando silenziosa oltre quel velo di scoperta ingenuità. Avrebbe più che mai preferito tornare a perdersi fra le sale curate della tenuta, al lungo corridoio degli arazzi, all'incontro con il suo nuovo, bizzarro amico piuttosto che sottostare a quella squallida esibizione di potere.

Non seppe quanto tempo fosse passato quando, all'improvviso, il più anziano dei suoi accompagnatori si fermò teatralmente a parlare con qualcuno che April dalla sua posizione non poteva vedere.

- Oh, signor Wayne. Non credo lei conosca ancora il nostro nuovo acquisto. Lasci che vi presenti. - esordì attirando la sua attenzione, allora il tanto azzimato signor Wayne esisteva davvero e davvero sia aggirava indisturbato fra i suoi ospiti portando, a quanto pareva, scompiglio e riverenza.

- April, il signor Bruce Wayne, il nostro ospite. Signor Wayne, la dottoressa April Holloway. - si rivolse questa volta a lei, invitandola gentilmente a voltarsi.

- E' un piacere, dottoressa. - che la voce dell'uomo non fosse affatto sconosciuta arrivò alla sua coscienza con qualche secondo di ritardo. Si accorse dello scherzo in cui era caduta inevitabilmente vittima solo nell'istante in cui gli occhi blu profondo del signor Wayne si posarono ancora una volta sui suoi, confusi e quasi stranamente amareggiati.

- Lei? - si accigliò, sorpresa dal sorriso sul volto bello e maturo dell'uomo che fino a poco prima, così vicino da poterne ascoltare il lieve respiro, aveva giurato di non conoscere il padrone di casa.

- Vi conoscete? - interruppe il loro scambio di sguardi l'anfitrione che per la seconda volta li aveva posti l'uno di fronte all'altra. April non se la sentì di guardarlo ancora, si sentiva tradita da quel suo comportamento infantile ed arrabbiata con se stessa per aver riposto la propria fiducia, anche se solo per un istante, in un affascinante quanto bugiardo sconosciuto.

- Temo di si. Il signor Wayne si è preso gioco di me poco fa. - sorrise appena per dissimulare la tensione, che il signor Wayne dovette comunque percepire dato che tornò a cercare i suoi occhi, sopra la mano tesa che le stava offrendo. Sembrò sincero mentre le dita di lei scivolavano diffidenti fra le sue, grandi e calde, in un'armonia che April aveva già conosciuto nel momento in cui si erano incontrati di fronte alla lunga finestra del corridoio.

- Non era mia intenzione, davvero. Mi è sembrato curioso che una ragazza come lei se ne stesse tutta sola in disparte e poi cercavo davvero un po' di pace. - ricambiò il sorriso con quella voce raspante e profonda che difficilmente qualcuno avrebbe potuto dimenticare.

Bruce avrebbe decisamente preferito non incontrarla una seconda volta, non per svelare quella sua infantile bugia, non per vedere quello sguardo nei chiari occhi d'oro. Non si fidava di lui, forse non l'avrebbe mai fatto ora che aveva capito. Eppure mentire sarebbe stato inutile. Per una volta, ed una soltanto, avrebbe voluto essere Bruce Wayne e nient'altro, avrebbe voluto che dell'uomo che c'era in lui fosse rimasto molto di più che un insano groviglio di rabbia e senso del dovere. Le avrebbe voluto mostrare la parte migliore di sé, se solo avesse saputo quale fosse.

- Ora capisco perché hanno mandato proprio lei a caccia di finanziatori. - sorrise invece lasciando andare la mano piccola e tiepida della ragazza, sicuro che non volesse prolungare quel contatto con lui. Era bella persino ora che le preziose iridi del delicato colore dell'oro si sottraevano insistentemente alle sue.

- Non credo di essere stata granché produttiva finora. - si schermì con un sorriso distratto che pure avrebbe fatto impallidire le stelle, le dita sottili che correvano a sistemare nervosamente una ciocca di capelli ramati dietro l'orecchio.

- Lei si sbaglia di grosso, dottoressa. Si da il caso che ne abbia appena trovato uno. - la contraddisse godendo per un istante dell'espressione più ammirata che stupita sulle labbra scure e piene.

- Ha intenzione di stanziare quella cifra da solo? -

- Certo. Mio padre ha lavorato in quell'ospedale prima di lei, è mio dovere. - continuò più dolcemente e questa volta la ragazza tornò a guardarlo, nei chiari occhi d'oro la diffidenza che prima gli avevano riservato sembrava essersi dissolta come neve al sole e Bruce non poté nascondere a se stesso quanto ancora di sé avrebbe voluto dirle. Quanto avrebbe voluto farle davvero cambiare opinione.

Non distolse lo sguardo da quello della ragazza per un lungo istante, in un leggero silenzio che venne rispettosamente interrotto dalla presenza di Alfred al suo fianco. Gli sussurrò all'orecchio parole che non avrebbe mai potuto ignorare, qualcosa si era mosso a Gotham, qualcosa che se trascurato avrebbe potuto colpire chiunque, persino la giovane dottoressa dai grandi occhi di lupo.

Di nuovo Bruce Wayne cedette senza remore il passo all'uomo dietro la maschera, augurandosi che almeno lui riuscisse a dimenticarla, a fare finta ancora una volta che quelle due vite fossero anche condotte da due uomini diversi, diametralmente opposti.

- Ora vogliate scusarmi, credo che un paio di faccende richiedano la mia presenza. - sorrise per togliersi d'imbarazzo, recitando una parte che aveva meticolosamente imparato nel corso degli anni, una parte che stranamente di fronte a lei non riusciva ad eseguire al meglio.

- Signori. Dottoressa, è stato di nuovo un vero piacere. Spero di rivederla presto. - di nuovo le dita della ragazza si strinsero gentilmente alle sue, l'avrebbe lasciata andare non appena varcata la soglia umida della caverna, l'avrebbe lasciata indietro con qualcuno che non era più Bruce Wayne. Un uomo codardo per una vita di mediocri apparenze, l'avrebbe disprezzato se solo avesse saputo. Questa era la sua unica certezza.

- Anche per me. Arrivederci, signor Wayne. -

April lo guardò sparire fra la folla, oltre il corridoio in cui poche ore prima si erano conosciuti. Guardò le spalle ampie nel vestito costoso e non poté che chiedersi che cosa ci fosse di sbagliato, di così dissonante in lui. Era forse l'uomo più bello che avesse mai conosciuto, eppure nei chiari occhi azzurri si nascondeva la sua stessa infelicità, lo stesso senso di profonda solitudine con cui la ragazza non aveva potuto che confrontarsi per tanto tempo. Forse aveva provato qualcosa per lui quella sera, qualcosa che l'aveva lasciata con uno spiacevole batticuore ed un vago senso di nostalgia.

- Sembra che tu abbia fatto colpo. - interruppe i suoi pensieri il dottor Heagen, sporgendosi verso di lei con un fare confidenziale che la fece rabbrividire. Eppure April non poteva che dirsi confusa, a patto che il signor Wayne avesse provato interesse per lei, perché mentirle? Uno scherzo innocente, forse, ma April non era una stupida. C'era qualcosa in lui, qualcosa che, di sicuro, se glielo avesse permesso, l'avrebbe ferita.

- Può darsi, comunque quell'uomo ha qualcosa di strano. Sembrava odiare sinceramente tutto questo. Quale sarebbe allora il senso di dare una festa come questa, odiando una festa come questa? -


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Capitolo 5
*** ~4~ What's on the inside ***


~4~ What's on the inside


Nonostante dopo la morte di Joker il sottobosco criminale di Gotham fosse caduto in una strana quiete, forse semplicemente in attesa che la piramide del potere si riorganizzasse, Bruce non riusciva a rassegnarsi a quella stasi più che mai sospetta. Il suo istinto gridava al lupo, un istinto che raramente lo aveva portato ad un vicolo cieco. Per questo continuava a pattugliare le strade, notte dopo notte, ossessivamente avrebbe osservato qualcuno ed a volte persino invano. Eppure sapeva quanto importante fosse mantenere un livello costante di terrore persino nei pesci più piccoli della malavita annidata nei peggiori bassifondi, per assicurarsi che nessuno credesse Gotham terreno fertile per nuovi, sordidi affari.

Come i precedenti, i due giorni che seguirono il party Bruce li trascorse nella caverna, senza alcun contatto col mondo esterno che non fosse Alfred, Tim o con indosso l'armatura. Vagliare il computer in cerca di indizi, correlazioni e piste fredde in qualche modo lo tranquillizzava, riusciva a restituirgli quell'illusione di controllo sugli eventi che sempre più spesso negli ultimi tempi era sembrata sfuggirgli.

Eppure più volte si sorprese a mettere da parte il proprio lavoro per concentrarsi sul pensiero di lei e più di una volta fu quasi sul punto di cedere alla tentazione di cercare informazioni sulla ragazza. Con quello che era in ballo al momento nella sua vita, non si sarebbe concesso tanto facilmente una simile sciocchezza come lasciare che un capriccio prendesse il sopravvento sui propri doveri, quindi, ogni qual volta la curiosità si faceva strada fra i suoi pensieri, metteva a tacere la coscienza con la stessa disciplina con cui avrebbe affrontato un caso aperto.

Quella continua indecisione era diventata una lenta tortura, una volontaria agonia che riuscì a spezzare solo il terzo giorno, dopo una meticolosa analisi del loro primo incontro. La pace scese sui suoi pensieri solamente quando si convinse che sarebbe stato necessario sapere qualcosa di più su di lei, prima di cercarla per definire i termini del finanziamento all'ospedale.

Così, dal suo contratto d'impiego e dal curriculum con cui era stata assunta al Gotham Mercy, Bruce risalì come aveva fatto infinite altre volte fino alla cartella medica ed al certificato di nascita, ricostruendo l'intera vita della ragazza fino al suo trasferimento a Gotham. Una volta di fronte a tutte quelle informazioni, mentre le pagine si aprivano una ad una sullo schermo azzurrino, quasi si pentì di averle cercate. Con che diritto stava curiosando nella sua vita come avrebbe fatto per un ricercato qualunque?

- Padron Bruce? - la voce distante di Alfred interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri e, di nuovo, Bruce si accorse di aver saltato la cena per lavorare al computer della caverna.

- Sono qui, Alfred. - chiosò di rimando, lasciandosi andare allo schienale perfettamente sagomato della sedia che si piegò abbastanza da regalargli la visuale del maggiordomo brizzolato in elegante abito scuro nonostante l'ora tarda, abitudine che non aveva perso nei lunghi anni in cui gli era rimasto accanto.

L'uomo arrivò a passi lenti risalendo con calma gli scalini in ferro che separavano le enormi pedane su cui si snodava l'intera caverna e, per un lungo istante, Bruce non poté che sentirsi in colpa, costringendolo ogni giorno a quel continuo andare e venire.

- Le ho portato la cena, che ovviamente non consumerebbe mai calda. - puntualizzò con la solita pungente ironia, posando come d'abitudine il vassoio d'argento accanto a lui sulla plancia d'acciaio temperato. Sapeva che non l'avrebbe toccata, ancora per qualche ora almeno, eppure non sembrò infastidito. Era una giostra quotidiana a cui entrambi, dopo anni di confidenza e di reciproca accettazione, avevano finito per abituarsi.

- Ah, quella non è forse la ragazza alla cui compagnia l'ho strappata qualche sera fa? - osservò invece guardando di sottecchi lo schermo azzurrino oltre la sua spalla. Nella voce misurata dal pacato accento inglese, una lieve inflessione di condiscendenza che Bruce conosceva fin troppo bene, ma a cui non prestò volutamente attenzione.

- Si, è lei. -

- Vedo che è riuscito a reperire una certa quantità d'informazioni. Il perché, se posso chiedere? Ha motivo di sospettare della dottoressa? - continuò imperterrito senza scomporsi, Bruce sapeva che questa volta non l'avrebbe scampata, c'era un motivo per cui aveva voluto frugare nel passato della ragazza ed Alfred era abbastanza intelligente da non poterlo ignorare.

- Non è questo. Si è appena trasferita e volevo saperne di più a riguardo. Nessuno viene volontariamente a Gotham, se non sta scappando da qualcosa. Non è schedata, ma ha comunque un suo fascicolo alla polizia di Boston. - cedette Bruce, grattandosi distrattamente le guance già ispide, le sopracciglia innaturalmente vicine sulla fronte in un cipiglio che abbandonava ormai sempre più raramente.

- Non sarebbe stato sufficiente chiedere direttamente alla signorina? - insinuò Alfred oltre la sua spalla, ma ormai era troppo tardi, i file erano già stati aperti e l'uomo ne stava leggendo mentalmente il contenuto.

- Ovviamente no. - lo rimbeccò sarcasticamente l'anziano maggiordomo, eppure rimase accanto a lui mentre uno dopo l'altro foto, documenti e riconoscimenti della ragazza apparivano ordinatamente sullo schermo al semplice tocco della tastiera olografica.

- È davvero molto bella. Ed intelligente anche. Ha frequentato scuole poliglotte fin da bambina, oltre l'inglese parla fluentemente arabo, spagnolo e francese. Laureata a pieni voti al Massachusetts Medical College, ha seguito per due anni un internato in cardiologia al Boston Memorial prima di trasferirsi. - sembrò leggergli nel pensiero, mentre il sorriso distratto, che Bruce aveva già visto sulle sue labbra durante il loro primo incontro, occupava ora silenziosamente lo schermo illuminato attraverso la foto del profilo accademico. C'era molto su di lei nei file della polizia di Boston, nonostante fosse incensurata e Bruce non tardò ad afferrarne il motivo aprendo la cartella diagnostica allegata.

- La sua cartella clinica, signore? - azzardò Alfred con una nota di malcelato stupore nella voce, quasi avesse valicato una sorta di confine all'umana decenza, mentre Bruce scorreva fra fogli ed esami con la stessa meticolosa attenzione che riservava a chiunque fosse stato passato al vaglio su quello stesso computer.

- Nulla di rilevante, tranne un breve periodo in cui risulta in cura da una certa dottoressa Ross. A quanto pare a tredici è stata in terapia per qualche mese dopo ... la morte in servizio di suo padre, agente anziano alla BCPD. Ecco il perché del fascicolo. - lesse ad alta voce, il cuore che affondava di un poco nel petto, e più che mai sentì il peso della propria intrusione. La giovane dottoressa non aveva un passato felice, non c'era da stupirsi se aveva preferito lasciarsi una vita alle spalle per ricominciare altrove.

- April Holloway, 29 anni, figlia dell'agente Trent Holloway e della biologa Yael Dahan. Quando aveva cinque anni, sua madre morì di una leucemia causata da una rara mutazione genetica tipica del medio oriente. Suo padre è stato dichiarato cerebralmente morto in seguito ad uno scontro a fuoco nei bassifondi di Boston. La custodia fu affidata alla nonna paterna, ancora in vita, con cui ha vissuto fino all'ammissione al college. - continuò a leggere una volta aperto il fascicolo riservato nella banca dati della polizia, sporgendosi appena verso lo schermo che rimandava ora l'immagine smarrita di una bambina in sobria divisa scolastica grigia. Vide qualcosa di dolorosamente familiare nei suoi occhi, una rassegnazione che conosceva fin troppo bene, e fu quasi sul punto di spegnere tutto e scappare il più lontano possibile, impedirle di costringerlo a guardarsi dentro. Invece, stringendo le mani ruvide sotto il mento ed i gomiti puntati alla plancia d'acciaio fino a fargli male, cadde in un silenzio assorto da cui non voleva emergere, non per ora.

Da quanto risultava nel dossier della polizia di Boston, era stata la telefonata della bambina al distretto per avere notizie su suo padre ad allertarli. Le foto della scena parlavano chiaro, non era avvenuta una sparatoria in quel vicolo, ma un'esecuzione. L'uomo aveva chiaramente tentato di interrompere da solo qualcosa di molto pericoloso. Il caso risultava tutt'ora aperto nei server della polizia e Bruce dubitò fermamente che la sua situazione sarebbe cambiata nel breve periodo.

Nonostante un brivido familiare, quanto sgradevole si fosse improvvisamente instillato alla base della sua nuca, la scoperta non aveva fatto altro che acuire quella strana sensazione che aveva provato dal momento in cui si erano conosciuti.

- La ragazza le somiglia più di quanto crede, signore. - sorrise dolcemente Alfred accanto a lui, sapeva cosa volesse dire e per un attimo sembrò aver dato curiosamente voce ai suoi pensieri, ma questo non cambiava affatto le carte in tavola, anzi forse non poteva che rafforzare la sua determinazione.

- E' sola, Alfred. - sussurrò dopo un po', quasi atterrito, il cuore che batteva appena più accelerato nel petto mentre ripensava al sorriso della ragazza, a quanto di lei tenesse nascosto.

- Lei più di chiunque altro sa che cosa si prova, padron Bruce. - azzardò Alfred sibillino, tornando infine sui propri passi, lasciandolo solo ad una riflessione che di certo l'avrebbe costretto a riaprire vecchie ferite.

- Di chi stai parlando ora? Di me o della ragazza? - lo rimbeccò Bruce poco prima che l'uomo potesse sparire oltre le scale che conducevano all'ampia piattaforma principale, costringendolo a voltarsi.

- Questo deve scoprirlo da solo. Ma per farlo, temo che dovrà permetterle di vedere quello che ha dentro. -


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Capitolo 6
*** ~5~ Founders lounge ***


~5~ Founders lounge


April, suo malgrado, non aveva avuto un attimo di pace dal giorno in cui era tornata dal party alla tenuta Wayne.

Samantha e Nadine, nonostante avessero già avuto a che fare con eventi del genere, per amore del pettegolezzo avevano preteso una minuziosa descrizione di tutto ciò a cui la ragazza avesse assistito all'interno della favolosa abitazione di uno degli scapoli più ricchi ed ambiti della città. Non riuscirono tuttavia a strapparle più di un sommario resoconto sul tenore generale della serata e sul suo incontro con Bruce Wayne.

Già per natura non incline a raccontare molto di sé, tantomeno abituata a regalare i propri pensieri più intimi a chicchessia, la ragazza non soddisfò mai la loro curiosità in materia. Convinta, per di più, che ciò che era avvenuto fra lei ed il bizzarro miliardario avrebbe fatto bene a rimanere nel lungo corridoio tappezzato di arazzi, lontano da orecchie indiscrete.

Era accaduto qualcosa fra loro quella notte, d'incerto forse, ma qualcosa che, per quanto oscurato dall'ombra di un'infantile menzogna, a stento aveva voluto lasciare il suo cuore nei giorni che seguirono. Non avrebbe neppure ceduto alla facile tentazione di strappare qualche informazione sul bugiardo padrone di casa Wayne dai giornaletti scandalistici che affollavano le sale d'attesa dell'ospedale, sicura che non avrebbero saputo raccontarle di più di quel momento d'intimità che l'uomo le aveva mostrato lontano dal pubblico.

L'unico modo che conosceva per mettere a tacere la coscienza era concentrarsi sul lavoro, tenendo la mente ben lontana da qualcosa di così fragile che, con tutta probabilità, non aveva avuto per Bruce Wayne lo stesso significato che April gli aveva attribuito nei suoi pensieri.

Così i giorni cominciarono a scorrere via più facilmente. Nelle serate libere continuava a farsi coinvolgere dalle colleghe, uscivano assieme tre o quattro volte a settimana, sperimentando locali e piccoli ristoranti nei quartieri più moderni di Gotham. Aveva instaurato ormai un buon rapporto con loro, tanto da considerarle piuttosto intime amiche, eppure continuava a mentire nelle brevi telefonate scambiate con sua nonna. Per tranquillizzarla le diceva di essere felice, di essersi ambientata nella nuova città ed in un certo senso era vero, eppure una parte di sé, quella che per anni le era rimasta in agguato nel cuore dopo la morte di suo padre, continuava a trascinarla irrimediabilmente in una nota spirale di pensieri. Non aveva importanza quanto si allontanasse da Boston.

Poteva illudersi di condurre una vita piuttosto normale, ma non c'era uscita dalla prigione che si era costruita con il proprio dolore. Il rimorso la teneva incatenata in un passato che odorava di silenzio e di ricordi stagnanti. Un passato che le calzava così stretto da non farla respirare, da cui non poteva liberarsi.

Razionalmente era certa che suo padre non avrebbe voluto questo per lei, avrebbe preferito saperla felice, serena, libera dal peso della sua morte, ma d'altra parte suo padre non aveva più occhi per vedere, né orecchie per sentire ed April rimaneva lì, in quella palude di ricordi da cui non aveva più la forza, né la volontà di scappare.

I giorni divennero settimane, due settimane lunghissime. Finché una mattina, di fronte al caffè annacquato della sala medici, Nadine informò le colleghe che la sera stessa si sarebbe tenuta la chiacchierata riapertura di un piccolo locale a Ryker Heights, affacciato proprio sulla Wayne Tower. Il finanziatore era stato ovviamente lo stesso Bruce Wayne, deciso a mandare un messaggio morale oltre che politico alla criminalità di Gotham tramite l'ambizioso piano di riqualificazione della città partito, qualche tempo prima, proprio dall'infame isola di Arkham.

- Il mio ex ragazzo lavora lì. – ghignò con un candore che la lasciò perplessa, poco prima di mostrare loro degli stropicciati lasciapassare per la serata, altrimenti strettamente riservata ai soli invitati sulla lista della WEnt.

Certo, la prospettiva di un evento che, in qualche modo, coinvolgesse l'uomo che aveva turbato per giorni la sua concentrazione, non era molto allettante, ma April non se la sentì di rovinare il buonumore dell'amica con quelle sue insane elucubrazioni. Per questo accettò l'invito, tenendo fede alla ritrovata motivazione che ormai le impediva sempre più spesso di trascorrere le notti in solitudine nell'appartamento vuoto. Si separarono per il giro visite con un accordo per una cena fuori ed un taxi per Ryker Heights.

Qualche ora più tardi, di fronte alla palazzina più vecchia del quartiere, un freddo inaspettato frustò a tradimento le guance delle tre ragazze appena scese dallo sgraziato tassì giallo. Quasi l'autunno avesse già deciso di battere in ritirata di fronte ai colpi di un precoce inverno.

Nel cielo stranamente terso la Wayne Tower svettava imponente, districandosi con la superbia di un rapace fra le architetture della vecchia Gotham ed i binari sopraelevati della moderna metropolitana. Eppure la brezza gelida che s'insinuava fra le strade semibuie, aggredendo le caviglie dei passanti, non sembrava aver scoraggiato le personalità più in vista della metropoli, accorse alla riapertura dell'anonimo locale all'angolo della strada sventolando un invito esclusivo su carta intestata in oro.

Fino a quel momento insignificante e dimenticato fra i grattacieli in costruzione a Founders Island per gentile concessione dei colossi LexCorp e WEnt, il "Founders Lounge" doveva ora la sua nuova vita a Bruce Wayne. Lo stesso uomo capace di alternare filantropia, scandalosi avvistamenti abbracciato a modelle europee o ballerine del Bol'šoj di Mosca, e giornate intere senza mostrarsi in pubblico, segregato nella solitudine della sua immensa tenuta.

Giornalacci scandalistici e non poco audaci speaker radiofonici non mancavano mai di rimproverargli l'assenza di una donna fissa al suo fianco, il plateale disinteresse per il pettegolezzo e l'ostinata chiusura verso qualunque evento mondano che non fosse organizzato a soli scopi benefici.

Eppure, quella che per tutti i gothamiti sembrava essere più che altro una bizzarria nel comportamento, un motivo di discussione da talk show mattutini, April l'aveva interpretata come semplice riservatezza, una sincera modestia che lasciasse parlare le azioni piuttosto che equivocabili intenzioni.

L'insegna al neon sulla facciata tingeva di un tiepido color oro il marciapiede e l'aria circostante, ma anche una ad una le facce degli avventori che disciplinatamente scendevano dalle macchine di lusso per lasciarsi aprire la doppia porta di metallo intarsiato da un azzimato buttafuori. Arrivò anche il loro turno, mentre nel piacevole tepore dell'interno il freddo della strada si dissipava in un lontano ricordo.

L'ambiente era ampio, moderno, soffusamente illuminato dalle poche luci chiare presenti sui tavolini quadrangolari, distribuiti ad intervalli regolari in due ampie pedane ai lati corti della sala. Un lungo bancone in marmo e legno, sottolineato da un'unica striscia luminosa a led bianco e sormontato da una complessa struttura decorativa in acciaio lucido, dominava invece il lato destro in tutta la sua lunghezza. Diametralmente opposto, fra le due pedane, un modesto spazio semicircolare era occupato da un imponente pianoforte a coda, ancora deserto. L'unico accompagnamento musicale presente al momento era una pulsante melodia di sottofondo al cui ritmo parecchie persone avevano già ceduto, cimentandosi in qualche movimento poco coreografico al centro della sala.

- Vi avevo detto che ne sarebbe valsa la pena. Sarà pure uno stramboide, ma sa il fatto suo quel Wayne. – sorrise Nadine al suo orecchio, sovrastando di poco la musica.

Sedersi ad un tavolo sarebbe stato impensabile, considerando la folla ed il tenore generale di chi aveva già occupato quasi tutte le poltroncine disponibili. Quindi si limitarono a cercare posto al bancone in marmo striato senza scoraggiarsi troppo, mentre Nadine scansionava col piglio di un segugio i giovani baristi per scovare il suo contatto. Fu lui a trovarla per primo.

- Hey, Nadine! –

Dall'altra parte della spianata un ragazzo dal fisico asciutto e slanciato in camicia da smoking, bretelle nere e farfallino bianco, accennò un sorriso sghembo ed una strizzata degli occhi clamorosamente verdi nella loro direzione, mentre le mani scorrevano indaffarate su uno straccio nel tentativo di asciugare un bicchiere.

- Mark ... vedo che sei riuscito finalmente a darti da fare anche tu. – lo punzecchiò lei di rimando, con un'intimità che poco aveva a che fare con l'amicizia. Eppure sorrise.

- Ragazze, questo è Mark. Mark, le mie colleghe: April e Samantha. –

- Cosa vi porto, ragazze? – chiese lui in scioltezza, dopo una fugace stretta di mano. Non era certo il tipo d'uomo che si potrebbe immaginare accanto ad un medico d'ospedale, piuttosto un punk troppo ben vestito per recitare in un serie televisiva anni '90. Eppure April non fece fatica a capire come le braccia tatuate fino alle nocche, la zazzera corta alla moicana ed i piercing sul viso, si fossero fatti strada nel carattere ruvido e schietto dell'amica.

- Tre bicchieri del drink più costoso che hai. – ironizzò Nadine, impedendo alle colleghe di replicare. Non c'era dubbio che stesse flirtando con lui, qualunque fosse il motivo e d'altra parte Mark non ne sembrò affatto turbato. Le resse il gioco invece, attento a non distogliere lo sguardo vagamente compiaciuto dalle iridi grigio azzurre della ex compagna.

- Oh, fidati, non lo volete. Tre Cosmopolitan, siano. –

Si allontanò giusto il tempo da permettere alle ragazze di appollaiarsi sugli eleganti sgabelli foderati di pelle color pece, tornando in tempo record con tre calici da Martini sciabordanti di un impalpabile liquido rosato. Li posò attentamente uno di fronte a ciascuna, con la padronanza di chi probabilmente non aveva fatto altro nella sua vita e aspettò.

- Ecco a voi. –

- Come sta andando? Sembra che l'iniziativa abbia dato i suoi frutti. – esordì Samantha dopo la prima sorsata. Lo chiese guardandosi intorno, probabilmente solo per rompere il ghiaccio dato che il ragazzo non dava segni di voler tornare al proprio lavoro, non in tempi brevi almeno.

- Bene, in effetti. Solo un po' di casini con i musicisti. – rispose in un sospiro, abboccando all'amo. Un impercettibile tremore, all'angolo del suo sopracciglio sinistro, diceva che quel "po' di casini" gli sarebbero costati una terribile emicrania da lì a qualche ora.

- Vi hanno dato buca? – la crudele ironia di Nadine sembrò affondare di un poco il coltello nella piaga. Forse era stato proprio quel suo lato così spigoloso a mettere fine alla relazione fra lei ed il barista dalle nocche tatuate, April avrebbe voluto chiederglielo. Mark non si scompose, stringendosi nelle spalle appuntite sotto la camicia bianca.

- Non proprio. La pianista avrebbe dovuto essere qui fra un'ora. Era in agenda da mesi, è una tipa piuttosto quotata nel giro, ma si è degnata di farci sapere di avere un altro incarico solo dieci minuti fa. Eppure Wayne paga bene ... bé credo sia il prezzo per aver pestato più di qualche piede qui a Gotham. –

- E' davvero così grave? – osservò April che, fino a quel momento, aveva solo preferito osservare divertita il curioso linguaggio del corpo dei due ex amanti. Si chiese che razza di città fosse quella in cui la riqualifica ed il progresso urbano potessero essere osteggiati tanto apertamente da ignoti manipolatori. Quanto ancora in basso potesse spingersi.

- Si, e no. La jazz band arriverà solo intorno a mezzanotte e io ho un'ora di buco non prevista dal programma. Se la gente decide che questo posto è troppo noioso e se ne va a bere da qualche altra parte, la riapertura sarà stata un fallimento. E indovinate le palle di chi sono in gioco? – rispose Mark tutt'altro che divertito, massaggiandosi la fronte come per scacciare un pensiero molesto. Il sorriso sornione di pochi istanti prima aveva lasciato il posto ad un'unica ruga trasversale al centro della fronte alta, regalandogli infine l'aspetto dei trent'anni che si portava sulle spalle.

- E' presto detto. April qui, si dà il caso che abbia lavorato come barista e cantante in un lounge bar. –

La soluzione di Nadine la prese in contropiede come uno sgambetto alla fine di una maratona, innescando un curioso meccanismo di rifiuto nel suo cervello. Non avrebbe mai immaginato che di quelle poche cose che aveva raccontato di sé, una avrebbe finito col ritorcersi contro di lei con la forza d'impatto di un boomerang. Quel livello d'intimità non le si addiceva affatto.

La fulminò con lo sguardo, ignorando l'abbozzato sorriso di scuse sulle labbra scarlatte, ma il ragazzo era già partito in quarta.

- Davvero? E' perfetto. –

- Oh, no, no. Non tirarmi in mezzo, adesso. – irritata, si affrettò a posare il bicchiere mezzo pieno sulla costosissima lastra di marmo e sembrò quasi sul punto di scappare, qualcosa che aveva già fatto in un altro tempo e in un altro luogo. Invece rimase seduta sullo sgabello assurdamente scomodo, mentre il volto di Mark s'illuminava come una lampadina con troppi watt.

- Aspetta, aspetta ... prima di rifiutare sappi che mi salveresti il culo e che i drink li offre la casa. Tutti quelli che prenderete stasera. Si tratta solo di un paio di canzoni per salvare le apparenze, nulla di più. Qualunque siano le tue doti, saranno comunque meglio del niente assoluto. Ti prego. – mercanteggiò sporgendosi oltre il bancone, tanto che April trattenne di riflesso il bicchiere temendo che sarebbe caduto, allagando il ripiano. Soppesò l'offerta per un istante interminabile, un tempo infinitamente lungo per trattenere il respiro in quella posizione innaturale, eppure il ragazzo non mosse un muscolo.

- E va bene. – cedette infine, regalandogli il sollievo di un sospiro. Non era affatto convinta di aver preso la giusta decisione, ma a conti fatti si rese conto di non aver avuto poi molta scelta. Odiava sentirsi alle strette, eppure, mandare tutti al diavolo e lasciare il locale senza una spiegazione, di certo non avrebbe giovato alla propria vita sociale. Doveva cambiare, doveva farlo per il rispetto che ancora nutriva per se stessa.

- Grazie ... ti faccio un fischio appena il palco è pronto. – ghignò Mark a denti stretti, lasciando intravedere il piercing nero sopra gli incisivi e con un'ultima strizzata d'occhio s'infilò fra gli altri baristi che si affaccendavano dietro al banco.

La sua cognizione del tempo finì per annegare in quella insistente musica di sottofondo, nella penombra del locale, nelle chiacchiere serrate scambiate con le colleghe. Non avrebbe saputo dire che ore fossero quando Samantha, accanto a lei, le strattonò appena il braccio, costringendola a voltarsi.

- Eccolo là. Bruce Wayne. Non pensavo sarebbe venuto davvero. Dicono che passi la metà delle sue giornate a riprendersi da sbornie colossali, e che ogni notte ci sia una donna diversa nel suo letto. – cercò di sussurrare sporgendosi verso di lei, mentre accennava all'uomo appena entrato nel locale, alto e piazzato nel sobrio completo blu scuro. Gli occhi la tradivano, mentre lo osservava torturarsi i polsini della giacca in un gesto nervoso. Nonostante Sam fosse fidanzata da anni con un ingegnere edile del comune, Wayne le piaceva e non solo perché aveva personalmente finanziato la ricostruzione dell'impresa di suo padre a seguito di un incendio doloso.

April non aveva bisogno di ricordarsi di lui. Anche in quella artificiale penombra avrebbe riconosciuto gli occhi blu, che ora scrutavano la sala tradendo un sorriso tirato. Ricordava perfettamente anche il loro primo incontro, avvenuto solo poche settimane prima sotto lo sguardo arcigno degli inestimabili arazzi di casa Wayne.

Si era preso gioco di lei, volontariamente, era vero eppure non riusciva ad immaginarlo come lo ritraevano molti dei rotocalchi da due soldi che giravano a Gotham. Il modo in cui le si era accostato, quello sguardo gentile, il sorriso bello e sincero sulle labbra sottili avevano lasciato una certa impronta nel suo cuore. Sarebbe stato stupido negarlo, ma non avrebbe mai trovato il coraggio di parlargli quella sera, assediato com'era.

A che scopo poi? Appartenevano a due mondi talmente lontani da farle girare la testa al solo pensiero. April aveva scelto di sacrificare ogni cosa per essere dove si trovava, aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita ad allontanare qualsiasi occasione di vivere una normale relazione amorosa ed in quella solitudine si era costruita una nicchia tranquilla.

Lui era un uomo impegnato, affermato, ridicolmente ricco, un filantropo con una strana attitudine all'isolamento. Non era mai apparso ad eventi pubblici con una fidanzata e, quelle poche volte in cui era stato accompagnato, non si era mai trattato della stessa donna per più di due volte di seguito. Quasi s'impegnasse ad apparire mortalmente superficiale e, con tutta probabilità, era un uomo infelice. Qualsiasi cosa avesse provato quella notte, nel lungo corridoio tappezzato d'arazzi, non poteva avere futuro.

Per questo forse distolse velocemente lo sguardo, avrebbe evitato d'innamorarsi dell'uomo sbagliato, di farsi consapevolmente del male. 



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Capitolo 7
*** ~6~ Voice and strings ***


~6~ Voice and strings


Bruce non riusciva a concentrarsi su nulla di quanto gli fosse passato davanti agli occhi da quando aveva lasciato la macchina. L'aria era pesante all'interno del locale. Magari era solo un'impressione suggerita dalla forzata penombra in cui versava l'ambiente, eppure lo rendeva vagamente nervoso quasi quel velo d'oscurità si fosse attaccato alla bocca del suo stomaco.

Si aggiustò il colletto della camicia, faceva fatica a respirare e la clavicola destra pulsava ancora terribilmente, persino sotto la lieve pressione della giacca di costosa sartoria. Mentre muoveva i primi passi nella calca, di nuovo si chiese se qualcuno avrebbe notato la difficoltà con cui stava sorridendo da quando il gorilla all'ingresso gli aveva aperto la porta.

Odiava quando le persone gli si affollavano intorno a quel modo, soprattutto se aveva un tarlo conficcato nel cervello a rosicchiare le sue buone intenzioni. Era un comportamento da bambino viziato, Alfred aveva ragione, alla sua età avrebbe dovuto acquisire sufficiente controllo da fingere interesse e gentilezza in qualunque situazione. Invece si sentiva stiracchiato come carta da parati troppo consumata, mentre gli invitati di una lista che non aveva redatto si affannavano in saluti e complimenti.

Sapeva anche che Vicky Vale era in agguato da qualche parte, in attesa di coglierlo in fallo e strappargli qualche parola di bocca con la ferocia ostinata di un felino selvatico. Se solo fosse stato più crudele le avrebbe confessato che aveva perfettamente capito l'intento dietro i loro recenti trascorsi a cena.

Prima di potersene accorgere stava scansionando nervosamente la sala in cerca di una via di fuga, una scusa qualunque per tornare indietro. Un brutto vizio che aveva acquisito nel corso degli anni. Senza contare che, di recente, la sua tolleranza nei confronti delle chiacchiere e delle tentate interviste scandalistiche aveva raggiunto un minimo storico.

Erano settimane che si trovava in quello stato d'insofferenza, il peggio era che ne conosceva perfettamente i motivi. Non era più solo la sgradevole sensazione che qualcosa stesse sfuggendo al suo controllo, qualcosa a cui aveva dovuto dedicarsi con la pazienza di un entomologo per non impazzire. Il suo pensiero era inchiodato ai Panessa Studios, certo, ma non del tutto.

L'incontro con la giovane dottoressa l'aveva ossessionato per giorni dopo l'evento alla tenuta. Oscillava continuamente fra il maledirsi per non averle chiesto un numero di telefono, e la spietata consapevolezza di aver fatto la scelta più giusta e quest'altalena di realizzazioni non aveva fatto altro che peggiorare drasticamente il suo umore.

Ripercorrere, con la stessa cura che impegnava nel lavoro, il dialogo avvenuto con la ragazza aveva esponenzialmente acuito il suo desiderio di solitudine. Si stava torturando pur avendo già preso la decisione di non cercarla, eppure il ricordo dei morbidi capelli scuri, di quell'unica ciocca a disegnare la curva sottile del collo, la pelle bronzea fasciata dal semplice abito lungo, i grandi occhi di quello strano colore dell'ambra avevano deciso d'instillarsi fastidiosamente in un punto imprecisato fra le sue costole.

Se solo ne avesse parlato ancora ad Alfred, era certo che l'avrebbe tormentato finché Bruce non avesse ceduto, ma lei era così giovane e Bruce sentiva il peso della responsabilità schiacciarlo senza via di fuga. Eppure, almeno nel suo intimo, mentire non sarebbe servito a niente, avrebbe davvero voluto vederla, ancora una volta.

L'unico modo che aveva avuto per sfogarsi erano le pattuglie notturne, agire occupava quasi totalmente i suoi pensieri evitandogli di soffermarsi su quell'unico insistente ricordo. Aveva preso più che mai l'abitudine di consumare tutti i pasti nella caverna senza un'apparente motivo, uscendo allo scoperto solo un paio di volte a settimana. Alfred non faceva che rimproverarlo, quasi fosse tornato ragazzino, e solo dopo un'insistenza infinita ed una meticolosa opera di convincimento lo aveva persuaso a presentarsi quella sera all'inaugurazione.

Scrutava ancora la sala in cerca di quell'appiglio nel tentativo di evitare un incontro diretto con la giornalista, che si avvicinava pericolosamente rapida alla sua postazione; e gli sembrò un crudele scherzo del destino quando gli occhi azzurri si posarono sui familiari capelli mogano dall'indescrivibile sfumatura ramata.

Non poteva vedere molto di lei da quella posizione, riconobbe la linea gentile del collo, la schiena inarcata per mantenersi dritta anche sullo scomodo sgabello, i capelli mossi disordinatamente scostati su una spalla ed il profilo dal naso piccolo e dritto. Non lo stava guardando, eppure sorrideva, un sorriso che a lui non aveva mostrato la prima volta e, per un istante, Bruce ne fu sollevato. Sembrava felice.


- April. Hai detto di averci parlato, vero? - s'interruppe bruscamente Samantha, lasciando finalmente morire il dettagliato racconto su tradimenti e vita amorosa di qualcuno che conoscevano a malapena.

Era leggermente sbiancata ed il bicchiere, dal fragilissimo stelo di vetro, aveva appena impattato con il marmo del bancone in un sonoro cling. Gli occhi nocciola calamitati in un punto imprecisato in mezzo alla calca.

- Con chi? - la rimbeccò April distrattamente, quasi infastidita da quell'improvviso cambio di toni.

- Wayne. Hai detto di conoscerlo. -

- Si, si è vero. Vi ho già raccontato di lui. Perché? - confermò in un sorriso tirato per confondere le acque, non voleva parlare di Bruce Wayne, non di nuovo. Parlarne avrebbe significato ammettere che aveva un debole per lui e, in tutta franchezza, la sola idea la metteva profondamente a disagio.

Per questo aveva finto un distacco che non sentiva nei confronti dell'uomo che sapeva trovarsi da qualche parte in quella stessa sala. Troppo spaventata dall'idea che le amiche potessero, in qualche modo, incoraggiarla ad interagire con lui.

- Perché sta venendo qui. - s'intromise Nadine, con un sorriso che tradiva una comprensione che per un attimo le diede la nausea. April non riuscì a raccogliere in tempo le idee per rispondere che qualcuno interruppe il discorso, facendola sussultare visibilmente.

- Dottoressa Holloway? -

Era difficile da dimenticare quella voce profonda e raspante che, solo qualche settimana prima, le aveva parlato con inaspettata intimità. Per un lungo istante l'idea che si fosse liberato del suo entourage solo per parlarle riuscì a terrorizzarla, eppure sorrideva quando si voltò a fronteggiarlo. Se solo fosse stata sola si sarebbe rimproverata per la piacevole stretta al cuore che aveva provato nel ritrovare i begli occhi azzurri nei propri.


- Signor Wayne. -

Sorrise ed era bella come la ricordava. Eppure il lieve sussulto l'aveva tradita, si vedeva che non era la calca a renderla nervosa e Bruce ne fu stranamente compiaciuto. Per una volta non si pentì di aver fatto una scelta azzardata.

- Si ricorda di me, allora. - la provocò gentilmente, avvicinandosi ancora. Stava facendo lo smargiasso, ma le dita torturavano i polsini della camicia sotto la giacca. Se fosse stata intelligente almeno la metà di quello che credeva, avrebbe smascherato la sua tensione in un secondo.

- Questo dovrei dirlo io. - scherzò lei di rimando, facendogli provare lo strano impulso di dirle che erano settimane che pensava a quel loro primo incontro.

Erano anni che non provava un interesse così sincero per qualcuno. Per quanto preferisse negarlo, una parte del suo cervello si rendeva perfettamente conto di volere che quegli occhi lo guardassero, senza vedere nient'altro.

- Non dimentico facilmente la faccia di chi riesce a farmi strappare un assegno così generoso. -

Nonostante quel suo pessimo sfoggio di savoir-faire, fu lieto di vederla ridere con lui. Togliendolo d'imbarazzo, la dottoressa si affrettò ad indicare con una stretta di spalle le due ragazze in sua compagnia.

- Signor Wayne, queste sono le mie college Nadine Johnson e Samantha Keller. -

- Dottoresse, è un piacere. Ho la netta sensazione che potremmo essere già stati presentati. - osservò distrattamente dopo una fugace stretta di mano. Aveva una precisa idea di chi fossero, le aveva viste più di una volta accompagnare ad uno dei suoi eventi il consiglio d'amministrazione del Gotham Mercy. Ma non avrebbe mai tradito l'aria da perfetto svampito che gli regalava quel suo modo superficiale di salutare le persone.

- I suoi party per il consiglio d'amministrazione. Sono mandatori per le nuove reclute di sesso femminile, un usanza in linea diretta dal pleistocene. - replicò, con una schiettezza disarmante, la ragazza dai lisci capelli biondo cenere, le labbra scarlatte tirate sui denti bianchissimi. Gli strappò un sorriso.

- Ma certo. Ho sempre avuto il sospetto che non fossero adesioni volontarie. -

- Sono felice che siate venute stasera e che lei si sia ambientata così bene a Gotham. - continuò dopo un attimo di esitazione e i loro sguardi si annodarono di nuovo, oltre le parole di circostanza.

- Oh, certo. È un bel locale. -

Trasse un sospiro, come se la tensione dentro di lei si fosse finalmente allentata. Era bella, interessante, anche nel sobrio abitino nero, anche con quella strana illuminazione ad appiattirne tutti i colori e, per una volta, Bruce si concesse un'impensabile sciocchezza, dato che i giornalisti presenti avrebbero potuto mangiarseli vivi con l'edizione del mattino.

- Senta, mi stavo chiedendo, le andrebbe di bere qualcosa? Ho un tavolo riservato che, al momento, non mi andrebbe di dividere con un giornalista. Potrebbe raccontarmi della donazione, magari. - azzardò e le parole uscirono più impacciate di quanto avesse preventivato, mentre si concedeva uno sguardo evasivo alle spalle per controllare che il tavolino non fosse già stato assediato. L'invito sembrò coglierla in fallo e per un attimo parve quasi sul punto di rifiutare.

- Non mi fraintenda ... mi farebbe davvero piacere, ma ecco ... - si schermì April con un sorriso tirato, accennando appena alle colleghe, fin troppo divertite dalla goffaggine di quel loro contorto approcciarsi. Stava cercando aiuto, anche un idiota l'avrebbe capito.

- Certo, lo capisco. Non volevo metterla in difficoltà. -

Finse un certo distacco, eppure dentro di lui l'orgoglio mordeva come un cane messo all'angolo. Magari si era solo illuso e la ragazza non voleva saperne di un ricco bizzarro ed asociale come Bruce Wayne. Si domandò come avrebbe reagito sapendo che quello non era il completo che utilizzava più spesso.

- Quello che April voleva dire è che accetta volentieri. Possiamo cavarcela per qualche ora senza di te, tranquilla. - s'intromise la bella ragazza dal viso rotondo sotto la cascata di riccioli scuri, scambiando con la giovane dottoressa uno sguardo fugace quanto eloquente.

- In tal caso le farò compagnia volentieri. -

Le ore seguenti Bruce le trascorse in una sorta di curioso rapimento. Non ci avrebbe scommesso, ma nonostante la leggera tensione che ne tradiva i gesti, la dottoressa si lasciò accompagnare al tavolo, offrire da bere ed in compenso gli mostrò il suo mondo. Parlarono con un'intesa che l'uomo, con pochissime eccezioni, di recente non aveva mai sentito nei confronti di una donna.

Era una donna gentile, intelligente, dotata di una visione piuttosto precisa del mondo, senza che questo le impedisse di aprirsi a nuove opinioni. Nutriva una passione invidiabile per il suo lavoro, glielo leggeva negli occhi che brillavano di un orgoglio in cui non c'era malizia, mentre raccontava dei motivi che l'avevano spinta a trasferirsi a Gotham. Non aveva avuto paura di mettersi in gioco, di scommettere su un ruolo che non le competeva appieno. Sembrava non aver paura di nulla in realtà e Bruce ne fu piacevolmente colpito. Era stata infelice, traspariva dalle emozioni che guizzavano quasi impercettibili sul suo viso, aveva sperimentato la solitudine e Bruce più di chiunque altro avrebbe potuto capirlo.

Anche lui finì inevitabilmente col parlarle di molte cose, le parlò di sé, di quello che voleva, di quello che avrebbe desiderato per la sua città. Senza andare troppo a fondo, ignorando le cose più importanti come se non fossero mai esistite, ma sentiva che per ora sarebbe bastato.

Sembrava sinceramente interessata ed ammirata, non stava tentando di comprare né vendere nulla, gli parlò invece con una franchezza disarmante e piacevole allo stesso tempo. Sorrideva quasi non avesse mai fatto altro in sua presenza, quasi lo conoscesse da sempre, quasi avesse sempre nutrito per lui una stima profonda e sincera.

Lo fece ridere, riflettere, chiese più volte la sua opinione e così Bruce desiderò ascoltarla, capirla. Ed i bicchieri rimasero inevitabilmente pieni su quel loro secondo incontro.


Bruce Wayne, a dispetto di quanto dicessero i rotocalchi, era un uomo gentile ed umano. Non c'era nulla di quella sua difesa, di quella ostinata chiusura di cui tutti parlavano in ciò che le disse quella sera. Aveva un profondo senso della giustizia ed una visione del mondo molto netta, magari non sempre praticabile, ma certamente più onesta di quella di chiunque stesse amministrando Gotham al momento.

Era estremamente colto ed intelligente, era chiaro che qualcuno avesse investito enormi somme di denaro per regalargli un'istruzione tanto accurata, eppure sentiva che c'era qualcosa di più. Parlava di Gotham con la dedizione e le aspettative di un padre, quasi fosse stata da sempre una sua responsabilità.

Si rivelò un conversatore piacevole ed affabile e più di una volta April notò che gli occhi azzurri brillavano mentre le sorrideva.

Non era solo bello e forte, era modesto e sincero nelle opinioni. La lasciò parlare, l'ascoltò con estrema attenzione e così lui le parlò di sé, squarciando in piccoli punti quel velo di diffidenza che sembrava riservare al resto del mondo. Non seppe dire da quanto si erano avvicinati, quasi a sfiorarsi oltre il basso tavolino quadrangolare, ma quando il rumore del suo respiro le arrivò netto a portata d'orecchio sentì il cuore balzarle in gola.

Bruce Wayne ammutolì all'improvviso. La musica si era fatta appena più pressante nella realtà ovattata di quelle quattro mura. Forse si era accorto della sua reazione, forse era stato solo infastidito dal cambio d'atmosfera, era difficile leggergli attraverso, come sarebbe stato altrettanto facile per lui cogliere la sua emozione.

Ricordava l'odore vagamente aspro della sua acqua di colonia, ora lo sentiva così vicino da riempirle le narici. Per sfuggire all'imbarazzo, tentò di concentrarsi un istante sulle ciocche nerissime di capelli che gli ricadevano scomposte sulla fronte, ma fallì e lo sguardo si legò di nuovo al suo, così intensamente da darle la nausea.

Il cuore le batteva talmente forte che per un folle attimo credette che il suo interlocutore l'avrebbe sentito e si sarebbe messo a ridere. Voleva scappare, glielo gridava ogni fibra muscolare del suo corpo, in un ossesso imprecisato di istinti. Invece rimaneva ferma, le gambe di piombo, assurdamente vicina ad uno sconosciuto.

La voce di Mark fece sussultare entrambi sui divanetti in pelle ecologica.

- April, è tutto pronto se sei ancora convinta. -

- Si, certo. Mi perdoni se la lascio così, signor Wayne, ma devo andare. In realtà sarò proprio lì a ... cantare. - sorrise per camuffare la voglia che aveva di sparire senza guardarsi indietro, evitare ad entrambi l'imbarazzo di scambiarsi qualcosa di troppo intimo.

- Cantare? -

Lo vide alzare un sopracciglio nero, ma non c'era traccia di umorismo nella sua espressione sorpresa. Se fosse stata più sfacciata gli avrebbe intimato di andarsene via.

- Si ... lunga storia. Ci vediamo più tardi, allora. - rispose in fretta, aggiustando nervosamente sulle cosce il bordo stretto dell'abito.

- Certo. A più tardi. - lo sentì sorridere, ma si era già voltata per seguire Mark in mezzo alla calca di pigri ballerini e statuarie signore in abito da sera.


Bruce ci mise un po' a valutare l'idea di raggiungere, insieme agli altri avventori, lo spiazzo semicircolare occupato dal costoso pianoforte nero. Come giorni prima, leggendo quei file sul computer della caverna, si sentì più che mai un intruso nella sua vita.

Per quanto potessero somigliarsi, per quanto fosse innegabile quella una sorta di tensione elettrica che invadeva l'aria ogni volta che s'incontravano, era altrettanto chiaro che viaggiassero in due correnti diametralmente opposte. Della sua perdita Bruce aveva fatto un voto, una promessa piena di rabbia e rimorso, qualcosa che aveva guidato la sua vita in maniera gelosa e totale, che era penetrato così a fondo nel suo essere da rendere indistinguibile il confine fra ciò che era giusto e ciò che avrebbe desiderato.

Lei aveva scelto di rimanere legata ad un mondo a cui Bruce non sentiva più di appartenere da troppo tempo. Le sue chance di essere un uomo normale si erano assottigliate a dismisura negli anni, faceva quello che doveva, lo faceva perché era giusto, ma non era felice.

Dell'uomo che a passi lenti si stava avvicinando al minuscolo palco, schivando la calca, era rimasto poco o niente. Se avesse tenuto davvero a lei, glielo avrebbe detto, le avrebbe impedito di farsi del male. Invece la osservò raggiungere trafelata uno degli altri sgabelli del bar, temporaneamente collocato di fronte al pianoforte, afferrare con naturalezza la chitarra acustica abbandonata lì accanto e sistemarsi il più comodamente possibile.

La folla sembrò accorgersi realmente di quella minuta presenza, solo quando la prima nota, abbastanza incerta da tradire il fine tremore delle dita, invase l'aria, seguita poco dopo dalla voce di lei, densa e delicata allo stesso tempo.

Le sembrò di vederla per la prima volta. La stessa strana creatura di prima, gli occhi grandi, il sorriso distratto, i lunghi capelli mogano nervosamente raccolti sulla spalla destra, non particolarmente alta in contrasto con l'enorme pianoforte a coda, eppure sembrava all'improvviso aver acquisito l'autorità e la saggezza di un essere superiore.

Una voce chiara, elegante, ma senza troppe pretese, riuscì a rubare il silenzio in quelle parole misurate, intelligenti abbastanza da accennare solamente ad un pensiero d'amore.

Bruce quelle parole se le sentì nelle ossa. Non riusciva a distogliere lo sguardo, stavano toccando posti di lui che non ricordava neppure di avere, scavando sentieri nascosti sotto la sua pelle. Solo in quel momento ebbe la reale percezione di ciò che si erano impressi l'uno nel cuore dell'altro, senza averne coscienza né controllo.

Gli occhi allungati della ragazza trovarono i suoi attraverso la folla solo sul finire della canzone, in un tempo che parve raggelare fra le luci polverose del locale. Non riuscì a ricambiare il sorriso, non aveva neppure deglutito negli ultimi minuti, la paura lo paralizzava. Paura per lei, ovviamente. Per quello che un suo momento di debolezza avrebbe potuto significare.

La vibrazione improvvisa del cellulare nella tasca interna della giacca interruppe bruscamente il loro scambio di sguardi. Non ebbe bisogno di vedere chi stava chiamando, per capire che la serata era finita.

Con una studiata abilità Bruce tornò fra la folla, eclissandosi in un angolo ben protetto del locale dove potesse parlare senza essere disturbato.

<< Signore, il segnale. >> lo avvertì Alfred con voce monotona, mentre Bruce già accostato ad una delle vetrate sbirciava fuori.

<< Lo vedo, Alfred. >> rispose seccamente scansionando il cielo sopra la Wayne Tower. L'alone polveroso, acceso dal tetto della GCPD, si stagliava contro il cielo ferendo il manto di nuvole grigie. In quei momenti la sua mente si metteva in moto alla velocità della luce, tagliando fuori tutto il superfluo.

Gettò solo un ultimo sguardo all'interno del locale e all'ovale delicato del viso di lei, alle labbra che pronunciavano parole nuove. Se avesse notato la sua assenza non l'avrebbe saputo dire.

Bruce Wayne sarebbe rimasto, sarebbe rimasto per lei, per dirle tutto quello che avrebbe meritato, ma non era più Bruce Wayne quello che trafelato uscì a grandi falcate dal locale strapieno.

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Capitolo 8
*** ~7~ He'll be here soon ***


~7~ He'll be here soon

- E' qui. Non ci credo, è venuto davvero. –

Forse avrebbe voluto rimanere serio, invece una risatina nervosa gli scappò dalla gola in un curioso verso gutturale. Bruce si accostò al ragazzo, appena ventenne, che armeggiava sulla console dell'enorme computer come faceva ormai da settimane.

- Devi andare, Tim. Adesso ci penso io. –

Suonò più come un ordine, che un consiglio di prendersi qualche minuto di riposo dalla sfiancante attività con cui lo teneva impegnato da troppo tempo. Sapeva quanto la odiasse, quanto avrebbe preferito trovarsi insieme a lui nelle lunghe nottate in strada, a sputare sangue e sudore, strappandosi qualche muscolo di troppo, ma con la sensazione di aver fatto davvero qualcosa.

Un tempo era stato come lui, si sarebbe spaccato la schiena pur di fare la differenza là fuori, una differenza che scorticava le nocche e faceva ribollire il sangue di morbosa esaltazione. Una cosa a cui si faceva l'abitudine fin troppo presto.

- Se pensi di avere tutto sotto controllo ... - azzardò Robin senza il coraggio di finire la frase, gli occhi azzurri che seguivano attentamente la lenta discesa dell'elicottero sulla sgangherata pista d'atterraggio dei Panessa Studios.

Non gli rispose e Tim non aspettò che lo facesse, ormai lo conosceva abbastanza da capire quando un discorso era chiuso. Riaggiustò la mascherina nera sul naso per non rischiare avvistamenti indesiderati e si avviò verso l'uscita di quello che, in un tempo non troppo remoto, era stato il salone principale di uno degli studi cinematografici più importanti della costa.

Con la coda dell'occhio Bruce captò il giallo della fodera interna del mantello baluginare per un istante ancora all'angolo del suo campo visivo, come se Tim avesse esitato prima di sparire in uno dei corridoi che collegavano il salone agli studi. Un istante di troppo e il momento era già passato, qualunque fossero state le sue rimostranze morirono nel silenzio assordante che li separava.

Prima che potesse riflettere più a fondo sulla piega infelice che aveva preso il loro rapporto negli ultimi tempi, una piega che purtroppo portava il suo nome stampato a lettere cubitali, l'ascensore si azionò cigolando alle sue spalle in un tonfo di cardini mal oliati.

Spense il computer, nascondendo dettagli che ancora non era pronto a rivelare a chiunque stesse per attraversare la pedana circolare che ronzava sotto i suoi piedi nell'oscurità azzurrina. Si accostò all'entrata, lontano dalla luce, più per abitudine che per reale necessità, e attese.


Jim Gordon aveva un vizio. Un vizio che aveva il potere di minare pericolosamente la pazienza di chi aveva intorno. Tamburellava con le dita. Sulla scrivania, sul mento, sulle gambe, nelle tasche della giacca, in un tic nervoso che spesso lo alienava dalla realtà permettendogli di pensare.

Lo faceva quando qualcosa non andava. Quando annusava qualcosa di losco, quando i pezzi non si incastravano perfettamente e adesso ... diavolo, adesso non sapeva nemmeno più se stava guardando un puzzle.

Si sentì smarrito come un marmocchio quando la grata arrugginita dell'ascensore si aprì sull'immenso salone. Con tutta probabilità avrebbe dovuto rappresentare la perfetta fusione tra la modernità dell'acciaio e lo stile coloniale, invece assomigliava più al ventre vuoto di un grosso pescecane morto da decenni e lasciato a marcire in cima a quella collina.

Come chiunque altro fosse nato e cresciuto a Gotham, conosceva abbastanza bene i Panessa Studios da sapere che quella specifica sala avrebbe dovuto essere vuota, ma non lo era.

Addossata al fondo, proprio di fronte a lui, era stata forzatamente costruita una torre di raffreddamento alta almeno quindici metri. Non ne capiva di computer quanto sua figlia Barbara, ma di sicuro non era un climatizzatore d'ambienti.

Assomigliava piuttosto ad un complesso sistema di server connessi, più in basso, alla plancia di un calcolatore. Da questo si dipartivano poi due bracci identici, composti ciascuno da tre cubi d'acciaio e collegati anch'essi, tramite enormi cavi neri, a quell'assurda torre di babele.

- Che diavolo di posto è questo? –

Le parole rotolarono via da sotto i baffi grigi con uno schiocco secco, disperdendosi nel silenzio di tomba muffita senza ricevere risposta.

Era abituato alle stranezze di Batman, per così dire, ma una cosa del genere non l'aveva mai vista. Un brivido gli drizzò i capelli sulla nuca, quando si accorse che cinque dei sei cubi altro non erano se non celle d'isolamento.

"ATTENZIONE: Quarantena." Recitava a caratteri cubitali il lato lungo di ciascuna di esse, quasi facessero parte di uno zoo molto bizzarro, forse addirittura macabro. Si fidava di Batman, sarebbe stato più preciso dire che era stato costretto a farlo, ma non l'avrebbe mai creduto capace di qualcosa di tanto inquietante. E questo era tutto dire.

Gordon approcciò le celle una ad una, tentato ed allo stesso tempo inorridito dalla voglia di guardare all'interno. Il vetro, fino a quel momento opaco ad ostruire volontariamente la vista, schiarì all'istante rivelando un'assurda accozzaglia di soggetti. Eppure erano persone, molto probabilmente rinchiuse in quelle anguste scatolette di metallo contro la loro volontà.

Un paio gli sembrarono persino familiari, come quel cantante country con la faccia stampata su diversi cartelloni in città. Non riusciva a ricordare il suo nome, Donny, Ronny forse ... aveva poca importanza, il punto era che Batman stava trattenendo impunemente degli ostaggi, proprio sotto il suo naso.

Se l'avesse avuto a portata e se non se la facesse nei pantaloni all'idea di piantare le nocche nei denti di un armadio in armatura, di certo l'avrebbe arrestato.

Di una cosa però era sicuro, nessuno dei prigionieri aveva un aspetto del tutto normale. Forse era l'effetto di qualche droga sconosciuta, una di quelle robacce chimiche che si spacciavano al mercato nero. Magari ce n'era almeno una che avrebbe potuto ridurre la pelle di quei poveretti come se fosse stata rosicchiata da un topo e friggergli il cervello allo stesso tempo.

Deliravano in maniera inquietante, in maniera familiare.

- Oh, sei tu! Il commissario Noia ... cos'hai fatto alla mia anima gemella? Immischiati tra di noi e ti inciderò un sorriso così largo da farti cadere la testa. – abbaiò la donna a piedi nudi nella cella numero 3, sorrideva mimando uno sgozzamento e di nuovo a Jim si rizzarono i capelli in testa. Familiare, l'aveva già detto.

Solo uno, l'uomo nella cella numero 4, più anziano degli altri tre, aveva conservato un aspetto del tutto normale. Lo riconobbe immediatamente. Era Henry Adams, scomparso solo un paio di settimane prima.

Jim ricordava perfettamente i volantini appesi nei bar, agli angoli delle strade e sulla bacheca della GCPD. Ricordava persino gli occhi castani della nipote, piantati duramente nei suoi, quando era venuta ad appenderli armata del più profondo disgusto.

- Commissario? Grazie al cielo! Dovete tirarmi fuori di qui, mi tengono rinchiuso e mi sottopongono a test continui! Come una cavia! Ma non c'è nulla di strano in me ... - gracchiò indicandosi il brutto maglioncino bianco e rosso. Sotto le lenti rotonde degli occhiali, le iridi azzurre dardeggiavano di paura e frustrazione ma non un segno che accennasse ad un delirio simile a quello dei compagni in cattività.

Le dita di Jim si mossero svelte nella tasca della giacca blu, cercando la radio trasmittente. Se Batman era impazzito, sarebbe stato compito suo fermarlo. E che Dio avesse avuto pietà di lui.

Indietreggiò alla cieca, deciso a tornare sui propri passi, lontano da quella follia, le unghie che graffiavano sulla plastica del dispositivo e per poco non gli venne un accidente quando si trovò faccia a faccia con l'enorme vigilante di Gotham.

Non l'aveva sentito arrivare. Doveva essere alto quasi due metri, pesare come un piccolo bastimento e non lo aveva sentito arrivare.

- Batman ... - boccheggiò, tentando di calmare i battiti feroci del cuore nella gola. Avrebbe persino imprecato, se l'aria non gli fosse stata strappata dai polmoni alla velocità di un pugno in pieno stomaco.

- Lieto tu sia qui, Jim. Dai un'occhiata. –

Quella voce sempre calma e misurata lo mandava in bestia, quasi lo avesse invitato a prendere un tè e non ad un giro turistico di un'inquietante prigione privata per stramboidi. Tuttavia non avrebbe mai trovato il coraggio di dirglielo apertamente, per quanto lo stesse guardando con la tranquillità di una belva ammansita, per questo lo seguì fino al braccio opposto della struttura. Quello occupato dai tre individui deliranti con cui aveva già avuto uno spiacevole tête-à-tête.

- Che posto è questo? Chi è questa gente? – sbottò senza più trattenersi, non voleva guardarli, non voleva vedere le facce pallide e sfigurate, il ghigno storto sulle labbra insanguinate.

Batman sembrò trarre un sospiro, a differenza dei suoi gli occhi azzurri del Cavaliere Oscuro erano calamitati sull'interno delle celle, distanti anni luce.

- Prima di morire, Joker ha inviato sangue infetto a tutti gli ospedali dello stato. –

- Si, li abbiamo trovati tutti. – lo interruppe Jim, fingendo che qualcosa d'indefinito dentro la sua testa non stesse scavando un buco nelle sue certezze. Perché ne era stato certo fino a quel momento. Joker era un capitolo chiuso, l'aveva chiuso lui stesso premendo il tasto dell'inceneritore.

Eppure quel tarlo gli stava sussurrando che presto si sarebbe pentito di quella sicurezza, che c'era ancora un prezzo da pagare per le atrocità che erano state commesse.

- Ne mancano alcuni. –

- Come?! – abbaiò senza rendersene conto, il tarlo aveva smesso di picchiare, in compenso un brivido si era fatto strada lungo tutta la sua spina dorsale. L'uomo accanto a lui parlava con il controllo di una statua di sale, ma Gordon riuscì comunque a percepire la frustrazione che doveva ribollire sotto la spessa armatura.

- Errori ospedalieri, trasfusioni non registrate. Cinque persone contagiate, senza cure. Il sangue si è sviluppato a lungo, le sta alterando. Stanno diventando ... -

- Joker. – concluse per lui, senz'aver realizzato che l'aveva già capito, l'aveva capito dal momento in cui li aveva sentiti parlare. Il suo cervello si era solo rifiutato di accettare una prospettiva tanto ignobile.

- Mio Dio ... -

- E' una forma della malattia Creutzfeldt Jacob, mutata oltre ogni precedente medico. – continuò Batman, come Jim se avesse dovuto saperne qualcosa. Ciò che aveva portato Joker all'involuzione finale, era capace di friggere anche il cervello altrui e questo era già abbastanza da procurargli incubi a sufficienza per le settimane, forse mesi, a seguire.

Poi si ricordò di Adams, il suo viso non portava gli stessi segni degli altri e la sua percezione del mondo era apparentemente intatta.

- Quello sembra diverso dagli altri ... - chiese con un barlume di speranza, indicando l'ometto nervoso al di là dello squallido stanzone.

- Henry Adams. È quello infetto da più tempo, ma non ha sintomi. È immune al sangue di Joker. Robin sta conducendo analisi per scoprire il perché. Una cosa è certa, Henry è la chiave di tutto. –

Batman misurò a passi lenti lo spazio che li separava, gli occhi fissi sul prigioniero in uno sguardo indecifrabile. Qualunque cosa gli frullasse per la testa, si stava comportando in modo strano. Se l'idea non fosse suonata tanto assurda, Jim si sarebbe azzardato a pensare che poteva persino avere paura.

- Ho collaborato! Ho fatto tutto quello che mi avete chiesto! Dicevi che ci sarebbero voluti pochi giorni ... - piagnucolò l'uomo oltre il vetro, una protesta che restò inascoltata.


- Non puoi trattenerlo contro il suo volere. –

Bruce sapeva che Jim aveva ragione, lo sapeva fin troppo bene, e contro quella ragione si scontrava ogni volta che metteva piede ai Panessa Studios, che guardava quegli occhi cedere ogni resistenza e rassegnarsi inevitabilmente alla follia.

Nel tentativo di vincere una battaglia contro il tempo, stava sacrificando fin troppo della sua vita, al punto che forse, a guerra finita, sarebbe rimasto bene poco per cui sopravvivere.

- Manca poco, Jim. Non possiamo lasciarlo andare se non salviamo gli altri. – replicò, sperando che sarebbe bastato a confondere le acque, a mascherare la reale esigenza che si nascondeva dietro quella sua ossessiva ricerca. Questa volta non erano solo le vite degli altri ad essere in gioco.

- Aspetta ... hai detto cinque, ma ne vedo solo quattro. Ne manca uno. –

Era per questo che apprezzava Jim Gordon, per questo aveva scelto di fidarsi di lui. Aveva fiuto per le menzogne e l'arguzia necessaria a fare le domande giuste.

Bruce fissò la cella vuota e sentì raggelarsi il sangue. Si era sempre illuso di avere il controllo, su se stesso, sul mondo che si era costruito e così aveva finito per credere di poter soggiogare la paura, di poter avere il più completo controllo persino su ciò che più a fondo avrebbe potuto spaventarlo o ferirlo. Aveva finito per non temere la morte.

La verità era che esisteva un destino peggiore, un destino con cui ora doveva confrontarsi.

- Presto sarà qui. – 

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Capitolo 9
*** ~8~ Sold to Mr Wayne! ***


~8~ Sold to Mr Wayne!

April odiava i periodi di riposo, un odio che le si era insinuato dentro con la determinazione di una pianta infestante, durante gli anni di solitudine trascorsi a Boston. Tuttavia non aveva potuto ignorare la calda raccomandazione da parte dei suoi superiori di restare a casa per un paio di giorni, evitando futuri grattacapi al consiglio d'amministrazione al momento della stesura del bilancio aziendale.

Erano trascorsi tre giorni ormai dalla sera dell'inaugurazione, in cui Bruce Wayne si era defilato senza neppure salutare, lasciando a bocca asciutta giornalisti ed ammiratori.

Negare che la sua improvvisa sparizione non l'avesse in qualche modo turbata sarebbe stato immaturo, eppure dalle sue passate esperienze aveva imparato a non fare affidamento sulle proprie sensazioni in fatto di uomini. Se si fosse illusa, anche solo per un istante, che entrambi avevano provato qualcosa seduti a quel tavolo, sarebbe entrata in una spirale di dubbio senza uscita. Qualcosa in cui non voleva cadere, semplicemente perché non aveva voglia, né tempo di affrontare.

Infondo, quello del signor Wayne, era stato un comportamento più che prevedibile, perfettamente allineato con il ritratto che si era costruito nell'immaginario di chiunque. Un personaggio tanto scostante in merito alla permanenza agli eventi mondani, quanto presente ed impegnato sul versante politico ed imprenditoriale di Gotham.

Le colleghe evitarono di toccare l'argomento con la circospezione di soldati su un campo minato, a volte persino in maniera goffa, quasi imbarazzata. Forse in virtù del senso di colpa per averla spinta ad accettare l'invito dell'uomo che tanto improvvisamente era apparso, quanto in fretta si era volatilizzato.

Più volte cercò di rassicurarle, di rassicurare anche se stessa. Aveva ben chiara l'idea di essere stata per lui una semplice alternativa alla compagnia di una manciata di giornalisti d'assalto. Non avrebbe dato a Bruce Wayne il potere di ferirla.

<< April, non ti lascerò trascorrere chiusa in casa due preziosissimi giorni di ferie. Solo perché io e Nadine stiamo lavorando non significa che tu abbia il diritto di abbrutirti in questo modo. Devi uscire, vedere gente. >> la rimproverò Samantha all'altro capo del ricevitore, lasciandosi sfuggire una punta d'invidia nel tono squillante.

Aveva pagato la propria distrazione nel lasciare acceso il cellulare con una tirata d'orecchi a cui non era affatto abituata. A stento trattenne un moto d'orgoglio, mentre le dita picchiettavano nervosamente intorno alla tazza di caffè.

<< Te ne pentiresti, dammi retta. >> continuò poi più dolcemente per non lasciare che l'argomento morisse insieme al suo ostinato silenzio. Forse Samantha aveva ragione, la solitudine non le avrebbe ridato il controllo sulla sua vita, ma ammetterlo sarebbe stato molto più doloroso di quella stoccata al suo nervo scoperto.

<< A quanto pare non ho scelta. Cosa proponi? >>

La proposta in realtà era semplice: le sarebbe bastato infilare un abito da cocktail ed accompagnare lei ed il fidanzato, Lester Morgan, ad un'asta letteraria alla biblioteca pubblica di Gotham.

Nadine, d'altro canto, era riuscita abilmente a trarsi d'impiccio grazie ad un inspiegato recente ritorno di fiamma per il tatuato barista Mark. Rimaneva perciò ad April l'onere di assumere il ruolo di terzo incomodo, idea che non le suonava poi così allettante.

Eppure, poche ore più tardi, seduta nel retro sgangherato di un taxi diretto a Bleake Island, attendeva di veder comparire oltre il finestrino appannato l'imponente struttura greco-romana della biblioteca pubblica.

La Gotham Public Library era una delle istituzioni più antiche e più belle della città. Vantava, nella sua costruzione, la mano degli architetti storicamente più famosi dello stato ed enumerava una collezione bibliotecaria pari soltanto alle sorelle Harvard e John Hopkins.

L'imponente facciata in marmo riprendeva lo stile ateniese molto in voga nel 1800, con un colonnato di dodici fusti grandi come un tronco d'albero e sormontato da un timpano triangolare fregiato con scene tratte dalla fondazione di Gotham. Ai due lati della struttura principale si distaccavano due piccole ali pressoché identiche, una delle quali ospitava gli uffici del personale, nell'altra invece venivano conservati, a temperatura e pressione adeguati, i testi più antichi.

Oltre due immense porte in bronzo cesellato, sempre aperte a rivelare una doppia entrata in moderno plexiglass, si apriva l'immenso salone centrale. Un unico spazio rettangolare in stile tardo coloniale su cui, lungo l'intero perimetro, prendevano vita cinque piani sovrapposti completamente ricoperti di scaffali stracolmi ed esposti al ventre vuoto dell'ala principale.

In alto, sospeso almeno venti metri sopra le loro teste, un lucernario blasonato in semplice vetro bianco apriva la prospettiva sui tenui colori rosa e giallo del tramonto. Nonostante la luce si stesse già affievolendo, i colori neutri della sala, tendenti al bianco e all'oro, regalavano la piacevole illusione che l'intero ambiente godesse di un'illuminazione naturale, mascherando perfettamente le discrete lanterne in bronzo dislocate su ciascun piano.

Al posto delle scrivanie da consultazione, sul semplice pavimento in marmo bianco, decorato a geometrie nere, erano state collocate abbastanza sedie da ospitare un centinaio di persone, un leggio per il banditore ed un rinfresco nelle nicchie ai lati.

Un lieve colpo di martelletto segnò l'inizio dell'asta, annunciando ai mariti attardatisi al buffet dei liquori che era il momento di tornare alle consorti impazienti, già a proprio agio sulle sedie foderate di broccato rosso.

April e i suoi accompagnatori, non disponendo delle finanze necessarie neppure a pensare di depositare un'offerta, rimasero in disparte a fondo sala, chiacchierando a bassa voce e godendo dell'atmosfera volutamente sommessa.

Si susseguirono un numero impressionante di pezzi antichi, prime edizioni che sarebbero state più adatte alla vita di un museo che alla casa di un privato collezionista. Eppure il tempo scorreva stranamente rapido fra i cenni e i bisbigli dell'asta, interrotti solamente dagli annunci periodici del banditore in livrea bianca.

April sorrideva da un po', sorseggiando il flute pieno di champagne solo fino a metà, come si addiceva alle buone norme dell'aristocrazia, ma il suo interesse per la conversazione era morto da tempo.

Per quanto fosse un uomo senza dubbio onesto e capace di trasmettere l'illusione di un certo controllo sulla propria vita, Lester Morgan era fin troppo noioso per quei suoi trentaquattro anni che svanivano inevitabilmente sulla precoce stempiatura dei capelli biondicci e i grandi occhiali rotondi.

Parlava del proprio lavoro al comune col tono misurato di chi sa di essere indispensabile e non vuole in alcun modo sforzarsi di nasconderlo, cosa che, dopo venticinque minuti buoni di conversazione, era riuscita a trasmetterle un vago senso di nausea.

Per un po' Lester aveva chiesto una sua opinione, si era interessato alla sua vita, poi il discorso era deragliato in un monologo da cui la ragazza, a differenza di Sam, era rimasta totalmente estranea.

Lo sguardo le si smarrì nella sala, vagando fra gli incredibili spazi disegnati dalle sottili colonne in stile corinzio, le graziose geometrie prodotte dalla luce che rimbalzava sull'oro discreto delle decorazioni ed i volti compassati dei presenti.

Finché, d'un tratto, le iridi distratte non trovarono per caso quelle di Bruce Wayne oltre la folla.


Bruce ricambiò il sorriso impacciato della ragazza con uno altrettanto goffo, mentre le dita sottili di lei si alzavano appena in un timido cenno di saluto.

Prima di poter riflettere si stava già facendo largo fra gli invitati per raggiungerla e fu sorpreso di scoprire che anche la giovane dottoressa si era affrettata a coprire la distanza che li separava, incontrandolo a metà strada.

La osservò prendere un respiro, le guance appena più rosse ed i familiari occhi d'oro che brillavano, quando incontrarono i suoi finalmente lontani dalla confusione.

- Signor Wayne ... avevo letto della sua leggendaria avversione per gli eventi mondani, eppure continuiamo ad incontraci. – esordì con un sorriso che tradiva qualcosa di molto più profondo dell'ironia e Bruce ne fu stranamente sollevato.

- Potrei dire lo stesso di lei, dottoressa. Non ero il solo a nascondermi in corridoio qualche settimana fa. –

- Touché. –

Gli occhi di lei saettarono altrove per un attimo, sull'abito di seta blu, nella sala dove i rumori dell'asta e le chiacchiere sommesse del pubblico saturavano lo spazio di un costante brusio.

- Ha intenzione di fare qualche offerta? – le chiese aggiustandosi i polsini dello smoking in un gesto nervoso. Avrebbe dato qualunque cosa pur di liberarsi di quella morsa allo stomaco, della profonda insicurezza che sentiva ogni volta che si incontravano.

- Mi piacerebbe, ma il mio conto in banca non sarebbe d'accordo. No, sono qui su invito di una coppia di amici. Lei piuttosto, ha già comprato qualcosa? – sorrise di rimando con una certa naturalezza, ma le dita sottili si stringevano alla pochette nera come per aggrapparvisi.

- Quasi tutto, direi. Forse avrei dovuto lasciare più spazio agli altri offerenti. – rispose a voce più bassa, il solito tono da miliardario svampito che ormai faceva sempre più fatica a lasciare a casa. Non voleva giocare con lei, ma era difficile ricordare chi fosse Bruce Wayne sotto l'ingombrante presenza di Batman.

La dottoressa alzò un sopracciglio scuro, senza distogliere lo guardo, il resto del viso impercettibilmente più teso, ma non proferì parola.

- Conosco quell'espressione, ha appena pensato che mi sia comportato da ricco idiota. –

Bruce attese un moto di disgusto che non le si presentò mai alle labbra, fu sorpreso invece di sentirla ridere.

- Mi creda, non ho pregiudizi su chi è sfacciatamente ricco. –

Gli aveva appena dato dell'idiota. Giusto. Non poteva certo biasimarla, ma si lasciò comunque scappare un ghigno di sollievo.

- Sono dei bei pezzi, capisco perché li voglia nella sua collezione. – continuò poi più dolcemente e non poté che perdonarle quel fraintendimento poco lusinghiero. In fondo non le aveva mostrato altro che la pessima imitazione di un uomo frivolo e scostante.

- Non è per questo. I fondi raccolti andranno direttamente nelle casse delle scuole pubbliche di Gotham. Non c'è niente di meglio di un po' di sana competizione per convincere qualche portafogli ad aprirsi. – soffiò Bruce divertito, quel tanto che bastava a nascondere l'insicurezza. Eppure, come qualche sera prima, lo sguardo della ragazza si annodò al suo così stretto da togliere il respiro. Non se lo sarebbe mai aspettato, non da lei almeno, ma la mano piccola e curata si sporse appena a toccare la manica della sua giacca.

- Lei è un brav'uomo, signor Wayne. Non permetta a nessuno di dirle il contrario. –

Accadeva qualcosa fra loro ogni volta che parlavano, non era sicuro che anche la ragazza ne fosse consapevole, ma aleggiava nell'aria con il ronzare di una scossa elettrica.

Era difficile ignorare quanto fosse bella, distogliere gli occhi dalle labbra rosee, dalle ciocche scure, sfuggite alla treccia morbida sulla spalla per disegnare con naturalezza la linea esile del collo, l'ovale del viso.

Le doveva una spiegazione, doveva farlo per il poco rispetto che ancora nutriva nei confronti dell'uomo che era diventato.

- Senta, per quanto riguarda l'altra sera ... - si fece coraggio non appena riuscì a deglutire di nuovo contro la gola riarsa, ma le parole morirono a mezz'aria quando la voce del banditore d'asta sovrastò la sua, facendoli sussultare.

- ... ovviamente tutto questo non sarebbe stato possibile senza l'aiuto del CEO della più florida impresa di Gotham, Bruce Wayne. Signor Wayne, la prego, solo due parole. –


Decine di volti s'intromisero contemporaneamente in quel loro intreccio di sguardi, costringendoli a battere in ritirata. Si scambiarono solo un goffo cenno d'intesa, prima che Bruce Wayne si tuffasse di nuovo nella confusione per raggiungere il massiccio leggio in legno di ciliegio.

Anche volendo, April non avrebbe potuto dire un bel niente per trattenerlo mentre il cuore finalmente decelerava lasciandola respirare. Per qualche istante ancora, guardò Wayne, alto e bello nel costoso smoking, accostarsi al microfono e ringraziare i presenti, ma non stava più ascoltando.

Parlare con lui riusciva a confonderla in maniera sgradevole, come se alla fine tutto si riducesse ad un loro scambio di sguardi e silenziosamente, a quegli occhi blu, April riusciva a confessare cose di se stessa che non avrebbe voluto portare alla luce.

Non sarebbe tornata da Lester e Samantha, non per sentirsi chiedere se conosceva Bruce Wayne e che cosa si fossero detti. Un comportamento estremamente maleducato da parte sua, lo sapeva, ma preferì comunque allontanarsi dalla sala per curiosare oltre la massiccia porta in noce che conduceva all'ala sinistra della struttura.

A differenza del salone principale, il nuovo ambiente non era altrettanto ben illuminato e gli occhi dovettero adattarsi al repentino cambio di luce prima che la ragazza riuscisse a realizzare dove si trovava. Un familiare odore di polvere e umidità aleggiava nell'aria ferma, estremamente fredda, di quello che assomigliava più ad un museo in miniatura che ad una sala di lettura.

Decine di moderne vetrine in plexiglass scandivano lo spazio spoglio, monocolore, dominato da un imponente soffitto di architravi a vista. Il silenzio era assoluto, come se all'improvviso qualunque cosa chiusa al di fuori fosse stata ingoiata in un vuoto cosmico e ovattato.

Curiosò a lungo fra le sottilissime pergamene incartapecorite, gelosamente custodite sotto gli spessi strati di vetro. Senza fretta, quasi avesse tutto il tempo del mondo mentre, ad ogni passo, il marmo candido schioccava sotto la spinta dei tacchi sottili ai suoi piedi.

Poi, nel silenzio, i cardini della doppia porta cigolarono di nuovo, gettando sull'interno in penombra una netta falce di polverosa luce bianca. Col respiro bloccato nei polmoni, April cercò di pensare ad una scusa plausibile in tempo record, ma da sempre era una pessima bugiarda e la prospettiva di un richiamo, con annessa figuraccia, le sembrò pericolosamente vicino.

Ma non era un guardiano l'uomo in smoking che si faceva avanti nella penombra, esiliando di nuovo i rumori della sala dietro una porta chiusa.

- Ecco l'uomo del momento. – ghignò per dissimulare il sollievo, mentre a passi pesanti Bruce Wayne copriva la distanza che li separava guardandosi intorno. Non ci aveva mai riflettuto davvero, ma, considerando la disarmante bellezza di cui disponeva, era strano che non fosse sposato.

- Così pare. – rispose con un sorriso distratto, gli occhi blu che volarono colpevoli sulle scarpe lucide, nere come pece.

Era bello di una bellezza malinconica. Avrebbe potuto avere qualunque donna della città al suo fianco e forse l'aveva avuta, ma qualcosa stonava in sottofondo, rimaneva distante dal resto, per quanto fosse abile a fingersi Bruce Wayne, l'eccentrico miliardario.

- Mi chiedevo dove fosse finita. –

Si fermò di fronte a lei, sovrastandola e questa volta April preferì non incontrare il suo sguardo, non dopo le sue recenti considerazioni. Ignorando semplicemente il fatto che fosse tornato a cercarla, ma non era per il freddo che stava tremando.

- Vecchie abitudini ... ho voluto curiosare un po' in giro. È una bellissima biblioteca. –

- Lo è. –

Frasi di circostanza, poi nient'altro. April si ritrovò a contare i secondi di silenzio, uno poi due, poi tre. Si sovrapponevano perfettamente ai battiti pesanti del suo cuore e per un attimo credette che sarebbe finita lì, che ognuno sarebbe tornato alla propria vita.

Perché avevano entrambi voglia di scappare, ma, invece di assecondare l'istinto, Bruce Wayne sfilò la costosa giacca di sartoria.

- Ecco, tenga questa. Fa piuttosto freddo qui dentro. – gracchiò posandola gentilmente sulle sue spalle nude. Un brivido le corse lungo la schiena e, per un folle attimo, si chiese se il leggero profumo di colonia sarebbe rimasto sul suo abito quando fosse tornata a casa.

- Grazie ... –

- Immagino di non essere il primo a dirlo, ma lei è davvero molto bella. –

Non sorrise nel pronunciare quelle parole, le sopracciglia aggrottate come a rimproverarsi qualcosa, eppure negli occhi blu brillava una luce che forse non era esistita prima di quel momento.

April avrebbe voluto essere diversa, abbandonarsi per una volta a quello che stava accadendo senza pensare, invece il suo cervello lavorava alla velocità di un frullatore impazzito.

- Grazie. In realtà ... non so cosa dire. Non succede così spesso come crede. La verità è che cerco di evitare interazioni come questa. – boccheggiò stringendosi nella giacca nera, la fodera interna che frusciava a contatto con la seta dell'abito ricamato.

- E quali sarebbero? – ghignò di rimando il signor Wayne, quasi a prenderla in giro, ma se fosse stato ferito da quel suo passo indietro non lo diede a vedere. Non l'avrebbe mai ammesso, ma quel suo modo di deviare l'attenzione riusciva spesso a ridarle un po' di coraggio.

- La prego, non si prenda gioco di me. Non sono brava in queste situazioni. –

- Mi creda, neppure io –

Stava ancora sorridendo, mentre le dita volavano distrattamente a grattarsi una guancia ispida. Non gliela avrebbe mai data a bere, nemmeno in mille anni.

- Lei? Il playboy scapolo più ambito di Gotham? Mi riesce difficile crederlo. – lo rimbeccò, forse un po' troppo audacemente, ma non poteva che fare fatica ad accettare quel suo goffo modo di approcciarsi, quasi avesse avuto paura di lasciarsi scappare la verità fra una frase e l'altra.

Era ben protetto il cuore di Bruce Wayne, non solo dalla maschera di bizzarro miliardario che portava ostinatamente indosso, ma dietro una profonda indecisione, un vago senso di noncuranza.


- E' così che mi vede? Forse mi sta giudicando troppo in fretta, dottoressa. Non creda a tutto quello che scrivono di me i giornali. –

Rise di nuovo Bruce per allontanare il fatto che avesse ragione, sapeva che non ci sarebbe cascata. Poteva sentire gli occhi chiari della ragazza soppesarlo attentamente nella penombra.

Per un attimo credette che l'avrebbe rimbeccato di nuovo, invece trasse un sospiro.

- Certo che no. Ha ragione, mi scusi. Non volevo essere maleducata. –

- E' stata onesta, non capita molto spesso qui a Gotham. – e lo pensava davvero, probabilmente si meritava la sua diffidenza, ma non riusciva comunque a non cercare i suoi occhi, cangianti dall'oro al bronzo alla luce ronzante delle plafoniere ai lati della stanza.

Si guardarono a lungo nel silenzio assordante che sapeva di muffa e polvere, vicini, più vicini di quanto non fossero mai stati. Ascoltò i respiri sovrapporsi, diventare uno nella condensa che riempiva lo spazio sempre più esiguo fra loro.

Avrebbe dovuto allontanarla, non permettere al cuore di intromettersi nei suoi doveri, invece stava lasciando che quegli occhi gli si imprimessero a fondo, nella carne, che entrassero in circolo e guardassero in posti di lui che non doveva mostrare.

Respirò il profumo di fiori confondersi a quello della sua colonia e si sentì in trappola. Era così vicina da poterne avvertire il calore sulla pelle, sarebbe bastato allungare le dita per toccarla ma era innegabile che la ragazza condividesse le sue paure, i suoi stessi dubbi, il leggero tremito l'aveva tradita.

- Sembra quasi abbia voglia di scappare. – azzardò fingendo una sicurezza che non possedeva, non voleva trattenerla, non le avrebbe mai fatto del male. Il suo silenzio punse più di un rifiuto. Stava aspettando qualcosa che Bruce non poteva darle.

- Ha la mia giacca, eppure continua a tremare. –

- Invece lei sembra perfettamente a suo agio, quasi l'avesse fatto altre volte. –

Gli occhi saettarono lontani dai suoi in un secondo, il volto improvvisamente teso, le labbra contratte. Si era accorta che stava giocando con lei e non le era piaciuto.


- Perché sta alzando un muro fra noi, dottoressa? –

Era vero, April stava ponendo una strenua resistenza a lasciarlo entrare, non riusciva a fidarsi di quell'immagine da giovane miliardario dagli occhi sfuggenti che voleva propinarle.

Eppure quella scoperta bugia riuscì comunque a ferirla. Troppe cose aveva trascurato negli ultimi anni, troppe erano sfuggite volente o nolente alla sua attenzione ed April non aveva mosso un dito per porvi rimedio, aveva semplicemente lasciato andare, forte delle sue convinzioni.

- Senta come mi batte il cuore, April. Le sembra che sia a mio agio? – gracchiò accigliato, mentre le dita, inaspettatamente ruvide, bollenti afferravano quasi sgraziatamente le sue bloccandole al centro del suo petto. La ragazza ebbe la netta percezione che il viso fosse in fiamme, mentre, sotto la camicia immacolata, il cuore di lui batteva al ritmo di un treno in corsa.

Per quanto quel gesto avesse azzerato all'improvviso le sue connessioni, non gli avrebbe permesso di fare giochetti con lei, di trascinarla in qualcosa in cui non voleva impegnarsi.

- Perché mi dice queste cose, signor Wayne, se lei è il primo a nascondere qualcosa? Chiunque sano di mente capirebbe che il resto è tutta una messinscena. Come posso crederle? –

Ritirò in fretta la mano, sfuggendo alla sua presa, gli occhi nei suoi, azzurri, intensi. Non le stava dicendo la verità, non le stava dicendo un bel nulla.

- Mi sta chiedendo qualcosa per cui non ho una risposta. – evitò accuratamente la domanda, quasi avesse ripetuto la scena decine di volte, un copione già scritto per una donna diversa. Di nuovo ebbe la più assoluta certezza che quell'uomo le avrebbe fatto del male, se solo glielo avesse permesso. Per quanto avesse provato, era sicura che in lui niente sarebbe mai stato trasparente, spontaneo.

Un istante ancora attese una risposta che chiaramente non voleva darle. Lo vide indietreggiare di un passo per lasciarle spazio e capì che la discussione era finita.

Non l'avrebbe mai lasciata entrare ed April aveva troppa paura per poter combattere quella battaglia, perdere avrebbe significato arrendersi ad una consapevolezza in cui la ragazza non voleva guardare, in cui non voleva vedersi. Preferì scappare, stessa scena, diversa ambientazione.

- Ora devo proprio andare, mi scusi. Grazie mille per la giacca, e per la bella serata. –

Tentò di fermarla, mentre liberava le spalle dalla giacca per restituirla al legittimo proprietario, ma non si sfiorarono.

- Quando posso rivederla? –

- Buonanotte, signor Wayne. – sorrise e non si guardò indietro.

Avrebbe solo voluto mettere una distanza più ampia di poche sale fra sé e quello che l'uomo le aveva detto fra le pergamene incartapecorite, ma soprattutto da quello che aveva provato avendolo accanto.

Afferrò sgraziatamente il cellulare dalla microscopica borsetta, quasi imprecò mentre le mani, che ancora tremavano, persero la presa rischiando di lasciarlo impattare col suolo. Scrisse un messaggio frettoloso a Samantha, scusandosi per la sua improvvisa sparizione, che non si sentiva bene ed avrebbe preferito tornare a casa.

Finché finalmente raggiunse l'uscita e rallentò la corsa, lasciando che l'aria fredda della sera le ferisse i polmoni.

- Dottoressa Holloway? –

Il richiamo la scosse e per un attimo credette che qualcuno l'avesse pizzicata a scapicollarsi fuori dalla biblioteca come una forsennata. Con estremo sollievo notò invece che ad averla trattenuta era un uomo sulla settantina, in elegante livrea nera. Sorrideva tranquillo, guardandola di sbieco attraverso gli occhialetti rotondi.

- Si? –

- Lei non mi conosce, sono Alfred Pennyworth. Il maggiordomo del signor Wayne. –

- Ma certo, mi ricordo lei. – sospirò abbandonando di un poco la tensione, eppure faticava a comprendere il motivo di quell'approccio data la loro totale mancanza di rapporti fino a quel momento.

- Lasci che l'accompagni a casa, signorina. Gotham è pericolosa a quest'ora. – sorrise indicando la berlina nera a pochi passi da loro, prendendola in contropiede. Fino a pochi istanti prima l'unica sua preoccupazione era stata lasciare la biblioteca il più in fretta possibile, solo ora l'uomo l'aveva messa di fronte alla sua totale assenza di un piano di ritorno.

Dovette interpretare il suo silenzio come un rifiuto perché continuò più ostinato, aprendo la portiera.

- Insisto. –

- Va bene, grazie. – cedette infine. Doveva essere stato il signor Wayne a mandare il maggiordomo a cercarla, a preoccuparsi che non tornasse sola a casa. Un gesto goffamente premuroso che riuscì a strapparle un sorriso, mentre si accomodava sullo spazioso sedile posteriore e Alfred Pennyworth prendeva posto alla guida.

Trovò casa sua senza problemi, quasi conoscesse Gotham alla perfezione e solo quando la macchina si fu arrestata e l'uomo tornato ad aprirle la portiera, April infranse il lungo silenzio in cui avevano viaggiato.

- La prego, dica al signor Wayne che mi dispiace, che non è solo colpa sua. –

- Riferirò. – sorrise quasi sapesse, quasi fosse stato altre volte spettatore di una stessa scena ed in qualche modo sentì che era dalla sua parte.

- Vorrei davvero che le cose fossero andate diversamente. – confessò quello che non era riuscita a dire all'uomo rimasto alla biblioteca. Avrebbe voluto essere diversa, aver provato qualcosa di diverso, qualcosa che l'avesse indotta a restare, a porre un lieto fine su quel loro incontro.

- Buonanotte e grazie ancora. Di tutto. –

Non aveva bisogno di risposte, l'uomo aveva capito e lo seppe per certo mentre la salutava, dritto sul marciapiede annerito dalla persistente umidità.

- Buonanotte, dottoressa. – gracchiò educatamente, gli occhi azzurri nei suoi finché l'immagine non sparì, ingoiata dalle pesanti doppie porte del palazzo di mattoni con la scala antincendio a vista. 


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Capitolo 10
*** ~9~ Who's afraid of a machine gun? ***


~9~ Who's afraid of a machine gun?

Nei giorni che seguirono l'autunno morì prematuramente, lasciando che un bizzoso inverno s'instillasse con prepotenza fra le strade affollate in un perpetuo viavai. I gothamiti ormai battevano i denti nelle giacche ancora ostinatamente leggere ed un cielo color piombo si era appiccicato alle cime dei palazzi come un manifesto ormai sbiadito dalle intemperie.

Il gigante brunito che, il giorno del suo arrivo in treno, si stiracchiava nella luce riflessa dei grattacieli oltre il finestrino, era entrato all'improvviso in una curiosa stasi di nebbia e umidità, quasi fosse precipitato sul fondo dell'oceano.

Fuori dalla grande vetrata, all'ultimo piano della tozza palazzina all'incrocio fra la settima e l'undicesima, i giorni si confondevano in una bruma biancastra che risaliva imperterrita la facciata di mattoni, poi la scala antincendio, su fino al cornicione consumato dal vento e dalle piogge notturne.

Sarebbe stato facile, nella realtà sfilacciata di quel purgatorio di umidità e inquinamento, credere che le ultime settimane non fossero state nient'altro che un sogno.

Dove in lontananza si disperdeva la luce azzurrina che disegnava, giorno e notte, la gigantesca W in cima al grattacielo delle Wayne Enterprises, perdeva consistenza anche il ricordo dell'uomo che aveva preso la spiacevole abitudine di entrare ed uscire dalla sua vita a piacimento.

Era stato davvero così semplice per Bruce Wayne? Bello da far girare la testa, atletico e miliardario?

Lo era stato di sicuro. Più ripensava a quello che era successo, più si stupiva di essere caduta in quel trucchetto.

Qualche sguardo languido ben assestato, chiacchiere pretenziosamente intime di fronte ad un cocktail e ci era cascata con tutte le scarpe. Non sapeva un bel niente di lui, a parte qualche informazione che avrebbe potuto facilmente reperire su internet o su un qualsiasi giornaletto scandalistico da due soldi.

Quello che non riusciva a capire era il perché continuasse a cercarla, solo per tenerla meticolosamente fuori dalla propria vita con la precisione ossessiva di un chirurgo.

Le relazioni amorose non erano mai state il suo forte, ma sapeva per certo che escludersi vicendevolmente a quel modo non era un buon modo per iniziare ed April aveva la sua parte di colpa. Non sapeva quello che voleva da se stessa, figuriamoci ciò che avrebbe voluto da lui.

Lambiccarsi il cervello, d'altra parte, sarebbe servito ben poco alla propria autostima e con l'ospedale in subbuglio di certo non poteva prendersi il tempo necessario per rifletterci in tutta calma.

Pronto soccorso e reparto d'urgenza venivano giornalmente subissati da numeri impressionanti di piccoli delinquenti e tirapiedi della peggior specie, tutti con in comune una storia da raccontare.

Ossa fratturate, lividi, tagli e denti fuori posto. Con il terrore negli occhi confabulavano di un gigantesco pipistrello, il misterioso vigilante di Gotham, che feriva decine di criminali abbastanza seriamente da richiedere un ricovero in ospedale, ma senza mai ucciderne nessuno.

April cominciava ad essere davvero spaventata da quei racconti. Quel Batman, che si vociferava vigilasse insonne sulle strade e sui vicoli bui della città, aveva infine preso forma nei suoi pensieri, una forma ripugnante e temibile. Uno sguardo malevolo ed impietoso che pareva avesse l'abilità di spandersi ovunque a Gotham, persino nel cuore delle persone.

Si era guadagnato la fedeltà e la stima di buona parte dei cittadini di Gotham al prezzo del sovraffollamento dell'ospedale, delle ossa frantumate degli uomini su cui si era abbattuto.

Eppure le notti a Gotham erano più sicure, dicevano, per merito suo. Notti che sempre più spesso si ritrovò a dover trascorrere fra quelle asettiche mura di cemento e linoleum. 

Fino a quel giorno maledetto.

Il sole era tramontato presto la sera del 3 ottobre ed April se ne accorse solo a giro visite finito, mentre con le colleghe percorreva a ritroso il lungo corridoio del decimo piano diretta alla sala medici ed al conforto di un caffè prima di affrontare la lunga notte.

Un'unica lastra nera scorreva limpida fuori dalle spesse vetrate, interrotta solo a tratti dalle luci pulsanti delle strade e dai lumicini lontani dei grattacieli circostanti. Delle nubi temporalesche dei giorni precedenti non restava neppure l'ombra.

L'ora di cena era già passata, ma nell'aria aleggiava ancora l'odore familiare e desolante del pasto d'ospedale, misto a quello di medicinali ed antisettici. Le dottoresse chiacchieravano sommessamente per non disturbare i pazienti nelle stanze già chiuse, di sottofondo solo il ronzio ovattato delle lampade alogene disturbato a tratti dal vocio di una televisione accesa.

Poi nella quiete uno strappo. Quasi quel cielo pece si fosse all'improvviso squarciato come un lenzuolo vecchio, in qualche punto non lontano dal palazzo. Un boato risalì dal suolo, un cupo ruggito dalle viscere della terra, in un tremito che scosse pavimenti e finestre, costringendo le tre ragazze ad aggrapparsi ai corrimani d'emergenza per non rovinare a terra.

Dopo un lunghissimo istante di fatale silenzio, in cui l'intero edificio sembrava aver trattenuto il respiro in attesa di qualcosa, dalle stanze emersero grida di terrore, mentre i vetri s'incrinavano come scrollati da una forza invisibile.

I neon sfarfallarono pericolosamente sopra le loro teste e, con un unico schiocco secco, tre squilli di sirena annunciarono il blocco d'emergenza.

Senza neppure osare esprimere a parole i propri timori, ingoiando la paura che affiorava insieme ad un tremito incontrollabile, le dottoresse si divisero immediatamente secondo lo schema che era stato loro meticolosamente insegnato nelle esercitazioni.

Sapendo di non poter perdere la testa, raggiunsero ciascuna una corsia del decimo piano, bypassando con il badge dell'ospedale il blocco delle porte sterili.

Un denso fumo grigio si fece strada attraverso i condotti di ventilazione, serpeggiando sul linoleum verde chiaro mentre April passava in rassegna le stanze con la rigidità di un automa, mascherando le proprie valutazioni su un'eventuale evacuazione con un tentativo di calmare i degenti terrorizzati.

Chiunque l'avesse vista in quel momento si sarebbe certo complimentato per il suo sangue freddo, la realtà non sarebbe potuta essere più diversa. Stava solo ripetendo meccanicamente qualcosa che aveva imparato una volta, da qualche parte, non lo sapeva più, era così difficile pensare con il rombo del cuore nelle orecchie.

Sentiva le loro voci, ma alla sua coscienza sembravano arrivare col ritardo di un'eco, di una radio dalla cattiva ricezione. Avrebbe voluto fermarsi a riflettere, ma allo stesso tempo era dannatamente sicura che se l'avesse fatto, avrebbe finito col ritrovarsi anche lei risucchiata in un attacco d'ansia.

Se non era riuscito ad arrivare alla sua mente, perlomeno non completamente, di certo il panico si era impossessato del suo corpo. Stava tremando e se ne accorse solo quando perse involontariamente la presa su una boccetta di valium. Il vetro si frantumò ai suoi piedi ad una lentezza esasperante.

Erano soli, tagliati fuori dal resto dell'edificio, senza notizie su cosa fosse accaduto, su chi fosse rimasto coinvolto e da cosa.

Con i primi, inconfondibili, rumori di spari, il buio calò sul piano prima che si azionassero con un lieve ronzio i generatori d'emergenza. L'aria era di nuovo ferma, satura di qualcosa che April non aveva mai provato prima, non era solo paura, ma qualcosa di più tangibile, di più profondo.

Di nuovo silenzio, poi con uno schiocco assordante che riaprì molte delle gole asciutte intorno a lei, gli allarmi del piano scattarono contemporaneamente, dando il via al piano di evacuazione.

Da quando si era trasferita a Gotham non era mai stata coinvolta in un'esercitazione vera e propria, ma conosceva il protocollo, ricordava le lezioni che aveva seguito insieme a tutto il personale in tarda serata, anche se ora sembravano immagini sbiadite di un'altra epoca.

Sapeva che i generatori avrebbero convogliato tutta l'elettricità verso gli ascensori di emergenza bypassando il blocco, per consentire a medici e infermieri di spostare i pazienti sul tetto dove gli elicotteri avrebbero provveduto al trasferimento.

Mentre i battiti del cuore le rimbombavano nelle orecchie minacciando di sovrastare le sue parole, April cercò di spiegare brevemente il piano di emergenza. Avrebbero dovuto fidarsi di lei, prestarle tutta la loro collaborazione perché potessero essere evacuati in tutta sicurezza. Le tremava la voce, ma non avrebbe ceduto al conforto di accasciarsi in un angolo e piangere, lasciando ad altri quell'incombenza.

Con tutta la lucidità che le era rimasta riuscì a farli uscire dalle stanze, uno dopo l'altro, liberandoli da elettrodi e cannule il più velocemente possibile, evitando che qualcuno di loro nella foga strappasse gli aghi e rischiasse un'emorragia di cui non poteva occuparsi.

Si predispose a chiudere la fila, aiutando chi era impacciato nei movimenti a causa di punti di sutura ancora troppo freschi, mentre si avviavano nel corridoio in penombra, apparentemente deserto. Verso la salvezza o un ignoto pericolo.

Quando d'improvviso un colpo d'arma da fuoco fece saltare il quadro elettrico della porta sterile alle loro spalle, April avrebbe voluto gridare ma aveva la salivazione azzerata e i pensieri le si accavallavano nel cervello ad una velocità impressionante.

Cercò di far accelerare il passo, ma chiunque in buona forma fisica li avrebbe raggiunti in non meno di dieci secondi e quasi la ragazza cedette alla disperazione, quando la doppia porta rovinò al suolo con un tonfo assordante.

Ne vide emergere chiaramente quattro massicce figure e, per un istante che le parve interminabile, pregò con tutto il cuore che fossero poliziotti o perlomeno qualcuno in grado di aiutarla ad evacuare i pazienti.

Nulla si mosse finché la penombra non le restituì il rombo di quattro risate, sgradevoli, assordanti.

- E' un medico. – biascicò uno degli uomini a volto coperto, il fucile automatico che occhieggiava angosciante alla luce intermittente dei neon.

Fu una fuga senza speranza quella che April tentò per i propri pazienti e per se stessa, ma c'era ancora troppa distanza fra loro e l'ascensore, e gli aggressori godevano di un non trascurabile vantaggio fisico.

Come previsto, li raggiunsero senza fatica, senza fretta, lasciandosi il gusto di terrorizzarli, mentre le lame dei coltelli stridevano contro la parete lucida di linoleum.

In preda ad un istinto sconosciuto la ragazza si voltò a fronteggiarli, non sarebbe fuggita, non di fronte a quel tipo di uomini, la stessa risma di vigliacchi che aveva tolto la vita a suo padre. Quello più grosso si chinò su di lei, gli abiti luridi puzzavano di grasso e benzina.

- Fatti da parte, dolcezza. –

Era così vicino che l'odore di fumo e alcol scadente nel respiro le arrivò fino in gola. Non riuscì a reprimere un moto di disgusto, le unghie che si conficcavano nei palmi delle mani mentre le dita ruvide dell'aggressore raggiungevano il suo viso. Le sentiva stringere così forte da bloccarle la circolazione.

- Non vi permetterò di fare loro del male. – abbaiò sottraendosi con violenza alla presa, scioccata da quell'insano coraggio che non proveniva dalla parte cosciente del suo cervello.

I muscoli erano in fiamme e le guance pulsavano terribilmente in sincronia col treno che le correva nel petto.

Non era il momento di giocare a fare l'eroina, non poteva certo risparmiare nessuno dal male che avrebbero potuto fare a chiunque di loro, e l'avrebbero fatto, glielo leggeva chiaro in faccia.

Eppure un tarlo insistente nella sua testa continuava a suggerirle che se avevano assaltato in quel modo un ospedale non era stato certo per assassinare una manciata di medici, ma per assicurarsi farmaci e cure gratuite, incuranti dell'illegalità.

- Voglio proprio vedere come ... - ribatté quello a denti serrati, un ghigno sdentato attraverso il passamontagna, ma gli occhi neri, furiosi, baluginavano come pozze d'acqua stagnante.

Accadde tutto in poche frazioni di secondo. No, non al ritmo rallentato dei film dell'orrore, ma ad una velocità lucida, nauseante.

Il braccio armato dell'uomo si sollevò all'improvviso per sferrare un colpo. April serrò istintivamente le palpebre, tendendo i muscoli, pronta a ricevere in pieno volto il calcio di fucile che avrebbe dovuto tramortirla. Invece nulla.

Un istante più tardi il rumore di uno sparo esplose a pochi centimetri da lei, assordandola.

Una delle luci al neon del soffitto, ormai in frantumi, gettava scintille rosse sui presenti. Attraverso il soffitto squarciato, un intrico di vecchie tubature borbottava e sbuffava, congelando la scena su quella nuova falce d'ombra.

Poi qualcuno gridò. Qualcuno di loro.

Uno degli uomini incappucciati venne atterrato in una frazione di secondo da qualcosa che, dietro di sé, lasciò solo un corpo esanime e nient'altro. Il panico dilagò in quei pochi metri di corridoio come una folata di vento gelido, portando con sé qualcosa di stonato e terribile.

Con le orecchie che fischiavano, April dovette sbattere le palpebre un paio di volte per mettere di nuovo a fuoco l'ambiente mentre la luce sfarfallava pericolosamente, a tratti svaniva, quasi qualcosa di inumano fosse piombato fra loro. Trattenne inconsciamente il respiro per un interminabile momento, senza poter calmare il battito assordante del cuore, e allora la vide.

Una gigantesca ombra nera si era frapposta alla sua visuale, deviando miracolosamente il colpo di fucile con un sordo clang. Un istante ed era già sparita, senza poterne afferrare i contorni, portando con sé un altro degli uomini con il passamontagna.

- Cazzo! È lui! –

Minacce e bestemmie invasero il corridoio, mentre una sconosciuta ed apparentemente inafferrabile minaccia stava terrorizzando i loro assalitori.

Una nuova raffica di spari la scosse dal torpore e la ragazza si gettò istintivamente in ginocchio, lasciandosi sfuggire qualcosa che non assomigliava affatto ad un grido, piuttosto ad un singulto strozzato. Strinse a sé la paziente più giovane, paralizzata a pochi passi da lei, chinando la testa di entrambe.

I rumori che seguirono terrorizzarono le sue notti nei mesi a seguire. Alcuni non li riconobbe, ma altri si, assomigliavano allo schioccare di ossa spezzate.

Avrebbe voluto gridare per la violenza inaudita che si stava consumando alle sue spalle, ma la paura le aveva tolto il respiro. Di una sola cosa era certa, c'era qualcun altro là con loro, una furia cieca, terribile.

- E' il pipistrello ... è venuto a salvarci. –

- Non ci farà del male, vero? –

In contrasto con tutto ciò che le stava gridando il suo buon senso, April sollevò cautamente lo sguardo. Uno ad uno, i loro aggressori svanirono nel buio di quell'ombra, come ingoiati, finché non ne rimase uno soltanto, terrorizzato latrava al vuoto sconnesse minacce.

Per l'ultima volta qualcosa di pesante uscì dalle tenebre affilate, April la vide distintamente strisciare alle spalle dell'assassino armato ed ignaro, alta e minacciosa, era la sagoma di un enorme pipistrello. Non aveva mai avuto paura come in quel momento, eppure scoprì di non poter distogliere lo sguardo.

Vide il braccio enorme del vigilante stringersi alla gola dell'uomo, bastò un istante di pressione ed il corpo cadde a terra privo di sensi.

Per un attimo che parve interminabile, la creatura rimase lì a fissarli, immobile, gli occhi due dischi di luce bianca nel buio, in cerca di qualcosa che la ragazza non sapeva indovinare. Si augurò che sarebbe sparito, così come si era manifestato, invece rimase, raggiungendola in poche falcate.

April non avrebbe saputo dire con quale forza riuscì a rimettersi in piedi, dominando il tremito delle gambe, per fronteggiare l'enorme pipistrello. Nella penombra le orbite illuminate della maschera si spensero con un guizzo, rivelando due iridi azzurre che si conficcarono impietosamente nelle sue.

Alto come un armadio, tremendamente massiccio nell'armatura grigia, se solo avesse voluto, avrebbe potuto spezzarle il collo con una sola delle mani avvolte dai guanti rinforzati e senza neppure sforzarsi troppo.

Represse un tremito che le si era instillato alla base della nuca. Una leggera nausea si stava impossessando della bocca del suo stomaco, ma era troppo spaventata per distogliere lo sguardo, quasi tenere d'occhio le sue mosse fosse servito in qualche modo a proteggersi da lui.

- Non voglio problemi ... -

Stava annaspando e il cuore batteva così forte che credette di sentirlo rimbombare sulle pareti del corridoio. Di certo lui se n'era accorto o non l'avrebbe soppesata con quello sguardo insopportabilmente diretto, come se cercasse di guardarle fin dentro le ossa.

- Non sono qui per farle del male. Sta bene? – le chiese perentorio rompendo il silenzio, una voce scura, raspante. Avrebbe dovuto sentirsi sollevata, invece fece fatica a dominare la paura.

- Questo dovrei chiederlo a lei. –

E quella spacconata? Da dove veniva? L'adrenalina le stava giocando dei brutti scherzi, nessuno sano di mente si sarebbe messo a provocare un ammasso di muscoli in armatura, ma l'uomo rimase impassibile, continuava a fissarla, lo sguardo indecifrabile sotto la maschera nera.

- Si, sto bene. – cedette infine la ragazza, era chiaro che non l'avrebbe degnata di una risposta se non avesse prima soddisfatto quella sua semplice richiesta.

- Stanno sequestrando i medici. Molti dei suoi colleghi sono al sicuro, barricati in una stanza dall'altra parte del piano. Deve andare. Penserò io a loro. – riprese con lo stesso fiero distacco, era un ordine, ma April non avrebbe mai ceduto ad un compromesso simile.

Al di là della paura, le era rimasta ancora lucidità sufficiente per capire che sarebbe servito ben poco alla sua autostima lasciare quelle persone in balia di un destino sconosciuto, Batman o non Batman.

In un'intrusione poco gradevole da parte del suo inconscio, ricordò la voce di sua nonna di fronte ad una tazza di tè fumante. La stava rimproverando per qualcosa che non riusciva più a focalizzare.

"Sei troppo orgogliosa, bambina mia. Tu soffrirai."

- Se lo scordi. Non posso lasciarli così. Alcuni di loro hanno subito da poco un intervento, fanno fatica a camminare. Devono essere accompagnati da un medico. – si accigliò, forte di quella convinzione.

Per un attimo temette che l'uomo l'avrebbe colpita, o addirittura rapita, visto il tempo che impiegò a soppesare le sue parole.

- Va bene. La scorterò fino all'ascensore di emergenza, farò in modo che arriviate sul tetto. – gracchiò invece, il corpo massiccio che la sovrastava avvolto nel lungo mantello color pece.

- Grazie. –

Si lasciò sfuggire un sospiro, per la prima volta davvero sincera da quando il vigilante era comparso nel corridoio, salvandole la vita.

Aiutata dall'enorme uomo pipistrello riuscì a rimettere in piedi tutti i pazienti, a riprendere la fuga verso l'ascensore. Nonostante si confondesse ancora nella penombra del corridoio, April sentiva ben chiara la sua presenza accanto a sé, un respiro misurato, profondo che a passi pesanti si adattava alla loro andatura.

- Sapevo che sarebbe arrivato, dottoressa ... Batman, non l'avevo mai visto così da vicino. È davvero impressionante. – mormorò la ragazzina aggrappata al suo braccio, tremava ancora, ma gli occhi azzurri scrutavano avidamente l'uomo al suo fianco, adoranti.

- Lo è davvero. –

April abbozzò un sorriso, osservandolo di sottecchi per non farsi pizzicare. Non aveva mai visto niente del genere in vita sua.

Non c'erano dubbi che fosse un uomo, eppure il mantello che ondeggiava nella scia dei loro passi, la complicata armatura e quella maschera appuntita riuscivano a conferirgli un macabro aspetto bestiale.

Il petto ampio si alzò in un respiro, poi in un altro e di nuovo gli occhi blu incontrarono i suoi, fulminandola.


C'erano notti buone a Gotham e notti meno buone. Quella andava sicuramente ad accrescere di una tacca l'elenco delle notti pessime.

Un fianco gli doleva, nella confusione qualcuno aveva sferrato un colpo fortunato ed era riuscito a ferirlo. Tuttavia non era l'idea del livido violaceo che sarebbe comparso da lì a poche ore a disturbarlo.

Gestire dei malviventi da quattro soldi come aveva fatto negli ultimi tempi era stato fin troppo semplice, tipi come quelli se li mangiava a colazione. Ma fermare un assalto armato ad un ospedale, quella era tutt'altra cosa. Rozza, certo, eppure era difficile capire di chi fosse la mano dietro quel disastro.

Bruce cercò di dominare la rabbia, mentre a grandi falcate si addentrava nella penombra insieme alla giovane dottoressa. Qualcuno avrebbe pagato per lo scempio a cui stava ancora tentando di porre rimedio, l'avrebbe trovato e l'avrebbe fatto parlare. E non con le buone maniere.

Erano mesi, forse anni, che nessuno dei vermi che nel frattempo il suo cervello stava enumerando alla velocità della luce, tentava una mossa audace come quella. Qualcosa non tornava e il pensiero che potesse essergli sfuggito un particolare nel quadro generale dei fatti, batteva nel retro del suo cervello con la perseveranza di una goccia d'acqua.

A questo si aggiungeva la totale mancanza di lucidità che la dottoressa aveva mostrato opponendosi agli aggressori, un errore che avrebbe potuto costarle ben più del proprio orgoglio. Gli sarebbe bastato arrivare un istante più tardi.

Quel pensiero lo mandava ai matti. Forse era stata l'adrenalina, forse altro, ma il fegato che la ragazza aveva mostrato nel ribellarsi, fronteggiando quattro uomini armati per proteggere i propri pazienti, riuscì a metterlo in soggezione. Era stata una scelta stupida, avventata, ma la diceva lunga su di lei, su quello che ancora non gli aveva mostrato.

L'istinto di controllo avrebbe voluto gridarle che era stata un'incosciente ad esporsi a quel modo, ma vederla terrorizzata alla sua comparsa nel corridoio in qualche modo lo aveva turbato. Secondo lo scanner il cuore aveva continuato a batterle all'impazzata anche dopo le sue rassicurazioni, anche se tutti gli uomini armati erano stati neutralizzati. Per lei il pericolo non era mai cessato.

Per questo cercò di non guardarla mentre procedevano, concentrandosi invece sull'ambiente circostante, sui rumori che di rimando arrivavano ovattati dai condotti di areazione.

La via rimase libera fino alle lucide porte tagliafuoco dell'ascensore. Bruce premette sgraziatamente il pulsante di richiamo e con estrema lentezza il meccanismo si mise in moto.

Neppure dieci secondi e diversi colpi di fucile automatico annunciarono che non erano più soli nella corsia del decimo piano, in lontananza le minacce degli inseguitori si persero nelle grida dei pazienti terrorizzati.

Una granata fumogena esplose a pochi passi da loro, spargendo in fretta un denso fumo chimico che grattava la gola con un vago sapore di benzina. Sentì la ragazza tossire accanto a lui ed istintivamente cercò di proteggerla dagli effluvi schermandola attraverso il mantello.

Gli assalitori avanzavano senza fretta, razziavano le stanze, distruggevano finestre, qualunque cosa pur di lasciarsi alle spalle quanta più devastazione possibile. Bruce valutò attentamente quanto tempo rimaneva prima che li raggiungessero, quanto tempo poteva guadagnare per la loro fuga. I muscoli tesi, il cervello forzatamente quieto.

Finalmente le doppie porte si aprirono alle loro spalle con uno stridore angosciante, aiutò la ragazza a sistemare tutti nell'ampia cabina, tranne se stessa.

- Vada. – le ordinò spingendola bruscamente all'interno. Se le fosse accaduto qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato.

Bruce attese un insulto che non arrivò mai, gli occhi chiari lo guardarono invece con una dolcezza che non si sarebbe aspettato in quella situazione.

- La prego, faccia attenzione. –

Le porte ingoiarono le sue ultime parole e la sagoma impaurita nel camice bianco, sporco di sangue e polvere. Per un lungo istante Bruce la guardò sparire attraverso il sottile spiraglio fra le lamiere.

Passi pesanti di scarponi sul linoleum, gli dissero che l'attesa era finita.

- E' Batman! –


La salita verso il tetto sembrò dilatarsi all'infinito fra le quattro pareti, improvvisamente soffocanti, del grande ascensore d'emergenza e sui volti spaventati dei pazienti.

Quei minuti interminabili le diedero il tempo di fermarsi, di riflettere a mente appena più lucida su quello che stava accadendo, su ciò che aveva visto.

Si chiese se le sue colleghe fossero già sane e salve su un elicottero, se Batman avesse salvato anche loro e l'incertezza di quelle terribili domande riuscì quasi a farle perdere quella compostezza che era riuscita in qualche modo a tenerla in piedi fino a quel momento.

Con un cigolio assordante la cabina d'acciaio si fermò all'ultimo piano del grattacielo, aprendosi sulla pista d'atterraggio spazzata dalle enormi pale di un elicottero di soccorso. Uno dei piloti venne loro incontro in tutta fretta, aiutandola a sistemare al meglio gli otto degenti che aveva portato con sé. Troppi.

- Dottoressa, non posso trasportare un uomo in più. Torneremo a prenderla, glielo prometto. –

Le grida del soccorritore, il volto semicoperto dal casco isolante, si persero nel rumore assordante dei rotori eppure April riuscì comunque ad afferrare l'angoscia dietro le sue parole.

Di nuovo la paura tentò di sopraffarla, sarebbe rimasta sola su quel tetto, senza possibilità di tornare indietro, né di essere evacuata assieme agli altri.

Sentiva Il cuore battere dolorosamente nelle orecchie, sovrastando il rumore sordo e pulsante delle pale sopra le loro teste, impedendole di pensare.

- Andate! Portateli via, io aspetterò. – esclamò d'istinto.

Non sapeva gestire il surplus di adrenalina, e questo era un fatto. Stava mettendo ancora una volta a repentaglio la propria vita senza la minima esitazione. Guardò il pilota alzare il pollice, rimontare sull'elicottero. Ormai era tardi per i ripensamenti.

Non avrebbe potuto sperare in un secondo portentoso intervento del vigilante di Gotham, era sola. E il coraggio si trasformò in dubbio atroce, in profonda disperazione nel momento in cui l'elicottero riprese quota, allontanandosi in una nuvola di polvere e detriti, lasciandola indietro.

Lo vide sparire oltre i grattacieli, nascosto ormai dalla Wayne Tower quando le ginocchia tremarono all'improvviso, così forte da farle credere che non l'avrebbero retta per un altro istante.

La strada sottostante, lontanissima, era un tripudio di sirene e grida. Rumori ovattati di spari si confondevano all'urlo del vento, polvere e detriti le ferivano il viso e i polmoni mentre il mondo sembrava sgretolarsi sotto i suoi piedi.

Per un lungo attimo pensò a suo padre, alla paura che doveva aver provato quel maledetto giorno di quindici anni prima.

Era curioso come ricordasse gli eventi di quei giorni quasi fosse stato qualcun altro a viverli, ricordava se stessa sull'uscio di casa, mentre due colleghi di suo padre erano stati mandati a prelevarla. Si ricordava accanto a quel letto, occupato da un uomo già morto dal cuore battente, la sua mano tiepida e molle fra le proprie.

Per tre giorni aveva parlato al silenzio, finché sua nonna aveva deciso di far staccare la spina, ma non le permise di rimanere mentre il respiro di quell'involucro vuoto cessava per sempre. Per anni era stata furiosa con lui, per averla tradita, per averla lasciata sola, solo ora April poteva capire.

Perdonare era tutta un'altra faccenda, non avrebbe mai perdonato se stessa, né lui.

Il tonfo alle spalle la scosse, facendo deragliare quei pensieri in un panico istintivo, l'ascensore stava scendendo. Si maledisse fra i denti per non averlo bloccato, ma non c'era via di fuga ora che qualcuno stava arrivando. Fu un viaggio breve, di un solo piano forse e di nuovo la cabina d'acciaio tornò a cigolare, aprendosi lentamente sull'ignoto. 

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Capitolo 11
*** ~10~ Sky roundabout ***


~10~ Sky roundabout

La ragazza cercò di convincere i polmoni a fare il loro dovere, mentre uno spiraglio polveroso si apriva sulla cabina inondata dalla luce tremolante dei neon. Il nodo alla gola non voleva sciogliersi, ma la sua paura non poteva fermare il tempo in quel confortante ignoto e, dal bianco sporco che feriva l'oscurità, emersero infine tre figure armate. I passamontagna rossi e neri a nasconderne i tratti sconosciuti del volto, mentre gli occhi neri ammiccavano attraverso le fessure in un tremendo dejà-vu.

- Pensavi davvero che sarebbe stato un buon nascondiglio? –

Più che una voce, le parve il latrare roco e sguaiato di un animale selvatico, a cui l'istinto aveva insegnato l'odore di una preda a portata di mano, il controllo perfetto del territorio. April non rispose, non avrebbe saputo come. La gola riarsa, paralizzata dalla fatale consapevolezza di essere in balia di tre sconosciuti. Fra lei e la salvezza, solo un salto nel vuoto.

- Ora farai la brava e verrai con noi, dottoressa. – continuò più dolcemente, le labbra tese sul sorriso sbilenco, sui denti ingialliti dal fumo, ma l'arma rimaneva puntata su di lei in un'antitesi nauseante.

- No. –

La parola rotolò fuori senza che il suo cervello l'avesse autorizzata, rimbalzò sul cornicione del tetto, raggiunse l'ascensore ed era troppo tardi per richiamarla indietro. Tremava, eppure fra i suoi pensieri era calata una patina nuova, una furiosa rassegnazione che non le era mai appartenuta.

Dopo tutto quello che aveva visto, dopo tutto ciò che era andato perduto non avrebbe mai accettato di consegnarsi in quel modo o non sarebbe più stata in grado di guardarsi allo specchio. L'alternativa del resto era agghiacciante.

- Avete sentito? La dottoressa non vuole venire. Ti do una notizia, tesoro. Non sei poi così importante. – gracchiò l'altro di rimando, April vide la pistola fra le sue mani tremolare pericolosamente mentre rideva della sua determinazione. Qualcosa si inceppò nel suo cervello, fermò la macchina in moto ed un silenzio di tomba si sovrappose ai battiti feroci del suo cuore.

Per la seconda volta in una sola notte, vide un'arma sollevarsi su di lei, un unico occhio malevolo baluginare più scuro della penombra del tetto, mentre l'uomo dall'altra parte della canna prendeva la mira.

Le sarebbero bastati una manciata di secondi per morire, eppure il tempo non aveva rallentato come in un prevedibile cliché da film, la vita non le si era dipanata davanti agli occhi. Si sentiva congelata in quell'istante. Intrappolata nel susseguirsi di flash che illuminavano la sua coscienza annebbiata.

Poi, effettivamente, un colpo partì. Risuonò assordante nel buio del tetto, ma non per lei.

Qualcosa di più nero della notte era calato fra loro, qualcosa che dovette deviare o ricevere lo sparo al suo posto e ancora una volta era sparito, senza che April potesse afferrarne i contorni. Gli aggressori sembrarono disorientati quanto lei, scrutavano il buio come forsennati, abbaiando bestemmie, ma le armi imbracciate tremavano come canne al vento.

Non durò più a lungo di qualche istante. Uno ad uno vennero ingoiati da quell'ombra con la forza di dieci uomini.

Questa volta lo vide chiaramente, lo vide atterrarli, colpirli con una forza inaudita, furiosa finché non rimase più nulla se non quattro fagotti pesti, privi di coscienza. Non stava neppure ansimando, mentre si stagliava con la solidità di una roccia nella luce sporca dei fari guida, minaccioso, terribile e di nuovo la ragazza ne ebbe una folle paura.

- Non è al sicuro qui. Ne arriveranno altri. – gracchiò avvicinandosi a grandi falcate, gli occhi impietosi inchiodati nei suoi come schegge azzurre nel buio.

- Venga. Stretta a me. –

Di nuovo, era un ordine. April avrebbe voluto chiedere perché, odiava sentirsi alla mercé di uno sconosciuto come lo era stata degli uomini armati che l'avevano minacciata, ma sentiva pure di non avere altra scelta. Non si fidava di lui, ma la paura le serrava la gola, faceva macinare il suo cervello alla velocità di una lavatrice impazzita.

Lo vide aprire le braccia, invitandola a stringersi senza muovere un muscolo, una sensibilità che le parve fuori posto in un uomo tanto brutale. Guardandosi intorno cerò un'alternativa, pregò di averne una, ma il vento ruggiva oltre il cornicione del tetto, frustava il mantello nero pece alle spalle di lui. Non c'era modo ormai di tornare indietro.

Trattenne istintivamente il respiro, mettendo a tacere il cervello e strinse cautamente le braccia al collo dell'uomo pipistrello, senza sapere che cosa aspettarsi. Lui non la cinse a sua volta come sarebbe sembrato naturale, si limitò invece ad assicurare un cavo sottile estratto dal cinturone attorno alla sua vita.

Era tanto più alto di lei che April si trovò costretta a salire sui suoi stivali per poter mantenere la presa, eppure Batman non sembrò turbato. Si sentì un'idiota, abbarbicata a quel modo al corpo del vigilante in armatura e per un istante il pensiero che non sarebbe accaduto un bel nulla accarezzò pericolosamente la sua coscienza.

Prima che potesse elaborare un pensiero più complesso uno strano fischio invase l'aria ed un attimo dopo una forza invisibile li stava risucchiando verso l'alto ad una velocità suicida, spezzandole il fiato.

Avrebbe voluto gridare, ma l'aria gelida della sera le ferì la gola, le serrò le palpebre costringendola a nascondere il volto contro la spalla bardata dell'uomo pipistrello.

La notte si era spalancata d'un tratto sotto i loro piedi. Attraverso le ciglia ostinatamente chiuse un arcobaleno di neon e lampioni filtrava con l'assurda lucidità di un incubo ricorrente. I suoni ovattati delle strade sottostanti si impastavano dolorosamente alla pressione dell'aria sui suoi timpani, in un concerto di sirene lontane e del ronzare di cavi elettrici. Il mondo si allontanò al ritmo frenetico dei battiti del suo cuore, accompagnato dall'assurda certezza che l'unica cosa a separarla dal cemento, una cinquantina di metri più in basso, era quell'uomo fra le sue braccia.

Lo sentì gonfiare il petto largo per prendere un respiro, mentre la salita si interrompeva bruscamente, le braccia poderose si allargarono irrigidendo il mantello quasi l'avessero fatto centinaia di volte e, senza turbamento alcuno, cominciò a planare fra i grattacieli.

La pressione su di loro si era allentata, adesso il corpo del vigilante fendeva l'aria con folle naturalezza, scartando fra palazzi e pensiline della metropolitana come in un'assurda giostra.

- Dove abita, dottoressa? –

La voce roca di Batman le arrivò sovrastando di poco il fruscio del vento. April ci mise un istante a raccogliere i pensieri, le gambe molli che tremavano e la gola asciutta come sabbia.

- All'incrocio fra la settima e l'undicesima, poco oltre la Wayne Tower. Il palazzo con la scala antincendio sulla facciata. – rispose senza fiato, le unghie che affondavano invano nella corazza grigia sulle sue spalle.

- Stia tranquilla, non la lascio cadere. Non voglio farle del male. – gracchiò lui, questa volta più dolcemente, quasi divertito, prendendola in contropiede con un poco galante riferimento al cuore impazzito della ragazza che scalpitava contro il suo petto.

Per poco non si scusò April, che nella propria vita non aveva mai dovuto dubitare della propria determinazione, delle proprie convinzioni, non fino a quel momento, almeno.

Invece rimase per un lungo istante a guardare di sottecchi il viso severo, indecifrabile sotto la maschera, la linea dura della mandibola, le labbra sottili, l'innaturale profilo del vigilante che chiamavano Batman, ingoiando il proprio orgoglio.

Le aveva salvato la vita, per due volte, ma non avrebbe saputo come ringraziarlo, né avrebbe voluto farlo davvero, troppo indecisa se il suo fosse stato davvero coraggio, incondizionato altruismo o solamente un macchinoso tentativo di uccidersi lentamente, dolorosamente.

L'uomo virò all'improvviso la planata ed un colpo di vento li travolse con una secca frustata, la stabilità del volo non ne risentì affatto, eppure April avvertì i capelli turbinare in libertà nella scia e troppo tardi si accorse che si erano liberati dal piccolo ornamento d'oro sulla nuca.

Impotente, l'osservò perdersi nel buio terrificante delle strade sottostanti.


- Oh, no. Il fermaglio ... -

La voce della ragazza arrivò alle sue orecchie non più forte di un sussurro, stranamente scossa e Bruce cedette quasi alla tentazione di rimproverarla per la futilità della sua preoccupazione.

- Era di mia madre. – aggiunse, quasi avesse indovinato la durezza di quel pensiero e Bruce si sentì di nuovo stranamente scoperto, in soggezione come la sera in cui l'aveva sentita cantare.

- Mi dispiace. – gracchiò senza guardarla per non vedere se gli occhi chiari di lei stavano cercando qualcosa, scavando ostinatamente fino al suo cuore.

Ma non rispose, la sentì invece stringersi più forte, nascondere di nuovo il viso nell'incavo della sua spalla, solamente il cuore batteva ancora accelerato contro il suo petto, infliggendogli una ferita che non si sarebbe aspettato di ricevere.

La dottoressa non parlò più, non finché Bruce atterrò il più gentilmente possibile all'ultimo piano del palazzo da lei indicato, sul largo balcone senza inferriate dove si affacciava la porta finestra di un appartamento buio. La liberò dal cavo, lasciandola allontanare di qualche passo.

Sembrava stranamente contrariata, nonostante le poche parole che si erano scambiati.

- La prego, mi dica che non lo fa con tutte le donne. –

Il tono sarcastico cozzava con le sopracciglia innaturalmente vicine sulla fronte, mentre le dita raccoglievano affannate sulla spalla destra i lunghi capelli mogano che il vento aveva scarmigliato durante il volo.

- Che cosa? –

- Questo romantico passaggio fino a casa. –

Era spaventata, glielo leggeva nei chiari occhi d'ambra, nella distanza che si stava affrettando a mettere fra loro. Nonostante Bruce avesse cercato di tenere Batman il più possibile lontano dalla ragazza, in qualche modo quel loro incontro era avvenuto e lei lo stava rifiutando. Fingere che la cosa non avesse ferito il suo orgoglio, sarebbe stato inutile.

Avrebbe potuto rituffarsi nella notte e sparire, l'aveva fatto altre volte, invece rimase immobile contro il parere del proprio raziocinio.

- Non crede di essere un po' ingrata adesso, dottoressa? –

Non voleva ferirla, solo capire che cosa si nascondeva dietro quella freddezza. Quell'imbeccata sembrò far crollare parzialmente le sue resistenze, poteva vederla tremare appena stringendosi al camice impolverato.

- Ha ragione. Lei mi ha salvato la vita e la ringrazio di cuore. È che tutta questa situazione mi sembra francamente assurda ... lei si è preso una pallottola per me. – fiottò portandosi le mani alle tempie, quasi volesse scacciare un pensiero molesto, ma Bruce faceva fatica ad accettare quel suo rifiuto.

Comprendeva lo shock e la confusione che di certo si erano impadroniti di lei, li aveva già visti in altri occhi, in altri volti eppure faticò a tenere a bada la rabbia che stava montando nel suo petto ad ogni respiro.

- Avrei dovuto lasciarla morire? – si accigliò sotto la maschera, cercando di non lasciar trasparire quanto in realtà si sentisse coinvolto in quello che la ragazza aveva da dire.


- E a che cosa sarebbe servito se fosse morto al mio posto? Lei non sa niente di me. Chiunque sia la sua esistenza è certamente più preziosa della mia per questa città. –

April avrebbe volentieri ricacciato indietro la dolcezza che si era lasciata sfuggire, non voleva passare per ingrata, ma già qualcun altro si era sacrificato per lei. Qualcuno che non aveva visto la sua vita trasformarsi in un groviglio di rimpianto e dolore.

Non voleva essere responsabile per chiunque avesse pianto la sua perdita.

- Sta dicendo che la mia vita vale più della sua? –

Era furioso, gli occhi blu ridotti a fessure confuse dietro la maschera nera. Doveva sentirsi in qualche modo responsabile per lei, per quello che le sarebbe potuto accadere e la sua incolumità non era stata inclusa nell'equazione.

- Sto dicendo che ogni vita vale qualcosa. E lei non ha esitato a mettere in gioco la sua. Non me lo sarei mai perdonato se fosse morto per colpa mia. – sospirò di rimando ed era sincera. Per quanto non riuscisse ancora a comprendere appieno le ragioni che lo avevano spinto a rischiare tutto per degli sconosciuti, il suo coraggio era innegabile.

Le labbra contratte del vigilante sembrarono distendersi appena. Quegli strani occhi azzurri si impressero silenziosamente nei suoi per un lungo attimo, come se stessero soppesando le sue parole con estrema cura.

- Ha uno strano modo di ringraziare. – gracchiò infine, accigliato o forse erano solo le venature della maschera a farlo apparire in quel modo.

Si avvicinò per la prima volta da quando l'aveva lasciata sul balcone. Quasi la sovrastava, tanto era più alto e possente, ma April non ne aveva più paura.

- E lei ha uno strano modo di comunicare, visto che parla a monosillabi. –

- Chiuda gli occhi. – le ordinò nel silenzio ovattato dalla bruma, interrotto solo dall'urlo di sirene lontane, cogliendola in fallo. Eppure il suo sguardo interrogativo non trovò alcuna risposta nei chiari occhi blu, annodati ai suoi, ora in una strana armonia.

- Perché? –

- Li chiuda e basta. –

Un tono più basso questa volta, più caldo. Non era più un ordine, che lui ne fosse consapevole o meno ed April non avrebbe mai accettato di sottrarsi in quel modo alla realtà di fronte ad un minaccioso sconosciuto, ma quello era un altro tempo, un altro luogo. Qualcosa nella sua più intima natura le disse che poteva lasciarsi andare, solo per una volta, solo per un momento.

Doveva fidarsi di lui.

Nel buio dietro le palpebre, sentì l'aria scaldarsi e troppo tardi capì che, quel tepore sulle labbra, altro non era se non il leggero respiro dell'uomo. Esitò e per un lungo attimo condivisero lo stesso ossigeno.

Se avesse voluto tirarsi indietro quello sarebbe stato il momento giusto. Schiaffeggiarlo non suonava come una buona idea, ma qualunque altra cosa sarebbe andata bene. Invece rimase immobile, sapendo che era lì, così vicino che se avesse detto qualcosa le parole gli sarebbero rimbalzate sulla pelle, il cuore che all'improvviso batteva vicinissimo come se qualcuno lo avesse spostato appena oltre la soglia dei suoi respiri.

Il momento passò e con una strana lentezza, le labbra sottili ed inaspettatamente morbide del vigilante si sovrapposero alle sue in un bacio.

Odore di sangue, di fumo e gomma ... si, gomma bruciata. C'era uno strano sapore metallico sulla sua pelle come se fosse passato attraverso dei fumogeni accesi, la barba ispida le sfregava il mento e la corazza in kevlar la schiacciava all'altezza delle clavicole. Eppure non voleva lasciarlo andare.


Bruce aveva fatto una cazzata e lo sapeva. Ne era più che consapevole premendo la bocca su quella tiepida della ragazza, in un bacio che Bruce Wayne non aveva mai osato tentare. Lo sapeva, ma lasciò perdere il buon senso.

Non era la prima donna che baciava in quel modo, forse non sarebbe stata l'ultima, ma c'era anche qualcosa di profondamente diverso. Forse lasciarla andare non sarebbe stato facile quanto aveva sperato, in qualche modo la ragazza era riuscita ad insinuarsi nel suo cuore portando un curioso scompiglio.

Avrebbe potuto sottrarsi, ma non accadde, le labbra rimasero sulle sue finché Bruce non decise di interrompere quel tenero contatto.

La guardò riaprire lentamente i chiari occhi d'oro, soppesarlo per un lungo attimo ancora prima di parlare, il calore del suo respiro ancora indistinguibile dal proprio.

- Perché mi ha baciata? –

Era una domanda a cui l'uomo non aveva una risposta precisa.

- Non lo so. – rispose onestamente e di nuovo si sentì fastidiosamente inerme, scoperto di fronte a quello sguardo attento, capace di penetrare sotto la maschera, cogliere qualcosa che Bruce non avrebbe voluto lasciarsi sfuggire.

- Ci conosciamo? – mormorò stringendo appena i lunghi occhi color del tramonto, ancora così vicina che l'uomo avrebbe potuto indovinarne il quieto respiro.

- Impossibile. –

- Eppure c'è qualcosa nei suoi occhi ... qualcosa di così familiare ... -

Le dita sottili della ragazza volarono audacemente verso il suo viso, una leggerezza che Bruce non le avrebbe concesso. D'istinto le afferrò il polso, forse più forte di quanto avesse voluto.

- No! – ringhiò come un cane messo all'angolo e strinse. Strinse così forte che credette di non riuscire a controllarsi, spezzandole il polso.

Era stato incauto a rimanere, ora lo vedeva chiaramente. Sarebbe stato troppo facile farle del male e con tutta probabilità gliene avrebbe fatto se solo avesse saputo.

Lo sguardo terrorizzato della ragazza, l'improvviso affanno nel suo respiro, lo scosse, inducendolo a lasciare la presa. Aveva di nuovo paura di lui e forse avrebbe dovuto continuare ad averne. Non c'era niente per lei sotto quella maschera che non fosse un groviglio di rabbia e disperazione.


Il polso era in fiamme, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di saperlo, di sapere che l'aveva ferita. Un uomo coraggioso quanto feroce si nascondeva sotto quella complessa armatura, si vergognò ad aver creduto in qualcos'altro. Sentì le mascelle contrarsi involontariamente per resistere al dolore.

- Anche se ha la forza di dieci uomini, non creda che questo le dia dare il diritto di ferire chi vuole. –

Indietreggiò di un passo, cercando di mettere una distanza che fosse definitiva fra lei e l'uomo pipistrello. Scappare, non voleva nient'altro, sottrarsi a quegli occhi impenetrabili che troppo a lungo l'avevano costretta a guardarsi dentro, a vedersi riflessa in quella freddezza così simile alla propria.

- La ringrazio ancora per avermi salvato la vita, non potrò mai ripagarla per questo. Ora però deve andarsene e possibilmente non tornare mai più. Addio. –

Non si aspettava una risposta e l'uomo, dopo un lungo istante, non fece che voltarle le spalle.

Lo guardò inoltrarsi nella bruma sottile che sporcava il buio, un'ombra minacciosa che si allungava oltre il cornicione, ma non lo guardò sparire, né seppe se si era voltato indietro, quando aprì la porta finestra rifugiandosi nelle tenebre calde e familiari dell'appartamento.


Nell'aria immobile di quella lunga notte, lo sguardo ferito della giovane dottoressa tornò più volte a tormentarlo, come un pungolo nel cuore, un battere fastidioso fra le costole ed il proprio rimorso. Si era convinto così a lungo che la ragazza l'avrebbe rifiutato, se solo avesse conosciuto quella parte di lui, che aveva finito con l'accadere.

Che cosa doveva essere Batman per lei, se non quello che era per qualunque altro cittadino di Gotham? Un'ombra, un ricordo sfuggente, tremendo prima dell'alba, eppure Bruce l'aveva baciata, aveva lasciato che le parole di lei s'insinuassero tanto a fondo da lasciarlo scoperto, umano.

Avrebbe potuto passare delle ore a riflettere sui motivi che l'avevano spinto ad avvicinarsi a lei, ad ignorare per una volta le ferree regole che si era imposto, eppure, prima di poterlo realizzare davvero, si era già messo alla ricerca del fermaglio che dai capelli mogano le era sfuggito durante il volo.

Lo trovò prima del sorgere del sole, curiosamente indenne, impigliato ad un filo per il bucato. Esitò a stringerlo nel palmo quasi quelle sue mani grandi, sgraziate avessero potuto mandarlo in frantumi da un momento all'altro.

Lo guardò per un lungo istante, indeciso, chiedendosi per una volta quale fosse la cosa giusta da fare, senza esserne ciecamente convinto. Si chiese se Bruce Wayne e Batman avrebbero mai potuto convivere innamorandosi della stessa persona, due volte, in due momenti diversi, se quei sentimenti un giorno non l'avrebbero distrutto.

Pensò ad Alfred, a quello che per lui aveva sempre voluto. Alfred che su di lei aveva già una chiara opinione. "Potrebbe diventare una straordinaria Signora Wayne, un giorno." gli aveva detto qualche giorno prima, ma Bruce aveva riso per scacciare l'illusione di qualcosa che in quel momento era doloroso anche solo immaginare.

Nel suo cuore quel fermaglio pesava come un macigno, un oggetto tanto insignificante all'apparenza, eppure fra le sue dita stava acquisendo nuova luce, un nuovo significato. Cercò di ricordare quello che suo padre gli aveva insegnato sull'amore, ma le parole erano andate perdute fra la polvere del tempo.

Erano stati amori fugaci i suoi, intensi. Tanto velocemente erano divampati quanto facilmente si erano spenti, ma nessuna si era fermata tanto a lungo da rimanere, Bruce le aveva deluse tutte in un modo o nell'altro.

Non voleva questo per lei, solo di questo era dannatamente sicuro.


Quella mattina, come tante altre, fu Waffle a svegliarla con le sue fusa insistenti. Eppure April avrebbe preferito non alzarsi dal letto, non accendere la TV per scoprire che ciò che aveva vissuto fosse ancora vero, ancora tanto vicino da serrarle la gola al solo ricordo.

Un rivolo di sudore freddo stava ancora colando lungo la sua schiena, non aveva dormito bene quella notte, forse non aveva dormito affatto. Aveva ricordi di un sonno turbato, superficiale, quella spiacevole sensazione di quando si è troppo stanchi per tenere gli occhi aperti, ma troppo vigili per perdere conoscenza.

Nel buio dietro le palpebre serrate in una morsa, come quelle di una bambina terrorizzata da un temporale troppo vicino, l'occhio nero della pistola baluginava in un angosciante ripetersi di scatti.

Annegando quei pensieri in un angolo del proprio inconscio, accarezzò per un lunghi attimi l'esile gatto color miele, quasi a scusarsi per quella sua negligenza. Non voleva raggiungere la cucina, prendere in mano un cellulare che non avrebbe fatto altro che squillare.

Quelle ultime ore sembravano essere trascorse nel tempo rallentato dei sogni, irraggiungibili, sfilacciate quasi fossero state vissute da qualcun altro, eppure le ferite sottili alle dita, al viso, le raccontavano una storia diversa.

Sul polso il segno rosso dove si erano chiuse le dita dell'uomo pipistrello doleva ancora, un dolore sordo, pungente, che stranamente la ragazza avvertiva nel cuore invece che sulla pelle. Lui le aveva salvato la vita, una vita che April non aveva mai sentito tanto in pericolo, ed allo stesso tempo l'aveva ferita tanto a fondo da lasciarla più stordita di quanto non fosse stata in cima a quel grattacielo, sola, terrorizzata.

Sapeva che cosa l'avrebbe aspettata nei giorni successivi, oltre ad un meticoloso recupero di tutti i documenti sensibili dell'ospedale, di sicuro le sarebbero state imposte diverse sedute di terapia per valutare l'entità del trauma subito.

Non voleva parlare di lui, di quello che aveva significato per lei guardare nei chiari occhi azzurri, freddi e terribili, di quanto assomigliassero a quello che sentiva, a quello che di se stessa non aveva mai voluto vedere.

Di nuovo desiderò ardentemente non essersene mai andata, di avere ancora accanto la presenza ruvida e rassicurante di sua nonna, qualcuno che le dicesse che cosa doveva provare. Avrebbe dovuto essere terrorizzata per aver rischiato la vita a quel modo, ma non lo era, avrebbe dovuto essere grata all'oscuro vigilante di Gotham, ma non voleva.

Richiuse gli occhi d'oro sulla tenue penombra della stanza, sperando di ricadere nel sonno, sperando di poter cancellare quella confusione dietro le palpebre chiuse, ma inutilmente. Pensare era l'unica cosa che non avrebbe mai potuto negare a se stessa.

Raggiunse a passi lenti la cucina, preceduta da Waffle, riempì la ciotola a tentoni, ma non riuscì neppure a pensare di poter mangiare qualcosa. L'idea di tornare per qualche giorno a Boston accarezzò pericolosamente i suoi pensieri, mentre la luce sporca del mattino entrava copiosa dalle tende finalmente aperte.

Guardò per un attimo il luogo esatto dove solo poche ore prima lo aveva visto sparire, un'ombra immensa, terribile. Non le aveva neppure detto il suo nome, Batman, quasi avesse dato per scontato il fatto che la ragazza avesse dovuto conoscerlo, o forse no. Ricordò quello sguardo fisso, impenetrabile nel suo, quasi a volerla tenere fuori a tutti i costi, una strana reazione la sua per un eroe.

Il solo pensiero la fece talmente arrabbiare che si convinse a distogliere sguardo e pensieri da quell'angosciante ricordo, eppure, un attimo prima che si allontanasse dalla finestra qualcosa brillò distintamente all'angolo del suo campo visivo, attirando la sua attenzione.

Bastò a fermarle il cuore, a farle spalancare la doppia porta finestra ed uscire sulla grande terrazza a piedi nudi, ignorando il freddo. Raccolse con cura il piccolo fermaglio d'oro, che qualcuno aveva depositato di fronte all'ampia vetrata.

Il sole stava già sorgendo oltre la Wayne Tower,rimbalzava frantumandosi in mille colori fra i neon spenti e le finestre oscurate. April osservò il terrazzo, quasi l'uomo fosse ancora lì a guardarla e sorrise. 

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Capitolo 12
*** ~11~ The one side of a medal ***


~11~ The one side of a medal


- Padron Bruce, temo che svegliarsi alle tre del pomeriggio sia troppo tardi persino per un giovane miliardario. –

La voce pungente di Alfred interruppe il suo sonno all'improvviso, in modo piuttosto dissonante rispetto al vuoto senza sogni in cui era caduto addormentandosi.

L'ambiente odorava di caffè e le braci ancora accese nel caminetto impregnavano l'aria di un vago aroma di pino, ma qualcos'altro si mescolava pungente alle sue narici premute sul cuscino. Sangue, doveva essere sangue.

Bruce aprì lentamente gli occhi blu, accecati dal sole pomeridiano, su una stanza che per poco non riconobbe, data la sua recente quasi totale permanenza nella caverna. I muscoli gli dolevano tutti, come se avesse corso una maratona in quelle poche, sfuggenti ore di reale riposo, dopo giorni di pattuglie notturne.

- Caustico come sempre, vedo. – biascicò tirandosi su a fatica fra le lenzuola disfatte, appena sporche di sangue rappreso.

Non lo degnò di una risposta, anni al suo fianco gli avevano regalato la saggezza necessaria a non cedere alle provocazioni di un malconcio vigilante in riposo.

Lo guardò abbandonare il vassoio con la colazione e l'occorrente per medicazioni sul comodino in ciliegio intarsiato, gli occhi azzurri che cercavano i suoi sotto le sopracciglia aggrottate.

- Pare che Batman sia di nuovo in prima pagina. – osservò cautamente, srotolando il giornale che ogni mattina piegava con cura e riponeva accanto alla tazza di caffè bollente.

Bruce non aveva certo bisogno di leggere per sapere come Batman aveva contribuito a sventare l'attentato al Gotham Mercy, avvenuto quasi tre giorni prima. Né aveva bisogno di un promemoria sul buco nero in cui sembravano essere cadute tutte le piste che aveva battuto per cercare il responsabile.

Non un nome, né una traccia in tre notti. Era un fantasma ad aver orchestrato quella complessa dimostrazione di forza.

- Già. – rispose atono, grattandosi distrattamente la barba ispida. Sapeva benissimo dove Alfred aveva intenzione di condurre quel discorso, ma non aveva alcuna voglia di parlarne.

Si alzò in piedi, ignorando il caffè ed il pane tostato, per cercare di scaldare i muscoli dolenti e intorpiditi, di sbloccare le articolazioni ormai fredde.

Un brivido involontario gli attraversò la spina dorsale, quando alle sue orecchie arrivò il sordo cling della boccetta di disinfettante appena aperta.

- Ha telefonato alla signorina? Sono sicuro che si sarà presa un bello spavento dopo tutto ciò che le è capitato. – insinuò Alfred con una casualità che non si addiceva alla sua intelligenza, strappando a Bruce solo un breve sospiro.

Non era più lui a condurre quella conversazione, ma l'uomo che ora lo guardava impietosamente fare flessioni alla velocità di un forsennato sul pavimento gelido pur di non rispondere.

- Sta bene. –

- Allora l'ha vista, signore? –

Doveva rendergliene merito. Sembrò quasi stupito, mentre impregnava distrattamente un batuffolo di cotone del liquido scuro nella temuta boccetta. Gli anni lo avevano reso di certo un attore migliore di quanto non avesse creduto.

- Si, e non è andata come credi. Mi ha chiesto di sparire dalla sua vita. – si accigliò Bruce, rialzandosi in piedi per accostarsi alla grande finestra blasonata all'altro capo della stanza.

Al di là del vetro umido di bruma, il paesaggio si stava già spegnendo sotto i colpi incessanti di quel gelido autunno. Guardando le foglie smorte turbinare sul lungo viale d'accesso, in balia di un vento bizzoso, era facile dimenticare il tepore interno dell'ambiente.

Abituato com'era alla pioggia notturna, fitta e penetrante come chiodi sull'armatura, il freddo ormai era diventato una parte di lui. Se lo sentiva nelle ossa, sotto la pelle, aveva scavato un tunnel fino al suo cuore dove si era impastato indissolubilmente al rimorso che gli cresceva dentro.

Non esistevano braci accese abbastanza a lungo da strapparlo a quel senso di solitudine.

Il dolore pungente alla spalla interruppe il filo dei suoi pensieri, serrandogli le mascelle in uno schiocco sordo.

- Lo sai che fa male, vero? – abbaiò eloquente all'uomo alle proprie spalle, rabbrividendo al tocco inaspettato del cotone impregnato di disinfettante sulla ferita alla schiena che, solo la notte precedente, Alfred lo aveva aiutato a ricucire.

- Certo che sì. Mi perdoni, signore, ma mi pare di capire che la signorina abbia chiesto a Batman di ... sparire. Non a Bruce Wayne. – lo rimproverò con quella colpevole dolcezza che Bruce aveva imparato a conoscere dopo tanti anni, ma alla quale non aveva mai saputo come sottrarsi.

Era perfettamente consapevole di quanto di più sensato ci fosse in quelle parole, lo aveva sempre saputo, eppure aveva permesso che la paura prendesse il sopravvento, tagliandola fuori.

- Non posso ... - sospirò a denti stretti, lasciando che il dolore occupasse anche solo per un attimo la sua mente, che lo costringesse a lasciarsi andare.

- Se non ora, quando? Anche lei ha diritto ad essere felice, padron Bruce. Non la lasci andar via, per una promessa fatta ventisette anni fa. L'ha mantenuta più a lungo di quanto non avrebbe fatto una qualunque persona sana di mente. – ribatté piano, senza perdere la calma.

- Batman ha fatto la differenza. La notte è più sicura ... è più sicuro per le famiglie passeggiare in strada, è più sicuro tornare a casa. –

Era stato Batman a riportarla sana e salva su quel tetto, per quanto ne fosse rimasta terrorizzata. Non sarebbe bastato un suo rifiuto a farlo desistere dalle proprie convinzioni.

- Questa è solo una faccia della medaglia, padron Bruce. So cosa la trattiene, ma credo che lei abbia già reso fieri i suoi genitori mille volte tanto. Forse è il momento di rendere fiero se stesso. –

Avrebbe voluto accontentarlo, poter mettere da parte il proprio rimorso, ma non faceva parte di lui e temeva che non lo avrebbe mai fatto.

In tutti quegli anni essere felice non era mai rientrato nelle possibilità che Bruce si era concesso. Il lusso di amare, essere amato, avere una famiglia non si addicevano all'uomo che era diventato. Si era scelto una gabbia ed in quella gabbia era vissuto per trentasei anni, senza mai voltarsi indietro.

Aveva un debito nei confronti di suo padre, di se stesso, un debito che non aveva mai smesso di nutrirsi della sua rabbia, del suo rimpianto e con essi era cresciuto, fino a togliergli ogni cosa.

Senza degnarlo di una risposta, si diresse verso lo scrittoio in mogano che era appartenuto a suo padre prima di lui, afferrò una penna e della carta intestata su cui scrisse solo poche righe.

- Mandale dei fiori ... con questo. – gracchiò porgendogli il biglietto chiuso, che Alfred prese fra le dita curando attentamente di non incontrare il suo sguardo.

- Come desidera. –

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Capitolo 13
*** ~12~ Flowers ***


~12~ Flowers

Le avevano detto che Gotham era una città piovosa.

L'acqua scorreva sullo sporco, lavava via il marcio dalle strade, portava via segreti indesiderati che si celavano agli angoli delle strade, a volte trascinava via con sé persino qualche chiacchierone di troppo.

La pioggia era un sollievo. Oscurava la luce, celava la trasparenza insopportabile della corruzione, cosicché paura e preoccupazioni potessero sciogliersi e scivolare via lontano, dove nessuno era costretto a guardare.

Ma l'acqua non era caduta sulla patina di cenere e sporco che ricopriva ancora il piano terra del Gotham Mercy. Il silenzio era assordante nei corridoi in macerie, si mescolava all'odore penetrante di benzina e stoffa bruciata, al grigio smorto del linoleum carbonizzato.

Non c'era da sorprendersi se nessuno volesse rimanere in ascolto. Dimenticare era una prospettiva fin troppo allettante e i gothamiti sapevano dimenticare.

Il sole stava già calando su quella nitida domenica d'autunno, la prima davvero libera da quando April si era trasferita a Gotham. Ci erano voluti un assalto armato e la distruzione di un intero reparto a regalarle quell'attimo di pace, una pace che pure la ragazza non sapeva come godersi.

Erano stati tre giorni frenetici quelli che erano seguiti all'incidente, così lo avevano chiamato i notiziari.

La polizia non aveva fatto altro che andare e venire, chiedendo deposizioni, facendo rilevamenti, le armi in bella vista appese ai cinturoni di cuoio ed un insopportabile guizzo di colpa negli occhi sfuggenti sotto le visiere dei berretti.

Uno stormo di assicuratori in colletto bianco aveva già provveduto a calcolare l'entità dei danni strutturali e morali, mentre medici ed infermieri, ammutoliti dalla paura e dalla fretta di dimenticare, si erano limitati a raccogliere flaconi in frantumi e cartelle bruciacchiate per ridare un senso alla quotidianità fra quelle quattro mura.

April aveva rassicurato così a lungo, e così tante persone, che ormai si era quasi convinta di non aver più nulla da dire, di non avere lacrime per ciò che era successo. Se fosse vero, non l'avrebbe saputo dire. Teneva di gran lunga di più alla salute di sua nonna, che a qualsiasi timore le attanagliasse la gola alle prime luci dell'alba.

Rivedeva spesso quella pistola puntata diritta al suo petto ed, allo stesso tempo, anche l'ombra spaventosa dell'uomo che si era interposto fra loro, risparmiandole il colpo. A volte avrebbe giurato di aver scorto la sua sagoma di solida pece in lontananza, di notte, proprio sul tetto del palazzo adiacente, ma il tempo di un battito di ciglia ed era già sparita.

Trascorsero quei tre giorni come in un sogno, lunghissimo, si, eppure senza peso, ininfluente, culminato in quella domenica pomeriggio in cui qualcuno bussò insistentemente alla porta dell'appartamento, distraendola dal computer portatile e dal divano in pelle usurata.

- E' lei la dottoressa April Holloway? – chiese atono un ragazzino slavato in divisa marrone, i pigri occhi color topo che sbirciavano attraverso lo spiraglio della porta serrata dalla catena di sicurezza.

- Si, sono io. –

- Una consegna per lei, dal signor ... Wayne. – sospirò gettando una veloce occhiata alla cartellina consunta su cui era appuntato il modulo da contrassegnare.

April dovette raccogliere un istante i pensieri, prima di aprire la porta e prendere in mano la penna che il ragazzo le stava già distrattamente porgendo.

- Firmi qui, prego. –

Sulle prime l'istinto fu quello di rifiutare. Non si vedevano dalla serata dell'asta in cui la ragazza lo aveva goffamente respinto, lui d'altro canto non aveva dato segni di volerla vedere ancora, né si era interessato alla sua recente esperienza, ancora stampigliata in prima pagina sugli ultimi numeri del Gotham Gazette.

Più si sforzava, meno capiva quel suo comportamento da sfinge svampita. Forse voleva qualcosa da lei, forse anche April si era scoperta ad aver immaginato qualcosa di più di semplici incontri fugaci ai margini della vita di entrambi.

Eppure, che ne fosse consapevole o meno, Bruce Wayne finiva col dissipare quei tentativi d'intimità in una strenua chiusura, nell'ostinata finzione di chi sa come mentire ed ha avuto tutta la vita per imparare a farlo.

Diceva di non avere risposte per lei, come a mettere un punto fermo fra ciò che poteva e non poteva essere nel suo cuore, ed ora le spediva dei fiori. Un uomo così indeciso non poteva portarle nulla di buono.

Eppure firmò, attese pazientemente che il ragazzo in palese piena pubertà le consegnasse il più delicato ed elegante bouquet che avesse mai ricevuto, e per un lungo istante rimase sulla soglia, i fiori stretti fra le braccia che quasi non potevano contenerli, guardando il corriere sparire.

Più irritata che realmente sorpresa tornò nell'appartamento, indecisa se destinare immediatamente l'omaggio floreale a qualcun altro o se assecondare il fastidioso batticuore, e chiamare il centralino della Wayne Tower nella speranza di essere messa in contatto col suo ufficio.

Erano belli, quei fiori, non erano rose, né gigli, ma orchidee, gladioli e tulipani, inusuali per qualcuno che volesse chiedere scusa o forse solo chiederle di uscire. Aveva visto benissimo il piccolo biglietto poggiato fra i petali inebrianti, eppure le dita esitavano ad afferrarlo.

Si decise a leggerlo solo dopo qualche minuto, una volta sistemato il bouquet in un vaso e raggiunto un compromesso con se stessa. Solo poche righe, in una calligrafia slanciata ed elegante, tracciate su di un piccolo foglio intestato alle Wayne Enterprises.

"Dottoressa, ho saputo solo oggi dai giornali dell'incidente al Gotham Mercy. Vorrei scusarmi per non averla cercata. Anche se sono cosciente possa sembrare una scusa banale, purtroppo ero fuori città per affari. La prego, accetti questo mio goffo tentativo di chiedere perdono.

Con la speranza che stia bene e che le piacciano i fiori,

Bruce Wayne."

April avrebbe desiderato la forza di strappare quel biglietto filigranato, l'enorme banalità con cui era stato scritto e dimenticare quel Bruce Wayne, che dal primo momento non aveva fatto altro che propinarle menzogne.

L'aveva detto lui stesso. Un gesto insipido, per un uomo distratto, impegnato in qualsiasi cosa al di fuori dei sentimenti altrui. Era stata ingiusta con lui e se ne era pentita, ora quei sentimenti avevano intrapreso una brusca inversione di marcia.

Avrebbe voluto non facesse così male, avrebbe voluto davvero contare qualcosa di più seppure avesse preferito non ammetterlo a se stessa. La forza di strappare il candido cartoncino non arrivò, rimase abbandonato accanto al semplice vaso di porcellana sul basso tavolino in legno grezzo. Monito di ciò che avrebbe dovuto ricordare.

Le guardò un'ultima volta, prima di tornare allo schermo del vecchio portatile ancora acceso sul divano, e trattenne a stento le lacrime di rabbia che si affacciarono ai suoi occhi.

Che cosa vuoi da me?

April lasciò che i giorni scivolassero via, mentre i fiori appassivano sul tavolino del salotto spargendo un vago aroma dolciastro in tutto l'appartamento. Non li guardava nemmeno più rientrando a casa da un lavoro da cui avrebbe preferito non riemergere, non per ora.

E neppure aveva raccontato alle colleghe quella prodezza del signor Wayne, sicura che l'avrebbero, in un modo o nell'altro, convinta a cercarlo, a ringraziarlo. Per cosa poi? Per averle regalato menzogne ed insicurezze, per averla illusa su qualcosa in cui la ragazza non aveva mai creduto in vita sua.

Aveva trascorso la propria infanzia guardando suo padre, quello che era diventato dopo la morte dell'unica donna che avesse mai amato. Forse lui aveva sempre creduto di saper fingere, di non dare a vedere il varco che la morte di sua madre gli avesse aperto nel cuore, purtroppo April aveva presto intuito quanto scarse fossero le sue doti di bugiardo.

L'aveva amata, le era stato ciecamente accanto fino al giorno in cui era tornato per l'ultima volta dalla sua stanza di ospedale senza dire una parola. Lo ricordava ancora seduto sulle asettiche sedie in plastica di un corridoio che odorava di disinfettante e disperazione. Un uomo vinto, solo, al cui dolore non era mai riuscito dare voce.

A lei che era ancora una bambina, era stata sua nonna a dare la notizia. Parole che April ormai faceva fatica a riportare alla mente, ma suo padre no, suo padre la realtà l'aveva compresa fin dal principio, ci si era scontrato alla velocità di un treno in corsa, doveva essersi impressa nel suo cuore con la forza inesorabile di un cataclisma.

Di quei bei momenti non era sopravvissuto il caldo ricordo che tutti gli avevano assicurato sarebbe rimasto. Aveva cresciuto sua figlia con l'amore goffo e ruvido di chi non fa affidamento sulle parole, ma pur sempre con amore. L'aveva guardata assomigliare a sua madre ogni giorno un po' di più, eppure il dolore non si era mai attenuato. Poi suo padre era morto, così com'era vissuto, infelice nel profondo.

Solo allora April aveva compreso che l'amore non era quello che tutti credevano che fosse, ma un'arma a doppio taglio, una scelta azzardata nell'equazione della vita. Nulla di quello che aveva vissuto era mai riuscito a darle prova del contrario, ed ora Bruce Wayne aveva dimostrato, come lei, di non voler accettare quel rischio, che sarebbe stato più facile non illudersi, non desiderare.

Nel frattempo il Gotham Mercy era quasi tornato alle sue vecchie funzioni dopo l'attentato. Nonostante i lavori ancora in corso, tutte le macerie erano state rimosse dal piano terra, le porte sterili sostituite ed i pazienti erano tornati nei rispettivi letti dopo il breve trasferimento.

Grazie all'intervento di Batman quasi tutto il personale medico era uscito dalla disgrazia con le proprie gambe e perfettamente incolume, eppure sull'intera faccenda era caduto ben presto il più completo silenzio. Giornali e speaker radiofonici dai toni isterici, erano passati a rosicchiare l'osso successivo ed i gothamiti erano tornati a sonni ben più tranquilli.

Quella notte, come lei, più d'uno dei suoi colleghi aveva annusato la prospettiva di ricevere una pallottola con su scritto il proprio nome ed occupare la mente in una familiare routine sembrava l'unico modo abbastanza allettante da permettere loro di guarire.

Le cartelle versavano ancora in un disordine pietoso, dopo l'incursione da uragano in cui gli aggressori a volto coperto sembravano essersi divertiti a mandare all'aria persino il lavoro d'archivio.

Molte andavano chiuse, altre erano disperse o distrutte, perciò la maggior parte dei medici più giovani era stata assegnata a lavori d'ufficio, in attesa che l'ingranaggio tornasse alla consueta efficienza.

Le scartoffie apparentemente infinite, che si accumulavano sulla scrivania d'acciaio di uno degli ambulatori al decimo piano, finirono per ingoiare il suo tempo.

Era trascorsa una settimana dal giorno in cui aveva ricevuto quei fiori che l'aspettavano smorti al suo ritorno, senza voler mai appassire del tutto. Una settimana in cui la ragazza aveva tentato in tutti i modi di dimenticare la frustrazione, d'ignorare la ferita che l'incuranza di Bruce Wayne aveva aperto fastidiosamente dentro di lei.

Era sempre stata sicura delle proprie convinzioni, del proprio giudizio, aveva intuito fin dall'inizio che quell'uomo l'avrebbe ferita, in un modo o nell'altro, eppure, per quanto avesse deciso di spingerlo fuori, il volto squadrato, gli occhi sfuggenti ed il sorriso un po' spento erano comunque riusciti a farsi strada dentro di lei.

Di una cosa era certa, se queste erano le condizioni non lo voleva accanto a sé. Poteva aver ingannato il mondo intero per quanto le interessava, con quella sua apparenza da sregolato miliardario. Eppure, dietro la maschera, April aveva intravisto un uomo pieno di contraddizioni e di incertezze, che nel goffo tentativo di fare la cosa giusta avrebbe ferito chiunque intorno a sé.

Si scoprì a leggere la stessa riga per la terza volta, quando il telefono bianco semicoperto dalla pila di cartelle squillò, riportandola bruscamente alla realtà.

- Si? – rispose distrattamente sollevando la cornetta e la voce metallica dall'altro capo le suggerì immediatamente che fosse una chiamata interna.

- Dottoressa, una telefonata per lei. – chiosò con una certa urgenza la voce da topo dell'infermiera all'accettazione.

Sembrava sulle spine a tenere l'interlocutore in attesa ed April non tardò a capirne il motivo.

- E' il signor Wayne ... riguardo la donazione ... - continuò l'altra in tono eloquente, quasi a voler risparmiare le parole, e la ragazza ebbe la fulminea sensazione che il cuore avesse clamorosamente fallito una contrazione.

Avrebbe preferito firmare altre cento cartelle, piuttosto che rispondere a quella chiamata. Sarebbe scappata, se avesse potuto, lontana dall'uomo che con meticolosa insistenza tornava a tormentarla ogni qual volta avesse fatto un po' di chiarezza fra i propri sentimenti.

- Si, certo. Me lo passi pure. – rispose invece dopo qualche secondo di esitazione.

Aveva dato parola di occuparsi personalmente di quella donazione, rifiutare avrebbe significato, tra le righe, compromettere la sua posizione lavorativa. L'infermiera non la salutò neppure prima di riagganciare, con una fretta figlia di un rispetto che tutti sembravano riservare incondizionatamente all'uomo all'altro capo del telefono.

- Signor Wayne? – azzardò non appena sentì qualcuno riprendere la linea, qualcuno che pure tardò un istante a rispondere.

- Dottoressa ... come sta? Ha ricevuto i miei fiori? – sorrise Bruce Wayne, la voce profonda leggermente arrochita dal ricevitore.

- Bene. Si, si. Erano splendidi, grazie. –

Ignorò dolorosamente l'istinto di riagganciare, di impedirgli di sorriderle a quel modo dopo il loro ultimo, brusco incontro.

- Mi spiace non aver chiamato prima, io ... -

Sembrava mortificato, nonostante l'usuale compostezza nei toni, ma April non gli avrebbe mai permesso di continuare, non per mentirle ancora una volta. Perché scusarsi per qualcosa che non aveva voluto portare a termine?

- Signor Wayne, perché ha chiamato? – tagliò corto lei, nascondendo la leggera irritazione nella voce, qualcosa che non seppe dire se l'uomo avesse colto o meno.

- Certo. Sarei passato di persona oggi stesso, ma ho avuto un contrattempo. Le spiacerebbe raggiungermi più tardi qui alla tenuta Wayne con i documenti per la donazione? –

L'invito la colse di sorpresa, accelerando i battiti del suo cuore, e per un lungo istante, l'idea di delegare qualcun altro accarezzò pericolosamente le sue intenzioni.

I documenti erano lì sul tavolo, accanto a lei, le dita li raggiunsero istintivamente quasi avessero potuto aggrapparvisi per avere una risposta e, di nuovo, la ragazza si lasciò andare al ricordo del loro primo incontro nel lungo corridoio tappezzato d'arazzi, al viso bello e piacevole dello sconosciuto dagli occhi blu.

- Si, nessun problema. – cedette infine, gettando consapevolmente alle ortiche il suo buon senso.

- Posso mandarle una macchina se preferisce. – azzardò l'uomo, forse altrettanto indeciso sulla natura di quel loro rapporto, quasi entrambi si stessero ancora muovendo a passi lenti su un campo minato.

Eppure April era ben lontana dal poter accettare, già una volta se n'era andata bruscamente consapevole di essergli debitrice di una premura come quella ed aveva solo finito col pentirsene.

- Non si disturbi, prenderò un taxi. A più tardi, allora. –

Lo salutò in fretta, sperando che l'uomo non intuisse quanto quel leggero batticuore le stesse togliendo il respiro.

- A più tardi, dottoressa. –

Sembrò che stesse ancora sorridendo, mentre la ragazza riagganciava senza salutarlo un'ultima volta.


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Capitolo 14
*** ~13~ Rock-climbing ***


~13~ Rock-climbing

Salendo sul taxi qualche ora più tardi, April si limitò a guardare in silenzio i contorni grigi della città svanire sotto le ruote consunte della sbiadita vettura gialla.

Nell'aria umida, la diafana luce rosata del tramonto rimbalzava sulle vetrate dei grattacieli con la prepotenza di un colore acrilico. Si frammentava sui neon ancora spenti, nella fine pioggerella sospesa in quell'atmosfera densa e odorosa.

Era ormai troppo tardi per tornare indietro, troppo presto per farsi un'idea sbagliata sulle intenzioni di quel Bruce Wayne che, dacché si erano conosciuti, non aveva fatto altro che mandarle messaggi contraddittori.

Sembravano quasi eseguire entrambi una complicata danza, si rincorrevano a tratti per poi lasciare la presa, facendo finta che tutto quello che si fossero mai detti fino a quel momento fosse stato niente più che un sogno bizzarro.

Aveva rinunciato al pomeriggio di libertà prima del turno di notte per raggiungerlo, per ascoltare qualunque cosa avesse avuto da dire. Non l'avrebbe mai ammesso eppure, nel cuore, la speranza che le cose tra loro potessero ancora funzionare, era viva, nonostante tutto.

Per la terza volta da quando si era trasferita a Gotham, l'auto lasciò il centro affollato di grattacieli per dirigersi verso l'ariosa periferia. Ritaglio grigio fra le colline tinte di uno spento giallo autunnale, Wayne Manor era l'unica costruzione visibile già da qualche miglio di distanza, rendendo difficile per i gothamiti considerarlo ancora parte della metropoli.

Il gigantesco cancello affacciato sul viale d'ingresso si aprì automaticamente al loro arrivo, permettendo al taxi di accompagnarla fino al portone in quercia annerita.

Una volta arrestata la corsa Il nerboruto tassista non proferì parola, anche se dallo sguardo diffidente sotto le spesse sopracciglia nere, April indovinò quanto raro dovesse apparire un ospite in pieno giorno alla tenuta della famiglia Wayne.

Non le chiese neppure se dovesse aspettarla, afferrò sgraziatamente le banconote e invertì la marcia, lasciandola ancora una volta sola di fronte al minaccioso portone.


Bruce sentì a malapena il rumore del campanello. Sedendosi, in attesa, sulla poltrona nello studio di suo padre doveva essere piombato in un sonno istantaneo.

Avvertì i passi di Alfred sul marmo del corridoio, il cigolare ovattato della porta d'ingresso sui cardini e sbadigliò, grattandosi distrattamente le guance già ispide.

Avrebbe voluto offrirle una vista più presentabile di un completo sporco di due giorni, occhi cerchiati e quel lieve assopimento che l'aveva accompagnato per tutto il giorno.

Lei non l'avrebbe mai indovinato, ma proveniva dal computer della Batmobile la telefonata di quella mattina, una mattina in cui era stato talmente impegnato nell'evitare di tornare a casa da essersi scordato di essere ferito.

Fu il dolore a ricordarglielo, mentre azzardava un leggero stiramento nel tentativo di valutare i danni. Sarebbe rimasto in piedi senza problemi, magari avrebbe dovuto sbrigare quell'incontro più velocemente di quanto avrebbe voluto, ma con un po' di fortuna la ragazza non si sarebbe accorta di nulla.

- Padron Bruce, la signorina la sta aspettando all'entrata. Non ha voluto accomodarsi. – esordì Alfred, attraverso la porta semiaperta dello studio, deludendo all'improvviso le sue aspettative. Forse non era il solo ad avere fretta di terminare l'appuntamento, eppure il pensiero riuscì comunque a turbarlo.

- Arrivo. –

Si rimise goffamente in piedi, stringendo i denti per ingoiare le fitte di dolore, e seguì Alfred fino al foyer sperando nel frattempo di riguadagnare un aspetto civile ed un'espressione serena.

Non si era tolta neppure il cappotto, pensò, guardandola sostare a pochi passi dal portone, ringraziare Alfred sottovoce mentre l'uomo li lasciava l'uno di fronte all'altro. Sapeva quanto poco si fidasse di lui, quanto possibilmente ancora meno di Batman, eppure sorrise vedendolo comparire sulla soglia.

- La ringrazio per essere venuta con così poco preavviso. –

- Non si preoccupi. Spero di non essere in ritardo. –

Scosse delicatamente il capo facendo ondeggiare la lunga coda di cavallo sulle spalle.

- Sembra sempre molto impegnato, non vorrei farle perdere tempo. – continuò senza guardarlo negli occhi, le dita che stringevano saldamente la cartellina blu con i documenti, quasi avessero voluto aggrapparvisi.

Era bella anche infagottata nella sciarpa grigia per proteggersi dal gelo fuori stagione. Bruce avrebbe voluto dirglielo, dirle quanto la sua presenza cambiasse qualcosa dentro di lui, invece ricambiò il sorriso in silenzio, avvicinandosi di un passo ancora.

- Incontrarmi con lei non potrebbe mai essere una perdita di tempo, non si preoccupi. – rispose con una dolcezza che sempre più raramente traspariva nei suoi discorsi. Era facile parlare con lei, mostrarle il suo cuore.

- Ho portato con me tutti i documenti, possiamo guardarli insieme o posso lasciarglieli se preferisce. –

Sentiva fitte ad ogni respiro, una spalla ancora non rispondeva del tutto ai suoi comandi, probabilmente avrebbe dormito per quindici ore filate appena toccato il letto, ma in quel momento non se la sentì di lasciarla andare come aveva preventivato.

- Possiamo visionarli nel mio studio, venga. – continuò con l'accenno di farle strada, lasciando andare in un respiro il dolore che defluiva dalla ferita ancora aperta.

- Signor Wayne, lei sta sanguinando. –

Le parole allarmate della ragazza lo fermarono bruscamente, ma solo quando ne incontrò gli occhi, calamitati sulla camicia scoperta, si accorse della chiazza scarlatta che si allargava a vista d'occhio sul suo fianco sinistro.

Un errore stupido, il suo, lasciarle vedere qualcosa del genere.

- No, la prego. Non è niente. –

Tentò di richiudere in fretta la giacca, ma le dita esili di lei già lo stavano trattenendo, allontanandone l'avambraccio dalla visuale.

- Dalla quantità di sangue non si direbbe. Deve farle male, forse ci vorranno dei punti. – chiosò facendosi più vicina, la mano ancora sulla sua giacca in una curiosa naturalezza, ma non tentò di toccare la ferita, limitandosi ad inchiodare lo sguardo impietoso al suo.

- Ne dubito fortemente. È solo un graffio. – si schermì Bruce, sperando di deviare la sua attenzione, eppure si sentiva in qualche modo lusingato dalla sua preoccupazione.

- Non faccia il bambino! Venga in ospedale con me. –

Le sopracciglia sottili si avvicinarono sulla fronte in un piglio di disapprovazione. Se fosse stato nei paraggi, Alfred l'avrebbe applaudita per l'audacia di quel rimprovero.

- Niente ospedale. – ribatté forse con più freddezza di quanta avrebbe voluto mostrarne e, com'era accaduto solo pochi giorni prima, la ragazza sembrò accusare il rifiuto rinunciando al contatto col suo braccio.

- Almeno mi lasci dare un'occhiata. –

Bruce si limitò a prendere un respiro, indeciso sul da farsi. Lasciarla entrare avrebbe significato mettere in gioco qualcosa di molto più delicato ed instabile della propria salute fisica. Si fidava di lei, sapeva che sulla sua intelligenza e discrezione avrebbe potuto contare, ma se si fosse innamorato, di certo l'avrebbe perduta.

Coniugare quelle due metà della sua vita era già difficile abbastanza, senza dover coinvolgere i sentimenti e la vita di qualcun altro. Nella promessa che aveva fatto non rientrava nulla che fosse abbastanza simile alla felicità da concedergli il lusso di una vita amorosa, come quella di qualunque altro uomo.

La dottoressa avrebbe meritato di meglio, di quello era sicuro, eppure continuava a cercarla, anche nel profondo del cuore. Continuava a ripetersi che gli sarebbe bastato averla accanto, anche per quei brevi momenti rubati al caso.

- Lei è proprio un gran testardo, sa. – incalzò dato il suo prolungato silenzio sulla questione.

- Da che pulpito. –

Si lasciò sfuggire un sorriso divertito, che contrariamente alle sue aspettative addolcì l'espressione della ragazza in un vago, quanto spontaneo sorriso.

- Va bene. Venga, le faccio portare l'occorrente. – gracchiò infine, cercando di captare con lo sguardo la presenza di Alfred nelle vicinanze.

- Alfred ... -

Lo schiocco dei passi sul marmo lucido precedette la sagoma esile, che già emergeva dalla penombra dietro l'enorme scalinata in legno del foyer.

- Ho sentito, signore. –


Il salotto della tenuta, così come il foyer e la sala da ballo, era un ambiente arioso, quanto dal gusto sofisticato.

La luce polverosa del tramonto filtrava diafana dalle impalpabili tende bianche alle finestre blasonate, aperte su un giardino dal curato prato inglese. Accarezzava i pannelli in ciliegio che ricoprivano le pareti, regalando all'ambiente un naturale senso di tepore.

Due grandi divani in pelle Chesterfield Oxford troneggiavano di fronte ad un caminetto in pietra finemente intagliata. Nel ventre nero del focolare braci rosse scoppiettavano nel silenzio, diffondendo un piacevole odore di pino e cenere.

Ciò che delle pareti non era nascosto dalle preziose perline in ciliegio, era occupato da pesanti librerie e paesaggi dipinti ad olio, interrompendosi solo nelle due larghe finestre sul lato della stanza più esposto alla luce del giorno.

Solo allora April trovò il coraggio di liberarsi dal cappotto grigio, abbandonandolo insieme alla sciarpa sullo schienale trapuntato di uno dei due divani, mentre il signor Wayne sfilava a denti stretti la giacca scura, senza riuscire a nascondere una smorfia di dolore.

Lo osservò sedersi sul divano più ampio, sbottonare la camicia azzurra, senza trovare il coraggio di aiutarlo.

Da quando lo aveva visto sanguinare, non aveva riflettuto neppure un istante sulle conseguenze delle proprie azioni.

Aveva pensato spesso a lui negli ultimi tempi ed era giunta sempre alla medesima conclusione, ma adesso che era lì, così vicino che April poteva distinguere chiaramente l'odore della sua colonia in mezzo a quello del legno, delle braci e della pelle tirata a lucido dei divani, mentire sarebbe stato inutile.

Nel profondo del cuore sapeva di voler solo riuscire a penetrare quella spessa maschera di solitudine che Bruce Wayne portava indosso.

Gli si sedette accanto, aspettando pazientemente che sfilasse anche la camicia macchiata e, per la prima volta esitò ad incontrare i suoi occhi, sentendo nell'aria la stessa intimità che più volte aveva avvertito nei loro incontri. C'era ancora una strana armonia in quel loro silenzio, qualcosa di tiepido, quanto stranamente familiare.

Lo sentì deglutire a vuoto e di nuovo lo sguardo inciampò nel suo, bello come il cielo d'agosto. Nonostante quella sua stazza minacciosa da pugile, i muscoli tesi sul torace e sulle braccia, sembrava stranamente a disagio, quasi facesse fatica a trovare le parole adatte ad infrangere il silenzio.

- Mi dica se le faccio male. – fiottò April sollevandogli delicatamente il braccio per scoprire il fianco sinistro, dove un taglio netto e trasversale sanguinava appena all'altezza del costato.

Ne tastò appena i contorni gonfi, cercando di indovinarne la profondità, sforzandosi di ignorare la tenerezza con cui le iridi blu dell'uomo vagavano su di lei.

- E' un brutto taglio, ma non credo siano necessari punti di sutura. Solo qualche steri-strip. – dichiarò infine, aiutando il braccio a riabbassarsi delicatamente per tornare in posizione di riposo.

- Come se l'è procurato? –

- Roccia. Facendo roccia. – rispose prontamente il signor Wayne, con un candore che non l'avrebbe convinta neppure in mille anni.

Aveva lavorato in un pronto soccorso abbastanza a lungo da riconoscere quel tipo di ferita, ma soprattutto abbastanza da smascherare un bugiardo patologico.


- Roccia ... - ripeté con una malcelata nota di sarcasmo, mentre Alfred posava delicatamente il vassoio con l'occorrente per la medicazione sul basso tavolo in noce di fronte a loro.

Bruce non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi mentre si allontanava, sicuro di trovarvi nascosto un meritato rimprovero.

- Cos'ha da guardarmi così? – sbottò invece rivolto alla ragazza, gli occhi d'oro piantati nei suoi in un chiaro sguardo di diffidenza.

- Lei deve pensare che io sia o molto stupida o molto ingenua. Mai vista una parete di roccia procurare una ferita da coltello. –

Non si sarebbe mai concesso la leggerezza di pensarlo, Bruce aveva sempre saputo che la dottoressa era fin troppo sveglia per credere ad una sola delle sue balle, eppure doveva tentare, per quante volte fosse stato necessario.

- Senta, tutti abbiamo diritto ad avere i nostri segreti, signor Wayne. Quindi non indagherò oltre e farò finta di essermela bevuta. Però, la prego, la prossima volta faccia più attenzione. Qualunque cosa stia facendo. – continuò con una dolcezza che Bruce non si sarebbe aspettato, mentre le dita sottili impregnavano una garza di acqua fresca, quel tanto che bastava a ripulire la pelle dal sangue quasi rappreso.

- Ci proverò. –

Rabbrividì al contatto, scoprendo quanto la ragazza gli fosse curiosamente vicina ora che poteva avvertirne il delicato profumo, il leggero respiro.

Per un lungo attimo si concesse di osservarla, cedendo alla consapevolezza che il cuore batteva più forte fra le costole ammaccate da quando si trovava così inerme di fronte a lei, di quanto l'avrebbe desiderata nella sua vita, come qualcosa di più.

- In cambio le chiedo solo di smettere di essere così formale. Mi chiami Bruce. Infondo ormai mi ha visto senza camicia. –

- Va bene ... Bruce. Solo se mi chiamerai April. –

Sorrise e solo allora l'uomo si accorse di quanto si era perduto, di quanto avrebbe potuto essere felice accanto a lei, se solo avesse voluto.

- April. È un bel nome, molto meglio di Bruce comunque. – gracchiò, incontrando i suoi occhi oltre quel velo di diffidenza ormai lacerato, stupendosi di quanto suonasse naturale quella loro conversazione.

- Grazie. Mi è sempre piaciuto. –

Posò sul vassoio la garza rosata, solo per impregnarne una seconda con la scura soluzione disinfettante dell'infame boccetta.


- Scusami ... brucerà un pochino. – sussurrò April una volta poggiato il cotone sulla ferita aperta, vedendolo serrare i denti, senza pure lasciarsi sfuggire un lamento.

Sarebbe stato stupido da parte sua negare quanto la vicinanza dell'uomo riuscisse a cambiare il suo umore, quanto ancora di lui avrebbe voluto sapere.

Stava tremando e pregò che Bruce non se ne accorgesse. Erano anni che non si trovava così vicina ad un uomo, che non provava quelle stesse sensazioni, eppure per la prima volta dopo tanto tempo scoprì di non desiderare solamente di voler scappare.

Il cuore batteva come un tamburo nel petto, mentre l'uomo respirava quieto accanto a lei, gli occhi blu che ora vagavano distratti fra le trame del tappeto persiano sotto i loro piedi. Poteva avvertire il lieve profumo di colonia e sapone della pelle chiara, la tensione forzata nei muscoli del torace.

Un fisico fin troppo allenato per un giovane miliardario, la cute ruvida stramente marchiata da una fitta mappa di diafane cicatrici, segni che aveva già visto nella sua vita, quelli sul corpo di suo padre.

- Quante cicatrici. A vederti normalmente non si direbbe. – fiottò d'istinto, accigliata, tracciando con la sola punta delle dita le trame d'avorio sottile sulle spalle, sulla schiena, persino sui pettorali.

Sembrava aver combattuto in una battaglia infinita, una battaglia di cui April non riusciva ad indovinare la ragione.

- Non fanno più male ormai. – mormorò di rimando Bruce Wayne, lo sguardo esitante, quasi confuso, perso nel suo in contrasto con la dolcezza della voce bassa, raspante.

Solo allora April si accorse di quanto avevano dovuto essersi avvicinati in quei pochi minuti e le sembrò stranamente naturale il modo in cui le loro labbra si incontrarono nel leggero silenzio.


Durò solo qualche istante, le labbra morbide della ragazza premute sulle sue, il leggero respiro di lei sulla pelle, i battiti accelerati della carotide sotto il palmo della sua mano. Non era la prima volta che la baciava a quel modo, eppure non poté negare quanto di sincero ci fosse stato in quel gesto.

La dottoressa non aveva dato segno di volersi sottrarre, eppure Bruce non poteva dimenticare la sua esitazione ogni volta che aveva provato ad avvicinarsi a lei.

- Mi dispiace, non avrei dovuto ... - sussurrò ancora sulla sua bocca, una volta che le labbra della ragazza ebbero lasciato le sue.

- No, va bene. – sorrise lei, provocandogli uno strano quanto rapido tuffo al cuore.

- Pensavo non volessi per ora ... con qualcuno ... -

Cercò nei suoi occhi una traccia della diffidenza che era esistita in ogni loro incontro, ma non la trovò, sembrava solamente ferita, quasi si fosse pentita di aver dubitato di lui.

- Non è questo. È che ho come la sensazione che potrei farmi male con te. Capisci? –

Si sottrasse delicatamente, abbassando per un istante l'orizzonte nei chiari occhi d'oro e Bruce non se ne stupì. L'aveva voluta con sé, senza raccontarle nulla di ciò che era, di ciò che avrebbe desiderato.

- Si, lo capisco. –

- Tu mi piaci davvero, Bruce, non voglio allontanarti. Ma devo prima potermi fidare e tu non mi stai aiutando. –

Avrebbe voluto confessarle molte più cose di quante non ne avesse dette a se stesso, quanto avesse significato quel bacio per lui, dopo tanta solitudine.

Quasi cedette, ma più di qualunque altra cosa, più di quanto facesse male sapere quello che per gli altri era diventato, voleva proteggerla, tenerla fuori da quella parte della sua vita.

- Ha senso. – gracchiò distogliendo lo sguardo da quello allungato ed elegante della ragazza, lasciando che riprendesse quietamente a medicare la ferita.

- Ecco, ho fatto. Cerca di cambiare la medicazione una volta al giorno e di tenere pulita la ferita e nel giro di qualche settimana andrà meglio. Evita la roccia per un po'. – esordì dopo un poco, rompendo il silenzio denso in cui erano caduti dopo quel loro primo, bizzarro bacio.

- Farò del mio meglio. – ridacchiò Bruce, testando con cautela la tenuta della medicazione, eppure avrebbe dato qualunque cosa perché Alfred fosse stato lì con lui a suggerirgli la cosa giusta da fare.

Ci pensò su un istante, se l'avesse lasciata andare ora senza dire una parola di certo non l'avrebbe aiutata a fidarsi di lui.

- So che può sembrare improvviso, ma ti andrebbe di rimanere per cena? Qualcosa di informale. –

Sentì il cuore battere fastidiosamente vicino alla gola, sorpreso dalla sua stessa avventatezza.

- Mi piacerebbe molto, ma sono di turno stanotte. Mi dispiace ... - rispose abbattendo le sue speranze, eppure sembrava sincera, non stava cercando di scappare.

- No, no non devi scusarti, davvero ... -

Non lo lasciò finire, mentre le dita raggiungevano le sue oltre la distanza che era tornata a separarli, un dolce sorriso sulle labbra piene.

- Potremmo sempre rimandarla a domani, quella cena informale. Se per te va bene. –

- Si. Si, domani sarebbe perfetto. –

- Ora devo proprio andare. – sussurrò poi in un respiro mentre la mano scivolava via dalla sua, rialzandosi a prendere il cappotto grigio, i lunghi capelli mogano che si tingevano di nuovi riflessi alla luce del caminetto acceso.

- Ti accompagno. –

Fu difficile salutarla senza parlare ancora di quello che era avvenuto nel salone, di quanto avesse significato per entrambi.

Si lasciarono forse in maniera un po' goffa, coscienti di aver tradito lo scopo di quell'incontro, eppure Bruce non avrebbe scambiato quei pochi attimi con nient'altro al mondo.

Si era sentito vivo dopo tanto tempo, un uomo qualunque, libero di amare chiunque avesse desiderato, lieto per una volta di essere stato solamente Bruce Wayne per la ragazza che in silenzio aveva accettato finalmente la cortesia di un passaggio fino a casa.

La guardò sparire nella lussuosa macchina nera attraverso le strette finestre del foyer, la cartellina che gli aveva lasciato ancora stretta fra le mani ed il petto pieno di sentimenti contrastanti.

Quasi non si accorse della presenza di Alfred alle sue spalle, mentre l'auto percorreva a ritroso il lungo viale alberato nella luce del giorno che moriva.

- Padron Bruce, sono molte le cose per cui un uomo dovrebbe rimproverarsi. A mio parere, innamorarsi non è una di queste. –


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Capitolo 15
*** ~14~ Who are you, Bruce? ***


~14~ Who are you, Bruce?

Non era mai stata sua abitudine, eppure April si ritrovò a contare le ore che la separavano dal goffo invito a cena con cui lei e Bruce Wayne si erano accomiatati il giorno precedente.

C'era una strana emozione in quell'attesa, una quiete delicata nel pensiero di lui, di quello che con naturalezza li aveva portati così vicini fino a sfiorarsi oltre ogni sensata previsione.

April avrebbe voluto lasciare a casa le proprie paure, tutti i dubbi che in quegli anni le avevano impedito di abbandonarsi ai tiepidi sentimenti, che anche adesso si affacciavano con insistenza al suo cuore.

Eppure era difficile dare un nome a ciò che provava, a quello che aveva sentito accanto a Bruce Wayne su quel divano, lo stesso familiare senso di intimità che aveva guidato ogni loro incontro. Se solo avesse saputo come parlargliene lo avrebbe fatto, ma dubitava che avrebbe creduto a qualcosa che lei stessa stentava a capire.

Più di una volta nei suoi occhi aveva notato un bagliore che da tempo sembrava essere scomparso dalla sua vita, una tenerezza strana, fragile per un uomo come lui.

C'era qualcosa fra loro, qualcosa di curiosamente armonico ed esitante, era sicura di averlo avvertito nei momenti in cui gli era stata così vicina da ascoltare il moto lieve del suo respiro.

Per quanto potesse sembrare in contrasto con tutto ciò su cui aveva rimuginato negli ultimi tempi, April non aveva paura, non più.

Certo, Bruce Wayne non era esattamente il tipo d'uomo che avrebbe desiderato accanto a sé, se solo avesse saputo cosa desiderare. Le aveva mentito, più di una volta, ma le aveva anche sorriso con una sincerità che mancava in qualunque ritratto di se stesso preferisse mostrare in pubblico. L'aveva guardata con quell'intima, confortante tenerezza.

Avrebbe voluto essere diversa, riuscire a penetrare quel velo di solitudine dietro ai suoi occhi senza doversi guardare dentro. Avrebbe voluto offrirgli di più di una donna sola, avvelenata da un antico rimorso.

La sua presenza non le era indifferente, di questo era assolutamente certa, eppure, più di qualunque altra cosa, desiderava che l'orologio tornasse indietro, che le regalasse anche solo per un istante la compagnia di sua madre. Lei avrebbe saputo cosa dire, avrebbe saputo cosa fare.

Non tornò a casa per cambiarsi dopo il lavoro, tenendo fede alla loro promessa di concedersi solo una cena informale. Così, per la terza volta da quando si era trasferita a Gotham, salì silenziosamente su un taxi diretto alla tenuta della famiglia Wayne.

Al suo arrivo, molte delle vetrate del gigantesco maniero occhieggiavano luminose penetrando le ombre gonfie di brina, come la notte in cui si erano conosciuti, ma la ragazza non trovò alcun maggiordomo ad aspettarla all'ingresso, bensì Bruce stesso.

Sorrideva accostato al portone di quercia annerita, quasi avesse atteso pazientemente il rumore delle ruote sul selciato. April si sentì sollevata nel notare la semplice polo blu, tesa sul petto allenato, i pantaloni di un neutro color kaki e non il solito completo italiano.

La salutò piuttosto goffamente per essere il playboy miliardario più ambito di Gotham, e per la prima volta la ragazza ebbe l'impressione di aver toccato un nervo scoperto, quasi l'uomo non avesse messo in conto da molto tempo l'idea di essere semplicemente se stesso.

L'accompagnò nella moderna cucina al pian terreno, la più grande che April avesse mai visto, dove già l'anziano maggiordomo trafficava sapientemente fra gli imponenti fuochi a gas.

La luce di diverse lanterne d'ottone, sospese sui lucidi pensili in acciaio e legno laccato, riverberava piacevolmente sulle piastrelle dai delicati motivi azzurri che attorniavano il mobilio dal gusto sofisticato e funzionale, degno di un ristorante stellato.

Cenarono nell'aria densa e profumata, seduti al bancone in granito della lunga isola addossata al lato più lungo della stanza, ed insieme alle loro prime parole di nuovo quella fragile intimità tornò a farsi strada nel suo cuore.

Ascoltarono i racconti di Alfred sull'infanzia, quasi idilliaca, dell'uomo che già arrossiva seduto accanto a lei, come se si conoscessero da sempre, quasi si fossero ritrovati dopo una lunga assenza.

Quei sette lunghi anni che li separavano la ragazza non riusciva a sentirli, mentre ridevano l'uno accanto all'altra abbarbicati sugli sgabelli in legno antico, i piatti semi vuoti e gli occhi blu dell'uomo che per una volta non esitavano ad incontrare i suoi oltre i bicchieri di vino rosso ancora pieni.


- Ti piace qui? - le chiese ad un tratto, senza conoscerne il reale motivo, forse solo per godere di quel sorriso sulle labbra scure ancora per un istante.

- Si, moltissimo. Non avevo mai visto una cucina così grande ad essere onesta. -

Rise in un respiro, gli occhi d'oro che già si perdevano fra le pareti grigio chiaro del locale che Bruce non aveva mai sentito come proprio, come quasi nessun'altra parte della casa, eccezion fatta per lo studio di suo padre e la caverna parecchi metri sotto i loro piedi.

- Cucini spesso? -

La domanda lo colse in fallo. Dietro lo sguardo quieto della ragazza si nascondeva la stessa ingenuità in cui l'uomo aveva esiliato qualsiasi altro rapporto avesse mai avuto con una donna ed, inaspettatamente, il pensiero tornò a pungolarlo come in tempi meno frenetici.

- Dio, no. Combinerei un disastro. Se non ci fosse Alfred credo che morirei di fame nel giro di qualche giorno. - si schermì, grattandosi la barba già ispida, chiedendosi pure da quanto non avesse avuto l'occasione di sentirsi tanto inadatto di fronte a qualcuno.

La ragazza non sembrò affatto sorpresa, lo sguardo annodato al suo senza malizia, sorrideva quasi a prenderlo in giro, qualcosa di cui l'uomo non l'avrebbe mai rimproverata.

- Ne convengo. Una volta ha provato a cucinare un uovo fritto, non le nascondo di aver pensato ad un furto di qualche genere date le condizione pietose in cui versava la cucina. - intervenne Alfred, tutt'altro che in suo soccorso, eppure Bruce non poteva essere più lontano dall'aversene a male.

Erano anni che la risata di una donna non invadeva quelle pareti. Assomigliava curiosamente a quella, ormai sbiadita, di sua madre o forse la memoria gli stava solo giocando qualche brutto scherzo.

- E lei, signorina? Le piace cucinare? - continuò Alfred, guardandola di traverso, gli occhi azzurri sporti sopra le piccole lenti rotonde. Lo stesso sguardo complice che aveva usato con lui in tempi migliori.

- Ho dovuto imparare. Mia nonna, a discapito dei cliché, è una cuoca terribile. In un paio di occasioni credo abbia tentato di avvelenarmi. Non la biasimo del tutto, sotto esami diventavo intrattabile. -

Non si tradì April, nascondendo i sentimenti dietro un ghigno appena trattenuto, eppure nel fondo dei chiari occhi color del tramonto era in agguato lo stesso dolore che più di una volta Bruce aveva dovuto ingoiare nei lunghi giorni di solitudine della sua infanzia.

La guardò raggiungere il bicchiere con le dita sottili, un vago sorriso sulle labbra bronzee, senza mai berne il contenuto.

Avrebbe voluto offrirle molto di più dell'uomo ferito ed intrattabile che era, dell'uomo che non avrebbe bevuto neppure una goccia del vino costoso nel calice di cristallo per paura di dover all'improvviso lasciarsi Bruce Wayne alle spalle, diventare la creatura che sempre più spesso si cibava delle sue notti, lasciandolo stanco e desolato.

- E' stata mia madre ad insegnarmi. Non direttamente, purtroppo. Per fortuna mio padre aveva conservato tutti i suoi libri di ricette. -

Il sorriso non lasciò il viso delicato, ma si spense nella tenerezza volutamente distante di quella piccola confessione. Alfred, come lui, dovette notarlo perché interruppe il frenetico sciabordio di stoviglie per riservarle tutta la sua attenzione.

- Deve esserci molto legata. -

- Si, è così. -

Non sembrava turbata, mentre lo sguardo si allacciava grato a quello dell'uomo oltre il bancone in granito.

Alfred aveva la straordinaria dote di toccare la corda giusta al momento giusto, per tanto tempo Bruce aveva detestato questa sua precisione meccanica, capace di affondare dritta ai suoi punti deboli.

Ora capiva che altri avevano saputo cristallizzare i propri ricordi in qualcosa di meno distruttivo di una promessa dedita al sacrificio di sé.

Con uno scatto secco mise a tacere il mormorio delle fiamme azzurre che danzavano sul ripiano e, dopo aver impilato nel lavello le stoviglie usate, si accomiatò con la solita flemma.

- Bene, è meglio che mi ritiri ora. Più si invecchia più è difficile fare le ore piccole. È stato un piacere, miss. La prego, torni a trovarci presto. Lasciate tutto così com'è, ci penserò io domattina. Buonanotte, signorina, signorino Bruce. -

- Buonanotte, e grazie di tutto. -

Le parole della dottoressa lo inseguirono fino all'entrata della cucina, dove Alfred s'inoltrò con un cenno del capo per sparire nel corridoio, accompagnato solo dal lieve rumore delle scarpe italiane sul marmo lucido e dalle ombre che da secoli si aggiravano silenziose fra le pareti.

- E' un uomo meraviglioso. Si vede che ti vuole molto bene, sei fortunato ad averlo accanto. - constatò la ragazza tornando a guardarlo e Bruce non trattenne un sorriso.

- Lo so, non troverei neppure i calzini senza di lui. -

Fu sorpreso di dare voce così facilmente alla pura e semplice verità. Di recente non si era soffermato troppo su spesso su chi o che cosa stava lasciando indietro nel disperato tentativo di un mettere ordine al caos che si consumava intorno a lui.

- Spostiamoci, ti va? - continuò balzando giù dallo scomodo sgabello in legno antico. Le porse la mano e, con inaspettata naturalezza, April l'afferrò, lasciandosi aiutare a riguadagnare terra.

- Si. -


April lo seguì attraverso le stanze al piano terra, stranamente consapevole della mano ruvida e tiepida dell'uomo nella sua, mentre il tramestio dei loro passi si perdeva nel silenzio profondo di quel veliero di pietra abbandonato sulla collina.

La guidò di nuovo nel salone foderato di perline in ciliegio in cui si erano baciati solo un paio di giorni prima, trasfigurato dalle lunghe ombre della sera.

L'aria densa che emanava dal camino acceso profumava di pino e cenere, conferendo alla penombra un chiarore aranciato che accarezzava appena la pelle lucida dei Chesterfield e la superficie intagliata del legno.

Metteva in risalto un particolare che April non aveva notato durante il trambusto della sua prima visita. Lambito vivacemente dalla luce tremante delle braci, un grande dipinto ad olio troneggiava sull'intera sala dalla mensola in marmo del caminetto.

La ragazza riconobbe immediatamente il padrone di casa nel compassato ragazzino dai vivaci occhi blu, incastonato per sempre fra le figure genitoriali in elegante abito da sera.

Bruce la fece accomodare sul divano dirimpetto al focolare, tornando da lei con due bicchieri dal taglio irregolare in cui sciabordava un liquore ambrato che April riconobbe subito come scotch.

- Sono contento che tu abbia accettato l'invito di stasera. - esordì lui sovrastando lo scoppiettio burbero delle fiamme in sottofondo.

- Lo sono anche io. -

Stavano di nuovo tergiversando. Mistificare è un'arte, un'arte che chi ha bisogno di allontanare determinati pensieri conosce fin troppo bene.

Sembrava nervoso. April lo guardò prendere un sorso amaro, solo per tornare a rigirasi nervosamente fra le mani il bicchiere, minuscolo al confronto con le sue dita, mentre le iridi azzurre si perdevano fra le trame di uno spento verde foresta del tappeto persiano.

- So che i nostri ultimi incontri sono stati alquanto ... burrascosi e me ne prendo la colpa. Ma c'è una cosa che vorrei chiederti e vorrei che rispondessi sinceramente. Cosa c'è che non ti convince di me, April? -

Per quanto non fosse preparata ad una domanda così diretta, April aveva pure una chiara idea di quale fosse la risposta. L'aveva maturata nel proprio cuore per giorni, dal momento in cui si erano incontrati.

- Non è questo. Io penso davvero che tu sia un uomo decisamente migliore di quanto tu stesso non creda o non lasci credere agli altri. Eppure ... chi sei veramente, Bruce? - soffiò cercando i suoi occhi attraverso le trame del tappeto, smarriti. Li annodò ai propri e sorrise.

- Se c'è una cosa che maman mi ha insegnato è che il valore di un uomo non si misura dalla sua ricchezza, né dalla sua forza, ma da quello che costruisce, quello che dà agli altri. Da quando sono arrivata a Gotham ho visto entrambe le cose in te. Tu costruisci, faresti qualunque cosa per questa città. Quindi mi chiedo, perché fingere di essere quello che non sei? - continuò con una dolcezza che da tempo non riconosceva nella propria voce, trattenendo l'istinto di sfiorarlo.

- Una donna saggia, tua madre. -

- Lo era. -

- Mi spiace, non volevo sembrare insensibile. - si affrettò a dire con il cipiglio di chi sa di aver toccato un nervo scoperto, ma era sorprendentemente facile parlarne con lui, con quel fisico da puglie e gli occhi sperduti di un ragazzino.

- Non fa niente, è stato tanto tempo fa. - lo fermò con una scrollata dei lunghi capelli scuri.

- Mentirei se dicessi che non sento la sua mancanza ogni giorno, che non darei qualunque cosa pur di averla accanto anche solo un altro momento, ma ho imparato a conviverci anni fa. È il tempo che ci è stato concesso. -

Ed era vero. Per anni aveva cercato nella sua memoria, nello specchio e fra le pareti della vecchia casa il fantasma di sua madre. La ricordava con la vaghezza tiepida di un sogno, con la certezza che aleggiasse ancora da qualche parte fra il suo cuore e ciò che si era lasciata alle spalle.

A volte le era persino sembrato di vederla. Li spiava, muta, con la sua consistenza eterea di bruma primaverile attraverso le stanze vuote, la sua risata argentina che rimbalzava sulle pareti macchiate dall'umidità salmastra. Solo suo padre sembrava non essersene mai accorto.

- Lo capisco, non sai quanto. - sospirò Bruce lasciandosi sfuggire più di quanto, con tutta probabilità, aveva preventivato di lasciar intendere.

- Bruce, so che qualcosa ti tormenta. Credimi, so riconoscere quell'espressione. Dopo la morte di mio padre ho chiuso il mio cuore a qualunque cosa, a qualunque sentimento purché riuscissi a sentire meno dolore. Dopo un po' diventa più facile. Quindi lo capisco. Non dobbiamo parlarne per forza. -

- No, va bene, mi fido di te. -

Gli occhi blu saettarono attraverso le fiamme, senza vederle, per inchiodarsi al grande dipinto ad olio che la ragazza aveva notato poco prima.

Dalla cornice di uno spento color oro, i tratti sereni e giovanili dei precedenti padroni di casa restituirono distrattamente i loro sguardi incastonati in quel perpetuo istante.

- I miei furono assassinati davanti ai miei occhi, in un vicolo accanto al cinema Monarch. Avevo otto anni. -

Disse quelle poche parole come se gli fossero costate una fatica terribile, pesanti come piombo doveva averle dissotterrate dai detriti del tempo e dalla polvere dei ricordi.

Vide la linea dura che si era disegnata sulla sua fronte, il volto teso e la mascella rigida mentre le iridi azzurre vagavano fra le figure dipinte e le scintille del focolare acceso senza trovarvi appiglio.

April era scioccata. I pensieri le s'ingarbugliarono nel realizzare il motivo per cui ai gothamiti non piaceva parlare degli illustri benefattori a cui erano dedicate fondazioni, istituti e reparti d'ospedale.

Portavano il peso della vergogna, di quegli occhi che ora vedeva nei suoi, ma che erano rimasti anni indietro dove la felicità era marcita in un vicolo che puzzava di urina e spazzatura.

Per un lungo istante rimase in silenzio ad ascoltare il battere anomalo del proprio cuore sovrapporsi al respiro inquieto dell'uomo stentoreo accanto a lei, le mani in tensione che quasi si sfioravano sulla pelle tiepida del divano.

Non c'erano parole per quel vuoto che si era risucchiato tutto il calore dell'ambiente, lo conosceva bene, aveva avuto anni per guardaci dentro nella solitudine della sua camera.

- Mio Dio ... E' terribile. Bruce, non so che dire, io ... non riesco neppure ad immaginare cos'abbia voluto dire per te, che peso abbia avuto sulla tua vita ... - mormorò con un filo di voce, quand'ebbe ripreso coraggio sufficiente a raccogliere i pensieri.

Non si aspettava una risposta, era chiaro che Bruce Wayne vivesse in un passato che fin troppo aveva a che vedere con l'uomo schivo e bugiardo che era diventato. Ma c'era anche dell'altro.

Per quanto si affannasse a nasconderlo, a vivere con la tenacia di un eremita, era riuscito a convincere Gotham che la sua eredità non era andata perduta.

- Eppure devono aver fatto un lavoro stupendo con te, per averti reso l'uomo che sei, nonostante tutto. -

Lo sguardo appannato dai ricordi e dalla furia, tornò a legarsi al suo con una chiarezza che le tolse il respiro. Sentì il sordo cling del cristallo fra le sue dita, mentre si avvicinava a lei fino a che le spalle non si sfiorarono, bollenti.

- Lo stesso vale per te. - sorrise e le parole le rimbalzarono tiepide sulla pelle, le ciglia nere nascosero alla vista le iridi blu e Bruce azzerò con un bacio la minima distanza che li separava. Lo sentì prendere un respiro, stava tremando, ma non era la sola.

Il cuore minacciava di esplodere, mentre un istante più tardi le labbra si separavano di nuovo e gli sguardi vagavano torbidi in quel calore di respiri confusi. Bruce sembrò indeciso e le dita esitavano affondando nei suoi capelli, ma durò solo lo spazio di una manciata dei battiti in tumulto che scalpitavano fra loro per tornare a baciarla con una disperazione ed un'esigenza di cui non lo credeva capace.


Se Bruce aveva creduto che quel bacio avrebbe ingarbugliato ancora più strette le sue intenzioni, si sbagliava. C'era silenzio fra i suoi pensieri mentre la stringeva a sé nel tepore profumato della stanza.

I battiti da treno in corsa che gli rimbombavano fino alle tempie scandivano il tempo in maniera strana, ovattavano e acuivano insieme le sue sensazioni.

La consapevolezza che nella sua vita non c'era posto per quel legame avrebbe dovuto frenarlo. La storia di Batman sarebbe finita con la sua morte, perché semplicemente non c'era altro modo. Combattere fino al giorno in cui il corpo l'avrebbe tradito e Batman sarebbe caduto. Era solo questione di tempo.

La prospettiva avrebbe dovuto terrorizzarlo, ma non era così. Non in quel momento.

Tornò a respirare solo quand'ebbe trovato il coraggio di lasciarla andare, il delicato profumo di fuori ancora nelle sue narici. Guardò il viso arrossato, i capelli appena scarmigliati dal tocco ruvido delle sue dita e le sembrò di una bellezza irresistibile.

- April, accanto a te mi sento strano. Come non mi sono mai sentito in vita mia. - confessò senza pensarci troppo, era la verità, non voleva dirle altro.

- Lo so, provo la stessa cosa. -

Le dita esili volarono verso il suo viso, accogliendo la guancia ispida sotto il palmo piccolo e tiepido. Sembrò quasi sapere che cosa sarebbe seguito.

- Ma io non posso ... -

Non lo lasciò finire, forse era spaventata, forse, come altri, aveva riconosciuto il suo pessimo tempismo.

- Non dobbiamo per forza farne qualcosa. Non subito, almeno. Anche io ho paura, di deludere me stessa, ma soprattutto di deludere te. Diamo tempo al tempo. - sorrise con una comprensione che tradiva una certa insicurezza.

Qualunque cosa fosse nato fra loro, Bruce lo sentiva fragile come il cristallo che stringeva fra le dita, sarebbe bastato un respiro a cancellarlo.

- Grazie. -

- E' stata una bellissima serata, ma ora devo proprio andare. - soffiò April alzandosi in piedi, mentre la mano scivolava via dalla sua per abbandonare il bicchiere ancora pieno sul basso tavolino in noce di fronte a loro.

- Ti accompagno a casa. -

Bruce guidò in silenzio la pretenziosa auto sportiva, che aveva comprato solo per dar adito a certe voci, fino al palazzo in mattoni rossi con la sgraziata scala antincendio sulla facciata.

Seguì le indicazioni di April come se non sapesse, ma ricordava fin troppo bene la notte in cui l'aveva depositata sul largo terrazzo all'ultimo piano.

Si lasciarono in maniera piuttosto goffa, troppo intimi per una stretta di mano, troppo poco per un ultimo bacio sulle labbra, scambiandosi i numeri di telefono come adolescenti al primo appuntamento. Un gesto che valse ad entrambi una risata imbarazzata, complice abbastanza da sciogliere la densa quiete in cui avevano trascorso le ultime miglia.

Bruce attese che la ragazza si avviasse verso la doppiaporta in acciaio, sollevò le dita in un ultimo saluto e la guardò sparireinghiottita dall'androne immerso nell'oscurità. 


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Capitolo 16
*** ~15~ Day shift 1 ***


~15~ Day shift 1

Le notti a Gotham potevano essere inclementi. Assalivano e mordevano. Si abbattevano con la stessa veemenza di quella pioggia, fitta e martellante, che aveva deciso di aprirsi un varco nel cielo per tre giorni consecutivi.

L'odore penetrante di umidità e foglie marce impregnava l'aria, s'insinuava sotto gli ombrelli, nelle narici, fino alle ossa.

Ti entrava dentro più insistente e subdolo del puzzo di quelle fogne in cui Bruce aveva sguazzato per due notti in cerca di Harley Quinn, rediviva e a piede libero per l'intrico di tunnel nel sottosuolo di Gotham.

L'aveva cercata ovunque dopo la notizia della sua fuga da Blackgate, anche se sarebbe stato decisamente più corretto definirla prelievo

Un muro sfondato dall'esterno, un paio di guardie a terra, niente nastri di sorveglianza e la ragazza era semplicemente svanita.

Dopo l'incendio di un anno prima, erano bastati un'impresa edile e qualche mano di vernice per commettere gli stessi errori negli stessi posti. Gotham non imparava mai.

Bruce aveva battuto uno per uno i vecchi nascondigli di Quinn, fino a trovarla nello snodo fognario sotto l'isola di Arkham, dove Joker, solo una manciata di anni prima, aveva dato libero sfogo a tutta la sua folle creatività facendosi costruire un personalissimo parco giochi.

Un cimitero per dementi, seppellito con cura nel cuore della vecchia città.

Purtroppo i fantasmi non erano le uniche creature a sonnecchiare nel marcio e ad aggirarsi all'ombra di vecchi ricordi e antichi terrori. 

Fra il pattume, le esalazioni nauseabonde e la viscida melma, che gli si era appiccicata sotto gli stivali come una vecchia abitudine, Bruce trovò la dimora acquatica del fu Waylon Jones.

Quella bestia affamata si era fatta strada nel sottobosco criminale a colpi di denti, guadagnandosi il soprannome Killer Croc sul sangue e le ossa rosicchiate delle sue prede. Di fronte a tanta brutalità l'aspetto squamoso e taurino di quell'abnorme gigante passavano paradossalmente in secondo piano. Quasi.

C'era chi ancora insisteva che il suo nutrirsi di carne umana fosse una leggenda metropolitana, ma Bruce ricordava fin troppo bene i corpi martoriati e muffiti nella tana da cui lo aveva scovato solo qualche anno prima. Chiudere gli occhi era di certo l'alternativa più appetibile.

Dimenticato in quelle fogne dopo la chiusura del manicomio di Arkham, aveva potuto coltivare una bestialità senza precedenti, perdendo quel poco di umanità che forse gli era rimasto per rimuginare su vecchie ossa sbeccate.

Gli scontri con Croc lo lasciavano sempre a brandelli, sfinito e ammaccato dall'odore di decomposizione, dagli sballottamenti e dalla fatica di resistere alla forza muscolare dello squamato golia, ma stavolta le cose erano andate diversamente.

Waylon Jones aveva dimostrato per Batman un'ossessione maniacale fin dal loro primo incontro, un desiderio di annientamento che Bruce aveva molto spesso faticato a tenere a bada, ma, in quelle fogne, fra le sconnesse minacce e i grugniti bestiali, Croc si era lasciato sfuggire inquietanti stralci d'informazioni.

Qualcuno lo aveva voluto a guardia di quelle fogne, sapendo che Bruce ci sarebbe caduto fino alle ginocchia.

Waylon sosteneva fosse Quinn il mandante, forse lo credeva davvero, forse stava mentendo per coprire qualcuno. Di certo l'ex psichiatra non era mai stata sveglia abbastanza da congegnare trappole di quelle dimensioni, neppure ai tempi di Joker.

No, Harley Quinn era ancora un braccio armato ed il compito di Batman era scoprire al servizio di chi. Almeno prima di rimetterci la pelle.

Era l'alba e la luce tenue del giorno già schiariva i contorni specchiati dei grattacieli rimbalzando in un curioso impasto di rosa e grigio nell'aria gelida, quando Bruce riuscì a trascinarsi fino al punto di rendez-vous con il Batwing.

Odiava il ronzare sopra le righe dei motori a jet a quell'ora del mattino, ma l'auto giaceva ancora inerte e sconquassata nella caverna con quell'aria macilenta da ferrovecchio fin troppo costoso, ricordandogli quotidianamente passate imprudenze.

Zuppo e insanguinato, crollò per un paio d'ore in un torpore senza sogni che poco aveva a che fare con un sonno ristoratore, almeno finché il trillo del cellulare non gli ricordò che la presenza di Bruce Wayne era richiesta ai cancelli della vecchia Arkham City per presentarne pubblicamente il progetto di riqualificazione.

Pregando di non esalare come la melma in cui aveva sguazzato fino alle caviglie per una notte intera, raggiunse Alfred alla macchina immersa nella nebbia filacciosa che si era posata di buon mattino sul selciato del cortile.

- La copia del suo discorso è sul sedile, signore. – annunciò Alfred guardandolo di traverso dallo specchietto retrovisore, mentre si sistemava ammaccato e stanco sul sedile posteriore.

L'auto si mise immediatamente in moto, mentre Bruce afferrava il modesto papier nella speranza di ricordare tutto ciò che avrebbe voluto dire senza essere tacciato d'idiozia.

- Nulla di più terrificante del parlare in pubblico. Lo detesto. – sospirò, leggere era difficile con quelle poche ore di sonno strappate al mattino a torturargli le palpebre.

Avrebbe voluto che lo sciabordio dell'automobile non fosse tanto soporifero.

- Non mi sorprende. I playboy miliardari sono un mucchio di codardi. Ma è meraviglioso che, nonostante Batman sia rimasto alzato fino a tardi, Bruce Wayne riesca comunque ad essere tanto mattiniero. –

La voce di Alfred lo raggiunse ovattata attraverso un velo di nebbia densa e Bruce non stava più ascoltando.


Dopo la cena di due notti prima April aveva scambiato con Bruce solo qualche frettoloso messaggio, niente più che poche, lapidarie informazioni sulle reciproche attività del momento.

Si capiva che non fosse affatto a suo agio in quella goffa corrispondenza, più simile ad un bollettino di guerra che a uno scambio amichevole di notizie, ma April non poté che apprezzare lo sforzo.

Scoprì che le bastava quel ruvido interessamento nei suoi confronti, per quanto telegrafico ed impacciato, sapere che Bruce Wayne aveva dedicato qualche attimo della sua vita frenetica ad assicurarsi che quei baci rubati non fossero caduti nel vuoto della quotidianità.

April era a conoscenza dell'evento che si sarebbe svolto quella mattina di fronte ai cancelli sbarrati della vecchia Arkham City, il campo di detenzione in cui, solo pochi mesi prima, l'ex sindaco Sharp aveva deciso di trasferire tutti i detenuti del manicomio criminale.

Un'idea delirante, a suo parere, che al tempo aveva però incontrato il consenso dei più influenti cittadini di Gotham. Il resto dei gothamiti si era limitato a battere i denti di fronte alla prospettiva di ritrovarsi assassini e maniaci fuori dalla porta di casa, segregati dietro spesse sbarre di metallo come in un bizzarro trucco da circo.

Non ci sarebbe stato bisogno di precisare che l'impresa si era rivelata un fallimento, aveva anzi minacciato di intaccare le altre isole della metropoli quando una rivolta dalle proporzioni bibliche era divampata al suo interno.

Era toccato a Batman, ovviamente, ripulire il disastro di cui ormai i giornali non parlavano più quasi fosse avvenuto altrove, in tempi lontani. Invece in profondità ardevano ancora le braci della ribellione e del malcontento, ben nascoste sotto un groviglio di lamiere, spazzatura e disperazione.

Adesso Bruce Wayne si era assunto l'onere di risanare parte del buco fiscale che si era aperto alla caduta del progetto "Arkham City", sostituendolo con un proprio slogan decisamente meno inquietante e volto al recupero delle zone abbandonate della città. 

"Gotham Reborn".

- Dottoressa, alzi il volume della televisione ... non vede che sta parlando il signor Wayne? – chiosò burbera la signora Jennings, affondando fra le lenzuola appena cambiate e i rotoli di ciccia da imponente matrona.

Nonostante fosse ricoverata in degenza post operatoria da più di due settimane, Paula Jennings non aveva perso un solo giorno ad imporre la sua presenza impeccabile da cantante d'opera a chiunque si fosse occupato di lei.

- Signora, sto cercando di misurarle la pressione. –

April non si scompose, mentre gli occhi porcini della donna s'inchiodavano duramente ai suoi. Non era il primo né l'ultimo capriccio a cui avrebbe dovuto assistere durante una lunga giornata di lavoro.

- Lo farà dopo, dottoressa. – borbottò facendo tremolare il maestoso doppio mento, mentre sottraeva prontamente il braccio paffuto alla sua portata.

- E' una promessa. – cedette April con un sospiro e si avvicinò al moderno televisore a parete su cui, di fronte ad un'enorme W su sfondo rosso, si stagliava l'immagine a tutta figura dell'uomo con cui aveva cenato solo due notti prima.

La voce familiare di Bruce Wayne invase la stanza con grande soddisfazione dell'abbondante signora Jennings.

«In definitiva, le nostri recenti traversie collettive mi hanno fatto capire che è giunta l'ora che quelli di noi che più hanno beneficiato dello spirito e della storia di Gotham respingano le sue notti oscure. È giunta l'ora di concedere a Gotham le sue più che meritare giornate di sole. Faremo in modo che Gotham rinasca!»

La piccola folla, gremita ai piedi dell'improvvisato palco in legno, esplose in un applauso fragoroso mentre Bruce si congedava con un ultimo saluto, lasciando la ribalta più precipitosamente di quanto non ci sarebbe aspettato da un personaggio pubblico della sua importanza.

Prima di quel momento, April non aveva mai assistito ad un'apparizione televisiva di Bruce Wayne e solo allora capì il motivo di tanta deferenza da parte dei suoi concittadini.

Non c'era niente di affettato o dissimulato in quel suo interesse verso il destino della metropoli del crimine, come la chiamavano le testate giornalistiche al di là del fiume. Bruce Wayne si sentiva parte integrante di quei cambiamenti, ne sentiva la necessità perché avevano il potere di alterare i suoi ricordi, l'affetto che provava guardandosi indietro.

Era difficile non notarlo e non restare coinvolti dal suo entusiasmo, dalla speranza che davvero un giorno Gotham si sarebbe affacciata a tempi migliori.

April stava quasi per spegnere il televisore e tornare al proprio lavoro, quando il rumore dolorosamente familiare di un colpo di pistola gettò la piccola folla oltre lo schermo nel caos più completo.

Si sentì raggelare.

Mentre la giovane giornalista dai capelli ossigenati si affannava ancora a documentare l'aggressione, sovrastando a malapena le grida e cercando di difendersi dal parapiglia, April, per quanto inorridita, non riusciva a distogliere lo sguardo.

Deglutì a fatica contro la gola riarsa. Il video oscillava pericolosamente ma, persino fra lo statico e i colori stiracchiati della diretta, April riuscì a distinguere una manciata degli stessi uomini dai cappucci rossi e neri che solo poche settimane prima si erano fatti strada a colpi di fucile automatico all'interno dell'ospedale.

Prima che la trasmissione s'interrompesse definitivamente, soffocando la voce strozzata della reporter, April si rese conto che le dita stritolavano spasmodiche il cellulare nella tasca del camice.


Bruce conosceva fin troppo bene l'odore dei fumogeni e della polvere da sparo, il rumore spacca timpani dei colpi d'arma da fuoco, ma di certo non aveva messo in conto di trovarcisi faccia a faccia a quell'ora del mattino e con indosso il completo sbagliato.

Ci mise una frazione di secondo a realizzare che, chiunque avesse assoldato quella manciata di disperati, aveva anche armato il gruppo di vandali e assassini che solo pochi giorni prima aveva raso al suolo due interi reparti del Gotham Mercy.

Si sarebbe volentieri gettato nella mischia, incurante della stampa e dell'abbaiare di Jim Gordon a pochi passi da lui.

- Se ne vada di qui, Wayne! – sbraitò il commissario, spingendolo lontano dal palco crivellato di colpi, ignaro del suo bisogno d'interporsi al caos che aveva sovvertito quei pochi metri di strada di fronte alla vecchia Arkham City.

I battiti del cuore accelerarono facendosi incessanti, l'ondata di adrenalina sarebbe svanita presto, ma non era ancora solo, doveva ragionare con lucidità senza lasciarsi trasportare dall'istinto.

Prima che potesse elaborare un piano d'azione più complesso dell'inzaccherarsi le nocche nei denti di quella manciata di vagabondi troppo ben armati, qualcosa lo afferrò per la collottola, spingendolo brutalmente indietro.

Il nodo della cravatta premeva indiscreto sulla sua laringe, mentre uno degli uomini armati tentava invano di sollevarlo per il bavero della camicia.

Si stupì di quante volte aveva sentito lo stesso odore acre di alcol scadente, fumo di sigaretta e mancanza di basilare igiene personale, quando si trovò a pochi centimetri dal sorriso sdentato del malcapitato in logoro passamontagna nero.

Gli acquosi occhi verdognoli si conficcarono impietosamente nei suoi, vomitandogli addosso tutto il loro sdegno.

- Bruce Wayne in persona. L'uomo del momento. Sembra proprio che abbiamo colto la gallina dalle uova d'oro fuori dal pollaio. Allora, mister miliardi, quanto mi dareste tu e i tuoi amichetti gonfi di soldi per lasciarti andare? –

Normalmente un tipo come quello se lo sarebbe mangiato a colazione, ma se giornalisti e chiunque fosse stato in possesso di un telefono cellulare erano riusciti a mettersi al sicuro abbastanza in fretta, di certo la zona non era libera da sguardi indiscreti. 

Doveva solo trovare un punto cieco, una via di fuga verso l'auto.

- Niente. –

- Ne dubito. Ma se è vero hai cinque secondi per convincermi a non farti saltare la testa. –

Bruce avvertì l'odore inconfondibile dei gas d'innesco, la canna bollente della pistola sfiorargli i capelli poco sopra la fronte. Il solo contatto sarebbe stato sufficiente a ustionarlo, eppure non trattenne un ghigno.

Era fin troppo facile sottovalutare qualcuno imbalsamato in un completo nero da ragioniere.

- Uno, due ... -

- Cinque. – lo interruppe prima che potesse accorgersi che qualcosa nelle sue previsioni era andato storto e premere il grilletto, sfruttando la guardia baldanzosamente abbassata per neutralizzarlo.

Afferrò Lucius Fox per il bavero del cappotto senza tanti complimenti, trascinandolo via con sé dal centro dell'azione.

- Sai di che cosa ho bisogno. È nel bagagliaio. – chiosò a denti stretti, mentre tentava di schermarlo il più possibile dalle indesiderate attenzioni degli scagnozzi rimasti ancora in piedi, nonostante le raffiche intimidatorie dei pochi poliziotti presenti sulla scena.

- Appena l'avrò preso, voglio che tu salga in macchina e te ne vada di qui. –

Il fumo stava cominciando ad irritargli la gola, arrochendo la voce e inumidendo gli occhi, quando finalmente raggiunsero l'auto ancora intatta a pochi passi da uno dei giganteschi piloni della ferrovia sopraelevata.

Prima che potessero avvicinarsi abbastanza da permettergli di aprire il bagagliaio in tutta sicurezza, Bruce si accorse che uno sparuto gruppetto degli uomini a volto coperto si era gettato al loro inseguimento.

Mentre li atterrava uno ad uno pregò che nessuno nei paraggi fosse stato colto dall'ardire di riprendere la scena, ma Fox era, per sua fortuna, un uomo molto più intelligente quando si trattava di azzardare previsioni e fu lui inaspettatamente a sferrare il colpo che mandò a terra l'ultimo dei loro assalitori.

- Non male. – ansimò Bruce, cercando nel frattempo di riacquistare l'aspetto convincente del miliardario preso di mira da un manipolo di mercenari armati.

Il colletto della camicia lo stava soffocando ed era certo che la giacca si fosse strappata irrimediabilmente in più punti.

- Si chiama deviare l'attenzione da Bruce il lottatore e mostrare, a chiunque stia scattando foto, che tutti i gothamiti sono disposti a sporcarsi le mani quando serve. –

L'aveva già detto, un uomo molto più previdente di lui. Probabilmente se Lucius Fox non avesse preso parte alla sua crociata, la carriera di Batman sarebbe finita nel sangue molto tempo prima.

- Sempre tre passi avanti, per questo guadagni tanto. –

- Sentiti pure libero di darmi un aumento. – sbottò guardandolo di traverso da dietro le lenti storte sul naso fuligginoso, mentre spingeva fra le sue braccia la valigetta nera che si era affrettato a recuperare dal portabagagli dell'auto.

- Sarà strano vederti in azione con il sole ancora alto. –

Sapeva quanto Fox odiasse quel suo modo di fare, ma prima che potesse finire la frase Bruce era già sparito fra i vicoli abbandonati di Arkham City.



Spazio Autrice: 

Salve a tutti! Questa volta ho deciso di ritagliarmi un piccolo spazio per due motivi. 

Innanzitutto ci tenevo a dirvi una piccola curiosità e cioè che la scena della simpaticissima signora Jennings è una storia di vita vissuta (immaginate quanto può essere gratificante a volte il mio lavoro) XD 

Poi volevo scusarmi per aver tagliato in due un capitolo così denso di azione. Purtroppo nella sua interezza sarebbe stato un polpettone indigeribile e frenetico da leggere online, per questo ho preferito dividerlo.

Detto ciò ringrazio tutti di cuore e buona lettura!!!

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Capitolo 17
*** ~15~ Day shift 2 ***


~15~ Day shift 2

Bruce si cambiò con tanta foga nella penombra sporca che per poco non dimenticò la cravatta annodata al collo, ma non fu comunque abbastanza in fretta.

L'improvvisa comparsa di Harley Quinn sulla scena confermò le informazioni che aveva strappato a Croc notti addietro e quindi il suo coinvolgimento in entrambi gli attentati avvenuti a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro. Eppure qualcosa non lo convinceva ancora.

Per quanto fosse chiaramente disturbata, Quinn non si era mai sottratta all'azione, eppure, da quando l'aveva pizzicata nelle fogne, non aveva fatto altro che scappare. Poteva essere la paura di essere rispedita a Blackgate, certo, allora perché prendersi la briga di organizzare ben due assalti armati tenendosi a prudente distanza?

Se non l'avesse conosciuta abbastanza da essere completamente certo del suo modus operandi da eterno gregario, avrebbe detto che stava cercando di ottenere qualcosa. La vera domanda era per conto di chi.

Si maledisse fra i denti ancora una volta per aver distrutto l'auto, quando vide la ragazza sparire a velocità suicida in sella ad una motocicletta, i capelli assurdamente colorati frustati dal vento e una scia di sangue dietro di sé.

Del suo passaggio erano rimasti i vetri infranti dell'auto con cui Lucius sarebbe dovuto scappare, un tablet scomparso e Fox semi svenuto con un dito in meno alla mano destra.


April scese dall'ambulanza con la sensazione di trovarsi in una zona di guerra.

Solo pochi minuti prima, l'allerta del comando di polizia aveva colto gran parte del personale di pronto soccorso col naso incollato agli schermi della sala d'attesa, intento ad ascoltare una serie infinita di supposizioni sulla natura del parapiglia che si era scatenato sull'isola di Arkham.

Il dottor Heagen, abituato com'era alle stranezze di Gotham, non aveva perso tempo in lacrime, radunando in quattro e quattr'otto un gruppetto di medici disposti a saltare su una vettura medica, armati di sangue freddo e una conoscenza basica di triage.

Non l'avrebbe mai ammesso, ma non riuscì a respirare regolarmente finché il cellulare non vibrò indiscreto nella sua tasca, dandole conferma che Bruce ne fosse uscito sulle proprie gambe prima che cominciassero gli spari.

Nonostante il messaggio avesse sciolto in parte la tensione, non poté liberarsi del vago senso di nausea che azzannò la bocca del suo stomaco alla vista della violenza che si era consumata ad Arkham in quella manciata di minuti.

Aiutata dalla squadra di paramedici e scortata da un buon numero di agenti di polizia, cominciò a farsi largo fra la polvere, il frantume e i bossoli ancora fumanti che trillavano in un angosciante concerto accanto ai loro piedi.

L'aria era satura dell'odore pungente dei gas d'innesco, misto al puzzo dolciastro di sangue e gomma bruciata che esalavano dal cemento in spire sottili, nascondendo alla vista pattume e detriti.

April rischiò d'inciampare un paio di volte nel tentativo di raggiungere i feriti esanimi o quelli ancora ben nascosti fra le lamiere nel tentativo di proteggersi da una minaccia ormai sedata.

Lavorò con calma, senza tralasciare nessuno e senza dover spuntare alcun codice nero dal registro che l'aveva accompagnata alla sua partenza dal Gotham Mercy. Nonostante il risultato del triage fosse perfettamente compatibile con uno scontro a fuoco, un dettaglio, apparentemente trascurabile, stonava nella violenza del complesso.

Trovarono Lucius Fox raggomitolato sul sedile anteriore di un'auto nera, semidistrutta e abbandonata accanto ad uno dei piloni principali della ferrovia sopraelevata. In stato di shock e parziale incoscienza, schiacciava convulsamente la mano destra in un fagotto lurido e insanguinato, vago ricordo del costoso cappotto di sartoria.

April dovette scansarsi prontamente dalla traiettoria, quando, riuscite a vincere le deliranti resistenze del signor Fox, un giovane agente di polizia non trattenne un conato di vomito alla vista dell'indice amputato di netto.

Non era certo in pericolo di vita, ma la sparizione di quel dito era quanto mai sospetta. Nel bel mezzo di una sparatoria qualcuno era riuscito a sfruttare il parapiglia per sgattaiolare nell'auto, cogliere di sorpresa il conducente e strappargli via un dito con estrema freddezza.

Non fu affatto meravigliata nell'apprendere che, l'uomo semi incosciente che aveva appena spedito al pronto soccorso, era uno dei membri principali nel consiglio d'amministrazione delle Wayne Enterprises.

Chiunque avesse ferito Lucius Fox mirava senza dubbio a colpire Bruce Wayne e la crescente esposizione politica della sua azienda.

Cercò di scacciare con un respiro l'idea insistente che, l'uomo con cui aveva deciso di frequentarsi, avesse nemici abbastanza potenti da scatenare una rivolta armata in pieno giorno, senza doversi preoccupare delle conseguenze.

Sottraendosi al ricordo della notte da incubo di qualche settimana prima, notò con la coda dell'occhio le fattezze allampanate dell'uomo che, all'indomani dell'attacco al Gotham Mercy, si era presentato per raccogliere le deposizioni come il capo della GCPD.

Conficcato nel liso cappotto beige, tamburellava nervosamente con le dita sulla plastica della radio trasmittente, mentre lo sguardo stanco dietro le lenti degli occhiali scansionava la schiera di ambulanze pronte a partire.

Si avvicinò a lui ai piedi del palco crivellato di colpi, le schegge di legno che crocchiavano sotto le suole degli stivali come neve fresca.

- Commissario Gordon, si ricorda di me? -

L'uomo sussultò visibilmente, colto alla sprovvista, perso com'era nella valutazione dell'ennesimo disastro di cui la polizia aveva dovuto occuparsi di recente. Eppure, dopo il primo istante d'esitazione in cui gli occhi azzurri la squadrarono diffidenti attraverso le lenti chiare, ricambiò il sorriso.

- Ma certo, dottoressa. Come sta? Mi spiace doverla incontrare di nuovo in una situazione del genere. - gracchiò porgendole una mano ruvida e impolverata.

- Non lo dica a me. Preferirei sorvolare. -

- Cosa mi sa dire di questo bel quadretto? - ridacchiò tirato sotto i curati baffi grigi, ma non c'era traccia d'ironia nella ruga sottile che si era installata nel bel mezzo della sua fronte.

Qualcuno stava smontando Gotham pezzo per pezzo, in un'angosciante stillicidio senza il minimo controllo, non c'era da stupirsi se il capo della polizia non fosse in vena di chiacchiere.

April prese un respiro, gettando un'occhiata fugace al registro macchiato di sangue.

- Il bilancio non è così grave, in realtà. Abbiamo una quindicina di ferite d'arma da fuoco, tutte lievi, nove traumi cranici e due donne in stato di shock. Poi, ovviamente, c'è il signor Fox con un'amputazione netta all'indice della mano destra, anche se per il momento questo particolare sfugge alla mia comprensione. Dalla telefonata comunque temevo qualcosa di molto peggio. -

- Abbiamo avuto un po' d'aiuto. - chiosò Gordon con una strizzata d'occhio che la lasciò interdetta.

Qualcosa nelle iridi azzurre era improvvisamente cambiato, un lampo di furbizia che gli restituì molti degli anni che doveva trovarsi alle spalle.

- Dottoressa, conosce il nostro cavaliere oscuro? -

- Ne ho sentito parlare. - rispose evasiva senza trattenere l'istinto di abbassare lo sguardo. Sapeva di essere una pessima bugiarda, a un poliziotto non sarebbe sfuggito, e dare spiegazioni sul suo primo e ultimo incontro con Batman si trovava in fondo alla lista dei suoi desideri.

- Lasci che vi presenti. -

- Cosa? -

Troppo tardi si accorse dell'imponente figura apparsa accanto a Jim Gordon, inosservata e silenziosa, piantata al suolo negli stivalacci neri come una statua di sale, quasi fosse stata presente fin dal principio.

- Batman, la dottoressa Holloway. - li introdusse il commissario, facendosi da parte perché il vigilante potesse sporgersi verso di lei.

April raggelò. Non riusciva a distogliere lo sguardo e, al tempo stesso, avrebbe voluto poter dare ascolto ai muscoli che la imploravano di darsela a gambe.

Magari era solo una sua impressione, ma sembrava ancora più alto alla luce del sole, più scuro in contrasto con il chiarore sfuggente dei gas di scarico e della polvere sollevata dal vento.

- Dottoressa. - gracchiò Batman porgendole la mano fasciata dallo spesso guanto in pelle e per un attimo April esitò a stringerla nella propria.

Come aveva sospettato le sue dita sottili parvero annegare in quel palmo enorme e impolverato, quasi fossero quelle di una bambina.

Ricordava i suoi occhi senza bisogno di ricambiare lo sguardo insistente con cui la stavano trapassando, conficcandosi spiacevolmente sotto la sua pelle, cercando forse di strapparle qualcosa a cui la ragazza non sapeva dare un nome.

Era assurdo pensare che, solo qualche notte prima, quelle labbra sottili e fuligginose si erano impresse sulle sue con inaspettata tenerezza. E fu ancora più spiacevole il modo in cui il ricordo rubò un battito al suo cuore.

- Siamo in pieno giorno. Credevo agisse solo di notte. Come ... bé, i pipistrelli. - annaspò in fretta nella speranza di togliersi d'impiccio, mentre la mano scivolava via dal calore della sua.

Si accorse dell'idiozia di ciò che aveva detto solo una frazione di secondo più tardi, quando ormai le parole erano rotolate via, attraversando inesorabili la distanza che li separava.

- Ed è vero. La maggior parte delle volte. -

Nonostante fosse difficile decifrare l'espressione compassata nella minacciosa maschera nera, era certa in qualche modo che non si stesse prendendo gioco di lei. Eppure April non poté che maledirsi per aver abbassato la guardia. Batman era l'ultima persona a cui avrebbe voluto dire qualcosa di tanto stupido.

Mister "non stiamo discutendo perché ho ragione io". Il fenomeno che l'aveva portata via in volo da un tetto a sessanta metri d'altezza, l'aveva baciata a tradimento per poi scappare come un ragazzino.

- Credo di doverla ringraziare per aver interrotto la sua routine, allora. -

Trasse un sospiro dalla gola asciutta con la speranza che nessuno dei presenti percepisse il suo disagio e, prima che potessero fare qualcosa per trattenerla, si congedò tentando qualche passo all'indietro.

- Ora vogliate scusarmi, ma dovrei procedere coi trasferimenti. Mi terrò in contatto con lei per i detenuti, commissario. Arrivederci. -

Solo quand'ebbe raggiunto una delle ambulanze ancora in attesa di partire, April poté tornare a respirare.


La dottoressa Holloway si defilò con la fretta di chi vuol trarsi d'impiccio, una fretta che Jim conosceva fin troppo bene. L'aveva vista altre volte quando era arrivato a scavare abbastanza a fondo da annusare la verità.

Osservò divertito la sagoma esile in camice bianco destreggiarsi insicura fra detriti e lamiere che ostacolavano il percorso, chiedendosi perché Batman fosse rimasto con lui.

- Un tipo sfuggente, la nostra dottoressa. - azzardò con un'intimità che sentiva di essersi guadagnato negli anni in cui aveva dovuto sopportare le stranezze dell'austero vigilante.

Lo sbirciò con la coda dell'occhio. Lo faceva spesso, a volte per capire che cosa gli frullasse in quella testa da grand'uomo, altre volte solo per accertarsi che fosse fatto di carne e sangue, proprio come lui.

Sentiva il suo respiro leggero e cadenzato, l'ingombrante presenza da maciste in armatura, ma non un fiato né un mugugno. Era come parlare ad un muro. Un muro molto violento.

- Vi intendereste alla perfezione, voi due. - gracchiò Jim cercando di fare sensazione, non si aspettava una risposta o forse si, diavolo! Dopo anni di collaborazione due chiacchiere non l'avrebbero certo mandato in malora.

Si voltò per dirglielo, per spiattellargli in faccia che non c'era nulla di accattivante in quel suo andare e venire di soppiatto come un maledetto ladro.

Prima che potesse dare sfogo alla sua frustrazione, si accorse che Batman era già sparito.

- Ecco, appunto. -


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Capitolo 18
*** ~16~ Ask Alice ***


~16~ Ask Alice

Una pioggia densa e tagliente lavò via in poche ore sangue e polvere dall'asfalto martoriato di Arkham City.

La notte nascose alla vista bossoli e detriti, ripulì l'aria fuligginosa, squarciata a tratti dalla luce accecante di un temporale troppo vicino.

Era fin troppo facile dimenticare, quando le tenebre cadevano sul marcio che si annidava in profondità fra le strade di Gotham. Per alcuni il buio non recava terrore, non si gonfiava di fantasmi insonni, ma forniva un alibi, una scusa per sottrarsi agli occhi di chi è troppo pigro per guardare.

Le gocce fitte come schegge di quel gelo indiscreto frustavano impietose le guance ispide, mentre planava fra i lucidi specchi dei grattacieli, fino a che i neon azzurrini del Gotham Mercy non spezzarono la monotonia della cortina di pioggia.

I piani superiori del tozzo edificio del pronto soccorso erano già immersi nell'oscurità quando Bruce s'intrufolò come un ladro nella stanza di Lucius Fox.

Esitò un istante nel silenzio, cercando di captare il respiro dell'uomo oltre l'ovattato gocciolare della pioggia che scivolava via dal mantello fradicio. Prima che potesse dire qualunque cosa, la piccola lampada sul comodino in acciaio si accese con un secco click, gettando la stanza di linoleum verde chiaro in una penombra diafana.

- Non c'è bisogno di essere così teatrali. – biascicò a denti stretti l'uomo, ancora pallido e sbattuto, adagiato fra le lenzuola fresche di disinfezione, la bocca impastata dagli antidolorifici.

- Mi conosci. Non rinuncerei mai a un'entrata ad effetto. –

Bruce finse di concentrarsi sulla porta serrata della camera, opponendo un certo sarcasmo. L'odore di disinfettante industriale e di plastica sterile lo nauseava, era sempre stato così dacché aveva memoria, persino in tempi più felici quando era costretto ad accompagnare suo padre al lavoro.

La verità era che avrebbe preferito scontrarsi di nuovo con Croc fra i liquami nelle viscere di Arkham, piuttosto che prendere atto della mano mutilata di Lucius nascosta sotto decine di bende sterili.

- Come ti senti? – azzardò avvicinandosi al letto di degenza, gli occhi scuri dell'uomo che cercavano i suoi attraverso le lenti squadrate, senza perdere un colpo.

Lucius scacciò via le parole con la mano integra quasi fossero state insetti fastidiosi, pungolo inutile per il suo orgoglio ferito. Lo conosceva fin troppo bene, per un individuo tanto razionale la paura non era mai stata una nota degna di considerazione.

- Se pensano di essere stati furbi a rubare quel tablet si sbagliano di grosso. Quell'affare ha dei protocolli impostati e se non mi loggo ogni quindici minuti si cancella automaticamente. Quindi a quest'ora Harley Quinn e la sua brigata di svitati avranno per le mani un inservibile pezzo di plastica e metallo da duemila dollari. –

Scartò la domanda con l'agilità di un quarterback del Gotham College, ma era ben lontano dal riuscire nel proprio intento. Pessima mossa mentire a un bugiardo.

- Perfetto, ma ti avevo chiesto ... -

Fox lo interruppe con un'insofferenza che doveva aver maturato negli anni di lavoro alla WEnt. In circostanze migliori l'avrebbe rimbeccato, ma Bruce si sentiva fin troppo colpevole per quello spazio anomalo che saltava all'occhio fra pollice e medio della sua mano destra.

- Sto bene, ma non chiedermi di digitare troppo. La dottoressa tornerà da un momento all'altro, meglio se ti levi dai piedi. – lo congedò con un scrollata di capo, nel tono la stessa bonaria indifferenza con cui aveva imparato a confrontarsi sin da ragazzino.

Fece scorrere il pannello di vetro della finestra che aveva forzato per entrare e lo scroscio incessante dell'acquazzone inghiottì la silenziosa penombra della stanza.

- Chiederò a uno dei miei di rintracciare il tablet e spero salti fuori una pista. Prenditi la giornata libera domani. – chiosò arrampicandosi sul telaio umido, ma, prima che Lucius potesse opporsi alla sua decisione, lo squarcio remoto di un tuono invase l'aria nascondendo la sua fuga.

Bruce avrebbe voluto sentirsi più tranquillo, ma la pioggia insistente non era l'unico tarlo a battere insistente sui suoi pensieri.

L'attacco di Quinn si era rivelato inutile, certo, non era la prima volta che aveva a che fare con un maldestro tentativo d'intrusione nei suoi sistemi, eppure la sfacciataggine della ragazza lo preoccupava.

Per mesi era rimasta quieta dietro spesse sbarre di ferro a Blackgate, distrutta dalla morte di Joker, come un animale che ha perso il padrone e forse Bruce si era lasciato trarre in inganno. Non aveva mai creduto che, con Joker fuori dal quadro, Quinn avrebbe racimolato il fegato necessario per tentare qualcosa in proprio.

Non era affatto sicuro di che cosa volesse o chi la stesse aiutando ad ottenerlo e la cosa lo preoccupava non poco.

Se l'obiettivo era sempre stato alimentare la paura, soffocare la poca speranza che era rimasta a Gotham di creare un futuro migliore, perché rubare il tablet? Certo, aizzare noti ricercati contro Batman era un comune passatempo delle sue conoscenze, ma perché ora? Perché unirsi con una così succulenta posizione di potere ancora vacante?

Poteva essere una semplice rappresaglia, un metodo come un altro per schiacciare la brava gente della metropoli nel morso della paura, ma il suo istinto gridava al lupo e, persino sotto quel gelo indiscreto, poteva sentirlo ribollire di feroce consapevolezza.

Gotham Reborn non sarebbe stato un messaggio sufficiente, non più. Non erano la ferrovia e i palazzi il sangue e le ossa di quella città, non lo erano mai stati.

Non si può riporre la propria fiducia in mattoni e ferro, ma si può confidare in un simbolo di integrità anche nei momenti più oscuri. A Gotham serviva qualcuno che avrebbe guidato la metropoli della criminalità dritta verso il futuro, qualcuno che non vivesse nell'ombra, che avesse già dato prova di aver guardato nel marcio senza perdere la testa.

C'era un solo nome possibile per quel compito, un nome che avrebbe lavato via l'infamia con cui Sharp aveva insozzato il seggio sindacale.

Di certo non sarebbe stato facile convincerlo, non con la testa dura che si portava sulle spalle, né con un lavoro totalizzante come quello di commissario del GCPD.

Tornando verso l'attico della Wayne Tower, si chiese se Barbara sarebbe stata d'accordo.


Il recente incontro con Harley Quinn non aveva fatto altro che ribadire la mancanza di un'auto adeguata alle sue esigenze. La carcassa ingombrante della vecchia Batmobile riposava ancora irrecuperabile su una delle pedane in acciaio della caverna, riflettendo la poca luce delle lampade alogene con la fierezza di un maciste sconfitto.

Bruce non si sarebbe lasciato scappare altre occasioni, non con quella spina conficcata nel cervello che penetrava più a fondo ad ogni vicolo cieco in cui erano state risucchiate di recente le sue piste.

Per questo si affidò a Fox che, con la discrezione accumulata in anni di lavoro, era riuscito a prendere contatti per vie poco battute con un ex ingegnere militare tedesco. Il migliore nel campo della progettazione automobilistica, dicevano.

Lavorando come intermediario per Batman e aggirando con cautela qualche politica aziendale, aveva commissionato al dissidente confinato in un bunker nei pressi di Stoccarda, un veicolo da capogiro.

I progetti erano ovviamente sperimentali, tecnologia per cui si poteva tranquillamente incappare in incidenti diplomatici, ma Batman pagava bene e non avrebbe preteso meno del meglio che poteva offrire il mercato classificato d'oltre oceano.

Qualcosa di inaudito, che non aveva mai solcato le strade di Gotham, solo così avrebbe mantenuto intatto il mito della sua inattaccabilità.

La settimana seguente, tramite una società prestanome, il carico sbarcò puntuale sulla banchina di un piccolo porto commerciale quaranta miglia fuori città, diretto a un anonimo deposito noleggiato tramite una consociata della WEnt. Nonostante le infinite precauzioni con cui Bruce acquisiva regolarmente parte del suo equipaggiamento, il camion di trasporto senza insegne fu intercettato da ignoti.

La telefonata arrivò al suo cellulare, mentre attendeva insieme a Fox l'arrivo del carico previsto per la mezzanotte.

Il container era stato sottratto poco fuori Gotham da un elicottero militare sconosciuto. Qualunque fosse il problema, Bruce sapeva di doverlo risolvere prima che la notizia arrivasse alle orecchie della GCPD per non incorrere in futuri grattacapi.

Sempre più persuaso dall'esistenza di qualcosa di più grosso in ballo di una semplice rappresaglia contro il progetto Gotham Reborn, si recò sul posto di persona sfruttando il segnale tracciante del prototipo.

Custodito all'interno di una scatola di metallo da un centinaio di tonnellate, passeggiava indisturbato nei cieli della periferia agganciato ad un anonimo elicottero cargo.

Non trattenne un verso di disappunto, quando, raggiunta la pancia vuota del velivolo, scoprì che dietro quella mossa così ben calcolata c'erano i fratelli Tweedle Dee e Tweedle Dum, due ebeti troppo cresciuti per correre dietro a favole infantili e soprattutto poco propensi a strisciare fuori dal loro covo a China Town senza un ragionevole compenso in denaro.

Sarebbe stato facile liberarsi di loro, tagliare i cavi per poi agganciare il container al Batwing, troppo facile. Ma i Tweedle non erano soli in quel mezzo militare ben camuffato dal valore di qualche milione di dollari persino sul mercato nero, tutt'altro che a portata delle loro tasche.

Bruce sentì la presenza dell'energumeno altro due metri e piazzato come un toro, solo quando il pugno da quarto di bue gli si piazzò fra le costole spezzandogli il respiro e sbalzandolo fuori dal velivolo in quota.

L'impatto con l'instabile lastra d'acciaio del carico, sospesa qualche metro più in basso, per poco non gli dislocò una spalla, ma era pronto quando il maciste in tenuta tattica gli piombò addosso con la bava alla bocca.

Colpiva con furia cieca, gli occhi scuri fuori dalle orbite in un bieco delirio di violenza. Bruce conosceva quello sguardo, l'aveva visto altre volte accendersi nelle intenzioni di chi combatteva senza sapere perché, convinto da un misto di delirio egomaniaco e chimica da quattro soldi.

Quell'uomo era stato drogato, ma nel putiferio di calci e pugni non gli sarebbe bastato il tempo per riflettere su chi avrebbe avuto motivi sufficienti a fare il lavaggio del cervello a un malcapitato qualunque e aggiungerlo al duetto idiota dei fratelli Tweedle.

Chiunque fosse doveva avere una visione piuttosto ampia sui suoi metodi di rifornimento, non era perciò da escludere che conoscesse la sua identità.

Nonostante i muscoli gridassero tregua e il cuore battesse pesante fra le costole ammaccate, riuscì a liberarsi dell'energumeno in pieno delirio con un'esplosione controllata sul tetto del container. Si mise alla guida di un'auto che non conosceva, rischiando di mandare in fumo milioni di dollari quando atterrò pesantemente col veicolo su un tetto parecchi metri più in basso.

Dopo aver messo fuori gioco gli altri due membri, decisamente meno pericolosi, dell'accresciuta famiglia Tweedle, fece atterrare l'elicottero cargo, confidando nell'intervento della polizia per la sua rimozione.

Lasciò i tre malcapitati di fronte all'edificio squadrato della GCPD. La luce che filtrava attraverso le spesse porte a vetri, disegnava con una geometria pallida e distorta i contorni polverosi della bassa scalinata in pietra.

Era solo questione di tempo prima che qualche agente notasse i fagotti pesti abbandonati accanto a uno dei veicoli in sosta, un quadro che si era ripetuto sempre più spesso negli ultimi anni.

Dall'ombra in cui si era acquattato, più per abitudine che reale necessità, Bruce percepì immediatamente i passi pesanti dei piantoni di guardia, impastati al suono strascicato di qualche parola svogliata prima della fine del turno.

Li vide emergere dalla spessa condensa che si era posata sul lastricato lurido, fermarsi a guardare i tre uomini pronti per l'arresto senza traccia di genuino stupore.

- Due dei ricercati più pericolosi di Gotham. Più un nuovo ... complice. Il vostro capo saprà cosa fare. – gracchiò attraverso il buio denso come nebbia, ma nessuno dei due uomini in divisa trasalì.

- I Tweedle sono vivi, quindi? Credevo avessi finalmente deciso di fare sul serio con questi farabutti. –

Le mani ben conficcate nel cinturone di cuoio, il più tarchiato dei due agenti spolverò, con un gesto schifato, la punta dello stivale sul corpo pesto di uno degli uomini esanimi ai loro piedi.

Bruce sentì il tarlo tornare a scavare nel retro del suo cervello più insistentemente di prima. Qualcosa stava decisamente sfuggendo al suo controllo e, non essere in grado di porvi rimedio, lo mandava lentamente ai matti.

- Di che diavolo state parlando? –

- Hai ammazzato altri sfigati negli ultimi giorni, perché non questi tre? Avresti risparmiato alla città la spesa e la seccatura del processo. Cioè, è questo il messaggio ora, no? "Datti una raddrizzata o Batman ti fa secco". – ridacchiò l'agente in risposta facendo tremolare il vistoso doppio mento nel colletto della camicia, gli occhietti porcini inchiodati ai suoi in un gelido sarcasmo.

Il rombo assordante del motore coprì lo schiocco secco della sua mascella. Qualcuno stava ammazzando a sangue freddo i criminali di Gotham spacciandosi per Batman, lo stava facendo proprio sotto il suo naso. 


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Capitolo 19
*** ~17~ Never do it again! ***


~17~ Never do it again!

«Ci sono notizie dal laboratorio?»

«No, dottoressa e chiamare ogni venti minuti non accelererà il processo. A quanto ho capito hanno poco o nulla su cui lavorare, perciò, la prego, smetta di chiamare.»

La voce arcigna della caposala s'interruppe bruscamente in acuto, trapanandole il cervello, quando riagganciò senza tanti complimenti dopo l'ennesima chiamata dal pronto soccorso.

Dopo una giornata come quella April avrebbe dovuto sentirsi distrutta, crollare su uno degli scomodi divanetti della sala medici senza sognare, senza scervellarsi. Invece i pensieri la tormentavano, non le davano tregua, grattavano con la precisione di un artiglio affilato, facendosi strada nella solidità delle sue convinzioni.

L'avevano avvertita quando aveva accettato quel posto al Mercy.

Gotham era un mostro esigente, un gigante spietato e divoratore, sapeva punire con la stessa meticolosa volontà di una madre bisbetica e ingoiava il suo tempo libero con la voracità di un felino affamato.

Eppure non avrebbe mai immaginato di confrontarsi con qualcosa che odorava così profondamente di guai da darle la nausea.

Dopo l'attacco alla presentazione del progetto Gotham Reborn, al pronto soccorso erano cominciati ad affluire strani casi di intossicazione. Alcuni pazienti mostravano solo sintomi leggeri, sarebbe stato impossibile identificare un pattern comune dietro quelle apparenti casualità, ma all'ennesimo ricovero nel giro di pochi giorni la realtà era diventata innegabile.

Si muoveva una precisa volontà dietro quegli accadimenti, di che natura fosse non era certo suo compito stabilirlo, ma il bilancio era senza dubbio preoccupante.

Con il proseguire delle ore i sintomi si aggravavano, i soggetti passavano da blande alterazioni della coscienza a gravi episodi allucinatori, fino alla paranoia franca e ad un'incontenibile agitazione motoria.

L'ultimo caso era giunto all'osservazione quella mattina stessa. Un anonimo, un uomo di cui nessuno probabilmente avrebbe segnalato la sparizione, il soggetto perfetto per un esperimento.

Il solo pensiero bastava a farla rabbrividire.

Poteva essere paranoia, certo, c'erano droghe a sufficienza in circolazione per sedare i dubbi anche del medico più sospettoso, il problema tuttavia era che il laboratorio non riusciva mai a identificare il composto intossicante.

I tecnici erano stati in grado di stilare una lista accurata solo di ciò che la sostanza poteva non essere. Di certo non veniva ingerita, né iniettata, perciò, data la velocità con cui era degradata ed eliminata dall'organismo, erano giunti di comune accordo alla conclusione che si trattasse di un gas volatile.

Purtroppo la scoperta era servita solo ad angosciare la polizia. Rimanevano in silenzio dall'altra parte della cornetta, le mani nei capelli e una lista di confronto inesistente su cui lavorare.

Persino sul mercato nero, non esisteva all'attivo una droga gassosa che circolasse fra le sostanze illegali conosciute a Gotham.

April controllò il cellulare nella tasca del camice per un semplice riflesso, senza vederne realmente lo schermo azzurrino. Dovevano essere le otto passate, era questione di tempo prima che montassero i colleghi del turno di notte, eppure le gambe si rifiutavano di allontanarla dalla sicurezza e dall'illusione di controllo del piccolo studio al decimo piano.

Telefonare a ripetizione, come aveva fatto, riusciva in parte a calmare le sue preoccupazioni, ridimensionava il problema, lo rendeva in qualche modo meno evanescente alla sua comprensione.

Guardando nella tetra oscurità fuori dalla doppia finestra incassata solidamente nel nuovo telaio, quasi cedette alla tentazione di chiamare Bruce. Era stato spesso fuori città per lavoro negli ultimi giorni e, con i suoi turni massacranti, le possibilità di incontrarsi si erano drasticamente assottigliate.

Erano stati fuori a cena un paio di volte dopo il loro ultimo incontro a villa Wayne, ristoranti discreti, quasi asfittici per non incappare nell'ovvietà di un locale in grande stile come si sarebbero aspettate le iene del Gotham Gazette.

Incontri informali, permeati da quell'intimità che era cresciuta a dismisura dal giorno in cui avevano deciso di comune accordo di deporre le armi e lasciare che accadesse ciò che doveva, senza opporre strenue resistenze.

I messaggi continuavano ad arrivare puntuali ogni giorno al suo cellulare, quegli scarni bollettini di guerra a cui ormai April aveva fatto l'abitudine. Sorrideva leggendo le telegrafiche preoccupazioni di Bruce Wayne circa la sua giornata, in qualche modo, seppur impacciato e vagamente formale, dava l'idea di volerci provare davvero.

Accantonò il pensiero di un appuntamento quando il riflesso lattiginoso sul plexiglass tirato a lucido le restituì un volto pallido e stanco, qualcosa che avrebbe fatto bene a rimanere lontano da sguardi indiscreti.

La brezza gelida della sera le sferzò le guance arrossate, mentre, conficcata nel cappotto nero, cercava d'infrangere l'umidità pesante di quell'ottobre traditore per raggiungere la fermata della metropolitana.

Gli ultimi gothamiti che, come lei, aspiravano al ritorno al tiepido focolare domestico si attardavano infreddoliti sotto la pensilina gocciolante alla fermata Bristol di Miagani Island in attesa del treno.

Il metrò arrivò sferragliando in maniera angosciante, spazzando la pensilina col suo carico di condensa e vapori dal vago sentore di bruciato.

La corsa fu breve fino a Kingston.

Nonostante il cielo nero fosse macchiato dal riverbero rosso di qualche nuvola passeggera, non una goccia di pioggia lavò i vetri impolverati della carrozza immersa nella luce intermittente dei fari alogeni in fila sul soffitto d'acciaio.

April lottò contro il gelo che filtrava indiscreto attraverso le fibre del cappotto, fino alla doppia porta a vetri del palazzo con la scala antincendio sulla facciata. E quando finalmente il ventre scuro dell'appartamento si aprì davanti a lei, si sentì così stanca da non desiderare altro che il rifugio del proprio letto.

Waffle l'accolse sulla soglia con un miagolio di rimprovero, gli occhi cerulei inchiodati ai suoi attraverso la penombra. Trotterellò affamato al suo fianco finché la ragazza non si decise a riempire la ciotola su cui l'animale si avventò voracemente, senza degnarla d'altre attenzioni.

Restò a guardarlo leccarsi i baffi con aria di profonda soddisfazione per lunghissimi istanti, indecisa. La solitudine non le faceva bene, la costringeva a flettersi su se stessa, sui suoi dubbi, lasciando poco spazio al resto. Lo sapeva.

Eppure in notti come quella era difficile scrollarsi di dosso i brutti presentimenti, ignorare i fantasmi che si rincorrevano fluidi come acqua nelle ombre dense fuori dalla finestra.

Il delicato strofinio di Waffle contro la sua caviglia la scosse, la guardava con occhi languidi, ammiccanti come a chiederle un favore.

- Va bene. Vieni. – fiottò sollevandolo cautamente fra le braccia, mentre, con uno schiocco secco, la porta finestra scorreva sui cardini e un gelo pungente veniva soffiato all'interno da un mantice invisibile.

Il gatto non parve minimamente turbato dal morso del freddo che si avvinghiava traditore ad ogni passo al corpo della ragazza, annusava l'aria umida con l'impazienza tipica dell'istinto.

April lo strinse teneramente a sé, inspirando l'odore neutro del morbido pelo color crema. Il cuore della bestiola che batteva come un fringuello sotto il palmo della mano, mentre sfregava contro la sua guancia il tiepido muso baffuto.

- Vai, divertiti. Almeno tu. – sussurrò in sospiro che si appannò in condensa, mentre lasciava che il gatto scivolasse elegantemente via dalla sua presa.

Si aspettò di vederlo balzare sul cornicione e sparire per un po' inghiottito dal buio denso che avvolgeva in spire geometriche e contorte il resto del balcone. Invece l'animale inchiodò sulle zampe anteriori, arruffando il pelo e inarcando la schiena, gli occhi attenti fissi su qualcosa d'imperscrutabile in quel mare di pece.

Un miagolio minaccioso spezzò la monotonia del soffio del vento, rimbalzò sul cemento, spandendosi come un onda in quel nulla apparente. April trattenne il respiro, mentre Waffle gorgogliava in acuto senza cedere di un passo.

Si accorse dei due dischi luminosi che la fissavano attraverso le tenebre solo quando un rumore strascicato e stridente mise l'animale in fuga. Le passò accanto alla velocità di una miccia accesa, rinunciando alla lotta, per rifugiarsi nel tepore dell'appartamento.

Fra i denti la ragazza si maledisse per non aver portato con sé il cellulare, indietreggiando lentamente nella speranza che il cuore che batteva al ritmo di un frullatore impazzito non l'avrebbe tradita.

Soffocò a malapena un verso di disappunto quando, accompagnato da un angosciante fruscio, la sagoma familiare dell'enorme pipistrello emerse dalle tenebre nella penombra aranciata dei neon, niente più che sfarfallii lontani nella condensa notturna.

- Oh ... è lei. Per l'amor di Dio, non lo faccia mai più! Mi ha spaventata. –

Tentò di riguadagnare il controllo e dominare i biechi pensieri che in un istante le si erano affollati dietro le palpebre chiuse.

- Che ci fa qui? – chiese poi in un sospiro di sollievo, l'aria che stentava ancora ad attraversare la gola asciutta.

- Ho bisogno di informazioni. –

La voce raspante si trasformò in vapore denso e lattiginoso, prese corpo nella distanza che li separava spazzata dal fischio del vento in quota.

Eppure non le sembrò reale quella presenza più scura della notte, la sagoma sgraziata e impietosa che torreggiava su di lei nella spessa armatura grigia, lo sguardo impenetrabile dietro le cavità sfavillanti di luce azzurrina incastonate nella maschera nera.

- Capisco. E di che aiuto potrei esserle io? È lei il vigilante con straordinarie capacità deduttive, infondo. –

Non gli doveva un bel nulla, questa era la verità, anche se trovare il coraggio di ammetterla di fronte a quegli occhiacci indagatori era tutt'altra storia.

Lui la spaventava, a morte, ma April non poteva neppure negare la gentilezza di cui era stato capace a fronte di tanta barbara violenza. Batman si ostinava a non rispondere, con la pazienza di una statua di marmo respirava quieto nella bruma autunnale, in attesa.

- Mi scusi, non volevo essere meschina ... l'aiuterò. –

- Grazie. Gli uomini ancora ricoverati in terapia intensiva ... avete scoperto la natura della tossina? –

Non poterlo guardare negli occhi, come aveva fatto altre volte, la metteva profondamente a disagio, quasi l'uomo avesse deciso di non combattere ad armi pari quella schermaglia di botta e risposta. Eppure non trattenne un moto di impazienza quando il vigilante rivelò di sapere molto più di quanto avrebbe dovuto.

- Come fa ad avere queste informazioni? – chiosò sorpresa e forse le parve quasi naturale l'ostinato silenzio che oppose il suo bizzarro interlocutore.

Lo guardò in cagnesco per qualche istante, chiedendosi se poteva fidarsi di lui, perché, fra tanti, aveva scelto di tornare a tormentarla con quel suo savoir-faire da incubo.

- No. Tutto quello che sappiamo è che non è solo un gas, può essere assorbito oltre che inalato. I sintomi sono sempre gli stessi allucinazioni, paranoia, tachicardia, agitazione motoria, alterazioni della coscienza fino alla disattivazione del sistema, se presente in dosi massicce nell'organismo. Quegli uomini sono stati esposti per giorni. – cedette infine, cosciente di essere in svantaggio anche se, per un breve istante, percepì un vittorioso sollievo nel constatare di non essere la sola turbata da quelle strane intossicazioni.

- Che cosa sta succedendo? Non può negarmi una spiegazione. –

Si fece più vicina, provando ad incalzarlo seppure con la strana certezza che non avrebbe soddisfatto la sua curiosità.

Batman sembrò trarre un sospiro che morì in fretta nella luce diafana delle orbite accese, la voce roca appena più dolce oltre il sibilo del vento.

- Non ne sono ancora sicuro, ma le prometto che sarà la prima a sapere. –

Di nuovo credette che sarebbe sparito, ora che aveva ottenuto ciò che voleva, senza degnarla di una sola altra parola. Invece il vigilante rimase lì a guardarla, avvolto in quelle tenebre in cui sembrava trovarsi perfettamente a suo agio, gli occhi opachi legati ai suoi, penetrando le ombre. 

Poteva sentire il suo respiro, cadenzato e profondo nel silenzio ovattato della terrazza, quasi i rumori del mondo esterno fossero diventati improvvisamente distanti anni luce, sospesi in una stasi che poco aveva a che vedere con il clima.

Poteva vederlo trasformarsi in bruma al gelo di quella notte di fine settembre. Colmare lo spazio fra loro in una curiosa intimità. C'era qualcosa in lui ... qualcosa, che, nonostante il naturale timore che emanava dalla sua figura, la costringeva a rimanergli accanto.

- Il suo cuore ha le palpitazioni ... lei ha paura di me. –

Un sibilo roco incrinò la quiete, i dischi candidi conficcati nei suoi si spensero con un guizzo lasciando scoperte le iridi blu, impenetrabili quanto le sue intenzioni. Solo allora, April capì che si combatteva davvero una lotta impari in quel loro scambio di sguardi.

Eppure il tono della voce sembrava essersi rilassato, nonostante la mascella serrata e, forse inconsciamente, l'espressione composta di chi ha già avuto in pugno qualcuno.

- Questo non è giusto, lei non ha il diritto di leggermi in questo modo! Soprattutto dal momento che è praticamente impossibile farlo con lei ... -

April fece istintivamente un passo indietro, sottraendosi all'incombenza di quella figura. Il corpo l'aveva tradita lasciando che la mente vagasse su ciò che provava per lui, per quanto complicato, qualunque cosa fosse.

Non avrebbe mai trovato, però, il coraggio di dirgli che si sbagliava.


- Qual è il suo nome, dottoressa? –

Bruce lo chiese con la stessa sfacciataggine con cui le aveva mentito la prima volta, in quel corridoio tappezzato d'arazzi, un posto che prima di quel momento non era mai esistito fra i suoi pensieri.

- April. – rispose lei di rimando, dopo un istante d'esitazione, le sopracciglia innaturalmente vicine sulla fronte in un piglio di momentanea diffidenza.

- Non voglio farle del male, April. – sospirò Bruce fra i denti, una dolcezza che non riconobbe nella propria voce mentre cercava di riavvicinarsi e, questa volta, la dottoressa non si tirò indietro.

- Lo so. Non l'ho mai ringraziata per aver ritrovato il fermaglio di mia madre. So che è stato lei. Ha significato molto per me. –

Gli occhi d'ambra s'inchiodarono ai suoi senza esitazione, quasi impietosi, eppure c'era di nuovo quella strana nota di dolcezza nelle sue parole, come il giorno in cui l'aveva spinta nell'ascensore appannato dai fumogeni.

- Dovere. –

- No, non lo era. Eppure lo ha fatto. Perché? –

Era persino più sveglia di quanto Bruce avesse preventivato, aveva penetrato la sua freddezza con l'abilità di uno schermidore. Non poteva lasciarsi scappare qualcosa del genere, provava troppo rispetto per lei per farle intravedere i crateri che il suo sguardo e le sue parole avevano aperto sotto la corazza, fin nella pelle.

Sembrava atterrita, esile quanto Bruce era imponente, esposta al gelo di quella bruma appiccicosa eppure non distolse le iridi appannate dalle ombre, senza retrocedere al suo silenzio.

- Sta tremando. – gracchiò nel silenzio, gli sarebbe bastato allungare il braccio per sfiorarla, stringerla a sé come aveva già osato in precedenza.

- Non per il motivo che crede lei ... -

Forse per la prima volta si era lasciata scappare più di un accenno ai suoi sentimenti, e Bruce si stupì di essersi avvicinato a lei a tal punto da poterne distintamente avvertire il fiato tiepido sulle labbra.

Respirò appena, senza tirarsi indietro. Conosceva il suo odore, un vago bouquet floreale, disinfettante ospedaliero e bucato appena fatto. Avrebbe voluto perdersi in quel profumo, tanto da confessarlo a se stesso. Poteva sentire una familiare energia, quasi una scossa elettrica, pulsare fra la sua pelle e quella della ragazza e si sarebbe volentieri perduto anche in quella sensazione, ma ... c'era sempre un ma.

Era una cazzata quella cosa fra loro, uno sbaglio che non potevano permettersi e Bruce lo sapeva meglio di chiunque altro.

- Devo andare. –

Indietreggiò a tentoni fino al cornicione scorticato dall'umidità impertinente e la ragazza non mosse un passo per trattenerlo.

- Si, deve. – sussurrò, immobile nella condensa dal vago odore di smog e di un temporale lontano. Bruce si gettò nell'abbraccio del vuoto senza guardarsi indietro una seconda volta.

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Capitolo 20
*** ~18~ Heart issues 1 ***


~18~ Heart issues 1

La paura è un cannibale.

Si nutre di se stessa senza esitazione, insaziabile, inesorabile. Venirne divorati è questione di un attimo, abbassare la guardia, lasciare un punto scoperto. È sufficiente un battito di ciglia per rimanere intrappolati in questa spirale senza fine. Provare paura per nutrire la paura.

Ti entra dentro, invade i polmoni, s'impossessa di qualsiasi pensiero sensato finché del coraggio non rimane più nulla. E' facile annegare nel mare calmo della sua inesorabile potenza, abbandonare ogni appiglio per lasciarsi andare alle acque gelide del terrore.

La paura era merce di scambio preziosa a Gotham. Non si nascondeva solo negli anfratti più bui, nello squallore di una periferia dimenticata, ma nelle strade affollate, fra i grattacieli più imponenti e nei locali ben frequentati. Non era un segreto che in quella moneta si potesse commerciare, quanto potere si annidasse dietro azioni apparentemente di poco conto. Gotham era una scacchiera in costante mutamento, una polveriera in equilibrio instabile sullo stallo precario dell'apparenza. Sarebbe bastato un niente ad accendere la miccia, un paio di labbra guidate da bieche intenzioni a soffiare su una caldera già in ebollizione.

L'aria era già satura. Lo si poteva avvertire nella brezza densa della sera, nella condensa lattiginosa che si appiccicava impertinente ai cappotti, imperlando i capelli, velando l'asfalto tetro nei pressi della metropolitana. Guardando il manto pece stiracchiarsi fra i grattacieli e la pensilina, April non poté che ricordare l'ottobre innevato di Boston. I tetti ricoperti di una densa coltre bianca, la bruma perenne intorno ai comignoli accesi, l'orizzonte arancione rimbalzare sui mattoni sbiaditi. Si chiese se sarebbe mai successo a Gotham, se l'umidità incessante avrebbe mai ceduto il passo alla coperta gelida e soffice dei suoi ricordi.

Dal fondo della lurida scalinata in ferro della pensilina, avvertì lo sferragliare del treno in arrivo come un rombo stonato fin nelle suole delle scarpe bagnate. Forse sarebbe riuscita a salire al volo se avesse percorso gli scalini d'un fiato senza respirare, si sarebbe strizzata fra le porte in chiusura e sarebbe riuscita a trovare posto a sedere evitando la calca dell'ora di cena, ma un grido strozzato a pochi metri dal marciapiede la scosse.

- Aiuto! Un medico! -

Dalla bruma leggera che oscurava l'angolo cieco oltre la pensilina, emerse una donna trafelata in berretto nero e cappuccio grigio, interrompendo di fronte alla ragazza la corsa sgraziata di chi è troppo spaventato per riprendere fiato. Il respiro affannoso si trasformava in condensa in grandi sbuffi attraverso la bocca sdentata, gli occhi stralunati conficcati nei suoi oltre un velo di cieco terrore.

- Che succede? - le chiese April di rimando, senza concentrarsi troppo sull'odore penetrante di sporco che emanava dagli abiti anneriti persino in quella brezza pungente.

Seppur sconvolta, la donna continuò a guardarsi intorno, forse in cerca di un appiglio più concreto della ragazza mingherlina conficcata nel pesante cappotto grigio che aveva di fronte.

- Un uomo ... un poliziotto, è stato aggredito. È a terra, forse è morto ... - chiosò dopo un istante di esitazione, le mani callose che tremavano visibilmente, la voce stridula semicoperta dallo schiocco secco del chiudersi delle porte a soffietto del treno.

- Cerchi di calmarsi, mi dica dove è successo. -

- Dietro l'angolo, ma lì non ci torno. - scosse la grossa testa nel berretto di lana nera, mentre con un gesto nervoso indicava la strada di comunicazione oltre lo snodo ferroviario. Non avrebbe ottenuto altro da lei, lo sapeva, quindi non provò neppure ad insistere per farsi accompagnare sul luogo.

Cercò invece gli occhietti acquosi e spaventati della donna nella coltre fumosa che spazzava la strada sotto le arcate in ferro battuto, sperando che recepisse il messaggio.

- Ho visto un auto di pattuglia passare da qui poco fa, li raggiunga e li avverta. Si sbrighi! -

Non perse tempo a guardarla sparire dalla luce strozzata dei grandi lampioni ricurvi, accompagnata dalla condensa lattiginosa del suo respiro pesante e s'inoltrò invece a ritroso le tenebre del vicolo da cui era comparsa conficcandosi ancor più profondamente nel caldo cappotto grigio.

Tutto si sarebbe aspettata fuorché di trovarsi in un'altra zona di guerra.

L'aria sembrò svanirle dai polmoni mentre, sullo sfondo della strada principale ormai deserta, la penombra vitrea si squarciò danzandole davanti agli occhi alla tremula luce di un'auto pattuglia in fiamme. Poco lontano un'ambulanza giaceva riversa su un fianco come la carcassa di un grosso animale ferito, le porte spalancate sull'interno candido in penombra.

In quel commisto di neon e scintille, le sagome dei quattro uomini in passamontagna presenti sulla scena parvero distorcersi e scompattarsi in un ritmo angosciante.

Per un istante che le parve interminabile, April si limitò ad osservarli radere al suolo a colpi di mazza e bastoni tutto ciò che capitasse a tiro, ascoltò le risa sguaiate, le bestemmie fra i denti a sovrastare lo scoppiettio del fuoco. Dovette sbattere le palpebre, esiliare lo scroscio di vetri in frantumi e il sordo clangore del metallo battuto per ritrovare la lucidità necessaria ad accovacciarsi dietro una macchina e scansionare la zona in cerca dei feriti.

Un agente giaceva riverso sull'asfalto umido a pochi metri da lei, immobile, le dita ancora serrate intorno alla radio accesa. Dalla posizione in cui si trovava poteva scorgerne un altro, laggiù accanto al veicolo in fiamme, a portata degli stivaloni sudici che ancora infierivano sul corpo immobile.

Col cuore che le martellava fin nella gola e un respiro che proprio non voleva entrare nei polmoni, April si lanciò verso l'auto successiva. Sentì la schiena impattare contro il metallo cromato dello sportello, spezzarle il fiato. Era una follia, lo sapeva, eppure le sarebbe bastato allungarsi per toccarlo, sempre che non li avessero avvistati prima.

Controllò che i quattro uomini a volto coperto fossero ancora distratti, le serviva un istante, un barlume di fortuna, nient'altro. Si allungò di nuovo, senza pensare, senza guardare e i rumori cessarono. Per un folle attimo fu certa di essersi tradita, mentre si affrettava a controllare i segni vitali del poliziotto ferito, eppure non era di soddisfazione il grido che s'insinuò fra la cenere che saturava l'aria.

- Batman! -

Una pesante ombra nera piovve dal cielo violaceo ad una velocità suicida, impattando sull'asfalto con un tonfo sordo. April fece fatica a seguirne i movimenti resi fluidi dal mantello color pece, nonostante la lega dell'armatura riflettesse a tratti l'ardere angosciante delle fiamme che ancora divoravano l'auto pattuglia.

Come era accaduto altre volte, osservò impietrita i contorni taglienti del vigilante piombare sugli uomini armati, trascinarli in un turbine di violenza, ingoiarli fra le pieghe delle nere ali di stoffa.

Se li sentì rimbalzare fra le costole quei colpi studiati e brutali, il tristemente familiare schiocco di ossa spezzate, il gemere strozzato del nemico sopraffatto. Non durò più di un minuto e, mentre la ragazza tentava di deglutire contro la gola riarsa dal fumo e dal terrore, Batman aveva già sottratto il secondo agente di polizia alle fauci del fuoco depositandolo ai suoi piedi, al sicuro.

- Perché è qui? -

Non le disse altro. Gli occhi blu che baluginavano taglienti attraverso le fessure allungate della maschera, il respiro tranquillo, soppesandola.

- Mi hanno detto che qualcuno era stato aggredito. - rispose senza scomporsi, in qualche modo aveva imparato a non temerlo, a non temere per la propria vita quando torreggiava su di lei a quel modo.

- Come stanno? -

April si chinò sull'uomo di circa ottanta chili che il vigilante aveva appena deposto accanto a lei senza sforzo apparente. Tastò il collo taurino a tentoni sotto il colletto sudato della divisa, il pulsare dell'arteria era inequivocabile per quanto fosse stato pesantemente percosso.

- Vivi. - sospirò e quasi ebbe la tentazione di lasciare che le gambe cedessero al tremore che si era impossessato di lei da quando era uscita dal vicolo.

Prima che entrambi potessero cullarsi nell'illusione che il peggio fosse passato, tuttavia, l'angosciante sferragliare di un'auto lanciata sull'asfalto a folle velocità saturò il silenzio. Il malmesso tassì giallo sterzò nella loro direzione in una cacofonia di gomma bruciata e stridio di freni a disco per arrestarsi al centro dell'incrocio.

- Non uscirai vivo da qui, stronzo. - ringhiò un maciste male in arnese, scendendo dal trabiccolo insieme ad altri quattro malintenzionati in logora tuta da lavoro. Con uno schiocco secco accese l'enorme taser che stringeva fra le mani da palombaro ed April avvertì distintamente il calore lasciarle il viso, mentre osservava la corrente azzurrina danzare fra i due poli dell'arma.

All'improvviso si sentì in trappola, schiacciata contro quell'automobile troppo piccola per sottrarli alla cieca violenza cui aveva assistito spesso negli ultimi tempi.

- Stia qui. Non esca per nessun motivo. -

La voce di Batman richiamò il suo sguardo, non era un consiglio, lo sapeva bene, ma non riuscì a rispondere. Mentre si allontanava a passi pesanti nella complessa armatura, tornò a posare le iridi immobili su di lei, frapponendosi alla sua visuale.

- No ... non guardi. -

Per un attimo le era sembrato qualcuno di molto più dolce.


Bruce aveva imparato a non temere il dolore. Né la perdita. Forse persino la paura stessa. Aveva sanguinato, si era frantumato e schiacciato fin troppe volte per pensare di tirarsi indietro di fronte alla prospettiva di provare dolore.

Disciplina, concentrazione, respiro, misura erano stati l'esercizio fondamentale su cui aveva costruito la propria vita, pezzo dopo pezzo. Eppure c'era qualcosa nella consapevolezza che lei fosse lì, a pochi metri dallo scontro, che riusciva ad insinuarsi pericolosamente fra le pieghe della sua coscienza. Sapeva come frenarlo, come esiliare quel pensiero in altri tempi, in altri luoghi del suo cervello, ma sarebbe bastato un attimo di esitazione per rovinarla. Come allora.

Non esitò a fronteggiare i cinque uomini scesi dallo sgangherato tassì giallo, non era più nella sua natura esitare, ma doveva essere cauto. Meglio armati, meglio addestrati. Il che significava che si muoveva un'unica precisa volontà dietro quegli attacchi e non una mera coincidenza dettata dall'idiota cupidigia delle bande di strada.

Ne era quasi certo ormai. Prima o poi tutti si tradivano, prede dell'ansia della belva braccata commettevano un errore, per quanto impercettibile. Tutti.

Merda!

In qualche modo la scossa del taser era arrivata alla carne, bruciando la pelle, spezzandogli il respiro mentre il peso del manganello gli incrinava una costola.

Strinse i denti così forte da sentire la mandibola schioccare, avvertì sulle labbra il sapore del sangue, ma non era ancora abbastanza, non l'avevano ancora atterrato. Prese un respiro fra le mascelle serrate, ingoiò il dolore insieme al ferro che macchiava il sapore neutro della saliva e tornò a colpirli con rinnovata violenza.

L'asfalto fremeva sotto gli stivali bardati, scricchiolava sotto i corpi schiacciati dei suoi oppositori, l'aria satura gonfiava il mantello ad ogni colpo finché di loro non rimase altro che cinque corpi pesti, doloranti, senza più alcuna volontà omicida. Solo allora Batman si fermò.

Bruce tentò di respirare a fondo, sentì l'aria gelida della sera, mista all'odore penetrante dei gas di scarico ferirgli i polmoni, ma senza poter alleviare in alcun modo quella spiacevole sensazione di morsa al petto.

Sapeva che Alfred lo stava monitorando dalla caverna, sapeva che di lì a poco avrebbe sentito la sua voce, ma dubitava seriamente di poter tornare alla macchina con le proprie gambe. Cercò di concentrarsi, d'ignorare i battiti assordanti nelle orecchie, il doloroso martellare nel petto, ma seppure ben ancorato al suolo, la strada aveva cominciato a girare intorno a lui.

Controllò velocemente il computer al polso, sforzandosi di metterlo a fuoco, la sua frequenza cardiaca era in aumento, sentiva quei duecento battiti scuoterlo nel profondo, togliergli il respiro. Stava sudando, le gambe sembravano essere improvvisamente diventate di piombo, eppure non poté evitare di preoccuparsi per lei.

Si guardò intorno, in un ultimo, disperato tentativo e finalmente la vide, era rimasta in disparte, per una volta, proprio come le aveva detto. I loro sguardi s'incontrarono per un lungo istante, un istante in cui la ragazza dovette capire che cosa stava succedendo perché, prima che il mondo cadesse nel buio, Bruce fu certo di vederla correre verso di lui.

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Capitolo 21
*** ~18~ Heart issues 2 ***


~18~ Heart issues 2


April lo vide improvvisamente crollare. L'uomo che per ben due volte le aveva salvato la vita, invincibile nella complicata armatura, ora si accasciava al suolo davanti ai suoi occhi sgomenti.

L'impulso fu più forte della ragione. Per quanto le avesse intimato di rimanere al sicuro, per qualche motivo, April era solamente rimasta a guardare, a osservarlo inebetita combattere con la forza di dieci uomini.

Corse da lui, ormai immobile al centro della strada appiccicosa per la cenere e la pioggia, nel silenzio inghiottito dal gorgogliare di fiamme vive, ignorando gli uomini stramazzati attorno a quella scomposta ombra nera.

Sulle prime ne ebbe quasi paura, come la prima volta che l'aveva incontrato. Alto, scuro, minaccioso, eppure ora che il petto si muoveva irregolare a ogni respiro, le lunghe dita nere contrarsi come a voler afferrare qualcosa d'impalpabile, non esitò a inginocchiarsi.

Quasi non riconobbe la tenerezza con cui posò entrambe le mani sulle fredde spalle bardate, scuotendolo appena.

- Riesce a sentirmi? Può aprire gli occhi? -

L'uomo pipistrello non rispose, le palpebre ancora serrate sotto la maschera nera, il fiato corto attraverso la mascella contratta. Sudava copiosamente, poteva vederlo persino attraverso lo spesso strato in fibra di carbonio che si portava addosso.

Cercò di fare mente locale, chiamando in soccorso tutto il sangue freddo che le fosse rimasto nelle vene per quella notte. Le parve il compito più difficile e ingrato a cui fosse mai dovuta sottostare.

Osservò più e più volte, tracciandone i contorni con dita tremanti, la bardatura in qualcosa di molto simile al kevlar in cerca di un punto scoperto, qualcosa che potesse ricondurre la sua mente alla vista familiare di una ferita, una lesione qualsiasi a cui potesse porre rimedio.

Sotto i polpastrelli erano scorse ormai quasi tutte le placche umide e lisce all'altezza del petto e dell'addome quando, al suo tocco, il corpo pesante e abbandonato dell'uomo si contorse in un leggero sussulto.

All'improvviso sembrò che qualcuno avesse prepotentemente acceso un faro nel suo cervello inceppato dalla paura e dall'adrenalina.

Nonostante avesse compreso ben poco della bolgia di colpi che si era susseguita davanti ai suoi occhi, April si accorse di ricordare distintamente il momento in cui uno degli aggressori aveva raggiunto l'addome del vigilante con un grosso taser.

Per quanto Batman avesse continuato a combattere senza avvisaglie di aver accusato il colpo, l'arma doveva essere riuscita a scalfire la corazza, fulminandolo.

Avrebbe voluto più tempo per pensare lucidamente, per rallentare i battiti dolorosi del cuore nella gola, mentre il suo istinto la proiettava verso ben poco rosee previsioni. Eppure strinse i denti e ingoiò la paura.

Succedeva un po' troppo spesso ormai, da quando quell'ombra nero pece era piombata a gamba tesa nella sua vita.

Dato che i polsi dell'uomo sembravano impenetrabili quanto il funereo stoicismo dietro cui barricava il resto della propria vita, con un po' di coraggio April fece affondare delicatamente due dita sotto la protezione in gomma spessa che avvolgeva il collo ispido. Tornò a respirare solo quando poté avvertire la carotide pulsare frenetica e irregolare contro i polpastrelli sudati.

Contò mentalmente i battiti, li sovrappose a quelli altrettanto furiosi nel proprio petto e capì che l'uomo era in pericolo. Se non avesse trovato il coraggio e il modo di fare qualcosa l'avrebbe perduto senza neppure averlo ringraziato ancora una volta di aver vegliato sulla sua vita.

Chiamare un'ambulanza era certo fuori discussione, d'altra parte era consapevole che non sarebbe mai riuscita a trasportare quel maciste in armatura da qualche parte con le sue sole forze. Si ritrovò a cercare freneticamente qualcosa sulla superficie della corazza che potesse darle la certezza di non essere completamente sola a guardarlo morire, che qualcuno, da qualche parte, lo stesse aiutando.

Scavò e graffiò in cerca di un appiglio finché le unghie non si scheggiarono e i polpastrelli non sanguinarono, poi la pelle impattò con una superficie diversa, quasi morbida al tatto, a livello dell'antibraccio bardato. Con un sordo click il metallo si aprì sotto le sue dita rivelando un fascio di luce.

Trattenne un'imprecazione quando, di fronte ai suoi occhi atterriti, si proiettò a mezz'aria la schermata azzurrina di un computer. Accanto alla sagoma in scala del vigilante si allinearono tre isodifasiche, ciascuna delle quali sembrava apparentemente monitorare con precisione i parametri vitali dell'uomo accasciato di fronte alle sue ginocchia doloranti.

Un unico puntino rosso pulsava frenetico all'altezza del petto, sbraitando silenzioso un segnale di allerta. Tachicardia ventricolare.

April raggelò. I suoi timori si erano appena solidificati, avevano preso vita nel modo più sgradevole e grottesco che avesse potuto immaginare, impattando fra i suoi pensieri con la violenza di una bomba a mano.

Pensare ancora, pensare in fretta. Non poteva lasciarlo morire, non in quel modo. Dietro le palpebre serrate per la paura e la tensione, all'improvviso comparve in un flash la carcassa ammaccata dell'ambulanza che aveva adocchiato solo pochi minuti prima al lato della strada.

- Torno subito. Resista. - fiottò, senza essere neppure certa che il vigilante potesse sentirla, prima di scattare in piedi fra i detriti che le ferivano le caviglie.

Incespicò sull'asfalto umido, tossendo all'odore acre di fumo e cenere che le feriva i polmoni, il cuore che batteva ribelle nelle tempie al ritmo di un martello pneumatico, fino al retro in penombra del mezzo di soccorso.

Con la disperazione dell'adrenalina che le urlava nelle vene, mise a soqquadro ogni centimetro dei cassetti semiaperti nel ventre vuoto e lurido di metallo cromato finché i polpastrelli non riconobbero il vetro e gli occhi d'ambra non lessero a fatica Lidocaina sull'etichetta. Afferrò a stento una siringa sterile e tornò sui propri passi, i muscoli in fiamme e le ginocchia livide per l'impatto con l'asfalto.

- Se può sentirmi, la prego, mi aiuti. -

Quasi non osò sperarlo, eppure all'improvviso l'uomo riaprì lentamente le palpebre serrate. I velati occhi blu si conficcarono nei suoi per un lungo istante, mentre il respiro affannoso di entrambi si trasformava in condensa scontrandosi nell'aria satura.

Batman sollevò con fatica la mano sinistra protetta dal guanto rinforzato solo per slacciare sapientemente l'antibraccio destro. Il tonfo sordo sull'asfalto parve rimbombarle fra le costole, fino alla gola riarsa sciogliendo di un poco il nodo di tensione che le bloccava il respiro.

- Andrà tutto bene. -

Non conosceva la tenerezza con cui gli aveva parlato, non sapeva da quale piega del suo cuore fosse traboccata, eppure, mentre le palpebre scure tornavano a chiudersi, lasciò che la punta delle dita sfiorasse il viso ispido, madido di sudore freddo.

Prese un respiro, poi un altro tentando di raffreddare i pensieri che si agitavano incessanti sotto la superficie, di sedare il fine tremore delle mani mentre riempiva goffamente la siringa.

Era una sciocchezza. Forse la sciocchezza più pericolosa che avesse tentato in vita sua. Iniettare un farmaco in vena era facile in ospedale, circondata da infermieri, sterilità e la certezza di poter rimediare. Farlo in un momento come quello sarebbe stato come giocare d'azzardo ed April non era mai stata una giocatrice.

Trovato l'accesso esitò ancora un istante, il più lungo della sua esistenza, l'ago così vicino da sfiorare la pelle, le dita rigide come ghiaccioli, ma il cuore in subbuglio.

Avrebbe potuto ucciderlo, certo, ma non tentare nulla avrebbe significato comunque averlo sulla coscienza. L'istante fortunatamente passò e l'indecisione scivolò via con le gocce di sudore che le imperlavano la fronte gelata, bastò una minima pressione perché l'ago bucasse la vena. Non le restava che aspettare.

Il tempo sembrava non scorrere mai, intrappolato com'era in quell'aria densa e appiccicosa, si stiracchiava pigro fra le pulsazioni sempre troppo elevate sulla proiezione azzurrina all'antibraccio del vigilante.

Rallentarono infine e così le sue, permettendole di respirare, finché finalmente il cuore non tornò a battere regolarmente sotto la corazza impenetrabile in fibra di carbonio.

Le calze si erano strappate e le ginocchia sanguinavano, tanto a lungo avevano strisciato sull'asfalto per rimanere sopra di lui, eppure April si lasciò scappare un sorriso nervoso quando i chiari occhi blu si aprirono di nuovo sui suoi.

Non aveva ucciso l'unica speranza di Gotham. 



Bruce era stordito.

Il petto gli doleva come se uno dei fratelli Tweedle ci si fosse appena seduto sopra, la gola così secca quasi avesse ingoiato una manciata di cenere e il mondo danzava ancora in spire grottesche attraverso le palpebre di piombo.

Le dita cieche graffiarono l'asfalto lurido in cerca di un appiglio in quella realtà che sfuggiva improvvisamente al suo controllo, i muscoli rigidi si contrassero a vuoto in un respiro affamato.

Eppure, persino attraverso il rombo del sangue nelle orecchie, riuscì a captare una presenza solida accanto a sé.

Sarebbe scattato in piedi se solo le gambe avessero collaborato, avrebbe affrontato qualunque cosa gli si fosse parata davanti con la stessa metodica determinazione che si addiceva a condizioni fisiche migliori. Invece non erano nemici quei contorni morbidi e familiari, quei chiari occhi d'ambra legati ai suoi così stretti da fargli dimenticare perché si costringesse a trattarli con tanta freddezza.

La ragazza lasciò sfuggire un sospiro dalle labbra socchiuse e solo allora Bruce riuscì a riguadagnare lucidità a sufficienza da sbilanciarsi su quanto fosse appena accaduto.

Lei gli aveva salvato la vita, avrebbe potuto scappare, mettersi in salvo, invece aveva deciso di rimanere con lui, per lui. Difficile non montarsi la testa.

- Sembra proprio che io e lei siamo pari ora. -

Il sorriso sulle labbra piene era tirato e stanco. Nonostante il freddo pungente tracce di sudore solcavano le tempie scoperte e due ciocche scomposte di capelli mogano ondeggiavano ribelli nella brezza fuligginosa. Le dita piccole tremavano appena premute sull'incavo dell'avambraccio destro, privo della corazza che Bruce vagamente ricordava di aver slacciato.

Eppure era bella.

- Lei è un'incosciente. -

Non c'era spazio per la comprensione in quel suo mondo violento e distorto. La ragazza aveva rischiato fin troppo per essergli accanto, era qualcosa a cui non sapeva rispondere se non con la disciplina dietro cui aveva imparato a trincerare il suo cuore.

- A quanto pare è già tornato in sé. - ridacchiò nervosamente al suo cipiglio, mascherando dietro il sarcasmo qualcosa che somigliava a sincera preoccupazione, poteva leggerlo chiaramente fra le rughe sottili che le erano sbocciate in fronte.

Bruce non poteva abbandonarsi a quel momento, per quanto sapesse di doverle molto, non poteva lasciarsi distrarre, né rischiare di metterla di nuovo in pericolo. Come sempre avrebbe ignorato il dolore e la spossatezza che gli accartocciavano il cervello e sarebbe sparito il più in fretta possibile.

- Devo andare. -

Lapidario, distante. Questo doveva essere per lei, come per chiunque altro avesse incrociato il suo cammino. Cercò di sollevarsi, ingoiando lo strappo dei muscoli in fiamme, senza che l'ombra della sofferenza gli oscurasse il viso. Inattaccabile.

- Ci scommetto. Ma qualcuno le ha appena defibrillato il cuore con un taser. Ha rischiato l'arresto cardiaco, dovrebbe seriamente considerare di restare sdraiato per qualche minuto. -

Tentò di trattenerlo a terra, era infastidita, ma Bruce stava già cercando a tentoni l'antibraccio sull'asfalto umido. Il corpo gli doleva tutto, eppure si rimise prontamente in piedi non appena riuscì ad afferrarlo e a ripristinare l'integrità della propria protezione.

- Come non detto. Senta ... -

La dottoressa cercò di tenergli dietro, zoppicava appena e, solo quando le dita esili si aggrapparono al suo braccio per trattenerlo, Bruce notò le ferite sottili alle nocche, le ginocchia graffiate e sanguinanti. Non riuscì a reggere l'insostenibile preoccupazione accesa dietro le iridi color miele.

Quel contatto lo turbò con la veemenza di una scossa elettrica. Non avrebbe permesso a se stesso una tale leggerezza, non l'avrebbe legata a sé per doverla un giorno seppellire come era accaduto con Talia.

- Mi lasci! - abbaiò sperando di spaventarla, che la sua irriconoscenza riuscisse in qualche modo a incuterle lo stesso orrore che più di una volta aveva visto negli occhi di chi aveva soccorso, ma April non cedette di un passo, solo le dita scivolarono lontane dal loro precedente appiglio.

- Non mi pento di essere rimasta. Altrimenti a quest'ora sarebbe morto. -

Le pupille di pece immobili nelle sue in un moto di cieca determinazione, nonostante il respiro lasciasse le labbra in rapidi sbuffi di condensa, e per un istante Bruce non seppe come ribattere.

- Quindi la prego. La prego, faccia attenzione. So che l'ospedale è fuori questione, ma se dovesse avere problemi ... al cuore intendo, se dovesse sentire qualche aritmia, venga da me. Non le chiedo di promettere, solo almeno di pensarci. Sa dove abito. - continuò più dolcemente, lasciando andare un sorriso storto sul volto tirato.

Non le promise nulla. Non rispose né si, né no, temendo che la voce l'avrebbe tradito, portò solo nel cuore quelle parole mentre distoglieva lo sguardo dal suo, tornando a passi lenti verso la Batmobile. 





April fu scortata a casa dalla polizia quella sera.

Nel tripudio stonato di sirene e idranti antincendio, la lasciarono parlare solo quando ebbe mostrato loro il tesserino di riconoscimento del Gotham Mercy, permettendole di raccontare in breve ciò a cui aveva assistito.

Tralasciò volutamente i dettagli del suo incontro con Batman, senza soffermarsi sull'indiscutibile vulnerabilità dell'uomo verso cui gli agenti provavano un atterrito rispetto.

Le sembrò di aver trascorso giorni senza dormire nel momento in cui mise piede nel proprio appartamento, la stanchezza le crollò addosso come un macigno mentre raccoglieva i pensieri, guardando il soggiorno buio con occhi vuoti.

Avrebbe voluto farsi una doccia, andare immediatamente a dormire ignorando la cena e le insistenze di Waffle, ma non poté fare a meno di ripercorrere mentalmente le poche parole che aveva scambiato con l'oscuro vigilante di Gotham.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare un senso alla tenerezza con cui gli aveva parlato, all'istinto incosciente di preservare la sua vita.

Era un uomo vinto, distrutto quello dietro la maschera nera, un uomo che pure le aveva mostrato un cuore altruista, dedito al sacrificio di sé, seppure in modo impacciato, quasi goffo. Di nuovo l'aveva guardata a quel modo, quasi sapesse, quasi la sua vita contasse davvero qualcosa per lui.

Si lasciò andare pesantemente sul divano di pelle scura, il volto fra le mani ferite di cui non aveva la forza di occuparsi.

Pensò a lui, a quello che doveva aver sofferto a causa di quel suo voto dissennato alla giustizia, al perché fosse tornato a tormentarla, finché, prima di potersene accorgere, si addormentò di un sonno profondo e senza sogni.

Oltre il vetro della porta finestra, il bagliore prepotente di un lampo s'insinuò sotto le palpebre chiuse, riportandola bruscamente alla coscienza. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso da quando era tornata all'appartamento, ma le luci erano quiete nei grattacieli vicini, suggerendole che fosse ancora notte inoltrata.

Con un sospiro si convinse ad alzarsi, ignorando i muscoli intorpiditi, per tornare a dormire nel proprio letto. Il miagolare profondo di Waffle, tuttavia, richiamò la sua attenzione, se non fosse stata troppo esausta perfino per pensare avrebbe giurato che un'ombra si fosse mossa entro i confini della terrazza.

Il cuore perse un battito. Trattenne il respiro concentrando le pupille cieche sull'oscurità ignota oltre il vetro umido della porta finestra, finché l'ombra non divenne stranamente familiare. Alta, massiccia, somigliava in maniera inquietante alla sagoma di un gigantesco pipistrello dalle ali ben chiuse.

Le ultime parole che aveva scambiato con il vigilante si allargarono a macchia d'olio nel cervello ancora intorpidito e d'istinto spalancò la finestra per fronteggiarlo nel buio appiccicoso, squarciato a tratti dalla luce dei neon e di lampi lontani.

- Santo Dio. Sta bene? - esclamò preoccupata, ma il cuore batteva pianissimo quasi a non volersi far riconoscere dalla gigantesca figura davanti a lei.

Eppure per un lungo istante il suo bieco interlocutore non rispose, continuando solamente a guardarla con occhi che la ragazza non poteva vedere.

- Sì. - gracchiò infine uscendo dall'ombra, impalmato nella corazza di solitudine e freddezza che si portava addosso, ma ad April parve l'ombra di un sorriso quella che si stiracchiava sulle sue labbra sottili.

Stranamente quella risposta riuscì a ferirla, il cieco senso del dovere che lo aveva portato quasi a sacrificarsi per lei già una volta, lo aveva riportato lì per dirle addio.

- Non pensavo sarebbe tornato. Non è in debito con me, non doveva venire fin qui per forza. -

Stava tremando e sapeva che, di quel fine tremore che si era impossessato del suo corpo, il gelo della sera era responsabile solo in parte.

- Mi ha detto che sarei dovuto tornare ... in caso avessi avuto problemi col cuore. -

Di nuovo quella voce profonda, raspante, eppure questa volta le parole fecero fatica a penetrare la sua coltre di diffidenza.

- Cosa? -

Non fece in tempo a chiedere altro, che, di nuovo, com'era accaduto solo un paio di settimane prima, chinandosi appena su di lei, la bocca dell'uomo aveva raggiunto delicatamente la sua, accogliendo il suo respiro in un bacio intenso, istintivo.

April sentì il cuore accelerare bruscamente la sua corsa, mentre le mani dell'uomo esitavano nel cingere la sua schiena, spingendola solo delicatamente verso il corpo alto, piazzato. Di nuovo ebbe la stessa sensazione di familiare calore, di aver colto qualcosa in lui che non esisteva se non erano così vicini.

Lasciò che il respiro si adattasse alla frequenza del suo, profondo, regolare nel petto ampio premuto contro di lei. Inalò l'odore leggero di colonia ormai evaporata, di fumo e polvere, sentì il calore della lingua dell'uomo sulla propria, esitante e delicata, finché non allontanò le labbra sottili dalle sue in una curiosa armonia.

Lo guardò lasciarsi sfuggire un respiro, quasi un rimprovero, ma negli occhi blu la tensione di qualche ora prima era già scomparsa. 





- La prego, non mi chieda di nuovo perché l'ho baciata. - azzardò Bruce ancora così vicino a lei da poterne percepire il respiro tiepido, leggero sulla pelle.

Era stato forse il bacio più intenso che avesse mai scambiato con una donna, almeno in quella tenuta.

Ascoltò il cuore della ragazza rallentare appena le pulsazioni nel petto premuto contro il proprio e quasi si lasciò sfuggire un sorriso.

- Non era esattamente quello che avevo in mente. -

Gli occhi velati dalla penombra umida nella condensa dei loro respiri saettarono distanti, in attesa di qualcosa che Bruce non sapeva come comunicarle.

Conosceva bene la natura della propria attrazione per la dottoressa e altrettanto bene conosceva i rischi a cui l'avrebbe esposta se solo si fosse lasciato andare. Sarebbe bastato un istante di distrazione e avrebbe potuto perderla per sempre.

- Neppure lei sa cosa fare, vero? In un certo senso mi ricorda qualcuno ... - sorrise poi, quasi fosse riuscita a leggergli sotto la pelle qualcosa che non aveva avuto il coraggio di confessare neppure a se stesso. Forse provava qualcosa per lui, forse era persino Bruce Wayne l'uomo nei suoi pensieri, non Batman, l'uomo che era riuscito a strapparle un sorriso come quello.

- Credo di averla messa nei guai. - gracchiò contro la gola improvvisamente secca, soppesando attentamente la luce dietro le iridi opache nella speranza di non illudersi. Invece la ragazza scosse leggermente il capo, i capelli ribelli contro la brezza notturna che già odorava di pioggia.

- Mai quanto ci si è messo lei. Come ha fatto ad innamorarsi di me? Mi conosce appena. -

Lo stava chiaramente prendendo in giro, c'era ora un piacevole misto di confusione e sincera curiosità nel fondo delle iridi cangianti nei colori bizzarri dei neon. La franchezza di quella domanda riuscì a spiazzarlo, accelerò i battiti del suo cuore in uno strano equilibrio nell'umidità elettrica della terrazza.

- E lei che cosa prova, dottoressa? -

Non riuscì a risponderle se non con una domanda, complice l'evasività imparata nei lunghi anni di addestramento. La richiesta parve turbarla più di quanto Bruce avrebbe voluto, eppure non poté negare di averle sempre voluto chiedere cosa la giovane dottoressa provasse per lui, se il suo cuore non avesse battuto invano nelle lunghe notti di incertezza e solitudine.

- Non lo so. Lei non è il primo uomo ad essere piombato nella mia vita di recente. Forse c'è qualcosa fra noi, ma ho passato così tanto tempo ad allontanare chiunque che potrei averlo perso senza neppure saperlo. Eppure, in qualche modo, mi fido di lei, la sua vita mi sta a cuore per qualche motivo. - soffiò in un sospiro e di nuovo gli occhi grandi e allungati brillarono dei riflessi del tramonto, confessandogli una verità che Bruce aveva agognato e temuto allo stesso tempo.

Ora che sapeva, tornare indietro sarebbe stato impossibile. Senza esserne pienamente coscienti avevano provato le stesse sensazioni, le stesse emozioni.

La ragazza era nel suo cuore da molto più tempo di quanto Bruce avesse mai voluto ammettere, forse Alfred aveva ragione, forse avrebbe dovuto seguire il suo cuore una volta tanto, lasciarla guardare quello che si agitava sotto il groviglio di lividi e dovere che era diventato.

- Lo stesso vale per me. Non sono qui per dirle addio, dottoressa. - rispose ignorando la paura, sperando che la ragazza riuscisse a scorgere il suo cuore oltre quelle parole, chiunque lei stesse guardando, chiunque stesse amando. Bruce sapeva che non l'avrebbe tradito.

Non rispose, ma le guance avevano appena cambiato colore alla luce fioca delle distanti insegne al neon.

- Grazie per avermi salvato la vita. - continuò ancora così vicino a lei da poterne captare il lieve respiro, non le avrebbe mai dato l'occasione di vederlo, eppure più di qualunque altra cosa temeva un suo rifiuto.

Ora che l'aveva trovata, perderla per sempre sarebbe stato insopportabile.

- Dovevo. -

Gli occhi d'ambra si conficcarono nei suoi attraverso la coltre d'umidità, finché le dita della ragazza si mossero verso il suo viso. Poteva vederle tremare ancora sospese a mezz'aria, quasi non avessero dimenticato i suoi precedenti rifiuti.

Bruce si lasciò cullare per un attimo nell'illusione di poterla amare, di essere amato a sua volta e, per quell'unico breve istante, si concesse di godere di quei sentimenti, di quanto fossero veri, istintivi. Avvertì il tepore delle dita sfiorare la pelle, ignorando la maschera, e si stupì di quanto avesse rilassato i suoi muscoli, calmato i suoi pensieri febbrili.

Erano anni che qualcuno non lo guardava in quel modo, con la stessa disinteressata tenerezza che vedeva impressa sul volto imperlato dalla pioggia che aveva preso a cadere al ritmo dei loro cuori in subbuglio.

Avrebbe voluto sorriderle se ne fosse stato ancora capace, ricambiare il sollievo di quel colpevole tepore ma che cosa era rimasto ormai dell'uomo che non fosse rabbia, testarda autocommiserazione?

Invece rimase immobile, il calore della mano di lei ancora sul viso, come una strana promessa.

- Buonanotte. -

April si accomiatò in un sussurro, leggendo nel suo ostinato silenzio che era arrivato il momento per entrambi di tornare ciascuno al proprio mondo.

Né si aspettò una risposta, mentre l'uomo pipistrello già percorreva a grandi falcate l'oscurità che lo separava dal parapetto, abbracciando la pioggia densa di quella notte gelida e immobile con un salto nel vuoto.

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Capitolo 22
*** ~19~ Gordon for Mayor 1 ***


~19~ Gordon for Mayor 1

James Gordon era sempre stato un individuo estremamente pratico. Il tipo d'uomo che sa di poter dubitare di qualunque cosa, tranne che della propria marmorea testardaggine.

Proprio quello sguardo disilluso e affilato da tutta la necessaria diffidenza gli aveva permesso di restare per anni a galla nel marcio in cui sguazzava la sua città.

La sua città.

Il cumulo di pigra avidità che era diventata, perlomeno. I cittadini di Gotham si sarebbero affidati a chiunque purché riuscisse a mantenere una sola promessa, per quanto piccola, per quanto meschina.

Era stato quel putridume a risputare fuori la carcassa percossa e masticata di Batman, più volte di quante Jim ne potesse contare.

In quello schifo ci era nato, il Cavaliere Oscuro. E Gordon era piuttosto sicuro che, in quello stesso pattume, un giorno o l'altro, ci avrebbe tirato le cuoia. Troppa colpa, troppo onore in quel precario gioco di guardia e ladri. Il confine continuava ad assottigliarsi, giorno dopo giorno, inesorabile, finché non sarebbe più esistito un noi o loro.

Per questo non si era mai ritenuto degno di ricoprire carica alcuna, fra i seggi concavi e impolverati di Gotham, così come avrebbe rifiutato l'incarico di commissario se avesse potuto, se le pressioni politiche non gli avessero accartocciato il cervello fino a costringerlo ad accettare.

E per questo stesso motivo il ticchettio dei suoi pensieri si era bruscamente inceppato quando gli occhi acquosi e affilati di Bruce Wayne si erano piantati nei suoi quella mattina di ottobre, nel bel mezzo del suo ufficio, fra il cartone di una pizza unto e impolverato e un bicchiere dall'alone giallognolo di quell'ultimo scotch consumato a tarda notte.

Lo guardò attentamente aggiustarsi i polsini del completo italiano, come se fosse atterrato appositamente da un altro pianeta per comunicargli quell'assurda fesseria.

- Il fatto è, commissario, che sto pensando di investire i miei soldi su di te. –

- Di che diavolo stai parlando, Wayne? –

Sorrideva con il piglio soddisfatto di un gatto lasciato a poltrire al sole, per questo gli occhi di Jim vagarono immediatamente alla ricerca dello sguardo terreno e occhialuto di sua figlia Barbara.

Avrebbe dovuto sospettarlo. Sospettare che si trattasse di un'imboscata nel momento in cui la sua zazzera rossa era comparsa fra le porte d'acciaio dell'ascensore. Barbara non lasciava nulla al caso, tantomeno era mai venuta a mettere il naso fra le sue cose alla stazione di polizia senza qualche testardo proposito in mente.

L'avrebbe rimproverata, se ne avesse avuto la forza, ma il più delle volte sapeva che sarebbe stato come parlare a un muro. Un muro con la stessa ostinata potenza d'intenti che gli aveva reso vita difficile in molteplici occasioni.

- Papà, è il momento. – sentenziò con la stessa risoluta dolcezza con cui gli aveva parlato da quando era riuscita a mettere insieme un paio di sillabe.

Jim odiava quando i ruoli si ribaltavano a quel modo, ma non avrebbe pure saputo vivere un istante senza quella certezza.

- E' il momento di prendere sul serio la fiducia che i cittadini di Gotham ripongono nel loro amato commissario. Dici sempre che questa città è governata da ombre, che avrebbe bisogno di un nuovo sindaco,  qualcuno che non tema la luce del giorno. Sono anni che parli del tipo di persona che dovrebbe guidare Gotham nel futuro. Papà, noi pensiamo che quella persona sia tu. –

Gordon era più che certo di essersi perso da qualche parte, fra la fiducia e i dannati soldi che Wayne voleva investire, eppure gli sembrò quasi che fossero entrambi lì, in mezzo al caos impolverato dei fascicoli che muffivano sulla sua scrivania, a chiedergli qualcosa che odorava tremendamente di guai.

- Gotham Reborn è ancora troppo giovane, Jim. Spendo venticinque ore al giorno proteggendola da burocrati che vedono Gotham solamente come una cassa in cui riempirsi le tasche. Chi di noi ama ancora questa città, chi ha vissuto tempi migliori, ha bisogno di qualcuno che possa ricordargli quanto le cose possano cambiare. – continuò Wayne allineandosi alla sedia di Barbara, non voleva guardarlo e scoprire di dovergli qualcosa, più onestà di quanta ne stesse mostrando al momento perlomeno.

Invece gli occhi vagarono sui ciondoli viola appesi al manubrio della carrozzina, soffermandosi testardamente sul click ovattato della plastica contro il metallo cromato.

- E di qualcuno coraggioso abbastanza da trascinarci fuori dal passato. O abbastanza stupido. Tendo a dimenticare quale delle due. – sbuffò Barbara con la bonaria teatralità di chi sa di avere la vittoria in tasca, non era mai durato più di cinque minuti con lei, scartava i suoi rifiuti con la testardaggine di un quarterback.

- Di solito non spendo soldi in idee stupide, Jim. Sei l'investimento più intelligente su cui ho messo gli occhi da un po' di tempo a questa parte. –

L'acqua di colonia di Bruce Wayne, invece, lo stava innervosendo. Emanava dal colletto, stirato con cura maniacale, della camicia assurdamente costosa quasi volesse schiaffeggiarlo. Jim faticava a capire perché fosse lì, perché di tutti i pezzi d'oro colato di Gotham si fosse insinuato proprio sotto le sue sottane logore e stanche.

- In breve, vogliamo che sia tu a candidarti per il seggio sindacale, papà. –

La bomba fu sganciata alla velocità della luce, quasi fosse la naturale prosecuzione di una carriera costellata da emicranie e notti trascorse a spaccarsi la schiena per dormire a una scrivania di legno da quattro soldi. L'aveva detto davvero e ora non c'era modo di tornare indietro, di far sì che quelle parole tornassero quatte al mittente per non presentarsi mai più.

Jim Gordon prese un respiro prima di parlare, sicuro che la vena che pulsava frenetica sulla tempia destra sarebbe scoppiata se non avesse dosato le parole. Avrebbe voluto la sua stessa sicurezza, quell'acuta determinazione cristallizzata nelle iridi verdi di sua figlia come in un caleidoscopio.

- Barbara, sai che ti voglio bene. E Wayne, diciamo che tollero la tua presenza e il tuo cuore è generalmente nel posto giusto, ma volete che vi faccia una lista dei motivi per cui credo vi siate bevuti il cervello? – esordì con più veemenza di quanta ne avesse preventivata, le dita che cercavano di allentare frenetiche il nodo della cravatta al collo. Stava soffocando.

- La polizia al momento agisce sul filo del rasoio a Gotham e, ciò che penso il prossimo sindaco debba fare per porre rimedio a questa situazione, va contro tutto quello che ho professato nella mia carriera. Tutto quello in cui credo. La GCPD dovrebbe passare sotto il controllo federale, ma non voglio essere io a fare quella telefonata. Ci sono state giornate storte, parecchio storte, lo ammetto, ma i poliziotti non sono i criminali qui. Se facessi quello che va fatto, li tratterei come se lo fossero. Ho bisogno che tu lo capisca, tesoro. – continuò più dolcemente chinandosi alla sua altezza, odiava quella nuova necessità, l'impossibilità di guardare sua figlia negli occhi e non dall'alto in basso.

Afferrò una mano piccola e tiepida fra le proprie, come in giorni migliori, come se un singolo maledetto proiettile non li avesse mai costretti in quella situazione. Cercò delle parole che morirono nella colpevole dolcezza con cui la ragazza si aggrappò a lui.

- Forse è proprio per questo che dovresti essere tu a ricoprire la carica, papà. Come hai detto, il prossimo sindaco sarebbe comunque costretto a farlo. Almeno saresti nella posizione per fare pressioni e aiutare chi alla GCPD ha bisogno di te. –

Le dita morbide volarono al suo viso ispido e accartocciato, tracciandone i contorni stanchi con una saggezza che non si sarebbe aspettato da qualcuno di tanto giovane. Gliel'aveva fatta di nuovo. Vincere, con lei, era impossibile.

- Okay, okay. Dovreste almeno organizzare uno di quei ... comitati esplorativi, o come diavolo si chiamano. –

Il tono burbero raschiò pericolosamente contro la commozione che gli serrava la gola, rischiando di tradirlo, mentre riacquistava la stazione eretta insieme al proprio orgoglio.  

- Ed è già pronto. Mi serve solo un sì. – chiosò Wayne con la soddisfazione di un felino incastonata negli occhi azzurri. Si era quasi dimenticato che fosse lì, nonostante la stazza da energumeno piantato nelle costose scarpe italiane.  

- Papà, non devi decidere per forza oggi. Abbiamo ancora tanto tempo per venirne a capo. Ed è per questo che lascerò voi grandi a discutere i dettagli. Mi raccomando, non rovinate tutto. –   

La voce acuta di Barbara lo distrasse dai pensieri che, nel suo cervello, si aggrovigliavano ancora attorno a quella disfatta come edera rampicante. Le aveva appena promesso qualcosa di assurdamente pericoloso per la propria sanità mentale, nonché per la sua carriera.

Avrebbe potuto rimangiarsi la parola, rifiutarsi di mettere volontariamente la testa in quel covo di vipere, invece osservò la carrozzina di pelle consunta e metallo cromato scivolare oltre la porta sgangherata dell'ufficio, la mano esile accennargli un saluto prima che le porte dell'ascensore ingoiassero il sorriso storto e la zazzera rossa.

- Lasciare che Barbara facesse il lavoro sporco al posto tuo è stato un colpo basso, Wayne. – borbottò Jim sotto i baffi a spazzola, le mani conficcate così a fondo nelle tasche dei pantaloni grigi da suggerire quasi l'idea che vi stesse cercando il coraggio. O almeno la stessa sicurezza e fiducia che Barbara sembrava riporre ciecamente nei suoi confronti.

- Hey, io sono solo il portafogli. Non è stata una mia idea, te lo garantisco. Ma so come riconoscerne una buona quando la sento. – gracchiò Bruce Wayne senza scalfire il suo entusiasmo, stava fremendo, glielo si leggeva nei chiari occhi azzurri. Si muoveva nel suo territorio d'azione con la sicurezza di uno squalo.

Jim temeva il momento in cui sarebbero rimasti soli, in cui avrebbe dovuto concretizzare i propri propositi e l'idea di passare il resto della giornata a lambiccarsi il cervello su numeri e proiezioni lo esasperava. Per quanto ardentemente l'avesse desiderato, Wayne non svanì magicamente nella nuvola di costosa acqua di colonia che si portava dietro, rimase invece a osservarlo, in attesa.

Svogliatamente Gordon liberò una mano rovinata dalle tasche logore e, dopo un lungo attimo d'esitazione, accennò un invito verso il maciste in impeccabile completo scuro.

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