Mit sælden müeze ich gên und rîten

di Saelde_und_Ehre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I - Hildegard ***
Capitolo 2: *** Parte II - Siegfried ***



Capitolo 1
*** Parte I - Hildegard ***


Premessa:

Come specificato nelle note introduttive, questa storia è una spin-off di "Das Lied der Vergessenen Helden".
Non è obbligatorio aver letto la "storia madre" per avventurarsi nella vicenda qui narrata, però essendo questo racconto concepito appunto come una spin-off, non mi soffermerò particolarmente a spiegare cose relative ai personaggi e nozioni storico-culturali e linguistiche che ho già chiarito all'interno dell'arco narrativo principale.

Il titolo è in alto tedesco medio (Mittelhochdeutsch), ovvero tedesco medievale (1000-1350), nella sua variante parlata in Austria e Baviera (bairisches Mittelhochdeutsch).
È tratto da una poesia di Walther von der Vogelweide (maggiori informazioni nelle note) ed è una sorta di "preghiera del viaggiatore", il cui significato è, all'incirca "che io possa viaggiare con la fortuna (sælde) dalla mia parte".

 

***

"Mit sælden müeze ich hiute ûf stên, 
got hêrre, in dîner huote gên 
und rîten, swar ich in dem lande kêre."

Walther von der Vogelweide [*]


 

Nei pressi della contea di Limburg, Franconia
A.D. MCLVI, none di marzo [1]

 

La campagna francone era imbevuta dei pallidi raggi del Sole d'inizio marzo, già alto in cielo. Scortati da una coppia di armigeri, il barone Ulrich von Mörle e sua sorella Hildegard, di ritorno dalla vicina città di Limburg, percorrevano la strada poco trafficata che conduceva alla loro dimora, discutendo amabilmente. Quel tratto di strada, invaso dai cespugli e costeggiato da un fosso scavato proprio sul limitare di un'irta selva, incuteva un timore ancestrale in tutti gli abitanti della contea, che vociferavano di strane presenze annidate nei suoi recessi e se ne tenevano debitamente a distanza. Tutti, tranne Ulrich von Mörle, che si era sempre mosso con disinvoltura lungo quel sentiero, diffidando delle superstizioni del volgo.
Hildegard, invece, avvertiva uno strano senso d'inquietudine che aleggiava tra quelle fronde intricate, oltre le quali non si potevano intravedere che tetre ombre prive di forma. Tutti i suoi sensi erano vigili; nessun fruscio sfuggiva al suo orecchio, i suoi occhi riuscivano a catturare ogni minimo movimento.
"Heilige Maria!" [2], esclamò a un certo punto, tirando le redini con uno scatto così secco che il suo palafreno quasi s'impennò nitrendo.
Il barone sussultò. "Che succede, Hilde…" Le parole gli morirono in bocca.
Sulla ghiaia del sentiero si disegnava nitida una scia di sangue, che si arrestava improvvisamente sull'orlo del canale di scolo. Hildegard sentì il cuore balzarle in petto e strinse più forte le redini, ma non ebbe il coraggio di muovere un muscolo.
"Andiamocene", ingiunse Ulrich, dando decisamente di sprone alla sua cavalcatura.
"Aspetta, Ulrich", mormorò la sorella, superato lo sbigottimento iniziale.
Il barone si voltò con uno scatto, gli occhi sbarrati. "Come sarebbe?"
"C'è… qualcosa… tra i cespugli", rispose la fanciulla. Di fronte allo sguardo sbigottito del fratello, smontò di sella con un balzo e si avvicinò guardinga al ciglio della strada.
"Hildegard, per carità, torna subito qui! Lascia perdere!", ululò Ulrich, in preda al terrore.
La fanciulla ebbe la netta sensazione che il sangue le si stesse gelando nelle vene: tra le fronde si occultava un uomo, steso a faccia in giù. Forse un cadavere. Vincendo ogni timore, scavalcò il fosso mentre il fratello continuava a urlarle dietro, si avvicinò allo sventurato e gli tastò il polso, avvertendo una debole pulsazione. "Ulrich! Vieni qui, ti prego. C'è un uomo qui, ed è vivo!"
"Sarà uno di quegli incauti forestieri che si smarriscono e vengono aggrediti nottetempo dagli scherani o dalle fiere…", borbottò il barone.
Hildegard lo redarguì in tono duro, le mani puntate sui fianchi. "Ma è possibile che tu sia così insensibile? Quest'uomo è ferito… se anche fosse morto, dovremmo chiamare il prete per fargli dare una sepoltura prima che le belve notturne facciano scempio del suo cadavere!"
Ulrich, dopo un breve istante d'esitazione, sbuffò e scese da cavallo, avvicinandosi alla sorella. "Sorprendente", commentò, chinandosi accanto all'uomo ferito. "Mi meraviglio che l'abbiano lasciato qui ad agonizzare, invece di tagliargli la gola e spogliarlo del tutto…"
"Ulrich!"
Il forestiero era disarmato e non aveva nulla con sé; dovevano avergli rubato tutto. I suoi panni da viaggio, sporchi e laceri, erano di lana pregiata, ma non eccessivamente sfarzosi: portava una semplice tunica rossa lunga fino al ginocchio, sguarnita, con le maniche strette ai polsi, e le calzebrache grigie gli aderivano alle gambe. Il suo respiro era quasi impercettibile, e si intuiva, dall'erba macchiata sotto di lui e dall'odore ferrigno che esalava, che dovesse aver perso molto sangue. Aveva una ferita da affondo nella schiena.
Ulrich sospirò. "Dai, aiutami a rivoltarlo."
Hildegard si appoggiò la testa dell'uomo in grembo e gli scostò i capelli dalla fronte. Nonostante il suo viso fosse sporco e insanguinato, di un pallore tendente al giallognolo, sotto vi si indovinavano lineamenti di virile bellezza: a tratti spigolosi, ma addolciti dalla morbida piega delle labbra e dall'ovale del volto, che non dimostrava più di venticinque anni. I capelli erano di un castano nocciola, lunghi fino alle spalle, e una corta barba bruna gli ricopriva le guance. A giudicare dalla corporatura solida e robusta, doveva essere sicuramente un cavaliere o un uomo d'arme, forse addirittura un nobile. Era ricoperto da molte ferite, alcune di esse da taglio: doveva aver affrontato a mani nude la lama di un pugnale o di una spada, forse nel tentativo di scampare dalla morte, e il buco nelle calzebrache, circondato da un vasto alone purpureo, lasciava intuire che si era strappato una freccia dalla coscia.
"Chissà che cosa gli è successo…", si lasciò scappare Hildegard, senza riuscire a staccare gli occhi da lui. Involontariamente, si sentì quasi dispiaciuta.
"Il sangue è ancora fresco: non deve essere passato molto tempo da quando questo poveretto è stato aggredito. Non stava viaggiando di notte", constatò Ulrich. Si guardò intorno circospetto. "Potrebbe essere una trappola. È bene se ce ne andiamo."
"Ma… e quest'uomo?", ribatté lei, con veemenza. "Non vorrai mica lasciarlo qui!"
Ulrich rimase impassibile. "Chiameremo il prete."
"Fratello…"
"Cosa c'è?"
Hildegard appoggiò le mani sulle spalle del giovane. "Mi oppongo. Il prete non potrà fare nulla per lui. Me ne occuperò io."
"Tu?"
"Quando ero novizia al monastero di Bingen ho imparato a prendermi cura degli infermi."
"Ma non sappiamo chi è!", sbottò il barone. "Dovremmo portarci uno straniero in casa? Potrebbe anche essere un ladro, un bandito, un traditore… un assassino! Non puoi saperlo!"
"Ulrich, io sono convinta che l'anima di questo giovane sia pura. Guardalo! Come puoi dubitarne? Se lo lasciamo qui morirà, abbandonato da tutti."
Ulrich strinse gli occhi e si allontanò di un passo. "Ti stai solo lasciando intenerire dal suo bel faccino!"
"No, fratello", ribatté fermamente la fanciulla. "È stata la Santa Vergine a far sì che io lo trovassi."

***

A tredici anni, Hildegard era stata mandata a intraprendere il noviziato al monastero di Rupertsberg, sotto la guida della grande badessa, l'omonima Hildegard von Bingen [3], che era una delle donne più sapienti del suo tempo. In quegli anni, assistita da consorelle più esperte, aveva studiato a fondo l'arte medica e i rimedi naturali per le malattie più disparate, e se suo fratello non l'avesse richiamata a Mörle dopo la morte dell'anziana madre, pochi mesi prima, avrebbe preso i voti consacrando la propria vita alla Vergine Maria.
Si era presa cura del giovane ferito, con gran dedizione, e restava molte ore a vegliarlo e a pregare che si risvegliasse. Non aveva mentito a suo fratello: credeva davvero che quell'incontro non fosse fortuito.

A volte gli teneva la mano e lo guardava assorta, cercando di immaginare chi fosse: l'unica cosa su cui non aveva dubbi era che egli dovesse essere un cavaliere, magari un figlio cadetto, che vagava di torneo in torneo, dato il fisico vigoroso che tradiva un costante allenamento con le armi. Inoltre portava i capelli lunghi e la barba curata, com'era d'uso tra i giovani nobiluomini del tempo, e la foggia dei suoi vestiti era troppo poco appariscente perché egli potesse essere un ricco mercante.
Hildegard von Mörle non era molto esperta delle cose di mondo, e si chiedeva se quel giovane avesse dei fratelli o delle sorelle, o se magari amasse una fanciulla che lo aspettava, senza sapere dove lui fosse, e se fosse vivo o morto… si sentì colpevole per l'ultimo pensiero, e decretò che quel giovane non dovesse essere legato a nessuna.
Dopo un po' si rese conto di aver dato per scontato che quell'uomo fosse tedesco. E se invece non lo fosse stato? Come avrebbe potuto parlare con lui? Sperò che in tal caso sapesse almeno parlare latino: se, come immaginava, era un nobile o un ministeriale, probabilmente lo parlava [4]. Ma se era solo un armigero… molti sergenti d'armi [5] che si mettevano al servizio di un signore non sapevano né leggere né scrivere, figurarsi se sapevano il latino. Ma - si chiese poi - perché un armigero straniero avrebbe dovuto trovarsi in terra tedesca?
E poi, perché era solo in quel sentiero, così brutalmente ferito e abbandonato a se stesso? "Forse i suoi compagni l'hanno abbandonato, credendolo morto, o forse è un abitante del luogo che è stato aggredito mentre tornava a casa, oppure… potrebbe essere stato ferito mentre difendeva qualcuno…"
Hildegard si rese conto di star fantasticando troppo: effettivamente non si sapeva neanche se quell'uomo si sarebbe mai risvegliato, lasciandole per sempre il dubbio su chi fosse realmente.

La sua fronte era bollente e non dava segno di vita, in quel profondo torpore in cui era immerso: nemmeno la sua sofferenza pareva sfiorarlo, e in quell'immobilità simile a morte le sue giovanili fattezze conservavano intatta la loro bellezza.
Ulrich era sicuro che quel poveretto fosse ormai pronto a lasciare questo mondo, e borbottava di impartirgli l'estrema unzione e di dare disposizioni per farlo seppellire nel cimitero del villaggio, se nessun parente si fosse presentato a reclamarne la scomparsa.
Ed era proprio questo che Hildegard paventava: se ciò fosse successo, nessuno avrebbe mai saputo chi fosse o da dove venisse, ed egli sarebbe morto lontano da tutti, chissà quante miglia lontano da casa.

Il terzo giorno, Hildegard avvertì un fruscio, e vide che il ferito aveva aperto gli occhi e aveva posato su di lei il suo sguardo lievemente velato. Di getto, gli chiese qualcosa in tedesco, e il giovane farfugliò qualcosa di incomprensibile, poi si rigirò inquieto e si rimise a dormire. Per quel poco che aveva potuto vedere, aveva degli occhi azzurri molto belli.
Con rinnovata speranza, Hildegard ringraziò il cielo per quell'insperato prodigio. Ma la febbre doveva averlo provato molto, e la sua fronte continuava a bruciare. Così tanto, che probabilmente il giovane non riusciva neanche a restare sveglio. Eppure mostrava di avere una tempra forte, e le sue numerose cicatrici erano testimoni di molti combattimenti.
Perché proprio quelle ferite avrebbero dovuto ucciderlo?

***

Il quarto giorno il giovane si svegliò. Hildegard, raggiante, mandò a chiamare Ulrich, e il barone accorse in gran fretta. Lo sconosciuto li stava guatando con gli occhi spalancati, facendo dardeggiare di tanto in tanto lo sguardo attraverso la stanza, simile a una fiera spaventata.
Poi sbatté le palpebre e li fissò accigliato.
Era chiaramente spaesato. Tentò di muoversi, ma si riaccasciò con un gemito.
"Come state?", gli chiese dolcemente Hildegard, in latino.
"Ho avuto giorni migliori", rispose flebilmente, ma con irremovibile durezza, il giovane. Subito dopo, bruscamente, passò al tedesco, dimostrando che non solo capiva e sapeva parlare il latino, ma era anche tedesco. "Si può sapere dove mi trovo?"
Parlava bavarese schietto [6], con un'inflessione vagamente musicale nonostante il tono rude.
"Siete in Franconia."
L'altro fece un'espressione smarrita. "In... Franconia?" Poi parve ricordare qualcosa. Si passò la mano sana sul viso e sospirò affranto. "E voi chi siete?"
"Io sono il barone Ulrich von Mörle, e questa è mia sorella Hildegard."
Il giovane annuì, senza dire nulla. Sembrava tremendamente a disagio.
"E voi?", chiese Ulrich.
"Ich heize [7] Siegfried", rispose il giovane.
"Siegfried... e poi?"
Il giovane esitò. Lanciò un'occhiata torva a Ulrich, poi rispose: "Sono il conte Siegfried von Peilstein."
"Siete bavarese?"
"Austriaco", rispose stancamente il conte. "Vengo da quella che voi chiamate Marcha Orientalis, ma che noi sinceramente preferiamo chiamare Ostarrichi. [8]"
Quell'uomo era molto diverso da come Hildegard se lo aspettava. Tuttavia, anche con quell'atteggiamento schivo e assai poco affabile, non aveva smesso di esercitare su di lei lo stesso fascino che le aveva esercitato nell'immobilità del sonno. Anzi: adesso che conosceva il suo nome e le sue origini era ancora più curiosa di conoscere la sua storia. Che cosa ci faceva un conte austriaco, da solo, in una così remota contrada della Franconia?
Ulrich era già pronto a porgli altre domande, e questi - lo poteva leggere nel luccichio in quegli occhi così azzurri - era dilaniato dalla curiosità di sapere qualcosa in più sul luogo in cui si trovava, ma Hildegard pose definitivamente fine a quella discussione.
Alzò una mano, facendo zittire entrambi: il conte era ancora provato, lo si vedeva dalla fatica che gli costava ogni movimento, e avrebbe avuto bisogno di molto riposo. Congedò Ulrich, poi si rivolse a lui: "Hêr Siegfried, avete fame?"
Egli annuì debolmente, e Hildegard gli fece portare da mangiare.

Dopo che la fanciulla francone se ne fu andata, Siegfried von Peilstein trasse un profondo sospiro di sollievo. Il cibo non gli aveva recato alcun conforto, e la testa gli doleva terribilmente, rendendogli difficile anche solo concentrarsi per capire in che razza di situazione si trovasse. Quello stato d'infermità gli deteriorava corpo e mente: abituato a una vita d'azione, fatiche e battaglie, si ritrovava costretto a letto, presso la dimora di due sconosciuti che parlavano un volgare diverso dal suo, incapace di muoversi e di condurre le sue quotidiane attività, finanche di ragionare. Si fece sfuggire un grugnito sommesso e si lasciò ricadere tra i guanciali. Chiuse gli occhi, troppo affaticato perfino per tenerli aperti, e pochi istanti dopo sprofondò in un sonno leggero e popolato da incubi.

Era poco più dell'alba. Siegfried e i suoi accompagnatori stavano percorrendo una strada poco trafficata, nella speranza di raggiungere Magonza entro la metà della mattinata. La loro guida parlava francone stretto, così veloce che a tratti era difficile capire cosa dicesse, e loro rispondevano in bavarese altrettanto stretto, senza preoccuparsi particolarmente che quel tizio li comprendesse alla prima. C'era una strana agitazione latente in quel sentiero costeggiato dalla macchia, che aveva dato a Siegfried ben più di una ragione per guardarsi intorno con circospezione e tenere la mano stretta intorno all'elsa della spada.
Era come se ci fossero dei predatori in agguato tra quelle frasche intricate.
"Attenti!", aveva urlato a un certo punto la guida, buttandosi a terra e coprendosi la testa con le braccia. Poco dopo, il sibilo di una freccia aveva tagliato in due l'aria. "State in guardia!"
Per tutta risposta, il giovane aveva tirato bruscamente le redini e aveva sguainato la spada.
I due inaccorti armigeri della sua scorta, invece, avevano ben pensato di dileguarsi al galoppo furioso, e Siegfried era rimasto solo con la guida francone.
"Fuggite, herre, per carità!"
"Niemer", era stata la risposta dell'austriaco. "Dovresti fuggire tu, semmai."
Subito dopo, dalla macchia erano usciti quattro banditi, di quelli che si aggiravano per le terre libere e attaccavano gli ignari viaggiatori per rapinarli. Avevano accerchiato i due uomini; uno di loro era armato di balestra. Un altro si stava avventando sulla terrorizzata guida, ma Siegfried l'aveva afferrato per la veste, la spada puntata contro la gola. "Che feccia sareste voi, che vi accanite su una vittima inerme e incapace di difendersi?"
"Lasciate perdere il moralismo, cavaliere", aveva risposto il balestriere, volgendo il tiro dell'arma verso di lui. "Gettate le armi e dateci tutto ciò che possedete, se non volete che ve lo strappiamo di dosso con la forza."
Un terzo uomo lo costrinse a scendere da cavallo, prendendo in consegna l'agile palafreno da viaggio.
Per quello che poteva, il conte si era costretto a rimanere impassibile. Subito dopo, si era udito un sibilo nell'aria, e un dolore tremendo alla coscia l'aveva quasi fatto crollare in ginocchio; la spada aveva rischiato di sgusciar via dalla sua presa. Con gli occhi annebbiati dal dolore, Siegfried ricordava di averne decapitato uno con un tondo di spada e di averne ferito un altro con un rovescio, mentre il sangue continuava a colare giù dalla sua ferita e altre ferite, più leggere, si aggiungevano alla prima nella furia della colluttazione. Qualcuno gli aveva affondato un pugnale nella scapola, incontrando la dura consistenza dell'osso. Il giovane l'aveva inchiodato a terra con violenza, tentando di strappargli il pugnale dalle mani, costretto ad afferrarne la lama a mani nude per evitare che lo sgozzasse. Aveva cercato di stringere i denti per sopportare il dolore pulsante che minacciava di stordirlo, mentre la lama tagliava il cuoio sottile dei suoi guanti, facendosi strada verso il palmo della sua mano.
Dopo una sfida estenuante era riuscito a salvarsi la vita, ma si era ritrovato solo, spogliato di ogni cosa tranne che della propria dignità e del proprio nome.
Privo di forze e nauseato dall'odore del proprio stesso sangue, il conte Siegfried von Peilstein strisciò fino al ciglio della strada. Si strappò la freccia dalla carne senza troppi riguardi, reso insensibile a ogni sensazione terrena, e si accasciò dietro un cespuglio abbarbicato sull'orlo del fosso, ormai incapace di sottrarsi al destino che incombeva su di lui - qualunque esso fosse.

Si risvegliò urlando.
 

***

Hildegard von Mörle fissava il giovane con apprensione, ed egli le restituiva uno sguardo strabuzzato, ansimando sconvolto. La febbre doveva averlo fatto delirare, perché era scosso da tremiti impercettibili, ma quando accostò una mano alla sua fronte imperlata di sudore, la trovò stranamente tiepida.
"Hêr Siegfried?"
Il bavarese scrollò la testa con vigore, come per scacciare qualcosa di fastidioso.
Hildegard ritrasse la mano, e l'altro si sottrasse al suo tocco come una bestia ritrosa. Lei abbassò la testa, quasi delusa.
"Ho bisogno di alzarmi", disse seccamente il conte.
"Non potete."
"Almeno fatemi mettere a sedere", concesse lui, sollevandosi sui gomiti. Hildegard gli sistemò i guanciali dietro la schiena ed egli vi si adagiò sospirando. Se mentre quel giovane dormiva si era sentita ardere di curiosità sul suo conto, adesso era in profonda soggezione, non sapeva cosa dire per non offenderlo.
In silenzio, gli porse un infuso caldo.
Il bavarese annusò cautamente il contenuto della tazza, poi si portò il recipiente alle labbra e iniziò a bere, a piccoli sorsi.
Fu lui a parlare per primo: "Ditemi, frouwelin, vi siete mai sentita... inerme?"
Hildegard si sedette su uno sgabello accanto al letto e poggiò le mani in grembo, abbassando lo sguardo su di esse. "Signore, io vengo da un monastero... dopo aver passato anni protetta da quelle sante mura, con giornate scandite dallo stesso ritmo, stagione dopo stagione, il mondo esterno mi... atterrisce."
"Untriuwe ist in der sâze, gewalt vert ûf der strâze." [9]
Calò il silenzio.
"Che cosa vi è successo?", azzardò Hildegard, dopo un po'.
Il giovane fece una smorfia. "La mia compagnia - nel pronunciare quella parola, ebbe un tremito di sdegno - è stata assalita da una masnada di banditi di strada."
"Vi trovavate in una strada molto pericolosa. Raramente i forestieri ne escono indenni..."
"E io che cosa potevo saperne?", sbottò lui. "Dovevo andare a Magonza. Ho chiesto alla guida, uno della vostra gente, di condurmi attraverso la strada più breve. Anche i miei compagni erano austriaci e assolutamente impratichi della zona." Ringhiò sommessamente. "Spero che non ci abbia condotti volutamente nelle grinfie di quei briganti."
"Ma, herre... e i vostri compagni?"
"I miei compagni?" Di nuovo un fremito di sdegno. "Sono fuggiti, quei vigliacchi. E saranno sicuramente di nuovo in Austria a bere il loro vino, alla faccia del Siegfried che hanno giurato di proteggere a costo della loro vita."
"Mi... dispiace, signore."
Il conte fece un cenno sbrigativo, poi emise un sospiro e si riappoggiò stancamente sui cuscini, volgendo uno sguardo verso la lontana finestra. "Ich wolte gerne ze Osterrîche sîn." [10]
Non disse più nulla, e Hildegard si trattenne dal fargli domande. Dopo un istante di silenzio, si allontanò verso l'uscio in punta di piedi, ed egli non fece nulla per trattenerla.
Mentre usciva, non poté fare a meno di osservare che la cadenza bavarese di quell'uomo risultava estremamente piacevole per le sue orecchie. L'avrebbe ascoltato per ore.

Fine prima parte

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Note:

[*] Walther von der Vogelweide (ca. 1165 - 1220) era un Minnesänger (poeta cortese) di origine austriaca e uno dei più grandi poeti medievali in lingua tedesca (bavarese).
Appare come personaggio secondario nell'altra mia storia.
Il significato della poesia suona all'incirca così: "Spero di alzarmi domani benedetto dalla Fortuna, e viaggiare nella protezione del Signore, ovunque io vada."

[1] 7 marzo 1156. Nel Medioevo, fino al Cinquecento, era in uso il calendario giuliano.
https://la.wikipedia.org/wiki/Index_dierum_calendarii_Romani

[2] Santa Maria

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Ildegarda_di_Bingen

[4] Vige il luogo comune che i nobili nel Medioevo fossero ignoranti e pressoché analfabeti, tuttavia non era del tutto impossibile che un uomo di rango nobiliare avesse ricevuto una buona istruzione di base. Basti pensare, ad esempio, che la maggior parte dei poeti tedeschi di questo secolo erano baroni, cavalieri o ministeriali.

[5] uomini d'arme, equipaggiati come cavalieri ma privi d'investitura, che prestavano servizio a un signore feudale, che offriva loro vitto, alloggio e protezione in cambio di obbedienza e prestazioni militari. Tale figura in alto tedesco medio è detta kneht (lett. servo) e si distingue dal ritter (cavaliere).

[6] La lingua di Walther von der Vogelweide, a cui alludevo prima. I vari "volgari" tedeschi del Medioevo erano mutualmente intelligibili tra loro.

[7] "Mi chiamo/Il mio nome è…" Si riflette nel tedesco moderno "Ich heiße".

[8] Austria. Nel 1156 (fino a settembre) era inclusa nel ducato di Baviera, anche se il concetto territoriale di "Ostarrichi" esiste dal X secolo. All'epoca, col toponimo "Austria" si intendeva soltanto la regione della Bassa Austria con Vienna.
Siegfried si autodefinisce "austriaco", ma in linea di massima neanche definirlo "bavarese" è errato.
Ho approfondito la questione relativa all'Austria e agli austriaci nell'altra storia.

[9] Il tradimento è in agguato, la violenza infesta le strade.

[10] Vorrei tanto essere in Austria

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Capitolo 2
*** Parte II - Siegfried ***


A chi ha già letto questa storia: non spaventatevi, non ho cambiato niente. Ho solo diviso il testo originale in due parti per facilitare la lettura^^

***

Era un pomeriggio di tre, quattro anni prima. Siegfried von Peilstein era un ragazzo di appena ventun anni, alla corte viennese dell'Enrico d'Austria, duca di Baviera. Vienna, o meglio Vindobona, era una città romana, antica e costellata di rovine. Carica di testimonianze dei Norici e dei Romani suoi antenati, risalente a prima che le tribù germaniche dei Bavari calassero da nord, insegnando loro il tedesco. [11]
Fremeva di gioia e di aspettativa, perché avrebbe rivisto Irmgard. L'ultima, lunghissima notte che avevano trascorso insieme, ella aveva finalmente accettato la sua proposta di matrimonio, sfidando i divieti che impedivano alla figlia di un ministeriale di sposare un conte. Suo padre non l'avrebbe presa bene, ma Siegfried aveva fatto la sua scelta, pronto ad affrontarne le conseguenze.
Attese per quello che gli parve un istante interminabile. Il bosco che circondava la città austriaca era stranamente silenzioso, e il silenzio in cui era immerso fluttuava su di lui come un sudario, memore di tante ore liete trascorse insieme a lei. Attese fino all'imbrunire.
Infine, a malincuore, si alzò e decise di tornare in città, alla corte itinerante del duca Enrico. Un terribile presentimento gravava sul suo animo.
E ne ebbe conferma, quando tornato all'accampamento, vide la sua amata intrattenersi col barone Wichart von Arnstein, il consigliere militare del duca Enrico. Irmgard ridacchiava, ed egli le prendeva le mani, in totale confidenza.
Siegfried non riuscì a trattenersi e irruppe tra i due, pretendendo spiegazioni. Alcuni armigeri avevano alzato la testa e li stavano guardando con curiosità, ma il giovane non ci fece caso. Non fece caso al fatto che quel colosso di Wichart lo superava in altezza di quasi una spanna: era pronto a reclamare a gran voce i voti d'amore infranti.
Non fece caso alle parole che venivano dette, troppo dolorose per essere udite. Aveva lottato per anni per conquistare il cuore di quella fanciulla, e ora, nel giro di pochi istanti, gli veniva sottratta. Siegfried ebbe come l'impressione che il suo cuore divenisse un blocco di pietra friabile, per poi sgretolarsi in mille pezzi. Ma si sforzò di rimanere impassibile, e quasi senza accorgersene, portò la mano all'impugnatura della spada e la sguainò, puntandola verso l'altro e chiedendogli perentoriamente di far valere a duello le ragioni di un tale gesto.
Irmgard fermò la mano di Wichart prima che incrociasse la spada con lui, e gli annunciò senza preamboli che l'avrebbe sposato perché tale era il volere di suo padre.
Siegfried si sentì come se il mondo intero gli fosse crollato addosso. Rimase immobile, abbassando la spada, mentre tutto il resto scompariva, lasciandolo solo col suo dolore.
Umiliato, distrutto e abbandonato dalla prima e unica donna che avesse mai amato in vita sua.
Due giorni dopo aveva lasciato la marca orientale, senza più guardarsi indietro.

Doveva essere notte fonda. Siegfried si rialzò a sedere con un gemito, costernato. Sentiva in bocca l'acre sapore della bile e la sensazione di avere un peso che opprimeva il suo petto. Era riuscito a superare il dolore di quell'umiliazione… perché proprio in quel momento tornava a tormentarlo, dall'oblio in cui l'aveva relegata?
Aveva bisogno di una boccata d'aria.
Frouwelin Hildegard, o come si chiamava la fanciulla della Franconia, non aveva alcun diritto di dargli ordini. Di sicuro, lui conosceva il proprio stato fisico meglio di lei, o di chiunque fosse stato il cerusico che l'aveva assistito durante il periodo d'incoscienza, e non aveva certo bisogno di una balia asciutta che lo tenesse sotto chiave: gli dolevano le gambe e la schiena a forza di stare sdraiato. Era ancora a torso nudo, quasi completamente ricoperto di bende dalla spalla al ginocchio, quindi si drappeggiò un lenzuolo sulle spalle a guisa di mantello e si alzò, con una certa fatica, per andarsi ad affacciare alla finestra. Si sentiva come un animale in gabbia, e quello stato d'inerzia minacciava di farlo impazzire.
La finestra dava sulla campagna immersa nell'oscurità, appena velata dal bagliore lattiginoso della luna e delle stelle che ne rendeva i contorni appena percettibili. Sarebbe stata anche una vista piacevole, se solo non fosse stata così… estranea. Così diversa dalla vista che ogni giorno allietava il suo sguardo, dalla finestra della stanza che condivideva con suo fratello Friedrich: il fiume, il placido fiume Mank, i fianchi sinuosi delle colline ricoperte d'alberi, i cui colori cangiavano a seconda delle stagioni, la vallata immersa nel verde... una vista immersa nelle brume del passato, ma ancora così nitida nei suoi ricordi.
Lì, invece... campagna sconfinata, nient'altro che sentieri appena delineati nel chiarore notturno, macchie boscose, casette sparute, e lontanissimo, l'aguzzo campanile di una pieve di campagna che si stagliava come un'ombra nera. Improvvisamente, si sentì invadere da una terribile nostalgia della sua terra, la terra dei suoi padri, la terra in cui era nato e cresciuto prima che suo padre lo mandasse ad attendere al suo addestramento militare nel Sundergau bavarese, o come lo chiamavano gli abitanti del luogo, Alpengau [12]. E sentì la mancanza dei suoi fratelli, di Konrad, di Friedrich, e anche di Mathilde, che anni prima era andata in sposa a Richard der Schwarze [13] von Thann, l'uomo che aveva fatto di lui un cavaliere. Un terribile senso di malinconia lo pervase, facendogli bruciare gli occhi altrimenti asciutti. Volse le spalle alla finestra, e si trovò di fronte frouwelin Hildegard.

***
 

"Hêr Siegfried?"
Il bavarese trasalì. Hildegard si stupì di vederlo in piedi, avvolto in quel lenzuolo strappato dal letto. Il suo profilo era vagamente illuminato dal bagliore della luna, e i suoi capelli scarmigliati erano bagnati da riflessi argentei. Visto da quella prospettiva, sembrava più alto e statuario del normale.
"Frouwelin", disse infine, con fiero distacco.
Hildegard incrociò le braccia, piantandosi a pochi passi da lui e puntandogli contro il lume tremolante. "Vi avevo consigliato di non alzarvi. Non siete ancora in condizioni per farlo."
"Pensate che sia la prima volta che vengo ferito?" Dalla sua voce trapelava un certo sarcasmo.
La fanciulla sollevò un sopracciglio. "Disobbedite così anche durante una battaglia?" Sembrava che a quel rude uomo d'armi dessero fastidio certe attenzioni, ed ella si divertiva a provocarlo.
"Quando ero giovane, ogni tanto", ammise il conte. "Adesso, di solito sono io a guidare le schiere."
"Se fossi in voi, herre, non mi burlerei con tanta leggerezza del vostro stato d'infermità!"
Il bavarese le diede le spalle. "Sono sopravvissuto a battaglie ben più ardue di questa… Ho vissuto dieci anni della mia vita con la spada in mano, ho combattuto in Italia, in Germania e in Terrasanta. Frouwelin, io sono un cavaliere, non un pavido mercante dedito agli ozi mondani."
"In… Terrasanta?" Hildegard gli rivolse un'occhiata di stupore. Un crucesignato [14]?
"Sì. Presi il voto della croce a sedici anni, ai tempi della spedizione del Bernardo di Chiaravalle e del re Corrado [15], quando ero ancora scudiero. Il mio padrino [16] cadde eroicamente all'assedio di Damasco, e in Baviera se ne raccontano ancora le gesta. Quella spedizione fu invero una catastrofe, ma noi ci credevamo davvero."
All'epoca dei fatti Hildegard aveva solo dieci anni, ma conosceva per sommi capi gli eventi salienti della spedizione tedesca, a cui Ulrich aveva partecipato insieme all'anziano padre.
In quel momento, Hildegard cercò di immaginarsi Siegfried von Peilstein vestito dell'usbergo di maglia, la croce nera sul petto e la spada alla cintura, e trovò la cosa singolarmente interessante. Pensò a quanto dovesse essere stata diversa la vita del giovane prima dello sventurato incidente, tra promesse di gloria cavalleresca, battaglie e vita militare. Una vita così diversa da quella che lei aveva avuto fino a pochi mesi prima, scandita dalle ore canoniche, tra letture dei testi sacri, studio e contemplazione.
La curiosità si faceva sempre più incalzante. "E in Italia? Siete stato anche in Italia?"
Il bavarese annuì lentamente, senza voltarsi. "L'anno scorso, a Verona. Col conte palatino di Baviera, il duca Enrico, il margravio Diepold von Vohburg e il mio amico Eberhard von Thann. Al seguito del Barbarossa, s'intende."
"Il… chi?"
"L'imperatore. In Italia lo chiamano Barbarossa. Rotbart!"
"Fate parte del seguito di Federico di Svevia?"
"No, sono un uomo del margravio d'Austria, nonché duca di Baviera, Enrico Jasomirgott", spiegò il conte. "O meglio, lo ero."
Poi, senza attendere una risposta da parte della fanciulla, abbassò la testa e mormorò: "Mi hanno tolto tutto: la spada, gli speroni d'oro, la cintura del cavaliere… tutto ciò che ero."
Hildegard dovette trattenersi dall'andargli incontro e poggiargli una mano sulla spalla. Iniziava a vedere quel giovane sotto una luce diversa: dalla sua voce trapelava un dolore inespresso, ma che doveva gravare su di lui come un macigno.
"Non tutto", disse. "Vi restano la fede e la speranza."
Siegfried appoggiò le mani al balconcino, sospirando. Il lenzuolo gli cadde scoprendogli la spalla, ed egli se lo ritirò su con un gesto frettoloso.
"La fede… forse. La speranza, non più."
"Perché?"
Il giovane scosse la testa, ma non rispose. Stringendosi nel lenzuolo per nascondere le sue nudità e voltandosi di nuovo verso di lei, disse gravemente: "Se fossi morto sull'orlo di quel fosso, probabilmente nessuno l'avrebbe mai saputo."

Siegfried, il giovane scudiero del conte bavarese Richard von Thann, detto il Vecchio, si inginocchiò ai piedi del vescovo insieme al suo padrino e ricevette la croce.
Il viaggio, partito dalla verde Germania al seguito di Corrado di Svevia, Re dei Romani, si era svolto via terra, in nome dell'ancestrale e pervicace diffidenza che i tedeschi parevano nutrire nei confronti dei viaggi via mare. Così, si ritrovarono ad attraversare i vasti e sconfinati territori dell'Impero d'Oriente, le steppe dell'Anatolia, il deserto siriano, tra imboscate, scontri, deviazioni e gravi sventure, patendo la fame, la sete e le ferite, fin quando giunsero alle porte di Damasco, nell'estate dell'anno successivo.
A diciassette anni, pieno di speranza e di voglia di combattere, Siegfried non si era mai perso d'animo, nemmeno per un istante - e anche quando gli uomini del re vociferavano, carichi d'inquietudine, che perdere di vista l'obiettivo della riconquista di Edessa in favore dell'assedio a Damasco fosse foriero di sventura, egli si era imbarcato in quell'impresa armato del suo miglior entusiasmo.

Richard der Alte von Thann aveva sessant'anni. Alto, forte e vigoroso come un vecchio abete - il suo simbolo araldico - si ergeva tra le schiere incitando a gran voce i suoi uomini; la folta barba bianca era garanzia della sua saggezza. Non fu la stanchezza, né la vecchiaia a ucciderlo: fu l'ascia di un saraceno, piantata tra le scapole, a porre fine alla sua lunga e gloriosa vita, dinanzi agli occhi spaventati del giovane scudiero. Siegfried lo vide cadere tra le infide sabbie del deserto, immerso in una pozza del suo stesso sangue.
Senza attendere oltre, gli occhi bruciati dalle lacrime e dal cocente sole di fine luglio, il ragazzo imbracciò lo scudo del conte e si tuffò nella mischia, come se dalla sua rivalsa dipendessero i destini del mondo. Ne riemerse solo dopo molte ore, al tramonto, come un giovane drago temprato dal ferro e dal sangue, il cuore squassato da un indomabile tumulto.

***

Hêr Ulrich, il francone, gli aveva dato una camicia, una tunica e delle calzebrache da indossare, e Siegfried fu lieto di potersi alzare dal letto senza avvolgersi nel lenzuolo. Il barone non veniva quasi mai a fargli visita, se non per informarsi della sua salute, ma frouwelin Hildegard trascorreva molto tempo al suo capezzale, per rinnovargli le fasciature e portargli da mangiare. I giorni scorrevano lenti, pesanti, come granelli di una clessidra incastrati a metà nella loro discesa.
Frouwelin Hildegard gli aveva portato un libro, l'Iliade, che Siegfried ormai conosceva a memoria. Gli tornavano in mente gli anni della gioventù trascorsa sulle Alpi bavaresi, a Hohenburg, presso il vecchio conte, e poi al seguito di suo figlio, Richard der Schwarze, destinato a portare a termine l'impresa iniziata dal defunto padre. Alla corte di Richard von Thann e dei suoi figli si raccontavano molte storie: imprese di eroi, avventure mirabolanti, storie di antichi re e guerrieri bavari. Sempre lì, Siegfried aveva stretto amicizia col fratello minore di Richard, Eberhard, suo compagno di molte avventure giovanili. Persone e ricordi che sembravano ormai appartenere a una vita precedente, spezzata in quella tremenda mattinata in cui aveva perso tutto.
Lesse ancora un po', seduto alla finestra, poi si assopì col libro sulle ginocchia, ancora indebolito dalla convalescenza.

Siegfried vide se stesso ancora imberbe - undici anni? dodici? - impugnare una corta spada da allenamento e un grosso scudo a mandorla [17] dipinto d'argento, sul quale campeggiava il simbolo di un drago rosso, alato e cornuto. Le sue esili spalle di ragazzo avvertivano distintamente il peso dell'usbergo, e l'elmo alla normanna gli stringeva le tempie al di sopra del camaglio. Di fronte a lui suo fratello Konrad, di tre anni più anziano di lui e già armato scudiero, che lo incalzava giocosamente, prendendolo in giro per la sua goffaggine. Konrad gli aveva afferrato il braccio e l'aveva disarmato con un gesto fluido, costringendolo ad abbassare lo scudo.
"Non vale, hai barato!", esclamò Siegfried. "Stai giocando sporco!"
Konrad ridacchiò. Era così diverso da lui: alto e asciutto, con quel viso allungato, il naso aquilino e gli occhi scuri e attenti - così simile a suo padre… Siegfried e Friedrich, invece, avevano ereditato, seppur mitigati, i tratti sassoni della madre Adela.
"Vuoi la rivincita? Vieni a prendertela!", lo canzonò, sventolandogli la spada sotto il naso.
Il ragazzo più giovane annuì con aria di sfida, strappandogli l'arma di mano. "Un giorno diventerò più forte di te, Konrad, hai la mia parola!"
Ripresero a duellare, ridendo e vociando.

"Non voglio andarmene", borbottò Siegfried, improvvisamente triste, dopo che suo padre gli ebbe annunciato che avrebbe proseguito il suo addestramento in Baviera, da quell'anziano signore con la barba bianca che aveva appena varcato il cancello.
Konrad gli appoggiò una mano sulla spalla, sorridendo fraternamente. "Anche io vorrei che tu restassi qui, bruoder [18]. Ma non ti preoccupare, sono convinto che ci rivedremo presto."

Il libro era caduto per terra, aperto nel punto in cui una miniatura illustrava Patroclo che indossava le armi di Achille.
"Lo feci anche io, quando Konrad fu ferito in Italia." Siegfried sospirò, stropicciandosi gli occhi. Li sentiva stranamente acquosi.

***

Il conte seguitava a mantenere quell'aria di ruvido distacco che contraddistingueva ogni loro interazione, ma acquistava vigore giorno dopo giorno. Appariva dimagrito, ma non per questo il suo fisico, per natura e abitudine forgiato per sopportare la fatica, appariva particolarmente provato dalla convalescenza.
Lo trovò di nuovo seduto di fronte alla finestra, lo sguardo assorto nella contemplazione della campagna sottostante.
Fu lui il primo a rivolgerle la parola: "Frouwelin Hildegard, avete del materiale per scrivere?"
Hildegard si stupì di tale richiesta, ma non gli fece domande. Annuì, poi gli portò un foglio di pergamena, una boccetta d'inchiostro e una penna. Alla vista della sua mano destra ancora fasciata, gli propose di farsi dettare ciò che desiderava scrivere, ma l'austriaco si oppose fermamente.
"Non è una missiva ufficiale, è un'epistola privata. Voglio scriverla di mio pugno. Che giorno è oggi?"
"Un giorno prima delle idi di marzo. [19]"
"È già passata quasi una settimana…", mormorò il giovane, come tra sé. Poi le diede le spalle di nuovo, intinse la penna nell'inchiostro e iniziò a scrivere.
Vergava lettere incerte e tremolanti per l'impaccio delle bende, in una pratica grafia da cancelleria. A un certo punto si fermò, accigliato. Hildegard lo vide riflettere per un istante, poi si mise a disegnare sul foglio quello che sembrava il simbolo araldico di un drago, e accanto a esso scrisse il suo nome completo in latino. Arrotolò la pergamena con un gesto sbrigativo e chiese un nastro per chiuderla.
"Affidatela a un corriere e ditegli di consegnarla a mio fratello, Konrad von Peilstein", disse, porgendogliela con ruvida sollecitudine. "Si tratta di un messaggio urgente."
Hildegard non sapeva cosa avesse in mente, ma si accinse a esaudire la sua richiesta senza porgli ulteriori quesiti, sapendo che l'avrebbe quasi sicuramente fatto alterare.
Tuttavia, la curiosità di sapere cosa avesse scritto in quella missiva la dilaniava. Con le labbra tirate in un ghigno trionfante, attese di richiudersi la porta alle spalle, poi mosse qualche passo verso la finestra, sciolse il nastro e sbirciò: dalle brevi e circostanziate sentenze che il conte aveva scritto, nel suo volgare, Hildegard comprese che mancava dall'Austria da diversi anni a causa di alcuni screzi avuti con la sua famiglia - di cui Konrad e l'altro fratello menzionato nella missiva, Friedrich, dovevano essere gli unici familiari con cui era rimasto in contatto.
Subito dopo, però, si sentì in colpa per la sua mancanza di rispetto, e provvide a richiudere in fretta, cercando di occultare ogni possibile traccia della sua clandestina intromissione: ormai era una sorta di urgenza pressante carpire quante più informazioni potesse sul conto di Siegfried von Peilstein, la cui figura si delineava sempre di più, e acquistava sempre più spessore ai suoi occhi ancora inesperti del mondo di cui il giovane faceva parte.

***

"Trascorri molto tempo in camera del conte", disse Ulrich.
"È necessario", ribatté Hildegard. "Si sta riprendendo, ma ha ancora bisogno di cure. È molto provato, anche se cerca di non darlo a vedere."
Ulrich fece una smorfia sarcastica. "Ti sei accalorata molto per quel bavarese. Di', non ti sarai mica innamorata di lui?"
Hildegard arrossì. "Ulrich, Siegfried… ehm, il conte, è austriaco."
"Ah, visto! Lo chiami pure per nome…", bofonchiò il barone. "La marca orientale non fa forse parte della Baviera?"
In quel momento, una terza voce si unì alla conversazione. La voce del conte. "Non è la stessa cosa. Baiern e Ostarrichi sono parti distinte di una sola unità, ma non sono la stessa cosa. Lo stesso vale per il Nordgau e per la Stiria [20]. Dite, siete mai stati in Baviera?"
Hildegard scosse la testa, Ulrich rispose con un silenzioso cenno d'assenso.
Siegfried riprese a parlare. Camminava ancora zoppicando, e si appoggiò allo stipite della porta. "È difficile da spiegare", ammise. "Ma io so distinguere a prima vista un austriaco da un bavarese, e un bavarese da uno del Nordgau. Forse perché sono nato in Austria e ho trascorso molti anni sia in Baviera che nel Nordgau."
"Date mostra di aver viaggiato molto, herre", osservò Ulrich, pacatamente.
"È così, hêr Ulrich", disse il conte. "Ho girato l'impero in lungo e in largo, e ho visto il deserto della Siria, i regni cristiani d'oltremare e l'impero dei Romei. Ma nessun luogo mi sarà mai caro come il lembo di terra in cui sono nato e cresciuto… e al quale intendo tornare al più presto."
Stavolta fu Hildegard a cogliere l'occasione propizia. "Mancate da molto tempo?"
L'austriaco annuì gravemente. Sembrava non aver molta voglia di continuare il discorso, e Hildegard non gli chiese altro. Aspettò che Ulrich se ne andasse, lasciandola sola con lui.

***

Siegfried era seduto alla finestra. I pallidi raggi del sole primaverile gettavano vaghi riflessi dorati sui suoi capelli castani. Anche i suoi occhi, nei quali si rispecchiava il colore del cielo, apparivano più luminosi. La barba scura, che gli cresceva ormai incolta sulle guance e sul mento, non riusciva ad alterare la bellezza dei suoi tratti. Forse aveva ragione Ulrich: quel giovane esercitava un fascino irresistibile su di lei, così poco pratica di uomini e di mondo.
"Hêr Siegfried, come state?", gli chiese, lentamente.
Il giovane si voltò. "Starei meglio se potessi uscire da qui. Sono in grado di reggermi in piedi, e le ferite… non mi fanno più così male. Ho bisogno di respirare un po' d'aria fresca e di sgranchirmi le gambe. Sono stanco di misurare la lunghezza di questa stanza camminando avanti e indietro." Stranamente, il suo tono di voce era decisamente meno rude e distaccato del solito. A Hildegard parve quasi di ravvisarvi una remota dolcezza.
"Siete sicuro di potercela fare?"
"Devo ripetervi ciò che vi ho detto un paio di giorni fa? Sono un guerriero, sono avvezzo alla fatica. Vi prego di farmi uscire, altrimenti lo farò senza chiedervi il permesso."

Frouwelin Hildegard lo precedeva, percorrendo a piccoli passi il sentiero sterrato, come per permettergli di starle dietro col suo passo ancora malfermo. Gli aveva mostrato le varie stanze della modesta fortezza, passando per le scuderie e il cortile brulicante di armigeri e valletti d'armi che si esercitavano sotto la guida attenta del barone, tra rimbrotti, cozzare di spade e urla trionfanti. Una semplice scena di vita quotidiana, che ebbe il potere di risvegliare nell'animo di Siegfried una potente nostalgia.
Poi erano usciti dal pesante cancello in legno e avevano imboccato il sentiero che portava nelle campagne del piccolo feudo, tra campi ancora brulli dopo il lungo inverno e macchie boscose, di alberi ancora spogli e altri già timidamente vestiti di verde. Hildegard von Mörle parlava, raccontandogli di quando era fanciulla, prima che si facesse novizia al monastero di Rupertsberg, delle cavalcate fatte insieme al fratello attraverso quell'immensa distesa verde. Aveva una voce gradevole, quasi musicale, che rendeva quasi familiare la sua ruvida parlata francone: pur parlando due volgari diversi, ormai si capivano alla perfezione.
Siegfried non riusciva a capire perché, improvvisamente, sentisse un'urgenza così pressante, quasi dolorosa, di rivedere la sua patria, dopo quasi dieci anni della sua giovane vita trascorsi a fare la spola da un luogo all'altro della Baviera. Desiderava rivedere Konrad e i suoi figli ancora infanti, Friedrich, Mathilde, perfino il vecchio padre dal quale si era separato così malamente.
"Tornerò presto in Austria", disse improvvisamente, troncando a metà il discorso.
Hildegard si affiancò a lui e lo guardò di sotto in su. Per la prima volta Siegfried la notò: non era molto alta, e non dimostrava più di vent'anni, ma era molto graziosa, con gli occhi di un verde quasi dorato e folti capelli color miele. Il bliaut [21] verde scuro, dalle maniche ampie, metteva in risalto una femminilità discreta e armoniosa.
Per un istante parve quasi delusa, di fronte a una simile manifestazione di volontà. Poi chiese, vincendo ogni esitazione: "Che cosa vi ha portato lontano dalla vostra terra?"
Siegfried sospirò. Non voleva pensarci, ma lo disse comunque. "Herzeleit." [22]
Hildegard non rispose subito, ma lasciò vagare lo sguardo attraverso la campagna, e solo dopo un po' disse, a bassa voce: "Avete… perso qualcuno che amavate?"
"Più o meno. Ma adesso non ha più importanza", rispose il giovane, imponendosi un atteggiamento distaccato.
"E… avete mai più amato qualcuno, dopo di lei?"
Siegfried scosse la testa, come per scacciare un ricordo fastidioso. "Per fortuna no."
Hildegard parve comprendere che non gli andava di parlarne, e cercò di cambiare discorso.
"E che mi dite di vostro fratello, Konrad?"
"Non esagererei se dicessi che è la persona che mi è più cara al mondo, insieme al Friedrich, l'altro mio fratello. Se non ci fossero stati loro, avrei ceduto alla disperazione molto tempo fa."
"Volete tornare in Austria per rivederli?"
"Sì… e non solo. Desidero parlare con mio padre e riappacificarmi con lui."
"Che cosa è successo?"
"Gli ho mancato di rispetto e gli ho causato più dispiaceri che soddisfazioni. Lui non mi ha mai perdonato, ma so che se ne duole. È molto vecchio e malato, adesso. Devo tornare da lui."
Hildegard abbassò lo sguardo. "Mi dispiace, hêr Siegfried."
Per la prima volta, il viso del conte fu attraversato dall'ombra di un sorriso. "Chiamatemi semplicemente Siegfried. Detesto la formalità."

***

Era la prima volta che Hildegard vedeva il conte - o meglio, Siegfried - sorridere, e ne fu sommamente felice. Da quel giorno, anche il suo atteggiamento cambiò: divenne sempre più cordiale, a tratti caloroso, e pareva quasi felice di vederla e di uscire con lei a passeggiare per la campagna. Crogiolandosi nel ricordo dell'amata terra lontana, quel lembo di Baviera che lui chiamava Ostarrichi, le raccontò dei suoi antenati Norici, progenie di Ercole, e dei Bavari che calati da nord colonizzarono le regioni danubiane. Conosceva a fondo le storie e le leggende legate alla terra dei suoi padri, e le mescolava sempre più spesso ad aneddoti sul suo addestramento militare, sulle sue battaglie, sulla sua fanciullezza tra le colline verdi che attraverso le sue parole assumevano consistenza fisica.
E Hildegard di rimando gli raccontava dei lunghi anni al monastero e delle molte cose che aveva appreso dall'anziana badessa: le sue mirabolanti visioni; le sconfinate conoscenze in ogni campo dello scibile umano, che amava condividere con le sue consorelle; le straordinarie melodie che componeva, per poi innalzarle al cielo in un canto estasiato, in una lingua ignota, incomprensibile ma non per questo meno affascinante…

I giorni passavano, e venne la primavera, coi suoi colori e i suoi profumi.
Tutto d'un tratto, il giovane conte Siegfried von Peilstein sembrava di nuovo intravedere uno spiraglio di speranza in quella che per lungo tempo gli era sembrata una prospettiva di vita tetra e senza vie d'uscita. Ormai le sue ferite si erano quasi del tutto rimarginate, e si avvicinava sempre di più il momento in cui avrebbe lasciato il castello e sarebbe tornato nella sua terra, a cercare i suoi fratelli e suo padre.
"Io ti sono molto grato, frouwelin Hildegard, perché è solo grazie a te se sono scampato a una morte così orribile. Ed è solo dopo aver visto il baratro che ho avuto di nuovo il coraggio di risalire."
"Io... ho sempre creduto che non fosse stato il caso a farci incontrare."
"Beh, forse no", accordò lui. "Forse la mia sorte ha decretato che non era quello il momento di morire, per me. E ne sono lieto. Mi hanno sempre insegnato che ci sono solo due cose per cui vale la pena morire: la patria e la famiglia."
"Intravedi di nuovo la speranza?"
"Di sicuro non mi sono ancora arreso", disse il giovane, con un mezzo sorriso. "Sono sempre stato dell'idea che fosse proprio la resa la sconfitta peggiore. E sai, con tutto quello che sta succedendo ultimamente in Italia, credo che presto ci sarà di nuovo bisogno della mia spada... La vita agiata, che incita alla mollezza e alla lascivia, non fa per me."
Hildegard gioiva nel vederlo di nuovo in salute, inebriata delle sue parole di gratitudine, mentre cavalcava insieme a lei attraverso la campagna e si esercitava con le armi in cortile insieme a Ulrich, giorno dopo giorno tornando ad essere quello che era sempre stato.
Ma questo significava anche che presto se ne sarebbe andato, forse per sempre.

"È giunto il momento", le annunciò un giorno Siegfried, appena si furono fermati all'ombra del grosso albero dove solevano passare ore a parlare. "Ho intenzione di partire domattina. Devo tornare a casa, a costo di farmi tutta la strada a piedi."
Hildegard lo afferrò per un braccio. "Ti ricorderai di me?"
Il conte parve meravigliato. "Certo che lo farò. Io... ti devo la vita! Non potrei mai dimenticare una cosa del genere."
"Ti prego, torna presto da me", sussurrò lei, improvvisamente triste. Quasi si vergognò del tremito che aveva incrinato la sua voce.
Siegfried le prese le mani, guardandola ardentemente negli occhi. "Non ho niente da donarti come pegno della mia promessa, ma hai la mia parola: tornerò."
"Ti aspetterò fino ad allora", promise Hildegard, sciogliendo un nastro del suo vestito e legandoglielo al braccio [23]. "Abbi cura di te."
Siegfried assunse per un istante un'espressione scanzonata, segno che stava per rispondere con una battuta. Ma si limitò a sorridere, traendola a sé per stringerla. Piegò appena la testa, cercando le sue labbra con le proprie, suggellando la sua promessa con un bacio. Hildegard rimase per lungo tempo così, tra le sue braccia, una sensazione di gioia indicibile che pervadeva il suo animo. "Tornerò presto", ripeté lui, baciandola ancora, "e finalmente potrai vedere i boschi e le colline della mia terra!"

***

Una fulgida alba dorata sorse sul giorno della partenza.
Konrad aveva risposto alla sua lettera, e i suoi fratelli lo attendevano, sollevati nell'apprendere che Siegfried era scampato a una sorte così infausta. Anche il vecchio padre si era preoccupato, e si era dichiarato disposto a riceverlo di nuovo, dopo tutti quegli anni che aveva trascorso lontano da casa. Ulrich gli aveva dato un cavallo e si era offerto di accompagnarlo, con una scorta armata, fino al confine con la regione bavarese del Nordgau. Per la prima volta dopo molto tempo, Siegfried si sentiva stranamente felice, come se si fosse liberato da un peso opprimente. E se Vrou Sælde [24] avesse deciso di favorirlo ancora un po', la volta successiva sarebbe tornato insieme a Hildegard.

 

***

La storia continua…

Chi ha letto la storia principale, ha già conosciuto Siegfried (già quarantacinquenne), e adesso conosce meglio anche Hildegard.
Era da più o meno sei anni che avevo in mente questa storia, e - quasi per caso - mi sono resa conto che loro due erano i personaggi perfetti per raccontarla.
Sempre chi ha letto la storia principale, si sarà sicuramente accorto della somiglianza sconcertante, sia fisica che caratteriale, tra Siegfried e l'omonimo figlio: non è una cosa casuale.

 

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Note:

[11] la "lore" di Vienna, basata su dati storici, archeologici e letterari, è stata già spiegata in altra sede. Siegfried si trova presumibilmente nel Wienerwald.
N.B.: il peculiare modo di parlare di Siegfried ricalca l'abitudine di certi autori austriaci di mettere, anche nello scritto, elementi del parlato.

[12] Una regione della Baviera storica (Altbayern), poco più a sud di Monaco.

[13] Il Nero. Richard si era guadagnato questo soprannome per via della sua folta chioma corvina.

[14] termine in latino medievale per indicare i crociati.

[15] Seconda crociata (1147-1149). Anche questa è stata approfondita altrove.
Il fatto d'armi di cui parla Siegfried è questo: https://it.wikipedia.org/wiki/Assedio_di_Damasco
Voto della croce (votum crucis): giuramento del crociato.
Come ho già spiegato altrove, il termine "crociata" è un neologismo risalente all'epoca moderna. All'epoca dei fatti erano conosciute solo come "pellegrinaggi" o "spedizioni", mentre i Crociati definivano se stessi "Soldati della croce" o "crucesignati".

[16] Il cavaliere che si occupava dell'addestramento di uno scudiero.

[17] Scudo normanno. La scena che mi appresto a descrivere è ambientata intorno al 1142/43, e il tipo di armatura (alla normanna) per i cavalieri del tempo è questo: https://i.pinimg.com/736x/96/c6/54/96c6540d23a12caef1904cdc9a474b50.jpg
Il simbolo sullo scudo del ragazzo è lo stemma della sua famiglia.

[18] fratello

[19] 14 marzo

[20] le quattro "macro-regioni" che costituivano la Baviera medievale.

[21] tunica femminile in uso nel XII secolo.

[22] tormenti amorosi (lett. "mal di cuore")

[23] nella cultura cavalleresca, era usanza per le fanciulle donare al cavaliere da loro prescelto un laccio o un nastro come pegno d'amore. Il gesto di Hildegard ha un grosso significato simbolico.

[24] la Fortuna. Concetto molto ricorrente nella cultura tedesca medievale.

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