Ich bejagte swes ich gerte mit sper und mit swerte

di Saelde_und_Ehre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Besançon / Ostarrichi, A.D. MCLVII ***
Capitolo 2: *** Regnum Italiae, A.D. MCLVIII ***
Capitolo 3: *** Mediolanum, A.D. MCLXII ***



Capitolo 1
*** Besançon / Ostarrichi, A.D. MCLVII ***


Premessa:
Come specificato nelle note introduttive, questa storia è una spin-off di "Das Lied der Vergessenen Helden".
Non è obbligatorio aver letto la "storia madre" per avventurarsi nella vicenda qui narrata, però essendo questo racconto concepito appunto come una spin-off, non mi soffermerò particolarmente a spiegare cose relative ai personaggi e nozioni storico-culturali e linguistiche che ho già chiarito all'interno dell'arco narrativo principale.
Questa one-shot è dedicata a un personaggio che, per ragioni temporali, nella storia principale non compare se non nei vari flashback degli altri personaggi che verranno presentati nel corso di questa breve narrazione, e la vicenda qui narrata, pur essendo collegata alla principale (di cui chiarisce e approfondisce alcuni punti che vengono solo accennati), può essere considerata autoconclusiva.
Dato che questa storia è incentrata sul personaggio di Friedrich, gli accenni agli eventi storici e alle battaglie, presi dalle cronache del tempo, sono - purtroppo - solo un abbozzo (altrimenti ci verrebbe fuori un romanzo…).
 
Il titolo è in alto tedesco medio (Mittelhochdeutsch), ovvero tedesco medievale (1000-1350).
È tratto dal poema epico-cavalleresco Iwein di Hartmann von Aue e potrebbe essere tradotto così: "cercavo di ottenere ciò che desideravo con lancia e spada".


 
***
 
[…]
 
 
In nome della santissima e indivisa trinità.
Federico, per grazia di Dio Imperatore dei Romani, Augusto, invictissimo [1], nel sesto anno del suo regno e nel terzo del suo impero.
Dieta di Besançon, anno del Signore MCLVII, mese di Ottobre.


 

Un uomo corpulento in abito talare si alzò dal suo scranno, interrompendo l'eloquio dell'imperatore con un semplice gesto della mano, e senza attendere licenza percorse con passo baldanzoso la distanza che lo separava dal trono imperiale, incurante delle occhiate che gli scivolavano addosso.
Nella sala, gremita di nobili giunti da ogni angolo dell'Impero, piombò improvvisamente un silenzio denso e vibrante. Si percepiva una tensione crescente, vaga eppure onnipresente, la stessa tensione che calava ogni volta che qualcuno si permetteva di contestare le parole di Federico di Svevia, della casata di Hohenstaufen.
"Cardinale Rolando Bandinelli da Siena [, legato pontificio", annunciò un chierico, con voce untuosa, inchinandosi fino quasi a toccar terra con la croce che aveva appesa al collo. Il prelato, per nulla intimidito dall'espressione truce dell'arcicancelliere imperiale Rainaldo di Dassel, rimase orgogliosamente in piedi omaggiando l'imperatore e i suoi consiglieri con un rigido e frettoloso inchino del busto, e srotolò una pergamena con un gesto solenne.
L'imperatore svevo si limitò ad annuire, cercando di dissimulare la propria irritazione dietro un'espressione tirata. "Vi ascolto, Eminenza."
"Mio nobilissimo principe", iniziò il cardinale, con voce alta e chiara. "Giungo a recarvi omaggio a nome del nostro santissimo Padre Adriano…"
A metà dei convenevoli, l'imperatore aveva già iniziato a tamburellare con impazienza le dita inanellate sul bracciolo del suo scranno, mentre con l'altra mano si grattava nervosamente la barba rossiccia che gli aveva fruttato, in Italia, l'appellativo di Barbarossa. Poco dietro di lui, chino su uno scrittoio, Rainaldo di Dassel trascriveva incessantemente ogni parola pronunciata dal prelato.
"…un nostro venerabilissimo fratello, l'arcivescovo Esquilio di Lund, è stato assalito e imprigionato da alcuni cavalieri tedeschi mentre era di ritorno da Roma. Desidero appellarmi alla vostra clemenza per impetrare la sua liberazione…"
Federico strinse gli occhi. "Le vostre preghiere non resteranno inascoltate", lo ammansì, in tono asciutto. "Tuttavia, signor cardinale, se il mio avviso non m'inganna, intuisco che siano ben altre le ragioni della vostra ambasceria."
"Ebbene, esso non v'inganna, augustissimo principe. Sono qui anche per ricordarvi il vostro impegno nei confronti della nostra santissima romana Chiesa…"
"Il mio… impegno?", ripeté l'imperatore, tagliente. "Come sarebbe, signor cardinale?"
Senza scomporsi, il prelato gli porse la pergamena, come ad esortarlo a leggerla egli stesso. Federico la scorse rapidamente con gli occhi, e subito sul suo viso si dipinse un'espressione contrariata.
"Mio nobile Rainaldo, credo di non aver letto bene", sbottò, allungando la lettera verso l'arcicancelliere e ingaggiando al contempo un feroce duello di sguardi con Bandinelli. "È mai possibile che il Papa adoperi toni così insolenti nei confronti di colui che per grazia divina ha ricevuto il regno e l'impero?"
La lettera, che il prevosto lesse e tradusse ad alta voce al cospetto di tutti i presenti, non si limitava a contestare aspramente e senza mezzi termini l'operato di Federico in terra italica, ma lo richiamava apertamente all'obbedienza, ricordandogli i suoi obblighi di principe cristiano. "…pertanto, egli sostiene di avervi concesso in beneficio la corona imperiale e i feudi a esso annessi…"
A quelle parole, la sala fu invasa da un brusio costernato; la tensione raggiunse il suo apice, come un ronzio insistente e fastidioso.
Beatrice di Borgogna, la giovane moglie dell'imperatore, un'esile fanciulla sui diciassette anni, capelli castani e occhi chiarissimi, afferrò il braccio del marito prima che questi scattasse in piedi in preda all'ira.
"Come osa il Papa insinuare che io, Federico Augusto imperatore dei Romani, sarei un suo vassallo?", tuonò Barbarossa, paonazzo in volto.
"Marito, calmatevi, vi prego", sussurrò l'imperatrice, continuando a tenergli il braccio. Federico la scrollò via con uno strattone, tuttavia non si alzò. I suoi occhi celesti lanciavano sguardi di fuoco al legato pontificio, come se volessero incenerirlo.
Rolando Bandinelli si lisciò con noncuranza la veste talare, restituendo all'imperatore un'occhiata glaciale e provocatoria. "A quo ergo habet, si a domno papa non habet, imperium?" [1]
Tutti avevano compreso il significato di quella domanda retorica, e le voci dei tedeschi irruppero in un boato indignato.
Il conte austriaco Konrad von Peilstein si irrigidì; suo fratello Siegfried si lasciò sfuggire una lieve risata nervosa, poco più che un bisbiglio soffocato. Friedrich rimase impassibile.
Solo il conte palatino di Baviera Otto von Wittelsbach, incaricato di reggere la spada cerimoniale dell'imperatore, ebbe però l'ardire di muoversi. Con uno scatto fulmineo, sguainò la spada e piombò di fronte al prelato, afferrandolo per la veste e puntandogliela alla gola. "Ripetetelo ancora una volta, signor cardinale", ringhiò, il volto congestionato dalla rabbia. "E, giuro su Dio onnipotente, io…"
Le voci si alzarono ancora di più; qualcuno arretrò spaventato, altri lo incitarono. Nonostante la sua statura inferiore alla media e il suo aspetto apparentemente innocuo, il bavarese aveva le sue buone ragioni per essere paragonato a un leone.
"Basta così, hêr Otto", gli ingiunse l'imperatore, fermandogli la mano prima che colpisse il cardinale, ancora ritto e composto nonostante l'espressione turbata, "Vi prego di evitare spargimenti di sangue alla mia corte."
Il conte palatino fece un passo indietro ansando leggermente, la mano che impugnava la spada tremava ancora. "Vi domando perdono, hêr keiser", mormorò, dopo un breve istante di sbigottimento.
"Potete tornare al vostro posto. Date le condizioni in cui versano i vostri animi, dichiaro sciolta questa assemblea", proclamò l'imperatore, in un tono che non ammetteva repliche. "E voi, Eminenza, abbiate l'accortezza di lasciare questa città entro domani all'alba ed evitare ogni contatto col clero e con la nobiltà tedesca."

***

I nobili tedeschi uscirono dalla sala scambiandosi impressioni a caldo su ciò che era appena successo. Il giovane Friedrich von Peilstein si attardò a parlare coi suoi fratelli, poi li lasciò tornare alle loro occupazioni, e tornò alla sua tenda col suo compagno e ministeriale Ludwig von Schaunberg. Friedrich aveva ventitré anni e in Austria godeva già di una certa fama per la sua prodezza con le armi, affinata nel corso di anni e anni di duro addestramento, tornei e campagne militari. Benché avesse solo undici anni più di lui, Ludwig era colui che aveva fatto di Friedrich un uomo e un cavaliere, istruendolo nell'arte militare mentre il ragazzo gli leggeva storie d'avventura - le stesse avventure che poi, anni dopo, avrebbero rivissuto insieme. E quando il giovane conte era cresciuto, il suo mentore e maestro era diventato un suo vassallo, poi un suo seguace, e infine il suo compagno più fedele. Non v'era giorno che non trascorresse insieme a Ludwig, né impresa che non avesse compiuto al suo fianco, da quando al termine dell'addestramento l'allievo aveva preso il maestro sotto la sua protezione, trattandolo non come un sottoposto, bensì come un pari.
Accanto a Ludwig, sei piedi e un palmo d'altezza [2] e fisico erculeo, Friedrich, pur essendo tutt'altro che gracile e minuto, gli arrivava poco sopra la spalla, ma nessuno dei due pareva farci troppo caso.
Erano in tenda a giocare a scacchi, quando la campana del vespro li ridestò dai loro svaghi. Friedrich si alzò in piedi, abbandonando il suo compagno nel bel mezzo della pianificazione di una mossa, si sistemò la camicia e i lacci delle calzebrache. "Prepariamoci", disse, "è ora di cena." Guardò la propria immagine riflessa allo specchio. I suoi capelli castani, che portava tagliati sotto le orecchie, erano ancora scompigliati, e gli occhi, di un azzurro intenso, parevano quasi trasparenti. Aveva il volto affilato, una rada barba biondiccia e i lineamenti delicati ma virili, che davano un'impressione di serenità e spensieratezza.
Quando si fu rapidamente rivestito, appese la scarsella alla cintura, si buttò il mantello sulle spalle e precedette il suo compagno. "Vieni, andiamo alla taverna, ci sono Konrad e il Siegfried che ci aspettano."
Ludwig aggrottò le sopracciglia. "Ci aspettano?"
"Sicuro", disse il conte, con un sorriso. "Sei uno di famiglia, ormai, mio fedele amico… almeno per me."

Konrad e Siegfried von Peilstein erano già seduti a mangiare e si lamentavano della pessima qualità del vino borgognone, rimpiangendo quello delle loro terre. Konrad era alto, segaligno, capelli scuri e naso aquilino; Siegfried era simile a Friedrich, ma aveva il viso più tondo, incorniciato da capelli lunghi fino alle spalle, e le guance coperte da una corta barba castana.
Seguito da Ludwig, Friedrich si mise a sedere a tavola, attendendo che l'oste arrivasse a prendere la sua ordinazione.
"…pare ormai ovvio che in Italia prima o poi scoppierà un conflitto", diceva Siegfried al fratello maggiore. "L'hai visto anche tu com'erano infervorati i milanesi due anni fa, nelle guerre contro Pavia, Lodi e Cremona… di Lodi non è rimasto che un cumulo di macerie, e i suoi abitanti errano sbandati implorando la protezione dei cremonesi…"
Konrad bevve un sorso di vino. "Quello dei milanesi è un grave atto di insubordinazione che il Barbarossa non lascerà impunito. Io mi preoccuperei più del papa, che invece di appoggiare l'unico vero Cesare Augusto si è pronunciato a favore dei sovrani normanni di Sicilia."
"Sai una cosa, Konrad", confessò l'altro, addentando una coscia di pollo, "se fossi stato il Rainaldo avrei preso la missiva del Papa e l'avrei stracciata dinanzi agli occhi del legato, gettando poi i suoi frammenti nel fuoco. Così si sarebbero evitati molti guai, tra cui la reazione di Otto von Wittelsbach."
"Beh, sì." Il più anziano rimuginò per un istante. "Avrebbe dimostrato in maniera più incisiva, di fronte a tutti i presenti, che l'imperatore non soggiace alla sconfinata arroganza di un suo vassallo. Anche io avrei fatto così: probabilmente, il Bandinelli si sarebbe dileguato con la coda tra le gambe, evitando l'ennesimo conflitto tra Cesare e Pietro [3]."
Intervenne Friedrich, che finora aveva ascoltato in silenzio. "Fin dai tempi di Carlo Magno è stato sancito il rapporto di subordinazione dei feudi papali a quelli imperiali."
"Ormai il conflitto è inevitabile", sentenziò Siegfried lapidario, "francamente, io non sarei mai saltato alla gola di un uomo di chiesa in quel modo, ma non vedo perché Otto von Wittelsbach dovrebbe scontarne le colpe."
Una figura scura si materializzò alle spalle di Siegfried e gli poggiò entrambe le mani sulle spalle, facendolo sobbalzare. "Il legato papale era nel torto. Otto von Wittelsbach, pur avendo reagito in maniera fin troppo avventata ed eloquente, era animato dalle giuste motivazioni", sentenziò una voce profonda alle sue spalle. "Anche io, se un mio ministeriale mi arrecasse un'offesa del genere, sarei lesto a punirlo…"
"Non hai ancora perso i tuoi metodi, eh?!" L'austriaco si voltò spazientito verso il nuovo arrivato, il conte bavarese Richard von Thann. Costui era un uomo alto, longilineo, spalle larghe e capelli color ebano che si inanellavano intorno alla sua nuca e sulla sua fronte.
"Ti ho insegnato a guardarti alle spalle. Non mi sembra che tu stia mettendo in pratica i miei insegnamenti, knappe. [4]"
"Peccato che siano passati otto anni da quando mi hai conferito l'investitura!", bofonchiò l'altro.
Richard von Thann, senza dire altro, si mise a sedere accanto a lui e iniziò a sbocconcellare un pezzo di carne.
"Come stanno la Mathilde e le tue figliolette?", interloquì subito Konrad. La sorella dei tre austriaci era la moglie di Richard e aveva da poco dato alla luce la loro terza figlia.
"Bene, tutte quante." Richard ridacchiò. "Chissà se riuscirò ad avere un maschio prima di rimanere completamente assediato da così tante femmine…"
"Scusate il ritardo." I due fratelli minori di Richard, Adalbero ed Eberhard, accompagnati dallo scudiero di quest'ultimo, un ragazzo bavarese di nome Berthold von Andechs, arrivarono alla spicciolata tenendo in mano alti boccali di legno colmi di birra.
"Benvenuti, amici. Stavamo discutendo della scenata di Otto von Wittelsbach…", disse Friedrich.
"Mi aspettavo una simile reazione da parte sua." Eberhard von Thann, detto l'Orgoglioso, era il secondogenito, più cupo e posato del fratello. Aveva quasi trent'anni, e aveva viaggiato molto attraverso la Germania insieme a Siegfried. "Se c'è qualcosa che abbiamo imparato, presenziando ai Landtage [5] in Baviera e alle spedizioni in Italia, è che non bisogna mai far arrabbiare Otto von Wittelsbach. È da tempo un fedele cane dell'imperatore, e se solo Federico gliene avesse dato licenza, avremmo visto il sangue del legato scorrere in quella sala…"
Adalbero, il minore, che si divideva tra la vocazione di uomo di lettere e il dovere di uomo di spada, rivolse al fratello uno sguardo penetrante. "La verità, comunque la si veda, è che l'Aquila non può avere due teste. L'imperatore dovrebbe essere invero anche il pontefice massimo, sommo capo di tutte le cose celesti e terrene - come era d'uso presso i Romani d'Occidente e come, in un pallido tentativo d'imitazione, fanno anche i basilei dei Romei [6]."
"Hai mai pensato di andare a fare una lettura di diritto romano allo studium di Bononia [7]?", lo prese in giro suo fratello Richard.
"La vita del girovago non mi attrae. Preferisco le mie montagne, i miei boschi, e perché no, anche le donne bavaresi."

***

Contea di Peilstein, Ostarrichi [*]

Friedrich, da poco tornato in patria insieme ai suoi fratelli, era di nuovo in procinto di partire.
"Dove vai?", gli domandò suo padre, attirato dal tinnire metallico del suo usbergo di maglia. La figura, simile a un albero nodoso e ingrigito, del conte Konrad von Tengling si stagliò contro l'ingresso della sala d'armi.
"A Vienna, padre", rispose il giovane, allacciandosi la cintura della spada. "Il duca Enrico ha indetto un torneo."
Il vecchio annuì. "Temo che dovrai ritardare la tua partenza di qualche ora", annunciò. "Sei atteso nella mia stanza: c'è un ospite che desidera conferire con te. E vedi di non farti attendere come sempre, la mia pazienza non è infinita."

"È fuori discussione!" Appena l'ospite se ne fu andato, Friedrich batté con violenza un pugno sul tavolo. "Un'alleanza di convenienza? Non se ne parla neanche!"
"Modera i toni, figliolo", lo redarguì il padre. "Otto von Machland è stato molto conciliante."
"Al diavolo!", inveì ancora una volta il giovane, alzandosi in piedi e iniziando a girare con passo nervoso intorno al tavolo. "Possa il signore Iddio fulminarmi se mai dovessi sottostare a simili condizioni! Non se ne parla! Accettare la mano di quella… scialba ragazzina… quanti anni avrà, quindici?"
Il conte Konrad non si lasciò impressionare. "Non farai mica come tuo fratello?"
Friedrich si fermò al centro della stanza. "Non biasimo il Siegfried per aver rifiutato Bertha von Plain."
"Peccato, però, che l'avesse fatto perché era invaghito di quella civetta della Irmgard von Rauheneck, che ha dovuto umiliarlo pubblicamente di fronte alla corte viennese per fargli capire che non era il partito giusto per lui! Alla fine però, pure lui ha messo la testa a posto: meglio tardi che mai."
"Non eravate dello stesso parere quando è tornato a casa con la Hildegard", ribatté il figlio, sfrontato.
"Ebbene, figliolo, poi ho capito che era solo grazie a lei se mio figlio era ancora vivo. Quella donna è un tesoro raro. Ma che cosa dovevo fare, di fronte a un matrimonio clandestino, consumato a mia insaputa? Lei era già incinta quando me l'hanno annunciato!"
"Bene, padre, con me non avrete neanche quel problema. Non ho intenzione di sposarmi, né legalmente né clandestinamente, né tantomeno correrò il rischio di mettere al mondo figli illegittimi."
Senza attendere una risposta da parte del padre, Friedrich von Peilstein gli voltò le spalle e uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Era l'ultimo di quattro fratelli, figlio di Konrad von Tengling e di Adela von Ballenstedt, originaria della Sassonia e morta l'anno precedente.
Mathilde, la secondogenita e unica figlia, aveva sposato un bavarese delle Alpi, lo stesso che aveva fatto di Siegfried un cavaliere, ed era madre di tre graziose bambine dai capelli scuri. Col marito, Richard von Thann, aveva un rapporto di tenero affetto e profonda dedizione, che egli ricambiava.
Mentre Konrad, il maggiore, aveva sacrificato i propri veri sentimenti in nome del dovere, Siegfried aveva sofferto ed era stato ferito e abbandonato, per poi ribellarsi comunque al volere del padre e darsi a vita avventurosa. Friedrich ricordava ancora l'espressione sconvolta del povero anziano conte quando suo fratello era tornato dalla Franconia insieme alla moglie Hildegard, che presto gli avrebbe dato un figlio. Si era arrabbiato, ma si era subito anche commosso, dispensando la sua benedizione al nascituro e accogliendo la giovane come una figlia. Siegfried non era esattamente una persona imprevedibile: era un tipo ligio ai propri ideali e ai propri principi, che riteneva più importanti di ogni altra convenzione, ma non esitava a seguire la propria coscienza, a costo di trasgredire gli ordini. Konrad, invece, anteponeva il volere altrui al proprio, e raramente si permetteva rimostranze o lamentele. Era sempre sottostato al volere del vecchio padre, ed era egli stesso un uomo molto severo, che a prima vista poteva sembrare caustico e inflessibile, ma che Friedrich sapeva essere un attento osservatore, capace di comprendere a fondo l'animo di chi lo circondava.
Nonostante le differenze, fisiche e caratteriali, o forse proprio in virtù di esse, Konrad e Siegfried erano indispensabili l'uno per l'altro: Konrad era una roccia, un porto sicuro in cui rifugiarsi; Siegfried era l'amico fedele, pronto a dare la vita per difenderlo a spada tratta.
Friedrich sapeva di poter contare su entrambi in qualsiasi momento, ma non era mai riuscito a raggiungere, con nessuno dei due, il grado d'intesa quasi esclusiva che pareva legarli così indissolubilmente.

***

Il conte Friedrich von Peilstein fu accolto come nuovo campione dopo aver sconfitto, in un lungo e combattuto duello, il conte del Nordgau Rapoto von Ortenburg. Nelle sue orecchie rimbombavano ancora il boato della folla, i gridolini delle fanciulle, le acclamazioni dei cavalieri. Quelle attenzioni lo lusingavano, ma le cose che egli desiderava maggiormente dopo una battaglia, erano gli istanti di meritata pace da godersi in compagnia del suo Ludwig. Combattere lo faceva sentire vivo, e la vittoria lo inebriava come un calice di buon vino o come le gioie dell'amore passionale; era qualcosa che non faceva per gloria o per fama, ma solo e unicamente per se stesso, come fin dalla più remota fanciullezza gli era stato insegnato da suo padre: la loro famiglia, un'antica dinastia guerriera originaria del Norico romano [8], andava fiera dei valorosi guerrieri che si erano avvicendati nel corso delle generazioni.
Vis, Honor, Fides - Forza, Onore, Fedeltà - era il loro motto, e il loro simbolo, un drago rosso dalle ali spiegate su scudo argento, emblema di vigilanza, protezione, purezza spirituale e valore militare, ricordava loro ogni giorno il motivo per cui, all'età di dieci anni, avevano ricevuto la prima spada.

Friedrich e Ludwig tiravano di scherma nello spazio antistante la tenda del conte. Accaldati, ansanti e sudati per il lungo duello, nessuno dei due accennava a voler demordere; il cozzare delle spade vibrava nell'aria fredda. Ludwig superava il suo giovane compagno di un paio di palmi, ed era di gran lunga più robusto e massiccio, ma il conte, per naturale inclinazione affinata con l'esercizio, riusciva a tenergli testa con la sua destrezza.
A un certo punto, Friedrich riuscì a immobilizzare il braccio dell'altro, gli strappò la spada di mano e gli passò un braccio intorno al torace possente. "Sei mio, adesso", sussurrò, attirandolo a sé.
Ludwig rise. Si liberò dalla presa del conte e andò a buttarsi a sedere stancamente sullo scanno posto all'entrata del padiglione. Si slacciò l'elmo e lasciò ricadere all'indietro il camaglio e la cuffia imbottita, rivelando una matassa sudaticcia di capelli biondo cenere. "Solo adesso?"
"Effettivamente, no", ammise il giovane, con un sorriso. Gettò la spada e andò a sedersi cavalcioni su di lui, con la cotta di maglia e tutta la panoplia, avvicinando il suo volto a quello del compagno. "Tu sei sempre mio."
"Adesso ti riconosco."
Friedrich scostò una ciocca di capelli dalla fronte dell'amante e gli posò un bacio lieve sulla bocca. "Andiamo dentro."
L'altro non si fece pregare: lo sollevò da terra, lo spinse all'interno del padiglione e gli sfilò la cotta di maglia dalla testa. Friedrich si ritrovò in pochi istanti disteso sul giaciglio, senza nulla indosso, con Ludwig che lo sovrastava, apparentemente assorto nella contemplazione del suo corpo solido e muscoloso.
Si morse le labbra, fremendo impaziente. "Spogliati."
L'altro, fingendo di non ascoltarlo, lo immobilizzò e si piegò su di lui coprendo il suo volto di baci ardenti. Col respiro ormai ansante per l'eccitazione, smaniando per un contatto più intimo, Friedrich si svincolò dalla presa dell'amante e lo spinse all'indietro, strappandogli letteralmente le vesti di dosso. Rotolarono tra le coperte avvinti dalla passione, poi Ludwig riuscì di nuovo ad avere la meglio sul giovane amante e lo inchiodò al duro materasso della branda, sussurrando: "Tu avrai vinto il torneo e il duello, Langschwert [9], ma stavolta ho vinto io."
Qualunque cosa Friedrich avesse voluto dire, si infranse con un gemito roco contro le labbra dell'altro.

Quando Friedrich si risvegliò, Ludwig era ancora addormentato al suo fianco, e il suo russare familiare era l'unico rumore che turbava la quiete della placida notte invernale. Gli sistemò la coperta, si rivestì e uscì dalla tenda in punta di piedi, stringendosi nel mantello. Il cielo era un'immensa coltre scura tempestata di diamanti e polvere d'argento; la luna piena, da distanze siderali, vegliava su di loro col suo sguardo imperturbabile. Rabbrividendo di freddo, il giovane smosse leggermente i resti del focolare, cercando di attizzare le braci morenti, e si sdraiò sul prato lasciando vagare lo sguardo attraverso il cielo sconfinato. Non c'era niente di più bello di quella vita: la sete d'avventura, il brivido del combattimento, il corpo caldo di un amante a cui appoggiarsi dopo la battaglia e nell'intimità della notte. Amava Ludwig e la sua energia irruenta, unita alla sua capacità di diventare un tenero amante senza inutili smancerie. Benché fossero costretti a nascondersi al mondo e a lasciar passare anche mesi interi insieme senza potersi sfiorare come avrebbero desiderato, Friedrich non riusciva a immaginare per sé una sorte differente da quella, e cercava di assaporare fino in fondo tutti i segreti attimi di passione che poteva condividere con lui. Non aveva mai avuto una donna, né mai ne aveva desiderata una: era Ludwig il suo primo e unico amante, colui che, appena diciottenne, l'aveva iniziato a quelle gioie proibite insegnandogli a non vergognarsi mai dei propri sentimenti [10], e questo rapporto di esclusività provocava in lui un tremito di gelosia ogni volta che pensava ai passati trascorsi del suo compagno.
La risata di Ludwig lo distolse dalle sue meditazioni. "Che cosa ci fai fuori con questo freddo, Langschwert?"
"Stavo riflettendo", rispose il giovane.
L'altro si mise a sedere accanto a lui, a gambe incrociate, e gli passò un braccio intorno alle spalle. "Ti va di dirmi quali pensieri hanno turbato il tuo sonno?"
Friedrich sospirò, rannicchiandosi contro il suo petto. "Mi stavo chiedendo una cosa…"
"Dimmi."
"Mio padre mi rimprovera di perdere troppo tempo a rincorrere i miei sogni giovanili. Mio fratello Konrad si è sposato a ventun anni e alla mia età aveva già un figlio, e Siegfried, che adesso ne ha ventisei, ha appena piantato le sue radici…" Improvvisamente, Friedrich aveva perso tutta la sua usuale, baldanzosa sicurezza, e si sentiva quasi smarrito e indifeso tra le braccia del suo amante. "Come fai, tu, col peso di trentaquattro inverni sulle tue spalle, a non temere la vecchiaia?"
L'altro sorrise, stringendolo più forte. "Io non avrò timore della vecchiaia, finché tu sarai con me. Ne sono convinto da quel giorno in cui mi dicesti che mi amavi."

***

Fine prima parte.

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[1] Da chi dunque il principe tiene l'impero? Da chi, se non dal papa?
Questa frase, realmente pronunciata dal cardinale in questione, è passata alla storia.

[2] corrisponde a circa 193 cm

[3] Il Papa e l'Imperatore, nella cultura medievale. La storia ha luogo ai tempi della cosiddetta "lotta alle investiture".

[4] scudiero. Da ragazzino, Siegfried era scudiero di Richard.

[5] dieta territoriale, assemblea tra nobili di una data circoscrizione territoriale. Si contrappone all'Hoftag (la dieta imperiale, come quella di Besançon), che coinvolge la corte imperiale e i principi dell'impero.

[6] gli imperatori bizantini

[7] nome latino di Bologna

[*] nome medievale dell'Austria (da cui Österreich). All'epoca con "Austria" si intendeva soltanto l'odierna regione della Bassa Austria con annessa Vienna, che ne era la capitale e sede del castello dei duchi (adesso scomparso).

[8] nome con cui i Romani chiamavano l'Austria, regione celtica in seguito romanizzata e poi germanizzata dai Bavari. La dinastia di Friedrich è realmente esistita ed era una delle più importanti d'Austria all'epoca di questo racconto, ma le informazioni a riguardo sono fortemente romanzate.

[9] Lungaspada, soprannome di Friedrich. Deriva dal fatto che, mentre la maggior parte dei cavalieri all'epoca usava una spada a una mano (detta anche spada da cavaliere), Friedrich usava una spada volgarmente definita, nelle classificazioni moderne, "a una mano e mezza".

[10] Ai tempi di questa storia il trattamento della "sodomia" era piuttosto blando rispetto a quello che poi le sarà riservato nei secoli successivi. Chiarisco meglio questa cosa nella storia principale. Per comprendere meglio la "leggerezza" dei due protagonisti basti precisare questo: nel dodicesimo secolo i rapporti omosessuali non erano condannati come "peccati mortali", bensì come vizi equiparabili all'adulterio, alla lussuria o alla fornicazione eterosessuale. In genere, le conseguenze per chi veniva colto in flagrante erano la penitenza, il digiuno o in generale il disonore.

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Capitolo 2
*** Regnum Italiae, A.D. MCLVIII ***


Regnum Italiae, A.D. MCLVIII

A novembre dell'anno del Signore 1158, i cavalieri germanici si lasciarono alle spalle una lunga e penosa avventura che li aveva tenuti impegnati nelle terre italiche dalla Pentecoste di quello stesso anno. Dopo una serie di scaramucce che andavano avanti da un lustro, e sollecitato da altri comuni e alleati lombardi stanchi delle angherie dei milanesi, l'imperatore Federico aveva deciso finalmente di marciare contro la più potente città del Regno d'Italia [11], alla testa di un esercito di cinquantamila soldati.
Erano stati mesi duri per entrambi gli schieramenti: gli italiani, vessati dai saccheggi sistematici operati dall'esercito imperiale e dal peso della spada che si sarebbe abbattuta su di loro in caso di sconfitta, i tedeschi costretti a guardarsi le spalle a ogni passo, lontani dalle mogli, dai figli, dalle loro terre.
Alle porte di Brescia, l'imperatore aveva tuonato la sua sentenza: "Non la brama di potere ci muove alla guerra, ma l'ostinazione dei ribelli. Milano vi ha tolto alle case paterne, vi ha strappato alle mogli e ai figli e ha attirato su di voi questo flagello. Che la città nemica non creda che noi siamo passivi, né ci consideri degeneri perché vogliamo conservare quello che i nostri antenati, Carlo Magno e Ottone, aggiunsero ai diritti dell'impero."
Avevano raso al suolo Brescia e ricostruito Lodi; subito imboscate dai milanesi e saccheggiato per rappresaglia le campagne padane; catturato ostaggi, perso dei valorosi guerrieri, messo i consoli milanesi al bando, dichiarando guerra alla città, per essersi rifiutati di presentarsi al processo presieduto dall'imperatore.
L'urbe mediolanense era stata accusata, oltre che di aver fomentato i dissidi tra le città della pianura lombarda e istigato la ribellione contro l'imperatore, anche di aver usurpato le regalie [12], da tempo lasciate decadere per consuetudine contraria e concentrate nelle mani dei consoli.
Ma gli orgogliosi lombardi non si erano lasciati intimidire dalle minacce, e quando l'imperatore aveva cinto d'assedio la città, forte del sostegno di oltre un centinaio di migliaia di uomini giunti in suo sostegno dalla Germania e dalla penisola italica, essi, poco più che cinquantamila sbandati raccolti dalle campagne e dalle borgate limitrofe, avevano affilato le armi e si erano preparati a resistere.
Così, si erano trovati assediati dalle città italiche, mosse dall'astio verso i loro fratelli di stirpe, dalla Lombardia, dalla Tuscia, dalla Romagna, dalla Marca Veronese… e mentre Barbarossa prometteva che li avrebbe puniti, costoro gridavano a gran voce invocandone il totale annichilimento.

Più e più scontri violenti si erano susseguiti durante i mesi dell'assedio.
Una notte, il campo di Konrad von Hohenstaufen, conte palatino del Reno, fu assaltato col favore dell'oscurità e molti soldati furono sgozzati nel sonno, e il sangue sarebbe scorso a fiumi se il re Vladislav di Boemia, destato dal trambusto, non avesse immediatamente dato l'allarme e ordinato un contrattacco, mettendo in fuga i nemici. Subito scoppiò un immane tumulto, e Otto von Wittelsbach conte palatino di Baviera incalzò i milanesi fino a un ponte di legno, ordinando ai suoi uomini di dargli fuoco per attirarli fuori e vendicarsi dell'affronto subito.
Dopo quella notte, nessuno era più riuscito a chiudere occhio, e per giorni i superstiti erano rimasti in attesa del sorgere del sole con le armi in pugno e gli occhi spalancati.
Giorni dopo la stessa sorte era toccata all'accampamento austriaco, ma la sortita fu sventata, sfociando immediatamente in uno scontro armato. Per molti mesi, a Friedrich era rimasto impressa l'espressione sconvolta sul volto di Ludwig mentre lo scuoteva brutalmente per esortarlo a svegliarsi, mentre Siegfried, già armato e fuori dalla tenda, schioccava ordini ai suoi armigeri con la spada sguainata e la voce impastata dal sonno. Allora, Friedrich aveva indossato l'armatura, aveva imbracciato le armi e insieme a Ludwig si era gettato nella mischia, ruggendo di rabbia al passaggio degli assalitori.
A ventisette anni, Siegfried von Peilstein era già uno dei più valenti comandanti di tutta l'Austria, uno di quegli uomini che non si davano un contegno da condottieri, né desideravano esserlo, ma la cui sola presenza bastava a infondere fiducia ai soldati esortandoli a seguirli. Anche Friedrich si fidava del fratello, fulgido esempio di valore militare e virtù cavalleresca, ed era ben lieto di affidargli le azioni di comando mentre egli e il suo inseparabile compagno si occupavano delle missioni più pericolose, dando prova di coraggio e ardimento.

Tra fatti d'arme, sortite, azioni di disturbo, assalti alle mura e saccheggi, l'assedio continuava, né vi era cenno di resa da parte degli ostinati difensori.
I bavaresi, al comando del conte palatino, si erano trovati ad assaltare, tentando di distruggerla, un'antica torre posta vicino all'Arco Romano e presidiata da una quarantina di uomini. Tra di loro vi erano anche il conte Eberhard von Thann, i suoi fratelli e la donna di cui egli era innamorato, Kunigunde von Abenberg. Era costei una donna d'arme, indomita e coraggiosa, che proprio durante i giorni dell'assedio alla torretta aveva rischiato di rimanere uccisa da un dardo che le si era conficcato tra gli anelli dell'usbergo.
Durante un altro fatto d'arme, anche il fratello del conte, Adalbero, era stato gravemente ferito, e per mesi aveva temuto di rimanere menomato o storpio.
Infine, grazie alla forza persuasiva di un tale Guido da Biandrate, scaltro militare e nobiluomo lombardo, i milanesi giunsero a proporre agli assedianti una tregua, ché gli stenti e le malattie falcidiavano la popolazione dell'urbe più che le lame delle spade. Si giunse dunque a un accordo, mediato dal duca d'Austria e dal re di Boemia, e la città giurò sottomissione.

Ma i cavalieri tedeschi sapevano bene che quella non sarebbe stata altro che una breve tregua, che avrebbe permesso ai milanesi di ricomporsi e fortificarsi.
Tuttavia, i patti erano patti, e non potevano essere infranti; dunque si decise di congedare la gran parte degli alleati tedeschi e italici, e il vessillo imperiale fu innalzato sulle mura della riottosa Milano.

L'atto conclusivo di quell'avventura oltralpe fu suggellato con la dieta di Roncaglia, dove l'imperatore, con l'aiuto di quattro eminenti glossatori e giuristi bolognesi, ribadì la supremazia del potere imperiale su ogni altro potete secolare, proibì le guerre private tra città e rivendicò tutte le regalie che i comuni lombardi avevano lasciato decadere per forza o consuetudine, assumendosene il diretto controllo.
Mentre Siegfried era partito insieme ai primi di loro che varcarono le Alpi, smanioso di rivedere la moglie e il figlio di pochi mesi, Friedrich von Peilstein e Ludwig von Schaunberg si erano trattenuti col seguito imperiale, e ne avevano approfittato per gironzolare di corte in corte, ammirando al contempo le meraviglie naturali che l'Italia aveva da offrire.
"Se questa terra non fosse vessata da così tanto astio e conflitti tra fratelli di stirpe... ez waere ein vil schoeniu lant [13]", disse Friedrich, mentre ammirava la campagna lombarda dalla sommità di una torre.
Si trovano su un castello edificato sull'orlo di uno spuntone roccioso, ai piedi del quale scorreva un fiumiciattolo costeggiato da fitti boschi, spogli e tinti di giallo dall'autunno inoltrato, e al di là di esso campi sconfinati che si perdevano nella caligine così tipica di quelle terre.
Ludwig lasciò che una folata di vento gli scompigliasse i capelli, e Friedrich non poté fare a meno di perdersi a guardarlo: i capelli arruffati e il naso arrossato dal freddo, uniti all'espressione beata che addolciva i suoi lineamenti, gli conferivano un'aria da ragazzo, e il grigiore del cielo si rifletteva nei suoi occhi rendendoli brillanti come argento.
"È così, mîn friunt [14]", osservò l'altro, appoggiando i gomiti sul parapetto. "E quest'aria, frizzante ma non gelida, è molto piacevole…"
Friedrich scivolò accanto a lui, così vicino che le loro spalle si toccavano. "Non senti nostalgia di casa?"
"Sai, ad essere sincero non credo di averla mai sentita tanto da soffrirne. L'Austria è la mia terra e come tale mi sarà sempre più cara di ogni altro luogo al mondo, tuttavia… quando sono insieme a te, il magone svanisce."
Il giovane gli strinse il braccio: era il massimo del contatto che potevano permettersi in un luogo aperto dove c'era il rischio che qualcuno potesse arrivare all'improvviso e vederli. "È la stessa cosa che provo io", disse. "Quando ci sei tu, io mi sento a casa, ovunque io sia."

***

Quando l'esercito imperiale smontò le tende per accingersi a tornare in patria, la loro usuale tendenza ad attardarsi trattenne Friedrich e Ludwig un giorno di troppo a Pavia, città alleata dell'Impero che ospitava un'ottima osteria frequentata abitualmente dai cavalieri tedeschi. Perse ormai di vista le schiere imperiali, provarono a chiedere informazioni in latino al volgo, ricevendo in cambio incomprensibili risposte nel volgare delle loro terre, e si trovarono a vagare per giorni approfittando di qualsiasi occasione, anche la più futile, per ritardare ancora di un giorno la loro partenza: visitavano castelli, chiese e monasteri, che erano anche gli unici luoghi dove qualcuno potesse comprendere il latino; mangiavano e dormivano nelle osterie più rinomate; si godevano quel poco di paesaggio non ancora invaso dalla bruma e dalla neve. Confidando nel fatto che i valichi alpini restavano aperti fino al tardo inverno, quando i due compagni d'avventura si decisero a tornare in Germania era già novembre inoltrato.
Decisero di varcare le Alpi da Mittenwald [15], che era attraversato da un'antichissima strada romana, la Via Claudia Augusta, ancora saltuariamente usata dagli eserciti in transito.
Pareva andare tutto per il verso giusto, quando un'improvvisa tormenta di neve e una valanga li bloccarono completamente in un punto sperduto del pendio montano. Di fronte all'immane sciagura, sferzato dal vento e dalle raffiche di neve, Ludwig von Schaunberg imprecò. La sua voce produsse un'eco distorta, simile all'ululato di una di quelle bestie mitologiche che i bavaresi dicevano si nascondessero tra le montagne.
Friedrich, agghiacciato, strattonò il braccio del suo compagno. "Non urlare!", sibilò. "Rischi di provocare un'altra valanga."
L'uomo inarcò un sopracciglio. "E tu che ne sai?"
"Hai presente l'amico di mio fratello, quello che lo chiama sempre knappe? Nonché marito di mia sorella e padre delle mie graziose nipotine."
"Dici il Richard von Thann?"
Il conte annuì. "Sì, proprio lui. Lui e i suoi fratelli vivono sulle Alpi bavaresi, e una cosa che il volgo ripete sovente, dalle loro parti, è che le valanghe sono provocate dalle grida degli spiriti maligni che infestano gli anfratti più oscuri."
"Non ci crederai mica anche tu?" Ludwig storse il naso. "È tipico della plebaglia ignorante spiegare con la superstizione i fenomeni che non comprende."
Friedrich gli tirò un buffetto sulla guancia. "Magari sono le urla di quelli come te a spaventare il volgo, amico mio", soggiunse, sarcastico.
Il cavaliere non replicò. Si trovavano da soli sul fianco di un pendio scosceso, i piedi affondati nella neve ancora fresca e i fiocchi che danzavano fittamente nell'aria, sballottati qua e là da potenti aliti di vento. Ovunque essi si voltassero, un'immensa parete bianca, punteggiata da abetelli sparuti e rinsecchiti, ostruiva loro la visuale. Friedrich von Peilstein rabbrividì ulteriormente, stringendosi il mantello contro il petto e cercando ancora una volta il contatto col suo compagno.
"Che cosa diavolo facciamo adesso, Langschwert?", borbottò Ludwig.
Il giovane si guardò intorno in cerca di una via d'uscita, ma non ne vide. Passò in rassegna un paio di volte l'ambiente circostante, poi gli parve di intravedere una macchia scura sul fianco della montagna, forse l'entrata di una spelonca. La indicò.
L'altro rise sommessamente. "Una caverna... e magari dentro ci sono quelle strane bestie tanto temute dal volgo!"
"Ludwig, siamo armati", tagliò corto il conte, senza partecipare alla sua ilarità. "E in ogni caso è sempre meglio morire combattendo contro un lindwurm [16] che sepolti vivi sotto una coltre di neve, no?"

Dopo una felice ispezione, si accamparono all'interno della piccola cavità naturale. Doveva essere una specie di rifugio di fortuna per i pastori di montagna, visto che al suo interno vi erano una greppia e una specie di palo a cui legarono le loro cavalcature. Il terreno roccioso al suo interno impedì loro di montare la tenda, ma accesero comunque un fuoco con rami e sterpi secchi, dove misero a bollire una misera fetta di carne salata dentro un pentolino colmo di neve, e accatastarono le coperte e i sacchi a pelo nell'angolo più buio e appartato del loro improvvisato riparo.
Ludwig finì di allestire il giaciglio e si mise a sedere sospirando sull'involto di coperte e guanciali. "Prevedo che quando mi alzerò da qui, la mia schiena sarà a pezzi. Quasi rimpiango le comodità dell'accampamento militare e la tenda che condividevamo col Siegfried."
"Adesso mio fratello ha la Hildegard che gli scalda il cuore e suo figlio che gli rischiara le giornate. Si chiama Friedrich, come me, e i suoi occhi sembrano quasi dorati, come quelli di sua madre..."
"Hai mai... rimpianto... il fatto di non poter avere figli?", gli chiese cautamente Ludwig, dopo una breve pausa.
Friedrich ebbe l'impressione che qualcuno gli avesse conficcato uno stiletto ghiacciato nello stomaco, e si irrigidì. Sapeva che in passato il suo compagno aveva avuto anche amanti donne, e il timore che egli potesse abbandonarlo allettato dalle promesse di una vita normale lo paralizzava ogni volta: a trentacinque anni, un uomo era ancora in tempo per sposarsi e costruire una famiglia. "Mi piace giocare coi figli dei miei fratelli, ma no, non rimpiango nulla. Io voglio soltanto te."
Konrad aveva tre figli, di cui il maggiore, Siegfried, aveva già sette anni e stava imparando a cavalcare, a leggere e scrivere e a maneggiare le spade di legno. I tre nipoti lo adoravano, e Friedrich era a sua volta felice di trascorrere il suo tempo con loro, più per una sua atavica nostalgia della fanciullezza che per istinto paterno.
Ludwig parve impressionato dal tono tagliente del suo giovane amante, e Friedrich ebbe cura di cambiare rapidamente discorso. "Pensare che a quest'ora dovevamo essere alla stazione di posta, dove avremmo potuto rifornirci delle vettovaglie necessarie ad affrontare il viaggio..."
"Non sarebbe stato comunque un viaggio semplice", ammise l'altro. "Ci siamo comportati come due sprovveduti: non dovevamo ritardare così tanto la nostra partenza, e soprattutto dovevamo imboccare il valico più diretto per l'Austria..."
Il conte sospirò. "Quante fette di carne salata ti rimangono nella bisaccia?"
"Altre due. E a te?"
"Due. Più un tozzo di pane raffermo."
"Dovremo razionare il cibo, ché temo che qui non ci sia alcuna possibilità di procurarcene altro."
Mangiarono in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Sembravano trovarsi in una situazione senza via d'uscita, dove nessuna soluzione dignitosa era possibile. Friedrich si ritrovò a pensare che probabilmente, per sopravvivere, avrebbero dovuto uccidere e macellare almeno uno dei loro due cavalli, e il solo pensiero gli provocò un moto d'orrore.
Fissava il fuoco con aria assorta, e quando Ludwig gli poggiò una mano sul braccio, trasalì involontariamente. "A cosa pensi, Friedrich?"
Il giovane scosse la testa, ma non rispose.
L'uomo emise un sospiro, poi gli circondò la vita con entrambe le braccia, gli scostò i capelli dal collo e li sostituì con le proprie labbra, strappandogli il primo brivido che non fosse di freddo. "Che ne dici se andiamo a scaldarci... in un altro modo?"

***

Nei due giorni successivi, la bufera non concesse un attimo di tregua. Friedrich e Ludwig andarono avanti a razionare il cibo - una fetta di carne e un pezzo di pane a testa come unico pasto del giorno - e a bere neve sciolta al fuoco.
Il freddo pareva farsi sempre più intenso, penetrante, dando l'impressione di insinuarsi fin nelle ossa e nel cuore e cristallizzando lo scorrere del tempo in forma di attimi infiniti. Anche la voglia di parlare, ridere, scherzare, cercare di trarre conforto dalle reciproche attenzioni, andava sempre più scemando, e lo sconforto diveniva padrone assoluto di tutte le altre emozioni.
Dormivano completamente vestiti, avvolti tra le coperte pesanti. Pallidi, tremanti, svuotati di ogni speranza e afflato vitale, si sostenevano l'uno all'altro in silenzio, aggrappandosi con le unghie e coi denti alle ultime forze che restavano loro, determinati a resistere a ogni costo.

"Friedrich." Ludwig era sdraiato accanto a lui, gli dava le spalle, lasciando che il giovane si rannicchiasse tra lui e la parete della grotta. "Se io dovessi morire, tu…"
"Tu non morirai", sbottò il conte, stritolandolo così forte da mozzargli il respiro. "Sei più grosso di me e più abituato a patire il freddo. È più probabile che muoia io… questo freddo mi fa gelare le ossa e il sangue."
Ludwig gli prese le mani piagate e intirizzite dai geloni e le strinse tra le sue. "Provo la stessa sensazione. Friedrich, ascoltami: se io dovessi morire, tu ti ricorderesti di me?"
Il giovane si stupì della gravità di quelle parole.
"Owê, Ludwig", sospirò, la voce distorta da un tremito impercettibile. "Io non riesco neanche a immaginare come sarebbe la mia vita senza di te."
Stranamente, l'uomo si limitò a sospirare a sua volta. Di solito, quando si lasciava prendere troppo dal sentimentalismo, Ludwig lo zittiva con un buffetto e un semplice "non dire idiozie, Langschwert". Già il fatto che egli non avesse alcuna voglia di scherzare la diceva lunga su quanto il suo timore di morire assiderato fosse reale. Gli aggiustò la coperta sulle spalle e si strinse più saldamente a lui per trasmettergli un po' del suo calore. "Te lo prometto, Ludwig, farò di tutto per uscire indenne da questo inferno gelato.Insieme a te."
Ludwig non rispose, sembrava essersi assopito. Friedrich non chiuse occhio per tutta la notte.

Come se avesse udito le preghiere di Friedrich, il giorno seguente la tormenta si diradò, e a un'ora imprecisata del pomeriggio un pallido raggio di sole squarciò la coltre di nubi, diffondendo una vaga luminescenza lattiginosa per tutto l'angusto passo.
Ludwig ne approfittò per andare a raccogliere altri sterpi secchi e ravvivare il fuoco, mentre Friedrich si sedette sul sasso all'entrata della spelonca, ispezionando con attenzione l'ambiente circostante. Improvvisamente, gli parve di intravedere qualcosa muoversi rapidamente tra le macchie di abeti scheletriti. Strinse gli occhi, per non rimanere abbagliato da tutto quel candore, ed ebbe la conferma che ciò che aveva visto non era semplicemente un'allucinazione provocata dalla fame. "Un capriolo!", esclamò, balzando in piedi.
Il giovane conte non riuscì a trattenere il suo entusiasmo, e propose subito al suo compagno di approfittare della clemenza del cielo per avventurarsi fuori alla ricerca dell'incauto visitatore.
Ludwig puntò le mani sui fianchi, scettico. "La neve è troppo alta là fuori, e nasconde i veri connotati del paesaggio. È troppo rischioso, Friedrich."
"Avanzeremo cautamente. Se il mio avviso non m'inganna, non abbiamo molta altra scelta."
"E come pensi di ammazzarlo? Abbiamo solo le spade e i pugnali... sono disposto a sacrificare il mio cavallo pur di..."
"Non se ne parla neanche!", ribatté caparbiamente il giovane. "Andremo a inseguire quel capriolo… e se non vorrai seguirmi, andrò da solo."

Alla fine, Friedrich riuscì a convincere il suo compagno, e pochi istanti dopo erano già usciti allo scoperto muniti di bastoni per saggiare la consistenza del terreno, i piedi affondati nella neve fino a metà polpaccio.
Era una missione avventata, il giovane lo sapeva bene, ma era disposto a tentare il tutto per tutto per sopravvivere a quel terribile flagello, consapevole che se fossero rimasti ancora lì, senza cibo da mettere sotto i denti, si sarebbero presto ammalati.
Avanzavano lentamente, tastando il manto innevato a ogni passo, fianco a fianco per non perdere le tracce della preda. E infine, quando giunti alla macchia di abeti dove Friedrich lo aveva intravisto per la prima volta, scorsero le impronte ancora fresche lasciate dalle sue agili zampe, perfino Ludwig parve rasserenarsi, come se la vista potesse infondergli maggior vigore.
"Tuttavia, Langschwert, ammesso che riusciamo ad avvistarlo… desidererei sapere come hai intenzione di fare per catturarlo…"
Friedrich avanzò di qualche passo, aguzzando la vista nel tentativo di avvistare qualche movimento. "Improvviseremo, amico mio. Non possiamo usare le finezze che useremmo durante una battuta di caccia nel bosco. Dovremo usare l'istinto del predatore: agili come la lonza, bramosi come la lupa, feroci come il leone…" Si arrestò in tronco, indicando un punto tra le rocce e i cespugli. "Eccolo laggiù!"
Ludwig fece una smorfia sarcastica. "Non urlare, Langschwert: rischi di provocare una valanga."
Il conte lo liquidò con una risatina nervosa e avanzò con rinnovata baldanza, tenendo la daga nella destra e il bastone nella sinistra. L'animale sembrava essersi fermato, ignaro della loro presenza, e Friedrich diede al suo compagno l'ordine di dividersi e di avvicinarlo rimpiattandosi dietro le rocce e i cespugli bruciati dal freddo che emergevano come isole desolate in quella landa dimenticata da Dio.
Lo seguirono ancora per qualche passo, poi il capriolo, forse fiutando l'imminente pericolo, si allontanò e si mise guardingo, appollaiato sulla sommità di un basso crinale.
"Maledetto, non possiamo farcelo scappare", ringhiò Friedrich, la mano piagata stretta intorno all'elsa del pugnale.
"Non abbiamo un'esca per attirarlo", osservò l'altro, scoraggiato.
"Ce ne saranno altri in giro! Di solito questi animali stanno in branco. Ci basterà seguirlo per vedere dove si nascondono."
"Friedrich, ti ricordo che non è molto conveniente avventurarci troppo lontano dal nostro rifugio… se dovessimo smarrire la strada, o ancor peggio rimanere bloccati fuori…"
Il giovane abbassò la voce e si voltò verso l'amante, guardandolo dritto in faccia. "Ludwig, tu ti fidi di me?"
L'uomo non fece in tempo a rispondere. Il capriolo, probabilmente senza vederli, fece un rapido giro d'ispezione della conca e si fermò poi a pochi passi dal punto in cui i due erano appostati, annusando un cespuglio.
Friedrich scattò come un veltro. "Langschwert, che cosa diavolo…?" Ignorandolo, il giovane lasciò cadere il pugnale, si slanciò fuori dal cespuglio, afferrò la bestia per le corna e le saltò in groppa con tutto il suo peso, tramortendola con un colpo di bastone.
Ancora frastornato, Ludwig uscì allo scoperto e le tagliò la gola con un tondo di spada, macchiando la neve di sangue scarlatto.
Friedrich si alzò, scrollandosi la neve di dosso, un sorrisetto spavaldo dipinto sul viso. "Adesso ti fidi di me, hêr Ludwig?"
"Non è di te che non mi fidavo", lo rassicurò l'altro, "ma di questa landa infida."

Era un bottino piuttosto parco, ma sarebbe stato sufficiente per sopravvivere, almeno per qualche giorno.
Felici come dopo una battuta di caccia a corte, banchettarono con le carni della magra preda e congelarono il resto sotto un cumulo di neve.

Fine seconda parte.

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[11] Nel XII secolo per "Regno d'Italia" s'intendeva il centro-nord fino alla Toscana, escluse Venezia e la Romagna. Il toponimo "Italia", però, designava l'intera penisola.

[12] diritti di appannaggio esclusivo dell'imperatore, come battere moneta, eleggere consoli, assegnare feudi, riscuotere dazi e pedaggi, amministrare l'alta giustizia ecc. Potevano essere offerti, per concessione, ai vassalli dell'imperatore o alle città libere.

[13] sarebbe una bellissima terra

[14] amico mio

[15] nome medievale del Brennero; da non confondersi con l'omonimo comune bavarese

[16] Drago senz'ali, tipico della mitologia germanica. Un esempio famoso è Fafnir, ucciso dall'eroe Sigfrido (Siegfried).

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Capitolo 3
*** Mediolanum, A.D. MCLXII ***


Mediolanum, A.D. MCLXII

Dopo l'esperienza milanese di quattro anni prima, le truppe del Barbarossa erano scese in Italia altre volte, già a partire dall'anno immediatamente successivo, cingendo la città di Crema di un cruento assedio che durò nove mesi. Nel frattempo, papa Adriano IV era morto, e al suo posto era subentrato Rolando Bandinelli sotto il nome di Alessandro III. Fin da subito egli ingaggiò una lotta serrata a suon di investiture e scomuniche con l'imperatore, già impegnato contro l'inarrestabile ribellione delle città italiane, che nonostante i divieti di Roncaglia s'erano unite in una lega benedetta dal papa [17].
Friedrich e Siegfried von Peilstein parteciparono a ogni spedizione, mentre il fratello maggiore Konrad restava in Austria insieme all'ormai anziano padre: si poteva dire che trascorressero più tempo in Italia che in madrepatria, e che conoscessero le terre lombarde molto meglio di certi abitanti del luogo poco avvezzi a muoversi sulle lunghe distanze. Il ministeriale Ludwig von Schaunberg, neanche a dirlo, aveva ormai conquistato del tutto il favore e la fiducia del conte Siegfried, un uomo affabile e generoso per natura, che lo considerava senza riserve uno dei suoi più fedeli uomini.

Correva l'anno del Signore 1160, e come già previsto prima della dieta di Roncaglia, i milanesi vennero nuovamente alle armi coi tedeschi. Attaccarono prima diversi castelli della Lombardia, espugnandoli e riducendoli all'obbedienza, e infine furono sconfitti sul campo dalle truppe imperiali, che catturarono e oltraggiarono il Carroccio. Tuttavia, la sorte ebbe un rapido rivolgimento, perché i milanesi attaccarono l'accampamento dove il Barbarossa e i suoi uomini erano riuniti a festeggiare la vittoria, e cogliendoli di sorpresa li misero in fuga. Trionfanti, inebriati dal successo della loro sortita, rivolsero poi le armi contro i cremonesi e i lodigiani, sconfiggendo anch'essi, e si diedero da fare per ricostruire la città.
Nove mesi dopo, nel maggio dell'anno 1161, Federico Barbarossa marciò contro Milano dando il via a una violenta controffensiva, accompagnato da un numero ragguardevole di uomini giunti da ogni contrada dell'impero. L'intera regione fu messa a ferro e fuoco e tutte le vie commerciali furono bloccate nella speranza che la città, isolata su tutti i fronti, proclamasse la resa senza ulteriore spargimento di sangue.
Ma dovettero passare ancora molti mesi prima che i milanesi, stretti in una morsa di ferro, decidessero di inviare i loro consoli a negoziare la resa. Era il mese di febbraio dell'anno 1162.
L'imperatore, che in quel lungo tempo aveva svernato a Lodi insieme alla moglie e ai suoi più autorevoli consiglieri, ricevette gli otto milanesi in presenza di più di cento tra nobili tedeschi e consoli delle città alleate. Costoro, accompagnati da venti soldati e dalle bandiere con la Croce di San Giorgio, si presentarono uno dopo l'altro: Ottone Visconti, Anselmo dall'Orto, Aliprando Giudice, Anderico Cassina, Amizone da Porta Romana, Anselmo da Mondello, Anderico da Bonate e Goffredo Mainerio. Alcuni di essi, dedusse Friedrich, dovevano essere nobili, perché oltre alle insegne della città recavano anche stemmi personali; su tutti spiccava il Visconti, sui cui bianchi vessilli campeggiava una specie di drago, o serpente [18] in azzurro, che teneva tra le fauci un saraceno.
"Vipereos mores non violabo", sillabò Ludwig, all'orecchio di Friedrich. "Non... violavo... le usanze dei serpenti?"
"Violerò."
"Questo sì che è un motto interessante."
"Preferisco i draghi ai serpenti, tu lo sai bene", disse Friedrich con un sorrisetto. "Il drago non è solo portatore di caos, ma anche garante di ordine e prosperità. Un dualismo indissolubile."
Quando il Visconti distaccò il gruppetto di qualche passo e pose un ginocchio a terra di fronte allo sguardo imperturbabile di Federico Barbarossa, tutti gli altri tacquero.
"Vossignoria", esordì. "La nostra città è allo stremo. Il popolo milanese, piagato dalle carestie e dal rigore dell'inverno, invoca la resa. La plebe è in tumulto, le milizie cittadine gettano le armi, e a nulla valgono i nostri sforzi di ridurle all'obbedienza..."
"Un terribile flagello!", rincarò Anderico Cassina, le mani tra i capelli.
Anselmo dall'Orto crollò in ginocchio, scuotendo la testa. "Ahimé! Come può una città resistere a lungo, se i suoi figli si rifiutano di difenderla? Ahi, Milano, mia dolente Milano... dov'è finita la tua gloria?"
"Basta così", intimò Federico Barbarossa, levando una mano. "Alzatevi, tutti quanti. Proclamate dunque la resa?"
Amizone da Porta Romana avanzò di un passo. "È così, vossignoria, non desideriamo altro che la pace."
"Ad alcune condizioni." Goffredo, che fino a quel momento era rimasto impettito e in silenzio, si pose ossequiosamente a fianco del concittadino e srotolò una pergamena. "Riempiremo i fossi che abbiamo scavato e apriremo le mura per permettere il passaggio delle milizie imperiali; promettiamo di costruire in città, a nostre spese, un palazzo per la gloria dell'imperatore; inoltre siamo disposti a rassegnare i nostri incarichi e accettare un podestà di nomina imperiale, sia pure di stirpe tedesca."
"Come garanzia per il rispetto dei patti, consegneremo per tre anni trecento ostaggi", concluse Aliprando Giudice.
"Come sarebbe?" L'imperatore sobbalzò sulla sedia. "Siete venuti per arrendervi o negoziare?"
"Ma, vossignoria, vi preghiamo di...", tentò di giustificarsi il Visconti.
"Signor console, non tentate di blandirmi con le vostre suppliche", lo redarguì il sovrano. "Se sperate di ottenere da me una qualche grazia, dovrete consegnarmi la città senza alcuna condizione. Altrimenti la mia ira e quella dei vostri fratelli si abbatteranno implacabili sulla vostra riottosa progenie."

Congedati gli otto consoli, si decise all'unanimità di assaltare la città, e due giorni dopo l'esercito imperiale stava montando le tende e dispiegando le macchine da guerra intorno alle sue possenti mura.

***

Milano era assediata da almeno due settimane. A ogni ora del giorno e della notte, il boato delle pietre scagliate contro le mura, la deflagrazione dei proiettili incendiari, i colpi secchi e decisi degli arieti e dei gatti che si abbattevano incessantemente contro le mura sovrastavano le urla e il cozzare delle armi.
Sembrava che l'assedio, nonostante le offerte di resa e i tumulti interni, fosse destinato a tirare avanti per le lunghe: le mura, ricostruite in appena otto mesi, erano più robuste delle precedenti, e i pochi difensori che ancora resistevano avevano giurato solennemente che, pur di non inginocchiarsi di fronte al sovrano che aveva così sdegnosamente rifiutato le loro offerte, sarebbero morti sotto le rovine della città.
"Maledetti!", ruggì Otto von Wittelsbach in risposta alle urla dei milanesi, agitando la spada. Era un uomo basso di statura, con le guance perennemente arrossate e folti riccioli neri, che aveva fama di essere cordiale con gli alleati e spietato coi nemici. "Desiderano la morte, quegli scellerati, e chi siamo noi per negargliela? Mi auguro che abbiano già ricevuto l'assoluzione per tutti i peccati che hanno commesso!"
Enrico d'Austria, invece, aveva lunghi capelli biondi che portava sciolti sulle spalle, e nonostante le sue doti di guerriero, aveva un fisico snello e le spalle strette. "Joch sam mir got helfe!" [19], esclamò, appoggiato al suo scudo.

In quei giorni, Siegfried von Peilstein aveva ricevuto un'inaspettata visita da parte di sua moglie Hildegard, e sfruttava ogni momento di riposo per stare insieme a lei. Il figlio di quattro anni era rimasto in Austria: il conte non lo vedeva dall'estate precedente, e se non fosse arrivata Hildegard ad allietarlo con la sua compagnia, Friedrich era sicuro che suo fratello, benché cercasse di non darlo a vedere, non avrebbe resistito ancora a lungo. La differenza più lampante tra loro due, o almeno così pareva a Friedrich, era che Siegfried ormai aveva piantato le proprie radici in Austria, mentre lui, abituato a una vita da cavaliere errante, come suo unico punto fisso aveva l'amato Ludwig.
Instancabilmente, terminato l'assalto Friedrich e Ludwig si rifocillavano e tornavano ad allenare gli scudieri e gli armigeri più giovani, distogliendo Siegfried da quel gravoso compito. Molti di quei ragazzi stravedevano per il Langschwert, di cui decantavano le mirabolanti prodezze e le numerose vittorie, ed erano onorati di tirare di scherma insieme a lui.
"E anche oggi abbiamo finito", disse Friedrich, rivolto al suo compagno.
Ludwig sorrise. "Pare di sì. Andiamo a riposarci e a bere un bicchiere di buon vino?"
Tornati al padiglione, Friedrich scostò cautamente il drappo posto all'entrata e si insinuò all'interno.
Siegfried gli dava le spalle, ed era curvo su una carta che teneva spiegata sul tavolo. Stava parlando ad alta voce, mentre Hildegard, seduta di fronte a lui, lo ascoltava in silenzio. Avevano entrambi i capelli scompigliati e le vesti stropicciate.
Friedrich, seguito da Ludwig, fece per recarsi nell'angolo opposto della tenda, dove tenevano i loro scanni e la scacchiera, ma la donna fece cenno a entrambi di avvicinarsi. Siegfried alzò la testa e si rimise a sedere con un sospiro.
Sul tavolo c'era una mappa della città di Milano, tracciata a inchiostro nero, su cui qualcuno aveva scarabocchiato delle linee rosse e scritto alcune parole che da quella distanza Friedrich non riusciva a leggere. Dopo averla osservata per qualche istante, rivolse al fratello uno sguardo interrogativo.
"Sedetevi, perché sarà una spiegazione molto lunga", disse l'altro.
I due non tardarono a esaudire la sua richiesta.
"Allora..." Siegfried si alzò di nuovo, e indicò una torre intorno alla quale erano state tracciate linee rosse e appunti in tedesco. "Questa è la torre sotto la quale siamo appostati. Poco distante, come voi ben sapete, c'è Porta Romana, che è quella che gli arieti e i gatti martellano invano da due settimane..." Tacque per un istante, indicando la direzione da cui proveniva il rumore. "Se continuiamo così, e se davvero i milanesi sono determinati a perire insieme alla loro città pur di non consegnarsi nelle nostre mani, sa Dio quando, volenti o nolenti, finiranno per crollare..."
"In effetti, a Crema sono durati per nove mesi", commentò Friedrich.
"Tuttavia", continuò Siegfried, in tono allusivo, "se noi riuscissimo a entrare di nascosto in questa torre, avremmo accesso all'argano che regola l'apertura della porta..."
Ludwig si grattò la barba pensieroso. "Il dilemma è: come sperate di entrare in quella torre, herre? Se non sbaglio ci sono quaranta uomini a sorvegliarla giorno e notte, e tra il nostro accampamento e i suoi bastioni c'è un fossato profondo almeno dieci cubiti e largo il doppio."
Il conte trasse fuori un'altra mappa e gliela fece scivolare sotto il naso, sogghignando compiaciuto. "C'è un pertugio sotterraneo, da qualche parte, che conduce esattamente all'interno della torre."
"E come vi si accede?"
"Non lo so, ma è collegato con l'esterno: ci resta solo scoprire dove si trova l'entrata e ingegnarci per trovare un modo di forzarla. Il cunicolo è molto stretto, tanto da permettere a un solo uomo alla volta di avanzare carponi, ma conduce proprio al piano più basso della torre. Al primo piano c'è l'alloggio delle guardie - sarà quella la rogna peggiore - al secondo la sala dell'argano e all'ultimo il cammino di ronda, che come sempre è presidiato da quei venti uomini di ricambio."
Friedrich lo guardò dritto negli occhi. "Quindi, basterebbe che qualcuno si infiltrasse all'interno della torre e azionasse l'argano..."
"Non qualcuno. Lo farò io."
Hildegard sobbalzò e lo afferrò per un braccio, accigliata. "Tu da solo? Oh, Sigi, tu devi aver perso il senno!"
L'altro rise, attirandola a sé. "Stai tranquilla, Hilde, anche se volessi non potrei andare da solo. Ho necessariamente bisogno dell'aiuto di un paio di uomini robusti per aiutarmi ad azionare la leva, e di almeno una dozzina di armigeri per tenere a bada le guardie..."
"Verremo noi", concluse Friedrich risoluto, battendo una pacca sulla spalla di Ludwig.
"E sia", accordò Siegfried. "Domani notte andremo a cercare l'entrata. E quando l'avremo trovata, coordineremo le azioni: è necessario agire nottetempo."

***

Un gruppetto di venti uomini armati, guidati dai conti Siegfried e Friedrich von Peilstein, abbandonò di soppiatto l'accampamento degli austriaci, recando con sé lanterne e picconi.
La luna piena velava d'argento i contorni delle pietre dell'imponente fortificazione; i fuochi ardevano sugli spalti, e il tumulto delle macchine da guerra turbava la calma sussurrante dell'accampamento addormentato.
Furono necessari molti colpi di piccone per scardinare la grata posta a protezione della botola, accuratamente nascosta tra cespugli e pioppi dalle radici robuste, ma alla fine il passaggio fu aperto.
Siegfried puntò la propria lanterna contro la stretta apertura, rivelando una stretta scala a pioli che scendeva lungo un umido cunicolo di cui non si intravedeva la fine. "Vado prima io. Guardate dove mettete i piedi", disse, scivolando al suo interno. Subito dopo, anche Friedrich lo seguì, e le sue narici furono invase da un forte odore di umido. Terminata la scala, avanzarono un po' strisciando un po' gattonando, impediti dalle cotte di maglia e dalle spade che strusciavano per terra sferragliando. Pareva che quella galleria non finisse più.
Infine, la voce di Siegfried annunciò: "Siamo arrivati."
Gli uomini che erano rimasti dietro si fermarono per non finire loro addosso, e i due fratelli, sollevando le lanterne, videro una porticina di legno invasa dalle ragnatele, sprangata ma non particolarmente robusta, che sfondarono con una spallata ciascuno. Un topolino fuggì squittendo.
Salirono un'altra rampa di scale, oltre la quale si intravedeva un debole lume, e si trovarono in un androne vuoto e oscuro, con torce appese alle pareti, che dava accesso al piano superiore. Alcune panche e delle tavole con caprette erano accatastate lungo la parete più lontana.
Friedrich si guardò intorno furtivamente, portando una mano all'impugnatura della spada.
"Chi va là?", gracchiò una voce, in lombardo schietto.
Nessuno rispose, qualcuno spense la propria lanterna con un soffio e rimase immobile.
"Chi va là?"
"Merda!", imprecò un armigero, in un bisbiglio. "Torniamo indietro!"
Siegfried lo fermò. "Calma, calma. Tenetevi pronti a estrarre le spade: li aspetteremo qui."
Qualcuno sospirò, probabilmente maledicendo la caparbietà del suo giovane signore.
Altre voci concitate che parlavano in volgare lombardo, uno scalpiccio di passi giù per le scale, un alone di luce giallognola che si disegnava sul pavimento. Un nutrito gruppetto di armigeri armati di tutto punto uscì allo scoperto, le spade in pugno. "Malnàtt!"
"Adesso!", ordinarono Siegfried e Friedrich all'unisono, sguainando rapidamente le spade.
Le urla e il clangore dell'acciaio saturarono l'aria, e presto all'odore di chiuso subentrò l'odore acre del sangue.

"Signor conte, state attento!", urlò qualcuno.
Friedrich si voltò di scatto e vide suo fratello chino per terra mentre tentava, strisciando, di riprendere possesso della propria spada. Un uomo lo afferrò di peso per la collottola e gli passò un braccio intorno alla gola, minacciando di sgozzarlo. Il conte tentò di liberarsi con una gomitata, ma l'altro lo scaraventò di nuovo a terra con un calcio e gli poggiò un piede sulla schiena per farlo stare fermo, urlando qualcosa ai suoi commilitoni, che ripresero la strage con maggior ferocia. Già cinque dei volontari che avevano seguito i due fratelli giacevano riversi al suolo, feriti o agonizzanti, e il pavimento era viscido di sangue. Con un balzo, Friedrich riuscì a raggiungere la guardia e a colpirla con la propria spada prima che colpisse suo fratello.
"Arrenditi, e non ti farò niente", gli intimò, in latino, sperando che capisse. Fino ad allora avevano soltanto tentato di prendere più ostaggi possibile.
Ansante, reggendosi la spalla ferita dalla quale stillavano purpuree gocce di sangue, l'uomo scosse la testa in segno di diniego.
Siegfried si rialzò a fatica e riprese in mano la spada, barcollando leggermente per rimettersi in equilibrio. Aveva uno squarcio nelle maglie dell'usbergo che si dipartiva dalla spalla al gomito, e la sua cotta d'arme era lorda di sangue.
Friedrich, senza scostare la lama dalla gola del prigioniero, guardò suo fratello in attesa di conoscere le sue intenzioni.
"Ti do licenza di ucciderlo", disse l'altro, semplicemente. Poi si rivolse agli altri, alzando la voce: "Risparmiate coloro che si arrendono e uccidete gli altri. Se quest'impresa volgerà in vittoria, la città capitolerà questa notte stessa."
Stupito dalla veemenza del fratello, che senza attendere altro era di nuovo piombato nella mischia, Friedrich eseguì, e il prigioniero crollò sotto di lui con un rantolo soffocato.
La missione in cui si erano imbarcati si stava rivelando più cruenta del previsto.

Friedrich aveva perso il conto di quanto tempo fosse trascorso da quando era entrato in quell'androne. Sei dei loro uomini erano morti, e suo fratello, pur tentando di aggrapparsi alle sue ultime forze per combattere, continuava a perdere sangue dal braccio, e ogni movimento pareva costargli un'immane fatica.
"Siegfried, ci penso io qui", gli gridò, tuffandosi ancora una volta nel tumulto della battaglia. "Tu e Ludwig andate su ad aprire le porte. Prima ce ne andiamo, e meglio è."

Miracolosamente illeso, ma sudato e sporco di sangue, Friedrich Langschwert fu ridestato da un boato proveniente dall'esterno. I lombardi irruppero in grida costernate e si gettarono a terra implorando perdono; i suoi compagni d'arme esplosero in canti festanti.
Il giovane abbassò la spada, sorridendo tra sé. La battaglia era vinta.

Il Langschwert, suo fratello Siegfried e i loro compagni furono accolti in trionfo, mentre ai sei caduti fu riservata una sontuosa cerimonia funebre; e per giorni, prima della resa definitiva di Milano, all'accampamento di Porta Romana non s'era parlato d'altro. Una menzione speciale fu riservata anche alla contessa Hildegard von Mörle, che grazie alla sua profonda conoscenza dell'arte medica si era occupata delle ferite di suo marito, e in virtù di tale merito doveva essere inclusa tra i vittoriosi di quella giornata.
Difficilmente, un trionfo del genere sarebbe stato dimenticato.

 

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[17] Lega Lombarda; patto di Anagni

[18] Il biscione, dal punto di vista di Friedrich, che ovviamente non può sapere che si chiama in quel modo.

[19] è la famosa esclamazione che costò a Enrico il soprannome Jasomirgott. Significa all'incirca "sia fatta la volontà di Dio".

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