Il sogno dell'esploratore

di Fabio Brusa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sogno dell'esploratore - Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Il sogno dell'esploratore - Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Il sogno dell'esploratore - Parte 3 ***



Capitolo 1
*** Il sogno dell'esploratore - Parte 1 ***


Gli uomini che alzavano il naso al cielo della notte incrostato di stelle, alla ricerca di un varco per sfuggire alla sensazione di oppressione stagnante, trovavano sempre ad attenderli il più meraviglioso dei corpi celesti. Immobile, mutevole, culla dei sogni di intere generazioni di nostalgici, accoglieva le grida sperdute di chi viveva in un mondo senza più giorno né notte. Eppure Edwin, nonostante lo sguardo volto in alto, sentiva di trovarsi nel posto giusto. Ammirava quella mutevole palla azzurra e bianca, con la sua gente che aveva vissuto millenni sui suoi continenti sconfinati; ma era nato sulla Luna ed il suo amore per l'ancora parzialmente inesplorato satellite della Terra lo teneva strettamente ancorato a casa.
Non che la Terra per lui fosse meno degna d'interesse. Vi si era recato almeno in quattro occasioni nell'arco dei suoi trentasette anni, per lavoro e studio soprattutto. Il consiglio delle Nazioni Unite mandava avanti una colonizzazione della Luna ancora alle fasi iniziali, con solo tre città da poco più di un milione di abitanti ciascuna. Per frequentare i migliori istituti di geologia e biologia, Edwin aveva obbligatoriamente abbandonato il suolo natale, spingendosi per soggiorni alquanto brevi nelle università di Stanford, di Oxford ed alla Mahana Rastra University di Nuova Delhi. L'istruzione lunare poteva essere considerata solida, ma ben pochi volevano realmente vivere lì. Così la maggior parte degli esperti di ogni settore se ne stava comodamente sul suo pianeta d'origine, dando nuova linfa alla ricerca per la salvaguardia ambientale sopra ogni cosa. Con il salvataggio del pianeta, nessuno desiderava più inseguire il sogno romantico della vita oltre lo spazio. Al limite una breve vacanza su Marte o sul suolo lunare, per scoprire solo che un cielo senza atmosfera e uno sterminato deserto bianco erano attrattive il cui fascino si esauriva in sé stesso.
Edwin la pensava diversamente. Aveva visitato le grandi città terrestri, trovandole ben poco diverse da Rasa, Minoi o Stonelake. Le metropoli sulla Luna godevano degli stessi comfort delle altre: un efficiente sistema di polizia, trasporto pubblico gratuito, centri culturali, divertimento per ogni gusto ed età. Perfino il settore sportivo era decente. Le squadre di football, basket e calcio delle tre città si sfidavano ripetutamente per il titolo, dopo aver lottato al loro interno in leghe minori per il diritto di rappresentanza. Da tre anni i Glaive Warriors di Minoi vincevano il Superbowl lunare, ed Edwin, da buon tifoso, non perdeva occasione di rinfacciarlo a colleghi ed amici di diversa fede sportiva ogni volta che si trovavano al pub della stazione. Adorava l'odore della vittoria, il frizzante sfrigolio dell'aria quando hai tutte le ragioni dalla tua. Ma ciò per cui viveva veramente e che amava della Luna era il proprio lavoro fuori. Fuori dalle cupole, fuori dalle città, faccia a faccia con lo spazio aperto.

La terra vibrava con una strana frequenza da alcuni mesi. Gli abitanti delle tre città ci avevano fatto l'abitudine, ma Edwin no. Ricordava spesso la prima volta che aveva sentito il terreno scuotersi sotto ai piedi, come un impossibile e lieve terremoto. La Luna, si era scoperto, non era dotata di manifestazioni come i terremoti naturali, né di natura vulcanica, né generati dal movimento di placche del tutto assenti. Le centinaia di lievi scosse registrate dalle vecchie sonde d'esplorazione, che a stento raggiungevano il secondo grado della scala Richter, avevano una genesi biologica. Di più: dopo decenni di rilevamenti e studi in loco, eseguiti da uomini che avevano infiammato la sete di conoscenza di Edwin, la risposta era univoca. Ad origine delle scosse c'era l'attività di organismi animali.
La prima volta che, alle scuole elementari, l'insegnante di Edwin aveva mostrato alla classe la rappresentazione di un wormant, la maggior parte dei bambini e delle bambine si era messa a piangere. Li chiamavano anche vermitalpa, o vermigrilli, per la caratteristica di emettere un tipico lamento stridulo mentre scavavano le loro interminabili gallerie. Esseri capaci di distruggere intere città, se solo il loro cammino li avesse condotti attraverso di esse. Con una media di quarantasette metri di lunghezza e tre di diametro, erano mastodontici mostri ciechi dal corpo dentellato, implacabili nel loro incedere fra le gallerie sotterranee. Ciò che li rendeva relativamente innocui però era la stessa cosa che li aveva tenuti nascosti agli occhi dei primi esploratori. L'alimentazione basata esclusivamente sul riciclo delle sostanze nutrienti nel terreno li portava a scavare nelle più abissali profondità della crosta lunare, cercando filoni di ghiaccio da digerire e sali minerali da estrarre. Salivano vicini alla superficie solo per cercare gli strati più densi di microorganismi, trasportati ed imprigionati nella regolite da asteroidi e comete, provenienti da remote ed inesplorate lande dell'universo e schiantatisi per milioni di anni sul suolo della Luna priva di atmosfera. E quando salivano, le città tremavano.
Le grandi città, così come ogni insediamento umano stabile, erano state costruite per legge sul lato della Luna visibile dalla Terra. Il sincronismo fra la rotazione del satellite ed il suo moto di rivoluzione avevano tenuto per milioni di anni metà del suo volto oscuro al pianeta madre, ed ora impediva alle strumentazioni radio sulla Terra di ricevere segnali provenienti da quel lato. Un blackout delle comunicazioni che sarebbe durato ancora per poco. Il progetto coloniale delle Nazioni Unite stava per spedire in orbita stabile attorno alla Luna quattro nuovi satelliti artificiali, per ovviare al problema delle comunicazioni. Edwin se ne infischiava: aveva lavorato per anni viaggiando completamente solo. Passare una o due giornate senza un altro essere umano a rompere le scatole lo faceva sentire solamente meglio.

Era orgoglioso di sé. Nell'ultimo periodo aveva scoperto una nuova pozza di residui organici, appena al di sotto della regolite, che si estendeva per sei chilometri quadrati nel lato oscuro. Si trattava del più esteso bio-pack scoperto finora, che significava alta probabilità di studiare i vermitalpa vicino alla superficie.
Quegli esseri ancora sconosciuti erano diventati un'ossessione per Edwin. Voleva svelarne i segreti, studiarne i misteri, essere il primo uomo a stendere un vero trattato su una forma di vita complessa totalmente extraterrestre. In pochi si erano avventurati nel tentativo di scoprirne natura ed abitudini, ancora meno ne avevano cavato un ragno dal buco. La vita sotto spessi strati di roccia rimaneva imperscrutabile, ma Edwin era convinto che nei pressi dei bio-pack, i laghi solidi dove i vermitalpa trovavano parte del loro cibo, avrebbe potuto essere veramente fortunato.
In sella al suo rover elettrico, acquistato con i fondi dell'Università Lunare di Minoi, Edwin si lasciò alle spalle le porte stagne della metropoli. La struttura ricoperta di ricettori fotovoltaici gli garantiva autonomia quasi infinita, persino sul lato oscuro, che a dispetto del suo nome veniva normalmente illuminato dal sole tanto quanto il lato rivolto verso la Terra. Fra i crateri e le dune, viaggiò per sei ore e mezza prima di oltrepassare la linea dell'orizzonte. Quando il segnale di campo del palmare si spense, capì di essere ormai vicino. Un'altra manciata di chilometri e l'ultimo pack individuato sarebbe apparso come una enorme vallata grigiastra ed immobile.
Ancora non aveva raggiunto il limitare del cratere che il sismografo segnalò la presenza di attività anomale. La possibile causa era una sola, che significava ben più di semplice probabilità. Almeno un vermetalpa doveva trovarsi vicino alla superficie, così vicino da generare scosse percepibili anche dal rover su cui Edwin era seduto. Eccitato ed impaziente, Edwin accelerò. Doveva scendere il prima possibile per approfittare del fato al momento favorevole.
Nulla mai avrebbe potuto prepararlo alla visione di ciò che lo attendeva oltre l'ultima duna. Nell'atmosfera brulla si propagava un vibrare tagliente, uno sfrigolio da grilli di campo che riusciva a superare il vuoto spaziale per giungere fino all'orecchio di Edwin. Sulle pendici di un ampio cratere, spinto per cinque o sei metri oltre il buco del tunnel da lui stesso scavato, il capo flaccido e ritto di un orribile vermetalpa sputò un ultimo verso contro il mondo attorno a sé. Poi si accasciò, sbattendo violentemente al suolo, morto.
Terrificato ed esaltato, Edwin non poteva credere di avere avuto una tale fortuna. I polsi tremavano incontrollabili, il respiro si fece affannoso: era il primo uomo a trovarsi faccia a faccia con una delle bestie lunari. Stava compiendosi la storia e fu pervaso da un'euforia mai provata prima. Saltò giù dal rover ed accese la telecamera per documentare il momento più interminabile della sua vita. Si trovava al punto d'origine di tutti i rapporti fra razza umana e razze extraterrestri. Proprio lui, persona comune, dispersa ed ignorata sul versante oscuro della Luna.
Assicuratosi che la telecamera stesse riprendendo la scena, si avvicinò a passi insicuri alla colossale bestia. Dagli studi effettuati in tanti anni conosceva parecchio sui wormant, ma mai ne aveva incontrato uno. Sorrise nel constatare le leggere differenze con le rappresentazioni dei libri di testo, basate sul lavoro di radar, sismografi e fantasia. Al corso di studi di xenobiologia l'ex professore di Edwin, un inglese sicuro di sé dal nome Roland Parker, aveva trascorso dodici ore di lezione esclusivamente sulla morfologia dei vermitalpa, esponendo dettagliatamente i solidi risultati dei suoi studi sulla specie. Se ora si fosse trovato con Edwin di fronte ad un esemplare reale, avrebbe probabilmente stracciato i testi con le proprie mani.
La carne all'apparenza molliccia della creatura era tutt'altro che viscida, completamente differente dai corpi umidi dei suoi parenti terrestri. Ad Edwin venne perfino il dubbio che si potesse parlare di parentela, o anche solo di un qualche legame con qualsivoglia specie di verme conosciuto. La forma allungata era l'unico metro di paragone: niente anelli, carni aride e dalla pelle rugosa, di un pallore albino ultraterreno. Con la mano Edwin provò a spingere sulla massa morta, riuscendo a malapena a fare pressione. Sulla superficie aperta della Luna, il vermetalpa sembrava duro quasi quando la roccia. I solchi scavati nei muscoli visibili sotto l'epidermide erano fiumi inariditi dal tempo, che correvano dal capo verso la coda, perduta per decine di metri nella galleria. Per la prima volta vide e toccò le protuberanze cornee, posizionate lungo l'intero corpo dell'animale, che sfregando continuamente contro il terreno permettevano al vermetalpa di scavare infinite gallerie. Poteva osservare la loro stramba disposizione a coppie, che inevitabilmente si sovrapponevano nei loro compiti, perfino ora che nella morte avevano perso ogni scopo. Se fosse stato ancora in vita, il wormant avrebbe mosso le protuberanze per andarsene, producendo il canto stridulo di conseguenza. Sarebbe stato meraviglioso per Edwin, già totalmente catturato dal momento, euforico come un bambino. Continuava a camminare, a toccare, incredulo. In un certo senso si stava compiendo lo scopo della sua vita, come ricercatore e uomo di scienza. Avrebbe dato il proprio nome ad un apparato della creatura, o ad una funzione biologica tutta nuova ancora da individuare. Già immaginava di sezionare il corpo, perdendosi nelle frattaglie spaziali del titanico vermetalpa. Eppure si sentiva distratto da altro, immerso solo in parte nella propria sicurezza. Nell'aspetto del wormant, qualcosa non quadrava.
Dapprima realizzò la presenza di otto paia di bulbi neri, disposti secondo una simmetria radiale, come escrescenze sul capo. Apparivano protetti da membrane carnose, molli e delicati come occhi, del cui utilizzo una creatura sotterranea non dovrebbe sapere che farsene. Edwin li palpò, provando ribrezzo per come perdevano liquidi a contatto con il guanto. Dovevano avere qualche altro utilizzo, ne era certo. Ma ancora il quadro era annebbiato: ai lati delle tre piccole bocche, fori pieni di zanne quadrate e piatte per frantumare minerali, una serie di cicatrici profonde e precise lasciavano pensare ad un marchio o un simbolo. Linee dagli angoli retti che si diramavano come un codice sulla testa orrenda del vermetalpa, impossibili da ricondurre a livree o manti di animali conosciuti. Edwin infilò il dito nelle pieghe, scoprendole diverse dalla carne del corpo o dalle appendici cornee, diverse anche dagli occhi bui. Sembrava impossibile, ma le sensazioni lo spingevano a trarre un'assurda conclusione. Le pieghe, a tutti gli effetti, sembravano incisioni artificiali riempite con un arzigogolato ed insondabile monile in metallo.

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Capitolo 2
*** Il sogno dell'esploratore - Parte 2 ***


Con la radio impossibilitata a comunicare non c'era speranza di far conoscere la fortunata scoperta ai colleghi dell'istituto a Minoi. Perlomeno non prima di tornare nei pressi della città. La paura di Edwin era che il sogno che stava vivendo si sarebbe vaporizzato in una bolla di sapone. Preferì rimanere, piuttosto che perdere ore ed ore per chiedere un supporto, e procedere in autonomia allo studio della carcassa. Nel bagagliaio del rover portava analizzatore chimico, bisturi laser, campionari, torcia e una sonda lunga dieci metri: tutto ciò che poteva servire per una raccolta dati d'emergenza. Aveva imparato a tenersi pronto e zelante sul lavoro, anche se fino a quel giorno i compiti di esploratore si erano rivelati alquanto noiosi e privi di emozioni. La felicità nello scoprire un cratere insolito o una piana stranamente geometrica nella regolite erano nulla in confronto a ciò che il fato gli aveva finalmente parato di fronte. La gloria sarebbe stata sua.
Per prassi cominciò col descrivere al registratore digitale l'aspetto del vermetalpa, con dovizia di particolari. Purtroppo ad essere visibile, seppur lunga diversi metri, era solo la testa, il che rendeva impossibile la valutazione della metameria dell'animale. Edwin lo toccò di nuovo, poi lo prese a pugni, rendendosi conto dell'effettiva durezza dell'epidermide. Riflettendo, aveva poco senso tentare di analizzare il wormant come se fosse stato fauna terrestre. Non esisteva una procedura standard per lui, né una casistica antecedente che fungesse da faro nell'oscurità delle idee. Sarebbe stato un lavoro genuino, a discrezione dello scienziato. Nessuno avrebbe mai potuto recriminare, dopotutto.
Acceso il bisturi, asportò per prima cosa uno dei probabili bulbi oculari. La massa molliccia grande quanto un pugno si deformò, cadendo nel porta campioni plastico, imbrattando in parte i guanti di una sostanza scura e melmosa. Edwin ringraziò di non poterne sentire l'odore, richiuse il primo contenitore e proseguì nella raccolta campioni. Era come potare le rose, un compito delicato che richiedeva precisione al fine di ottenere un risultato mirabile, solo che un vermone cadavere in questo caso aveva preso il posto dei fiori nel giardino lunare. Le bocche, scoprì Edwin, erano sproporzionatamente piccole rispetto al resto del corpo, pur riempite di denti piatti e lamellari. Capire come facesse una creatura di tali proporzioni a nutrirsi grazie ad un apparato grande quando il palmo di un uomo avrebbe richiesto ulteriori approfondimenti.
Edwin aveva asportato solo pochi denti quando sentì l'allarme intermittente nelle cuffie. Tornò rapidamente al rover, lottando contro la fievole gravità, per dare un'occhiata agli schermi e scoprire di avere a disposizione meno tempo del previsto. Sulla mappa veniva segnalata la presenza di un terraformer nelle vicinanze, cioè a meno di quindici chilometri di distanza, il limite standard sul quale erano impostati tutti i segnalatori per veicoli esterni sul suolo lunare. I terrafomer si muovevano con una notevole lentezza, meno di dieci chilometri per ora. Era così estremamente semplice evitarli: l'avviso era solito giungere, calcoli alla mano, un'ora e mezza prima del loro arrivo. Normalmente un tempo più che sufficiente per lasciare la zona e non rischiare di essere travolti dalla loro azione distruttiva, ma per Edwin questo rappresentava un vero pericolo. Necessitava di molto tempo per operare una raccolta meticolosa dei campioni e un'analisi quantomeno soddisfacente del wormant e, se non avesse fatto in tempo a scoprire il necessario, dopo il passaggio del terraformer di quel luogo sarebbe rimasto solo un vago ricordo.
Erano solamente due i terraformer in attività sulla Luna, più un terzo dismesso in fase di rimessa in opera. Macchinari titanici, veri paesi semoventi, con compiti oltre l'immaginabile: modificare strutturalmente l'ambiente del satellite per donargli la possibilità di sostenere un ecosistema. Spianavano valli, rivoltavano il suolo, preparavano la Luna alla fase tre e quattro della sua colonizzazione umana, che avrebbero riguardato atmosfera e acqua allo stato liquido. Al loro primo passaggio il deserto frastagliato e irregolare diventava improvvisamente lo scheletro già visto di una Terra brulla, pronto ad essere rivestito di un abito umido, verdeggiante e concimato. Edwin non era contrario per principio, solamente triste all'idea che un giorno la sua Luna avrebbe avuto un aspetto completamente straniero. Ora però i cingoli spietati del terraformer si stavano dirigendo nella sua direzione e, se non voleva gettare al vento l'unica vera grande occasione della vita, avrebbe dovuto sbrigarsi.
Per suggestione o per agitazione, sotto ai suoi piedi il suolo pareva impregnato di piccole scosse. Ciò che si stava avvicinando aveva un peso smodato e ad Edwin sembrò normale avvertire delle vibrazioni, anche a tale distanza. Cercando di evitare di fossilizzarsi nella paura di non avere tempo, tornò a sezionare il cadavere con i tagli netti e precisi tipici del laser. La calma era una virtù che lo aveva accompagnato dall'infanzia, quando sopportava angherie come ogni bambino intelligente, eppure ora a stento manteneva il controllo. Avrebbe voluto strappare via dal corpo morto il maggior numero di campioni possibili, senza ritegno né metodo, solo per assicurarsi un laboratorio colmo di brandelli sanguinolenti, da sottoporre a test analitici per i prossimi dieci anni. Ma non poteva farlo, se aveva veramente intenzione di compiere uno studio storico. Con poco tempo a disposizione, doveva scegliere ed agire con sicurezza.
Le vibrazioni d'un tratto aumentarono e lasciarono Edwin stranito. Non venivano diffuse dal terreno come si aspettava ma in qualche modo a lui sconosciuto provenivano dal vermetalpa. Fuori da ogni dubbio la creatura era morta, con il capo mutilato come se fosse stato assaltato dai roditori. Edwin sospettò un riflesso incondizionato, forse il gorgoglio di insondabili acidi gastrici, talmente ribollenti da poterne percepire il movimento. La curiosità divenne inarrestabile ed irresistibile. Puntato il bisturi, aprì uno squarcio dritto nella polpa gelatinosa dell'occhio, allargando l'apertura con le mani, dilaniando i tessuti fino ad avere un varco sufficientemente ampio da lasciar passare un uomo per le spalle. All'interno del corpo, oltre uno strato di pelle spesso almeno mezzo metro, qualcosa si muoveva.

Si diceva che gli elefanti, al sopraggiungere della vecchiaia o della malattia, percependo l'avvicinarsi della morte, intraprendessero un lungo viaggio verso un luogo comune dove trapassare al fianco dei propri antenati. Di cimiteri degli elefanti si era parlato per secoli, interrogandosi sulla fondatezza o meno di tali usanze, senza mai giungerne ad un capo. Probabilmente nessun animale tende a morire in un luogo preciso, soprattutto lontano dai propri simili o dalla propria casa. Allora per quale motivo quel vermetalpa, prima di morire, aveva puntato la superficie fino a forarla ed era spirato in un ambiente tanto dissimile dal proprio?
Notizie certe non se ne erano mai avute, ma Edwin riteneva, come gli altri esobiologi delle facoltà lunari, che i vermitalpa morissero esattamente dove erano vissuti, centinaia di migliaia di metri sotto la regolite lunare. Al termine del loro ciclo vitale, soprattutto, dato che non erano noti possibili fattori ambientali causa di decessi per la specie. Di predatori nemmeno si ipotizzava l'esistenza. Il motivo dunque che aveva spinto l'esemplare di Edwin tanto fuori rotta poteva essere infettivo. Una malattia, un batterio, un agente patogeno di strane origini che aveva condotto la bestia alla morte. Edwin pensò dapprima di spiegare in questo modo i bubboni ribollenti che vide una volta squarciate le carni del wormant, fetidi organi molli invasi da un male sconosciuto. Eppure il movimento dei tessuti era alquanto diverso dai classici spasmi nervosi.
Protetto dalla tuta, Edwin si sentì sicuro nell'allungare la mano per tastare le escrescenze. Si spinse all'interno della cavità da lui stesso creata con l'intero braccio, la testa e parte del busto, tanto aveva bisogno di andare in profondità. Si tese come una corda mentre sforzava l'altro braccio nel tentativo di non perdere l'equilibro. Quando arrivò finalmente a metter mano alle bolle pulsanti, un dolore lancinante ed indescrivibile fu, per alcuni secondi, la sola cosa che riuscì a percepire.
Si ritrasse urlando come un ossesso, sfilando il braccio e rotolando all'indietro. Cadde al suolo senza accorgersene, rallentato dalla bassa gravità, le sue urla pervase di dolore e paura rinchiuse all'interno del casco. Nella completa nullità del paesaggio, nessuno poteva sentirlo disperarsi per la mano lacerata. Una piccola creatura, non più grande del suo palmo, aveva conficcato una decina di punte acuminate e ricurve nella carne viva, oltrepassando il guanto ed ancorandosi saldamente alla mano.
Simile ad una roccia grigia, il carapace dell'animale era rigido come quello dei granchi, protettivo ed esteso su tutta l'ampiezza del corpo circolare. Otto zampette frementi si richiusero sull'addome come un fiore. Edwin perse ogni riferimento zoologico nel guardare una creatura di simmetria radiale, indistinguibile da un sasso lunare una volta raggomitolata in sé stessa. Eppure gli uncini affilati, estroflessi dal dorso coriaceo, erano profondamente affondati nella sua mano ed ogni doloroso tentativo di liberarsi non portava ad altro che allargare le ferite.
Edwin era assaltato da un vortice di pensieri, emozioni e sensazioni. In cosa si era imbattuto? Una nuova forma di vita sulla Luna totalmente sconosciuta all'uomo, un miracolo. Aveva fatto la scoperta nel modo peggiore possibile, dato che il suo incidente era ben più grave di quanto non pensasse a prima vista. Negli aperti spazi lunari privi di atmosfera, un'apertura nella tuta significava morte certa. Per piccole riparazioni sul rover portava sempre il kit d'emergenza, ma con l'intero palmo del guanto distrutto le speranze erano nulle. Ringraziò la sua buona stella e la sua nera ironia, perché l'animale che lo aveva ferito teneva il foro sigillato con il suo stesso corpo. La stretta era talmente potente che il carapace irregolare restava premuto intensamente alla mano, serrando i lembi stracciati. Forse, nonostante il dolore atroce, doveva lasciare l'esserino al suo posto.

Fino a che non si fosse staccato, Edwin avrebbe continuato a vivere.

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Capitolo 3
*** Il sogno dell'esploratore - Parte 3 ***


All'interno del wormant, dopo l'incidente, si innescò una reazione terrificante e spettacolare, alla quale nessun esobiologo avrebbe mai sperato di assistere, neppure nei sogni più presuntuosi. La piccola creatura senza nome non era sola. Un intero branco, o sciame, si dipanò all'esterno della ferita del vermetalpa come uno stuolo di formiche voraci. Avevano iniziato il loro processo di sciacallaggio già dall'interno ed ora procedevano insaziabili sull'immane corpo della bestia morta, divorando a vista d'occhio porzioni intere del cadavere. A centinaia sgambettavano frenetiche, sempre salde anche ad inclinazioni impossibili, saziandosi della loro preda inerme. Edwin rimase pietrificato dalla visione, incapace di controllare il proprio corpo. Temette di subire la stessa sorte del vermetalpa, ma le creature, per le quali nessun nome sembrava più appropriato che bìoliti – pietre vive –, erano disinteressate a lui. Nell'arco di un tempo indecifrabile, minuti o poco più, del wormant non rimase altro che una chiazza mucillaginosa sul terreno.

Con poca luce, senza punti di riferimento stabili, era incredibilmente semplice perdere il senso del tempo mentre ci si trovava in esplorazione nei campi aperti della Luna. Altre volte Edwin si era trovato in difficoltà, con solo la sua prontezza di riflessi e la sua lucidità a guidarlo verso Minoi, al sicuro. Questa volta però il pericolo non proveniva dall'esterno, ma da una sua stessa decisione. Il biolite, ancora agganciato alla mano, era sì molto doloroso ma anche marginale. Se fosse tornato in tempo in città un medico lo avrebbe curato e nel giro di un paio di settimane sarebbe stato come nuovo. Era semplice: doveva saltare in sella al rover, guidare oltre il confine del lato oscuro e lanciare una richiesta di soccorso. E lasciare il luogo del ritrovamento, con la caverna scavata dal wormant e lo sciame di bioliti alle prese con il terraformer. Il segnalatore era implacabile nel ricordare la presenza del macchinario a meno di cinque chilometri di distanza. Oltre i crateri limitrofi, perfino ad occhi nudo Edwin riusciva a scorgere le cime metalliche delle torri di controllo, con le nubi di detriti a sollevarsi alte nel cielo e disperdersi nello spazio siderale.
A disposizione restavano oramai solo una manciata di minuti. Corse all'imboccatura del tunnel, gettando lo sguardo dove poco prima giaceva immobile il corpo dell'immenso vermetalpa. Una voragine mostruosa, nella quale l'occhio umano era impotente a svelarne i misteri e le pareti si perdevano nell'oscurità profonda. Solo nei metri tesi alla superficie Edwin riusciva a distinguere le forme, scoprendo uno sciame di bioliti brulicanti esteso quanto un gigantesco formicaio. Erano talmente numerosi e tanto voraci da essere stati la possibile causa della morte del wormant, oltre che della sua sparizione. Pur camminando vicino ai loro corpi litoformi, veniva ignorato dalle creature, che lentamente tornavano nel profondo del tunnel.
Un fischio elettronico del rover direttamente nelle cuffie segnalava ad Edwin l'ultima possibilità di andarsene. Il terraformer scagliava inevitabilmente attorno a sé detriti e turbini di venti pericolosi per chiunque, ed entro la linea del chilometro Edwin avrebbe potuto restare coinvolto, probabilmente ucciso, dalla sua attività.
Guardò ancora una volta nella galleria. Desiderava con tutta la propria stessa anima gettarsi a capofitto nelle viscere della Luna, seguire le bestiole fino ai loro pascoli, i loro nidi. Si era imbattuto in ben due forme di vita complesse dove si credeva che non ci fosse altro che minerali polverizzati e vuoto. Stava realizzando lo scopo di una vita, assistito da una fortuna che altre centinaia di uomini come lui non avrebbero potuto sperare in mille esistenze. Il profondo baratro di gallerie nel quale fissava i suoi sogni non era minimamente paragonabile all'enormità del suo dilemma. Si sentì protagonista di una storia tragica, di un viaggio al centro della Luna mai iniziato, un abbozzo d'inchiostro su una pagina incompiuta. Il segnalatore aumentò il suo canto straziato e in un istante Edwin gettò nel tunnel il suo intero bagaglio di emozioni. E scelse la vita.
Con la velocità massima possibile caricò i campionari sul rover, vi saltò in sella ed accese i motori. Poteva muoversi ad una velocità ben maggiore di quella del terraformer, e allungando la strada del ritorno di alcuni chilometri avrebbe potuto schivarlo senza problemi. Nonostante la trepidazione l'unico rumore era il segnalatore elettronico, mentre fuori dal casco l'intero paesaggio era silenzioso.
Fino a che l'ultimo dei bioliti non scomparve nella voragine Edwin rimase immobile. Osservò la massa animale scomparire oltre la vista, tornando nei segreti antri dove per nuove decine di anni si sarebbe nascosta e moltiplicata. Un sogno che lentamente si dileguò, timido, così come era arrivato.
L'unico a rimanere fu il biolite ancorato alla sua mano, che per fortuna di Edwin non pareva intenzionato a staccarsi. Con gli uncini piantati con forza nella carne se ne stava chiuso in sé stesso, apparentemente in uno stato di sonno o attesa. Il dolore si era leggermente attenuato e, seppur con difficoltà, Edwin era in grado di guidare il rover fino a casa. Lanciò un ultimo sguardo là dove fino a poco prima giaceva il gigantesco corpo del vermetalpa. In una giornata così, si disse, ci si imbatte una volta nella vita.

Partì quando il terraformer era talmente vicino da far tremare il terreno. Questa volta era proprio il macchinario a dare le scosse, mentre riformava il paesaggio preparandolo per le opere di colonizzazione. Edwin non si voltò più, convinto ad evitare ulteriori ferite al suo animo. Il luogo del ritrovamento, dell'occasione della sua vita, stava venendo distrutto proprio mentre in lontananza compariva l'orizzonte del lato oscuro, dove la solitudine sarebbe terminata.
A Minoi lo aspettava un compito gravoso. Avrebbe analizzato i filmati, i campioni raccolti, testimoniato l'attività zoologica lunare, perfino riportato una forma di vita nuova. Nel proprio laboratorio si sarebbe rinchiuso notte e giorno fino a trarre dai risultati il più completo, ed unico, trattato di xenobiologia mai scritto.
Avrebbe voluto sapere, infilandosi nei tunnel verso un mondo mai esplorato da un essere umano. Era nato per quel momento, ma lo aveva scartato all'atto di decidere. Eppure, in sella al rover, con la mano dolorante, sorrise nel rivedere la sagoma distante della città. Ancora vivo, stava per entrare nella storia. Forse non come aveva sognato, ma si sa che spesso la via per la felicità porta verso luoghi dove il pensiero difficilmente aveva immaginato meraviglia.

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A breve uscirà il nuovo romanzo "Qui ci sono i leoni"!

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