Checkmate – Scacco Matto

di Chemical Beam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bianco ***
Capitolo 2: *** Nero ***
Capitolo 3: *** Pedone ***
Capitolo 4: *** Cavallo ***
Capitolo 5: *** Alfiere ***
Capitolo 6: *** Torre ***
Capitolo 7: *** Regina ***



Capitolo 1
*** Bianco ***


Alexander entrò nell'aula B per la prima volta quell'anno e, come ogni giorno da due anni a questa parte, sedette al posto accanto alla seconda finestra, sul muro destro della classe. Ormai, avrebbe potuto considerare quella postazione come la propria – pensò mentre faceva scorrere le dita sulla superficie liscia: la consistenza della sedia gli era più che famigliare, l'altezza che raggiungeva rispetto al banco era perfetta per il suo metro e settanta, il legno tinto di verde acqua era stato testimone di numerosi gomiti appoggiati, partite perse e molte di più vinte.

Frequentava il corso di scacchi solo da qualche anno, ma era sempre stato un grande appassionato di questo sport. Mentre riportava alla mente il ricordo delle sue prime partite, guardando verso le nuvole soffici, entrò Mr. Sparks. Si trattava di un uomo abbastanza anziano, sulla settantina, con capelli bianchi e una corta barba. Spiccavano gli occhiali da vista, molto più grandi in proporzione al suo viso, tipici del periodo della sua gioventù. Indossava sempre maglioni colorati, con varie fantasie – quest'oggi la scelta era ricaduta su uno verde scuro dalle decorazioni color ocra.
Al suo ingresso, Alexander si voltò, deciso a dare il meglio anche in questa lezione.

«Salve, ragazzi! Come state oggi? Mi auguro bene, c'è un così bel tempo fuori», disse guardando verso la finestra, e poi alcuni posti vuoti nella classe. «Peccato, manca qualcuno, sicuramente saranno in ritardo. Facciamo così: aspettiamo altri cinque minuti e poi cominciamo, vi va?»

Altri due alunni entrarono, con il fiato grosso e accelerato e i volti madidi di sudore a causa di una probabile corsa fatta per arrivare in tempo.
Una volta arrivati, Mr. Sparks poté cominciare, ma non prima di aver preparato una cassetta con un foro al centro.

«Okay, ragazzi, ci siete tutti? Bene, possiamo procedere con il sorteggio. Mi auguro che durante l'estate, oltre a esservi rilassati, abbiate potuto allenarvi con altri giocatori, magari più esperti, in modo da aver messo alla prova le vostre capacità», esclamò con uno sguardo incoraggiante. «In ogni caso, so che siete tutti più o meno allo stesso livello, per cui non ci saranno problemi o difficoltà nella scelta dei vostri due avversari di oggi. Prego, Steven, avvicinati e pesca due nomi».

Un ragazzo paffutello, sui sedici anni e con dei grandi occhiali tondi, si fece avanti e infilò la mano nel buio della cassetta. Una volta estratti due bigliettini, li lesse a voce alta, seppur balbettando un po'. «G-gioco con Luke e poi con A-Alexander».
Uno alla volta, tutti i ragazzi pescarono due biglietti e presto gli sfidanti si ritrovarono uniti. Ad Alexander toccava prima una partita con Robert, ragazzo dal livello un po' più basso del proprio, e poi quella con Steven; dietro le sembianze innocue di quest'ultimo, si celava una grande bravura e tanta esperienza nel campo degli scacchi.

«Avete scelto tutti? Siete pronti? Okay, prendete posto, gli orologi sono già impostati, e... Via! Avete a disposizione trenta minuti a testa. Mi raccomando, le prime partite dell'anno sono fondamentali per riprendere la mano e rinfrescare la mente: non sottovalutatele, date il meglio di voi!»

 Mi raccomando, le prime partite dell'anno sono fondamentali per riprendere la mano e rinfrescare la mente: non sottovalutatele, date il meglio di voi!»     

«...Scacco matto» mormorò Alexander, mettendo in trappola il re avversario con un ultimo gesto rapido ed elegante, proprio sul finire della seconda ora.

Difatti, allo scoccare delle diciassette e trenta Mr. Sparks mise fine alle partite per quel giorno. «Scattante come sempre, eh, Randall? Ben fatto, ben fatto», esclamò controllando la scacchiera di Alexander. «Per quello che ho notato, tu e Moore siete stati i migliori oggi, quindi al prossimo incontro la prima partita sarà una sfida tra voi due. Ne vedremo delle belle!»

Lasciando Mr. Sparks che metteva a posto gli ultimi pezzi e le scacchiere, gli alunni uscirono dalla stanza salutando l'istruttore, alcuni più sovrappensiero di altri. 
Tra questi c'era Alexander: si lamentava all'idea di dover giocare contro quell'arrogante di Josh, che non era mai stato disposto ad assecondare i suoi tentativi di creare un'amicizia, nonostante si conoscessero da un bel po' di tempo.

«Pazienza», sussurrò tra sé e sé, «ormai so com'è fatto. Se perdo, si vanterà per sempre, screditandomi; se invece vinco io, farà di tutto per distrarmi e mettermi in difficoltà nelle prossime partite. Ma chi si crede di essere?» 
Alexander era deciso a vincere tutte le partite, senza farsi mettere i bastoni tra le ruote da quel prepotente.

Quell'anno si sarebbe tenuta la sua ultima gara e lui era intenzionato a portare a casa la coppa, proprio come aveva fatto l'anno precedente e quello prima ancora.
Non avrebbe mai lasciato che un Josh Moore qualsiasi si fosse inserito tra lui e il suo sogno tanto ambito. Avrebbe fatto di tutto per impedirlo

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Capitolo 2
*** Nero ***


«Fanculo, non ci capisco niente», mormorò Thomas buttando la penna sul quaderno con fare svogliato, mentre si reclinava all'indietro con la sedia. «Ma perché cazzo ci insegnano queste cose? A che serve?»

Mentre alcuni compagni ridacchiavano alle sue parole, Mr. Davies gli lanciò un'occhiataccia dai compiti che stava correggendo.
Mrs. Smith quel giorno era assente e lui si era ritrovato a dover fare supplenza in 4°A. Appena entrato, aveva dato due opzioni agli studenti: o avrebbero fatto lezione di matematica tutti insieme, oppure si sarebbero dedicati allo studio individuale, a patto però di restare in silenzio.
Prevedibilmente, al sentire la parola "matematica" tutti gli alunni scelsero all'unanimità la seconda opzione.

Eppure, Thomas aveva deciso di dedicarsi proprio agli esercizi di quell'ostica materia, dal momento che non aveva alcuna intenzione di trascorrervi del tempo quando era a casa. Non gli passava assolutamente per la testa l'idea di studiare matematica di pomeriggio, quando avrebbe potuto impiegare il suo tempo in modo molto più produttivo. Leggendo, per esempio.

Comunque, fino a quindici secondi prima aveva avuto persino il coraggio di provare a risolvere l'esercizio. Pazzo? Masochista? Se lo stava chiedendo da quando aveva aperto il libro e ancora non era giunto ad una risposta che lo soddisfacesse.
L'unica cosa certa era che se avesse voluto evitare l'ennesima insufficienza nella verifica scritta, l'indomani, avrebbe dovuto almeno cercare di affrontare il suo incubo: la matematica, appunto.

Fatto sta che, una volta giunto all'ennesimo punto morto, in cui non sapeva come procedere e cosa scrivere, ci aveva rinunciato, sbarrando più e più volte i calcoli scritti fino a quel momento, per poi gettare la penna sul quaderno.
L'occhiataccia di Mr. Davies avrebbe dovuto intimorirlo, ma non lo fece. In fondo, sapeva di avere ragione, ma sapeva anche che non doveva far arrabbiare il professore.
Jonathan Davies era un uomo alla mano, intelligente e capace, in grado di stabilire un legame con i suoi studenti, e nel migliore dei casi di farli appassionare alla materia da lui insegnata; allo stesso tempo, però, era anche molto severo ed esigeva sempre rispetto ed educazione – quando assumeva un'aria alterata, nessuno osava più essere irrispettoso. Neanche Thomas.

Per cui, capita l'antifona e capito che con la matematica non aveva alcuna speranza, decise di trascorrere l'ora scarabocchiando cerchi concentrici sul banco, uno più piccolo dell'altro. Entro le diciassette e trenta sarebbe dovuto arrivare a disegnare solo un piccolo punto al centro. 
Invece, la campanella suonò proprio mentre era intento a disegnare un cerchio dal diametro di un centimetro (ancora troppo grande per i suoi piani). 
Ciononostante, non appena sentì quel suono metallico e assordante, infilò alla rinfusa e con fretta libri e quaderni nella sacca nera, pronto per precipitarsi fuori.
Ma mentre stava per oltrepassare la porta dell'aula, sentì la voce roca di Mr. Davies.

«Scusami, come ti chiami?», lo fermò, facendolo avvicinare alla cattedra mentre lui si alzava.

«Thomas Harris, perché?», rispose sospettoso, indietreggiando fino a fronteggiare il professore. Dall'alto del suo metro e ottanta, questo non era affatto difficile – non si sentiva per niente intimorito.

«Ecco, Thomas, ho visto che stavi eseguendo degli esercizi di matematica, e che questi ti stavano creando qualche problema. Dico bene?», chiese il professore, infilandosi le mani in tasca.

Thomas lo guardò tra l'incuriosito e il seccato. «Io... Sì, dice bene». Dove diavolo voleva andare a parare?

«Beh, non ho potuto fare a meno di notare – cioè, non che le tue esclamazioni fossero poco chiare – che, nonostante le difficoltà, tu ci provi lo stesso, no?», gli sorrise.

«Sì, beh, sa, prendere un'altra insufficienza nel compito non è proprio il massimo, non crede?», si irritò Thomas.

«Prima cosa, modera i toni: stiamo solo avendo una discussione tranquilla e non mi sembra di star mancandoti di rispetto, per cui tu non farlo con me».
Thomas si chiese perché quel professore era l'unico che riuscisse a metterlo in soggezione, mentre borbottava uno "scusi" tra i denti.

«Seconda cosa: il fatto che ti preoccupi di non avere brutti voti è positivo, significa che ci tieni» e lo fissò con uno sguardo penetrante, come se volesse leggergli dentro. «Ma hai delle difficoltà, e credo abbastanza grosse, giusto?»
Thomas annuì riluttante.

«Beh, allora perché non partecipi a delle lezioni extra? Di sicuro ci sarà qualche professore disposto a restare a scuola per aiutarti, ne sono certo».

«Con tutto il rispetto, professore, non ho la minima intenzione di restare a scuola oltre l'orario prestabilito, soprattutto se si tratta di studiare una materia che odio». Thomas lo guardò truce.

«E allora potresti chiedere a qualche studente; magari potreste incontrarvi e studiare insieme, può darsi che un ambiente non scolastico e più personale potrebbe aiutarti, che dici?»
Alla mancata risposta del ragazzo, proseguì: «Guarda, nella classe in cui insegno c'è un alunno che è davvero molto bravo, non ha alcuna difficoltà nella materia e potrebbe darti una mano. Se vuoi, potrei chiedergli di mettersi in contat–»

«No, grazie», lo interruppe Thomas bruscamente, estremamente irritato. «Non ho bisogno di aiuto, non lo voglio neanche! Perché si sente in dovere di appiopparmi a qualcuno per farmi imparare la sua materia?! Insomma, non è neanche un mio professore! Perché le interessa tanto? Non resterò a scuola un secondo in più del necessario e non sprecherò il mio tempo con qualche suo alunno secchione». Thomas respirava come se avesse fatto una lunga corsa.

«E ora, se permette, ho un autobus da prendere. Grazie per la chiacchierata».
E si incamminò con rabbia fuori dall'edificio, lasciando il professore scosso a causa della sua irruenza.

E si incamminò con rabbia fuori dall'edificio, lasciando il professore scosso a causa della sua irruenza     

Nuovo capitolo! Spero che la storia stia cominciando a interessarvi. 
È il primo racconto "serio" che scrivo, per cui mi farebbe molto piacere se lasciaste un commento o una recensione per farmi sapere le vostre idee!

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Capitolo 3
*** Pedone ***


Alexander, una volta uscito dall'edificio scolastico, si dirigeva tranquillo verso la fermata dell'autobus. Nel tragitto, camminava con lo sguardo verso l'alto come faceva dal primo giorno in cui aveva messo piede in quella città.
La sua famiglia si era appena trasferita, lui non aveva che quattro o cinque anni, e mentre faceva una passeggiata mano nella mano con i propri genitori, un estraneo li fermò e con un tono gioioso disse loro: «A Chester dovete sempre guardare in alto. Ogni volta troverete qualcosa di nuovo che vi sorprenderà.»
Alexander aveva fatto proprio quel consiglio e lo metteva in pratica anche allora, più di dieci anni dopo.

Superato il McDonald's, si diresse verso Princess Street. Lì c'era un grande largo, con alcune panchine su cui sedersi per aspettare l'arrivo dell'autobus.
Ne scelse una vuota, si infilò le cuffie e fece partire la riproduzione casuale. "Rebel Rebel" di David Bowie cominciò a suonare, e lui si ritrovò a canticchiare le parole a bocca chiusa, seguendo il ritmo.
Amava Bowie, lo ascoltava da quando era piccolo – merito dei suoi genitori, avrebbe dovuto ringraziarli.

Mentre canticchiava il ritornello, si guardò intorno per controllare se l'autobus fosse già arrivato. 
In meno di due secondi questo frenò davanti a lui e, proprio quando stava per salire, una folata di vento alla sua destra gli fece cadere l'auricolare dall'orecchio.

«Cosa cazz...» sussurrò. Non c'era vento quel giorno, cosa poteva essere stato?

Si girò per controllare cosa fosse successo, ma non appena si voltò, davanti a lui vide il petto di un ragazzo, molto più alto di lui, fasciato in una maglia nera.
Il ragazzo respirava affannosamente, come se avesse corso. "Ecco spiegato il vento, quindi", si disse Alexander tra sé e sé.

Ma quando fece per alzare il viso per guardarlo in faccia, il ragazzo gli intimò: «Beh, ti muovi? Non abbiamo tutto il giorno.»

Alexander guardò dietro la figura imponente che era alle sue spalle e notò che effettivamente c'erano altre cinque o sei persone pronte a salire.

«Oh, io...» sussurrò, per poi montare a bordo senza terminare la frase.

Mostrò l'abbonamento al conducente e andò a sedersi su un posto vuoto. Nel frattempo la playlist continuava a suonare, questa volta con un pezzo degli U2.

Mentre si sistemava, lo sconosciuto procedette lungo il corridoio e andò a sedersi nell'ultima fila di posti. 
Alexander lo guardò fin quando lui, sentendosi fissato, non ricambiò lo sguardo; Alexander si girò velocemente verso il finestrino, arrossendo e sperando che non l'avesse notato.
Aveva la sensazione di aver già visto quel ragazzo, ma non riusciva a ricordare dove e in quale occasione.

Comunque, non gli importava più di tanto. Non avrebbe perso la testa per cercare di dare un'identità a uno sconosciuto sull'autobus.

Quindi armeggiò con il telefono per cambiare canzone — gli Oasis non gli andavano quel giorno, preferiva i Suede.

«Scusi, posso sedermi?»

Alexander alzò lo sguardo e si trovò davanti agli occhi una signora dai lunghi capelli biondi che aspettava una risposta.

«Oh, sì, sì, certo», rispose frettolosamente, spostando lo zaino dal sedile accanto a sé sulle proprie gambe, per far posto alla signora. Quanti anni aveva? Cinquanta? Sessanta? Sicuramente meno di settanta, ma non riusciva a capire la sua età con precisione — i suoi capelli lo inducevano in errore.

"Ma che cos'ho oggi?" si chiese stizzito, non capendo perché volesse sapere informazioni su dei completi sconosciuti. Aumentò il volume della canzone al massimo, guardando fuori dal finestrino con aria corrucciata. Dopo qualche minuto la sua espressione si distese, grazie al paesaggio che lo circondava. Amava quella città.

Mentre pensava a tutti i posti che ancora non aveva avuto modo di visitare, si accorse che se non si fosse dato una mossa, avrebbe perso la propria fermata.

«Mi scusi, dovrei...» mormorò alla signora dopo essersi alzato in fretta e furia, e le fece un segno con l'indice per farle capire che aveva bisogno di passare.

Dio, quanto si sentiva stupido. Odiava avere persone sedute accanto a sé sull'autobus.

Comunque riuscì a scendere, non con poco imbarazzo, e cominciò a dirigersi verso casa, sistemandosi lo zaino su entrambe le spalle.

Viveva in un quartiere residenziale, circondato da alberi e cespugli, abbastanza vicino al fiume Dee. Aprì il cancello e si avviò verso la porta, canticchiando una canzone dei Muse.

Abitava in una casa a due piani, con la parte inferiore fatta di mattoni a vista e quella superiore rivestita di bianco.

«Mamma, sono a casa!», urlò. Non ricevendo alcuna risposta, fece un giro di perlustrazione tra le varie stanze del piano terra e, non trovandola, salì le scale per andare al piano superiore. Girò a destra per entrare nella propria camera da letto e trovò la porta socchiusa.

La aprì di colpo e trovò sua madre con la testa nell'armadio, a controllare chissà cosa.

«Mamma!», esclamò, lasciando cadere lo zaino nell'angolo vicino alla porta, davanti ad un cassettone bianco.

Linda Randall si voltò sorpresa. «Ciao, amore. Com'è andata oggi?», gli chiese, dopo essersi avvicinata e avergli scoccato un bacio sulla fronte.

«Bene» Alexander la guardò ostile, sistemandosi i ciuffi di capelli ai lati della fronte. «Che ci fai nel mio armadio, nella mia stanza?»

«Punto primo: non è il tuo armadio e non è la tua stanza. I soldi per comprare questa casa li abbiamo messi io e tuo padre, non tu, tesoro. Sei in ritardo di una decina d'anni» Linda gli sorrise.

«Punto secondo: cercavo di sistemare, hai troppi vestiti! Conservi ancora quelli di quando eri piccolo, che te ne fai?»

Alexander pensò che aveva ragione, ma non gliel'avrebbe data vinta.
«Valore affettivo. E soprattutto, lo sai che non mi piace quando rovisti tra le mie cose! Cosa speri di trovarci di così scandaloso? Stai tranquilla, non fumo e non mi drogo, non troverai niente tra le mie cose.»

Linda lo guardò a metà tra lo scandalizzato ed il colpevole.
«Io veramente–»
«Ehi, non senti anche tu?» la interruppe Alexander. «C'è Amy che ti chiama, va' da lei piuttosto!»

E così dicendo, la accompagnò alla porta mentre Linda poneva poca resistenza.

Voleva bene a sua madre, tanto; tuttavia non sopportava quando si immischiava nelle sue cose private.
Beh, in realtà non tollerava questo comportamento in nessuno, non solo in sua madre. Che poi, cosa sperava di trovare? Erba? Riviste esplicite per adulti? Per i porno c'era internet, sua madre avrebbe dovuto aggiornarsi.

Con un sospiro, si gettò supino sul letto, a braccia spalancate.
A tratti, odiava essere Alexander Randall. Tutti lo dipingevano come il bravo ragazzo, il pupillo dei professori, quello che non fa mai niente di male. In pratica, era il ragazzo perfetto – a questo pensiero, ridacchiò.
Tutto quest'oro intorno a sé, però, lo portava ad essere leggermente escluso dal resto dei suoi coetanei. 
Loro si riunivano sotto l'orologio o nei parchi e fumavano, e non solo sigarette. 
Alexander non capiva perché provocarsi un cancro ai polmoni solo per apparire più in. A questo punto, preferiva di gran lunga restare escluso.

L'unico amico stretto che aveva, si chiamava Paul.
Lui si era appena trasferito e quando iniziò la scuola elementare non conosceva nessuno. Paul fu il primo ad avvicinarsi a lui, e da allora non si erano mai allontanati.

Alexander accese il laptop e, dopo aver avviato Spotify, andò su Facebook. 
C'era un pallino verde accanto al nome di Paul, e ne approfittò per mandargli un messaggio.

Da: Alexander Randall
A: Paul Newman
Ehi, P.
Usciamo?

La risposta dell'amico non si fece attendere. 
Certo, campione. Alle sette a Grosvenor Park. Non farmi aspettare come fai sempre, o prima o poi le prendi.

Alexander sorrise e, dopo aver infilato una felpa, scese di corsa le scale.
«Ma', sto uscendo. Mangio fuori», urlò.
Passò dalla cucina per bere un po' d'acqua e vi trovò la madre intenta a cucinare delle patatine.

«Esci con Paul? Fa freddo, dove vai con solo quella felpa?»
«Ciao! Non so a che ora torno, non aspettarmi!» Alexander la ignorò, le diede un bacio al lato della fronte e rubò una patatina, per poi chiudersi la porta di casa alle spalle.

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Capitolo 4
*** Cavallo ***


Un brivido di freddo gli percorse la schiena e Alexander sospirò per l'ennesima volta.

D'altro canto, non poteva lamentarsi. Era uscito indossando solo una t-shirt ed una felpa, il minimo che potesse fare era alzarsi il cappuccio sulla testa.

E poi, la temperatura di circa dieci gradi che si respirava in Inghilterra ad ottobre era l'ideale per lui– odiava il caldo soffocante. Il freddo invece era perfetto: meglio avere addosso più indumenti che sudare ininterrottamente.

Tuttavia, le basse temperature non erano esattamente ideali quando si doveva aspettare qualcuno.

Alexander stava aspettando Paul da circa dieci minuti –per una volta non era in ritardo, quando si trattava di uscire con l'amico– e ormai stava quasi gelando.

Era fermo davanti all'entrata del parco, in una sorta di piccola salita con la vista sul fiume Dee e sul ponte.

Cercò un punto più riparato, accanto ad un muro costeggiato da alcuni alberi, e si portò le mani davanti alla bocca, soffiandoci sopra per riscaldarle.

Stava maledicendo Paul già da alcuni minuti, quando una presa alle sue spalle fece saltare dei battiti al suo cuore.

«Paul, cazzo!» esclamò, allontanandosi di qualche centimetro dall'amico e riprendendo fiato. «Ti odio».

«Eddai, Alex, sappiamo entrambi che non è vero» gli sorrise l'altro. Con i suoi capelli rossicci e le lentiggini, rappresentava il tipico ragazzo inglese; inoltre, il suo sorriso perenne lo rendeva un raggio di sole anche in un clima freddo come quello.

«Fottiti», rispose Alexander, tirandosi su la cerniera della felpa, nonostante questa fosse già al limite. «Credo di essere congelato, per colpa tua». Lo guardò truce.

«Colpa mia? Andiamo! Sei tu che sei sempre in ritardo e conoscendo la tua estrema puntualità ho deciso che non era il caso di arrivare in orario.»

Alexander sapeva che l'amico aveva ragione, ma non voleva in nessun caso dargliela vinta. 
«A scuola sono puntuale», borbottò, cominciando a incamminarsi verso l'interno del parco.

«Quello è perché sei un secchione, quasi non ti riconosco a scuola», rise Paul, guadagnandosi un'occhiataccia da parte del biondo.

I due erano così intimi che questi battibecchi non potevano intaccare in nessun modo il loro rapporto, che persisteva da più di dieci anni. Ormai erano soliti trattarsi così, ci avevano fatto l'abitudine, e per loro era quasi naturale mandarsi reciprocamente a quel paese.

Camminavano in silenzio lungo le vie del parco, quando Paul parlò.

«E poi, il freddo fa bene alla pelle», comunicò noncurante.

«Che cazzo dici?» rise l'amico, sorpreso da quell'uscita.

«Giuro, l'ho letto da qualche parte. Credimi!» aggiunse, in risposta ad un occhiata scettica da parte dell'altro.

«Mi documenterò», rispose Alexander, scrollando le spalle. «So solo che se avessi dovuto aspettare altri cinque minuti, me ne sarei tornato a casa, e fanculo a te.»

Paul si portò una mano davanti alla bocca con fare sconvolto. «Ma come, pensavo mi amassi!»

Alexander scoppiò a ridere. «Oh, ma sta' zitto. Non sono gay!», esclamò, dando uno spintone all'amico.

Entrarono nel punto principale del parco, e da lì si avviarono lungo una stradina, raggiungendo i piedi di un grande albero di magnolia che li aveva visti crescere.

Infatti, Paul e Alexander erano soliti ritrovarsi sotto quel preciso albero da quando erano piccoli e non lo avevano più abbandonato.

Era il loro rifugio, dove si sentivano riparati dal mondo. Grazie ai lunghi rami dell'albero, potevano vedere tutto ciò che accadeva all'esterno, ma sempre restando in penombra, anche a causa della posizione abbastanza nascosta della pianta. Si sentivano invincibili.

Alexander notò come il parco fosse semideserto a quell'ora e si chiese come mai gli inglesi non uscissero mai dopo una certa ora.
Poi realizzò che forse era a causa del freddo.

«Ah, fanculo, avrei potuto stare a casa», borbottò con il tessuto della felpa sollevato fin sopra la bocca, creando un suono quasi inaudibile, se solo Paul non fosse stato accanto a lui.

Il biondo si stese meglio, posizionando la schiena contro il tronco e piegando le ginocchia davanti a sé, come se fosse rannicchiato, e si strinse le braccia intorno al ventre, strofinandole leggermente.

«Oh, non rompere», lo zittì Paul. «E poi che avresti fatto a casa? I compiti? Ah, no, aspetta, lo so: partitina agli scacchi contro il computer!», esclamò, dopo essersi steso con le braccia sotto la testa, a fargli da cuscino.

«Tanto è un computer, perderesti sicuramente», gli sorrise, dando un pugno sul braccio dell'amico.

«Serve per fare allenamento, idiota». Alexander ricambiò il pugno. «Ah, ma che ne vuoi sapere tu. Piuttosto dimmi, qui che cosa facciamo invece?»

«Beh, qui guardiamo cosa succede.»

E i due si persero ad ammirare il verde che li circondava. Se Paul amava guardare il paesaggio con una visione d'insieme, Alexander, invece, aveva una passione per i dettagli. La concentrazione e lo spirito di osservazione sviluppati grazie agli scacchi facevano sì che si perdesse in ogni minimo particolare.

Notò un lampione che diffondeva luce ad intermittenza– probabilmente la lampadina all'interno era quasi fulminata; notò le insegne con le direzioni, attaccate alla cima di un palo, muoversi leggermente per il vento. Percepì il sibilo di quest'ultimo, così maestoso ma per lui confortevole.

Paul si accese una sigaretta e quando espirò via il fumo, il vento lo trasportò nella direzione di Alexander, che gli lanciò un'occhiataccia. Subito dopo si alzò e andò a sedersi nella stessa posizione di prima, ma alla sinistra dell'amico, borbottando «il fumo uccide».

L'altro ridacchiò, dicendogli che era un modo per riscaldarsi contro il freddo.

Il biondo lo ignorò, scuotendo leggermente la testa, e continuò a guardare intorno a sé.

Qualcosa colpì la sua attenzione.
Un ragazzo seduto su una panchina in una via laterale, proprio sotto al lampione fulminato.
Era vestito completamente di nero e visibile solo perché la luce intermittente gli illuminava il volto.

Era tutto solo, e il biondo si chiese che cosa stesse facendo.

Dopo qualche secondo che lo fissava, Alexander riconobbe in lui il ragazzo del pullman, quel tipo che gli si era rivolto di malo modo solo poche ore prima.

«Cazzo» mormorò tra sé e sé.

«Cosa?» chiese Paul, espirando il fumo.

«Eh?»

«Hai detto "cazzo". Perché?» rise l'amico.

«Ah, io... Non me ne sono accorto».

Per qualche motivo, non voleva dire all'amico dell'episodio accaduto quel pomeriggio e non capiva perché– in fondo, si erano sempre detti tutto.

Tuttavia, Alexander voleva tenere quello sconosciuto per sé, ma era soprattutto curioso di sapere chi fosse, che scuola frequentasse, la musica che ascoltava, perché gli si era rivolto in quel modo.

«Io... Devo andare, Paul. Scusa», comunicò, dopo essersi alzato.

«Di già? Che ore sono?» chiese l'altro, sorpreso.

Alexander controllò il telefono che portava nella tasca posteriore dei jeans blu chiaro. «Le nove meno venti, ma mi sono ricordato che devo fare una cosa.»

«Cosa?» Paul gettò via la sigaretta, dopo averla spenta.

«Ehm... Mi ero scordato che dovevo studiare delle pagine di chimica per giovedì.»

«Tanto vale che venga con te, a questo punto» disse l'altro, alzandosi a sua volta e pulendosi i pantaloni.

«E comunque, sei un secchione del cazzo», mormorò Paul sorridendo e scompigliandoli i capelli, essendo più alto di lui di circa quindici centimetri.

«Stai zitto», gli intimò l'altro.

I due amici si incamminarono, e Alexander decise di percorrere la strada che al lato aveva il lampione rotto.

Quando giunse in prossimità della panchina, andò un po' più avanti, fermandosi alle spalle dello sconosciuto.

Il biondo sbirciò oltre i suoi capelli neri; notò che stava leggendo e si chiese come riuscisse a farlo, con la luce che andava ad intermittenza.

«Avete tanto da fissare?» chiese il ragazzo, con una voce strascicata, senza alzare gli occhi dal libro.

Alexander continuò a guardare il libro e dopo qualche difficoltà riconobbe le parole di Ulisse, libro scritto da Joyce.

Alla mancata risposta, lo sconosciuto girò il busto, fronteggiando così i due ragazzi ma tenendo il segno delle pagine con le dita.
Appena notò il biondo, sollevò un angolo della bocca a formare un sorriso beffardo e alzò il sopracciglio.

Stava per dire qualcosa, quando Paul lo interruppe.
«No, ora ce ne andiamo», e girò i tacchi, facendo voltare Alexander e camminando lungo le vie per uscire dal parco.

«Che cazzo stavi facendo?» chiese Paul all'amico, ridendo.

«Ehm... Stavo vedendo cosa leggeva» mormorò l'altro, con fare abbastanza imbarazzato.

«Mi sembra ovvio, sì» disse il rosso con tono ironico. «Sembravi un allocco, fermo così a guardare quel tipo», lo prese in giro.

Alexander arrossì vagamente e non disse niente, piuttosto si sistemò meglio la felpa e si sbrigò ad uscire dal parco.

Il ragazzo sulla panchina li guardò andare via, ancora con quel sorriso e il sopracciglio alzato. Una volta visti uscire definitivamente dal parco, si voltò di nuovo verso il proprio libro, mormorando un "idiota" tra i denti e riprendendo a leggere dal punto in cui era stato interrotto.

​***

Note dell'autrice: ciao! Sì, sono sempre io e chi altro dovrebbe essere, razza di- Ci stiamo avvicinando alla fine della prima parte del
la storia! Come vi sembra? Vi piace? Lasciate una recensione, mi rendereste felicissima!
Inoltre, avevo pensato ad una sorta di "cast", con i personaggi principali, e ad una copertina. Vi interesserebbe? Fatemi sapere!!
 

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Capitolo 5
*** Alfiere ***


Margaret Amy Randall era una ragazza alquanto socievole. 
Amava intavolare conversazioni, trovare punti di incontro per dialogare pacificamente con tutti, creare nuove amicizie, studiare il modo di esprimersi degli altri.

Era una conversatrice nata. Per lei le parole non avevano segreti; non a caso, nel tempo libero si dilettava nella scrittura, perlopiù di brevi racconti.

Sapeva come affascinare il pubblico, le parole le erano malleabili ed era in grado di mostrare le proprie idee in modo chiaro.

Tuttavia, questa sua grande capacità veniva meno solo in due occasioni.

Il primo caso era quando Amy era in preda a delle emozioni così forti che non riusciva a mettere giù due parole di fila– era una persona estremamente passionale e quando le capitava qualcosa lasciava che i suoi sentimenti la inebriassero e avessero la meglio sulla sua calma, facendo sì che non riuscisse a mettere in ordine le idee.

Il secondo motivo aveva un nome e si chiamava Paul Newman.

Ebbene sì, il bel ragazzo non le era per niente indifferente. Con i suoi capelli rossicci e la sua altezza notevole, era stato la sua prima cotta e continuava ad esserlo anche allora.

Quando cinque anni prima Alexander era rientrato a casa e aveva portato con sé l'amico per presentarlo alla propria famiglia, Amy, che all'epoca aveva solo otto anni, se ne era perdutamente innamorata.

E, puntualmente, non riusciva a spiccicare parola in sua presenza.

In quel momento, Amy sedeva sulle scale che portavano al piano di sopra e che si trovavano proprio di fronte al portone d'ingresso, con un taccuino sulle gambe, il gomito appoggiato contro uno dei sottili cilindri in legno al lato dei gradini e la mano che teneva la penna, il cui tappo veniva mordicchiato dai denti della ragazza.

Amy era consapevole di quanto quel vizio fosse disgustoso, ma non riusciva a perdere questa cattiva abitudine, soprattutto quando non era in grado di mettere per iscritto un'idea che le aveva attraversato la mente.

E così, mentre era altrove, con lo sguardo verso l'alto, a pensare alla giusta parola da usare, non si accorse del rumore delle chiavi inserite nella serratura e della porta che venne aperta subito dopo.

«Ah, ecco la scrittrice».

Amy riconobbe la voce del fratello ma la ignorò, ancora studiando il modo ideale per comporre quella frase.

«Amy? Oh, e rispondi, cazzo!»
Paul sorrise, mentre Alexander la richiamava.

La ragazza strinse gli occhi, sbattendo leggermente la penna alcune volte sulla pagina e facendo una strana smorfia con la bocca.

«Margaret Amy Randall!» 
Il suo nome gridato direttamente nel suo orecchio ebbe il potere di farla trasalire.

«Sei impazzito per caso?» chiese la giovane al fratello dall'altro lato del corrimano, sbattendo ripetutamente le palpebre.

Poi, una veloce occhiata intorno a sé le rivelò la presenza del ragazzo che le piaceva tanto e che si trovava in piedi proprio davanti a lei.

E, prevedibilmente, le sue guance si imporporarono.

Alexander, che era a conoscenza della cotta della sorella per il proprio amico, sogghignò a quella visione.

Era l'unico punto debole di Amy su cui poteva far leva, visto che a causa del proprio carattere mite spesso veniva eclissato dalla solare ragazza.

«Avanti, su, vai di sopra.»

«Ma io sto scrivendo!» protestò debolmente la sorella.

Paul, che fino a quel momento era rimasto in silenzio ad osservare la scena con un sorriso sulle labbra, intervenne. «Cosa scrivi oggi, Amy?»

Il viso della ragazza assunse una tonalità di rosso ancora più intensa.

«Beh, ecco, io... Stavo pensando... Insomma...»
E si assestò mentalmente uno schiaffo sulla fronte, dandosi dell'imbranata.

«Sì, ecco, pensa di sopra, visto che la pagina è ancora bianca». Alexander sbirciò il taccuino della sorella.

«Ma–»

«Alexander, Amy, non litigate! E ciao, Paul», la voce della madre li interruppe dal salotto.

«Buona sera, signori» la salutò il rosso rivolto verso la stanza in cui si trovavano Frank e Linda Randall, che ormai poteva considerare come una seconda coppia di genitori.
«Alex, fa niente, Amy potrebbe anche restare».

La ragazzina pensò che il proprio nome detto dalle labbra del giovane fosse il suono più bello del mondo, e poi si riscosse.

«Oh, no, no, io... Vado.»

Dopo aver mormorato ciò, raccolse velocemente il taccuino dalle gambe, per poi alzarsi e correre di sopra.

Alexander scoppiò a ridere, divertito.

«Sei proprio uno stronzo con tua sorella» gli sussurrò l'amico all'orecchio sorridendo, il che provocò una risata ancora più forte da parte del biondo.

Oh, se solo Paul avesse saputo, pensò andando verso la cucina.

«Coca Cola?», gli offrì una lattina che fu accettata di buon grado dal rosso, e poi ne prese una per sé.

I due si appoggiarono così ai mobili, sorseggiando in silenzio le bevande.

«Giovedì prossimo gioco con Josh Moore» prese parola il biondo dopo qualche minuto.

«Davvero?» si interessò subito Paul, consapevole dei comportamenti non proprio educati del ragazzo, soprattutto nei confronti di Alexander.

«Sì» sospirò il biondo. «Mr. Sparks dice che oggi siamo stati i migliori e quindi la prossima settimana giocheremo insieme. Non vedo l'ora», sbuffò con ironia.

«Cazzo. Beh, fagli il culo, mi raccomando», l'amico cercò di risollevargli l'umore.

«Sarà fatto, ovviamente» Alexander si pavoneggiò, sorridendo.

«E cerca di non essere così modesto» lo prese in girò l'altro, per poi cambiare argomento. «Comunque si vocifera che Daniel Reeves stia organizzando una festa di Halloween coi fiocchi.»

Il biondo sollevò un sopracciglio. Non era un grande amante delle feste e dei luoghi affollati. 
«Di già?! Siamo a inizio ottobre!»

«Lo so. Pare voglia fare le cose in grande stavolta.»

«Mi chiedo a chi piaccia davvero stare chiuso in una casa, con la musica che gli martella nelle orecchie, senza possibilità di muoversi e con la probabilità che il proprio drink venga drogato» sputò velenoso, per poi prendere un sorso dalla lattina.

Paul alzò le spalle, come per dire "non dirlo a me". 
Poi finì la propria Coca Cola e gettò il contenitore nel cestino della spazzatura, muovendosi con tranquillità in quella casa che conosceva come le sue tasche.

«Beh, io vado. Credo di dover ancora finire di studiare storia» sorrise.
«A domani. Buonanotte, signori!» e si chiuse la porta alle spalle, dopo che i genitori dell'amico l'ebbero salutato.

Alexander svuotò a sua volta la lattina e la gettò, per poi salire in camera propria.

Stava controllando l'orario sullo smartphone e si girò per chiudere la porta.

Quando si voltò di nuovo, per poco non gli venne un colpo.

«Amy! Che vuoi?» le chiese dopo l'iniziale spavento.

La sorella era seduta ai piedi del suo letto, con le braccia incrociate e un cipiglio sul viso. E lo guardava dritto in faccia.

«La devi smettere!» gli intimò con uno sguardo minaccioso.

Alexander sbatté le palpebre, estremamente spaesato. «Di fare che?»

«Lo sai benissimo che cosa hai fatto! Non fare il finto tonto!»

«Io non so proprio un bel nie– Aspetta, è per Paul?» indagò, di colpo divertito.

La sorella non lo degnò di una risposta, limitandosi a guardarlo torva.

«Beh, che c'è? Sei tu che sei innamorata di lui» le sorrise.

Ancora, non ricevette una risposta.

«Senti, io non posso farci niente se tu non gli parli! Non è colpa mia se le rotelline in quel cervello che ti ritrovi non girano nel verso giusto!»

Finalmente, la sorella parlò. «Certo, ma potresti almeno evitare di farmi fare brutte figure!»

«Ah sì? Tipo?» le chiese il fratello allegro.

«Tipo trattarmi da bambina e dire che non ho scritto niente!» gli rispose piccata. «E comunque il mio cervello funziona benissimo! E non ridere!» Mancava poco che sbattesse i piedi a terra.

Alexander si avvicinò alla scrivania, dove aveva lasciato il computer.

«E dov'è il problema? Tu sei una bambina e non avevi davvero scritto niente!» E fece per accedere il laptop.

«Io non sono una bambina! Ho tredici anni!» Sentì la voce di Amy, che nel frattempo si era alzata dal letto e lo stava guardando furente.

«Hai ragione, grande donna, scusami. Mi perdoni?» E si voltò verso la giovane, sorridendole.

Lei fece un piccolo broncio, per poi avvicinarsi a lui e abbracciarlo. «Sei cattivo» brontolò contro la sua maglietta.

«No, sono solo più grande di te» le disse divertito.

Per tutta risposta, Amy gli tirò un pugno sul ventre.

Alexander scoppiò a ridere. Nonostante fosse insopportabile, romantica e troppo espansiva, voleva bene alla sorella.

«Ascolta, io devo mettermi a letto. Che dici, vai a dormire?»

Amy annuì, ancora contro il tessuto della maglia del ragazzo.

«Allora dai, vai in camera tua» e le accarezzò i capelli biondi come i propri.

Mentre la sorella raggiungeva l'uscita della stanza, Alexander parlò di nuovo.

«Buonanotte. E mi raccomando, sogna Paul!», al ché lei si sbatté la porta alle spalle facendo un verso stizzito, provocando l'ennesima risata da parte del ragazzo.

Ancora con il sorriso sulle labbra, si avvicinò alla scrivania. Andò su Internet, per poi connettersi a Facebook, mentre cominciava a spogliarsi.

Subito gli apparve la home, contenente i post e le foto delle persone con cui condivideva l'amicizia.

Dopo qualche minuto in cui scorse verso il basso senza impegno, digitò nella barra di ricerca Daniel Reeves e mentre aspettava che i primi risultati fossero mostrati, si infilò la maglia grigia che usava per la notte.

Cliccò sul profilo di un ragazzo dai ricci scuri e notò gli oltre tremila amici. «Deve essere sicuramente lui», mormorò, per poi vedere la sua galleria fotografica.

C'erano un sacco di foto con diverse ragazze, accompagnate da didascalie tipiche del classico fuckboy, a dimostrazione del fatto che Daniel se le portasse tutte a letto per poi scaricarle.

Altre immagini mostravano lui con i suoi amici, e in alcune si trovavano ad una festa. Alexander suppose che l'avesse organizzata lui stesso.

Poi si soffermò su una in particolare, datata al 28 agosto di quello stesso anno.

Sullo sfondo c'era un groviglio di corpi che ballavano, illuminati da luci verdi e rosa; in primo piano, invece, c'era Daniel con un drink in mano, mentre con l'altro braccio circondava le spalle di un altro ragazzo, che aveva alzato il proprio bicchiere verso la fotocamera, come in segno di brindisi.

Anche i due ragazzi erano illuminati dalle luci colorate, ma Daniel era ben riconoscibile a causa dei suoi ricci.

Alexander, però, ebbe qualche difficoltà a riconoscere l'altro, ma quando lo fece, sollevò le sopracciglia con uno sguardo sorpreso.

Era il ragazzo del pullman. Quello che aveva incontrato quella sera stessa a Grosvenor Park.

Senza emettere fiato, cliccò sulla foto e gli comparve il nome del ragazzo misterioso.

Thomas Harris.

Alexander lo ripeté sottovoce. Sentì come la lingua sbatté contro l'arcata dentale superiore all'inizio, come le labbra si chiusero subito dopo, come la scivolò sinuosa tra i denti. Sentì come la bocca si apriva, notò come la fosse aspra ma al tempo stesso delicata, e apprezzò come nome e cognome finissero con la stessa lettera.

Poi realizzò cosa stesse facendo e le guance gli si tinsero di rosso, come se il ragazzo potesse guardarlo mentre mormorava il suo nome. Si vergognava tantissimo.

Immediatamente, chiuse la scheda e spense il computer, per poi ficcarsi sotto le coperte.

Alzò il volume dello smartphone per sentire bene la sveglia l'indomani, lo appoggiò sul comodino accanto al letto e chiuse gli occhi.

Tuttavia, non riuscì ad addormentarsi subito, e per questo si girò più e più volte tra le lenzuola per trovare la giusta posizione.

Fu accolto tra le sue braccia di Morfeo solo alcune ore dopo, mentre nella sua mente comparivano delle immagini sconnesse di autobus e luci colorate.

Fu accolto tra le sue braccia di Morfeo solo alcune ore dopo, mentre nella sua mente comparivano delle immagini sconnesse di autobus e luci colorate     

Note dell'autrice: nuovo capitolo! Qui conosciamo Amy,  la sorellina di Alexander.
È un po' più lungo degli altri, e spero che con questo mi sia fatta perdonare per non aver pubblicato ieri: purtroppo sono stata abbastanza impegnata e non ho avuto il tempo di finire il capitolo.
Altra cosa: la lunghezza dei capitoli va bene? O li preferite più lunghi o più corti?
Come sempre, lasciate una recensione se la storia vi sta piacendo! <3

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Capitolo 6
*** Torre ***


«Alex, amore, svegliati!»

«Mh...» mormorò questo, voltandosi verso l'altro lato.

«Andiamo, su, o farai tardi.» La voce pacata di sua madre, dalle scale, continuava a molestare il suo beato riposo.

«Alexander Damarion Randall!» 
Il ragazzo si destò di colpo con gli occhi iniettati di sangue.

Alla sua sinistra, ad un passo dal suo orecchio, la sorella, che gli sorrideva angelica. «Ben svegliato, fiorellino. Lo sapevi che sarebbe successo questo, quando hai avuto la tua geniale idea ieri.»

«Oh, stai zitta, Amy» mormorò lui, mettendo la testa sotto al cuscino e richiudendo gli occhi.

«Eh, no, caro mio» e con un solo gesto lo liberò delle coperte.

«Ma ti ha dato di volta il cervello?!» Il ragazzo si alzò dal letto furioso.
Lei continuava a sorridere come se nulla fosse. 
«"Margaret Amy Randall!"» imitò la voce del fratello. «Ti dice niente, fratellino?»

Lui assottigliò gli occhi. «Sai una cosa, sorellina? Fottiti.» Detto ciò, la spinse fuori dalla stanza.

Sospirò, spossato da quel risveglio traumatizzante. Certo che i loro genitori avevano proprio dei pessimi gusti, in fatto di nomi.

Prese dei vestiti a caso e cominciò a indossarli, mentre scendeva in cucina per fare colazione.

Seduto al tavolo circolare c'era già suo padre, impeccabile nella sua camicia bianca, mentre leggeva il giornale.
Lo salutò senza alzare lo sguardo da questo.

«'Giorno, pa'» rispose lui, avvicinandosi al frigo per prendere la bottiglia del latte.

Non appena si voltò, vide sua sorella scendere le scale già vestita, con una parte dei capelli raccolta dietro la testa e il resto che scendeva libero.
A quella vista, strinse la presa sul contenitore, per poi andare a sedersi a sua volta, assicurandosi di lasciare una sedia di distanza tra lui ed Amy.

La madre portò a tavola dei pancake, segno delle loro origini americane, e li distribuì nei piatti.

«Non volevi svegliarti, amore?» sorrise ad Alexander, che per tutta risposta lanciò uno sguardo assassino alla sorella.

Fecero colazione in silenzio: per il biondo era fondamentale bere il suo caffè macchiato di latte in tranquillità, accompagnato dal gusto formidabile dei pancake.

Mentre Frank Randall commentava le notizie di sport che leggeva, Alexander fece vagare lo sguardo per la stanza, fino a posarlo sull'orologio a muro appeso proprio al lato della porta.

Cazzo, era tardissimo.

Finì di mangiare i suoi pancake in un boccone, per poi alzarsi velocemente e portare il piatto e la tazza usata nel lavabo.
«È tardi, è tardi» mormorava nel frattempo, e quando la madre gli disse che erano solo le sette e trenta, lui rispose che doveva aiutare Paul, affrettandosi ancora di più e correndo di sopra, nel bagno.

Ecco, effettivamente l'amico aveva bisogno di aiuto a scuola, ma non era quello il motivo per cui avrebbero dovuto incontrarsi prima quel giorno.

Mentre era intento a lavarsi i denti con una mano e a cercare di sistemare i capelli con l'altra, il display del suo telefono si illuminò.

PaulMa dove sei???
PaulAlex
PaulDove cazzo sei finito?
PaulDatti una mossa
PaulIdiota, non ti aspettiamo!

Sputò il dentifricio nel lavandino, corse in camera a prendere lo zaino e poi scese di fretta le scale, il tutto mentre cercava di rispondere alle decine di messaggi che l'amico gli stava inviando.

Una volta uscito di casa, intraprese una corsa contro il tempo per giungere alla fermata del bus in orario– proprio lui che odiava correre.

Quando arrivò, trovò Paul che con qualche stratagemma era riuscito a far attendere l'autista per qualche minuto e che, non appena lo vide, gli sillabò un "muoviti" tra i denti, per poi salire e andare a sedersi.

Alexander lo seguì ancora col fiatone e, quando trovò un posto libero, vi si lasciò cadere, portandosi una mano al petto per calmarsi.

«Cazzo» mormorò tra un respiro e l'altro, con gli occhi chiusi e la fronte madida di sudore.

«Puoi ben dirlo» rispose l'amico, seduto sul posto opposto al duo. «Se non fossi arrivato entro cinque secondi, avrei fatto partire l'autista senza di te. Ancora non capisco come abbia potuto dare retta alle cazzate che stavo dicendo e aspettare.»

«Paul Newman, in questo momento posso dirlo: sai essere un grandissimo stronzo, ma ti amo alla follia. Non so come avrei fatto altrimenti.»

L'amico ghignò. «Finalmente l'hai ammesso a te stesso. Complimenti, ti ci è voluto un po'.»

«Sei un idiota! Ma penso che oggi potrò sorvolare sulle tue grandissime mancanze.»

Paul roteò gli occhi. «E comunque non interessa solo a te. Sai, anche io sono appassionato di film, nel caso ti sia sfuggito.»

I due continuarono a punzecchiarsi fin quando non dovettero scendere alla fermata precedente a quella davanti alla scuola.

Una volta saltato l'ultimo gradino, come facevano sempre –abitudine presa da quando erano bambini–, si ritrovarono davanti a un piccolo negozio dall'insegna gialla. 
Le lettere colorate di un rosso scuro andavano a formare la scritta Film City, rivisitazione del titolo del famoso film di Tarantino.

I due erano da sempre grandi appassionati di pellicole e potevano vantarsi di una vasta cultura cinematografica.

Qualche giorno prima, erano venuti a conoscenza del negozio per puro caso e, una volta scoperto che era aperto già dalle otto, decidere di andare a dare un'occhiata non era stata affatto una scelta sofferta.

I due amici si guardarono con gli occhi che brillavano, emozionati come non mai. Sentivano che avrebbero trascorso un bel po' di tempo, lì dentro, e le loro aspettative erano molto alte.

Entrarono in punta di piedi, guardandosi attorno.
Era un locale abbastanza piccolo, con muri rosso scuro e due file di scaffali bianchi che dividevano la stanza in vari corridoi.

Sui ripiani, sulle mensole alle pareti: dappertutto c'erano dei DVD, divisi per genere.
Le pareti erano tappezzate di locandine. Al centro del lato sinistro troneggiava quella di Pulp Fiction, i cui colori si abbinavano a quelli del negozio.

Ai due ragazzi sembrava di essere tornati negli anni novanta. Non riuscivano a credere che nella loro città esistesse un posto del genere, che sembrava quasi fuori dallo spazio e dal tempo.

Alexander vagava senza meta tra gli scaffali con tutta la tranquillità del mondo, toccando tutto ciò che poteva e passando l'indice sui vari titoli, mentre scorreva da un punto all'altro.

Ad un certo punto, Paul lo vide lanciare un'occhiata in basso e sbiancare.

«Paul, non vorrei allarmarti, ma...» sussurrò guardandolo fisso negli occhi. «Sono quasi le otto e venti.» Era pallido come un cencio.

«Che cosa?!» strillò lui, guadagnandosi un'occhiataccia dal proprietario del negozio.
Quel giorno, proprio alla prima ora, avevano la verifica di storia e non potevano permettersi di arrivare in ritardo.

E così i due lasciarono immediatamente il negozio –giurando nel proprio cuore che ci sarebbero ritornati al più presto– e intrapresero una folle corsa verso la scuola, che distava qualche isolato da lì.

Paul, da sempre più agile e complici anche le sue gambe lunghe, entrò per primo nell'edificio e si diresse verso la 4°B. Era in ritardo di soli cinque minuti.

Alexander, invece, odiava correre con tutto se stesso. Sudava, i capelli gli si appiccicavano alla fronte, la milza gli doleva in un modo assurdo, non riusciva a respirare correttamente e aveva sempre il timore di posare male un piede a terra e cadere, rompendosi l'osso del collo.

Ecco perché amava fare le cose con calma, prendendosi il suo tempo e restando tranquillo– e soprattutto con tutte le ossa al loro posto.

A quanto pare, però, qualcuno ai piani alti non era d'accordo.

Mentre si affrettava a salire i cinque gradini all'entrata, inciampò sull'ultimo, scontrandosi contro un'altra persona che come lui stava correndo all'interno, qualche centimetro più avanti.

Cadendo, si portò l'ignoto ritardatario appresso e i due rotolarono per qualche metro.

Alexander aprì gli occhi che aveva chiuso per la paura e capì di trovarsi completamente, terribilmente, orribilmente spalmato sul famoso sconosciuto del giorno prima.

Lo guardò negli occhi per una frazione di secondo: aveva dei piccoli ma affascinanti occhi castani, che in quel momento lo stavano guardando ostili.

Alexander si ridestò dai suoi pensieri –quegli occhi non erano assolutamente affascinanti, si ripeteva nella mente– per poi saltare in piedi e aggiustarsi i vestiti.

Doveva scusarsi?
Beh, decisamente. Gli sei praticamente saltato addosso.
Ma non era stato volontario!
In ogni caso gli eri spalmato sopra, e il ragazzo non sembrava molto contento della cosa.
A dir la verità, sembrava proprio che lo detestasse. Un motivo in più per scusarsi.
Scusati!

Il biondo scosse la testa come per riordinare i pensieri e poi si passò una mano tra i capelli.
«Io... Scusami. Stai bene?»

«Meravigliosamente» rispose l'altro, fissandolo dritto negli occhi blu, con un sopracciglio sollevato.

Ad Alexander non sfuggì l'ironia. «Senti, mi dispiace, ero in ritardo, non ti avevo visto e...»

«Ecco, appunto. Non eri in ritardo? Vai in classe.»

Il biondo lo guardò ancora per qualche secondo, per poi voltarsi e ricominciare a correre –prima piano, poi sempre più veloce– verso la propria classe.

Thomas lo guardò allontanarsi, con una mano sulla fascia dello zaino che portava su una spalla sola.

Quando lo vide svoltare l'angolo, cominciò a dirigersi tranquillo verso la propria classe, nella direzione opposta.

Note dell'autrice: come sempre, se la storia vi piace, lasciate una recensione!

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Capitolo 7
*** Regina ***


Quanto mancava alle quindici?

Alexander aveva il gomito sinistro appoggiato sul banco e il braccio che sorreggeva la testa. Era seduto rigorosamente al primo banco.

Era l'ultima ora di lezione: storia. Gli piaceva quella materia; permetteva di capire le proprie origini, il modo in cui le persone e la mentalità si trasformano nel corso dei secoli. Studiare la storia serviva a non ripetere più certi sbagli.

Buffo, pensò Alexander, per tutto ciò che ne poteva sapere, lui stesso avrebbe potuto essere un discendente di un guerriero sassone vissuto anni prima di Cristo. Avrebbe potuto avere lontani legami con Enrico VIII, anche se quell'idea non gli aggradava molto – non aveva in simpatia l'antico re.

«Bene, ragazzi, per la prossima volta studiate le pagine che ho spiegato oggi, quelle riguardanti il romanticismo». Le parole della professoressa lo ridestarono.

Gli piaceva imparare, era un ragazzo estremamente curioso ed aveva sempre fame di conoscenza. Tuttavia, detestava studiare per ricevere dei voti.

Alexander era convinto che tutto ciò che studiava dovesse rimanere sempre impresso nella sua mente. Studiare argomenti solo per avere voti alti in un'interrogazione o in una verifica non era la giusta motivazione per imparare.

Paradossalmente, però, era uno dei più bravi, nella sua classe.
I suoi voti erano buoni perché i professori riconoscevano la passione che impiegava per studiare i vari argomenti, nonostante alcuni di questi non fossero i suoi preferiti.

E poi sì, gli piaceva avere gratificazioni: lo facevano sentire apprezzato.
Per uno come lui, che credeva di non avere grandi capacità – non sapeva suonare uno strumento, non era capace di disegnare, per non parlare dello sport –, la scuola era l'unico modo per dimostrare di valere qualcosa. E così si impegnava più di tutti, anche nelle materie che non gli piacevano.

Finalmente la campanella suonò e lui si affrettò a mettere a posto il libro e il borsellino. Aspettò che Paul lo raggiungesse, dal suo posto in penultima fila, e insieme si diressero fuori dalla classe, dopo aver salutato la professoressa.

Ma una voce all'esterno dell'aula improvvisamente li fece arrestare. «Alexander, potresti aspettare, per favore?»

I due si voltarono, riconoscendo la voce profonda di Mr. Davies, il loro insegnante di matematica.

«Oh, sì, ma certo.»

«Io vado?» chiese il rosso, confuso.

«Paul, è questione di alcuni minuti; se vuoi, puoi aspettare il tuo amico» rispose l'uomo, per poi rivolgersi al biondo. «Alexander, seguimi nel mio ufficio.»

Il ragazzo, mentre camminava dietro al professore, lanciò uno sguardo all'amico, con cui mostrò una vaga preoccupazione.
Per tutta risposta, Paul si limitò ad alzare le spalle. Di grande aiuto, pensò Alexander.

Finalmente i due giunsero appena fuori dall'ufficio dell'insegnante e quest'ultimo, proprio davanti alla porta, lanciò uno strano sguardo al suo alunno.
Per qualche motivo, questo fece aumentare la tensione che il ragazzo sentiva all'altezza dello stomaco, anche se non capiva il perché.

Il professore portò avanti una mano e spostò verso il basso la maniglia, indicando poi al biondo di entrare prima di lui.

Alexander camminò lentamente all'interno con la testa chinata, ma quando la sollevò, non riuscì a credere ai propri occhi.

Appollaiato bellamente su una delle due poltroncine di fronte alla scrivania, con le gambe appoggiate al tavolo davanti a lui e intento a leggere un libro, c'era il suo sconosciuto.
Arrossì a quel pensiero e scosse la testa come per cacciarlo via – quel tipo non era assolutamente il suo sconosciuto.

Mosse qualche passo in avanti, schiarendosi la gola e si sedette sull'altra poltroncina libera, alla destra del ragazzo. Subito incrociò le braccia, come per proteggersi, e mentre fece per aprire la bocca per chiedere perché si trovasse lì, Mr. Davies lo precedette.

«Thomas, sarebbe gradito se togliessi le tue scarpe dalla mia scrivania» lo apostrofò ironico, accompagnando il tutto da un'occhiata gelida. L'altro alzò lo sguardo dalle pagine e molto lentamente, con fare svogliato, si sistemò composto sulla sedia, per poi chiudere il libro di scatto.

«Sarà meglio che questa pagliacciata finisca presto» lo sentì mormorare il ragazzo affianco.

«Allora, Alexander, sicuramente ti starai chiedendo perché sei qui» il professore rivolse la sua attenzione al biondo, che non rispose subito, impegnato com'era a studiare Thomas.

«Oh, beh, sì» disse dopo qualche secondo, ridestandosi e volgendo lo sguardo verso il professore.

«Vedi, lui è Thomas Harris. Frequenta la sezione B e vorrebbe ricevere un aiuto in matematica». Notando che nessuno dei due alunni rispondeva – Thomas annoiato, Alexander con gli occhi stranamente sgranati –, proseguì. «Gli ho proposto il tuo nome perché sei uno degli alunni più brillanti a cui io abbia insegnato. Ti andrebbe di dargli una mano?»

Il biondo arrossì, mentre Thomas roteava gli occhi.

Alexander era sicuro di non stare molto simpatico all'altro ragazzo, anzi. Notava che, ogni volta che era in sua presenza, il moro era irritato come non mai, e non ne capiva il perché.

Prima di dare una risposta al professore, riflesse velocemente. Era impegnato con gli scacchi – quello era il suo ultimo anno e doveva vincere a tutti i costi. E poi, era già abbastanza timido di per sé: non gli andava di avere a che fare con un ragazzo dai modi scorbutici e che lo metteva terribilmente in soggezione.

«Beh?» lo richiamò Thomas, non degnandolo di un'occhiata, preso com'era a fissare un punto nel vuoto. Fu subito zittito dallo sguardo di Mr. Davies.

Dannato professore e dannato secchione, pensò stizzito. Non voleva trovarsi lì, ad elemosinare l'aiuto di quel tipo strano. Tuttavia, non poteva continuare con quei voti da schifo in una materia così importante.

«Ecco, io...» prese parola Alexander «non sono sicuro che sia una buona idea.»

Il moro lo guardò per la prima volta da quando il secchione aveva messo piede nella stanza, corrugando le sopracciglia.
La stessa espressione fu assunta dal professore.

«Posso chiederti perché?»

Le guance del biondo si tinsero di un tenue color rosso.
«Ehm... Beh, sono molto impegnato, anche con progetti scolastici, e poi devo studiare tanto, il che mi occupa molto tempo, per cui–»

Fu interrotto da uno sbuffo del ragazzo accanto a sé, e Alexander lo guardò storto. Quegli atteggiamenti gli stavano dando veramente ai nervi.

«Beh, direi che è comprensibile. Metti sempre lo studio al primo posto, in effetti sarebbe difficile mantenere i tuoi voti e allo stesso tempo fare da tutor a Thomas». Il biondo sorrise vittorioso, ma solo nella propria mente, perché in realtà assunse un'espressione quasi dispiaciuta. Quasi.

«Bene, Thomas, mi sa che dovrai arrangiarti da solo, oppure potresti chiedere a qualche altro alunno–»

Il moro si alzò improvvisamente. «Non ce n'è bisogno, grazie. Faccio da me», il tono intriso di sarcasmo.

«Posso andare, ora?»

«Sì, certo. Buona giornata.»

E senza rispondere, Thomas si chiuse – o meglio, sbatté – la porta alle spalle.

Per tutto il tempo, Alexander era rimasto in silenzio, non osando guardare il moro direttamente in faccia. Si sentiva intimorito in sua presenza e non sopportava tutto ciò.

Fu l'improvviso rumore sordo della porta che si chiudeva a ridestarlo dai suoi pensieri.

«Che ragazzo...» borbottò Mr. Davies a mezza voce. «Alexander, ti chiedo scusa se ti ho fatto perdere del tempo prezioso, puoi tornare a casa con il tuo amico.»

Il ragazzo si alzò lentamente e, dopo aver salutato il professore, si diresse verso la porta.

Non appena la chiuse dietro di sé, notò Thomas poggiato alla parete opposta, con le braccia incrociate e lo sguardo fisso davanti a sé, in evidente attesa.
Lo guardò per qualche secondo, chiedendosi cosa stesse facendo, e in seguito si avviò verso il punto in cui aveva lasciato Paul.

Poi, tutto a un tratto, sentì una mano che, senza dargli il tempo di reagire, lo prese per un braccio e lo trascinò in un corridoio lì vicino, sbattendolo al muro senza tanti complimenti.

Alexander sgranò gli occhi.

«Allora, ragazzino, fai molta attenzione a ciò che sto per dirti. Non sono uno che prega, per cui te lo chiederò solo una volta». Thomas era lì davanti a lui, con le mani in tasca, e lo guardava dritto negli occhi.

«Ho bisogno di una mano, e tu mi sembri il tipo giusto per aiutarmi. A quanto dice quel professore, sei il migliore alunno mai esistito» e alzò un sopracciglio ironico.

«Io non...» cercò di protestare Alexander, ma fu subito interrotto.

«Fammi finire. Io voglio solo il meglio, e il meglio, in questa situazione, sei tu – paradossale, direi. Per cui, tu mi aiuterai». Dicendo queste parole, si era avvicinato pericolosamente all'altro, che aveva stretto le palpebre e socchiuso la bocca.

Il biondo non seppe da dove tirò fuori il coraggio, ma, ancora con gli occhi chiusi, contrastò le parole del ragazzo che si ergeva davanti a sé.

«Io... Non posso» e aprì lentamente gli occhi. Il petto del moro gli si parava davanti, e fu costretto ad alzare la testa per guardarlo, seppur molto timoroso.

«Tu cosa?» Thomas aveva assunto un'espressione minacciosa.

«Non posso, non lo farò. Chiedi a qualche professore, di sicuro saprà spiegarti meglio di quanto potrei fare io». Alexander si preparò a ricevere un bel pugno nello stomaco, nel migliore dei casi.

Il moro fece per aprire la bocca, ma una voce lo interruppe.

«Alex, ma dove ti eri cacciato?» Thomas guardò quel tipo dai capelli rossi con uno sguardo che avrebbe fatto rabbrividire chiunque.

«Paul, ehm...» e il biondo ne approfittò per allontanarsi di qualche passo dal moro.

«Sbrigati, dai. Mia madre è venuta a prenderci». E senza aspettare una risposta, poggiò una mano fra le scapole di Alexander e lo accompagnò verso l'uscita.

Il biondo non osava voltarsi indietro e, mentre scendeva i gradini, pensava che aveva fatto bene a togliere di mezzo quel ragazzo prima che creasse problemi, a non lasciarlo entrare nella sua vita. Ringraziò mentalmente Paul per l'aiuto che gli aveva fornito, seppur inconsapevolmente.

E così, sovrappensiero, entrò nell'auto della madre dell'amico, per poi portarsi una mano sullo stesso punto del braccio che Thomas aveva stretto.

Note dell'autrice: non aggiorno da un sacco, che schifo. A mia discolpa, posso dire che questo è il penultimo capitolo della prima parte della storia e che la seconda durerà circa il doppio di questa. Che ne dite?
E poi, vi è piaciuto il capitolo? Se lasciaste una recensione, ne sarei felicissima! <3

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