Dark Minds

di _Nimphadora_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Goldentree Hall ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Adam ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Goldentree Hall ***





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Ravenfield era una piccola cittadina circondata da boschi di aceri, situata nella contea di St. Clair, Illinois.

Quel tipo di città in cui si conoscono tutti e in cui all'apparenza non ci sono segreti che la moglie del panettiere non possa svelarti.

Un bel cambiamento per chi come Lilith Burke veniva da Chicago ed era abituato a passare inosservato tra le luci e i rumori di una grande città.

 

Inutile dire che se fosse stato per lei non si sarebbe mai trasferita. Aveva altri progetti, altre cose che l'aspettavano. Ma non aveva scelta. 

Tutto era andato in pezzi quattro mesi prima, il primo aprile del 2017.

Il giorno in cui aveva perso tutto.

 

Così ora era in viaggio verso quella cittadina dimenticata da Dio, con solo due valige al seguito e la voglia che quel dannato treno non si fermasse mai. Che non arrivasse. 

Che continuasse ad avanzare all'infinito.

 

Odiava il fatto di avere ancora diciassette anni. Tra pochi mesi ne avrebbe compiuti diciotto, ma per la legge era ancora una minore e quindi necessitava di un tutore. 

 

C'era voluto tempo per trovare qualcuno, per gli assistenti sociali Lilith era stata una vera e propria gatta da pelare. Dopo quello che era successo la sua era una situazione delicata. Poi dal nulla erano sbucati dei documenti firmati dai sui genitori.

Degli strani documenti.

Nell'esigua eredità che le avevano lasciato, seicento dollari e la vecchia auto di papà, figurava anche una lettera.

Era curiosa e breve.

In poche parole vi era scritto che nel caso fosse successo loro qualcosa Lilith doveva essere affidata ad Arthur Honeycutt, loro fidato amico. 

Quasi come se sapessero che...

 

Non avevano parenti, e Lilith non aveva mai sentito quel nome in tutta la sua vita. 

Di certo nemmeno Honeycutt sembrava entusiasta della cosa. Ha tenuto trattative con gli agenti sociali per più di un mese prima  di accettarla in casa sua.

 

Lilith non ne fu ferita. Dopotutto era una completa estranea, una grana che ti capita all'improvviso e non sai come gestire. Probabilmente anche lei avrebbe avuto le stesse remore. Soprattutto visto che tutti la consideravano la responsabile di quello che era accaduto. Così Lilith aveva venduto l'auto, raccolto tutti i suoi risparmi, ed era partita senza guardarsi indietro.

 

Quando il treno si fermò per Lilith fu come un brusco risveglio. Era stata così presa dai suoi pensieri per tutto il viaggio che a stento si era accorta della partenza.

 

Sospirò pesantemente e chiuse gli occhi.

Respira.

Andrà tutto bene.

Sono solo pochi mesi.

 

Afferrò le maniglie dei due trolley e si fece spazio tra la calca, percorrendo lo stretto corridoio del treno. Quando finalmente riuscì ad uscire fu sorpresa di notare di come la stazione fosse praticamente quasi deserta. Nessun altro scese a quella fermata, lei fu l'unica.

 

Almeno trovare il suo tutore fu abbastanza semplice.

 

Arthur Honeycutt era un'uomo sulla cinquantina, ma decisamente di aspetto gradevole. Aveva i capelli brizzolati, i lineamenti erano fini ed eleganti, ed era di corporatura asciutta.

Indossava un cappotto lungo, di pelle scura, e il collo era avvolto da una spessa sciarpa color senape.

Accanto a lui c'era un ragazzo molto alto, superava Honeycutt di almeno una quindicina di centimetri.

Portava indosso da un completo nero di buona fattura e un paio di guanti in cuoio.

Aveva un incarnato pallido, i capelli  erano lisci, di un biondo cenere, e la frangia gli copriva appena gli occhi chiari. 

 

Lilith e il ragazzo si scambiarono un breve sguardo.

Era bello, questo era innegabile, ma al momento non poteva interessarle di meno.

Stava passando il periodo più brutto della sua vita, si sentiva in colpa anche solo per aver notato una cosa del genere.

 

«Lilith Burke? Io sono Arthur Honeycutt, ovviamente.»

Chiese il più anziano avvicinandosi a lei. Il tono era freddo, come il suo modo di fare. Lilith lo sentì da subito ostile.

Non ne fu sorpresa.

Annuì appena.

 

«Non mi avevano detto che aveva un figlio.»

 

L'uomo fece una rapida smorfia, poi si voltò in direzione del ragazzo e scosse la testa con vigore.

 

«Bill? No, no. Lui non è mio figlio. È il mio autista, qualche volta aiuta il giardiniere. Be', è il tuttofare. Nulla di più. Io non ho figli.»

 

Un tuttofare? Lilith analizzò il suo atteggiamento spocchioso, il suo abbigliamento, e il fatto che potesse permettersi un giardiniere e un tuttofare. Dedusse che doveva per forza essere un uomo ricco. Come diavolo facevano i suoi genitori a conoscere una persona del genere?

 

Bill le sorrise appena, sembrava volesse incoraggiarla dopo quelle presentazioni disastrose, e le sfilò le maniglie dei trolley dalle mani.

Fosse stata un'altra situazione non glielo avrebbe permesso, odiava quando gli altri facevano le cose per lei al posto suo, ma non aveva voglia di opporre resistenza.

Si sentiva svuotata, senza energie.

Al momento voleva solo che la giornata finisse il prima possibile.

 

Honeycutt camminò a passo spedito fino ai parcheggi della stazione e si fermò soltanto quando fu di fronte a una Rolls Royce color vino messa a lucido. Lilith non avrebbe mai pensato di salire su un'auto del genere.

 

Sì, era decisamente ricco.

 

Bill posò le valigie nel bagagliaio, poi le aprì la portiera muovendosi in modo fluido ed elegante. Chissà da quanto tempo faceva quel lavoro. Lilith lo osservava senza guardarlo davvero. 

Era assente e non sapeva bene cosa pensare.

Avrebbe vissuto i prossimi mesi con un estraneo che a malapena le rivolgeva la parola e che probabilmente la reputava un'assassina.

Come mezza Chicago, dopotutto.

Lilith aveva impresso a fuoco nella sua memoria quella parola scritta in rosso con una bomboletta spray sul parabrezza della vecchia Ford che il padre le aveva lasciato.

Assassina.

 

Tenne lo sguardo fuori dal finestrino per tutto il tragitto. Ravenfield era piccola e ripetitiva come se l'era immaginata. Una fila di case tutte uguali e ben allineate, una piccola piazza con qualche ristorante, un supermercato di una nota catena, una fioreria dai muri colorati...

Quello che la colpì fu però che ovunque fosse la direzione in cui la Rolls Royce si stesse dirigendo gli occhi di tutti i pedoni continuavano ad essere puntati su di essa, quasi ipnotizzati.

 

Doveva essere strano in un borgo come quello vedere un'auto tanto costosa. O almeno fu in questo modo che Lilith giustificò la cosa.

 

Ma non fu l'unica cosa a stupirla, quel giorno.

Quando furono arrivati Lilith stentava a credere ai suoi occhi.

Faticava ad associare la parola casa al luogo che si trovava davanti. Si trattava di un vero e proprio maniero, situato poco fuori città e circondato da enormi alberi di acero per tutto il suo perimetro.

 

Grandiosa e imponente, la struttura si sviluppava in altezza per almeno quattro piani e si mostrava all'esterno lastricata di pietre di un grigio pallido su cui svettava il tetto azzurrino. Una fila di ampie vetrate a sesto acuto occupavano gran parte della torre principale, quella che ospitava anche il portone d'ingresso di legno intarsiato e protetto da uno spesso arco in pietra. Ai lati della torre si sviluppavano una serie di torrette minori che donavano alla proprietà un'aria d'altri tempi, quasi tetra. 

Di sicuro doveva essere molto antica.

 

«Goldentree Hall è la casa della famiglia Honeycutt fin dalla sua fondazione. Mi auguro che tu le rivolga il giusto rispetto.»

 

Pronunciò il padrone di casa senza una particolare intonazione di tono, e senza neppure degnarla di uno sguardo si diresse verso l'entrata.

Lilith non sapeva bene cosa rispondere, era spiazzata. Non poteva credete che quello era il posto in cui avrebbe vissuto fino ai suoi diciotto anni.

 

«È così con tutti. Io non la prenderei sul personale.»

 

Lei era così presa dai suoi pensieri che ci mise qualche istante a rendersi conto delle parole di Bill. 

Quella confidenza improvvisa le diede un po' di conforto. Si sentiva sommersa da tutte quelle novità in modo quasi soffocante.

 

Lilith sorrise appena, amaramente.

«Credo di non piacergli. Be', perché dovrebbe essere il contrario?»

 

L'autista si morse appena il labbro, d’improvviso sembrava teso, poi però dopo qualche secondo sorrise mostrando due piccole fossette ai lati della bocca.

 

«A me piaci.- pronunciò, e senza alcun imbarazzo. Poi cambiò del tutto argomento.  -Mi occuperò io delle tue cose. Ritroverai tutto in camera tua. Il Signor Honeycutt ti aspetta nella sala grande. Charlotte ti indicherà la strada.»

 

A me piaci.

 

Lilith non rispose, fece finta che quella frase non le avesse provocato alcun effetto. 

Non voleva complicarsi la vita più di quanto già non lo fosse.

Si strinse nella giacca di denim nera e a passo incerto si indirizzò verso l'ingresso.

Sull'uscio, proprio come Bill le aveva anticipato, l'aspetta una donna con un docile sorriso sul volto.

 

«Benvenuta a Goldentree, cara. Entra, Il Signor Honeycutt ti sta aspettando per iniziare la cena. Io sono Charlotte, ma puoi chiamarmi Lottie, e lavoro qui come cuoca e cameriera, presto conoscerai tutto il personale.»

 

Aveva un non so che di materno, e faceva male. Lilith preferiva i modi gelidi del padrone di casa a quelli teneri di Charlotte, questa donna bionda e sfiorita a causa dell'età, così gentile e delicata. Le ricordava sua madre, le ricordava cose che non voleva ricordare.

 

La condusse in un ampio salone stretto ma molto lungo in cui l’arredo principale era composto da un tavolo di ciliegio che percorreva quasi l’intera stanza. Avrà potuto contenere almeno una trentina di persone, calcolò Lilith su due piedi.

Il soffitto era alto e  dipinto con numerosi affreschi a tema religioso e ad illuminare la stanza era “incaricato” un lampadario di cristallo che scendeva a cascata. 

Charlotte la fece sedere proprio alla destra di Honeycutt, che era a capotavola.

Lui sembrava osservarle senza troppa attenzione, annoiato.

 

Lilith invece non faceva che meravigliarsi di ogni cosa. Persino il modo in cui era allestita la tavola la lasciava senza parole. Calici di cristallo, posate d’argento, candele profumate...

 

Non aveva mai visto tanto sfarzo in vita sua, se non nei film. La sua era una di quelle famiglie che faticava ad arrivare a fine mese, con una madre casalinga e un padre dipendente in fabbrica. Si sentiva come un’attrice, come se stesse recitando una parte e alla fine della scena era certa di doversene andare lasciando quella stupenda scenografia alle sue spalle.

 

Sua madre sarebbe stata così felice di vivere in un posto come quello, il palazzo dei suoi sogni. Suo padre invece, umile per natura, si sarebbe di certo sentito a disagio, esattamente come si sentiva lei in quel momento.

 

«Ti ci abituerai presto. Goldentree può sconvolgere qualsiasi persona comune, ma non è questo il caso.»

 

Disse il vecchio Honeycutt, notando con un certo divertimento lo stupore della sua ospite. Poco dopo fu servita la prima pietanza, una zuppa di colore aranciato e dal sapore molto delicato.

 

Cosa intendeva dire? Per lui Lilith non era una persona comune? Questa era un’altra accusa velata?

 

«Ho poche regole in questa casa, ma mi aspetto che vengano rispettate. Tutte. Sei sotto la mia responsabilità, quindi non ammetto repliche al riguardo. Ogni qualvolta vorrai uscire dovrò essere informato almeno un paio d’ore prima, e dovrai sempre essere accompagnata da Bill. Il coprifuoco è alle undici, non ammetto ritardi. Inoltre il quarto piano del maniero è pericolante, necessita di lavori per essere messo in sicurezza, quindi ti proibisco l’accesso a quella zona. È tutto chiaro?»

 

Lilith era tentata di ridergli in faccia. Faceva sul serio? Era diventato il suo carceriere tutto d’un tratto?

Ma non aveva né la voglia né la forza di combatterlo. Non questa volta.

 

«Cristallino.»

 

Il resto delle portate furono consumate in religioso silenzio. Lilith ne fu grata, quell’uomo la metteva profondamente a disagio, si sentiva osservata anche nei più piccoli atteggiamenti, anche se lui cercava in tutti i modi di simulare disinteresse. Lilith però era sempre stata una ragazza sveglia e di buon occhio, sapeva notare quel genere di attenzioni.

 

Consumata la cena Arthur Honeycutt si alzò e le fece cenno di seguirlo senza parlare. Percorsero un corridoio riccamente arredato fino a una nuova sala, più ampia di quella riservata ai pasti perché si sviluppava in larghezza. Vi era un camino massiccio e diversi divani, in raso color salmone, e diverse librerie piene zeppe di libri.

 

Nel centro della camera vi era un gruppetto di persone disposte ordinatamente in fila. Lilith riconobbe subito Charlotte e Bill. Il primo aveva cambiato abiti e adesso indossava una divisa più modesta, adatta ai lavori manuali, mentre Charlotte indossava lo stesso abito nero lungo fin oltre le ginocchia su cui era tenuto un grembiule candido, esattamente come la giovane donna accanto a lei.

Doveva avere almeno una quarantina d’anni, se non di più, ma era ancora una bella donna e nonostante l’età i capelli continuavano ad essere biondi e lucenti.

 

«Questo è l’intero personale che lavora a Goldentree Hall. Intendo presentarteli in modo che tu non ti senta a disagio vedendoli muoversi per la casa e impari a considerarli come parte dell’arredamento di questa casa.»

 

Persone considerate come semplici mobili.

Il solo pensiero disgustò Lilith a tal punto da non riuscire più a guardare in direzione di Honeycutt. Come poteva dire una cosa del genere?

 

«Hai già conosciuto Bill, ovviamente. Lui è il nostro autista, come ti ho detto, ma si occupa anche dell’impianto elettrico, aiuta con i giardini e be’, fa tutto quello di cui c’è bisogno. Poi c’è James, che è qui da trent’anni, ormai. Lui è il giardiniere e si occupa principalmente dei terreni anteriori al Maniero. Vivono entrambi in una dependance a poca distanza dai giardini. Non ti disturberanno.»

 

L’uomo anziano si pulì le mani sulla stoffa della vecchia salopette che indossava, poi fece un piccolo passo in avanti seguito da una specie di goffo inchino. 

Profonde rughe gli solcavano gli occhi e i lati della bocca e i suoi modi erano appesantiti dalla fatica.

 

«Benvenuta, Signorina Burke.»

 

«Poi ancora Charlotte. Hai già conosciuto anche lei. È principalmente la cuoca, ma aiuta anche come cameriera. Per finire, Romy. È la più giovane. Lavora come cameriera e si occuperà lei di te. Nel caso ti servisse qualcosa ti potrai sempre rivolgere a Romy. L’ho fatta sistemare nella camera accanto alla tua, per ogni evenienza.»

 

Romy era di una bellezza disarmante. Con la sua pelle abbronzata, le giuste forme, gli occhi neri e penetranti, i capelli lunghissimi e castani... avrebbe lasciato chiunque senza parole.

In viso portava un sorriso cortese ma distante, di cortesia, e nonostante la divisa da cameriera emanava un’aura di distinta eleganza.

 

«Bene, potete lasciarci adesso. Romy, porta Lilith nelle sua stanza. Sarà stanca dopo il viaggio.»

 

Lilith li vide rompere le righe come soldati disciplinati. Uscirono dalla stanza solo quando Honeycutt si fu allontanato. Bill invece solo dopo che Lilith gli rivolse un ultimo sguardo.

Aveva gli occhi grigi, se ne accorse solo in quel momento.

 

«Signorina Burke, andiamo.»

 

Lilith le sorrise appena, esausta.

 

«Chiamami Lilith.»

 

Percorsero una lunga scalinata a chiocciola fino ad arrivare al secondo piano. Di fronte a loro vi era un lungo corridoio percorso da numerose porte chiuse e illuminato da pregiate lampade a muro in broccato veneziano. 

Sulla parete cieca, in fondo alle porte, era appeso un enorme dipinto. 

Raffigurava una giovane donna bellissima, bionda, e vestita in modo raffinato seppur moderno. Una figura quasi celestiale.

 

«È Noëlle Honeycutt, la padrona di casa. La moglie del Signor Honeycutt. Ormai è deceduta da più di quindici anni... È bellissima, non è vero?»

 

Spiegò Romy, notando l’interesse di Lilith. 

Non attese risposte.

Camminò a passo spedito fino all’ottava porta a sinistra. Infilò la chiave nella toppa e fece scattare la serratura.

 

«Ecco qui, siamo arrivate. La camera da letto comunica con un bagno indipendente, inoltre potrete utilizzare il balcone ogni qualvolta vorrete. Io sarò nella stanza di fronte alla vostra, nel caso avrete bisogno di me.»

 

Lilith entrò nella sua camera a passo pesante, ma prima che Romy potesse sparire dietro la porta del suo alloggiò la chiamò, impacciata.

 

«Romy! Aspetta un attimo... »

 

La ragazza si voltò all’istante, vigile.

 

«Sì?»

 

Lilith sospirò, poi si mordicchiò appena il labbro inferiore.

 

«Io non considero nessuno di voi come pezzi di arredamento. Non lo farò mai. Ci tenevo a fartelo sapere.»

 

Romy sorrise, per la prima volta in modo sincero.

 

«Buonanotte, Lilith.»

 

E dopo essersi congedata, chiuse la porta alle sue spalle.

 

Una volta entrata Lilith fu nuovamente sommersa dal lusso più sfrenato. Iniziando dal letto a baldacchino con le tende in seta azzurra, alla scrivania intarsiata, fino ai parati e gessi preziosi che decoravano i muri. Nel centro della camera troneggiava un piccolo camino e davanti ad esso vi era sistemato un tavolino di cristallo e un divanetto celeste, mentre di fianco ad esso vi era sistemato un ampio specchio e una libreria. 

L’intera camera era arredata nei toni del bianco e del blu.

 

Lilith notò le valigie sistemate accanto al comò color avorio, ma le ignorò. Avrebbe sistemato le sue cose domani, ora era troppo stanca, troppo frastornata da tutte quelle novità.

 

Si sfilò prima la giacca, poi la gonna scozzese e infine la maglietta nera. Gettò  tutto sul divano fino a che a coprirla rimase solo il completo intimo di pizzo color pesca.

Si guardò allo specchio e quasi non si riconobbe.

 

Era ormai incredibilmente magra, quasi spigolosa. Il seno era poco più che una curva morbida sul petto. L’incarnato era talmente pallido da farla sembrare un fantasma, e i capelli nerissimi e lisci non facevano che accentuare il suo pallore. Gli occhi azzurro ghiaccio si arrossarono, sul punto di bagnarsi di lacrime.

 

Cosa era diventata? L’ombra della ragazza che era stata. Il suo stesso dolore la stava mangiando viva, rendendola fragile e malaticcia.

Ora quel rossetto rosso che aveva indossato per simulare un colorito più salutare le sembrava quasi il trucco di un pagliaccio.

Se lo strofinò via con il palmo della mano, impiastricciandosi la pelle delle guance, ma non le importava.

Non le importava più di nulla.

 

Fu solo allora che notò la rosa rossa poggiata sul comò accanto a lei, accompagnata da un foglietto di carta profumata.

 

“Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, non esitare a chiamarmi.

-Bill”

 

Perché lo faceva? Perché gli importava tanto di lei? Lilith non era abituata a quella gentilezza gratuita, le risultava completamente estranea.

Strinse il pezzo di carta al petto, poi si infilò sotto le coperte leggere.

Voleva solo dormire e spegnere la mente, almeno per qualche ora.

Fingere di trovarsi nella sua cameretta, imprecando sottovoce perché presto la sveglia sarebbe suonata e lei sarebbe dovuta andare a scuola, dimenticando che ormai la scuola era finita e che non ci sarebbe stato nessuno a svegliarla...

 

 

«Sei diversa da come ti avevo immaginata.»

 

Un volto.

C’era un volto oltre la nebbia fitta e gelida.

C’era qualcuno che parlava. Lei poteva avvertire la sua presenza anche se non riusciva a vederlo.

 

Lentamente riuscì a sentirlo avanzare, avvicinarsi a lei a passo lento ma inesorabile.

Sorrideva.

 

«Sei diversa.»

 

Lei voleva parlare, dire qualsiasi cosa, ma era come se qualcuno le avesse strappato le corde vocali. Era come se non fosse in grado di produrre alcun suono.

Poi scoprì di non essere capace di compiere nemmeno il più piccolo movimento.

 

«Hai paura?»

 

Finalmente riuscì a vederlo davvero.

Era una ragazzo, un ragazzo bellissimo. Sembrava un angelo.

Un angelo dai capelli mori legati dietro la nuca pallida e dagli occhi blu, di un blu talmente intenso da sembrare innaturale.

 

«Posso toccarti?»

 

E il suo tono era dolce. Se lei avesse potuto parlare avrebbe detto sì senza nemmeno pensarci.

Lui sorrise piegando le labbra piene e rosee, un lampo di furbizia gli attraversò gli occhi cerulei.

 

«Lo prendo per un sì.»

 

Ma nel momento stesso in cui il ragazzo le sfiorò il viso con le dita i suoi occhi tanto belli cambiarono, diventarono neri e minacciosi, iniziando a piangere lacrime di sangue...

 

 

Lilith si svegliò di colpo, ricoperta di sudore e tremando in modo convulso. Era sembrato tutto così reale...

Eppure a svegliarla non era stato lo spavento provocato da quell’incubo tanto assurdo, ma la musica...

Sì, poteva sentire bene la musica prodotta da un pianoforte suonare dolcemente, seppur ovattata dalla distanza.

 

Non conosceva quella melodia, era la prima volta che la sentiva in vita sua, ma se ne sentiva attratta come un ape con il miele. Si sfilò dal letto e indossò la sua giacca di denim, poi sgusciò fuori dalla sua camera e in tutta fretta, seguendo il ritmo della musica che a mano a mano si faceva più frenetico, scese le scale fino ad arrivare al piano inferiore.

Peccato che prima che potesse superare l’ultimo scalino la musica cessò all’improvviso, e in modo tanto brusco da risultare fastidioso. 

Corse più veloce ancora, ma fu tutto inutile.

 

Lilith trovò davanti a se’ un meraviglioso pianoforte a coda, rosso e illuminato dalla luce della luna che filtrava attraverso le alte vetrate della sala. 

 

«C’è qualcuno?»

 

Lilith si guardò intorno, senza ricevere risposta. Cercò addirittura dietro mobili e tende, senza risultati. 

Non poteva esserselo immaginato, qualcuno era lì! Ed era fuggito non appena l’aveva sentita arrivare!

Ma ormai continuare a cercare era inutile:

Non c’era più nessuno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:

Wow, da quant’è che non pubblicavo qualcosa? Probabilmente da un’eternità, e devo dire che ne sentivo proprio la mancanza! È raro che mi cimenti in storie mistery o sovrannaturali, di solito sono impostata su un tipo di Romance più classico, al massimo di ambientazione storica, ma quando l’ispirazione arriva perché mettere paletti?!

Spero di riuscire a pubblicare almeno un paio di volte a settimana, università permettendo.

Detto questo spero che questo primo capitolo vi abbia incuriosito abbastanza da decidere di seguire la mia storia! Come ho detto non pubblico da molto, e sapere cosa ne pensate di questo prologo mi farebbe molto piacere quindi, forza! Recensite, lasciatemi un vostro pensiero! Io sarò più che felice di rispondervi e anche ringraziarvi nelle note del prossimo capitolo. Qui sotto vi lascio le foto dei volti che ho deciso di dare ai miei personaggi. Sotto ogni capitolo lascerò le foto di tre pg, in modo da farveli conoscere man mano che la storia va avanti!

Un bacio, Nimphadora!

 

 

 

 

 

 

Lilith Burke, 17 (Ann Kuleshova)
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Outfit di Lilith:
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Bill Larsson, 26 (Bill Skarsgård)
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Arthur Martin Honeycutt, 54 (Jude Law) Image and video hosting by TinyPic

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Adam ***


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Il cielo sopra Goldentree Hall era uggioso. Aveva appena smesso di piovere e il sentiero in pietra che percorreva i giardini era ancora umido e scivoloso.

Lilith lo percorreva trascinando gli anfibi svogliatamente, totalmente assente.

 

Pochi metri più in là, nascoste da una siepe di rose rampicanti, Charlotte e Romy se ne stavano sedute su una panca di ferro battuto e la osservavano.

Entrambe, seppur per motivi diversi, erano incuriosite da quella strana ospite e si chiedevano come si sarebbe comportata.

La studiavano come fosse stata un animaletto selvatico ora tenuto in gabbia.

 

«Cosa pensi di lei? Tu ci hai passato più tempo.»

 

Chiese la maggiore, facendo un tiro dalla sua Chesterfield appena accesa.

Romy alzò le spalle in segno di incertezza.

 

«È sveglia, ha già capito qualcosa. Perlomeno ha dei sospetti. Oggi, a colazione, ha fato decine di domande a Honeycutt riguardo a ciò che è successo stanotte. Ovviamente non si è bevuta nemmeno una delle stronzate che lui le ha rifilato.»

 

Charlotte sospirò, pensierosa.

Era preoccupata. Goldentree le sembrava come una bomba ad orologeria, poteva sentirne il ticchettio sordo nelle orecchie ma non aveva idea di quando sarebbe esplosa.

 

«Arthur era su tutte le furie stanotte, avresti dovuto vederlo. Faceva paura anche a me.»

 

Mormorò, senza distogliere lo sguardo da Lilith nemmeno per un secondo.

 

«Proprio non riesco a inquadrarla.»

 

Aggiunse poi, dopo poco.

 

«È una ragazza a lutto. Ha perso i suoi genitori, dopotutto. È gentile, o almeno con me lo è stata, ma è anche dannatamente arrabbiata, anche se tenta di nasconderlo. Non ha ancora superato la cosa.»

 

«E come si supera una cosa del genere? Deve essere stato scioccante, insomma... Stare lì a guardare senza poter fare niente!»

 

Romy annuì, dandole ragione. Eppure dentro di se' sentiva di non riuscire ad empatizzare con lei del tutto. Non quando sapeva di cosa fosse capace.

 

«Credi che lei abbia il pieno controllo sui suoi... »

 

Ma Charlotte le fece cenno di zittirsi all'istante.

 

«Non lo so e non lo voglio sapere! Arthur è già abbastanza stressato. Ti ha chiesto di tenerla d'occhio giusto? Sta a te scoprirlo.»

 

Romy sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

Come se fosse facile!

Pensò, infastidita.

 

Poi notò Bill in lontananza, aveva iniziato a camminare verso di lei. Romy sentì il respiro mancarle e strinse i pugni.

 

«È ridicolo il modo in cui lui le gira intorno! Che intenzioni ha? Non capisco! E non sa nemmeno nulla! Honeycutt non gli ha detto assolutamente niente su di lei, quindi perché è così dannatamente curioso?»

 

Charlotte scoppiò a ridere, e di gusto, poi le accarezzò il viso dolcemente.

Romy si scostò infastidita.

 

«Be', è bellissima. Non è abbastanza?»

 

Romy saltò in piedi come se quelle parole l’avessero scottata.

 

«'Fanculo, Lott.»

 

E detto questo ripercorse il sentiero fino a raggiungere l'entrata sul retro, veloce come un razzo. Charlotte la seguì con lo sguardo fino a che ne fu capace.

 

Ah! 

Povera, povera ragazza!

 

Poco più in là il tuttofare di Goldentree Hall seguiva il sentiero lungo le aiuole per raggiungere una ragazza dai capelli neri come il carbone e l'espressione malinconica.

Era vestita in modo troppo leggero, si ritrovò a pensare Bill, con quel abitino di cotone rosato. 

 Il periodo estivo era ormai arrivato ma per qualche motivo, forse perché immersa nel bosco o chissà per cos'altro, a Goldentree faceva sempre un po' più freddo che nel resto della città. E non si trattava di pochi gradi, era come se l'intera proprietà fosse circondata da un'aura gelida.

 

Quando lo vide arrivare lei sorrise, ma solo per un istante.

 

«Buongiorno, Signorina Burke. Non ha freddo? Le consiglio di prendere una giacca, o si ammalerà di sicuro.»

 

Lei arricciò le labbra in modo buffo, in segno di diniego, facendolo ridere.

 

«Ti interessa davvero? Mai conosciuto dei dipendenti così zelanti, complimenti. Ah, e se qualcun altro prova a chiamarmi Signorina Burke giuro che mi metto a urlare. Sono Lilith. Solo Lilith.»

 

«Qualcuno si è svegliato col piede sbagliato, vedo.»

 

Bill sorrise vedendola sbuffare e poi addolcire lo sguardo subito dopo.

 

«Scusa, è che... la giornata è iniziata da poco e già sembra andare tutto storto. Sei stato molto carino con me, e ci tenevo a ringraziarti. Per il biglietto, per tutto. Però... Ecco, proprio non capisco. Nemmeno mi conosci, perché tanto interesse?»

 

Non c'era l'ombra di un'accusa nelle sue parole, solo semplice curiosità.

Tanta schiettezza colse Bill su due piedi, ma stranamente non provò ad edulcorare la realtà. Gli disse esattamente la verità, anche se lei non avrebbe potuto capire a pieno. Non ancora, perlomeno.

 

«Non prendermi per una specie di maniaco, ma... non so bene come dirlo. Io mi sento particolarmente protettivo nei tuoi confronti. Insomma, sembri un pesce fuor d'acqua qui. Mi ricordi me stesso al mio primo giorno. Sembri un pulcino spaurito, ecco tutto. Voglio aiutarti.»

 

«Non sono un pulcino. Io non sono così fragile

 

E questo lo disse con un'amarezza particolare nello sguardo, come se tutta la sua spavalderia si fosse sgretolata sotto il peso di quelle poche parole.

Quasi come se le dispiacesse.

 

Poi però tornò in se', mascherò il tutto dietro un sorriso di facciata e uno sguardo accattivante.

 

Peccato non fosse una brava attrice quando credeva.

 

«Credo sia la cosa più inquietante che mi abbiano detto in tutta la mia vita. Giuro. Le hai appena battute tutte.»

 

Bill sembrò arrossire di colpo, imbarazzato. Forse aveva esagerato. Dopotutto erano praticamente due estranei, cosa credeva di fare?

 

Si scompigliò i capelli chiari, gesto che faceva ogni volta che era imbarazzato ma tentava di dissimulare, e fece un passo indietro.

 

«Non volevo infastidirti, mi dispiace. Dimentica quello che ho detto...»

 

Lei avanzò di un passo per riempire la distanza che lui aveva creato.

 

«E perché dovrei? Nessuno mi trattava con tanta dolcezza da un'eternità ormai. Nessuno mi tratta come se fossi una persona normale da un'eternità, se devo essere sincera. È... bello parlare con te.»

 

Bill trovò il coraggio di guardarla nuovamente in quei suoi occhi azzurro acquerello, ancora rosso in volto.

 

«Ne sono felice, Lilith.»

 

Dato il clima di intimità che si era creato lei ne approfittò per fare la sua mossa.

 

«Bill, posso chiederti una cosa? So che è una domanda un po' strana, ma voglio che rifletti bene prima di rispondermi.»

 

«Certo. Chiedi pure.»

 

Lei tirò un grosso sospiro, poi riprese la parola.

 

«Non ti è mai capitato di sentire della musica, durante la notte? La musica di un pianoforte? Sono sicura di aver sentito qualcuno che suonava al piano di sotto questa notte, ma Honeycutt mi ha praticamente dato della pazza. Dice che nessuno suona quel pianoforte da anni.»

 

Bill sbiancò, sentì la salivazione azzerarsi in una manciata di secondi.

Non sapeva bene cosa dire, non si aspettava una domanda tanto diretta.

Aspettò un po' prima di rispondere, sperando con tutto il cuore che lei credesse al suo finto stupore.

 

«Musica? Non direi. Però io dormo col vecchio James nella dependance ed è difficile che riesca a sentire il suono di un pianoforte da questa distanza. Mi spiace.»

 

Lilith era visibilmente delusa, ma non disse nulla.

Se ne stette lì, di fronte a lui, con sguardo corrucciato e ciglia aggrottate come una bimba scontenta.

 

«Ti va di accompagnarmi da qualche parte?»

 

Chiese poi, distrattamente.

Aveva bisogno di cambiare aria, di allontanarsi almeno per qualche ora.

 

«Non dovremmo avvistare il Signor Honeycutt? Adesso non è in casa ma-...»

 

Lilith lo interruppe con un gesto di mano infastidito.

 

«Se non c’è come possiamo avvisarlo?»

 

E un sorriso complice nacque sui loro volti quasi in sincrono.

 

«Ah, e per la cronaca, io non ho mai freddo!»

 

 

Lilith si accoccolò sul sedile accanto al guidatore, stringendosi le ginocchia al petto.

Non parlarono molto durante il tragitto, se non per decidere la destinazione: l’unica libreria di tutta Ravenfield, la Book Basket.

Lilith amava i libri, fin da quando ne aveva memoria. Ricordava come suo padre gli avesse trasmesso questa passione, quando da bambina le leggeva le leggende del mondo classico prima di andare a dormire.

Col tempo poi era diventata una lettrice vorace, era capace di leggere qualsiasi cosa e di qualsiasi genere.

Per lei c’era un non so che di magico nelle librerie e nelle biblioteche, li vedeva quasi come dei templi sacri e intoccabili. Ne adorava l’odore, come adorava camminare tra le decine scaffali sfogliando pagine e immergendosi in centinaia di parole e trame diverse.

Era un luogo dove perdersi, per evadere.

La tranquillizzava, la aiutava a tenere i problemi e le preoccupazioni lontani.

 

Dopo la morte dei suoi genitori aveva passato ore e ore nella libreria del suo quartiere, a Chicago. A volte restando fino all’orario di chiusura.

 

Bill non aveva chiesto altro, sembrava semplicemente felice di poter passare del tempo con quella ragazza così particolare.

A Ravenfield c’erano sempre le stesse facce grigie e nonostante la sua malinconia e la sua lingua argentina Lilith era stata una boccata d’aria fresca per lui.

Finalmente una novità in quei giorni tutti uguali e si era ritrovato a pensare spesso a lei mentre lavorava o prima di dormire.

 

Quando parcheggiò la Rolls Royce e spense il motore quasi gli dispiacque.

 

«Arrivati. La libreria è proprio qui di fronte. Io ti aspetto qui.»

 

«Non scendi?»

 

Chiese Lilith, stupita.

Bill scosse appena il capo.

 

«Preferisco aspettare qui. Tu però fai con calma, prenditi tutto il tempo che vuoi.»

 

Lilith fu colpita dallo sguardo della gente non appena mise piede fuori dall’auto. Inizialmente pensò che fosse solo la sua fantasia, perché quella gente doveva interessarsi a lei?

 

Ma no, era così.

Un paio di passanti, il fioraio che innaffiava le sue orchidee, un vigile stradale a un incrocio, un fruttivendolo grassoccio mentre risistemava il suo banco di frutta...

Tutti la stavano fissando.

Lilith si sentì profondamente a disagio.

Dio, quella città sì, che era strana!

 

Praticamente si ritrovò a correre per raggiungere quella dannata libreria e fu inondata di sollievo quando finalmente riuscì ad entrare chiudendo prepotentemente la porta alle sue spalle.

Il rumore della campanella, l’odore dolce e familiare della carta stampata... ebbero quasi subito un effetto benefico su di lei.

 

Respirò profondamente e osservò l’ambiente intorno a se’. La libreria era piccola ma accogliente. Ogni parete era colorata con un diverso colore pastello donando all’ambiente un’aria giocosa. Vi era una fila di sei scaffali strapieni e un paio di ceste atte a contenere i libri a prezzo speciale. Infondo a destra poi, in corrispondenza dell’ampia vetrata del negozio, erano stati sistemati poltrone, tavolini e giochi per bambini tra cui un bellissimo cavalluccio a dondolo in legno intarsiato e qualche costruzione. 

 

In casa era seduta una signora anziana e un po’ grassottella. Teneva i capelli grigi sollevati in una crocchia disordinata e indossava un paio di occhiali rossi a pois bianchi dalla forma sottile e bizzarra.

Leggeva un grosso tomo che con un po’ di attenzione Lilith riuscì ad identificare con Guerra e Pace di Tolstoj. 

Uno dei suoi libri preferiti.

 

Alla fine decise di avvicinarsi a una delle due ceste in cerca di qualche classico a buon prezzo, senza troppe aspettative.

Esaminò le trame di un paio di libri prima di sentire qualcosa picchiettare contro la sua spalla sinistra.

 

Quando si voltò riconobbe all’instante la cassiera che le sorrideva in modo strano, quasi dispiaciuto. 

 

«Cerchi qualcosa in particolare, piccola?»

 

«No, grazie. Sto dando un’occhiata.»

 

La signora si schiarì la voce e annuì un paio di volte.

 

«Capisco, sì. Mh... E perdona il disturbo, cara, ma non sei tu la ragazza che si è da poco trasferita a Goldentree Hall? Sii buona e placa la curiosità di una povera vecchia che non ha nulla da fare.»

 

Lilith aggrottò la fronte, stupita. Perché glielo chiedeva? Cosa le importava se lei viveva lì o no? E come faceva a saperlo?

 

«Le notizie girano in fretta a Ravenfield, a quando pare.»

 

La donna annuì, tossicchiando tra le risate roche, e si aggiustò gli occhiali sul naso col chiaro intento di poterla vedere meglio.

 

«È una piccola città, sai? E dimmi, sei una parente dei Signori?»

 

Lilith iniziava a sentirsi a disagio, ma rispose comunque.

 

«Signori? Intende Honeycutt? Non esattamente. I miei genitori erano suoi amici. Ora è il mio tutore legale.»

 

La donna fece uno strano versetto, coprendosi la bocca e sgranando gli occhi. Poi scosse la testa con vigore. Sembrava parecchio contrariata.

 

«Povera anima! Goldentree non è un luogo per ragazzine come te. Sta molto attenta, e tieni gli occhi aperti. Te lo dico col cuore. Quello è un brutto posto! Un brutto posto ti ripeto! Dovresti levare le tende appena ne avrai l’occasione!»

 

Ora Lilith era ufficialmente spaventata.

Doveva essere una vecchia pazza, pensò.

Meglio non contrariarla oltre, o chissà cos’altro avrebbe potuto dire.

 

«Grazie Signora, ma ora dovrei proprio andare. Mi scusi...»

 

La signora annuì, più e più volte.

 

«Vai pure, piccola. E sta attenta!»

 

Lilith sfrecciò fuori da quella libreria veloce come un razzo. 

Cosa diavolo c’era che non andava in quella città?!

Sembrava un manicomio a cielo aperto! Era assurdo!

Non c’era qualcosa di Ravenfield che non le facesse accapponare la pelle, ed era in quella cittadina da meno di ventiquattro ore.

Chicago le mancava più che mai.

 

Quando Bill la vide rientrare in auto così presto, con gli occhi sgranati e sbattendo la portiera con fin troppa forza, non poté che allarmarsi.

 

«È successo qualcosa?»

 

Lilith emise un risolino nervoso, non sapendo da dove iniziare.

 

«Credo che io e te siamo le uniche persone normali nel raggio di chilometri, ecco cosa è successo!»

 

Sbottò, incredula.

Voleva semplicemente passare qualche ora in tranquillità sfogliando qualche bel libro, invece quella mattinata era stata un completo buco nell’acqua.

 

«Sarà che nessuno di noi due viene da qui! E menomale! Fossi nata qui probabilmente sarei fuggita prima del mio decimo compleanno, non scherzo!»

 

Aggiunse, mentre Bill metteva l’auto in moto ridacchiando. 

 

«Non c’è niente da ridere!»

 

Strillò irritata. 

Certo che aveva proprio un bel caratterino, pensò lui.

 

«Come fai a sapere che non sono di qui? Non avrai indagato?»

 

Chiese poi, con tono malizioso. Lilith lo guardò incerta, senza capire dove volesse andare a parare. 

 

«Me l’hai detto tu.»

 

«No, non l’ho mai fatto. Avrai un intuito sovrumano o qualcosa del genere, perché io non ne ho mai fatto parola.»

 

Scherzò lui mentre lei voltava lo sguardo verso il finestrino, evitando i suoi occhi grigi.

 

«Be’, l’avrò sentito in giro. Che importa?! Riportami a Goldentree, ne ho avuto abbastanza di questo posto...»

 

 

Quando furono arrivati, circa una ventina di minuti dopo, Lilith saltò fuori dall’auto come una molla, senza nemmeno voltarsi a salutarlo.

Sembrava stranamente tesa e determinata a evitarlo.

Bill tentò di fermarla, di capire cosa fosse successo, ma lei lo ignorò totalmente.

Come poteva spiegare?

Non poteva permettere che quelle cose succedessero ancora.

Era riuscita a tenerle sopite per mesi, ed erano bastate poche ore con lui per farle rispuntare fuori all’improvviso.

Succedevano cose brutte quando lei... be’, meglio chiudere la questione il prima possibile e fare finta di niente.

O almeno sperava bastasse.

 

Ma la sfortuna era decisa a torturarla, visto che non appena fu entrata nel maniero si ritrovò Arthur Honeycutt proprio davanti al naso, mentre era intento a togliersi il cappotto, appena tornato dalla sua uscita.

 

Non appena la vide i suoi occhi diventarono fiammeggianti di fredda ira.

 

«Signorina Burke, non era in casa? Mi sbaglio? Ma non mi pare di essere stato avvisato.»

 

Il tono era gelido e distaccato come sempre ma il suo sguardo... era infuriato, Lilith ne era certa, ma non le importava.

Tanto cosa sarebbe cambiato? Lui non la sopportava comunque, almeno adesso aveva un vero motivo per sputare sentenze.

 

«Forse non sono stato chiaro? O ha problemi di memoria? Eppure solo ieri sera mi pare di averle enunciato le pochissime regole di questa casa, o mi sbaglio?»

 

Continuò, con quelle sue maniere da lord d’altri tempi che irritavano Lilith ancora di più.

Odiava il modo in cui lui si innalzava al di sopra di tutti, il modo in cui aveva l’abitudine di guardare gli altri. Dall’alto in basso, in un costante giudizio implicito.

 

«Inizierò ad essere sincera con lei quando lei lo sarà con me.»

 

Disse soltanto, con una freddezza che stupì anche se stessa.

Lentamente si allontanò da lui, per poi salire le scale fino al secondo piano.

Sentì lo sguardo di Honeycutt incendiarle la schiena ma non si voltò, nemmeno una volta.

 

Quando fu abbastanza vicina alla sua camera però notò qualcosa di strano. Era aperta, eppure lei ricordava bene di averla lasciata chiusa a chiave.

Ne era certa.

 

Inizialmente non si preoccupò, pensò fosse entrata una delle cameriere per rassettare o che Romy fosse venuta a cercarla e si fosse dimenticata di chiudere, ma quando fu entrata entrambe le ipotesi si rivelarono sbagliate.

 

La camera era completamente sottosopra. I suoi abiti erano stati tolti dalle valigie e sparsi ovunque tra il pavimento, i mobili e il letto. I suoi cosmetici, i libri che aveva portato con se’, tutto ciò che le apparteneva era stato gettato alla rinfusa, come se qualcuno si fosse divertito a frugare tra le sue cose senza preoccuparsi di averne cura o di rimettere in ordine.

Il biglietto che le aveva lasciato Bill era stato fatto a pezzi e sparso sulle lenzuola, insieme alla rosa che era avvizzita ad una velocità incredibile.

Solo poche ore prima era rossa e fresca...

 

Velocemente raccolse tutto quello che era finito sul pavimento e iniziò a catalogare tutti i vari oggetti per assicurarsi che non mancasse niente. Fu allora che si accorse che c’era qualcosa in più, qualcosa che non le apparteneva.

 

Si trattava di un ciondolo dorato nascosto tra le pieghe delle lenzuola.

Era bellissimo, conteneva nel centro due pietre d’acqua marina.

La prima, quadrata, fungeva da sostegno alla seconda, a forma di goccia, e ai lati del quadrato vi erano due api d’oro. Osservandole con maggiore attenzione su ogni coppia di ali vi era incisa una iniziale.

Una L e una N.

 

Lilith la prese in mano e nel momento esatto in cui la sua pelle entrò in contatto con quel metallo prezioso tutto intorno a lei sembrò annebbiarsi e cambiare rapidamente.

Fu come se fosse tornata indietro alla notte prima, al suo sogno.

Come la prima volta però non ebbe paura.

 

Si sedette a gambe incrociate mentre la nebbia fitta la circondava e dopo pochi istanti due occhi blu, vivi e innaturali, occuparono il suo campo visivo.

 

Dovette aspettare per vedere i lineamenti del suo viso e il resto del suo corpo in modo nitido ed era bello come se lo ricordava.

Sorrideva in modo sinistro, guardandola.

 

«Non avere paura, non voglio farti del male.»

 

Lilith provò a rispondere, ma la voce le mancava e non riusciva nemmeno a schiudere le labbra.

 

Lui sorrise ancora, senza stupirsi.

 

«Se ti permetto di parlare tu prometti di non metterti a urlare? Tanto non c’è nessuno che possa sentirti che non sia io.»

 

Il suono della sua voce era come miele, eppure c’era qualcosa di profondamente disturbante nel suo modo di fare. Come se la sua dolcezza fosse solo apparente. 

Come se si stesse divertendo a ingannarla.

 

Lilith annuì con vigore, senza alcun dubbio.

 

Lui allora si leccò le labbra, soddisfatto, e allungò una mano verso il suo viso. Posò il pollice sul labbro inferiore e lo percorse con lentezza, fino ad arrivare a quello superiore.

Ripetè la stessa azione per tre volte, provocando in Lilith brividi di piacere.

Come poteva con un semplice tocco farla sentire in quel modo?

 

«Chi sei?»

 

Lui rise e il suono della sua risata era talmente armonioso da somigliare a quello di una cantilena.

 

«Chi sei tu! Non mi era mai capitato di conoscere una persona con cui fosse così semplice essere in connessione. Riesco ad entrare nella tua testa così facilmente, senza sforzo. È come se fossimo una cosa sola. Riesco a vedere quello che vedi, a sentire quello che senti. È quasi fastidioso, sei così... intensa

 

Lilith non sapeva cosa dire.

Non capiva cosa intendesse, non capiva cosa stesse accadendo. Era tutto così strano, eppure si sentiva protetta, sicura avvolta in quella coperta di nebbia gelida.

Non c’era nessun altro posto in cui avrebbe voluto trovarsi.

 

«Sei reale?»

 

A quella domanda il ragazzo sbuffò, irritato.

 

«Possiamo saltare questa parte? Inizio ad annoiarmi. È davvero importante se sono reale o meno?»

 

«Posso sapere almeno il tuo nome? O è chiedere troppo?»

 

Controbatté Lilith, spavalda. 

Si sentiva invincibile.

Attratta eppure distante da quel ragazzo bellissimo e sinistro.

 

«Mh, ma certo. Mi chiamo Adam, come il primo uomo.»

 

E detto questo fece un piccolo inchino infarcito di ironia.

 

«Al suo servizio, signorina.»

 

«Io son-...»

 

Ma lui la interruppe, le prese il viso fra le mani e a un centimetro dalle sue labbra sussurrò il suo nome.

 

«Lilith. Sono chi sei. Ti ho osservata, te l’ho detto. Sai, dove sono ora non ho molte cose da fare. Tu sei l’unica cosa che mi salva dalla noia, e te ne sono molto grato. Sei una bella, bellissima bambolina

 

Lilith si scansò via, offesa. 

Era sempre stata orgogliosa, sempre stata dura.

Non si sarebbe piegata, nemmeno per questo splendido sconosciuto.

 

«Non sono il giocattolo di nessuno.»

 

Lui annuì, dandole ragione.

Sembrava più divertito che mai. La guardava con quei suoi occhi assurdi, famelici.

Gli occhi di un lupo.

 

«No, sei molto più preziosa.»

 

Poi la stupì, fece qualcosa di inaspettato.

Si accovacciò davanti a lei e poggiò la testa sulle sue gambe. Chiuse gli occhi e le abbracciò la coscia, come un bambino con il suo peluche preferito.

 

«Accarezzami i capelli.»

 

Chiese, ma suonò più come un ordine.

Lilith non si mosse di un centimetro. Non era la sua schiava, non era costretta ad ubbirgli.

 

«Sai, mi madre lo faceva sempre. Me lo ricordo ancora. Se mi concentro a volte riesco persino a sentire le sue dita tra le ciocche.»

 

Quello fu un colpo basso.

Tutta la sua forza di volontà si sgretolò in un istante. Anche Emma, sua madre, lo faceva sempre quando lei era bambina. Lilith glielo chiedeva in continuazione, era una delle loro cose.

Una piccola tradizione che crescendo era svanita.

 

Sciolse il piccolo chignon che teneva dietro la testa liberando i suoi capelli mori e lisci. Da svolti arrivavano a coprirli fino a metà del collo.

Vi ci immerse le dita massaggiandoli delicatamente. 

Sotto di lei Adam faceva le fusa come un gatto.

 

Non saprebbe dire per quando tempo la cosa andò avanti, ma sapeva che avrebbe continuato per ore senza provare la minima stanchezza.

 

Quando lui riprese la parola la nebbia aveva già iniziato a diradarsi...

 

«A presto, bambolina

 

 

Quando Lilith riaprì gli occhi fu come se fosse stata in apnea per ore. Cominciò a tossire e a strizzare i palmi contro gli occhi. Era difficile persino respirare.

 

Intorno a lei c’era solo buio ed era completamente immersa in un bagno di sudore, persino le coperte che la avvolgevano erano umide.

Le ci volle un po’ di tempo per capire che si era svegliata nel mezzo della notte, nel suo letto, e che quello che era successo fino a poco tempo fa era svanito come la nebbia che la avvolgeva, come fosse stato solo un altro sogno.

 

Si alzò a sedere, scostò le tende del baldacchino e accese il lume sul comodino di ciliegio accanto a lei. Il ciondolo d’oro era lì, identico a come lo ricordava.

Brillava alla luce fioca della lampada.

Era reale.

 

«Adam.»

 

Mormorò fra le labbra.

Quasi come se lo stesse chiamando.

 

«Adam...»

 

Ripeté, forse con una nota di disperazione.

Dio, fa che non sia impazzita...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:

Ed ecco il secondo capitolo! Abbiamo conosciuto l’intruso dei sogni di Lilith un po’ meglio, e adesso sappiamo che il suo nome è Adam ma ci vorrà ancora tempo prima che la situazione risulti chiara. Adam è reale o è solo una fantasia di Lilith? Perché Ravenfield è così piena di stranezze? E cosa intendeva la vecchietta impicciona del Book Basket con i suoi avvertimenti?

Bill, cuore di panna, è l’unico che si salva in questo quadretto di stranezze! Ed è comunque un piccolo stalker xD

Ho inserito un easter egg in questo capitolo, ed è legato al nome di due personaggi, chissà qualcuno riuscirà a trovarlo!

Scrivetemi le vostre teorie e perché no? Se vi va, lasciatemi una recensione, sono curiosissima di sapere cosa ne pensate finora di questa storia!

Voglio ringraziare tutti coloro che hanno aggiunto la storia nelle seguite, state inaspettatamente crescendo molto rapidamente e questo non può che rendermi felicissima!

Inoltre un ringraziamento speciale va a _purcit_ per aver recensito il primo capitolo! Ragazza, non puoi capire quanto mi abbia fatto piacere leggere il tuo parare! Una bella recensione è sempre preziosa per l’umore di un’autrice insicura come me!

Per il prossimo capitolo temo dovrete aspettare un po’ di più, ma farò il possibile per mantenere un ritmo costante!

Un bacio,

-Nimph

 











Adam (Alex Høgh Andersen)
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Romy Clarke (Nina Dobrev)
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Charlotte Lloyd (Vera Farmiga)
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