Nina

di TheChump
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piccola parentesi ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Piccola parentesi ***


Piccola parentesi

Nina non è un nome che senti tutti i giorni, non è Francesca o Martina e non è neanche Maria, non è il viso della classica compagna di banco o dell'amica che ti porti dietro da sempre, forse può essere un diminutivo, ma difficilmente è un nome puro, unico. Eppure eccola qui, Nina. Pazza come il gesto della madre di darle questo nome, bella come il dischiudersi delle labbra nel pronunciare le due sillabe, ni-na, incerta come l'origine della parola. Io me l'immagino così, la mia Nina. Bellissima e pazza, che ama la vita, che se ne infischia di tutto e di tutti, che non le importa proprio di nulla, o magari di tutto. Che cambia umore in due secondi, che gioca col mondo come un bambino gioca con una palla, che si fa trascinare dall'amore e si fa infuocare dall'odio, che non dà ascolto a nessuno, neppure a se stessa, che prende le cose così come le vengono, che non ha mai compreso cosa sia il passato o il futuro, che valuta le persone in base a quello che fanno e non per quello che sono, che non ha pregiudizi, che si infuria per un non nulla e che se ne sta ore a fissare il vuoto, persa chissà dove. È lei, si è proprio questa, la mia Nina. Una brezza fresca, libera e ammaliante, pazza e bellissima.
La sento dentro di me, che prende vita, che piano piano si costruisce la sua storia, che si stacca da me e diventa un qualcosa a se. È come vorrei essere, ma come non riesco ad essere, è un concentrato di tutte le mie fantasie perse, impossibili, irraggiungibili. La sua vita è una storia, non ha tempo non ha spazio, eppure esiste lo stesso. È qui, che mi parla, che mi dice cosa le è successo, che cosa è cambiato e che cosa l'ha resa viva, palpabile, sensibile. È nata da uno sguardo, è nata da un colpo di fulmine, da un amore improvviso che l'ha smossa, l'ha cambiata, trasformata in qualcun altro. È proprio vero che quando ami per la prima volta tutto cambia. Il mondo inizia a girare al contrario, o forse si ferma e a chi importa? Di certo, non a te.
È stata una mano bianca che con le dita affusolate, con movimenti nervosi ha mosso via dei capelli nero corvino da un viso sottile, è stata quella voce tranquilla tra le labbra carnose e rosse, quel battito di ciglia che per un attimo ha nascosto lo sguardo verde e deciso, è stato sentire quel nome, il suo nome, quelle due sillabe, pronunciate dalla persona giusta e in un lampo tutto si è distrutto, disintegrato e poi si è ricomposto, ma si sa, per quanto un oggetto si possa aggiustare alla perfezione qualcosa, anche se invisibile, è cambiata per sempre.

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Capitolo 2
*** Prologo ***


Prologo

I ragazzi morivano per lei. Quelli più grandi e anche quelli più piccoli. Tutti e dico tutti, da quelli più spavaldi a quelli più timidi, tutti dicevano di amarla, che lo facessero da soli, nelle loro stanze o con amici dopo un bicchiere di troppo o proprio lì davanti a lei in una dichiarazione disperata. Non potevano fare altro, non potevano non restare affascinati, ammaliati. A lei le bastava dire due parole o semplicemente farsi vedere, passare un po' di tempo con loro ed era fatta. Tempo niente e un nuovo nome si aggiungeva alla lista di quelli che glielo avevano urlato, sussurrato quel "ti amo". Riusciva a convincere anche i più timorosi e non c'era verso, il numero aumentava sempre. E lei? Lei niente. Qualche volta una dichiarazione la faceva sorridere e allora diceva si. Iniziavano ad uscire, andavano qui e andavano lì. Lui la sfoggiava con orgoglio, se la trascinava dietro peggio di un trofeo, le presentava tizio e le presentava Caio. Passava un po' di tempo e lui diceva di amarla sempre più. E lei? E lei niente, diceva che gli voleva bene, che ci teneva, che forse lo amava, ma ancora non lo sapeva. Allora i giorni passavano e lei era sempre più distratta, lui sempre più insicuro e possessivo. Urla. Tu questo tu quello. Non ne posso più. Basta. E così si lasciavano, tra i pianti di lui e i sospiri di lei. Ed era meglio per entrambi, lo sapeva lei e, in fondo, lo sapeva anche lui. Bastava qualche mese o forse solo qualche giorno e si rendeva conto che quella ragazza così bella in fondo era molto diversa da lui e dal pensiero che si era fatto di lei, che per tutto il periodo in cui erano stati insieme era stata una specie di tortura infernale in cui lui era pervaso dal terrore di perderla da un momento all'altro. Si rendeva conto che non aveva quasi respirato per tutto quel tempo e finalmente iniziava ad ingoiare grossi sorsi di aria fresca. Forse l'aveva amata o forse aveva pensato di amarla, forse non era lei che aveva il terrore di perdere, ma tutta la notorietà che lei gli aveva regalato... in ogni caso era finita e quella diventava un'esperienza di cui vantarsi e raccontare ai posteri, le foto o i video delle prove inconfutabili da esporre come una laurea e questo era più che abbastanza per andare avanti e magari diventare anche amici.
E così nei cinque anni di superiori Nina era stata amata quasi quanto un'attrice, aveva avuto un’enorme popolarità e un’enorme quantità di ragazzi e ancora non sapeva cos'era l'amore. Solo una volta pensava di essersi innamorata. Era una giornata estiva, di sole e di caldo. Indossava un top bianco, infilato in una gonna azzurra che leggera ogni tanto si alzava appena mentre faceva un passo deciso, ampio e marcato, che col tempo cambiava, quel passo diventava sempre più leggero, più piccolo e finiva per tradirla, diceva al mondo che era fuggita chissà dove. E quelle Adidas bianche che portava ai piedi si ritrovarono molto spesso in posti sconosciuti. Ad un certo punto eccola lì, che solleva appena le spalle, dà uno sguardo intorno, spaesata e si accorge di averlo fatto ancora, di essersene andata via un'altra volta. Può essere qualsiasi cosa a destarla, un suono, un sassolino che le fa lo sgambetto, la fine di un marciapiede o un semaforo che cambia colore, o magari il telefono che squilla e la voce di una sua amica che le chiede dove cavolo sia finita. Può essere veramente qualsiasi cosa e quel giorno fu la voce di un ragazzo. Le urlava di spostarsi disperato prima di finirle letteralmente addosso. Si chiamava Michele. Era alto e magro e il suo viso era nascosto dai capelli ricci e gonfi e da degli occhiali neri e spessi. Aveva diciassette anni e quella era la prima volta che andava in bicicletta. Non era un tipo molto atletico, era più da libri e divano. Non gli piaceva sudare e non gli piacevano gli schiamazzi. Amava molto di più il silenzio e quegli aggeggi con le ruote non lo attiravano più di tanto e forse, a dirla tutta, gli facevano persino paura. Non era mai andato in bicicletta e non gliene importava proprio nulla. Suo cugino glielo diceva sempre che glielo avrebbe insegnato prima o poi, che lo avrebbe convinto e che dopo aver imparato gli sarebbe piaciuto così tanto che non sarebbe più voluto scendere. Aveva sempre trovato la scusa per rifiutare il gesto gentile e alla fine era diventata una guerra. Quel giorno era il suo compleanno e Riccardo aveva pensato bene di regalargli una bella bicicletta. Aveva speso una cifra molto generosa per un ragazzo della sua età che non lavora, per potergliela comprare e alla fine aveva vinto. "Allora... metti un piede su un pedale, con l'altro ti dai la spinta e vai, facile!" Gli aveva detto con un sorriso a trentadue denti più smagliante del solito. Michele era incerto, era salito su quella bici nera e già gli sembrava un buon risultato, non capiva bene perché il cugino si era impuntato così tanto. Lo continuava a guardare spaesato e lo pregava con lo sguardo di farlo scendere, di riportare la bici al negozio e di chiuderla lì. Ma a quanto pare la comunicazione visiva non era così efficace. "Certo facile... Non sono cosa, lasciamo perdere! Io ti ringrazio, ma questa la riporti al negozio e siamo tutti felici e contenti". Stava per scendere, ma Riccardo fu più svelto di lui. "Ma quale negoziooooo! Vai cuginetto, che non è niente!" Così dicendo si attaccò alla parte posteriore del sellino e iniziò a correre. "Fermo! Che cazzo fai, cretino!? Così mi fai ammazzare! Fermooooooo!”. Ma lui continuava a correre e allora Michele iniziò davvero a pedalare. Il cugino si fermò esausto e lui continuò ad avanzare barcollando e urlando, disperato. Non sapeva come fermarsi e quando si vide davanti quella ragazza, gli salì una gran paura. Le urlò di spostarsi, lo fece più volte, ma la ragazza non sembrava accorgersene e quando finalmente si girò per vedere quello che stava succedendo era troppo tardi. La bicicletta volò un po' più lontana da loro, insieme agli occhiali di lui, e intanto loro erano sdraiati al suolo con i corpi doloranti a contatto tra loro. Michele fu il primo ad alzarsi. Le porse una mano e iniziò a chiedere scusa, rosso in faccia e con i il terrore stampato negli occhi nocciola. Senza gli occhiali non riusciva bene a mettere a fuoco la scena e non potendo ben constatare la condizione in cui lei era ridotta, diventava sempre più preoccupato. "Non ti scusare, la colpa è mia... Sono sempre con la testa per aria... Prima o poi mi farò ammazzare..." Lo guardava e rideva "quindi non scusarti, perché se no dovrei scusarmi anch'io". Afferrò la sua mano e si fece tirare su. "Sono Nina, comunque", lo disse così, come si dice un "ciao" qualunque a qualsiasi persona, come se a quella non interessasse e, probabilmente manco a te. Michele strinse gli occhi nell'arduo intento di mettere a fuoco il suo viso. Iniziò ad aprire la bocca per dare una risposta, ma Riccardo lo precedette: "lui è Michele e questi sono i suoi occhiali" gli afferrò il polso e glieli mise sul palmo. "E io sono il cugino bello e simpatico, Riccardo, molto piacere" le prese la mano con decisione e le fece l'occhiolino.
Nel giro di poco tempo sarebbe diventato il suo migliore amico, lo avrebbe iniziato a chiamare Willy il principe di Bel-air, per i suoi modi di fare, e avrebbero mantenuto il loro rapporto intatto anche dopo che lei si lasciò con Michele. Perché fu proprio di quest'ultimo che pensò per un momento di essere innamorata, di aver perso la testa, di avere una collezione di farfalle nello stomaco, di sentire una grossa fiamma rossa ardere dentro di lei e fu proprio per questo che si donò a lui. Per la prima volta nella sua vita, alla veneranda età dei suoi scarsi 15 anni fece l'amore con qualcuno, o almeno pensò di farlo, per poi rendersi conto che per quanto effettivamente tenesse a quel ragazzo occhialuto, il suo sentimento era ben diverso dall'amore, che raggiungeva una certa soglia nella scala dell'affetto, ma che dell'innamoramento aveva ben poco, purtroppo. Erano stati insieme per circa un anno. Avevano fatto tutto quello che una coppia di adolescenti normalmente fa o spera di fare e forse avevano fatto anche di più. D'estate erano stati a mare, in gommone con il vento in faccia e i capelli all'indietro sospesi in quell'azzurro acceso e in spiaggia attaccati, madidi di sudore ad arrostire come polli allo spiedo. Avevano visto le stelle dopo un campeggio in pieno bosco, tra il canto delle cicale, qualche zanzara affamata e una fifa sottile che solo la natura nel buio della notte può incutere. Avevano ingurgitato gelati dopo gelati, pizze, sfincioni, patatine fritte e chi ne ha più ne metta. Avevano camminato ore mano nella mano, andavano a fare gite in bicicletta -alla fine Riccardo aveva avuto ragione-, si parlavano al telefono, si inviavano messaggi pieni di cuori e ad un certo punto erano entrati in quella fase in cui quando c'è una festa e inviti uno è d'obbligo invitare anche l'altra. D'autunno avevano osservato le foglie diventare gialle e poi cadere, si erano abbracciati quando un venticello fresco li aveva colti alla sprovvista regalandogli dei brividi di freddo lungo la schiena. Avevano visto le spiagge svuotarsi, la scuola ricominciare e l'inverno arrivare. Si erano stretti l'un l'altra nei maglioni doppi e spessi la notte di capodanno e avevano addentato insieme un biscotto di San Martino facendo a gara a chi riusciva a spezzarlo per primo. Lui le regalò una rosa a San Valentino e lei un uovo di cioccolato per Pasqua. In primavera videro i campi fiorire e incominciarono a puzzare di fumo a forza di scampagnate varie. E poi eccola di nuovo lì! L'estate, calda e soleggiata con un cartello in mano con su scritto fine a caratteri cubitali. D'estate si erano messi insieme e d'estate si lasciarono. Fu Nina a prendere questa decisione. Fu un momento, un'illuminazione improvvisa, una presa di coscienza che la obbligava a spostarsi dal punto in cui era. Fu un lampo a ciel sereno, una botta in testa improvvisa, una padellata in piena faccia che se la prendi cadi, anche se pesi 180 chili e sei più basso di un nano.
Quel giorno dove lui l'aveva praticamente investita, senza sapere come, si ritrovò ad essere invitata alla sua festicciola di buon compleanno, in mezzo a parenti di tutte le età, che stampavano baci a destra e a manca e ragazzini per bene, che guardavano sospirando gli alcolici e gli adulti a momenti alterni. Erano in un ampio terrazzo con dei tavoli attaccati al muro con cibo per migliaia di persone. In ogni caso quel terrazzo era quadrato e non aveva punti ciechi, per cui risultava impossibile fumare o incominciare a tracannare come un cammello, senza essere visti. E quando ci sono degli adulti di mezzo, che possono riferire qualsiasi cosa ai tuoi ben pensanti genitori, il coraggio si annulla. Di solito c'erano sempre quei due o tre, che raccolto quel po' di coraggio in corpo, eccoli che vanno lì, acchiappano il primo alcolico che trovano e via! Ecco che tutti gli altri si scordano della mala fiura e si incamminano anche loro verso il tesoro perduto. Stranamente uno di questi era Michele. Sì proprio lui, quell'intellettuale, solitario e un po' asociale, quel secchioncello che preferiva i libri ad una partita di calcio, versioni in latino piuttosto che un gioco per una qualsiasi console, un binocolo ad un qualsiasi motorino e che da quando era entrato alle superiori accettava molto più volentieri una sigaretta piuttosto che una caramella. Aveva iniziato così, per un non nulla, per una sigaretta buttata a casaccio da un ragazzo qualsiasi. Aveva fatto l’ultimo tiro e con noncuranza l’aveva lasciata cadere. La cosa curiosa è che la campanella aveva iniziato a suonare proprio in quell’istante in cui la sigaretta toccava il suolo, rimbalzando appena e continuando a fumare, arancione e calda, quando ormai il suono era cessato. Michele aveva visto questo piccolo dettaglio, l’aveva osservato e accarezzato con lo sguardo. Aveva avuto un’improvvisa voglia di fumare anche lui. Non aveva mai fumato e non ci aveva mai neppure pensato. La salute o i genitori sembravano non avere posto tra i suoi pensieri e Il suo unico problema rimaneva il dispendio di tempo lontano dalla lettura, che avrebbe dovuto usare per andare a comprare un nuovo pacco, una volta che quello precedente fosse finito… Poi però ha rivisto quella sigaretta cadere al suolo nella sua mente e per qualche motivo ha pensato che quello fosse un segno del destino e che quei bastoncini puzzolenti avrebbero portato qualcosa di importante, prima o poi, nella sua tranquilla esistenza. Così si incamminò verso un tabacchino e comprò il suo primo pacco, delle Chesterfield blu perchè in offerta, e un accendino. Appena fuori ne fumò subito una, tossì appena al primo tiro, ma sorrise e da quel momento in poi nella sua borsa c’era sempre un libro, un clipper e un pacco di sigarette. Smise di fumare a 33 anni, quando gli nacque il primo figlio. Stava lì a guardarlo mentre dormiva, ascoltava il suo respiro e cercava tra i lineamenti del pargolo il proprio viso. Quella era la prima notte che passava tra le mura di casa, dopo un lungo ed estenuante soggiorno in un’incubatrice dell’ospedale. La moglie dormiva ormai da tempo, esausta, e lui era lì, stordito e convinto di trovarsi in un sogno piuttosto che nella realtà. La verità è che fino a quel momento non aveva ancora realizzato di essere diventato un padre. Prima di poterlo portare a casa erano passate un paio di settimane e il fatto di poterlo vedere solo poche ore al giorno lo aveva intrappolato in uno stato molto simile al dormiveglia. Sapeva che era nato, ma era come se in realtà non fosse mai successo, era come se la moglie fosse ancora incinta, a dormire per qualche giorno dai genitori - come spesso accadeva. Ma adesso che se lo trovava lì, a ronfare con gli occhi chiusi e la bocca sdentata spalancata, non poteva fare altrimenti se non realizzare. Era notte fonda e tra le dita aveva la quinta sigaretta della giornata. Ne fumava sempre 3, da quando aveva iniziato erano state solo tre le volte in cui ne aveva fumata qualcuna in più: per la sua laurea, per il suo matrimonio e per quel giorno. Si soffermò a fissare quella sigaretta ancora spenta e pensò a quel lontano giorno dei suoi quindici anni in cui fumò per la prima volta… Le sigarette gli hanno portato qualcosa di molto importante nella vita alla fine? Si, la moglie. Si era fermato su un muretto a leggere e fumare. Era un giorno soleggiato di un’estate che stentava ad arrivare, il sole era alto nel cielo, gli accarezzava la zazzera di capelli e gli bruciacchiava appena il collo, ma non era ancora quella palla luminosa che, anche all’ombra, ti fa sentire la sua calda presenza. Quello era un giorno no per Michele. Le batterie della sveglia, scariche, non permisero a questa di suonare. Nervoso, nel modo di prendere la tazzina bollente col caffè dentro, si scottò e quel bicchierino di ceramica colorata si ruppe in mille pezzi, lasciando una chiazza marrone sulla moquette bianca. Imprecò e mandò maledizioni a dei che, se esistevano, lo facevano solamente nella sua fervida immaginazione. Come volevasi dimostrare perse il treno e dovette farsi a piedi un cinque km buoni fino all’università, dato che il prossimo treno sarebbe passato un’ora e mezzo dopo… Riuscì ad arrivare solo 5 minuti dopo l’inizio della lezione, ma una volta sulla soglia si rese conto che non aveva alcuna voglia di entrare, non aveva alcuna voglia di stare ore ad ascoltare il suo professore che parlava di stelle, non aveva alcuna voglia di stare seduto al suo posto, fermo e rigido, nel duro intento di non far scricchiolare quelle maledettissime, antiquate - tanto per non dire vecchie e malandate - sedie di legno. Sospirò, fece dietro front e decise che avrebbe impiegato quell’oretta diversamente. Ed ecco com’era arrivato a sedersi su quel pezzo di cemento, con un libro in una mano e una sigaretta accesa nell’altra. Piano piano incominciava a calmarsi e proprio quando iniziò a pensare che la giornata si sarebbe sistemata ecco che soprappensiero buttò la cenere per terra, solo che colpì il piede di una ragazza con gli infradito, anziché il suolo. Inutile dire che la fanciulla si mise a urlare, mentre nel suo bel piedino abbronzato si formava una scottatura rossa che, ben presto, avrebbe lasciato un segno. Lui fu scosso da quell’urlo e finalmente si accorse di ciò che aveva combinato. Iniziò ad elencare tutte una serie di scuse, a diventare rosso, agitato e preoccupato e alla fine le offrì un caffè e un cornetto per farsi perdonare. Parlarono e scoprirono di piacersi, così si scambiarono il numero di telefono e due anni dopo si sarebbero sposati. A quanto pare la sua testa tra le nuvole, la sua goffaggine e la sua enorme capacità di causare incidenti alle sconosciute, alla fine, forse, erano le sue fortune più grandi. E quella maledettissima giornata diventò la più bella della sua vita.
Erano passati anni e ora che guardava quella Merit, si rese conto che non aveva più bisogno di fumare, che quelle sigarette, alla fine, avevano fatto la loro parte e che ora aveva una splendida donna che lo amava, ronfante nel loro letto con le lenzuola pulite, bianche e sgualcite, e il primo di una serie di figli che, se non erano perfetti per gli altri, lo erano sicuramente per lui. Sorrise e quella fu l’ultima sigaretta che fumò. Fu la prima e l’ultima che fumò per il solo piacere di farlo. Dopo l’ultimo tiro, si portò la mano davanti a sé e lasciò quel mozzicone cadere ai suoi piedi. Si chinò a terra e, prima di ritornare a coricarsi dalla sua parte del letto, guardò la cenere spegnersi definitivamente.
Ma torniamo a quella sera, quando compiva 17 anni e non riusciva a staccare gli occhi da Nina, a quella sera in cui non fumò neanche una sigaretta, prima volta dopo anni, quella sera in cui non andò a prendersi da bere per primo, quella sera in cui non pensò ai libri, alle stelle che lo guardavano dal cielo, ma quella sera in cui andò dritto dalla ragazza di cui a breve si sarebbe innamorato, o di cui forse lo era già. Le sorrise dolcemente e le chiese di concedergli un ballo, allungandole la mano come nei film. Fu sollevato dopo che questa, un po’ riluttante, alla fine gliel’afferrò e si fece trascinare al centro della pista. Erano una coppia strana, sicuramente scoordinata e senza alcun senso del ritmo. Era quasi ridicolo pensare che Michele, che non aveva mai ballato, e che a quanto pare, non era proprio cosa sua, avesse scelto proprio questa tattica per prendere confidenza con lei. Ma lei di questo non si curò. Sentiva il calore del corpo di Michele a contatto col suo, un contatto che aveva sentito qualche ora prima e che per qualche motivo aveva lo strano effetto di calmarla. Guardarlo negli occhi la rassicurava, si sentiva a suo agio e se fosse dipeso da lei avrebbe volentieri continuato così in eterno, a dondolarsi senza un ritmo effettivo, forse più per inerzia che per un trasporto vero, pur di continuare a sentire i loro corpi toccarsi. Quel ragazzo aveva il fascino del così detto “sfigato un po’ nerd con un mondo tutto suo”. Quei vestiti un po’ larghi, quegli occhialoni quasi più grandi del suo viso, il suo modo di fare un po’ goffo, ma in realtà deciso, creavano un personaggio sui generis, che aveva quella bellezza caratteristica di quelle creature che belle non sono, ma che possiedono una particolarità quasi sconcertante, che ti catturano e che più le guardi, più ti piacciono, più te ne senti stregato e ad un certo punto, senza sapere come, te ne ritrovi catturato. E Nina lo fu, fu catturata da Michele allo stesso modo di come questo era stato catturato da lei, in quella notte che quasi non parlarono, quasi non si toccarono, ma che in qualche modo li legò per il tempo a venire.
A 15 anni Nina ancora non era quella forza attrattiva che sarebbe divenuta nel giro di qualche anno, era come la forza potenziale in fisica, ovvero la capacità di un corpo di trasformare la propria energia interna in lavoro. In pratica un corpo fermo possiede al suo interno un’energia che, anche se non si vede, è lì e che da un momento all’altro potrebbe essere usata da questo per mettersi in moto, per emanare calore, e chi ne ha più ne metta. Ecco quello che era Nina: un corpo dotato di un’energia potenziale enorme, che in poco tempo si sarebbe trasformata in un’energia cinetica altrettanto grande, che l’avrebbe trasformata in un proiettile inarrestabile, capace di attraversare finemente e con eleganza il cuore di tutti quelli che le si sarebbero parati davanti. Ancora non sapeva come sarebbe stato ricevere tutte quelle attenzioni, neppure si immaginava che avrebbe conosciuto il sapore della popolarità, l’unica cosa che pensava sarebbe successa, che era sicura sarebbe accaduta non si realizzò mai. Si aspettava l’amore, si aspettava di impazzire, di perdere il senno, di diventare una cieca strana capace di vedere solo lui, Michele, e invece no. Cupido non aveva scoccato la sua freccia, forse Venere era dalla sua parte, forse era anch’essa era tra quelli che la bramavano, ma forse proprio per questo, non avrebbe mai permesso che il suo cuore perdesse la sua libertà, legandosi a qualcuno. E così Nina non si innamorò di Michele, non si innamorò di nessuno dei ragazzi con cui uscì, con cui andò a letto, con cui si tenne per mano, con cui cenò, parlò, si confidò, pianse o litigò. Lei poteva avere chiunque e non desiderava nessuno, tutti la volevano e nessuno di loro poteva ottenerla. E lei? lei voleva sapere cosa significava innamorarsi. Non ci aveva mai pensato, non le era mai importato, ma quando si era trovata incapace di ottenerlo si era convinta che era l’unica cosa che desiderava davvero. É come se nel momento in cui realizzò che quello che provava non era quello che avrebbe dovuto provare qualcosa in lei si mosse, si trasformò. Nina è nata da uno sguardo, è nata da un amore improvviso, dall’improvvisa consapevolezza di essere finalmente arrivata nel posto in cui voleva arrivare. Ed è stata quella mancanza, quel vuoto, quell’arto amputato, quel pezzo del puzzle perso chissà dove, chissà quando, la causa della sua esistenza. Michele è stato la scintilla, quel primo gesto che le ha permesso di nascere, di esistere. Quella notte ha tracciato una linea, una strada che Nina avrebbe seguito, percorso e che l’avrebbe portata lì, in un’altra notte, in un altro tempo, con un tendone sulla testa, i capelli bagnati, i vestiti aderenti fradici al corpo intirizzito, il rumore della pioggia attorno a lei e dei passi, veloci, vicini, che arrivano, si fermano. Ed eccolo lì quello sguardo, quell’incontro, finalmente. Ognuno di noi nasce per un motivo, un desiderio, un sogno e vive per appagarlo. Nina è nata per inseguire l’amore, trovarlo, riconoscerlo e farlo suo. É nata per amare un’unica persona, per incontrarla e starle accanto. Michele è stato la prima tappa, è stato il primo livello di un gioco intricato in cui in palio non c’è la vita o la morte, non c’è il bene o il male, la fine del mondo, la ricchezza o la povertà, ma la cosa più vicina alla felicità.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 ***


                                                            Capitolo 1

18/09/2015, sera inoltrata, Nina

Sono solo le undici e mezza, la notte è ancora giovane, quasi bambina. È troppo presto, è troppo strano. C'è ancora gente per strada. Ci sono famiglie con bambini; ragazzini con lo skateboard in mano, con un cappello in testa, una felpa e dei jeans che ridacchiano tra loro; ci sono ragazzi che camminano ridendo e chiacchierando, probabilmente diretti verso uno dei tanti pub che ci sono qui in giro; ci sono un paio di cani che sconsolati si trascinano in giro cercando qualche avanzo e c'è un gatto che da un balcone li osserva, ha lo sguardo furbo e beffeggiante, caratteristico della sua specie. Sono creature particolari, speciali e misteriose, i gatti. Sembrano che non siano di questo mondo, sembrano essere dei visitatori da un’altra dimensione, sembra che ti osservino nascondendo chissà quale segreto. Si crogiolano in esso e ti guardano, ti fissano, sadici nello sguardo. Non per niente erano reputati i guardiani dell'altro mondo dagli egiziani. Gli antichi pensavano che avessero poteri speciali, e forse tanto torno non avevano. Sono eleganti e sfuggenti. Sono liberi nell'animo, potrai fare tutto quello che vuoi, potrai amarli alla follia , ma non riuscirai mai a farti amare da un gatto più di quanto lui ami se stesso. Ed eccolo lì, accovacciato su quel cornicione che guarda in giù il suo nemico giurato, e sembra sogghignare, sembra sorridere divertito, perfettamente sicuro di se stesso e del mondo. I suoi occhi brillano, le luci della città si riflettono nel giallo del suo sguardo. Mi piacciono i gatti. Mi hanno spesso detto che gli somiglio molto, mi sono spesso sentita dire "si na iatta senza padrone". In pratica vuol dire che alla fin fine il mio tornaconto è ciò che metto al primo posto, significa che se devo proprio scegliere in cima metto me stessa e poi tutti gli altri. Non ci vedo nulla di strano, è quello che fanno un po' tutti, no? E allora perché io sono sotto accusa e gli altri no? Perché qualcuno si dovrebbe sentire in dovere di dirmelo? Sembra che tutti abbiano sempre qualcosa da dire, da consigliare, da criticare. Pensano sempre di saperne più di te, si convincono di custodire un segreto e quando te ne parlano le loro labbra sono distese in un sorriso ironico, nei loro occhi brilla una luce flebile, ma decisa e il loro tono è calmo, un po' più basso del normale e composto. Se gli dai ascolto ti sorridono compiaciuti, se gli dici che hanno torto si innervosiscono e il loro tono cambia, diventa alto, non più calmo, non più composto, sembrano dei compatrioti che parlano del loro paese e si sentono in dovere di farti vedere quanto grande è il loro amore e la loro devozione, quanto poco facile è restare così fedeli, ma quanto giusto e lodevole sia. È sempre la stessa storia, finisce sempre male, ogni volta che qualcuno sembra in dovere di consigliarmi qualcosa perché si sente un "professionista" dell'argomento, io mi sento in dovere di dargli torto. Anche se dovessi pensarla allo stesso modo, mi sentirei in dovere di sostenere il contrario. Se qualcuno mi dicesse, con tono da maestrina, che il cielo è azzurro, che i pesci nuotano, che le tartarughe sono lente o che il legno galleggia mi sentirei in dovere di fargli notare che il cielo è giallo, che i pesci volano, che le tartarughe corrono più veloci di Speedy Gonzales e che il legno affonda più del piombo. Ricky dice che mi dovrei calmare, che dovrei farci il callo ed essere meno sul piede di guerra e più comprensiva, rilassata. Che importa se qualcuno ha voglia di darmi un consiglio? Non devo per forza seguirlo, posso semplicemente ascoltare e magari cambiare discorso, ma non per forza devo prendermela sul personale e mettere su guerra, in fondo, per un non nulla. "Sono cose che facciamo tutti, lascia stare e si più matura di così", mi dice una volta Riccardo. "E invece no" gli rispondo, "non vedo perché la gente deve prendersi la briga di dirmi quello che dovrei fare, come dovrei comportarmi o quello che dovrei dire. Non capisco perché ognuno debba farsi i cazzi degli altri, che si facciano i propri, no!?" E allora mi guarda e scoppia a ridere "mica tutti sono come D'Annunzio" e allora anch'io rido e finisce che ad un certo punto finiamo sul pavimento in lacrime. La battuta non è così divertente, non faceva proprio ridere. È Riccardo che mi fa ridere, è il mio buon umore, quando sono con lui rido, anche se dovessi piangere un fiume più lungo del Nilo e non per gioia, ma per tristezza. Credo sia questa l'amicizia, la vera amicizia. E siamo amici anche se lui mi fa notare quando sbaglio e mi da dei consigli. Forse è l'unica persona che non sento il bisogno di contraddire, almeno non per partito preso. E in questo caso ha ragione. Se mi ritrovo per le strade della città sola a guardare la gente che passeggia e un gatto spelacchiato su un tetto è solo colpa mia e di questa mia testaccia dura. È la seconda volta che succede nel giro di una sola settimana. Forse dovrei smetterla di accettare di uscire con qualcuno così, tanto per. Vado in cerca dell'amore, vado in giro cercando qualcuno che m'insegni cos'è, qualcuno che riesca a farmi innamorare e alla fine rimango sempre delusa. Forse l'anima gemella esiste davvero, forse anch'io ne ho una, forse devo solo essere paziente e prima o poi sbucherà fuori dal nulla e dirà "eccomi! Scusa il ritardo", o magari è schiattata chissà dove chissà quando, o può essere che io sono nata essere umano mentre lei è nata gatto, topo o magari pesce, chi lo sa... o, ancora più plausibile, semplicemente non esiste e io sto cercando a vuoto. Forse dovrei rassegnarmi. Dovrei finirla qui. Dovrei accontentarmi dei flirt, di qualche nottata di sesso estremo, occasionale, appagante e fine a se stesso. Dovrei finire di farmi illusioni. Dovrei smettere di pensare che da qualche parte esiste una creatura che è nata solo per incontrarmi, per farmi perdere la testa, per lasciarsi amare da me. Dovrei iniziare a valutare l'idea di una vita fatta solo di me stessa, di qualche amico e di qualche piacere appagato. Il sesso mi piace. Lo trovo naturale quanto bere, mangiare, respirare o dormire. La prima volta avevo 15 anni. Non è stato meraviglioso, non è stata tutta questa esplosione di fuochi d'artificio di cui tutti parlano, non ci sono state campane che suonavano nella mia testa, ma non ho sentito neanche il dolore che molti dicono di aver provato. È stato bello, inesperto e impacciato. È un ricordo caldo, tenero, eravamo tutti e due dei ragazzini senza esperienza che giocavano a fare gli adulti. Michele fu molto dolce, calmo e un po' nervoso, fece tutto secondo i miei ritmi e si assicurò che non mi facesse male. Pensò più a me che a se stesso. In quel momento, rivedendomi nei suoi occhi, sentendo i suoi muscoli contrarsi sopra di me, la sua pelle sudata strisciare sulla mia, la voce rauca che mi sussurrava parole dolci, capì che mi amava davvero, capì fino a che punto sarebbe arrivato e capì in che posizione stavo io. Fino a quel momento pensavo di ricambiarlo e invece no. Non lo ricambiavo affatto. Ero convinta di amarlo e invece no. Non lo amavo affatto. Il mio era solo un grande affetto, un affetto che conservo tutt’ora, ma nulla di più. Lasciarlo è stata una delle scelte più difficili che ho mai preso in tutta la mia vita, ma è stata anche una delle più giuste. All’inizio non volevo. Mi ero convinta che fosse solo una sensazione, qualche pensiero passeggero che sarebbe andato via da solo, nel giro di poco tempo. É inutile mentire a se stessi. É inutile cercare di autoingannarci, di creare un illusione in cui vivere. Sappiamo sempre cosa è giusto per noi, possiamo anche negarlo, fare finta di niente, ma alla fine la verità uscirà allo scoperto, si farà strada fuori di noi e sarà impossibile ricacciarla indietro, continuando a mentire. Così, giorno dopo giorno, quella sensazione, a poco a poco, diventò certezza, e l’unica cosa che rimase da fare fu dirlo a Michele. Mi ascoltò in silenzio. Ad un certo punto smise di guardarmi negli occhi; diventava sempre più rosso, pensavo si sarebbe infuriato e invece scoppiò semplicemente in lacrime. Si scusò e andò via, così, senza aggiungere altro. Non lo sentì né lo vidi per lungo tempo. Passarono anni prima di rincontrarlo. Avevo continuato a vedermi con Riccardo, all’inizio le cose erano un po’ strane, non prendemmo l’argomento per mesi. Se provavo a chiedergli qualcosa scuoteva la testa, restava un po’ in silenzio e poi cambiava discorso. Avrebbe dovuto scegliere, e la scelta non sarei dovuta essere io, ma mi voleva troppo bene. Così semplicemente non scelse. Decise di rimanere neutrale, e questo implicava che l’argomento era tabù e che non ne avrebbe parlato né con me né con lui. Poi un giorno mi disse semplicemente che Michele stava bene e che non dovevo più pensarci. É stata una semplice frase buttata lì per caso, come un amo in mare aperto senza neanche un piccolo verme agganciato. Sapeva che avevo sentito, sapeva che avevo capito e io sapevo che dovevo accontentarmi. Con lui ho sempre parlato di tutto, e con tutto intendo proprio tutto. É come un prete nel confessionale, ascolta i miei peccati e poi mi aiuta a fare ammenda, o almeno a trovare una soluzione. Ma Michele era suo cugino, era un suo amico e gli voleva bene. Si sentiva già in colpa per non aver saputo schierarsi e non avrebbe peggiorato le cose facendo un “doppio gioco”. A volte è stato difficile trattenersi, non prendere l’argomento, ma è stata una decisione che ho sempre rispettato e ammirato. Ricky è uno sbruffone, ama divertirsi, scherzare e giocare come un bambino, ma sa essere anche serio e giusto quando vuole. É una persona su cui si può fare affidamento. É il mio migliore amico e, oltre a volergli un gran bene, di lui mi fido ciecamente. É sempre stato lì pronto ad ascoltarmi e ad aiutarmi, a sorbirsi le mie lamentele e i miei capricci. In questo momento, stanca, nervosa, strascicando i piedi per queste strade troppo illuminate, troppo vive, è al suo viso che penso. Riesco perfettamente a vederlo mentre prende il telefono che squilla, la sua espressione che cambia quando legge il mio nome. Riesco a sentire il suo sospiro prima di rispondere e la sua voce, che stanca, mi chiede dove deve venirmi a recuperare. Lo vedo discutere con Vera, la sua ragazza, e poi acchiappare le chiavi della macchina e scappare tra le urla di lei. Lo vedo prendere al volo la giacca marrone di pelle e scendere le scale 2 gradini alla volta. Sento il rumore del motore che si accende, il piede che spinge sulla frizione, la prima marcia ingranare e le ruote partire. Sento il suo nervosismo, la sua preoccupazione, e la rabbia salire. “Oggi mi sente, questa è l’ultima volta” si ripeterà a denti stretti, con le mani salde sul volante e la fronte sudata. Arriverà qui, mi vedrà e stringerà gli occhi, si ricorderà mentalmente di essere infuriato con me e mi dirà “sali.”. Non voglio immaginare il tragitto verso casa, non voglio immaginare il suo silenzio e le sue occhiatacce, non voglio rivivere quello che è già successo già tante volte, troppe volte. Non voglio causargli ancora problemi. Sono stanca di chiedergli scusa e sono stanca di dirgli grazie. Sospiro, voglio potermela cavare da sola, senza chiedere nulla. Oggi non lo chiamerò, non gli permetterò di piombare qui come un padre responsabile che va a prendere la figlia scapestrata. Domani mattina prenderò il treno e tornerò a casa, senza chiedere l’aiuto di nessuno.
Mi fermo e faccio un respiro profondo. L’aria è molto più fredda e umida rispetto a quando sono uscita di casa stasera. Presto scoppierà un temporale, ne sono sicura. So sempre quando sta per piovere. É come un sesto senso, un sesto senso che non ha mai fallito. Amo la pioggia. É come se il cielo piangesse, come se attraverso queste piccole gocce ci trasmettesse la sua gioia o la sua tristezza. Quando piove tutto rallenta. La gente cammina più lenta, con gli ombrelli in mano cercando di schivare l’acqua. Le macchine si bloccano nel traffico, persino in autostrada sono costrette a rallentare. I cani randagi cercano un posticino coperto in cui rifugiarsi, infreddoliti e stanchi. I ragazzini all’uscita da scuola vanno subito a casa, con i cappelli in testa e le braccia strette al corpo intirizzito. Le biblioteche, i bar, i fast food e i negozi si riempiono di persone. Se guardi fuori, le carreggiate sono gremite di auto in colonna, ma i marciapiedi sono deserti. La città ha un aspetto grottesco e solitario. Tutto cambia colore, diventa grigio e opaco. Il suo rumore mi calma, ma mi trasmette anche uno strano senso di nostalgia e tristezza. Se il sole è caldo e radioso, la pioggia è fredda e malinconica. Ed eccola qui la prima goccia, dritta dritta sul mio naso. Chiudo gli occhi e sorrido, anche stavolta ho avuto ragione. A quel primo ago bagnato ecco che se ne aggiunge un altro, e poi un altro ancora. Da uno diventano due, poi tre, poi mille, poi un milione e poi infinite piccole spine iniziano a precipitare al suolo. Mi pungono e mi bagnano. Il mondo si trasforma, diventa un altro, con altri colori, altri odori, altri rumori. I miei pensieri si annullano. Sento solo la pioggia che mi cade addosso, i capelli bagnati che si attaccano alla fronte così come i vestiti alla pelle. Sento l’odore della terra bagnata e il rumore del picchettare frenetico della pioggia sull’asfalto. É un tendone bianco e grande che vedo quando finalmente riapro gli occhi.

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 ***


                                                          capitolo 2

19/10/2015, notte inoltrata, Giulia

Quella fu la prima notte dopo svariate settimane che piovve. Scese una pioggia a catinelle, che più che gocce parevano cati d’acqua ghiacciata. L’autunno era alle porte, eppure quella sembrava una pioggia invernale. Il tempo sembrava aver fatto un salto, forse quest’anno l’autunno gli faceva antipatia, forse era il gelo dell’inverno che desiderava, forse era congelarsi, immobilizzarsi il suo desiderio più profondo. Fermarsi dal suo perenne cammino e regalare all’uomo l’immortalità. Sarebbe stato divertente osservare tutti questi piccoli uomini gioire del regalo ricevuto nell’immediato, per poi impazzire una volta resisi conto di come una vita senza morte è come una moneta con un’unica faccia: strana e disturbante, la tua mente si aspetta una cosa e la realtà te ne concede un’altra. Ma non era un qualcosa che poteva permettersi, non era stato creato per sapere cosa fosse il riposo, la possibilità di potersi fermare non faceva parte delle sue possibili scelte. E così quella notte fu solo un caso, fu uno errore stupido di chi controlla il cielo, e fu questo sbaglio che le fece incontrare.
Nina era già lì da tempo, seduta sul gradino dell’entrata di quel negozio di souvenir, bagnata fradicia, che fissava il vuoto e pensava. Il proprietario si era scordato il tendone aperto, e grazie a questa dimenticanza non aveva dovuto fare i km per trovare un altro posto in cui ripararsi. Non soffriva il freddo, ma quella pioggia la prese alla sprovvista, e quella sottile camicetta color senape, ora persino gocciolante, non era abbastanza per riscaldarla. Così se ne stava lì, raggomitolata su se stessa, abbracciando le sue stesse gambe, con la testa persa chissà dove. Tutta la gente che prima vagava per le strade era scomparsa nel nulla e lei sembrava essere l’unico essere vivente nel raggio di un km. La pioggia aveva iniziato a cadere con una forza sconcertante, il suo rumore naturale copriva tutti quelli artificiali della città, e il suo scendere così fitto non permetteva la vista di quello che la circondava. Era come stare dentro una stanza con le mura invisibili eppure spesse.
E poi eccola, una figura che veloce si avvicina sempre di più, i suoi passi che lentamente si iniziano a sentire, e poi la sua irruzione dentro quello spazio isolato dal mondo intero. Era un cappotto enorme verde militare, da cui uscivano due sottili gambe femminili. Dal cappuccio alzato e stretto al viso si intravedevano degli occhi verde scuro e delle ciocche nere, su un viso spaventosamente bianco. I jeans erano zuppi d’acqua, avevano palesemente cambiato colore, così come le scarpe di stoffa, sporche di fango, per una pozzanghera presa per sbaglio.
“Spero smetta presto…” disse una vocina non molto convinta, da quel cumulo spropositato di vestiti. L’aveva semplicemente detto tra se e se, a bassa voce, abbattuta e sconfortata, osservando la pioggia cadere.
“Non smetterà fino a domani mattina.” le rispose Nina, dalla profondità insondabile dei suoi pensieri. Non si era neppure accorta di averle risposto.
Alice si girò e finalmente si accorse della sua presenza, si strofinò le mani l’una contro l’altra e poi si abbassò il cappuccio, “come scusa?”.
“Smetterà di piovere domani mattina”, Nina continuava a fissare un punto invisibile a pochi passi dai suoi piedi, probabilmente manco si accorgeva di stare avendo una conversazione con qualcuno.
Alice sospirò, “hai guardato le previsioni meteo?”, aveva un tono rassegnato.
Nina mosse distrattamente la testa a destra e sinistra, “No”.
Alice corrucciò le sopracciglia, “sei una specie di animale selvatico, per caso?”, guardava in direzione di Nina, ma a parte capelli, scarpe e mani, di lei riusciva a vedere ben poco.
Sentendo quella domanda, finalmente Nina si destò dai suoi pensieri e accorgendosi della presenza di un’altra persona, distese le gambe e alzò la testa. Quella che vide fu una bella ragazza. Aveva un viso sottile attorniato da capelli ricci nero corvino, degli occhi verdi spiccavano su un biancore immacolato e le sue labbra carnose e rosse, appena socchiuse, lasciavano vedere dei denti bianchi, appena spostati da quella posizione che gli avevano imposto l’apparecchio anni prima. I suoi lineamenti non erano perfetti, ma nel complesso erano molto gradevoli e questo contrasto tra il biancore della pelle, il verde degli occhi, il nero dei capelli e il rosso delle labbra le conferivano una certa bellezza. Nina rimase piacevolmente colpita. Sorrise appena e continuò a guardarla, “Può essere, spiegherebbe molte cose”.
Alice si strinse nel giubbottone, la bellezza di Nina l’aveva sconcertata. Non aveva mai visto un’essere umano così bello. Era abituata a sentirsi dire di essere una bella ragazza. e anche se non ci aveva mai dato troppa importanza, sentendoselo dire di continuo piano piano diventò una certezza di cui andare fiera, una certezza su cui fare affidamento e ora che era lì, davanti a Nina, si sentiva come la più brutta tra gli anatroccoli. Si accorse che la stava fissando e distolse gli occhi, per poi tornare a sostenere il suo sguardo “tipo?”.
(Nina): “tipo?”, sorrise, “per esempio so che quel giubbotto non è tuo perchè ha un odore maschile”, aveva uno sguardo ironico, “a chi lo hai rubato?”.
Alice abbassò lo sguardo su quel coso gigantesco. Ci mise un po’ a capire che la stava prendendo in giro, quindi rialzò gli occhi e diventando rossa in viso si mise a ridere nervosamente. “É di un mio amico, me l’ha prestato per andare in un posto, sperando di vincere contro la pioggia”, si fermò un attimo, si girò indicò con il pollice quel diluvio universale, si rigirò ancora, guardò Nina, distolse di nuovo lo sguardo e guardandosi le mani, disse a bassa voce “ma a quanto pare ha vinto lei”. Le sue mani erano diventate rosse, e l’orologio che aveva al polso segnavano le 00:13. Sospirò. “Sei proprio sicura che continuerà così fino a domani?”, aveva uno sguardo un po’ triste.
(Nina): “Magari mi sbaglio…”, quella ragazza le faceva stranamente simpatia.
(Alice): La guardò non molto convinta: in ogni caso la pioggia non accennava né a smettere né tanto meno a calmarsi. “Tanto mezzanotte è già passata e ho pure dimenticato il telefono sul tavolo della cucina! Insomma, buon compleanno Paolo!”. Sospirò ancora e poi si portò le mani alla cerniera del giubbotto. “Che dici? Brindiamo insieme a Paolo?”. Aveva un sacchetto con almeno 3 bottiglie di vino legato alla vita. “Toccava a me portare parte degli alcolici”. Infilò la mano in una tasca del giubbotto e ne estrasse un apri bottiglia, si slegò il sacchetto dalla vita e ne prese una. “Ti piace il vino rosso?”. Per come l’aveva detto sembrava più un’affermazione che una domanda. Le sue mani tremavano, e la sua vista si andava offuscando. “É un mio amico, è una gran bella persona, c’è stato tante volte per me. Ormai lo conosco da qualche anno, e mi ha salvato tante volte. Non lo conosci, ma ti piacerebbe. Piace a tutti, o forse a quasi tutti, comunque alla maggior parte delle persone. Si, è davvero una bella persona” La sua voce tremava esattamente come le sue mani, che invano cercavano di aprire quella maledetta bottiglia. La prima lacrima colpì il pollice di Nina. Alice saltò appena in aria vendendo quella mano entrare nel suo campo visivo e afferrare la bottiglia. “l’apro io”. Con l’altra mano le alzò il viso e le asciugò una lacrima prima che questa potesse scenderle lungo la guancia. Poi delicatamente le prese anche l’apri bottiglia. “vieni, sediamoci”. Si passò quell’arnese d’acciaio nella mano con il vino e lentamente le afferrò il polso. La condusse a quel gradino rosso mattone e la fece sedere. “Lo ami?”. La guardava come un bambino curioso che chiede il significato di un termine che ancora non appartiene al proprio vocabolario. Non c'era malizia nei suoi occhi, forse solo un po' di invidia, ma nulla di più. Voleva solo capire. Il gradino non era molto spazioso, riuscivano a malapena a stare l’una di fronte all’altra in una posizione che non era molto comoda, ma che costringeva i loro ginocchi a contatto. Alice non rispose per un po’, guardava Nina e in testa aveva il vuoto più assoluto. Quella domanda improvvisa asciugò quel piccolo pianto imminente. Si perdeva in quello sguardo infantile e pensava a Paolo. “Si, lo amo”. Spostò lo sguardo sulle mani di Nina che iniziarono ad armeggiare con quel tappo di sughero, facendo un bello schiocco quando finalmente fu tolto. Appoggiò il cavatappi a terra, fece un sorso e passò la bottiglia ad Alice.
(Nina): “Perché?”, eccola di nuovo bambina.
(Alice): Sentiva il suo sguardo su di se, ma non osava alzare gli occhi oramai secchi. Non le piaceva piangere davanti agli altri soprattutto se si trattava di sconosciuti, ma non era mai stata in grado di trattenersi. Le sue emozioni sembravano sempre voler scappare dal suo corpo e lei non era abbastanza forte da trattenerle a sé. “Perché?”. Sembrava la domanda più facile del mondo, eppure non aveva idea di quella che potesse essere la risposta, non ci aveva mai pensato, sapeva solo che era così. “Non so perchè, non c’è bisogno di un motivo, penso. Paolo è un bravo ragazzo, veniva nella mia stessa scuola del liceo. Abbiamo la stessa età, l’ho conosciuto per un corso. É alto e magro, ha i capelli castano e la carnagione scura, ha le mani grandi e quando sorride gli spunta un’unica fossetta sulla guancia sinistra. Indossa sempre dei bermuda, anche d’inverno. Dice che i maschi non sentono freddo alle gambe, e che in ogni caso sono i pantaloni più comodi che possano esistere. Ora fa giurisprudenza, vuole diventare un avvocato perchè dice che è nato per difendere la gente, ma non con le mani, con la parola. Dice che è l’arma più potente al mondo. Se lo sentissi parlare gli daresti ragione. Quando parla, anche se ha torto, gira e rigira la frittata e alla fine finisce che lui ha ragione e tu no. Ogni mattina a scuola prima che iniziassero le lezioni compravamo un pacco di twix e ne prendevamo uno l’uno. Parlavamo di tutto, da un film bello ad uno brutto, dei professori, di qualche viaggio o dei cartoni animati che ci piacevano da bambini. Mi sono accorta di amarlo nello stesso momento in cui mi ha presentato Martina. É la sua ragazza. Quando l’ho conosciuto stavano già insieme, ma lei era a New York con uno dei tanti progetti che organizzano a scuola. Quando tornò e le strinsi la mano capì che poteva anche essere una persona fantastica, ma che io l’avrei odiata a prescindere. Ci sono certe cose che non puoi controllare. Alcuni se ne fanno una ragione e buonanotte, io purtroppo volevo lui e lei era di intralcio e lo è tutt’ora. Razionalmente non gliene faccio una colpa, ma so che se lei non ci fosse stata probabilmente ora io starei con lui. Forse sono solo mie illusioni, ma me lo sento, so che è così. E quindi la odio, allo stesso modo in cui amo Paolo. Ora passiamo molto meno tempo insieme, lo vedo di rado, eppure non riesco a scordamelo. Quando mi sembra di essere andata finalmente oltre, ecco che finisce come stasera e tutti questi bei sentimenti fanno di nuovo capolino. Mi sembra la storia infinita, forse un giorno arriverà qualcun altro, ma per ora non riesco neppure ad immaginare una cosa del genere.” si interruppe e guardò Nina. “ho parlato troppo, vero? Lo so, sono una sfigata, una scema, sono quasi ridicola”. Si insultava e scuoteva la testa e intanto beveva, quella bottiglia non era più andata via dalle sue mani, e il vino continuava a diminuire.
(Nina): “Secondo me sei fortunata”, le prese il nero d’Avola di mano.
(Alice): “io?” la guardava stupita.
(Nina): “si sei fortunata, vorrei essere al tuo posto”, prese un lungo sorso di quel liquido bordeaux.
(Alice): “perché? non capisco”, la stava forse prendendo di nuovo in giro? Guardava Nina e vedeva una bellezza rara, le era bastato passare un po’ di tempo con lei, per capire che sarebbe riuscita ad attrarre persino gli oggetti inanimati, eppure sosteneva che lei era fortunata. No, proprio non capiva.
(Nina): “So cosa stai pensando e ti sbagli. no, non è così, non è come pensi”. S’inumidì le labbra con la punta della lingua, avevano il sapore del vino. “Facciamo un gioco, ti va?”. Ora anche Nina aveva distolto lo sguardo da Alice e si guardava le proprie mani che circondavano il collo della bottiglia. Era quasi arrivata a metà. Rialzò gli occhi e incontrò il suo sguardo.
(Alice): ora era ancora più confusa. “Che gioco?”, aveva un’espressione perplessa.
(Nina): le passò la bottiglia, si stiracchiò tanto quanto lo spazio stentato le poteva concedere e le sorrise. “É un gioco alcolico. É molto semplice. Si tira ad indovinare qualcosa del passato dell’altra persona. Se indovini questa beve.” Si fermò un attimo e scrutò l’espressione poco convinta di Alice. Se le avesse lasciato il tempo di parlare, avrebbe sicuramente detto di no. “Allora comincio io: scommetto che da piccola avevi un pesce rosso”. Meglio non darle neanche il tempo per pensare.
(Alice): Aprì la bocca per parlare, per dire di no, per fermare quel gioco, ma poi la richiuse. Guardò l’etichetta bianca e rossa sulla bottiglia di quel caratteristico verde scuro che col vino dietro sembrava quasi nero. L’alzò verso di sé e poggiando le labbra sull’anello, continuò ad alzarla sempre più in alto, per poi abbassarla di colpo. Una goccia le sfuggì da quel bacio rosso-violaceo e le scese lungo il mento, per poi spiccare il volo di un povero suicida. “Non ti sei mai fatta una ceretta da sola!”. prima di poterle passare la bottiglia, Nina la fermò.
(Nina): “Terzo superiore. Scommessa stupida con una mia compagna. Avevo così paura del primo strappo, che ci misi mezz’ora prima di convincermi a tirarlo via. Ma sai una cosa? Fece molto meno male di andare dall’estetista. Da quella volta non ci sono più andata infatti”. L’ultima frase lo disse ridendo, tra tutti i ricordi che aveva quello era uno di quelli più stupidi, ma anche più cari. L’aveva messo nel dimenticatoio, con tutte le cose poco importanti, ma ora che riaffiorava si meravigliava di quanto le avesse giovato quel ricordo. Quello era stato un bel periodo, e con Francesca aveva avuto davvero un ottimo rapporto, peccato che col tempo si erano un po’ perse di vista. Tornata a casa le avrebbe mandato un messaggio. “E ora tocca a me”. Strinse gli occhi e le rivolse uno sguardo furbo. “Il corso che hai frequentato con Paolo era quello di teatro”. (Alice): Bevve l’ennesimo sorso. “Come hai fatto?”
(Nina): “Un mago non svela mai i suoi segreti”, facendole l’occhiolino. “ora tocca a te farmi una domanda”.
(Alice): “Perché ho una mezza sensazione che questa bottiglia la finirò tutta io?”, ridendo e scuotendo appena la testa. “Va bene, ecco qui: scommetto che hai baciato un ragazzo castano.”
(Nina): “Dammi quella bottiglia”. Scoppiarono tutte e due a ridere. “scommetto che tu invece hai baciato un ragazzo biondo”.
(Alice): Stavolta fu lei a non prendere la bottiglia che Nina le allungava, “T’a pu teniri”. Quando iniziava a bere, le sue origini siciliane si facevano avanti.
(Nina): Scoppiò in una sonora risata. il vino iniziava a fare effetto anche a lei. “Non hai mai baciato un ragazzo biondo?”
(Alice): “No, solo bruni”. La serata non era poi così da buttare. “il tuo colore preferito è il giallo”
(Nina): “mi spiace, è l’azzurro. Mmm … L’ultima pizza che hai ordinato era diavola”.
(Alice): “Era margherita. Non hai mai giocato una partita di baseball”.
(Nina): “Un mio ex era un appassionato… Fu terribile, ho continuato a scivolare sul fango per tutto il tempo. Ad un certo punto tutti avevano la divisa bianca e io ero uniformamente marrone. ora è il mio turno: a tredici anni sei stata a Gardaland e ti sei fatta una foto con prezzemolo.” Dire cose a caso stava diventando divertente.
(Alice): “Come regalo di compleanno da parte dei miei genitori. Ci facemmo un quarto d’ora di fila, per riuscircela a fare. Fu un incubo, ma ne valse la pena. Ora mi puoi passare quella bottiglia.” Rise nel vedere Nina rimanere di stucco.
(Nina): “eccola” e rise. A volte anche il caso può azzeccare.
(Alice): Ne bevve un lungo sorso e si accorse che le girava appena appena la testa. “Passiamo a qualcosa di più serio: te lo leggo negli occhi: tu non sei più vergine”. Dal siciliano eccola passata alla malizia.
(Nina): Alzò la mano e le fece il gesto di darle il vino. Anche lei bevve a lungo. “Beccata! Scommetto che neanche tu lo sei più”.
(Alice): “Sisi, brava brava, dammi ca!” e afferrò la bottiglia. “Tu mi pari tipo da cosa a tre, e ci scommetto che l’hai pure fatto!”. Le fece un sorriso mezzo storto. La malizia e il siciliano andavano d’amore e d’accordo. (Nina): rise per un po’ e poi si fece ripassare quel nero d’Avola. “Non te lo dovevi finire tutto tu il vino? Sei meno scarsa di quello che dicevi di essere.”
(Alice): Il vino le aveva fatto troppo effetto per rimanere troppo scioccata, ma in fondo in fondo si stava iniziando a domandare che razza di persona si trovava di fronte. Rimase in silenzio a fissare quella ragazza bellissima davanti a lei con espressione disorientata. Se non fosse stata così influenzata dall’alcol probabilmente avrebbe messo fine a quel gioco stupido.
(Nina): Il gioco stava seguendo la strada che aveva previsto fin dall’inizio, e l’effetto che stava avendo era ancora migliore di quello che sperava quando lo aveva proposto. Avevano iniziato da solo una decina di minuti ed erano già arrivati all’argomento a cui Nina sperava di arrivare. Questa ragazza non sembrava molto diversa da tutte le altre. Iniziava a non capire perché l’avesse interessata così tanto: era scontata e quasi banale. Le sue reazioni erano prevedibili e quella che prima era una sorta di simpatia ora si stava trasformando in un eguale antipatia. “eh già ho provato di tutto, qualsiasi affermazione sul mio passato che ti venisse in mente all’80% mi costringerebbe a bere. C’è solo una cosa che non ho ancora sperimentato ed è l’amore. Non mi sono mai innamorata di nessuno”. Le rivolse un sorriso che si fermò alle labbra, il suo sguardo era perso chissà dove. “Comunque toccava a me, no?”. Alice continuava a rimanere in silenzio. “scommetto che non hai mai baciato un’altra ragazza in vita tua”. Ora guardava Alice fissa e sogghignava compiaciuta. (Alice): Incominciò a fissare un pezzo della porta e bevve un piccolo sorso. Attenzione: pericolo? Incominciava a vedere il traguardo che Nina aveva fissato per loro, incominciava a capire dove voleva andare a parare, e se non fosse stato per quella dannata pioggia probabilmente sarebbe scappata a gambe levate. Non era fatta per i flirt, non con i ragazzi e non con le ragazze, soprattutto se si trattava di estranei. Si era innamorata di Paolo alle superiori, e da allora la sua vita amorosa si era focalizzata solo su quello. Alcuni nascono per innamorarsi e disinnamorarsi velocemente, altri no. E lei apparteneva al secondo gruppo. Da quando se ne era resa conto non si era più guardata intorno, non aveva più accettato alcun tipo di proposta da parte di chiunque e aveva solo sperato, sperato di essere ricambiata o di riuscire e dimenticarlo. Nina la metteva in soggezione, le faceva quasi paura, ma riusciva ad attrarla come i fari di un’auto cattura un cervo prima d’investirlo. E così restava in silenzio, terrorizzata dallo spostare lo sguardo da quella porta, terrorizzata di incontrare il suo sguardo e scoprire quella che sarebbe stata la prossima mossa. Bevve ancora e a lungo. Poi finalmente girò la testa. Nina era a pochi centimetri da lei, la guardava con un’intensità sconcertante e i suoi occhi puntavano dritti dritti ai suoi. Alice spostò lo sguardo sulle sue labbra: erano socchiuse, ma distese in un sorriso appena impercettibile. Fu una mossa sbagliata, perchè diede a Nina la possibilità di avvicinarsi ancora di più. Quando rialzò lo sguardo, erano così vicine che i loro nasi erano quasi a contatto. Non sapeva che fare, non sapeva cosa dire, semplicemente restava immobile, attonita e le sue nocche diventavano sempre più rosse, a forza di stringere quella bottiglia col poco vino rimasto dentro. La sua testa pulsava così come il suo petto e i suoi polsi. Stava sentendo un caldo infernale, ma le sue mani erano più gelate del polo nord. Solo qualche attimo e Nina avrebbe finito di riempire quel piccolissimo spazio tra di loro, e lei doveva decidersi a fare qualcosa. Se rimanere volutamente ferma, assecondandola o se ritrarsi, scappando.
(Nina): Inizialmente non voleva flirtare, non voleva sedurre quella piccola svampita che si trovava di fronte. Voleva solo capire chi era, come aveva fatto ad innamorarsi di quel ragazzo e come continuasse ad amarlo da così tanto tempo. Voleva dimostrarle, attraverso quel gioco quanto fosse fortunata, quanto bello era poter amare, e quanto inutile fosse stato tutto quel tempo ad accumulare esperienze su esperienze senza alcuna significativa importanza. E quando stava riuscendo nel suo intento, proprio quando l’aveva vista sconcertata, attonita e spaventata da quella piccola confessione, si era scoperta arrabbiata, si era irritata ed infastidita. Chi era lei per poterla giudicare? Perché un’innocua esperienza sessuale doveva permettere a qualcuno di ritenerla una poco di buono, o comunque a farsi domande su di lei. Stava arrivando dove inizialmente voleva e si rendeva conto che era ben diverso da quello che realmente desiderava. E così aveva deciso di giocare, di renderla uguale a tutti gli altri, uguale a se stessa. Se decantava così tanto il suo amore per Paolo, se era arrivata addirittura a piangere davanti ad un’estranea per una cosa così stupida, le avrebbe dimostrato che anche lei avrebbe potuto macchiare quell’amore, renderlo piccolo piccolo, e abbandonarsi ai meri piaceri corporei. Forse era inutile continuare a cercare l’amore. Si, inutile, perchè in realtà non esisteva. C’erano solo dei corpi con i loro desideri primari, e la mente desiderava qualcosa di effimero ed irreale come l’amore, perché non poteva sopportare un così basso livello dell’essere umano. In fondo Nina non era mai cresciuta, era rimasta una bambina capricciosa che si credeva far parte del mondo degli adulti. Pensava di conoscere la gente, pensava di sapere come girava il mondo. Credeva che ogni persona fosse manovrabile come ogni altra, bisognava solo giocare le carte giuste, azzeccare le parole correte ed era fatta: ognuno poteva diventare un burattino nelle sue mani. Alice sarebbe stata come tutti gli altri. E così aveva fatto le sue mosse, aveva usato certi discorsi e ora quella ragazza era lì a pochissimi centimetri da lei, in trappola. Fu un attimo, furono pochi millimetri e le loro labbra si sfiorarono, come le mani di due sconosciuti che si toccano appena per caso. I loro occhi erano ancora aperti, collegati gli uni agli altri in uno sguardo che non gli permetteva di chiudersi né di guardarsi davvero. Quel contatto diventava sempre più forte, la mano destra di Nina risalì la gamba di Alice. Le sue labbra si mossero e costrinsero anche quelle di Alice a fare lo stesso. Si baciarono solo per una manciata di secondi, poi Alice spinse Nina via da se. Non era uguale a tutti gli altri. Nessun altro le avrebbe resistito.
(Alice): Quel bacio di così poca durata era stato probabilmente il migliore di tutta la sua vita. Poggiava le spalle al muro, si toccava le labbra con la punta delle dita e mentre riprendeva fiato, guardava Nina di sottecchi. Già dall’inizio quella era stata una serata strana, ma più passava il tempo e più lo diventava. Quella ragazza bellissima l’aveva appena baciata, e ora stava lì seduta, sbilanciata un po’ in avanti, che la guardava stupita. Probabilmente fino ad allora nessuno l’aveva mai rifiutata. Ma quel bacio semplicemente non era giusto. Non lo era verso quello che provava per Paolo, non lo era verso Nina e non lo era verso se stessa. Non poteva negare che le era oltremodo piaciuto, che era stato sensuale ed eccitante, che forse si era anche un po’ pentita di essersi staccata, ma era l’unica cosa che poteva fare.
(Nina): Ora anche Nina si era appoggiata al muro. Alice l’aveva sorpresa, stupita, era riuscita ad uscire dal personaggio che le aveva cucito addosso, era scappata dalla trappola in cui l’aveva intrappolata, era volata via dalla gabbia in cui l’aveva rinchiusa, e ora lì, davanti a lei, diventava una bestia rara, un oggetto unico, una persona interessante e misteriosa, qualcuno che valeva la pena conoscere, una possibilità su mille o forse un milione di innamorarsi finalmente di qualcuno. E così se ne stava semplicemente lì, abbandonata a quel muro, col petto che si alzava e si abbassava velocemente a ricambiare lo sguardo circospetto di Alice. Stava sentendo un freddo cane, quella camicetta non si decideva ad asciugarsi, così come i suoi jeans e i suoi capelli. L’indomani avrebbe avuto un febbrone da cavallo, ma pazienza, probabilmente ne era valsa la pena. Doveva trovare il modo di non lasciare che questa ragazza scappasse via per sempre senza sapere nulla di lei, senza poterla più trovare. Cercava qualcosa da dire, qualcosa da fare, ma tutta la sua usuale sicurezza era svanita. Davanti ad Alice, dopo quel maledetto bacio, si sentiva una delle tante ragazze normali che incontri per strada. Era una sensazione strana e destabilizzante, non le era mai capitato di perdere così il controllo. Molti l’avevano lasciata una volta che si erano resi conto di com’era stare con lei, ma nessuno l’aveva mai rifiutata, nessuno mai era scappato da un suo bacio o da un suo qualsiasi tentativo fisico di seduzione. Quella era la prima volta e ora si sentiva all’interno di un labirinto, ferma, a guardare le migliaia di strade che poteva imboccare, senza avere la minima certezza su quale prendere, e sapendo dentro di se che qualsiasi avrebbe finito per scegliere si sarebbe comunque persa. Che faceva di solito? Era assurdo, ma non riusciva a ricordarlo. Si portò le gambe al petto e, circondandole con le braccia, poggiò la testa sopra le ginocchia. Il freddo era davvero insopportabile, la pioggia non si decideva a diminuire, tutto quello che non era bagnato era umido e lei non smetteva di tremare. Altro che febbrone, l’indomani se fosse continuata così sarebbe finita all’ospedale.
(Alice): Vedendo Nina richiudersi su se stessa come un uovo, si preoccupo’ non poco. Solo ora si rendeva conto di quello che indossava, e del freddo che aveva dovuto provare per tutto quel tempo. Non ebbe neanche un attimo di esitazione. Si alzò dal suo posto e le andò accanto, le toccò le spalle e spostandola un po’ in avanti si mise dietro di lei, la circondò con quel giubbottone e chiuse la cerniera. Nonostante erano già in due, là dentro ci sarebbe perfino entrata una terza persona. Le toccò la fronte: scottava come una pignata bollente. “Tu non stai affatto bene… E ora?”. Quella non era per niente una bella situazione, non si potevano muovere da lì, non sapeva a chi chiedere aiuto e non aveva idea di che cosa fare. Panico.
(Nina): Non aveva la forza di muoversi, si sentiva debole e quel calore improvviso le aveva fatto calare un certo sonno. Quella ragazza valeva davvero la pena, ora ne era sicura. Poco tempo prima si guardava con circospezione da Nina, ma quando l’aveva vista in difficoltà l’aveva aiutata senza pensarci due volte. E ora era lì, dietro di lei, che l’abbracciava, scaldandola col suo corpo e un contatto fisico, dopo quello che era successo, non era certo la cosa più raccomandabile in assoluto. “Non ti preoccupare, tra poco starò molto meglio, ho solo un po’ di sonno. Tutto qui”. Si girò per guardarla in viso e le rivolse un sorriso mezzo trasognato, ma sincero. “Grazie comunque”.
(Alice): “Ma grazie di cosa!? L’avrebbe fatto chiunque, piuttosto mi dispiace di non averlo notato prima. É tutta colpa mia, ma dove ho la testa!?”. Sentiva il corpo di Nina che continuava a tremare appena a contatto col suo. “E comunque non è solo sonno, lo sai tu e lo so anche io! Quindi lasciati andare e riposa un po’ ”.
(Nina): Appoggiò la testa su Alice e chiuse gli occhi. “E se ti dicessi che mi piaci?”
(Alice): “Ti risponderei che è solo la febbre”
(Nina): “E se non fosse la febbre?”. Aveva un tono pacato e stanco, ma le sue parole non avevano perso quel pizzico di ironia e compiacimento.
(Alice): “Allora sarebbe il vino”
(Nina): “Non è neanche il vino, mi piaci!”
(Alice): “Io non ti posso piacere, mi conosci solo da qualche ora e abbiamo scambiato solo pochissime parole”
(Nina): “Non ha importanza. É così e basta”
(Alice): “É così e basta? Sei ritornata all’infanzia?”
(Nina): “Non sono una bambina. Perché non mi credi? Ti dico che mi piaci, devi credermi!”
(Alice): “Stai solo delirando” (Nina): “No, non è vero!” (Alice): Sospira. “Ok, hai ragione: ti piaccio”
(Nina): “Tu non mi credi” (Alice): “Ti ho detto che ti credo” (Nina): “No, mi hai detto che ho ragione, ma non che mi credi”
(Alice): “E poi mi dici che non sei una bambina” (Nina): “Ok, sono una bambina e i bambini sono lo specchio della verità. Quindi non sto mentendo.”
(Alice): “Si si, certo certo. Ora riposa però” (Nina): “Ti dimostrerò che è così. Che ore sono?”
(Alice): Corrucciò le sopracciglia e poi l’accontentò, portandosi l’orologio che aveva al polso proprio sotto il naso. “Sono le 3:30”
(Nina): “Tra due orette e mezza smetterà di piovere, di botto. É solo una mia sensazione, ma se si rivelerà corretta, mi dovrai credere e dovrai anche darmi il tuo numero di telefono”
(Alice): “Non smetterà mai di piovere domani mattina alle 6, almeno non di botto con una pioggia simile”
(Nina): “Se non ci credi che hai da perdere? Accetta!”
(Alice): “Metti caso avessi davvero ragione, poi dovrei darti il numero di telefono”
(Nina): “Perché non vuoi darmelo? Sono una così brutta persona? Ti faccio così tanta paura?”
(Alice): “Non lo so che tipo di persona sei, io non ti conosco. Non darò il mio numero ad un’estranea”
(Nina): “Non sarò più un’estranea, mi conoscerai alla perfezione, prima di andarcene da qui. Quindi dai accetta”
(Alice): “Mi spieghi come ti potrò conoscere alla perfezione solo dopo 2 orette e mezza, se anche tu avessi ragione?”
(Nina): “Mi potrai fare tutte le domande che vorrai e io ti risponderò sinceramente”
(Alice): “Come posso sapere che non mentirai?”
(Nina): “Non ne avrei motivo, e in ogni caso sia la febbre che il vino me lo impedirebbero, quindi puoi stare tranquilla”
(Alice): “E se in ogni caso non volessi farti queste domande? Se non fossi interessata?”
(Nina): “Lo so che un po’ ti piaccio anch’io. E comunque non avresti nulla da perdere, anzi… se andasse bene ne potrebbe nascere qualcosa d’interessante, e sarebbe tutto di guadagnato”.
(Alice): Doveva accettare? In fondo lo sapeva anche lei che Nina aveva ragione. Era la prima volta dopo anni che si sentiva attratta da qualcuno che non fosse Paolo, ma le sembrava così assurdo e surreale che non poteva permettersi di crederci. Oltretutto si stava parlando di una ragazza! Non si era mai sentita attratta da qualcuno del proprio sesso. Forse Nina era un’eccezione, forse il fatto che appartenesse al sesso femminile era tanto importante quanto sapere che le piacesse il gelato al pistacchio. Ma questa piccola differenza rendeva la situazione ancora più anomala, e Alice si sentiva letteralmente alla deriva, in un paese sconosciuto, bello ma pericoloso. Quindi che fare? Si doveva buttare? Valeva la pena di giocare? Se fosse davvero andato tutto per il meglio, se le avesse dato il suo numero e poi da lì fosse nato realmente qualcosa, se si fosse scordata di Paolo e si fosse innamorata di lei, sarebbe stata ricambiata? O sarebbe stato di nuovo un amore non corrisposto? Sarebbe valsa la pena smettere di soffrire per uno per poi cominciare per qualcun altro? Ma se invece anche Nina si fosse innamorata di lei? Non sarebbe stato fantastico sapere finalmente cosa si provava a condividere un tale sentimento, a vivere una reale storia d’amore? Si, forse era il caso di tentare. “Va bene, ecco la prima domanda: perchè pensi che io ti piaccia?”
(Nina): “Perché sei diversa dagli altri, perchè mi sento stranamente attratta da te e perchè inizio a pensare che finalmente mi potrò innamorare di qualcuno”
(Alice): “Come fai a dirlo? Non mi conosci affatto”
(Nina): “Non ho bisogno di conoscerti per saperlo. Lo sento”
(Alice): “Tu e queste dannate sensazioni, se stasera sapevi che si sarebbe messo a piovere così forte, perchè ti trovi qui?”
(Nina): “Ero uscita con… aspetta come si chiamava? Ah si! Sandro. Era il mio ragazzo, poi abbiamo rotto e io me ne sono andata. É iniziato a piovere e mi sono venuta a riparare qui sotto”
(Alice): “Hai rotto col tuo ragazzo?”
(Nina): “Si”
(Alice): “Stasera?”
(Nina): “Si” (Alice): “E non ci stai male?”
(Nina): “Lo conoscevo da meno di una settimana, come potrei stare male per uno di cui a poco manco ricordo il nome?”
(Alice): “Perché ci sei uscita allora?”
(Nina): “Perché non stavo con nessuno e lui non sembrava così da buttare”
(Alice): “Quindi usciresti con chiunque basta che non sia da buttare?”
(Nina): Ci pensò un attimo su, “Si.”
(Alice): “Non ti capisco”
(Nina): “Non ce n’è bisogno”
(Alice): “Non era la prima volta, vero?”
(Nina): “No, non lo era”
(Alice): “Perché allora esci con questi ragazzi che neanche ti piacciono? Hai promesso di rispondere”. Ora era lei che cercava di capire, ora era lei che si sentiva attaccata e giudicata e neanche sapeva perchè. (Nina): Sbuffò “Voglio sapere cosa si prova ad essere normali. Tutti sanno cosa significa perdere la testa per qualcuno e io invece no. Voglio sapere com’è innamorarsi, fare l’amore con qualcuno”
(Alice): “E pensi che mettendoti con gente di cui non te ne frega niente, ti aiuterà ad ottenere quello che vuoi?
(Nina): “Non lo so, ma dovevo tentare”
(Alice): “Tu sei pazza. E perchè pensi che con me sia diverso?”
(Nina): “Perché tu non sei tento per. Tu mi piaci per davvero”
(Alice): “Mi sono un po’ stancata di ricordarti che ci conosciamo da solo un paio di ore”
(Nina): “E io no. Non mi sono stancata di dirti che mi piaci”
(Alice): “Sei proprio una bambina”
(Nina): “Lo so”
(Alice): “Quindi lo ammetti?”. Rise.
(Nina): “Si lo ammetto. Ti posso fare una domanda io?
(Alice): “Ok”
(Nina): “Bacio così male?”
(Alice): Silenzio.
(Nina): “Perché ti sei ammutolita?”
(Alice): “Perché non so se ti voglio rispondere”
(Nina): “Mi avevi detto ok!”
(Alice): “Ma non sapevo quale sarebbe stata la domanda”
(Nina): “Si ma hai accettato comunque, quindi ora devi rispondere, è un tuo dovere!”
(Alice): “No, non baci male”
(Nina): “Allora bacio bene?”
(Alice): Di nuovo silenzio.
(Nina): Si girò a guardare Alice in faccia. Era diventata rossa pomodoro. “Il colore della tua faccia ha risposto per te”. Le sorrise compiaciuta. “Ne vuoi un altro?”
(Alice): “No, ora stai zitta e cerca di dormire un po’, che la febbre sta salendo!”
(Nina): “Veramente mi sento molto meglio di prima grazie a te”
(Alice): “E ti sentirai ancora meglio dopo una bella dormita”
(Nina): “Non voglio dormire. Io ti voglio baciare”
(Alice): “E io non voglio baciare te!”
(Nina): “Solo uno”
(Alice): “No”
(Nina): “Solo un bacio, poi mi starò zitta e ti lascerò in pace”
(Alice): “L’offerta sembra allettante”
(Nina): “Sono così fastidiosa?”. La guardò e le fece il broncio.
(Alice): Rise. “Mi sembra di parlare con una mocciosa delle elementari”.
(Nina): “Che bacia molto meglio di un adulto, e te ne renderesti conto anche tu, se provassi”
(Alice): “Ho già provato poco fa”
(Nina): “E quello me lo chiami bacio?”. Ridacchiò. “Tu non hai molta esperienza di questo tipo, vero?”. Non aveva bisogno di girarsi per capire che era di nuovo arrossita.
(Alice): “E sono fiera di non avercela” (Nina): “Non volevo prenderti in giro. Mi piace che tu non ne abbia, rimedierò io a quello, quando staremo insieme”. Sentì la mano di Alice risalire il giubbotto e appoggiarsi sulla sua fronte.
(Alice): “Strano. Non mi sembri scottare molto più di prima”
(Nina): “Tanto prima o poi dovrai credermi”. Rise di gioia.
(Alice): “Perché sembri così felice?”
(Nina): “Perché mi piaci”. Si girò nuovamente e le rivolse uno sguardo furbo. Ridacchiò e cercò i suoi occhi con lo sguardo. Si era voltata così tanto che ora una gamba di Alice stava sulle sue. Da dentro il giubbotto seguì con le mani la sua vita, e avvicinò lentamente il suo viso a quello di Alice.
(Alice): “Ti avevo detto di no”. Aveva rientrato una mano dentro il giubbotto e ora teneva Nina distante.
(Nina): I suoi occhi brillavano di una luce tutta loro. Le prese la mano fra le sue e riempì quello spazio che separava le loro labbra.
(Alice): Nina non stava mentendo. Rispetto a questo, quello era davvero solo un “bacetto”. Non poteva negarlo, i suoi baci erano superbi. Si baciarono a lungo. A staccarsi fu di nuovo Alice, quando sentì che quel contatto stava andando troppo oltre, quando sentì le mani di Nina avanzare verso “posti” pericolosi. “Basta così. Hai avuto il tuo bacio, ora fai la brava”. Lo disse rossa in viso e col fiatone. Nina rise.
(Nina): “Si signor capitano”. Poggiò la testa sotto il mento di Alice e le abbracciò la vita. La febbre, il freddo e la notte insonne si iniziavano a far sentire, ma si sentiva viva, felice. Doveva ottenere quel numero. A tutti i costi. Si addormentarono così, in quell’assurda posizione e dormirono fino all’indomani mattina, quando il proprietario del negozio le trovò davanti la porta, con i loro corpi a bloccare l’entrata.

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Capitolo 5
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
“Signorine scusate, ma dovrei aprire… é tardi già”. Con le mani le scuoteva appena cercando di farle lasciare il mondo dei sogni. “Ma state bene?”, disse, quando finalmente si mossero. “Ha smesso di piovere”, fu Nina a parlare, mentre stringeva gli occhi per il sole sulla faccia. “Ma che ore sono?”, stavolta fu Alice. “Ma avete passato la notte qui?”, l’uomo le guardava preoccupato. le due ragazze lo fissavano senza rispondere. Erano ancora tutte e due dentro quel coso gigantesco. 

(Nina): “Aspetta, come si esce da questo coso?”

(Alice): “Un attimo”. Abbassò la cerniera. “Ecco fatto. Come ti senti?”

(Nina): Si alzò, barcollò e si sedette di nuovo. “Sto bene, è stato solo il sonno!”

(Alice): Si avvicinò a Nina e le toccò la fronte, “La temperatura mi sembra si sia abbassata, ma la febbre è ancora alta”. Le rivolse uno sguardo preoccupato.

(Nina): “mmm”, il tipico lamento che i figli rivolgono ai genitori, quando gli sembra che questi si preoccupino un po’ troppo. “Sto bene, è solo un po’ di stanchezza”.

(Alice): La guardò poco convinta.

(Uomo): “Dai venite dentro, vi offro la colazione, o a picca sarò costretto a chiamare l’ambulanza, se non un becchino”. Aveva una risata sguaiata, quel ahahahah sembrava insorgere da un qualche film per bambini, in cui il personaggio in questione, dopo una bella sbornia, se ne usciva con questa risatona e una battuta da perfetto egocentrico.

(Nina): “Ho detto che sto bene”. Riprovò ad alzarsi, ma le girò nuovamente la testa. Alice e quel gentile sconosciuto l’acciuffarono prima che potesse cadere rovinosamente a terra.

(Uomo): “Amunì, trasiti!”. 

(Alice): “Grazie mille davvero”. Gli avrebbe voluto sorridere, ma la stanchezza non glielo permise. E così fu solo una smorfia che ne uscì, per giunta rivolta al pavimento. 

(Uomo): “Ti pare”. Poi rivolto a Nina: “E tu? Non dici niente?”

(Nina): Mugugnò qualcosa che assomigliava ad un grazie e si sforzò di non inciampare sui suoi stessi piedi.

(Uomo): “Tu si na vera crasta, ah!?” e rise ancora in quel modo teatrale.

(Nina): Accennò un sorriso, con la testa calata e sicura di non essere vista.

Attraversarono il negozietto con mille cianfrusaglie a tappezzare pareti e scaffali e andarono nel retro. I souvenirs sono cose del tutto inutili, eppure per i turisti diventano qualcosa di indispensabile. I parenti e gli amici che ti aspettano dal ritorno da un qualsiasi viaggio sembrano avari di riceverne almeno uno. Ninnoli e oggettini di cattivo gusto e senza alcuna funzione pratica vanno via via ostruendo ogni piccolo spazio della loro casa. E la cosa più assurda è che sembrano sempre così felici quando se ne vedono regalato uno in più. Nina proprio non li capiva, che senso aveva tutto ciò? Ma pensarci era solo uno spreco di tempo, continuarsi a domandare il perchè di quello che fa la gente comune non faceva per lei e così semplicemente non ci pensava. Ma ora era lì, in un posto in cui non sarebbe mai entrata in vita sua, se non per un motivo del tutto assurdo. Il negozio non era tanto grande, ma era spazioso e luminoso, il pavimento era di parquet e gli scaffali erano in legno. Aiutarono Nina a sedersi su un divano rosso corallo nel retrobottega, che rispetto alla stanza adiacente era più piccolo, con un tavolo al centro, un cucinino e un mobile con sportelli e cassetti dove sopra stava una macchinetta per il caffè con cialde, bicchierini e zucchero. Alice si sedette accanto a Nina e, circondandola con un braccio, le fece appoggiare la testa nell’incavo tra la spalla e il collo. Lo fece senza neanche pensarci, così, come la cosa più naturale al mondo. Ancora non se ne rendeva bene conto, ma quella notte le aveva legate più di quanto lei volesse ammettere.

(Uomo): “Come siete finite lì?”, aveva messo un pentolino con del latte dentro a bollire e ora armeggiava con la macchinetta del caffè. 

(Alice): “Io stavo andando ad un brindisi, ma si è messo a piovere e mi sono riparata lì”. Per un attimo le balenò in mente l’immagine di Paolo, poi guardò Nina che dormicchiava appoggiata a lei e quel pensiero svanì di botto, “lei non lo so…”. Se glielo voleva dire sarebbe stata Nina stessa a farlo. Non era un’informazione così importante, ma in ogni caso non erano fatti suoi. 

(uomo): Si girò a guardarle, “Non vi conoscete?”

(Alice): Rise appena, “Stanotte è stata la prima volta che la vedevo in vita mia”.

(Uomo): “Strano!” si fermò, guardò Alice e spostò lo sguardo su Nina “Sembrate piuttosto unite…”. Sorrise, si rigirò e ricominciò a fare quello che stava facendo. 

(Alice): Guardò Nina perplessa. "Unite?", lo disse così a bassa voce che quasi neanche lei stessa si udì mentre lo diceva. Pensava alla nottata che avevano passato insieme e si chiedeva che razza di scherzo del destino poteva mai essere quello. La conosceva appena, anzi non la conosceva affatto, eppure era come se si conoscessero da sempre. In quel momento decise che se le avesse chiesto per l’ennesima volta il numero di telefono lei glielo avrebbe dato, anche se non aveva smesso di piovere alle 6 del mattino e di botto. Sarà stata la stanchezza o gli effetti del dopo sbornia, ma una volta che prendeva una decisione era fatta, l’avrebbe seguita fino alla morte. Era fatta così, testarda come un mulo. E in ogni caso così facendo, dando ad un inconsapevole Nina la responsabilità di scegliere per tutte e due, si metteva nella mani del caso, liberandosi così da quella che sarebbe potuta essere una buona o una cattiva decisione e dalle conseguenze che questo avrebbe comportato.

(Uomo): "Comunque io sono Salvatore, ma tutti mi chiamano Totò", non sopportava molto il silenzio.

(Alice): "Mi chiamo Alice e lei...". Si accorse solo ora che non sapeva minimamente il nome di quella ragazza che ora poggiava la testa su di lei. 

(Nina): "Nina". Non aveva mai del tutto dormito, quel contatto con Alice era troppo prezioso per non goderselo. "Io sono Nina" e sorrise beata come un gatto sul suo trono. 

(Totò): “bene, Nina e Alice, cosa volete per colazione? Latte, latte macchiato, caffè, tè? Da mangiare ho solo dei biscotti e dei cracker o se volete vi posso fare un piatto di pasta” si girò e incrociò lo sguardo stanco di Alice “ok, mi sa che la pasta è meglio tenerla per il pranzo…” e rise della sua battuta. “Allora?”

(Alice): “Io di solito prendo del latte con il caffè, grazie mille”, poi abbassando la voce chiese a Nina  “tu che vuoi?”

(Nina): “Niente”

(Alice): toccò la fronte di Nina. Sospirò. “Per lei latte con i biscotti” 

(Nina): “Ma non voglio niente, la mattina non faccio colazione”

(Alice): “E stamattina farai un’eccezione. Devi mangiare.”

(Nina): “Va bene”. Di solito si impuntava, faceva i capricci fin quando non otteneva ciò che voleva, ma con Alice si sentiva stranamente accondiscendente. “Comunque hai un bel nome”.

(Alice): “Quindi l’hai sentito, non hai dormito neanche un po’?”

(Nina): Ci pensò un attimo, “a dire il vero non lo so”

(Alice): “In che senso?”

(Nina): “Nel senso che forse ho dormito per qualche minuto, ma non riesco a ricordarlo bene”

(Totò): Riempì due tazze con il latte e le posò sul tavolo, “Ecco qui! ce la fate ad alzarvi?”. Aggiunse anche il pacco di biscotti e una tazzina di caffè accanto ad una delle due tazze. “Aspettante un attimo, vi vengo ad aiutare io”. Si asciugò le mani in una pezza e si diresse verso il divano. Nina si alzò prima ancora che potesse sfiorarla con un dito.

(Nina): “Ce la faccio, ora sto bene”, le girò un po’ la testa e si appoggiò al tavolo. Meno male che la stanza era piccola e gli spazi non potevano essere troppo larghi.

(Alice): “Attenta!” mentre si alzava anche lei e le metteva una mano sulla spalla. Spostò una sedia e l’aiutò a sedersi, poi si andò a sedere anche lei.

(Totò): Mise una tazza di latte sotto il naso di Nina e le porse il primo biscotto “buon appetito”, poi si appoggiò al mobile e prese il primo sorso del suo caffè. “Che mi raccontate? Siete tutte e due di Qui?”. Zitto proprio non ci sapeva stare.

(Alice): “io si”. Aveva già versato il caffè nel suo latte e ora lo sorseggiava a piccoli sorsi e con la schiena appoggiata allo schienale della sedia.

(Totò): Corrucciò le sopracciglia, sperava di più. “Bene bene, invece tu?” si rivolse a Nina. 

(Nina): “No”

(Totò): “Tutto qui?”

(Nina): “Si”

(Totò): “Sei di poche parole tu, vero?”

(Nina): Alzò la testa e rimase in silenzio, guardandolo in cagnesco. 

Quell’uomo era alto e robusto, probabilmente aveva un età compresa tra i 40 e i 50 anni, aveva i capelli brizzolati e un barbone lungo e incolto, quando sorrideva mostrava dei denti un po’ ingialliti, ma sani e robusti e gli spuntavano un po’ di rughette ai lati degli occhi. In un’altra epoca avrebbe fatto il boscaiolo probabilmente, ma in ogni caso sembrava una persona gentile e socievole. Il classico bonaccione. Non tutti le avrebbero offerto la colazione. E non tutti avrebbero sopportato Nina fare l’impossibile. 

(Alice): “La scusi, è la stanchezza e anche la febbre”, meglio intervenire prima che le cose si mettessero male.

(Totò): Incrociò lo sguardo preoccupato di Alice, poi quello da animale selvatico di Nina e rise di gusto. “Mi fate morire!”. Aveva un senso dell’umorismo tutto suo. 

(Alice): Si lasciò ricadere sulla sedia, sollevata. 

(Nina): Restò immobile per un momento e poi scoppiò anche lei a ridere, quell’uomo era veramente strano. 

(Totò): Finì il suo caffè e buttò il bicchierino nel cestino, si strofinò una mano contro l’altra e poi guardò l’orologio d’acciaio che portava al polso. “Mmm… ok! Io vado di là!”, diede uno sguardo alle due ragazze che lo guardavano con espressione disorientata, dovevano andare via? “Restate, restate! Senza fretta, tranquille! Se avete bisogno di qualcosa sapete dove trovarmi”. Le sorrise e senza aspettare neanche una risposta andò via. 

Lo seguirono con gli occhi mentre usciva dalla stanza, e quando finalmente furono sole tirarono un sospiro di sollievo.

(Alice): Era tornata al suo caffellatte e per un po’ si scordò di Nina, della nottata su quel gradino, di Paolo, del compleanno mancato e probabilmente anche del mondo intero. Svuotò completamente la mente e si lasciò vincere dalla forza di gravità. Le nottate non le ha mai rette così bene, e più passavano gli anni e meno le reggeva. Aveva solo 20 anni e a volte si sentiva una vecchietta. Ci mancava solo un po’ di sciatica e il quadro sarebbe stato perfetto.

(Nina): “Ma secondo te qui c’è un bagno?”

(Alice): “Un bagno?”, con lo sguardo ancora perso chissà dove. 

(Nina): “Si, un bagno. Devo fare pipì, tu no? Dopo un’intera nottata a bere vino, sto morendo” 

(Alice): Scosse la testa e ritornò alla realtà. Nina aveva ragione, e ora che ci pensava anche lei doveva andarci. “Effettivamente è vero… Ma perchè non l’hai chiesto a Totò prima? io che ne so?”

(Nina): Sbuffò “Ok, glielo vado a chiedere ora”

(Alice): la guardò e rise di gusto. “Non l’hai fatto perchè ti pareva male? tu sei peggio di una bambina”. Si asciugò le lacrime dagli occhi.

(Nina): Mise il broncio “Non ridere! Vado!”. Si alzò, barcollò appena, ma poi ritrovò l’equilibrio “Sto bene, sto bene”. Mentre si girava e iniziava ad andare verso la porta, Alice la fermò.

(Alice): “Vatti a sedere, vado io, prima che ti ritrovi con la faccia stampata sul pavimento”, continuando a ridere. Le aveva afferrato una spalla con una mano.

(Nina): Si girò a guardare Alice, pronta a risponderle ma si fermò di botto: aveva i capelli scombinati e la faccia appariva stanca, ma per qualche strano motivo questo la rendeva ancora più bella. Senza pensarci si sporse in avanti cercando di baciarla, ma perse l’equilibrio e le cadde addosso. Finirono tutte e due a terra facendo un bel botto. 

(Alice): “Non ti arrendi mai tu vero!?”. Era finita con la schiena sul pavimento e Nina era, in parte, su di lei.

(Nina): “Mai!”. Cercò di nuovo le labbra di Alice, ma questa fu più svelta e si mise a sedere.

(Alice): “Non mi fregherai ancora”.  

Quando Totò aprì la porta, preoccupato, le trovò che ridevano come due cretine. 

(Totò): “Ma che avete combinato?”

(Alice): “Lei ha bisogno del bagno!” continuando a ridere.

(Nina): Smise di ridere e guardò Alice di traverso.

(Totò): Aiutò Nina ad alzarsi, perplesso. “É da questa parte, venite. Non vi siete fatte male, gusto?”

(Alice): Mentre si alzava anche lei “No no”, il riso aveva lasciato il posto ad una faccia imbarazzata e rossa. “Ancora grazie”.

Le lasciò davanti la porta del bagno e tornò al negozio per servire un cliente. 

(Alice): “Vai prima tu”, guardò Nina, “Hai bisogno di aiuto?”.

(Nina): “Mi stai chiedendo di entrare in bagno insieme?”. Aveva un espressione furba.

(Alice): “Ok, vai da sola! E se ti servisse aiuto non provare a pensare di chiamarmi, tanto non vengo”. Le rivolse un sorriso beffardo. 

(Nina): “Che sei triste…”, mentre apriva la porta ed entrava. “Faccio subito”. Entrò e si chiuse la porta dietro.

Alice si appoggiò al muro e sospirò. Pensò al suo telefono, a tutte le chiamate o a tutti messaggi che avrebbe trovato, pensò a Paolo e pensò alla sua festa. In fondo era felice di non esserci potuta andare, era felice di non averlo visto e stranamente era anche felice di avergli causato un piccolo problema, di averlo fatto preoccupare, di avergli imposto di pensare a lei. Per una volta non era stato il contrario, non era stata lei a pensare a lui, a preoccuparsi, a chiedersi dove fosse o cosa facesse, se era con Martina o anche solo se stesse pensando a lei. Per una notte era riuscita quasi a non pensarci, era riuscita ad interessarsi su qualcun altro e a stare bene, a pensare di trovarsi esattamente dove doveva, dove voleva. Paolo era stato solo un immagine sbiadita, un pensiero di contorno. E ora che se ne rendeva conto si sentiva stanca, affaticata. Erano bastate quattro parole con una sconosciuta, la flebile immagine di una possibilità, quello che poteva anche solo essere un miraggio, a farla sperare, a farle quasi scordare di lui. Era quasi irreale, decisamente assurdo, pensare che dopo svariati anni era stata una notte, solo qualche ora, a farle vedere la possibilità di una via di fuga. E tutto ciò la stancava. Si era stanchezza quella che provava. Una stanchezza maledetta, una stanchezza che la abbatteva, le faceva incurvare le spalle contro il muro a cui era poggiata, la faceva sospirare e le faceva socchiudere gli occhi per proteggersi dalla luce. E quelle ore di sonno perse le ricaddero d’improvviso addosso. Chiuse gli occhi e si abbandonò al muro, a quel sonno improvviso. Si sarebbe addormentata così, in piedi, come i cavalli, se un urlo non l’avesse destata da quel torpore. Sbatté più volte gli occhi e si guardò in torno spaesata. Ci mise un attimo a mettere a fuoco la situazione: era nel negozio di souvenir e Nina stava urlando, dietro quella porta chiusa davanti a lei. 

(Alice): “vedi che non ci casco!!”, le urlò di rimando. Si, doveva essere per forza un altro dei suoi scherzi. 

Attese qualche minuto, aspettando una risposta, o almeno che quell’urlo cessasse. E invece no, quell’urlo continuava a farsi sentire, senza dare il minimo cenno di cedimento. Forse Nina stava davvero male o forse era un altro dei suoi trucchetti. Ma nel dubbio non poteva lasciarla lì sola, e non poteva far continuare quell’orribile suono, che avrebbe riportato Totò lì, a guardarle preoccupato e spaesato. Gli avevano già creato fin troppi guai. Alice si staccò da quel muro bianco e spalancò quella dannata porta. Nina non c’era. La stanza era completamente vuota e l’urlo era cessato nell’attimo stesso in cui aveva fatto il primo passo dentro quelle quattro mura. Si, era decisamente uno scherzo, una trappola e lei ci era cascata dentro con tutte le scarpe. La porta si richiuse dietro di lei e la serratura scattò. Non fece in tempo a girarsi che si trovò le braccia di Nina al collo. La guardava e sorrideva. Le mostrava i denti bianchi e perfetti tra un sorriso compiaciuto. Alice restava immobile, spaesata e affascinata. Era incredibile, come ogni volta restava intrappolata in quello sguardo beffardo, sicuro di sé. E poi l’ennesimo bacio, quel contatto dolce che la portava a non pensare più a nulla, che le faceva battere il cuore all’impazzata, che la faceva sciogliere, sgretolare da dentro. E stavolta era troppo stanca per combattere, per resistere. Iniziò a rispondere piano, a seguire il ritmo di quel bacio. Sentì la mano di Nina scendere e seguire la curva dei fianchi, risalire fino al collo e sfiorarle il viso, per poi andare dietro la nuca, e rimanere lì, come per aggrapparsi, per tirarla ancor di più a sé. Alice si staccò di colpo, guardò Nina per un’istante che sembrò interminabile, il suo sguardo era imperscrutabile. Poi un bacio, di colpo. Nina sbatté gli occhi, si trovò le mani di Alice sul viso, sul collo, che scendevano giù, arrivavano ai fianchi e li stringevano. Alice fece un passo avanti e costrinse Nina a farne uno indietro. E poi un altro e un altro ancora, fino a quando le spalle di Nina non toccarono il muro. E quel bacio continuava, a volte irruente e l’attimo dopo dolce. Quando si staccarono avevano entrambe bisogno di riprendere fiato. Si guardarono e Nina sorrise. Era un sorriso aperto, quasi infantile, sicuramente felice. Ci sono amori che sbocciano col tempo, ce ne sono altri che succedono all’improvviso, che guardi quella persona e sai già che l’amerai. E per Nina fu così.

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