Dies Irae

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il cibo dell'ira ***
Capitolo 2: *** La Via delle Nevi ***
Capitolo 3: *** La Gran Madre dei Ghiacci ***



Capitolo 1
*** Il cibo dell'ira ***


Dies Irae

 
 “L’ira è il mio cibo.
Io mi nutro di me stesso
e così morirò di fame
a forza di nutrirmi”
(W. Shakespeare)
 
La malvagità che mi insegnate
la metterò in opera
e sarà difficile che io non abbia
a superare i maestri”
(W. Shakespeare)
 
 

1. Il cibo dell’ira

 
            Nell’atrio, le bacheche di legno utilizzate per gli scrutini di fine anno arricciavano gli angoli a una vecchia circolare con i timbri del preside, annacquati e ridotti a una macchia violacea.
         Puntine da disegno erano affisse sulla tela sdrucita, e con una manciata di quelle capocchie metalliche qualcuno s’era divertito a comporre un disegno: un fiore stilizzato, con tanto di petali e gambo.
         Poco più in là, un grande poster ritraeva un gruppo di adolescenti sullo sfondo di un cielo in tempesta, un muro di pietre grezze e pecore a capo chino. Sul prato verde una scritta, Vacanze studio in Scozia, vivi la lingua inglese: di nuovo il timbro del preside, ancora più diluito e simile a un livido. 
         Altri poster e avvisi scritti coi pennarelli - studenti che vendevano chitarre e biciclette, foto di cani e ceste di gattini in cerca di un padrone, cartoline dalle vacanze - si sovrapponevano in un caos pittoresco sulla vetrata della guardiola dei bidelli, in quel momento deserta.  
         Il corridoio del pianterreno era immerso nel più completo silenzio. Cosa del tutto normale durante l’anno scolastico, durante il quale ponendo l’orecchio sulle porte un poco sconnesse, che non chiudevano bene, si poteva avvertire solamente un brusio: il ritmo delle voci scandite dagli insegnanti, qualche replica dei ragazzi, i toni un poco più incerti delle interrogazioni. 
         Ma quel giorno, la quiete che avvolgeva quel primo corridoio che i vigili del fuoco e le squadre operative si trovarono a percorrere, dando seguito all’ordine di fare irruzione, dava più l’impressione di un luogo abbandonato, o di un fuoco insidioso che covi sotto la cenere.
         Di più, il fuoco c’era davvero e se ne intuiva la presenza incombente, in qualche punto ancora da localizzare all’interno dell’edificio.
         Le aule del piano terra apparivano vuote, abbandonate in maniera disordinata, come se fossero state evacuate di fretta: l’ordine dei banchi era stato sovvertito da una fuga scomposta che li aveva trascinati negli inciampi disordinati degli studenti, buttando a terra sedie, libri e zainetti.
         Ai ganci delle pareti erano ancora appese giacchette bianche e nere di tute da ginnastica.         Dalla sporta di un’insegnante rovesciata sotto alla cattedra spuntava la corazza panciuta di un ananas: il resto della frutta, albicocche e ciliegie, era ridotto a strisciate di muco sul pavimento.
         Alcune delle porte avevano ceduto alla spinta in fuga degli occupanti, ed ora ciondolavano divelte dagli stipiti, come vecchi lasciati indietro dai più giovani e svelti.
         Ovunque incombeva una cappa attraverso cui la luce, dal lato soleggiato e spazioso delle finestre, filtrava in lunghe lame di pulviscolo scialbo, come a forare un banco di nebbia.
          Quella caligine greve era venuta incontro ai vigili e agli agenti svelando piano piano quello che conteneva, nel suo levarsi in volute molli verso i soffitti: l’odore di bruciato che si incollava ai nervi, un fumo nero di grasso che prendeva alla gola e stuzzicava il terrore perché il naso capiva, prima ancora del cervello, che cosa c’era in quel miscuglio irrespirabile.
         Non soltanto la cenere di libri e carte ammucchiate, o del legno dei banchi a cui era stato appiccato il fuoco.  
         C’era anzitutto l’acidità del sudore tipico dell’angoscia, e un fetore di grasso inconfondibile anche a chi non lo avesse mai annusato prima: l’odore della carne intrisa di benzina e data alle fiamme.
         D’istinto, suscitava un puro e semplice istinto di fuga: quello che spinge gli animali selvatici a fuggire dal fuoco quando, ancor prima del calore, avvertono l’adrenalina dei loro simili - il sentore inconfondibile, aspro della paura.
         Nella mente degli agenti in rapida perlustrazione delle aule deserte i pensieri vorticavano, mentre quella coltre diventava sempre più densa e irrespirabile: si incollava alle narici e le penetrava con forza, creava una patina sulla pelle e ci sarebbe rimasta per chissà quanto tempo.
         In breve, fu chiaro che i focolai dell’incendio erano circoscritti ai piani superiori. Salirono in tre squadre, i vigili del fuoco e due formazioni di agenti incaricati di tutto il resto: evacuare i locali, proteggere le manovre di messa in sicurezza, soprattutto bloccare con ogni mezzo gli assalitori, probabilmente un gruppo armato di più persone.
         Quel finimondo non poteva essere opera di un solo individuo, malgrado le segnalazioni pervenute, da parte di ragazzi e insegnanti rimasti intrappolati nei locali scolastici, continuassero a riferire che si trattava di uno studente, il che significava un moccioso di quindici, sedici anni.
         -“Figuriamoci”- aveva brontolato uno degli agenti, tossendo per le esalazioni del fumo e la rampa affrontata con le spalle radenti al muro, per giunta di corsa e senza avere più vent’anni -“qui non siamo mica in America, dove i ragazzini vanno a scuola col fucile di papà e in testa i film western”-
         Il collega che lo affiancava, e che procedeva con falcate giovani e svelte, aveva sufficiente fiato per replicare:
         -“Eppure le segnalazioni sono molto precise. Si tratta di uno solo, su questo non c’è dubbio”-
         Una volta di sopra, mentre i vigili del fuoco venivano scortati verso i punti in cui si addensava una cappa sempre più opprimente, a due a due gli agenti diedero inizio alle manovre per l’irruzione: la prima aula si trovava immediatamente in cima alla scala, e a parte il consueto e irreale silenzio, dallo spiraglio sul pavimento non filtrava nemmeno un alito di fumo.
         La maniglia in metallo che chiudeva la solita porta decrepita, in bilico sui cardini, era fredda: segno quasi sicuro che all’interno non c’era nessun incendio, e che gli eventuali occupanti si erano chiusi là dentro per proteggersi. Nella migliore delle ipotesi, naturalmente.
         Mentre gli altri avanzavano e di seguito si dividevano per accedere alle altre aule, l’agente col fiatone e il collega più giovane si fermarono ai due lati dello stipite. Prima di scambiarsi un breve cenno d’intesa e buttar giù la porta con un unico colpo, il più anziano ritenne opportuno precisare:
         -“Se è un ragazzino dell’età di mio figlio, giuro che gli tiro il collo con le mie mani”-
         Divelto dai cardini logori, l’uscio cadde di schianto. La targa sulla porta, un elegante corsivo con la scritta Laboratorio di scienze, esplose in uno schianto di vetri rotti. Alcune schegge finirono a galleggiare in una pozzanghera che s’allargava da un corpo riverso nella prima fila dei banchi.
         Dalla soglia dell’aula, del corpo si scorgeva solamente una mano, annerita e in parte accartocciata dalle ustioni.
         Il fetore di benzina che continuava a saturare l’ambiente, insieme al lezzo di carne bruciata, si appiccicarono come colla al cervello dei due agenti, promettendo molte notti insonni a venire.  Come risultò in seguito, quando tutte le tessere di quell’incredibile vicenda trovarono la loro collocazione, anche se non un senso, dentro al laboratorio un principio d’incendio c’era stato davvero: originato da un’intera tanica versata sul corpo di quel ragazzo che gli agenti trovarono con la testa saltata, e gli schizzi di sangue che erano arrivati fino sulla lavagna. Immerso in quella strana mescolanza di sangue, benzina e litri d’acqua, pareva più un annegato che qualcuno a cui avessero sparato a bruciapelo, dritto in mezzo alla fronte.
         Giaceva a terra con gli abiti incollati in una poltiglia. Negli occhi chiari e aperti sotto alla rosa che gli si apriva sulla fronte, un’espressione di muta sorpresa. A spegnere il rogo appiccato da quel quindicenne impazzito che ancora si aggirava a piede libero per la scuola, era stata la presenza di spirito di uno degli studenti: un capo scout che sognava di diventare vigile del fuoco e che quel giorno aveva avuto la sua occasione.  
         Mentre il resto della classe si accalcava in fondo all’aula, il ragazzo in questione era riuscito a intervenire prima che l’incendio divampasse sgranocchiando i banchi di legno: l’aspirante pompiere era corso al lavandino di cui era dotato il laboratorio, aveva riempito il bidone della carta da riciclo, e aveva scaricato sul cadavere del compagno una quantità d’acqua sufficiente a spegnere le fiamme - e magari ad annegarlo, se fosse stato ancora vivo.
         Con la stessa sicurezza, eppure al tempo stesso con la strana impressione di muoversi dentro a un sogno, lo scout aveva preso in mano la situazione al posto della professoressa di scienze, una donna già anziana che veniva a lezione arrancando col bastone e aveva scelto il momento meno opportuno per accasciarsi a terra e perdere conoscenza.
         -“Cerchiamo di stare calmi”- aveva detto lo scout, tirandosi dietro un paio di altri ragazzi e aiutandoli a sollevare le gambe dell’insegnante, a spruzzarle sul volto un po’ d’acqua fresca -“fuori lo sanno già, tra poco verranno a prenderci. È questione di poco, restate sotto ai banchi e nessuno si azzardi a uscire, che quello è ancora in giro. Se siamo fortunati, qui non tornerà più”-
         I compagni l’avevano guardato allucinati, poi s’erano disposti ad obbedire in silenzio, troppo sconvolti per pensare a un’alternativa. Alcune ragazze s’erano accovacciate con i pugni sul viso e lacrime nervose che uscivano dalle nocche. Prima che quelle lacrime diventassero grida, o anche solo parole, le aveva zittite riparandole sotto a un banco:
         -“È questione di minuti”- aveva ripetuto -“solo pochi minuti e poi arriveranno, ci aiuteranno a uscire. Lui non torna, capito? Con noi, ha già finito”-
         Uno degli studenti, un tipo massiccio a cui era stata affidata la gamba destra dell’insegnante - più che sollevarla, ci si teneva aggrappato - non era molto convinto:
         -“Tu come fai a saperlo, che quello non tornerà ad ammazzarci tutti quanti?”-
         -“Poteva finirci subito, e invece non l’ha fatto. Voleva quello ”- lo scout accennò al corpo riverso tra i primi banchi, da cui ancora s’alzava qualche lenta voluta, come una sorta di ultimo respiro affumicato -“non cercava noi, ma Del Valle: quello che l’ha trattato sempre come una merda”-
         Di lì a poco avevano fatto irruzione gli agenti. Il giovane scout aveva passato le consegne e aiutato i compagni a raggiungere la scala, e di là il piano terra. Erano rimasti, nell’aula, l’anziana insegnante con gli occhi fissi al soffitto e il cadavere nel suo loculo incastrato tra i banchi, che aveva appena terminato di esalare le ultime spirali di carne bruciata.
         L’agente giovane segnalò la presenza di un soggetto non in grado di raggiungere l’uscita con le sue gambe:
         -“Bisogna che veniate a prenderla con la barella”- discuteva coi responsabili che avevano predisposto i soccorsi all’esterno, ma erano poco propensi a entrare nell’edificio -“il piano terra è già stato messo in sicurezza. Prima aula a sinistra, in cima alla scala centrale. Ripeto che questa parte dello stabile è presidiata. Ma quali terroristi islamici di sto’ cazzo….”-
         -“E noi, che ne sappiamo”- brontolò il collega dal fondo dell’aula, dove stava verificando le condizioni dell’anziana professoressa -“preferisco gli islamici piuttosto che un ragazzino dell’età di mio figlio”-
         Stesa a terra con gli occhi aperti, come se tra i lampadari e qualche straccio di ragnatela negli angoli si stesse proiettando una replica di quanto era accaduto solo mezz’ora prima, l’insegnante non mostrava alcun segno di ripresa.
         -“Non ti ci mettere anche tu, adesso”- era sbottato l’agente giovane, che dopo aver chiuso  la comunicazione s’era messo di guardia sulla soglia, muovendosi avanti e indietro in preda a un nervosismo crescente -“adesso tocca aspettare che arrivino su questi con la barella, e poi scortarli di sotto. Sempre che abbiano il coraggio di entrare”-
         -“Signora, stanno arrivando”- assicurò il collega, rivolto all’insegnante: la donna era assorbita dalle sue visioni proiettate contro il soffitto, che continuava a seguire con un’espressione stupita, come se ogni volta si ritrovasse a cogliere nuovi particolari.         
         L’agente anziano si rese conto che non occorreva ripetere le solite indicazioni, stia calma, verranno a prenderla, tra pochi minuti sarà fuori da qui, perché appariva chiaro che la vecchia professoressa era persa nel suo mondo, e non ascoltava niente e nessuno.
         Proprio in quel momento, all’altra estremità del corridoio esplose un pandemonio di cristallerie infrante: una nube di schegge e frammenti d’intonaco si addensò fino a lì, facendo sobbalzare il poliziotto giovane che era uscito ad attendere l’arrivo dei soccorsi.  
         -“La biblioteca”- mormorò la professoressa, e i suoi occhi dilatati ripresero coscienza improvvisamente -“non è possibile, io non ci posso credere”-
         L’edificio scolastico era un pezzo importante di storia della città: un antico convento in parte adibito a museo dove si conservavano pergamene e manoscritti, miniature splendenti sotto a teche infrangibili, alcuni esemplari delle prime opere a stampa risalenti all’inizio del cinquecento.
         L’accesso alla biblioteca era custodito da una serie di vetrate con decori floreali, antiquariato di pregio di inizio novecento che in quel preciso istante lanciava schegge impazzite di smalto colorato, pezzi di rilegatura in piombo come proiettili.
         A quel punto, gli agenti cominciarono a pensare che chi aveva scatenato quell’inferno di fuoco e fiamme disponesse di qualche ordigno più o meno rudimentale.
         Il poliziotto anziano recuperò all’istante i suoi dubbi iniziali:
         -“Un attentato. Decine di punti sensibili presidiati giorno e notte, e quelli chiaramente ripiegano su una scuola. Forse in quella cazzo di biblioteca c’è qualche codice con Maometto all’inferno”-
         Sebbene lo scoppio li avesse colti di sorpresa, l’agente giovane era riuscito a decifrare con precisione i rumori che erano deflagrati là in fondo:
         -“Nessun ordigno esploso. Sono colpi d’arma da fuoco. Forse l’hanno fermato”- e questo lo diceva soprattutto avvertendo una maggior quiete cedere il passo alla tensione, e riempire i singoli ambienti. D’un tratto arrivò la voce:
         -“Primo piano in sicurezza, via libera con cautela”-
         In quel momento arrivarono i soccorritori con la lettiga.
******
 
         A un certo punto, s’era trovato a vagare per i corridoi senza meta, con la sola compagnia della sua solitudine: la stanchezza dovuta alla tensione protratta, alla rapidità con cui aveva agito mettendo in atto un progetto elaborato da tempo, alla fine aveva prevalso.
         Si sentiva svuotato, aveva esaurito fino all’ultima goccia di rabbia.
         Quel sollievo che aveva creduto di provare una volta portato a termine il suo piano, non era mai arrivato: l’entusiasmo che l’aveva dominato nei giorni precedenti, al punto da non lasciarlo dormire la notte mentre metteva a punto i dettagli e se ne compiaceva, e il compiacimento si tramutava in ansia che il giorno stabilito arrivasse al più presto, si era esaurito a un tratto, cedendo il passo a una desolazione senza rimedio.
         Gli facevano male tutti i muscoli che aveva impegnato a reggere quell’arma e le sue conseguenze: le gambe con cui aveva spalancato le porte a pedate, le braccia da cui aveva scaricato la collera sentendola correre fino alla canna del fucile da caccia di suo padre, con una sensazione di cupa esaltazione. Quanto all’odio che era stato la sua spina dorsale, che l’aveva sostenuto nei giorni in cui aveva elaborato il progetto fino al suo compimento, era volato in fumo come i corpi di quei tre che aveva centrato con un colpo ciascuno, e poi dato alle fiamme come si fa con i rifiuti nelle discariche.
         Adesso quelli là non avrebbero più infastidito nessuno, né lui né altri ragazzini più deboli, la tipica selvaggina preferita dai bulli: il compagno con gli occhiali a fondo di bottiglia, quello timido e obeso, la ragazzina troppo alta, troppo bassa, quella col busto. Era finito il tempo dei ricatti e del ti aspetto all’uscita da scuola, devi pagare pegno e se non hai i soldi ti annego nella tazza del cesso, sempre in tre contro uno. A lui, in particolare, non avrebbero più ficcato - per l’appunto - la testa nel gabinetto per poi pisciarci sopra, e quello era già un risultato che ora però assumeva sempre di più i contorni di una delusione.
         Di fronte alle fiamme che s’erano levate da quei corpi ai suoi piedi, al terrore dei compagni che fuggivano inciampando, affannandosi a spinte man mano che lui avanzava, si era sentito padrone del mondo. Quella sensazione, tuttavia, era stata di breve durata: la frenesia che era corsa a fiotti per i muscoli del suo corpo, come se vi fosse ebbrezza al posto del sangue, aveva ceduto il passo a uno strano dolore da qualche parte dell’anima.
         Adesso intorno a lui c’era solo silenzio. Dentro, un vuoto abissale.
         Si sentiva sperduto in uno spazio immenso e lontano da tutto, persino da se stesso.
         Come se anche lui fosse volato in pezzi assieme alla vetrata dell’antica biblioteca, su cui aveva scaricato le ultime munizioni solo per fare chiasso, per sfidare i poliziotti che già avevano fatto irruzione e tra poco sarebbero arrivati fino a lui: per dire che non gli importava più niente di niente, per scaricare gli ultimi residui di rabbia.
         Da quanto tempo la rabbia era divenuta l’unica risposta a tutto quello che gli succedeva?
         Non era neppure più in grado di ricordarlo.
         Tutto era cominciato quando il gruppo dei bulli l’aveva preso di mira, o forse ancora prima.
         Quando suo padre, dopo aver spadroneggiato in casa per anni dettando il bello e soprattutto il cattivo tempo, aveva abbandonato la famiglia tutt’a un tratto per una donna più giovane, per un altro figlio in arrivo.
         Eppure, il Ragazzo aveva fatto di tutto per farsi amare: obbedire e chinare la testa ogni volta, senza azzardare mai una parola in risposta, era ciò che suo padre gli aveva insegnato, talvolta con le buone e più spesso con le maniere forti.
         Lui s’era calato nel ruolo del bravo figlio che non disturba e anzi non esiste, a meno che gli adulti non gli rivolgano la parola: eppure, recitare a perfezione la parte non era servito a conquistare l’affetto di quell’uomo che aveva sempre ammirato con tutta l’anima, né a impedirgli di andarsene.
         La casa era più tranquilla da quando suo padre li aveva abbandonati, portando altrove la morsa di tutte le sue pretese, ma si trattava di una tranquillità apparente, da palude depressa.
         In quell’atmosfera immobile, nell’aria sempre chiusa che li isolava dal mondo, a meno che non fosse lui ad aprire le finestre per richiamare un po’ di vita dal mondo esterno, sua madre coltivava idee suicide nell’humus del divano, i piatti sporchi crescevano una pila in cucina e la tivù blaterava sempre accesa, per dare l’illusione che in casa ci fosse qualcuno a riempire il vuoto.
         La tivù, evidentemente, faceva le veci di quel figlio che aveva imparato fin troppo bene a rendersi invisibile. Al punto che molti compagni e persino alcuni insegnanti, interrogati in seguito sui fatti di quel giorno, riferirono di sapere a malapena che voce avesse il Ragazzo della Sparatoria.
         Al momento, il Ragazzo in questione si trovava intrappolato nel labirinto della sua scuola: alla stessa maniera di quelli che non erano riusciti a fuggire e adesso se ne stavano rimpiattati nelle aule, mentre lui continuava a vagare senza meta.
         Alle spalle e di lato, lo seguivano fruscii spaventati:
         -“Viene verso di noi. Lo sento, sta arrivando”-
         -“Ci ammazzerà tutti”-
         -“Sta’ zitta, è passato oltre”- un ringhio di risposta, reso più aggressivo dalla paura -“Vuoi che ritorni indietro?”-
         -“Voglio uscire di qui!”-
         Indifferente a tutto, il ragazzo continuava a percorrere il corridoio cercando di recuperare il filo dei suoi pensieri.
         Adesso, in realtà, non sapeva che fare.
         Il progetto iniziale era stato portato a compimento, con quei tre colpi mandati a segno dentro ad altrettante teste di cazzo. Con questo, aveva già raggiunto gli obiettivi che si era prefissato: anzi, li aveva centrati con una precisione di cui quell’energumeno di suo padre avrebbe potuto esser fiero, se solo avesse condiviso la sua idea in merito ai bersagli su cui valeva la pena di sparare col suo fucile da caccia. I compagni che in quel momento se ne stavano rintanati sotto ai banchi potevano star tranquilli: non aveva intenzione di compiere una strage, anzi la sola idea di far fuori altra gente contribuiva solo ad accrescere il suo malessere e a fargli salire in bocca un sapore aspro e acquoso, che gli dava la nausea e preludeva al vomito.
         Gli era passata anche la voglia di fare da spauracchio, di andare per le classi sparando in aria e a caso solo per spaventarli. Aveva ormai esaurito tutte le munizioni, ma aveva soprattutto esaurito le energie: la collera, il desiderio, persino il divertimento. Aveva provato maggiore soddisfazione a mettere a punto il progetto piuttosto che a realizzarlo, e adesso poteva dirlo: in tutta quella faccenda, ciò che era mancato era stato proprio lo spasso.
         Quanto al resto, sapeva di avere le ore, anzi i minuti contati.
         Aveva considerato la possibilità di prendere con sé uno degli studenti per riuscire a portarsi in qualche maniera all’esterno. Ma una volta uscito, dove poteva andare? Per lui non c’era scampo e ora se ne accorgeva: la realtà funzionava in maniera diversa dai videogiochi, che a un certo punto puoi spegnere quando non ne hai più voglia, per poi ricominciare daccapo e un’altra volta quando sei di nuovo lucido e la rabbia è una corazza che ti protegge dal mondo.
         Quella festa selvaggia che era riuscito a scatenare in meno di un’ora non era servita a niente se non a bruciare i ponti alle spalle soltanto a lui: alla fine, il vero obiettivo messo a fuoco nel suo mirino, la vittima designata di tutto quel disastro che aveva sparpagliato attorno a sé con tanto impegno, era lui stesso. Là fuori non lo attendeva una vittoria a punteggi, ma poliziotti veri che aveva già intravisto, dall’alto della scalinata centrale, occupare intere porzioni del suo territorio ricacciandolo indietro, in uno spazio sempre più ristretto e indifendibile.
         Aveva udito le segnalazioni che si erano susseguite a partire dall’irruzione, dopo un lungo silenzio che aveva preceduto il via libera al piano terra, e primo piano in sicurezza: era seguito un movimento il più possibile contenuto, di gente che si affrettava verso l’uscita scortata dai poliziotti, troppo intimorita per dire una parola.
         Di fatto, l’avevano confinato nei cessi del secondo e ultimo piano.
         Davanti alle porte chiuse che contenevano ognuna una tazza scheggiata, dozzine di scritte sui muri e non un solo rotolo di carta pulita, correva una fila di lavandini altrettanto malconci: di quel grigiore spento che non viene via neanche a strofinarlo con tutto l’olio di gomito del mondo.
         La manopola per regolare l’acqua più calda o fredda girava a vuoto, buttando sempre lo stesso schizzo rauco e fangoso. Sopra, c’era uno specchio costellato da altri sgorbi e macchie di umidità: là ritrovò il suo volto inquadrato per caso, proprio accanto alla scritta “coglione” e a una freccia che indicava la sua immagine riflessa.
         Catturato nel centro tra la scritta e la freccia, quello che lui vedeva era lo sguardo di un ragazzino tirato a capofitto, suo malgrado, dentro a un disastro. Molto simile a quello che aveva visto sulle facce dei suoi compagni, all’inizio composti nei banchi e un poco annoiati, di seguito stravolti dinanzi a lui che li teneva in pugno e in quel momento si sentiva più che mai Barry Dale, il suo alter ego virtuale: deciso, dominante e senza alcun dubbio. 
         Barry Dale era l’icona con cui con cui il Ragazzo partecipava ad un gioco di ruolo chiamato Dies Irae. Col giorno del giudizio, di cui anche lui aveva sentito parlare al catechismo, quel gioco in realtà aveva poco a che fare, visto che la collera scatenata in quel caso non era quella divina, bensì la rabbia repressa dei singoli partecipanti: questi dovevano assegnarsi un certo numero di obiettivi e riuscire a distruggerli nel più breve tempo e nei modi più fantasiosi possibile.     
         Gli obiettivi non dovevano essere scelti a caso: il punteggio aumentava in ragione della descrizione più minuziosa, che doveva comprendere le ragioni dell’odio e i modi per farli fuori, dalle torture alle stragi di massa. Il tutto era virtuale, ma si muoveva su un crinale pericoloso.
         Tra i giocatori, c’era chi odiava le donne perché non ne aveva mai avuta una, chi ce l’aveva con gli immigrati o col capufficio, c’erano i simpatizzanti nazisti e i ragazzini che prendevano di mira gli insegnanti e i compagni di classe.
         In vetta alla classifica, soltanto pochi eletti: quelli come lui anzi come Barry Dale, che commentava i suoi risultati sul forum del Dies Irae e raccoglieva i consensi di chi condivideva gli stessi deliri, si nutriva dello stesso rancore.  
         La fondamentale differenza tra Barry Dale e gli altri utenti era che gli altri si limitavano a sfogarsi nel recinto della rete come se si trattasse di un far west protetto, dove sparano tutti ma non si fa male nessuno: mentre l’icona di Barry Dale, freddo e senza tormenti, senza inutili stropicciamenti di colpa, a forza di rubare al ragazzo tempo e pensieri inchiodandolo giorno e notte al computer, gli aveva fatto perdere la nozione del tempo, poi quella della realtà.
         Finché un giorno quell’alunno diligente, timido ed introverso, si era ritrovato a sparare sul serio agli obiettivi scelti tra i compagni di classe, quasi senza sapere come c’era arrivato. 
         L’icona di Barry Dale era un’elaborazione al computer del volto del Ragazzo senza tracce d’infanzia, debolezza o rimorso. Un’immagine splendida, di cui però nello specchio macchiato della scuola, sotto alla scritta coglione, non c’era neanche l’ombra.
         Ora, in quel bagno deserto che sapeva di detersivo e acqua sporca, nella scuola in parte evacuata e in parte presidiata da quelli che, prima o poi, lo avrebbero fermato, il Ragazzo della Sparatoria era di nuovo solo. Barry Dale se n’era andato dopo avergli fatto scendere la china fino in fondo: una scia di terrore, di roghi e tre morti - cadaveri veri, non immagini virtuali come quelle che apparivano sullo schermo del computer accanto all’ammontare dei punti totalizzati.
         Proprio in quel momento, accanto al suo riflesso pallido nello specchio apparvero due occhi umidi e scintillanti, lunghi capelli scuri e la preoccupazione sul volto di Nisha: sua compagna di banco, nonché oggetto dei sogni più rispettosi e nascosti del Ragazzo della Sparatoria.
         Nisha non era mai stata tra gli obiettivi: il suo reame non apparteneva al Giorno del Giudizio, bensì a quello dei sogni puliti e senza erbacce, da conservare integri con lo spirito di un cavaliere d’altri tempi. 
         Molte volte il Ragazzo l’aveva protetta, da quando erano ancora alla scuola elementare e lei era una bimbetta cupa e piagnucolosa, figlia di immigrati dello Sri Lanka che parlava soltanto il dialetto del suo paese, e anche quello a stento: con i lunghi capelli arruffati dall’ansia che le finivano sempre in bocca, il sudore reso più aspro dalla paura, gli odori delle spezie forti di casa sua che il naso dei compagni scambiava per puzza.  
         Crescendo sotto la protezione del Ragazzo, con il quale aveva condiviso da sempre l’ultimo banco, seminascosta tra la carta geografica dell’America e il tempo che faceva fuori dalla finestra, Nisha era sbocciata nella grazia affusolata delle donne della sua terra.
         La corteggiavano in molti e la sognavano tutti, ma lei volgeva la corolla nera del capo, i capelli lucenti e ravviati con cura, i grandi occhi scuri verso l’unico che non la guardava neppure, non per disinteresse ma per mancanza di coraggio: il Ragazzo, che aveva coltivato per anni la sua aiuola con cura, proteggendola dalle molestie e un paio di volte facendo addirittura a pugni, si sentiva a disagio dinanzi a quella presenza femminile già adulta, mentre lui a quindici anni ne dimostrava tredici e davanti alle donne se ne sentiva dieci.
         Lei invece ricercava la sua vicinanza con la pacifica naturalezza che era nel suo carattere: gli riprendeva il segno sopra al libro di testo quando si distraeva, gli suggeriva le risposte quando l’insegnante lo vedeva più svagato del solito e gli chiedeva di punto in bianco di ripetere cosa stava spiegando. Purtroppo per lui, il Ragazzo era molto più affascinato da Barry Dale che gli parlava nella testa, discutendo degli ultimi obiettivi: e il tenue odore di gelsomino e di curry che spirava una brezza dai capelli di Nisha non lo sfiorava neppure.
         Solamente una volta, all’uscita da scuola, invece di correre a casa e chiudersi davanti al computer, il Ragazzo aveva accettato un invito a pranzo di Nisha, e l’aveva seguita nella sua casa decorata da stoffe dorate e statuine del Buddha, su altari simili a variopinte case di uccelli.
         Quella di Nisha era una madre silenziosa e scurissima, così diversa dalla sua: si aggirava per casa con una grazia con cui sfiorava a stento il pavimento e lo sorprendeva alle spalle, servendogli piccole ciotole di salse così piccanti da incendiargli la gola e far uscire le lacrime dagli occhi.
         Il Ragazzo era rimasto incantato dalla delicatezza con cui Nisha e la madre passavano le salse e facevano girare i vassoi delle pietanze, con grandi sorrisi bianchi come i chicchi del riso.
         A casa sua, invece, regnava la perenne confusione dei piatti sporchi, ammucchiati in cucina e davanti alla televisione. Quando lui si chinava per ritirarli, lo sguardo di sua madre gli passava attraverso, e solo un cenno del capo accompagnava la voce sprofondata nel divano, resa lenta e impastata dagli antidepressivi:
         -“Levati dallo schermo, fammi vedere Il Segreto. Va’ via, lasciami in pace”-
         Ora, in un altro tempo e in ben altre circostanze, trovandosi di fronte Nisha all’improvviso, il Ragazzo della Sparatoria non aveva il coraggio di guardarla dritta in faccia.
         -“Che ti è successo, così, all’improvviso… perché?”- le sopracciglia sottili di lei si increspavano, insieme alle sue parole -“sono scappati tutti, quando hai cominciato con quello”- abbassò le ciglia verso il fucile che penzolava contro all’anca del ragazzo, come un oggetto diventato improvvisamente imbarazzante.
         Impercettibilmente, il ragazzo si mosse per nasconderlo alla vista della compagna.  
         -“Io sono rimasta, perché mi sembrava impossibile. Mi sono detta, voglio vederlo con i miei occhi…”- si avvicinò d’un passo, lui arretrò cercando di mantenere le distanze.
         La paura si agitava in fondo agli occhi di Nisha, ma lei preferiva credere di essere di fronte allo stesso ragazzo con cui aveva condiviso tante ore di scuola, e che era sicura di conoscere a fondo.
         -“Vattene a casa, Nisha. Le scale sono libere, tra poco loro saranno qui e tu non puoi restare. Ormai è finita, vattene per favore”-
         Lei sollevò un poco le braccia, avanzò leggermente:
         -“Butta via quell’arnese”- accennò brevemente al fucile, che il ragazzo aveva appoggiato contro al muro, dandogli poi le spalle come se non gli appartenesse:
         -“Bene, ora ce ne andremo da qui. Per favore, stai calmo e vieni di sotto con me”-
         Gli tese la mano.
         Immobile nello specchio, il volto del Ragazzo indugiò un istante, incerto sul da farsi: aveva occhiaie profonde, come chi non riposa da moltissimo tempo. Quando si voltò finalmente verso Nisha, lei non c’era già più: in sei lo circondavano con uno sbarramento di armi puntate, altri sopraggiungevano, si accalcavano nello spazio ristretto del bagno.
         -“Le mani sopra alla testa, ragazzo”-
         -“Da bravo, non fare scherzi”-
         Il riflesso dello specchio si riempì di altri volti, di movimenti rapidi che lo accerchiavano, tutti sopra di lui. Lui faticava a capire dov’era, era talmente stanco, le braccia strattonate gli facevano male: si sentiva come chi è immerso in un sonno così pesante da non riuscire neppure a girarsi nel letto.
         Non c’era più Barry Dale a dare ordini nella sua testa, non c’era più Nisha - mentre lo trascinavano di peso fuori dal bagno la vide poco distante, l’onda notturna dei capelli che oscillava ritmica sulle spalle, i passi di lei affiancati da due soccorritori.
         A tratti si fermava, si voltava a guardarlo. I suoi accompagnatori le sfioravano i gomiti per aiutarla a procedere:
         -“Ce la faccio da sola”- la sentì dire, e di nuovo si voltava a cercarlo. Il suo sguardo non era né deluso né incredulo.
         Il corridoio era ancora invaso dal fumo, man mano che scendevano ai piani inferiori l’atmosfera era sempre più da fine del mondo, con cerchi di gesso sul pavimento attorno ai bossoli, calcinacci d’intonaco, vetri rotti e su tutto l’odore di benzina e di carne bruciata.
         D’un tratto, le ginocchia del ragazzo cedettero: i poliziotti al suo fianco dovettero strattonarlo per rimetterlo in piedi.
         Ma negli occhi di Nisha, che sembravano sorgere su di lui da millenni con l’eterna compassione dei grandi Buddha di pietra, c’era una comprensione dolorosa e profonda.
         Mentre lo conducevano lungo la scalinata e verso l’arco di luce splendente dell’uscita, il ragazzo si sentiva protetto da quello sguardo che non conosceva condanna ma possibilità. Al suo fianco, un agente anziano lo sorreggeva con una delicatezza molto simile all’imbarazzo, come se stesse accompagnando un figlio malato.
         Alcune aule erano state recintate con cordoni di plastica, tesi tra i muri anneriti dalla fuliggine, pozzanghere che si allargavano lente: nella foschia impregnata dalle sostanze usate per spegnere i focolai, i vigili del fuoco e altri poliziotti, il personale delle ambulanze e altri tizi in borghese andavano e venivano senza concitazione né fretta.
         Il tutto si svolgeva in un silenzio sgomento, nella calma irreale che segue al compimento, quando restano solamente gli ordini da eseguire e i rilievi da fare.
         L’assenza di rumori suggeriva l’idea di un film danneggiato, in cui le sequenze procedono a sbalzi e il sonoro è una serie di crepitii in sottofondo: presto la pellicola si sarebbe interrotta, squarciandosi in un fiore dai margini arricciati che avrebbe ingoiato tutto.
         Neppure una parola da parte dei poliziotti che scortavano il ragazzo, anzi soltanto una, da parte del più anziano che aveva notato la sua incertezza nel muoversi e coordinare i passi:
         -“Attenzione ai gradini”-
         Avevano appena iniziato a scendere a loro volta, dietro a un gruppo di tre che accompagnava una barella con fleboclisi - il terzo soccorritore si destreggiava per tenere alto il flacone, nell’altra mano una bombola portatile per l’ossigeno - e fu a quel punto che tornò in scena Barry Dale: la sua voce, stridente e aggressiva, occupò tutto lo spazio nella mente già rassegnata del ragazzo - ed era una rassegnazione dal fondo tranquillo, che non si attendeva nulla ma neppure temeva, ancora avvolta dall’ovatta protettiva dello sguardo di Nisha.
         Il Ragazzo fece appena in tempo ad accorgersene: in un attimo Barry Dale aveva preso il sopravvento, voltandosi di scatto con una rapidità che prese in contropiede quelli che lo scortavano, e afferrò la mitraglietta dell’agente che gli stava alle spalle.
         Il Ragazzo avvertì un dolore lancinante ai polsi stretti nelle manette, il contatto col ferro dell’arma, l’esplosione di un colpo che partì improvvisamente , seguito da altri in serie: l’effetto fu di disperdere quelli che si trovavano nelle immediate vicinanze, lanciandoli in un fuggi fuggi generale.
         Si era aggrappato alla mitraglietta con tutto il suo peso, cercando di strapparla all’agente che dopo un attimo di sorpresa s’era aggrappato a sua volta, per impedirgli di arrivare al grilletto.
         Gli altri che lo scortavano gli erano piombati addosso ma Barry Dale era riuscito a impossessarsi dell’arma, segando i polsi al Ragazzo con la sua furia frenetica
         Sulla testa del Ragazzo erano piovuti polvere e calcinacci strappati dai colpi in aria, mentre Barry Dale, forsennato, cercava di rivolgere l’arma contro se stesso.
         Finché, a un certo punto, qualcuno era riuscito finalmente a fermarlo: qualcosa era arrivato, pesante e ben assestato, a colpire in testa il Ragazzo, annebbiandogli la vista con un barlume bianco. La pellicola s’era interrotta con uno squarcio, e lui aveva appena fatto in tempo a sentire lo sguardo di Nisha, la carezza delle sue lunghe ciglia, giungere fino a lui e cercare di proteggerlo ancora e inutilmente.
******
 
         La cucina era avvolta in un tiepido odore di legno grezzo che riposava sulle mensole come un grosso gatto assonnato, tra i barattoli delle conserve e una fila di presine lavorate all’uncinetto.
         Un gatto c’era davvero, un dorso di pelo lucido e una coda tigrata attorcigliata attorno a una sottana lunga, che frusciava a ogni passo e si muoveva rapida su due sandali e piedi scalzi. I passi andavano svelti sul pavimento di cotto, due mani ruvide e esperte liberavano odori di cibi in cottura sollevando coperchi, soffiando sbuffi dallo sportello del forno.
         Dalla finestra aperta entrava la fragranza dell’erba appena tagliata: un ramo fiorito oscillava, incerto se entrare oppure rimanere nel suo quadrato di cielo.    
          La donna aveva un fazzoletto di panno attorno alla testa, un filo di sudore all’attaccatura dei capelli disciplinati con rigore, un bel viso deciso e maniere sicure mentre si affaccendava nella cucina dei genitori. Veniva a visitarli ogni settimana, percorrendo a piedi il tragitto dal monastero nel quale viveva, immerso nella solitudine della vallata e nei lavori del frutteto e dei campi: con sé, nella bisaccia, portava un vasetto di marmellata o una torta appena levata dal forno della comunità, subito dopo la preghiera del mattino. La torta le scaldava il fianco lungo sentieri che d’inverno scricchiolavano sotto i sandali per la neve, come se la terra fosse ancora nuova di zecca: avvolta nella brina come un pacco regalo e non ancora abituata a essere calpestata dagli uomini.
L’alba sulla montagna arrivava in ritardo, perché il sole doveva arrampicarsi ogni mattina sulle alture e i crinali accovacciati nel buio: sorgeva con fatica uno spicchio per volta, poi una volta arrivato all’altezza dei pascoli smuoveva un poco la cenere raffreddata del cielo come nei focolai di un tempo. D’estate bastava un soffio e la fiamma si levava, insieme al canto delle cicale.
D’inverno si scioglieva in una luce incerta che diventava nebbia, e perforava lo sciarpone di suor Pesca con sottili aghi di pioggia.
         Sorella Pesca amava andare per i prati in quell’ora che segna il passaggio tra la notte ed il giorno, convinta che anche al buon Dio piacesse passeggiare nel grande giardino del mondo e che in quel momento, quando la terra pareva fatta nuova e di fresco, fosse più facile incontrarlo: era certa che Lui le camminasse al fianco mentre s’inoltrava nei boschi, per i viottoli in salita che tiravano il fiato corto, nelle discese che mettevano a dura prova la tenuta delle ginocchia.
         Aveva mantenuto anche da religiosa quel nome così strano, che le era stato dato da suo padre nel momento in cui l’aveva tenuta tra le braccia la prima volta, con la fragilità e l’emozione con cui si regge un miracolo. Intimidito di fronte a quella creatura dotata di minuscola perfezione, dalle piccole dita già in grado di stringere e trasmettere calore, Enrico Del Valle s’era scordato del nome che aveva progettato di darle insieme a sua moglie, dopo una lunga scelta sfogliata sul calendario, spigolata da un elenco di attrici e donne dello spettacolo: aveva detto Pesca subito al primo sguardo, osservando le guance da frutto della piccola, respirando l’odore della sua pelle di zucchero.
         Inizialmente s’era trattato di un vezzeggiativo, che poi era rimasto perché a sua figlia calzava preciso come un guanto: malgrado tutti i pronostici, nessuno le aveva reso la vita difficile per via di quel nome che poteva andar bene soltanto a una neonata.
         Era stata Pesca all’asilo, col grembiulino in tinta, e nessuno ci aveva trovato da ridire.
         Anche alle elementari Pesca Del Valle aveva avuto successo, perché ciò che agli adulti era parso un capriccio, un modo dei genitori per mettersi in mostra, nella fantasia dei compagni evocava la magia dei cartoni animati, e possedeva la suggestione dei sogni ad occhi aperti.  
         Insieme alle varie Giada, Jennifer e Pier Filippo, Pesca era cresciuta in armonia con se stessa e con la rotondità delle sue guance, ignorando di essere iscritta ufficialmente all’anagrafe con un nome più adatto a una marca di confetture industriali. Col tempo, si era mantenuta fedele alle promesse contenute in quell’appellativo bizzarro, sbocciando alla stessa maniera del frutto a cui somigliava fin dalla nascita. Quel nome che evocava le fette di pane e marmellata dell’infanzia aveva finito per sottolineare la semplicità del suo carattere, nonché il suo desiderio di conoscere una dolcezza che fosse pari alla sua: quando aveva incontrato l’amore della sua vita, non l’aveva cambiato ed era diventata sorella Pesca della tenerezza di Dio.
         A casa dei genitori arrivava ogni sabato insieme all’alba, e subito cominciava a darsi da fare.
         Spalancava le finestre e scuoteva la polvere, cacciava la sporcizia a colpi di scopa, le mani svelte al lavoro e la mente raccolta com’era solita fare nella cucina del monastero, che era di pietra viva e grande come una grotta: fredda d’estate e inverno al punto che suor Pesca scendeva ogni mattina con sciarpone e cappuccio da spedizione artica, battendo i piedi e stropicciandosi le mani mentre versava il latte nei pentoloni, e avvitava le caffettiere per la colazione di tutta la comunità.
         Mano a mano che cominciava a trafficare, iniziava anche a scaldarsi insieme al borbottio del latte sui fornelli, finché arrivava il giorno e prima ancora il canto degli uccelli nell’orto.
         A quel punto il silenzio della campagna si animava di voci.
         Una novizia assonnata usciva dalla cella e si aggrappava alla corda della campana del dormitorio: la chiamata alla preghiera incominciava il giorno, le ultime stelle in inverno si attardavano un poco e suor Pesca s’imbacuccava di nuovo e di fretta, per salire nel coro attraverso una chiocciola di scala ripida e stretta. I canti terminavano quando nella vallata si stendeva la nebbia inoltrata della mattina, o il canto delle cicale se si era in estate.
         Nei primi anni, quando anche lei era novizia e ancor prima una postulante con quattro maglie, il cui problema principale era il freddo, suo padre veniva a visitarla in parlatorio, arrancando a fatica dietro alla sua vocazione: arrivava con pacchi di vettovaglie per il timore che facesse la fame, coperte e calzettoni perché in comunità mancava il riscaldamento.
         Soprattutto, arrivava con in testa tante domande che continuavano a tormentarlo insieme alla nostalgia. Mentre Pesca sbocciava di giorno in giorno in una felice maturità e il freddo le accentuava i colori del volto, Enrico Del Valle girava attorno ai suoi interrogativi senza risposta: chiedeva se mangiava, se dormiva abbastanza, se aveva bisogno di questo o di quello.
         Si aggrappava alle preoccupazioni per la salute del corpo, non riuscendo a capire che cosa succedeva nell’anima di quella figlia che aveva rinunciato alla laurea e al resto del mondo per andare a zappare nei campi e nell’orto: in nome di un amore che l’aveva afferrata ma che ai suoi occhi presentava l’ostacolo di essere invisibile, inafferrabile, incomprensibile. Un genero con cui non si poteva litigare né al quale si potevano porre delle questioni, ammesso che l’amore, anche quello terreno, fosse qualcosa che si potesse spiegare.
         Suor Pesca aveva percorso le tappe della sua formazione mantenendo inalterati il mistero e l’entusiasmo: all’ingresso in noviziato, suo padre l’avevano incontrata dietro alla grata in abito da sposa, aveva partecipato alla festa della comunità, ma non aveva potuto accompagnarla all’altare.
         All’altare, Pesca Del Valle c’era andata da sola senza voltarsi indietro neppure per un istante, mentre il suo sposo dell’altro mondo continuava a mantenere l’odioso privilegio dell’invisibilità.
         Col tempo, rassicurato dalla serenità della figlia, dall’atmosfera familiare che ogni volta lo accoglieva in monastero e gli restava impressa a lungo dopo ogni visita, Enrico Del Valle era riuscito a mettersi il cuore in pace: accettando l’idea che quando Dio s’intromette nelle vicende degli uomini, pretendere di venirci a capo è impossibile.
         Dal canto suo, Lidia Del Valle si era sempre rifiutata di andare a visitare sua figlia in quel carcere. Volendo pareggiare i conti a tutti i costi - doveva pur esserci, da qualche parte, qualcuno che aveva suggerito, incoraggiato o fatto il lavaggio del cervello - aveva abbandonato di punto in bianco il coro della parrocchia, le visite agli anziani e le lezioni di catechismo ai bambini: a mo’ di punizione per il parroco e quel Dio che i figli li dava e poi se li riprendeva, aveva precisato che in chiesa non ci avrebbe messo piede mai più, neanche dopo morta.   
         Era morto l’altro figlio, invece: per colpa di un adolescente balordo che era entrato in classe con un fucile da caccia e gli aveva sparato un colpo dritto alla testa, e per colpa di quel Dio che non aveva mosso un dito per impedirlo.
         Da quel giorno, Lidia Del Valle s’era rinchiusa nella sua casa e nel lutto, ancor più segregata di Pesca in monastero perché a imprigionarla era una desolazione amara e senza rimedio: passava le giornate nella stanza di Walter che aveva mantenuto intatta come un sacrario, provvedendo lei stessa a spolverarla ogni giorno con l’inutile olio di gomito della sua rabbia, e impedendo a chiunque di metterci piede.  
         Seduta nella penombra, sul letto dalle lenzuola cambiate puntualmente come se il figlio le adoperasse ancora per coricarsi la sera, Lidia Del Valle cullava tra le braccia il suo dolore insieme allo straccio per la polvere. Passava le lunghe ore della sua solitudine sfogliando vecchi quaderni, le pagelle in rigoroso ordine cronologico e le foto di classe: dalla prima elementare, quando Walter era ancora un bambino col grembiule e il fiocco al collo, fino al secondo anno di scuola superiore, nell’ultima immagine scattata pochi giorni prima del fatto.
         Da quella, in particolare, Lidia Del Valle aveva grattato con le unghie il volto di un ragazzo che emergeva a stento proprio dietro a suo figlio: un sorriso forzato e occhi scuri abbassati tra quelli dei compagni che fissavano l’obiettivo disinvolti, tenendosi abbracciati, facendosi le corna.
         Prima di cancellarlo l’aveva osservato a lungo, quel viso così simile a quelli degli altri alunni, che non recava traccia di una follia particolare: nessun segno premonitore di quello che sarebbe capitato di lì a pochi giorni, se non l’aria un po’ assente di chi è costretto a mettersi in posa controvoglia.  
         L’aveva ritrovato sulle prime pagine dei giornali e alla televisione, l’enigma di quel volto che fuggiva gli sguardi, come per impedire di farsi leggere dentro: di nuovo con gli occhi bassi mentre lo conducevano nell’aula dove si svolgeva il processo, il Ragazzo della Sparatoria pareva ancora più giovane e sprovveduto e per questo più odioso, mentre si trascinava come se fosse oppresso da un enorme peso interiore.
         L’avevano inquadrato a distanza ravvicinata durante i servizi mandati in onda al telegiornale, ma un senso indecifrabile di imbarazzo, di superiorità o semplice vergogna faceva sì che di lui si vedessero solo le mani che coprivano il volto.
         Mentre il cronista tornava daccapo a riepilogare i fatti di quella mattina, e prima che apparissero le immagini di repertorio della scuola e del fucile, del giovane imputato si scorgevano solo i capelli tagliati alla stessa maniera di tutti gli adolescenti - compreso Walter Del Valle - la testa tra le mani e i gomiti sul banco, come uno scolaro di fronte a un compito in classe difficile da svolgere.
         A suo marito, quell’atteggiamento dimesso aveva suscitato un senso di pena: Enrico Del Valle aveva avuto persino il coraggio di ammetterlo, per quanto ne era rimasto impressionato.
         Dalla sua postazione in angolo sul divano, davanti alla tivù e ormai distante dalla moglie anni luce, quel senso di compassione era cresciuto in lui a tal punto che senza neanche accorgersene si era lasciato sfuggire queste precise parole:
         -“Diciotto anni di carcere. Si è proprio rovinato la vita, quel ragazzino”-
         -“È quello che gli auguro”- gli aveva fatto eco, imperturbabile, Lidia Del Valle.
 
******
 
         Enrico Del Valle non l’avrebbe mai ammesso neppure di fronte a se stesso, ma vivere in quella casa era diventato un tormento. Per questo, passava la maggior parte del tempo lungo i sentieri del suo mestiere di guida alpina, ci fossero o meno turisti da accompagnare a raccogliere funghi, esplorare i boschi e le fonti d’acque termali, scoprire i minerali e i diversi strati di roccia della montagna. Tornava quando ormai il buio e l’ora tarda non gli fornivano più alcun alibi per l’assenza: solamente all’idea di rimettere piede in casa sentiva crescere un grumo di oppressione che gli gravava addosso più dei tanti chilometri percorsi lungo i crinali.
         Ogni volta era come tornare indietro nel tempo, sempre allo stesso giorno della sparatoria al liceo giù in città, grazie all’ostinazione con cui Lidia Del Valle continuava a scambiare la rabbia per amore inconsolabile.
         Gli anni si trascinavano uno di seguito all’altro, la sentenza di condanna era stata pronunciata e il caso aveva smesso di fare notizia, ma per Lidia Del Valle il tempo s’era fermato con la morte del figlio e lei non aveva cura che del proprio dolore, perché restasse vivo.
         Il calendario segnava sempre la stessa data, a pranzo e a cena un posto veniva apparecchiato per Walter, caso mai gli venisse l’idea di tornare dal remoto aldilà in cui l’aveva spedito quel quindicenne balordo che si faceva chiamare Barry Dale, come se fosse l’eroe di un videogioco.
          Dai recessi ancor più misteriosi del monastero, dalle mura possenti avvolte da una foschia di muschio e di umidità, tornava invece puntualmente ogni settimana suor Pesca della tenerezza di Dio: con un permesso speciale della madre badessa, che l’autorizzava a trattenersi fino all’ora del vespro, Pesca portava con sé la fragranza dei campi che le monache coltivavano ancora con la zappa come cent’anni prima, in un silenzio tale da riuscire a sentire il richiamo della campana che scandiva in lontananza i tempi della preghiera.
         Al sabato mattina, Pesca si sobbarcava le pulizie a fondo di tutta la casa, le maniche rimboccate e il fruscio lungo dell’abito che la inseguiva per le stanze, come il ronzio di un’ape operosa. Quando suo padre scendeva in cucina trovava la colazione pronta sulla tovaglia, il latte e la caffettiera che borbottava disciplinata, il pavimento tirato a suon di straccio e ramazza: un ordine vigoroso che creava un’immediata sensazione di benessere, a cui Enrico Del Valle si abbandonava volentieri.
         Fu durante una di quelle colazioni serene, imbandita con i famosi biscotti ai mirtilli delle monache, che suor Pesca lanciò la proposta che aveva tenuto in serbo fino ad allora: il tempo necessario perché i suoi si trovassero ben disposti ad accoglierla.
         -“Abbiamo tante persone che vengono da noi per parlare delle loro difficoltà. Molte di loro stanno sperimentando un lutto, c’è chi è stato lasciato dalla moglie o dal marito, oppure ha perso un figlio. Così è nata l’idea di creare un gruppo di ascolto, qualcosa di molto semplice: chi lo desidera viene a trovarci alla domenica, partecipa alla Messa con la comunità, poi ci riuniamo in parlatorio per un’oretta - in questa stagione stiamo fuori, nell’orto - e a questo punto chi vuole può raccontare quello che sta vivendo. Magari anche a voi potrebbe interessare…”-
         Ancor prima che Pesca finisse di parlare, sua madre si era già alzata ed era tornata a chiudersi nella stanza di Walter, dove tutto era fermo alla morte del figlio.
         -“Non vuole farsene una ragione”- Enrico Del Valle cercò di scusarsi con sua figlia.
         -“Forse potresti provare a venire tu, papà”- pur avendo tenuto quella proposta a lievitare sotto allo strofinaccio come l’impasto dei biscotti, Pesca era realista e non si era aspettata un risultato diverso. Già convincere Enrico sarebbe stato un successo:
         -“In fondo si tratta di un’occasione per incontrare altra gente, magari addirittura per dare una mano a qualcuno”-
         La domenica seguente, più per accontentare Pesca che per un reale interesse a immergersi senza filtri nelle disgrazie altrui, Enrico Del Valle aveva assistito alla Messa in comunità con la stessa disinvoltura di un cane in chiesa, andando avanti e indietro tra il portale e l’acquasantiera, e il sagrato dai lunghi cipressi riposanti. Secondo suor Pesca, sempre pronta a scovare mistici significati in tutto ciò che vedeva, il cipresso rappresentava lo slancio dell’anima verso il cielo, e l’intreccio dei rami avvolti su se stessi simboleggiava il raccoglimento interiore.
         Guida alpina da quando aveva diciotto anni, Enrico Del Valle era più incline a ricollegare l’idea di Dio all’immensità degli spazi, la Sua voce al silenzio delle cime innevate: da quando era ragazzo, durante le vacanze era solito uscire di casa prima all’alba, un metro e dodici chili di zaino sulle spalle, per trascorrere intere giornate in solitudine tra le cime percorse soltanto dalle traiettorie dei rapaci, e dal fischio del vento.
         Messe e pellegrinaggi con candele, baldacchini e sbuffi d’incenso gli erano sempre sembrati un inutile formicolio di esseri umani, che puntualmente si concludevano con allegre sagre paesane: nulla a che vedere con la semplicità del Dio delle vette.
         Come Dio, la montagna era sovrana e imperscrutabile. Si lasciava avvicinare ma esigeva prudenza, era potente nel fascino ma anche mutevole: capace di svelare agli occhi degli uomini luoghi incontaminati e scorci di una bellezza schiacciante, ma anche di suscitare valanghe rovinose, di scatenare temporali che fulminavano gli incauti lungo le vie ferrate.    
         Dio era incomprensibile, a tratti così prossimo da poterlo sfiorare nelle vesti dimesse dei fiori di campo, ma era anche sovrano dei bastioni imponenti, dove cresceva una vegetazione scalza: miniature di siepi basse di rododendri e ciuffi gialli di papaveri alpini, genziane scaturite dalle rocce come le acque gelide dei torrenti. Il Dio della montagna sapeva essere dolce come gli occhi dei caprioli ma anche inafferrabile come i balzi degli stambecchi, in processione lungo pareti così ripide che le loro vie parevano tracciate nell’aria.
         Spesso Enrico Del Valle accompagnava in escursione gli scout della parrocchia, li aiutava a piantare le tende per la notte e ad accendere i falò. Ma non appena i capi iniziavano a cavare le chitarre dagli zaini se la squagliava svelto, diretto verso il premio della sua solitudine: là dove nessun canto o schiamazzo entusiasta riusciva a disturbare l’altissimo silenzio, eretto tra i pinnacoli che reggevano il cielo. 
         Quella mattina, mentre si aggirava incerto tra l’antica pieve e il viale di cipressi che costeggiava l’orto della comunità, Enrico Del Valle si lasciò catturare dalla novità del canto: era uscito all’aperto non riuscendo a sopportare la noia delle letture, delle orazioni interminabili, la ritualità incomprensibile dell’alzarsi e sedere a comando.
         Appoggiandosi al tronco di uno dei cipressi si era immerso nella fragranza delle resine, dei grappoli di pigne simili a piccoli pugni, che spandevano aromi a ogni soffio di brezza: là l’aveva raggiunto, simile a un’altra brezza che girava su se stessa, levandosi ad altezze sempre più sorprendenti, l’antico canto gregoriano delle monache.
         Era un coro di voci limpide sopra a cui si levava una solista vertiginosa, in grado di innalzare quel canto fino alle volte polverose della chiesa e poi di accompagnarlo a visitare i campi, i pendii immersi nella quiete della domenica: di là saliva lungo i crinali della montagna, a rivestire i pinnacoli di quell’armonia che pareva cosa dell’altro mondo.
         Per ascoltare meglio Enrico Del Valle era tornato sui suoi passi, di nuovo nell’atrio della pieve in penombra. Le pareti di pietra a vista recavano tracce d’intonaco, e nell’oscurità qualcosa aveva attirato la sua attenzione: un affresco in parte deteriorato dal tempo raccontava in due scene una storia, come una sorta di fumetto per i semplici.
         L’antico pittore del borgo aveva rappresentato il caratteristico interno delle case di un tempo, ricorrendo all’espediente di una finta trave per dividere l’ambiente e poter raccontare la vicenda in due atti. Nel primo, il Cristo tendeva la mano a una fanciulla immobile su un saccone, raffigurata con la rigidità inaccessibile della morte. Nel secondo riquadro la stessa fanciulla appariva in piedi, sulle guance il rossore vivo delle intemperie, del sole e del vento, tipico delle contadine della valle: il Cristo le teneva una mano sulla spalla mentre la presentava a una coppia vestita a festa, probabilmente i committenti del dipinto. Con una frase scritta in un latino incerto, e mezzo cancellata dalle crepe del tempo, quel Cristo chiaro e altissimo, che dominava la scena, chiedeva ai genitori qualcosa da mangiare per la bambina.
         -“Sembra una cosa scontata, dar da mangiare a un figlio. Eppure, questa frase nasconde un significato profondo”- la Messa era terminata e suor Pesca si era materializzata alle sue spalle, uscendo dall’ombra del coro. Attorno a lei un gruppetto sparuto di persone, gente che non doveva essere del paese perché nessuna faccia, a un rapido colpo d’occhio, pareva conosciuta, e questo fu un sollievo per Enrico Del Valle, che cominciava già a sentirsi a disagio.
         -“È una specie di ex voto per qualcosa che è capitato da queste parti?”- domandò qualcuno, dal fondo. Di nuovo Enrico Del Valle si sentì rincuorato: per lo meno non era l’unico a mettere piede in chiesa soltanto in occasione di nozze e funerali. L’ultimo matrimonio a cui aveva partecipato era stato il suo, l’ultimo funerale quello del figlio, e all’improvviso sentì di avere in mano due cocci che pungevano da ogni parte, e di cui non sapeva che fare.
         -“Si tratta di un episodio di cui parla il Vangelo”- Pesca iniziò a spiegare, additando le varie figure della scena -“c’è un uomo, Giairo, che ha una figlia in fin di vita, e quest’uomo è anche un capo della sinagoga locale. Eppure nel momento del bisogno non va a chiedere aiuto ai potenti, neppure ai suoi colleghi esperti della legge: va dritto da Gesù e domanda l’impossibile, vuole che quel maestro salvi la sua bambina. A un certo punto, dalla casa del capo arriva qualcuno a dire che la bambina è morta, non c’è più niente da fare. E qui Gesù dice una cosa importante: non temere, tu continua soltanto ad aver fede”-
         Stretti attorno a Pesca con lo stesso smarrimento che, a suo tempo, doveva aver scavato la fossa sotto ai piedi al tizio della storia, gli altri membri del gruppo rispolveravano vecchi ricordi del catechismo e approdavano tutti alla medesima conclusione: è perché non ho avuto fede che mio marito, mia moglie, mio figlio mi ha lasciato? A me pare un’ingiustizia, mica una consolazione.
         -“Aver fede significa che qualunque cosa succeda, il Signore c’è sempre. Lui non ti pianta in asso, anche se a conti fatti sembrerebbe proprio il contrario. Vedete, qui la gente invita Giairo a smetterla di disturbare il maestro, gli dice chiaramente che ciò che gli resta da fare è tornarsene a casa, chiudersi dentro e piangere per il resto dei suoi giorni. A casa, infatti, Giairo trova esattamente questo, gente che piange e si dispera. Ma Gesù gli è vicino. Non gli spiega perché è morta sua figlia: molto semplicemente, rimane accanto a lui”-
         -“Poi però prende per mano la bambina e la riporta in vita”- Enrico Del Valle diede voce ai dubbi e al dolore di tutti -“mentre noi ci dobbiamo tenere i nostri morti”-
         -“È vero, ma possiamo portarli insieme a Lui”- nel frattempo, suor Pesca aveva guidato il gruppo a un tavolino sotto al pergolato dell’orto. Ovunque era la luce intensa del pieno giorno.
         -“Chissà quanti bambini erano malati quel giorno, in quella stessa città o nel resto del mondo. Ma i miracoli non sono delle ingiustizie, sono come messaggi che parlano a noi, adesso: qualcosa può cambiare, un cuore morto e straziato può ricominciare a vivere. E quel cuore è il nostro”-
         Intorno al tavolino e a suor Pesca, le facce continuavano a esser poco convinte.
         -“Io non ce la faccio, mi spiace”- Enrico Del Valle era persino indispettito: oltre a fare e disfare secondo il proprio inconoscibile arbitrio, adesso il Dio delle vette pretendeva che ci si dovesse fidare così, senza una spiegazione. Ripensò alla storiella del tizio che si trova sospeso su un precipizio, aggrappato a un rametto che inizia a scricchiolare, e il tizio chiama aiuto e Dio allora risponde: sono qui, lasciati andare che io ti prendo al volo. E il tizio: aiuto, aiuto! C’è per caso lassù qualcun altro?
         Così si sentiva Enrico Del Valle quella mattina, lui che i precipizi li conosceva bene e, quanto al Dio delle vette, non era mai riuscito a capire che cosa gli passasse per la mente.
         Solo un particolare continuava a turbarlo: suor Pesca vi aveva accennato di sfuggita, ma cosa poteva mai significare dar da mangiare a un figlio, se tuo figlio non c’è più? 
 
******
        
Il cortile era un cubo di cemento e cielo bianco, rinchiuso tra le quattro mura dell’istituto e un cancello che portava all’edificio principale. In parte assomigliava al cortile del liceo, ma senza il parcheggio di biciclette e motorini addossati uno all’altro, a volte arrampicati per mancanza di spazio. La prima differenza era che qui la scuola era a tempo pieno - una modalità che il Ragazzo della Sparatoria, solitario per natura, aveva sempre odiato, per esservi stato costretto fin dalle elementari - e non c’era nessuna maniera di svignarsela alla fine delle lezioni.
         L’edificio era un antico convento da i pavimenti sconnessi, in cui l’eco dei passi risuonava da un capo all’altro e non si capiva mai chi veniva e chi andava: visto da fuori era simile agli altri del quartiere, ridipinto ogni anno dello stesso colore paglierino che alla prima pioggia subito si macchiava degli scarichi delle auto.
         Un quadrato di cielo, simile ad un tendone tirato sui muri, restava appeso estate e inverno ed era sempre quello: accecante nei mesi caldi, livido in quelli freddi, della vita di fuori non lasciava passare neanche un rumore. Non un passaggio di auto, né gli sfiati degli autobus che arrancavano lungo le strade del centro storico.
         C’era però un rampicante, un tralcio di roselline che da qualche giardino esterno e confinante si arrampicava sul muro e faceva capolino incuriosito: una testina fatta di un pugno di petali si sporgeva a vedere che cosa c’era in quel luogo nascosto, interdetto alla città pur essendo costruito nel bel mezzo.  
         In quel primo pomeriggio di un giorno di cui aveva ormai perso il conto - perché i giorni erano tutti uguali e così sarebbe stato per i prossimi diciotto anni, almeno secondo la sentenza di primo grado - lo sguardo del Ragazzo si lasciò attrarre dalla curiosità di quel ramo, appeso a un filo di brezza.   
         Dal suo punto di osservazione, sulla panca di legno che insieme al muro girava tutt’intorno al cortile, sentì arrivare fin lì l’odore dei prati liberi, dei pendii coltivati a filari di mele, dei frutti che iniziavano a tendersi sotto al sole.
         Il cielo era sgombro ed era la prima volta che si mostrava su di lui così puro: il Ragazzo sentiva la vita della terra, la freschezza dei boschi, il fremito delle altezze scorrergli nelle ossa insieme al desiderio improvviso di essere là, a correre a precipizio, senza meta né orizzonti.
         Nei lunghi mesi trascorsi attaccato al computer, a giocare a Dies Irae e a fingere di essere qualcun altro ed altrove, si era completamente dimenticato della montagna: a dir la verità l’aveva sempre odiata, dai giorni in cui suo padre lo portava con sé a caccia e si ostinava ad insegnargli ad ammazzare, a frugare tra i cespugli le prede impallinate in volo o nella corsa - le lepri dalla pelliccia che tremava attorno al cuore, i passeri con le zampe ritratte nell’aria ma con le ali ancora distese nel volo. Lui aveva sempre provato ribrezzo a toccare quei corpi morti, e quel riserbo aveva in sé qualcosa di sacro: il Ragazzo intuiva che quei corpi erano l’anima pulsante della foresta, nati per strappare lo stupore dal cuore coi loro balzi improvvisi, per innalzarsi nel cielo ed essere la voce e il perenne canto degli alberi.
         Sparare ai piccoli animali del bosco gli era sempre sembrata una crudeltà assurda, una manifestazione di forza idiota: lui che si era sempre sentito sprovveduto di fronte al mondo, meno che mai riusciva a condividere l’ebbrezza della caccia, avvertendo piuttosto il panico della preda, il terrore negli occhi degli animali selvatici, che gli impediva puntualmente di far scattare il grilletto.                    Più di una volta aveva addirittura sviato la mira di suo padre con una spinta, oppure spaventando la bestiola in anticipo. In tutti quei casi aveva rimediato un ceffone: e insieme all’ammirazione che provava da sempre cresceva anche il rancore nei confronti di quell’uomo violento, che lo costringeva a fare da riporto insieme ai suoi cani, a frugare le siepi in cerca di quei poveri corpi impallinati, che tremavano e spesso morivano tra le sue mani.
         Quanto l’aveva odiato, e sempre più, fin da allora.
         Il Ragazzo della sparatoria, a quei tempi bambino, era terrorizzato dalle armi e dagli spari: quel fracasso infernale che gli scoppiava nelle orecchie a distanza ravvicinata, cancellando i rumori della natura intorno e facendo morire non solo gli animali, ma anche il ticchettio del picchio nella radura, il canto del torrente.
         Più di tutto, al Ragazzo si annebbiava la vista di fronte al sangue, quell’umore viscoso che continuava a sentirsi addosso per giorni, e lo perseguitava l’angoscia della morte: non voleva sfiorarla, la morte, a nessun costo, figurarsi raccoglierla da terra e mangiarla una volta arrivati a casa, con la polenta e col sugo.
         I pranzi dopo le battute di caccia erano un tormento che il Ragazzo attraversava di volta in volta a testa bassa, come chi si addentra in una tormenta: e le parole dure gli arrivavano in faccia come aghi di neve impazziti per la tempesta.
         Non c’era verso di fargli ingoiare qualcosa, neppure con le minacce e le sberle di suo padre. In quel periodo iniziò a chiudersi in se stesso per la necessità di resistere a oltranza, la testa china sul piatto e la bocca serrata, senza rispondere a nulla e fingendo di essere altrove. A quel tempo aveva già iniziato a sognare per sé un’altra realtà, dove l’arroganza degli altri non esisteva e lui stesso era forte, invincibile e senza dubbi: più tardi, questo alter ego sarebbe diventato il Barry Dale di Dies Irae.
         Eppure ricordava, di tutta la sua infanzia, almeno un giorno vissuto in totale intensità, in cui la montagna gli aveva rivelato un volto inconsueto, di una tale potenza che a ripensarci adesso, ritornava a risentire la stessa emozione del tempo in cui frequentava gli scout della parrocchia e aveva partecipato a un’uscita di gruppo: e questo era stato prima dei giorni della caccia, prima di tutti gli sforzi per abituarvi l’anima e prima che quegli sforzi risultassero inutili, perché alla fine suo padre se n’era andato lo stesso, per dedicarsi a una donna con vent’anni di meno e ad attività più interessanti che non fosse sparare a gambe larghe contro un bersaglio.
          Una vita diversa era esattamente il titolo che, nell’anima del Ragazzo, risultava appropriato per descrivere l’avventura di quell’estate in cui aveva appena compiuto otto anni, e i capi scout avevano organizzato un’escursione in totale immersione nella natura: tre giorni in sacco a pelo, falò e carne arrostita, notti sotto alle stelle. I canti con la chitarra, l’emozione di coricarsi sotto alle tende, poi un immenso silenzio: la quiete della montagna come un manto impenetrabile, al cui cospetto ogni cosa diventava minuscola.
         Per l’occasione era stata contattata una guida alpina, un uomo introverso ed esperto che li aveva accompagnati lungo sentieri e scenari che il Ragazzo non aveva mai immaginato che potessero esistere: tanto meno sapeva che nel suo cuore ci fosse da sempre uno spazio fatto apposta per accogliere la bellezza, e permetterle di piantare radici di nostalgia.
         All’epoca era un bambino in calzoncini e ginocchia rosse, che al pari dei suoi compagni era nato nella città ai piedi della montagna, e là era sempre vissuto: senza mai sperimentare l’emozione dei grandi spazi e il desiderio di percorrerli fino in fondo, di darsi un’altra meta una volta raggiunta la prima e così via all’infinto.
         Più di tutto l’aveva affascinato la guida: l’uomo della montagna era schivo e di poche parole, ma tutti i bambini avevano avvertito la sua sicura protezione mentre affrontavano i punti più ripidi dei sentieri, si aggrappavano alla sua mano durante il guado dei torrenti.
         Il Ragazzo della Sparatoria, pallido come uno straccio sotto al berretto da lupetto, a denti stretti aveva superato lo stordimento delle vertigini pur di restare al passo, accanto a quell’uomo così diverso da suo padre, che gli ispirava sicurezza e apriva un mondo nuovo alla sua fantasia.
         Subito era nato dentro di lui un desiderio, e immediatamente l’aveva promesso a se stesso: quando diventerò grande, io sarò come lui.
         Era stato così entusiasta della scoperta che non appena la comitiva aveva piantato le tende, ed era intenta ad arrostire spiedini sui falò, lui aveva raggiunto la guida in disparte.
         L’uomo della montagna l’aveva accolto bonario, ma senza rivolgergli nemmeno una parola: il Ragazzo si era seduto accanto a lui condividendo lo stesso silenzio, felice di solo di essere lì insieme a un sogno.
         -“Perché ci mettiamo in cammino?”- gli aveva domandato, a un certo punto, quell’uomo.
         Nel punto in cui la guida aveva piantato il suo bivacco solitario, il vento respingeva lontano ogni rumore e soprattutto le chitarre dei capi scout, i canti accompagnati dal battito delle mani: la notte si mostrava senza confini e la città appariva come una manciata di polvere ai piedi della montagna, un crepitio di luci tra due pinnacoli di roccia.
         -“Non saprei”- aveva provato a rispondere il Ragazzo, impacciato -“di solito le persone si mettono in viaggio per andare da qualche parte. Ci vanno con la macchina, col treno, oppure in aereo se devono andare proprio lontano”-
         -“Quindi, si viaggia solamente per arrivare?”- la guida continuava a guardare dinanzi a sé, in un punto imprecisato della notte e del buio. Solo pochi giorni prima sua figlia era partita, percorrendo a piedi il tragitto che l’aveva condotta in una comunità religiosa dall’altra parte della vallata. Non aveva voluto farsi accompagnare in auto, né prendere la corriera che faceva la spola tra i piccoli paesi sperduti tra i pascoli, perché quel viaggio simboleggiava il distacco, l’inizio di una vita diversa e povera: per Pesca Del Valle, postulante dai piedi scalzi e sulle spalle uno zaino contenente soltanto la biancheria di ricambio e due panini al formaggio, si era trattato di un viaggio di nozze nel senso più vero della parola.
         Suo padre, Enrico Del Valle, ancora non riusciva a rendersene conto.
         A un tratto quel bambino che gli sedeva accanto riuscì a strappargli un sorriso:
         -“Nei film, ci sono i cattivi che scappano dalla prigione e rubano le macchine, o saltano sui treni per non farsi catturare dai poliziotti. Da piccolo, anch’io volevo fare il poliziotto che rincorre i cattivi con la pistola”-
         -“E adesso che sei grande, invece, cosa vuoi fare?”-
         Con la complicità della notte che gli copriva il rossore, per la prima e unica volta il Ragazzo della Sparatoria riuscì a confidarsi con qualcuno:
         -“Io da grande vorrei essere come te: uno che viaggia a piedi e va sempre più in alto, e scopre tante cose belle della montagna, e di notte le stelle, che in città mica si vedono. Voglio vedere gli stambecchi come oggi, le mucche e i cavalli, e dare da mangiare il mio panino alle marmotte, e passare a piedi nudi i torrenti senza cascarci dentro”-
         Il piccolo scout non aveva dubbi: in quel momento avvertiva dentro di sé quella particolare certezza che accompagna le scelte definitive, quando d’un tratto appare, all’orizzonte dei giorni, la meta di una vita. Negli anni a venire, non avrebbe più ritrovato una simile sicurezza.
         -“E dopo che avrai dato il tuo panino alle marmotte e avrai attraversato tanti torrenti, cosa conti di fare?”-
         -“Andare avanti ancora. Poi, essere felice”-
         Nel quadrato di cemento che chiudeva il cortile, l’aria ormai cominciava a rinfrescare. Ad aggirarsi da un capo all’altro del quadrilatero, che offriva la stessa visione di mura e cielo a ogni angolo, quel pomeriggio non c’era nessuno perché era sabato, giornata dedicata alle visite.
         C’era stata una visita anche per il Ragazzo, e circa mezz’ora prima un agente era venuto ad avvisarlo: ma per la prima volta lui aveva rifiutato di incontrare sua madre che ogni settimana arrancava fino all’istituto minorile più per sfogare la propria marea di dispiaceri che per altre ragioni.
         Ogni sabato si ripeteva sempre la stessa scena: nello stanzone basso, immerso nel brusio degli altri parenti, sua madre vuotava il sacco su tutto quello che aveva saputo dell’ex marito, del figlio che aspettava dalla nuova compagna, della nuova automobile, delle vacanze in Spagna, in Croazia, mentre di noi si è completamente dimenticato, il giudice aveva stabilito una somma mensile e adesso ci sono anche le spese degli avvocati, di te non s’interessa, mai una telefonata, mai che sia venuto a trovarti una volta, e sì che ti portava sempre a caccia con lui, ricordi quanto ci teneva tuo padre, eravate inseparabili.
         Consegnava al figlio il pacco della roba pulita e continuava a parlare, poi finalmente l’ora finiva e il Ragazzo usciva frastornato dalla sala colloqui, con sulla testa la minaccia puntuale che si rinnovava ogni volta:
         -“Allora, ci vediamo la settimana prossima. Mangia, mi raccomando. E studia, che magari qui riescono a trovarti un buon lavoro. Quando uscirai, avremo bisogno del tuo stipendio”-
         Come se la galera fosse un’agenzia di collocamento.
         Quel giorno, il Ragazzo aveva rifiutato il colloquio: era stata una decisione improvvisa, motivata da un puro e semplice istinto di sopravvivenza. Solo al pensiero di risentire un’altra volta tutta quella trafila si era sentito esaurito: come se da quel sacco velenoso e senza fondo che sua madre gli riversava addosso ogni volta, uscissero macigni capaci di seppellirlo.
         Così, aveva detto all’agente di turno:
         -“S’inventi qualcosa, una scusa qualunque, ma io non voglio vederla”-
         Più tardi, si rese conto che si era trattato di una scelta definitiva.
         Non l’avrebbe mai più rivista, avrebbe rinunciato a tutto l’iter di appelli e tribunali, alle inutili chiacchiere su chi ha fatto che cosa, al corso di computer che aveva cominciato a seguire nell’istituto - non voleva vedere un computer mai più, e d’un tratto sapeva esattamente perché: era la sua vita nuova che germogliava, che radunava le forze per sollevare il capo come quel tralcio di roselline rampicanti che dal muro del carcere faceva capolino alla scoperta del mondo.   
         Una volta uscito di lì avrebbe ricominciato dal principio, a partire da quella notte sulla montagna, coi canti degli scout che venivano a folate e la città ai suoi piedi, scintillante di luci come gioielli.       
         A quel punto, il Ragazzo avrebbe voltato le spalle al caos delle strade e alle parole inutili, avrebbe caricato lo zaino sulle spalle buttando via le chiavi della vita di prima, pronto ad incominciare finalmente il suo viaggio.
         Solamente al pensiero avvertì una scossa improvvisa, come se tutta la sua energia vitale rompesse gli argini a un tratto, per invaderlo con lo stupore e l’incanto di quella notte di veglia in cima alle montagne. Quando sarebbe uscito, nella migliore delle ipotesi avrebbe avuto trent’anni, di cui la maggior parte trascorsa dietro alle sbarre: ma dentro di sé avrebbe conservato fino ad allora il sogno quel bambino di otto anni, e un boccone di pane da offrire alle marmotte.
 
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Capitolo 2
*** La Via delle Nevi ***


È impossibile soffrire
senza far pagare a qualcuno
la sofferenza.
Ogni lamento
contiene già una vendetta”
(F. Nietzsche)
 
L’uomo sano non tortura gli altri,
in genere è chi è stato torturato
che diventa torturatore”
(Carl Jung)
 

2. La Via delle Nevi

 
            Quando non trascorreva le sue giornate fuori dal tempo nella stanza di Walter, Lidia si rifugiava in una tavernetta attrezzata con un piccolo schermo, e di là ascoltava le voci dal mondo attraverso il filtro della televisione. Gli sceneggiati a puntate e le interruzioni pubblicitarie facevano da sfondo ai lavoretti con cui occupava le ore, nell’attesa che scivolasse via un altro giorno: era molto abile Lidia, e senza levare gli occhi dal video né perdere un punto confezionava calzettoni e sciarpe di lana, coperte a patchwork che consegnava puntualmente a suor Pesca, dando per scontato che fosse sua figlia a utilizzarle. Finché un giorno Pesca l’aveva ringraziata a nome di tutta la comunità: i suoi lavori a maglia erano molto graditi dalle sorelle anziane, che per l’assenza del riscaldamento nelle celle pativano molto il freddo, e gli acciacchi dell’umidità.
            Una volta di più Lidia si era sentita ingannata, ma nonostante tutto aveva continuato a sferruzzare, perché quello era il modo che aveva escogitato per star vicino a sua figlia: di andare a trovarla non voleva neppure sentirne parlare, ma in fondo sperava che di tutto quel mucchio di berrette pesanti, calzettoni al ginocchio e sciarpe da esploratore, qualcosa prima o poi arrivasse a tener calda suor Pesca mentre trafficava in cucina all’alba, a novembre potava i cachi nel frutteto, e già a ottobre spalava metri di neve per liberare l’unica strada che portava alla comunità.
            Non era la prima volta che Lidia si sentiva messa nel sacco da quella figlia che non amava le discussioni, le liti, gli scontri ma riusciva sempre ad imporsi con una sottigliezza così piena di grazia che alla fine neppure ci si accorgeva d’esser stati fregati.
            Quando Pesca aveva deciso di andarsene da casa dopo la maturità, lo aveva fatto senza contrasti e senza drammi, semplicemente infilando l’uscio di casa con lo zaino sulle spalle.
            La sua decisione aveva lasciato di stucco Lidia Del Valle: proprio la sera prima, si era discusso in casa della facoltà universitaria più adatta ad una studentessa con la media dell’otto, e mentre Enrico Del Valle, da tempo al corrente di ciò che ribolliva nella testa di sua figlia, si era astenuto dal dare un parere, Lidia al contrario non aveva alcun dubbio: ingegneria era il ramo più adatto, con la tua intelligenza non puoi fare di meno:
            -“Le facoltà umanistiche sono una perdita di tempo, con ingegneria invece trovi lavoro subito: tuo zio Firmino Del Bon sarebbe ben contento di averti nel suo studio, ne abbiamo già parlato, così cominceresti subito a fare pratica e a guadagnare qualcosa”-
            A quel punto, si era intromesso Enrico: -“Firmino è un imbecille e anche un disonesto, ha lucrato sull’appalto per la nuova statale facendo abbattere sei ettari di bosco solo per riempirsi le tasche”-
            Senza far caso all’interruzione e neppure alle scempiaggini di Walter - iscriviti a ingegneria aerospaziale, così poi vai a caccia di alieni su Marte, e io intanto mi trasferisco nella tua stanza - Lidia era andata avanti imperterrita:
            -“Certo, quando si tratta della mia famiglia... Non dar retta a tuo padre, lui si trova più a suo agio tra gli stambecchi che in mezzo agli esseri umani”- Lidia tirava dritto senza neppure accorgersi che Pesca, in realtà, aveva qualcosa da dire.
            -“Allora siamo intesi, domani scendiamo in città per formalizzare l’iscrizione e già che ci siamo possiamo passare dallo zio, così avrai occasione di visitare lo studio. Ha con sé cinque collaboratori, tutte persone giovani, ti troverai a tuo agio”-
            Riguardo a quell’agio Pesca aveva dei dubbi, perché i suoi progetti andavano in direzione esattamente contraria, con buona pace dello zio Firmino e del suo prestigioso studio di ingegneria.
            Pesca aveva le idee chiare: eppure, quella sera, come già era accaduto in molte altre occasioni, di fronte all’entusiasmo di sua madre non riuscì a trovare le parole per spiegare ciò che si era insinuato tra le pieghe della sua vita, dapprima in sordina poi con sempre maggior sicurezza.
             Tutto era cominciato con l’insoddisfazione, con la ricerca di una meta, poi c’era stato l’incontro con Qualcuno che non teneva i piedi per terra, a differenza dei giovani dello studio Del Bon: quell’incontro apparteneva al dominio dell’inspiegabile, ed era la ragione per cui Pesca Del Valle, l’indomani mattina, invece di iscriversi nelle liste di un futuro assicurato, avrebbe fatto il proprio ingresso in comunità per un periodo di prova, con il fermo proposito di restarci per sempre.
            La vocazione era l’unico motivo per cui Pesca non aveva alcuna intenzione di diventare matricola a ingegneria: in più, Pesca era negata per le materie scientifiche, era andata a ripetizione di matematica fin dalle elementari e si era iscritta al liceo classico nel tentativo di sfuggire alla trigonometria, alle incognite dell’algebra e alle radici quadrate. Malgrado ciò, era incappata in un’insegnante ancora più quadrata delle radici in questione, e il risultato era stato che l’allieva Del Valle era stata rimandata a settembre tutti gli anni, con una puntualità implacabile.
            Tra Pesca e ingegneria, i calcoli e gli integrali si stendeva l’oceano dell’incomprensione totale: ma al momento del dunque, travolta dall’entusiasmo di Lidia, Pesca non se l’era sentita di contraddirla. Le era venuta solo una gran voglia di fuggire, e questo era esattamente quello che aveva fatto il mattino seguente.
            L’appuntamento in città con lo zio Firmino era stato fissato per le nove del giorno dopo: giocando d’anticipo, la sveglia nella cameretta di Pesca aveva suonato alle cinque, e quando due ore dopo sua madre aveva iniziato a bussare alla sua porta, la futura matricola era già per i campi, libera e insindacabile nei suoi diciott’anni appena compiuti. Aveva avuto anche il tempo di fermarsi ad ammirare l’alba sulle colline, mentre si dirigeva a passi ben distesi verso la comunità.
            Suo padre si era offerto di darle un passaggio in auto, o almeno di pagarle il biglietto della corriera, ma Pesca si era dimostrata irremovibile nella sua decisione d’intraprendere a piedi il viaggio della sua vita. Si erano salutari la sera del giorno prima, me la vedrò io con tua madre, aveva assicurato Enrico Del Valle mentre stipava nello zaino della figlia tutto ciò che pensava potesse servirle durante la sua prossima vita senza di loro.
            Pesca si era limitata a sorridere ma poi, il mattino dopo, aveva lasciato tutto in un mucchio ordinato fuori dall’uscio: i maglioni pesanti, i vasetti di marmellata fatta in casa, l’ombrello in caso di pioggia; le chiavi di casa e persino le scarpe, tenendo per sé soltanto due paia di mutande e due panini al formaggio.
            Quello era il particolare che maggiormente aveva impressionato Enrico Del Valle, facendogli avvertire la gravità del distacco: le vecchie scarpe da ginnastica di Pesca, con ancora attaccata l’erba delle sue passeggiate solitarie e le chiavi di casa posate a parte, come a dire che quella non era più casa sua.
            Dopo quel fatto, la famiglia si era divisa: da una parte Pesca e suo padre, che aveva pagato il prezzo della libertà di lei col muro di rancore levato da sua moglie. Dall’altra parte del muro, Lidia aveva tirato a sé il figlio minore, prendendone pieno possesso a titolo di risarcimento e cedendo a ogni richiesta pur di tenerselo stretto. Sicché erano arrivati il cellulare e il tablet a undici anni, la paghetta da cinquanta euro settimanali e il motorino a quattordici, mentre Walter Del Valle cresceva bullo e arrogante: impunito grazie a Lidia che a scuola puntualmente battagliava per via dei voti bassi, le note sul registro dovute, secondo lei, a semplice antipatia da parte degli insegnanti.
            Fu soltanto per caso che un giorno suo padre, volendo fare l’improvvisata di andare a prenderlo in auto alla fine delle lezioni, aveva beccato suo figlio nel bel mezzo di un capannello all’uscita dal liceo: al centro, Walter Del Valle aveva immobilizzato a terra un altro ragazzo, ed era occupatissimo a strofinargli il volto sul marciapiede, su qualcosa che Enrico non riuscì a guardare a lungo ma riconobbe subito come un pozza di urina, e che fosse umana o di cane non cambiava la sostanza delle cose. Il tutto si svolgeva tra gli applausi e il tifo da arena dei compagni.
             Il rampollo Del Valle era così impegnato a dar fondo alle proprie energie che neppure s’era accorto dell’arrivo del padre alle sue spalle: evento inatteso che aveva già contribuito a zittire il pubblico dei tifosi e a fargli il vuoto attorno, mano a mano che Enrico li spingeva da parte e arrivava fino a lui.
            Quando se l’era trovato a portata di mano, aveva acchiappato suo figlio per la collottola, gli aveva stampato in faccia cinque dita e tutti i calli del palmo, l’aveva trascinato in macchina senza dire una parola. Mentre guidava cercando di prestare più attenzione alla strada che alla propria rabbia, Enrico Del Valle aveva superato una volta per tutte quella ritrosia naturale che lo spingeva a non prendere mai posizione, a sottrarsi alle discussioni e ai contrasti trovando rifugio lungo i sentieri delle montagne. Si diede la sua buona parte di colpa, mentre una volta a casa sequestrava ogni sorta di marchingegno elettronico, dal cellulare al computer alla televisione in camera, passando per il motorino che non era elettronico ma rientrava a pieno titolo nei termini di una punizione esemplare.
            Prendendo di petto moglie e figlio, aveva dettato le nuove regole della casa:
            -“D’ora in poi qua dentro si fa come dico io. La festa è finita, ragazzo: l’anno prossimo andrai in collegio a tempo pieno e intanto, per quest’estate, andrai a fare la stagione nei rifugi. Ci penso io a raddrizzarti la schiena come si deve, e considerati fortunato che non te la raddrizzo a legnate”-
            In accordo con i principi di Enrico Del Valle, che per certe cose era più massiccio della montagna, alla cattività imposta si era aggiunta una pena accessoria: lui stesso avrebbe provveduto ad accompagnare Walter a casa del compagno, perché il colpevole si scusasse a voce abbastanza alta per farsi udire dall’interessato, dai genitori di lui e possibilmente dalla città tutta intera.   
            Per giorni, Enrico del Valle aveva braccato Walter per conoscere nome e indirizzo di quello studente che, nella calca, aveva intravisto soltanto di sfuggita: quel tanto che bastava per rendersi conto che era la metà di suo figlio e sembrava anche più giovane, il che rendeva l’intera faccenda ancora più vergognosa.
            Di fatto, il nome di quell’alunno che fino a poco prima aveva rivestito i panni della vittima Enrico l’aveva imparato dalle prime pagine dei giornali, quando la vittima si era trasformata in carnefice e Walter Del Valle si era sottratto suo malgrado a qualsiasi punizione: finendo di diritto nell’olimpo dei buoni insieme ad altri due allievi, freddati con un colpo diritto alla testa da quello che per tutti era diventato il Ragazzo della Sparatoria. Uno psicopatico gelido che, a lavoro finito, li aveva addirittura cosparsi di benzina e dati alle fiamme come se si trattasse di un mucchio di cartacce.
            Nei giorni successivi, Enrico Del Valle aveva attraversato tutta la trafila dei sensi di colpa, eppure un tarlo continuava a rosicchiare nella sua mente: perché doveva pur esserci una ragione se il Ragazzo della Sparatoria non aveva colpito a caso, ma era entrato nella classe di Walter e tra tutti aveva scelto proprio lui come bersaglio.
            I giornali si erano dilungati a ricostruire il profilo del Ragazzo della Sparatoria, figlio di un padre che aveva abbandonato la famiglia di punto in bianco, e di una madre con propositi suicidi che a conti fatti erano semplici strategie per ricattare il marito e costringerlo a tornare. Rabbioso e solitario, il Ragazzo si era progressivamente ritirato dalla realtà, rifugiandosi nella passione per le armi e per i giochi di ruolo: dopo la sparatoria, Dies Irae era finito nell’occhio del ciclone della polizia postale, ed era stato immediatamente oscurato.
            Come già aveva fatto Lidia prima di cancellare dalla foto di classe il volto del Ragazzo, non potendo cavargli gli occhi personalmente, Enrico Del Valle si era soffermato a lungo su quell’immagine, riprodotta più volte sulle pagine dei giornali. A parte le riprese nei giorno del processo, che lo raffiguravano sempre di spalle o con la testa tra le mani, quella foto era l’unica che ritraeva il Ragazzo della Sparatoria: Enrico era rimasto a osservarla per ore, come se da quegli occhi sgranati dalla stampa dei quotidiani potesse saltar fuori qualche risposta.
            Era giunto alla conclusione che se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima, questo vale soltanto quando la persona ce l’hai di fronte, mentre una fotografia resta sempre un mistero.
            Dalla ricostruzione dei fatti di quel giorno emergevano i tratti di una mente distorta, in preda a un’esaltazione distruttiva: eppure il volto era quello, timido ed introverso, dello studente a cui Walter aveva strofinato la faccia sull’urina, e su questo non c’erano dubbi, Enrico Del Valle lo aveva riconosciuto subito. I giornali avevano fornito altri particolari: vessazioni continue da parte dei compagni dovevano aver fatto saltare a quel ragazzo parecchie rotelle che, molto probabilmente, già prima non giravano nella giusta direzione.
            Aveva provato a parlarne con Lidia, chiedendole se Dies Irae le ricordasse qualcosa.
            È musica da chiesa, aveva risposto sua moglie, che subito aveva aggiunto:
            -“Cosa vuoi dimostrare? Che tuo figlio era colpevole? Ma tu, da che parte stai?”-
            -“Vorrei solo capire che cosa è successo”-
            -“Tuo figlio è stato ucciso e non lo rivedrai mai più. Direi che non c’è bisogno di sapere nient’altro”-
            Col tempo, quel muro che li aveva divisi già all’epoca della fuga di Pesca era diventato sempre più insormontabile: una parete ben più impervia della montagna in cui Enrico Del Valle aveva imparato a trovare rifugio, non soltanto durante le gite con i turisti ma anche nel tempo libero. Partiva alla mattina e intraprendeva lunghe camminate solitarie, alla ricerca del silenzio e di quelle risposte che si ostinava a cercare ponendo domande al vento, frugandole nella penombra del sottobosco, nei giochi di luce che l’andare e venire delle nubi tracciava lungo i pendii.
            Come posso riconciliarmi con me stesso perché io non ho visto, perché non sono riuscito a impedirlo, e come posso dar da mangiare a un figlio che mi ha deluso, che non c’è più ma io non riesco a perdonarlo, neppure con la migliore buona volontà.  Le domande seguivano la cadenza dei passi mentre cercava di stancare il corpo e la mente, sforzandosi di proseguire il cammino anche quando era sfinito. Più macinava strada più le risposte parevano allontanarsi, ma Enrico Del Valle era deciso a inseguirle, e fu per questo che un giorno uscì di casa per non fare più ritorno.
            Una sera, al rientro da una delle sue escursioni solitarie, Enrico Del Valle aveva trovato la casa vuota. Ci aveva messo un poco ad accorgersene: aveva cercato Lidia nella camera di Walter e poi nella tavernetta, finché aveva trovato un biglietto scritto di fretta, a cui era seguita una telefonata. Lo squillo l’aveva colto di soprassalto, mentre si aggirava nella penombra come in un luogo estraneo. Neppure del gatto c’era più traccia, Lidia doveva averlo preso con sé.
            -“Sono da mia madre, stanotte ha avuto un malore”-
            -“Il tempo di prendere la macchina e ti raggiungo”-
            -“Resterò qui per un po’. Al mio ritorno, dovremo discutere di alcune cose. Voglio il divorzio”-
            Enrico accusò il colpo, ma in fondo sapeva che era a quel capolinea che lui e Lidia si stavano dirigendo, perché da troppo tempo viaggiavano su due binari che non s’incrociavano mai.
            Si sedette sul muretto di pietra viva che circondava la casa, accanto agli occhi rossi e bianchi dei gerani spalancati nel buio. Si ricordò di annaffiarli prima di affidare alla terra dei loro vasi il telefono e le chiavi di casa: prima di caricarsi lo zaino sulle spalle e tenere per sé soltanto i sentieri della montagna, sopra di lui il cielo che non aveva risposte ma che era comunque immenso, e in quell’immensità persino le domande più pressanti si perdevano, diventavano piccoli punti nell’orizzonte e poi svanivano come le stelle al loro tramonto, lasciando solamente la quiete.
             Nello zaino, una copia del Vangelo che era stato di Pesca ai tempi del catechismo: una delle tante orecchie che arricciavano le pagine riportava a quel brano del padre in cerca di aiuto, che continuava ad aver fede contro ogni evidenza. Enrico continuava a considerarlo una favola dal lieto fine strano, eppure aveva l’impressione che camminando tra le righe di quel passo forse qualche risposta l’avrebbe ottenuta. L’avrebbe chiesta al Dio delle vette e alla Gran Madre dei Ghiacci, la cima più alta e imprendibile delle loro montagne: o alla Via delle Nevi, quaranta chilometri di cielo e di ghiacciaio a tremila metri di altezza.
            Come era stato per Pesca dieci anni prima, era incominciato anche per lui il viaggio che l’avrebbe condotto al cuore dell’esistenza.
 
******
           
            Ancor prima di poter essere libero di partire, il Ragazzo della Sparatoria aveva iniziato a tenere un diario di viaggio: “rompere col passato, con le solite lamentele, i rancori, le chiacchiere” annotava con la sua calligrafia aguzza, e il suo interlocutore non era la pagina bianca come ai tempi dei temi in classe - appunto quel passato che intendeva lasciarsi alle spalle - ma l’uomo della montagna, che un giorno lontanissimo gli aveva offerto sicurezza e protezione, mettendogli a dimora nell’anima una domanda: perché ci mettiamo in cammino?
            “Non più spazzatura nella mia testa: né quella del computer, né quella delle persone della mia vita di prima. Rompere totalmente. Soltanto la libertà, questo grande sogno, e riempirmene totalmente: la libertà comincia da dentro”.             A quattro anni dalla sentenza di primo grado, divenuta definitiva dopo la sua rinuncia definitiva agli appelli, il Ragazzo stava imparando cosa significa mettere a dimora nel senso più stretto: aver cura di un seme, creare le condizioni perché le radici possano affondare con forza e risucchiare il nutrimento dalla terra, vigilare perché la crescita avvenga indisturbata, senza eccessi o mancanze.
            Nei primi tempi della sua detenzione, su consiglio dell’assistente sociale si era iscritto a un corso per programmatore informatico, ma presto si era accorto che continuare a restare dietro a uno schermo lo riportava sempre là, al tempo dell’odio e dell’alienazione, del Dies Irae e di Barry Dale.
            Quando aveva deciso di far piazza pulita della vita di prima, computer e dispense erano stati cestinati senza rimpianti: aveva fatto domanda per iscriversi a un corso per giardiniere professionista, spiegando che preferiva dedicarsi alle piante piuttosto che continuare a coltivare quella parte di sé che ancora lo spaventava. Di notte, nel sonno, l’incubo di Barry Dale ancora lo visitava, di nuovo con le immagini della sparatoria al liceo, l’odore acre della benzina che bruciava e l’eco degli spari che avevano seminato il panico nelle classi.
            “Uscire dalle regole di questa società che schiaccia i più deboli, applaude il più forte e fa crescere l’infinita violenza che uno si porta dentro”: il primo giorno, insieme alle nuove dispense aveva ricevuto una rastrelliera composta da tanti piccoli vasi, un sacco di terriccio e una busta di semi. Una volta aperto il pacco di quella terra morbida, ricca di humus, aveva risentito la fragranza dei boschi dopo la pioggia, dell’erba a capo chino sotto al peso delle gocce: il tepore del sole che le faceva splendere trasformando i prati in una distesa di gemme.
            “Soltanto la natura non inganna e si mostra per quello che è veramente, e quel che vedi è bellezza. Soltanto la natura sa essere sincera”.
            Dentro alla rastrelliera, i piccoli semi germinavano con forza e il Ragazzo li teneva sempre vicino a sé, mentre scriveva il suo diario di viaggio e durante la notte si svegliava di soprassalto, perseguitato dallo spettro di Barry Dale: malgrado tutti i tentativi per liberarsene, la memoria di quel giorno tornava puntualmente a srotolare la stessa pellicola dal principio, replicando ogni sera sempre lo stesso orrore.
            Finì per sviluppare un’autentica fobia per il buio: gli agenti di custodia all’inizio lo avevano preso in giro, poi avevano ceduto di fronte alla sua richiesta di avere una luce in più da tenere nella cella, oltre a quella che restava sempre accesa nel corridoio.
            Un secondino gli aveva procurato uno di quei piccoli fanali verdognoli che si usano nelle stanze da letto dei bambini, e che spesso hanno il vizio di creare, dal buio, ombre ancor più terribili.
            Non era servito a nulla: sia ci fosse il buio oppure la penombra, non appena il Ragazzo chiudeva gli occhi il suo alter ego virtuale prendeva il sopravvento, e lui ne risentiva daccapo tutta la rabbia, lo spirito di rivalsa, il senso di onnipotenza. Lo rivedeva mentre entrava nella scuola quando gli altri studenti erano già in aula, e le varie lezioni erano cominciate.
            Quel giorno, nella sua classe, alla prima ora era prevista la lezione di scienze con la professoressa Giusti, un’anziana naturalista che viveva per il suo laboratorio, dove aveva creato il microclima ideale per la crescita di specie arboree e del sottobosco. In quello stanzone che odorava di muschio d’estate si stava al fresco, d’inverno si gelava come nella foresta: ma dai ricci e i pinoli raccolti dai ragazzi, e dalla stessa insegnante che amava inoltrarsi nei sentieri col suo bastone, spuntavano radici e fusticini simili a fili d’erba, che poi s’irrobustivano e diventavano abeti, pini mughi e silvestri, altissimi castagni. Alla fine dell’anno si andava tutti insieme a piantarli in cortile, oppure in qualche radura, quando nel cortile finì per non esserci più spazio.
            All’inizio dell’anno, la Giusti aveva distribuito ai ragazzi manciate di fagioli da avvolgere nel cotone, per poi seguire lo sviluppo della germinazione. Il Ragazzo li aveva riposti dentro a una scatola piena d’ovatta nella sua stanza, controllando ogni giorno il grado di umidità e se spuntava qualcosa. La sua felicità nel vedere un piccolo stelo che faceva capolino era stata pari alla noia dei compagni di classe, che su quella faccenda di piantare i fagioli ci ridevano sopra: una perdita di tempo tanto su Internet trovi tutto, ci sono anche i filmati su YouTube, così quando poi la vecchia t’interroga riesci a farla contenta senza perdere tempo.
            Il tempo, i suoi compagni, preferivano usarlo per tirare i fagioli nei capelli delle ragazze.
            Con la fionda che portava perennemente in tasca, Walter Del Valle riusciva addirittura a spararli fin nel cortile, sulla testa di quelli che uscivano durante l’intervallo: aveva sviluppato una mira così precisa che un giorno riuscì a spezzare in due parti gli occhiali di un quattrocchi del primo anno.
            Si trattò di un fatto grave: il malcapitato riportò la frattura del setto, i genitori imbestialiti denunciarono l’accaduto, il preside s’imbestialì ancora di più e minacciò provvedimenti disciplinari anche per gli insegnanti, se il colpevole non fosse saltato fuori immediatamente.
            Anche se erano in molti a sapere, tutti recitarono la parte dei beati ignoranti: nessuno aveva voglia di finire nel mirino di Del Valle, bullo per eccellenza se mai ve ne furono, il cui destino era evidentemente quello dell’impunità.
            Almeno finché non gli capitò d’incontrare sulla sua strada Barry Dale.
            Dopo quel fatto, Del Valle aveva ripiegato su un altro divertimento: non ritenendo più conveniente esibire la fionda, si limitava a lanciar e i fagioli sulla cattedra, al solo scopo di esasperare l’insegnante.
            La professoressa sbraitava, con la voce fragile e un po’ piagnucolosa tipica degli anziani: Walter Del Valle rideva forte della bravata e ancor più forte lo detestava il Ragazzo, a cui Del Valle ricordava suo padre, la stessa brutalità, l’idea che il più debole debba sempre subire, ed essere schiacciato: selezione naturale, diceva suo padre durante le battute di caccia, non te ne ha mai parlato la tua insegnante di scienze?
            L’insegnante in realtà ne aveva parlato, ma aveva anche spiegato che in natura non esiste solamente la legge del più forte, che molte comunità si basano sulla collaborazione, specie le società dei più deboli. Gli uccelli predatori sono dei solitari, mentre le prede volano a stormo, per garantirsi maggior protezione. Le formiche avanzano formando lunghe file, serrano i ranghi guidate dall’odore delle compagne.
            Le creature più fragili si organizzano per sopravvivere, spiegava la vecchia Giusti, ma al Ragazzo era chiaro che spesso anche i più forti si alleano per dominare: Walter Del Valle non era mai solo quando imperversava per i corridoi, quando lo ricattava chiedendogli dei soldi perché io sono il Dio della scuola e i miei fedeli debbono portarmi le offerte, altrimenti sai che succede, ti ficco la testa dentro al cesso e poi ci piscio sopra.
            Con lui c’erano sempre almeno altri due tizi delle classi superiori: uno di loro, un certo Hofer, aveva addirittura vent’anni, tante erano state le volte che era stato bocciato.
            Un giorno suo padre l’aveva sorpreso con le mani nel sacco, o più esattamente dentro al suo portafoglio, e gliele aveva suonate: dopo questo fatto, il Ragazzo era andato dritto dal preside e aveva vuotato il sacco riguardo ai ricatti di Walter Del Valle.
            Quella volta, la testa nel cesso gliel’avevano infilata per davvero, e ben prima che il preside potesse intervenire. Non contenti ci avevano pure urinato sopra, costringendo il Ragazzo a scappare saltando la rete del cortile, perché non aveva il coraggio di ripresentarsi in classe.
            -“Ricordati, bel faccino, domani cifra doppia o giuro che ti affogo”- gli aveva gridato dietro Del Valle -“ti affogo con le mie mani anche se le merde, com’è noto, galleggiano”-
            Ventiquattr’ore dopo aveva avuto luogo la sparatoria: la sorte aveva voluto che toccasse al Dio della scuola - o a quel che ne restava - di ritrovarsi a galleggiare in una pozza d’acqua, sangue e benzina finché la polizia non aveva fatto irruzione. 
            Quel giorno, il Ragazzo era entrato in ritardo proprio perché nessuno facesse caso all’arsenale che portava con sé: nello zaino, tre taniche di benzina al posto dei libri, e sotto a un vecchio impermeabile di suo padre il fucile da caccia, che ormai aveva imparato a usare come un campione.
            Da quando suo padre se n’era andato, il Ragazzo aveva cominciato a tenere il fucile nella sua stanza: custodirlo pulito e in ordine, oltre che frequentare il poligono nei rari week end insieme, gli era parso l’unico modo per continuare ad avere un rapporto con quell’uomo arrogante ma anche in gamba, e per sentirsi un poco più forte anche lui.
            Ma c’era anche un altro motivo per cui preferiva tenere sottochiave il fucile: durante le interminabili liti tra i genitori aveva sentito più volte sua madre fare minacce, dicendo che prima o poi l’avrebbe fatta finita, che si sarebbe ammazzata insieme a suo figlio. Come se non bastasse, nei suoi altrettanto interminabili sfoghi la madre aveva parlato dei suoi propositi suicidi anche con il Ragazzo, e questi aveva finito per prenderla sul serio.
            Più o meno in quel periodo, il Ragazzo iniziò a isolarsi nella sua stanza, uscendo solamente per andare a scuola o a esercitarsi col fucile nel bosco. Là trascorreva lunghi, rabbiosi pomeriggi a sparare ai barattoli in fila sulle rocce: i barattoli li metteva sempre un po’ più distanti, riusciva sempre a centrarli e dentro alla sua testa Barry Dale applaudiva, suggerendo che per i proiettili ci fossero utilizzi migliori che sparare alle lattine oppure agli animali.
            “Gli animali sono innocenti, a differenza degli uomini”- scriverà più tardi il Ragazzo sul suo diario di viaggio - “non conoscono l’ipocrisia, la cattiveria infantile, il disprezzo per gli altri”.
            Quella mattina, alle otto e trenta precise era passato accanto alla guardiola dei bidelli al pianterreno. La scuola era aperta da meno di mezz’ora, ma la signora Minnelli, che occupava il tempo ad ascoltare la radio e a lavorare a maglia per il nipotino in arrivo, e il signor Colliva, un omino sdrucito che andava avanti e indietro lasciando scie bavose col mocio sul pavimento, erano già impegnati nella prima pausa della mattina, sigaretta e caffè davanti ai distributori di merendine.
            Il Ragazzo aveva trovato via libera, ed era riuscito a salire indisturbato ai piani superiori: con tutto il suo armamentario e nella testa la voce di Barry Dale, che lo incalzava implacabile.
            Appena fuori dal laboratorio di scienze, aveva incontrato Nisha:
            -“Ma come sei conciato? Sei in ritardo, la prof ha già fatto l’appello”-
            Lui non aveva potuto fare a meno di sorriderle: aveva una faccia strana, ricorderà in seguito Nisha, come di chi sta aggrappato sull’orlo di un precipizio. Credo che quella faccia non riuscirò più a dimenticarla.
            -“Nisha, vattene a casa”- le aveva detto il Ragazzo -“Va’ via, non è giornata”-
            La compagna aveva interpretato le parole del Ragazzo nel senso più normale, come se le stesse dicendo molto semplicemente di levarsi dai piedi:
            -“Sei strano, oggi, che c’è? Non ti senti bene? Se vuoi, dopo ne parliamo”-
            In realtà, non c’era stato alcun dopo.
            Il Ragazzo era entrato in classe, spalancando la porta con una tale forza che il tonfo contro il muro aveva incrinato il vetro e spezzato un cardine di netto: esterrefatta, la Giusti si era voltata verso di lui, ma prima che potesse aprir bocca il Ragazzo era già di fronte al primo banco col fucile spianato.
            Aveva chiamato ad alta voce Walter Del Valle, che s’era levato in piedi istintivamente e davanti alla canna puntata s’era fatto di sale, pur conservando un’aria di scherno che oscillava tra l’incredulità e la paura. Evidentemente pensava che il compagno scherzasse, mentre il resto della classe, immobile dietro ai banchi, non aveva alcun dubbio: i loro occhi erano puntati sul Ragazzo con la stessa espressione delle lepri prese in trappola.
            Fissandoli, il Ragazzo era venuto a patti con Barry Dale: loro no, non si toccano. Assomigliano troppo agli animali del bosco.
            Fa’ come credi, gli aveva risposto Barry Dale, condiscendente: ma non dimenticare perché ti trovi qui.
            Aveva ordinato ai compagni e all’insegnante di radunarsi in fondo all’aula.
            In un silenzio in cui si sarebbe potuto sentir cadere uno spillo l’intera classe si era accalcata in un angolo, al riparo uno dell’altro e dietro ai grandi vasi delle colture arboree.
            Il tempo si era congelato in un lunghissimo istante. Barry Dale aveva concentrato la sua attenzione su Del Valle, che fissava la canna puntata del fucile con un’espressione sempre meno arrogante e sempre più impaurita.
            -“Come andiamo, Walter? Da ieri sono cambiate un po’ di cose, non è vero? Chi è il Dio della scuola, adesso? Dimmi, sei sempre tu? Voglio sentirtelo dire”-
            Sotto tiro, il compagno lo fissava come in sogno, senza riuscire a dire nemmeno una parola.
            -“Così non va bene, Walter. Quando qualcuno ti chiede se tu sei un Dio, devi dire di sì”-
            Era seguito lo sparo di due colpi precisi, puliti e a bruciapelo, che erano esplosi insieme alle grida dei compagni e al lamento fragile della professoressa: l’anziana naturalista s’era afflosciata contro al muro come un vecchio pallone sgonfio.
            Un paio di studenti erano riusciti a guadagnare la porta e a scappare, mentre l’eco degli spari aveva già spalancato le porte di tutto l’istituto.
            -“Sai che c’è?”- aveva continuato Barry Dale, imperterrito -“se proprio devo dirlo, come Dio sei una delusione”-    
            Con un gesto improvviso che aveva scatenato un’altra ondata di terrore nella classe - tutti si erano nascosti sotto ai banchi, pensando che la strage fosse solo all’inizio - aveva versato l’intero contenuto della prima tanica su Del Valle, che era crollato disordinatamente tra la fila dei primi banchi. Di seguito, aveva rovesciato su di lui l’intero contenitore della carta da riciclo.
            Nel momento in cui aveva appiccato il fuoco, le urla dei compagni avevano dato il via a un fuggi fuggi generale dalle altre aule. Un’insegnante si era affacciato sulla soglia proprio nel momento in cui Barry Dale si voltava nella sua direzione: il professore di tedesco, herr Wieser, un vecchietto della stessa età geologica della collega di scienze, era rimasto di stucco e praticamente si era sentito già morto, mentre il Ragazzo gli era semplicemente passato accanto diretto verso la folla in fuga nel corridoio.  
            Circa a metà strada, aveva freddato alle spalle Martin Hofer, il pluriripetente che nel gruppo dei pretoriani di Del Valle aveva di solito il ruolo dell’esecutore materiale: quello, per intenderci, che aveva tenuto fermo il Ragazzo con la testa nel cesso, e lo stesso lavoro era stato compiuto su molti altri studenti a cui il Dio della scuola era solito estorcere le offerte in denaro.
            Hofer era un montanaro con le mani come due pale, e il Ragazzo ci aveva messo un po’ a maciullarle col calcio del fucile, prima di dargli fuoco con la seconda tanica e un colpo di accendino.
           L’ultimo obiettivo si trovava in un’aula del secondo piano, in fondo a un corridoio stretto come un budello. In quel luogo riposto, gli echi degli spari erano giunti attutiti eppure ben distinti, come elementi estranei inframmezzati al brano che la classe era intenta ad ascoltare durante l’ora di musica. Il maestro Cellini, primo violino al conservatorio ma soprattutto virtuoso della fisarmonica, onnipresente a tutte le sagre paesane, si era imbattuto in Barry Dale col fucile spianato come se fosse a caccia di beccacce nel bosco, e aveva persino avuto il fegato di affrontarlo:
           -“Ragazzo, che stai facendo?”-
           -“Ammazzo un po’ di gente”- gli aveva risposto l’altro, tirando un colpo in aria e costringendo il musicista a correre al riparo con le braccia sopra alla testa.
           Pochi secondi dopo, Barry Dale era entrato nell’aula dove il giradischi suonava Il Bel Danubio Blu, e aveva freddato il terzo scagnozzo di Del Valle, un tipo tutto a spigoli dal nome molto appropriato di Federico Di Canto: durante le spedizioni punitive del branco, Di Canto era il responsabile della colonna sonora, nel senso che materialmente non faceva niente, si limitava a ridere con sghignazzi da incubo e a cacciar versi che al Ragazzo ricordavano i fischi delle marmotte.
           Quel giorno, Marmotta Di Canto non fece a tempo a cacciar fuori un grido, né tanto meno un fischio: si limitò a crepitare quando la benzina iniziò a bruciare, perché era ancora vivo e il Ragazzo l’aveva colpito senza però riuscire a ucciderlo sul colpo. Per morire impiegò tre giorni di ricovero ai grandi ustionati, e fra tutti fu quello a cui toccò la fine più tremenda.
           Terminata l’impresa, il Ragazzo aveva cominciato a girare senza meta, sparacchiando qua e là soltanto per continuare a spaventare tutti e assaporare la loro paura. Tutti quelli che avevano sempre saputo delle angherie di Del Valle, tutti quelli che per non andarci di mezzo avevano taciuto, preferendo farsi gli affari loro, adesso se ne stavano rannicchiati sotto ai banchi, adesso toccava a loro tremare come topi presi in trappola.
           Aveva continuato a distruggere tutto quello che gli si parava dinanzi - la vetrata preziosa della biblioteca d’inizio secolo, le bacheche con i fossili trovati sulle montagne, e conservati in una sala adibita a museo di storia naturale: Barry Dale lo incalzava, tutta quella paccottiglia era da sempre il fiore all’occhiello dell’istituto, guardare e non toccare, mentre gli allievi sì, era lecito infilarli con la testa nel cesso e nessuno diceva niente, tanto son ragazzate, succedono dappertutto.
            A un certo punto era sopravvenuta la stanchezza, e Barry Dale era sparito dalla sua testa così velocemente come c’era venuto: si era ritrovato di nuovo fragile e solo, mentre dai piani inferiori cominciavano a salire le voci della polizia e dei soccorsi, via libera al pianoterra, primo piano in sicurezza, avanzare con cautela.
           Il resto era il cammino che l’aveva condotto sin lì, ai semi dei pensieri che annotava nel suo diario di viaggio, ai progetti che coltivava per il giorno in cui sarebbe stato di nuovo libero: alla rastrelliera dei piccoli germogli che teneva accanto a sé, e che riassumeva tutte le novità che erano in fermento e che necessitavano di terra buona per crescere.
            Dal giorno della sparatoria erano trascorsi tre anni e sei mesi: nel frattempo il Ragazzo era diventato maggiorenne, e l’amministrazione gli aveva offerto una piccola festicciola.
           Gli altri ragazzi dell’istituto avevano racimolato due spiccioli per regalargli un vasetto di stelle alpine. Uno aveva raccontato di essersi procurato il contributo direttamente dalle tasche della sua avvocatessa, mai lasciare una borsa incustodita in giro, quando ci sono io.
           La domanda per ottenere il suo primo permesso, per andare a visitare una cooperativa di giardinaggio, era stata inoltrata con il parere favorevole degli assistenti sociali. Tra circa un anno potremo iniziare a chiedere l’affidamento a una comunità esterna, gli avevano assicurato, durante la detenzione non hai dato problemi, non dovrebbero esserci troppe difficoltà: di fatto, però, il giudice del Tribunale per i minorenni faticava ad accogliere già la prima richiesta, relativa a un permesso di sole quattro ore.
           I presupposti per una decisione favorevole c’erano tutti: il Ragazzo era di ottima condotta, collaborava con le iniziative dell’istituto e non creava disordini, non si era mai dimostrato aggressivo nei confronti degli altri detenuti o degli agenti di custodia. In compenso, però, il suo atteggiamento riguardo ai fatti della sparatoria non sembrava cambiato: con gli assistenti parlava solo dei suoi progetti, del suo desiderio di dedicarsi alla natura e poi, una volta fuori, di andare a vivere in montagna e fare la guida alpina.
           Il passato, non era ancora riuscito ad elaborarlo: soprattutto non aveva mai dimostrato ripensamenti, sembrava addirittura impermeabile al rimorso.
            Il giudice del Tribunale era perplesso: non riusciva a capire se questo atteggiamento era dovuto a un tratto di personalità del Ragazzo, oppure se gli occorreva semplicemente più tempo.
           Nell’incertezza, la domanda per ottenere il permesso era stata respinta.
           Lo stesso Ragazzo, in realtà, non si sentiva pronto a uscire. Aveva ancora troppa paura che Barry Dale potesse aspettarlo al varco fuori dall’istituto, pronto a ricominciare alla prima occasione.
           In tutti quegli anni la paura non l’aveva mai abbandonato, anche se si ostinava a elencare sul suo diario i modi per sconfiggerla: “Far crescere delle vite, allevare animali, coltivare le piante. Camminare, quando mi sarà possibile: dedicherò la mia vita intera ad andare, andare continuamente senza fermarmi mai, così che l’ira non possa raggiungermi mai più”.
 
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Capitolo 3
*** La Gran Madre dei Ghiacci ***


Sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini
portano scritto: più in là”
(E. Montale, “Più in là)
 
Là fuori, oltre
ciò che è giusto e ciò che è sbagliato,
esiste un campo immenso:
ci incontreremo lì”
(Jalaluddin Rumi)

 
 

3. La Gran Madre dei Ghiacci


 
            Una volta superata la forcella - una raggera di roccia rossa, simile ai denti aguzzi nella bocca di un gigante - sotto a un arco trionfale che secondo la leggenda proprio i giganti avevano costruito per gioco, si spalancò ai suoi piedi la vertigine del ghiacciaio.
            Oltre i tremila metri, la Via delle Nevi si apriva in tutto simile a una strada maestosa, coperta da una coltre che scintillava nella luce del mezzogiorno: i fiocchi caduti durante le ultime tormente si posavano su uno strato che risaliva ai tempi dell’ultima glaciazione, ed era quindi un fossile di diecimila anni.
            Il sole dei millenni non era mai riuscito a scioglierlo e a trasformarlo in torrenti e laghetti, perché su di lui vegliava la Gran Madre dei Ghiacci seduta sul suo trono: le pieghe della sua veste si levavano a est in alte creste solenni ritardando, in quel punto, il sorgere del giorno. Soltanto quando il sole giungeva al mezzogiorno la neve più recente si ammorbidiva un poco, per poi tornare a gelare nelle ore notturne. Dal lato ovest, invece, il ghiacciaio era più esposto all’azione delle alte temperature estive, e precipitava in un labirinto di crepacci e formazioni simili a cascate congelate.
            Il peso del ghiacciaio sulla roccia sottostante aveva creato quelle profonde fenditure che leggende antichissime riconoscevano come dimore delle streghe. Un pinnacolo si ergeva solitario, là dove i crepacci erano così profondi che non se ne vedeva la fine: negli ultimi cinquant’anni era stato denominato Cima Goller, dal nome del primo sconsiderato che si era arrampicato fin lassù per conquistarlo, prima di precipitare - altrettanto sconsideratamente - sulla via del ritorno, insieme agli altri quattro alpinisti della cordata.
             Ma poiché cinquant’anni anni in quel luogo millenario valevano come il sole che passa un’ora al giorno, in paese e persino nella topografia ufficiale la Cima Goller continuava a essere denominata col suo nome più antico e più suggestivo di Seggiola della Vecchia: perché appunto si diceva che là sedesse la regina delle streghe, che evocava i demoni da quelle spaccature che comunicavano direttamente con l’inferno, e scagliava tempeste sui pascoli della valle forgiandole col vento, gli incantesimi e il gelo.
            Mentre la Via delle Nevi, perennemente avvolta da una foschia lattiginosa o addirittura da ciuffi di nubi evocava l’idea di una strada per il paradiso, qualcosa di diabolico pareva veramente in agguato dal lato ovest: le saghe più recenti narravano le imprese dell’alpinista Goller, che era riuscito a conquistare la Cima ma non a ritornare, e le vicissitudini dei tanti che, dopo di lui, avevano tentato di esplorare i crepacci, finendo per trovare la morte in quei recessi. Addirittura i corpi non erano mai stati ritrovati, nemmeno dopo lunghe ricerche con gli elicotteri.
            La montagna se li è mangiati, dicevano i valligiani. L’inferno ha spalancato la bocca dei crepacci, e ha divorato quei disgraziati cuocendoli a puntino con una sola fiammata.
            Impassibile, la Gran Madre fissava il suo sguardo remoto su Enrico Del Valle, che dopo avere superato la cresta del valico si preparava a scendere la parete che l’avrebbe condotto al centro del ghiacciaio. Si diceva che il volto della Madre, a sera, si arricchisse di ombre formando un profilo di donna, e qui non si trattava solo di una leggenda: c’erano i testimoni, molti erano gli intrepidi che avevano bivaccato una notte ai suoi piedi, perché il suo versante era quello più sicuro, riparato dal vento anche se le temperature scendevano puntualmente sottozero anche in estate.
            Chi aveva bivaccato, aveva puntualmente trascorso la note insonne, in preda a pensieri inquieti: meditando se era il caso di avventurarsi per i crepacci o se era più conveniente tornare indietro, senza gloria ma almeno portando a casa la pelle. Di avventurarsi poi sulla Gran Madre in persona, non se ne parlava neppure: ci avevano provato in molti, ma la Madre li aveva puntualmente respinti rovesciando valanghe imponenti, e anche in quel caso i corpi non erano stati più ritrovati.
            Enrico Del Valle aveva l’intenzione di piantare la tenda e poi di ridiscendere senza sfidare la sorte, ci fossero o meno le streghe a sorvegliare i crepacci e senza stuzzicare gli umori della Gran Madre.
            Il giorno successivo, prevedeva di tentare la discesa dalla parete est, in modo da raggiungere un tratto di foresta dove, secondo la mappa, doveva trovarsi una cappella risalente agli antichi sentieri dell’anno mille. Lì aveva intenzione di stabilirsi, almeno per un po’: perché malgrado tutto il cammino percorso sino ad allora, non era ancora riuscito a trovare le risposte che cercava, e a far pace con se stesso.
            Presso quel romitorio - uno dei tanti che in altre epoche avevano ospitato la solitudine degli eremiti - contava di decidere se era il caso di tornare a casa e affrontare nuovamente cavilli e problematiche di una vita normale, oppure se c’era qualche possibilità di restare. Possibilità materiali, anzitutto, che dipendevano dalle condizioni del luogo, sicuramente ridotto a un rudere; il resto sarebbe dipeso da quel che sentiva dentro, e questo era il problema maggiore, perché Enrico Del Valle si sentiva confuso e triste esattamente come quando era partito.
            Era trascorso ormai un anno da quando se n’era andato. All’inizio del viaggio, e per lungo tempo, l’aveva assalito il timore di rimanere solo con se stesso. Per questo motivo, i suoi itinerari avevano fatto tappa principalmente nei rifugi: là, tutti lo conoscevano, e i vari gestori l’avevano accolto come di consueto, senza fare domande.
            A loro aveva affidato, di volta in volta, cartoline panoramiche da inviare a suor Pesca, per confermare che stava bene e far sapere a Lidia che intendeva restarsene da solo per un po’. Grazie alla mediazione di Pesca Del Valle, Enrico aveva potuto godere uno spazio di libertà senza essere cercato e senza troppi sensi di colpa. Gli bastavano già quelli che si portava dietro dalla morte di Walter, oltre a tutto il crogiuolo di sensazioni e pensieri con i quali non riusciva a far pace. Presso i rifugi, Pesca faceva pervenire anche le sue risposte, indumenti pesanti e pacchi di viveri.
            Durante l’ultima telefonata, prima di affrontare la salita al ghiacciaio, Enrico aveva messo al corrente suor Pesca del suo progetto di stabilirsi nel romitorio sotto alla Gran Madre.
            Pesca si era allarmata:
            -“Ascolta, papà, io credo che questa storia a un certo punto debba finire. Lassù, è pericoloso. Se hai bisogno di un luogo dove riflettere in pace, possiamo ospitarti in foresteria per tutto il tempo che credi”-
            -“In mezzo ai seminaristi e alle famigliole in ritiro?”- aveva riso per alleviare la tensione, perché la voce di Pesca, all’altro capo del filo, ostentava fermezza ma tradiva, in realtà, un’angoscia infinita. 
            -“Non scherzare, papà. Esporsi a rischi inutili non ti porterà nessuna risposta. Alla mamma, non ci pensi? Ti sembra giusto che non sappiamo dove sei, e se hai bisogno di aiuto?”-
            -“So che mamma sta bene, del resto è stata lei a chiedere il divorzio”- quella era un’altra ferita che non era riuscito ancora a cicatrizzare.
            -“Non barare, papà, sai bene cosa intendo. Tu sei un alpinista e sai meglio di me che è da pazzi pensare di sopravvivere sulla montagna in inverno, a tremila metri in un rudere in mezzo al bosco. Dio non parla a chi ha freddo, e anche se gli parla, chi sta morendo congelato o di fame non riesce a sentirlo”-
            -“Ritornerò a valle a settembre, Pesca. Te lo prometto”-
            Dall’altro capo del filo sua figlia era in lacrime, e così era riuscita a strappargli quella promessa. Mentre piantava la tenda ai piedi della Gran Madre, Enrico Del Valle sperava solamente che il Dio delle Vette si degnasse di rispondergli in qualche modo. Quanto a lui, era disposto a cercare quelle risposte anche a costo di arrampicarsi in cielo, pur di farsi sentire.
 
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            Al tramonto, nell’anfiteatro del ghiacciaio era andato in scena uno spettacolo imponente: sul volto della Gran Madre, un incendio di luce aveva ricoperto le gote di rossore, allungato le ombre su due crinali simili a occhi dalle lunghe ciglia, e una fenditura le aveva sollevato le labbra in un sorriso.
            Sulla Via delle Nevi, l’aria aveva cominciato a rinfrescare subito dopo mezzogiorno, e il ghiaccio si era tinto di un azzurro intenso. In quel momento, un’ombra dall’apertura alare imponente aveva percorso tutta intera la Via come in una parata: silenziosa e solenne, un’aquila trasportata da altissime correnti.
            Insieme alla notte era sceso, sui crepacci e i torrioni, un silenzio possente: non si trattava della semplice tregua della città, un breve intervallo tra i rumori del traffico; neppure della quiete distensiva della campagna, punteggiata dallo scricchiolio dei grilli e dai richiami degli uccelli notturni. Neppure era la pace sovrana delle altezze che spesso Enrico Del Valle aveva sperimentato nei rifugi, di fronte a panorami che toglievano il fiato e lo sovrastavano con la potenza di un luogo sacro.    
            In confronto all’atmosfera che calava di notte sulla Via della Neve, insieme a un manto di stelle così vicine che si aveva l’impressione di poterle sfiorare, ogni altra quiete pareva rumore, chiasso confusionario: il silenzio della Gran Madre era Presenza, era l’Eternità che si chinava sulla terra, e ispirava la stessa muta contemplazione dei cori d’angeli in cielo, la stessa soggezione che toglieva il coraggio di levare lo sguardo.
            Perduto in quell’immensità senza orizzonti, che si abbassava fino a lui e lo avvolgeva con quella coltre lucente, Enrico Del Valle era sbalordito: aveva in mano il vecchio Vangelo di Pesca ma adesso era lui a sentirsi preso per mano e sollevato in alto, invitato ad alzarsi e a proseguire il cammino perché un Amore infinito si chinava su di lui, lo guardava negli occhi con la potenza di mille costellazioni, lo prendeva per mano e dopo gli chiedeva di dare da mangiare ai suoi figli.
            Chi fossero questi figli Enrico non lo sapeva, ma in quel momento il suo cuore non aveva più domande, né sentiva il bisogno di altre risposte.
            Rimase a lungo a fissare quel cielo sconfinato, lasciando andare ogni dubbio, ogni difficoltà in quell’abbraccio. Quando, molto più tardi, un brivido di gelo lo riportò alla realtà della tenda ancora aperta e sventolante sul ghiacciaio, si rese conto di avere la giacca completamente fradicia: il cielo continuava a essere libero e terso e non era piovuta neanche una goccia, tanto meno le streghe si erano divertite a tirargli palle di neve. Stupito, Enrico Del Valle si accorse che si trattava di lacrime: quelle che già gli erano cadute dal volto, e quelle che continuavano a scivolare incessanti, portando via ogni residuo di rancore, di rabbia, di dubbio.
            Gli escursionisti più intrepidi che si erano accampati sotto alla Gran Madre raccontavano di notti insonni e tormentate dal dubbio: i dubbi non riguardavano soltanto l’opportunità di esplorare i crepacci, né se era il caso di tentare la scalata alla Madre in persona; quel silenzio che pareva quasi una forma di vita, immensa e schiacciante, li riportava un tratto alla loro piccolezza e i pensieri si frammentavano in un’infinità di domande, interrogativi, incertezze.                 
            Tutte le sicurezze andavano perdute, e questo era il destino delle menti più forti.
            Quelle fragili, invece, andavano in mille pezzi come vasi di coccio caduti nei crepacci: e spesso era accaduto che dopo una notte al ghiacciaio qualcuno fosse uscito pazzo da manicomio.  
            A Enrico Del Valle, invece, toccò l’esperienza dell’abbraccio. Avvolto nel sacco a pelo ma soprattutto nel calore di un’invisibile mano, si addormentò risanato, e la mattina dopo affrontò la discesa con la strana sensazione d’essere appena nato.
 
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            Aveva appena terminato di imballare una serie di piante commissionate da un albergo fuori città, lungo il nastro di strada che saliva fino ai primi contrafforti della montagna: davanti a lui cuscinetti di sassifraghe bianche e rosa, composizioni di stelle alpine dagli steli argentati, il turbante violetto del giglio martagone. Nel vivaio si coltivavano numerose specie alpine su apposite roccere, dove le piante madri crescevano al riparo dell’umidità eccessiva della pianura: nei vasi ci restavano il tempo necessario per la consegna, ed era lo stesso Ragazzo, una volta giunto sul posto, a metterle a dimora in condizioni adatte a favorirne la crescita - penombra, clima fresco, terriccio drenante.
            Gli piangeva un po’ il cuore al pensiero che quelle piante meravigliose e audaci, nate per aggrapparsi ai costoni della montagna, fossero destinate a un hotel di lusso: dove avrebbero fatto la loro bella figura per una sola stagione, salvo essere sostituite non appena sfiorivano e finire a marcire dentro a una compostiera. Più ci pensava e più gli veniva l’idea di proporre a quelli dell’hotel di andare a ritirarle a fine estate, per portarle a trascorrere i mesi del riposo invernale al vivaio.
            “L’idea che la gente ha della natura è che debba essere utile: quando il fiore appassisce la pianta si può buttare, tanto non serve più. Non sanno nulla della fatica della fioritura, del fatto che una pianta possa impiegare un anno, due anni a sbocciare, a preparare i suoi frutti. Soltanto chi coltiva sa queste cose, e non considera sterile il tempo della pazienza”.
            Il diario di viaggio era sempre con lui, e ora conteneva anche le note di giardinaggio, lo schema dei lavori da eseguire ogni giorno. Tutto ciò che gli stava a cuore trovava posto in quelle pagine, e il filo conduttore era la sua totale immersione nella natura: “vivere senza restare ancorato al passato e senza pensieri per il futuro, imparando a godere del sole e dell’acqua, in una parola vivere la bellezza dell’attimo”.
            Al passato cercava di pensare il meno possibile, così pure al futuro.
            Eppure, proprio quel giorno, il futuro venne a scovarlo mentre era intento a caricare le consegne sul camioncino, e a disporle in modo che non si rovesciassero lungo i tornanti.
            Era talmente assorto che sobbalzò quando il don gli posò la mano sulla spalla:
            -“Allora, ragazzo mio, con oggi abbiamo finito. Da domani ritorni a essere un uomo libero”-
            -“Direi di sì, signore”-
            -“Il Signore sta in cielo, qui c’è solo don Pietro. Oggi è il tuo ultimo giorno: se credi puoi restare finché non troverai lavoro da qualche parte, ma il mio consiglio è di cominciare subito a guardarti intorno. Il mestiere l’hai imparato, forse non sarà facile con quel che ti porti dietro, tutto sta a non scoraggiarsi e ovviamente a rigare dritto. Se fossi in te, eviterei la città: la gente in città guarda troppa televisione, non so se mi spiego. Fa’ un giro per la valle, sali su nei paesi per vedere come butta. In montagna uno vale per quel che sa fare, senza tante chiacchiere”-
            -“E così, in cambio della libertà perdo il lavoro. Il lavoro e la casa”-
            -“Non fare quella faccia. Qui in comunità ti vogliamo tutti bene, ma questo posto è un po’ un trampolino di lancio: la vita vera è fuori. Bisogna avere il fegato di lanciarsi, figlio mio, e di prendere il volo”-
            -“Fuori però io non conosco nessuno, non so dove andare”-
            Don Pietro sorrideva, mentre cavava dalla tasca un bloc notes e cominciava a scarabocchiare qualcosa:
            -“Vai dalle benedettine della Madonna del Pioppo. Una bella camminata in mezzo alla natura, così ti sgranchisci le gambe e ti vien su il coraggio”-
            Il Ragazzo prese il foglietto con l’indirizzo e una sorta di mappa abbozzata alla meglio, a indicare la strada. Guardò lo schizzo e poi il don, con smarrimento crescente.
            -“Quando arrivi, domanda di suor Pesca Del Valle, la nuova superiora. Se ha bisogno di informazioni, dille di telefonarmi. Anzi, facciamo una cosa: mentre fai la consegna, ci penso io a chiamarla”-
            -“…Pesca? …Del Valle?”-
            -“È una cara amica, proprio una bella testa. Eravamo a scuola insieme, e avevamo messo su un’organizzazione perfetta: lei mi scriveva il tema, io ero addetto al pronto soccorso di matematica. Suor Pesca perdeva la bussola davanti ai numeri. Poi i suoi vollero iscriverla a ingegneria, e lei tagliò la corda per entrare in monastero. Quando l’ho saputo, ho detto ai miei vecchi: io vado in seminario e voialtri zitti e muti, altrimenti scappo anch’io e buonanotte al secchio”-
            Il mattino seguente, a ventisette anni, di cui otto trascorsi in carcere e quattro in affidamento, il Ragazzo della Sparatoria lasciò la comunità L’Alpeggio da uomo libero. Con sé, aveva un piccolo zaino con lo scarso bagaglio che don Pietro era riuscito a mettere insieme. Fosse stato per lui, sarebbe partito solamente col suo diario: il resto era paura, una paura d’inferno.
            Malgrado ciò, scriveva: “la vita nuova continua - quella che ho incominciato piantando il primo seme. Ora sta a me proseguire, malgrado tutto il timore che avverto in questo momento. Il grande viaggio inizia, io non mi sento pronto ma chi può mai dire di esserlo veramente?”.
            Il vecchio prete l’aveva abbracciato a lungo:
            -“Per qualsiasi necessità, noi siamo sempre qui. Ma non ti preoccupare: suor Pesca sa tutto, sa anche che hai pagato il tuo debito”-
            Appena fuori dal grande cancello della comunità, la natura l’aveva accolto: al principio un po’ timida - soltanto qualche arbusto e cespugli sparuti, i rami rotti in più punti dal passaggio delle auto - poi, man mano che si allontanava dall’abitato e la strada diventava sempre più accidentata, il verde cominciò a prendere forza e a venirgli incontro con le prime macchie del sottobosco.
            Si trovò ad affrontare col fiatone della salita una scorciatoia che attraversava prati coperti dalla prima erba dell’anno, battuti da un vento ancora tagliente che sollevava onde come nel mare aperto.
            Ancora incappucciate dall’ultima neve, apparvero dinanzi a lui le montagne. A lato del sentiero resistevano spessi lastroni di ghiaccio, forati dalle bianche campane dei bucaneve. Ovunque risuonava il fremito dei torrenti, il fragore delle acque ingrossate dal disgelo.
            Il Ragazzo si fermò a contemplare il mondo che si stendeva dinanzi a lui, risplendente di luce: era quella la libertà che lo aspettava oltre il cancello dell’Alpeggio, e che gli aveva suscitato così tanta preoccupazione. Ora gli apparteneva, e se anche l’avessero scacciato da ogni parte, rifiutandogli il pane, un tetto e il lavoro, lui avrebbe continuato a trovare in quello splendore il coraggio, e l’unico motivo per continuare a vivere:
            “Mia bellezza infinita, potrò vivere di te come un eterno randagio, e questo mi basterebbe, non chiederei altro”.
            Arrivò al monastero nel primo pomeriggio.
            Suor Pesca lo incontrò nella penombra del parlatorio, e anche qui c’era del ghiaccio, ma di altra natura. La caffettiera ancora bollente sul vassoio e un piatto di biscotti non riuscirono a sortire l’effetto dei bucaneve. A trentacinque anni, Pesca era al suo secondo incarico come madre badessa: dopo il suo ingresso, non c’erano state altre vocazioni, la comunità invecchiava e anche se molte sorelle ultraottantenni andavano nei campi a rivoltare il fieno con lo stesso entusiasmo di quand’erano novizie, per i lavori pesanti c’era bisogno di aiuto.
            Malgrado ciò, riguardo a quell’aiuto in particolare Pesca era perplessa, con un buon sottofondo di legittima indignazione: quando aveva ricevuto la telefonata di don Pietro, la sua prima risposta, viscerale e istintiva, era stata non se ne parla. Non se ne parla proprio.
            -“Io so piantare un orto e seguire le coltivazioni, che si tratti di ortaggi o erbe officinali. In comunità facevamo dei piccoli cuscini imbottiti con le erbe, che messi a scaldare aiutano a calmare i dolori”-
            Di fronte allo sguardo indagatore della monaca, il Ragazzo si era affrettato ad aggiungere:
            -“So anche zappare, potare tutti i tipi di alberi, la fatica non mi spaventa”-
            Poiché intuiva che le perplessità della donna non riguardavano tanto le sue competenze quanto il suo passato, non si fece scrupolo a dire:
            -“Signora Madre Pesca, per favore, mi prenda”-
            Avrebbe voluto dire signora Del Valle, ma quel nome gli stava come una spina nel fianco: anche in seguito, per tutto il tempo che restò a lavorare al convento, non ebbe mai il coraggio di verificare se si trattava di una semplice coincidenza, o se la superiora - con quel nome da marmellata in vasetto - c’entrava qualche cosa con quell’altro Del Valle.
            Un’altra spina nel fianco ce l’aveva suor Pesca: proprio lei che portava avanti da anni un gruppo di supporto per chi era costretto ad affrontare una perdita, si trovava ad affrontare le stesse difficoltà che aveva sempre cercato di sanare negli altri, come se la fede potesse davvero riparare ogni breccia, e non riuscire a farlo dipendesse soltanto da una mancanza di volontà.
            Adesso era lei a trovarsi in quella situazione, e si rendeva conto di come anche la fede fosse difficile a volte, anzi il più delle volte: mentre il Ragazzo parlava, non riusciva a fissarlo negli occhi.
            Non sapendo dove rivolgere lo sguardo, si era soffermata sul grande crocifisso appeso alla parete, salvo distogliere subito il cipiglio anche da lì:
            So come la pensi. Ma stavolta perdonami, proprio non ce la faccio.
            Finché il Ragazzo non se n’era uscito con quella supplica così patetica e buffa, Signora Madre Pesca, che le aveva strappato un sorriso dal cuore: quel sorriso era diventato una crepa, e dalla crepa era scappato fuori il rancore, lasciandole la testa leggera come quando, per san Benedetto, le monache vivandiere stappavano una bottiglia di quello buono, e tutta la comunità iniziava a ridere a crepapelle.
            -“Va bene, giovanotto, si comincia domani. Avrai vitto e alloggio e anche qualche soldino, ma bada a rigare dritto. Ora et labora, dice san Benedetto, ma quel che ti riguarda il motto sarà: ora, labora et non fare scherzi”-
            Il giorno dopo in effetti aveva cominciato, sotto alla sorveglianza energica di suor Pesca armata di rastrello. Tra il frutteto, la stalla e quattro ettari di campi si ritrovò a fare più il contadino che il giardiniere, ma era contento per due ragioni: si trattava del suo primo lavoro da uomo libero, e l’aveva trovato con relativa facilità; la maggior parte del tempo la trascorreva all’aria aperta, come aveva sempre desiderato, e anche se suor Del Valle manteneva un atteggiamento distaccato, capiva che era per evitargli degli imbarazzi. Più volte i primi tempi, mentre era intento a concimare i campi con lo stallatico, a caricarlo a colpi di vanga sulla carriola, dalla stalla e dai rimorchi che lo offrivano ogni anno in dono alle monache, aveva sentito un paio d’occhi sulle sue spalle e ne aveva avvertito addirittura l’umidità, perché erano lucidi: allora più che mai si era sentito a disagio, perché non era pentito - non si era mai pentito d’aver fatto fuori Del Valle e quegli altri due.
            Da qualche parte, dentro di lui, ancora si nascondeva Barry Dale e ancora gli parlava, ad esempio quando le monache non riuscivano a dargli di più oltre al vitto e all’alloggio: “tuo padre sarebbe orgoglioso di vedere che ti spezzi la schiena per un piatto di minestra. Non hai proprio nessun amor proprio”.
            Per contrastare queste voci nella sua mente, lui scriveva, in risposta: “La natura è premio a se stessa, vale persino il sacrificio dell’amor proprio. In cambio della bellezza, essere disposti a dare qualunque cosa. Se avessi voluto del denaro sarei andato in città. Qui, non mi occorre altro”.
            Di fatto, come evocato dallo spettro malevolo di Barry Dale, dalla città qualcuno era venuto a offrirgli un lavoro ben pagato. All’indomani del suo rilascio, il padre del Ragazzo era riuscito a rintracciarlo e si era presentato un bel giorno al parlatorio della Madonna del Pioppo. Senza tanti preamboli quell’uomo grande e grosso, che dava l’impressione che un macigno fosse precipitato fin lì dalla montagna, aveva domandato subito del Ragazzo, precisando d’esser venuto per riportarlo a casa.
            La portinaia era corsa ad avvertire la madre, e Pesca aveva scambiato con il visitatore poche parole dirette a stemperare il clima, che si preannunciava rovente:
            -“Insomma, dov’è mio figlio? Si può sapere dove lo tenete nascosto? Chiamo i carabinieri!”-
            -“Suo figlio sta arrivando”- ci voleva ben altro, per turbare suor Pesca -“in questo momento è nei campi, dove sta lavorando per la comunità. È venuto da noi di sua iniziativa e le garantisco, signore, che se ne andrà soltanto se sarà lui a deciderlo”.
            Poco dopo, in effetti, era sopraggiunto il Ragazzo: lercio da capo a piedi perché si era appunto nel periodo dello stallatico, e dopo averlo sparso bisognava zappettarlo per bene per incorporarlo al terreno. I risultato era che il puzzo gli rimaneva addosso di notte e di giorno, e non c’era doccia o sapone che contasse qualcosa.
            Quando se l’era trovato dinanzi, sudato e ansante per l’apprensione più che per la fatica, il padre l’aveva preso di petto:
            -“Non voglio neanche sapere che cosa ci fai qui, e per quale motivo sei praticamente svanito nel nulla. Me l’ha detto, tua madre: niente visite e niente telefonate, e tutte le sue lettere rispedite al mittente. Mi domando se è questo, il modo di comportarsi. Cristo santo, che puzza”- tipico di suo padre, non  farsi scrupolo a imprecare in un monastero -“bene, non perdiamo altro tempo. Va’ a prendere la tua roba, ora si torna a casa e da domani inizi a lavorare in negozio”-
            -“Quale casa e quale negozio? Io non vengo proprio da nessuna parte”-
            Forte della presenza silenziosa di suor Pesca, il Ragazzo riuscì a puntare i piedi senza farsi invadere dal panico, ed anzi conservando una certa tranquillità.
             -“Come sarebbe a dire, quale negozio? Il mio negozio di caccia e pesca giù in città”- precisò il padre, come se non avesse neppure sentito le ultime parole del figlio -“vendita e noleggio di tutta l’attrezzatura. Abbiamo anche una sezione dedicata alle tecniche di sopravvivenza”-
            Per le povere bestie, immagino. Molto meglio il letame, pensò il Ragazzo tra sé. Non voleva lasciarsi trasportare dalla rabbia, così si limitò a dire:
            -“Detesto la caccia. Per quel che mi riguarda, non voglio vedere un fucile mai più”-
            -“Eppure il mio ti piaceva. Eccome, se ti piaceva. Il negozio organizza anche corsi di tiro al bersaglio, potresti prendere il porto d’armi e dare una mano”- 
            -“Lo daranno sicuramente, a uno che è stato in galera per omicidio”-
            -“Ho le mie conoscenze. Ma forse preferisci restare qui a marcire nel concime e i Gloria al Padre”-
            -“Lo preferisco, eccome”-
            -“Pensaci bene, perché uno come te non troverà un altro lavoro. Hai le mani sporche, hai la fedina sporca, sei sempre stato sporco”-
            -“Anche la sporcizia fa parte della natura”-
            La natura insegna che tutto ciò che marcisce diventa vita nuova.
            -“Questa è l’ultima opportunità che ti offro. Guarda che me ne vado, e non tornerò un’altra volta”-
            -“Io me ne sono già andato da un pezzo”- aveva risposto il Ragazzo, che già aveva infilato l’uscio del parlatorio e sbucava di nuovo al sole e all’aria aperta, all’orizzonte i campi che si aprivano liberi.
            A quel punto si fece avanti suor Pesca, per congedare quell’ospite ormai decisamente fuori dai gangheri:
            -“Dove vai, torna indietro! Delinquente, morto di fame!”-
            -“Moderi il tono e i termini. Siamo in un luogo dedicato al silenzio”-
            Si limitò a indicargli l’uscita, senza neppure prendersi la briga di accompagnarlo.
 
******
 
            Per certi versi, suo padre aveva avuto ragione.
            Il Ragazzo se ne accorse quando cominciò a cercare lavoro fuori dal monastero.
            Presso le monache del Pioppo si trovava a suo agio: col tempo, il cipiglio di suor Pesca si era stemperato in uno sguardo più fiducioso e benevolo, e lei divenne persino disponibile alla confidenza. Della sparatoria al liceo, in realtà, non parlarono mai: a entrambi era sufficiente quel poco che sapevano l’uno dell’altra, perché anche il Ragazzo s’era convinto, alla fine, che il cognome Del Valle non poteva essere un caso, ma senz’altro c’entrava con l’ombra di dolore che sempre rimaneva in fondo agli occhi di Pesca, anche quando rideva. A un certo punto decise di dare un taglio al passato una volta per tutte, e fu per questo che cominciò a scendere in paese, e a contattare gli alberghi proponendosi come giardiniere, addetto ai lavori pesanti, lavapiatti o tuttofare, insomma qualsiasi cosa.
            Il guaio era che più s’impegnava, più quel passato ingombrante si metteva di mezzo, e il risultato era sempre quello:
            -“Le faremo sapere”-
            Dopo di che, il nulla.
            Persino il suo curriculum, scritto ordinatamente al computer dalle monache, invece di favorirlo si rivelò un’arma a doppio taglio. Non appena i responsabili degli hotel notavano che a ventinove anni contava solo due esperienze lavorative, di cui una presso la comunità dell’Alpeggio, traevano immediatamente le loro conclusioni:
            -“Lei è un ex tossicodipendente? Un ex detenuto? Ci spiace veramente ma cerchi di capire, siamo un hotel cinque stelle. E comunque abbiamo già una cooperativa di fiducia, che svolge questi servizi”-
            Presso le cooperative e persino nei vecchi masi dei contadini, il risultato non cambiava.
            In barba al fatto che in montagna, come diceva don Pietro, si guarda meno tivù e si va subito al sodo:
             -“Quali sono le tue referenze?”- in certi posti non si prendevano neppure la briga di dargli del lei. E di seguito, puntualmente:
            -“Ti faremo sapere”-
            Don Pietro, d’altra parte, l’aveva avvertito: con quel che ti porti dietro, per te sarà difficile.
            Decise di darsi tempo, e per non lasciarsi andare allo scoraggiamento investì i pochi risparmi in un corso di escursionismo per principianti. Il suo sogno di diventare una guida alpina forse era irrealizzabile esattamente come riuscire a trovare lavoro dopo anni di carcere, eppure era ancora là: vigoroso e con le radici ben piantate, come le stelle alpine nei loro nidi di roccia.
            Cominciò a dedicare il tempo libero alla montagna, e a salire in quota insieme all’istruttore e ai compagni di corso: coppie di mezza età con la macchina fotografica e le scarpette da trekking, due nonne americane con cappellini a paralume, famiglie con neonati imbragati negli zaini.
            All’inizio tutta quella compagnia lo intimidiva, poi imparò a stare al passo e man mano che arrivava più in alto, vedeva il paesaggio aprirsi come una serie infinita di possibilità.
            Visto che si trattava di un gruppo di principianti, le escursioni si svolgevano su sentieri facili o di media difficoltà, che arrivavano puntualmente a qualche rifugio attrezzato con tutti i comfort: qui le mamme allattavano, le nonne controllavano le vesciche dei piedi, le coppie scattavano foto e ordinavano taglieri di speck e formaggio alle erbe.
            Lui sedeva in disparte e si lasciava catturare dall’orizzonte.
            Le vette emergevano dalla foschia di un altro mondo, il silenzio arrivava fino a lui e lo chiamava: ed era, quel silenzio, un vento impetuoso nato in fondo alle gole e che correva come i camosci lungo i bastioni, raggiungeva le cime per poi prendere il volo e giungere fino a lui, muovergli l’erba attorno e poi gridare vieni!
             Tra tutte, c’era una vetta il cui richiamo gli pareva irresistibile: somigliava a una dama adorna di ampie creste, e il suo profilo si alzava altero e dominante, coronato da un lungo strascico innevato.
            -“È la Gran Madre dei Ghiacci, la Severa”- gli aveva detto la guida, e nella sua voce si avvertiva lo stesso potente fascino che quella figura femminile e impassibile esercitava sul Ragazzo -“la madre delle terre emerse in questa valle, quando qui c’era ancora l’oceano e il mondo era appena nato”-
            In quell’epoca remota, un mare tropicale ricopriva la valle: quando iniziò a ritirarsi nacquero le montagne, da imponenti scogliere che non erano altro che mucchi di conchiglie, e scheletri di pesci che a quel tempo nuotavano dove adesso c’è il cielo. Su quel paesaggio di barriere coralline si ergeva la Gran Madre, che era in origine un vulcano sottomarino: la sua roccia impervia e nera si era formata al tempo in cui continue eruzioni avevano cacciato il mare dai suoi fondali.
            Di seguito, l’erosione delle intemperie aveva modellato il suo volto austero, e scolpito le vette che formavano il suo velo nuziale. Poi venne il tempo in cui il mondo sprofondò nella morsa del gelo: la Madre adornò di bianco il suo strascico e poi scavò ai suoi piedi il possente ghiacciaio della Via delle Nevi, insieme culla e barriera per tenere lontano da sé la presenza dell’uomo.
            -“Nessuno è mai riuscito a salire lassù?”- dal punto panoramico nel quale si trovavano, la visuale sembrava annullare le distanze e la Severa pareva ad un tiro di schioppo, come se fosse sufficiente fare un salto per arrivare in cima.
            -“Ci hanno provato in tanti. Molti sono partiti, pochi sono tornati, pochissimi sono entrati nella leggenda. Hans Goller riuscì a conquistare la Seggiola della Vecchia ancora vent’anni fa, per poi precipitare sulla via del ritorno con tutta la cordata. Erano in quattro, probabilmente spariti dentro a qualche crepaccio: li hanno cercati per mesi e non sono riusciti a trovare nemmeno un brandello. Poi, qualche anno fa, proprio sulla Gran Madre è scomparso Enrico Del Valle”-
            -“Del Valle?”- di nuovo quel nome, che a cadenze puntuali tornava come un messaggio in bottiglia. Il Ragazzo drizzò le orecchie.
            -“Enrico era una guida famosa da queste parti, un alpinista esperto. Anche riguardo a lui sono nate delle leggende: c’è chi dice che si sia ritirato sulla montagna a fare l’eremita dopo la morte del figlio. Altri dicono che la Gran Madre se l’è preso, o che comunque gli ha portato via il senno. Molti, dopo essersi accampati sulla Via delle Nevi, in una sola notte hanno perso la ragione. I vecchi dicono che lassù c’è un silenzio troppo grande, e che un cervello umano non riesce a sopportarlo senza dare di matto”-
            Sul pianoro del rifugio l’aria ormai rinfrescava, e l’istruttore aveva cominciato a far segno per radunare il gruppo e ritornare a valle prima del buio. Il Ragazzo aveva provato a trattenerlo, gli aveva rivolto uno sguardo pieno di desiderio, ma la guida l’aveva bloccato prima di dargli il tempo di dire una parola:
            -“So già cosa vuoi chiedermi, ma per quanto mi riguarda non se ne parla nemmeno: lassù non ti ci porto, anche perché io sono un semplice istruttore per gite di gruppo. Ma anche se fossi un alpinista come Goller o Enrico Del Valle, non mi spingerei fin lassù per tutto l’oro del mondo, figuriamoci poi in compagnia di un turista con le scarpe da ginnastica”-
             Il Ragazzo s’era guardato i piedi istintivamente: in effetti la sua attrezzatura lasciava a desiderare, essendo composta da una giacca che utilizzava per i lavori all’aperto e da quelle vecchie scarpe, nelle quali scoprì con grande imbarazzo un buco.
            Quella sera affrontò il discorso con suor Pesca.
            Passeggiando lungo il viale dei cipressi che delimitava i campi - chissà poi perché quel luogo era denominato Madonna del Pioppo, dal momento che di pioppi non ce n’era neppure uno - il Ragazzo della Sparatoria e la superiora avevano superato le reciproche ritrosie: abbandonandosi l’uno alla comprensione dell’altra avevano sanato, senza neppure accorgersene, tutte quelle ferite che si portavano dentro da tantissimo tempo.
            All’imbrunire, mentre i cipressi si trasformavano in gallerie d’ombre, il Ragazzo le aveva parlato di quel giorno remoto in cui l’uomo della montagna gli aveva domandato perché si viaggia.
            Suor Pesca, a sua volta, gli aveva raccontato di suo padre, di come il dolore per la perdita di Walter l’avesse spezzato, al punto che si era ritirato a vivere nel bosco ai piedi della Gran Madre, rompendo ogni rapporto con il resto del mondo.
            Di tanto in tanto capitava al convento per dare notizie di sé, e subito ripartiva con un carico di vettovaglie per trascorrere l’inverno in quel luogo selvaggio, dove non si capiva come facesse a vivere senza riscaldamento, sepolto dalla neve per dieci mesi all’anno, e senza sentire il suono di una voce umana.
            In paese si diceva che Dio gli avesse parlato sulla Gran Madre e che ora vivesse di preghiera e penitenza. Ma i più realisti pensavano che quella dell’eremita fosse una delle tante leggende nate ai piedi della Severa, e che Enrico Del Valle fosse morto da tempo.
            In tutti quegli anni, Pesca aveva cercato di mantenere la consegna del silenzio: ma di fatto anche lei, specialmente durante gli inverni più rigidi, temeva che suo padre finisse assiderato, morto sotto la neve o per qualche incidente in quell’antica cappella che Enrico Del Valle sosteneva di aver sistemato alla meglio, ma che era pur sempre un rudere, più adatto ad ospitare i corvi che gli esseri umani.
            Da un piccolo Vangelo che portava sempre con sé aveva cavato fuori una foto spiegazzata, che ritraeva un uomo sorridente e abbronzato in mezzo a un gruppo di scout:
            -“Questa me la mandò quando ero appena entrata in monastero”- le sue mani tremavano nel mostrarla all’ex detenuto, ma ancor più tremava il dito del Ragazzo mentre sfiorava la foto per indicare un bambinetto tra i tanti: l’unico che invece di guardare nell’obbiettivo fissava affascinato l’uomo della montagna.
            -“Mi piacerebbe incontrarlo”- disse piano il Ragazzo -“è da allora che ho sempre desiderato essere come lui”-
            -“Proprio tu, invece, faresti bene a lasciarlo in pace”- d’un tratto la voce di Pesca si era fatta severa -“per quanto ti riguarda, penso che lui ne abbia già avuto abbastanza”-
            -“Walter Del Valle era un bastardo vigliacco”- a questo punto, come uscito dal nulla, si era materializzato di nuovo Barry Dale  -“ricattava gli altri studenti, li umiliava nei modi più disgustosi e nessuno interveniva, nessuno faceva niente. Questa era la regola a scuola ed è così anche fuori, chi è più debole è destinato a essere schiacciato e io non potevo più sopportarlo. Dovevo farlo smettere, dovevo farlo a ogni costo perché non era giusto, perché mi ha fatto del male, perché lui era esattamente come mio padre, perché…”-
            La voce del Ragazzo si era fatta stridula, e a un certo punto si trovò a naufragare nell’isteria.
            Lo sovrastò la calma serena di suor Pesca, e sulla nuca la freschezza di una carezza:
            -“Anche tu hai fatto del male. Lo hai fatto a me, all’uomo della montagna, e a chissà quanti altri. Eppure io sono qui, accanto a te, ad ascoltarti”- sostò un attimo, pensierosa.
            In quel momento si accesero le luci nella cappella e il coro delle monache intonò i salmi dell’ultima preghiera della sera. Di nuovo si levò la voce vertiginosa che in altri tempi aveva emozionato Enrico Del Valle, richiamandolo nella penombra della chiesa e davanti all’affresco che illustrava la vicenda di un padre disperato e una figlia tornata in vita.
            Da allora, Enrico Del Valle si era interrogato a lungo sul significato di quella storia, senza riuscire mai a comprenderlo del tutto: anche ora, in quell’angolo di mondo in cui aveva trovato rifugio dopo aver sperimentato l’abbraccio del Dio delle Vette, l’uomo della montagna era chino su quella pagina e si stava interrogando, perché nel suo cuore restava ancora un dubbio.
            Uno soltanto, che era però sufficiente a impedirgli di ritrovare la pace.
            Suor Pesca ne era certa, come se lo vedesse. E fu proprio per quello che si trovò a cambiare idea all’improvviso, e suggerì al Ragazzo:
            -“Prendi la via che parte dal paese vicino, è meno rischiosa e ripida, ti procurerò una mappa anche se non so neppure se c’è un sentiero segnato. Uno dei membri del nostro gruppo è una guida esperta, il tempo di contattarlo e ti faccio accompagnare. Ho sempre rispettato il desiderio di solitudine di mio padre, ma so anche che lui ha bisogno di risposte”- la voce di Pesca si era abbassata fino a un sussurro, e anche il suo volto era chino, per non mostrare al Ragazzo che era sul punto di piangere -“ti prego, vai fin lassù a portargliele. Fai questo per lui”-
            -“Ma cosa potrò dirgli?”-
            -“Te lo dirà il tuo cuore, mentre sarai in cammino”-
 
******
 
            Quella mattina poco prima di mezzogiorno, per effetto del disgelo primaverile una placca di ghiaccio coperta da una glassa di neve farinosa si era scollata dai bastioni della Gran Madre, come un’immensa fetta di torta. Non trovandosi più la terra sotto i piedi aveva barcollato in cerca di un appiglio, poi aveva iniziato a muoversi verso valle all’inizio un po’ incerta, poi prendendoci gusto: probabilmente stanca di una vita di solitudine, trascorsa a far da strascico nuziale alla Severa, aveva deciso di scendere in cerca di compagnia, e dopo averla trovata, di portarsela appresso.
            Si era così creata nel giro di pochi minuti una valanga imponente, che si poteva osservare persino dalla valle mentre avanzava solenne trascinando con sé altra neve, scollando altri lastroni.
            Una volta giunta alla prateria bassa delle pendici, aveva cominciato a travolgere tutto: alcune rocce isolate si erano aggiunte con entusiasmo al corteo, altre più grosse e pigre avevano mosso semplicemente qualche passo limitandosi a tirare giù qualche albero.
            Con un fragore di tuono, la valanga di era schiantata sul bosco sottostante, abbattendo gli abeti dalle radici, spezzando i tronchi dei larici, franando il terreno reso morbido dal disgelo.
             L’urto sulle pareti dell’antica cappella che Enrico Del Valle aveva denominato della Vergine nera, per via di un affresco che si trovava al suo interno, aveva provocato l’effetto di un terremoto: le mura di pietra viva avevano tremato, la scorta di legna ammucchiata sul retro era esplosa in una grandinata di ciocchi sparpagliandosi ovunque. All’interno, i pochi arredi erano crollati dalle mensole. La brace, a riposo nel minuscolo focolare degli eremiti, si era fortunatamente spenta sul pavimento di terra battura e umida.
            Nel paese più vicino, che sorgeva ai piedi della parete est della Gran Madre, gli anziani avevano seguito il percorso rovinoso della valanga, e avevano commentato:
            -“Quando la Severa si scrolla la veste, è perché qualcuno è andato lassù a darle noia”-
            Lo stesso aveva pensato Enrico Del Valle, che conosceva l’antico adagio dei vecchi montanari e istintivamente aveva levato il capo e teso le orecchie. La valanga l’aveva sorpreso mentre si trovava nella foresta a far legna: in lontananza, aveva udito per tempo un brontolio avvicinarsi rapido, mentre quell’ammasso impressionante di lastroni, rocce divelte e schegge scendeva con un fracasso da fine del mondo.
            Da quel boato di catastrofe in cammino aveva riconosciuto l’arrivo della valanga, e siccome conosceva la zona palmo a palmo aveva trovato rifugio in una grotta sul fianco della montagna.
            là aveva ascoltato il rombo della valanga mentre passava sulla sua testa come un rullo, augurandosi solo che un mucchio di detriti non bloccasse l’uscita: dal fondo della grotta il fianco della Gran Madre aveva tremato, come se la Severa si stesse effettivamente scrollando dal grembiule le briciole della prima colazione.
            Non aveva sentito rumori di crollo, e questo significava forse la cappella era rimasta in piedi: poco più sotto, però, gli era sembrato di udire una voce umana, un urlo breve e spezzato, di seguito sepolto di nuovo dal silenzio, ben più cupo e opprimente, che la valanga aveva lasciato dietro di sé. Dopo un poco era uscito e nella calma che era scesa lungo il pendio, rotta solo dal fragile scrocchio di un ramo, dal tonfo di altra neve che cadeva dai rami, di nuovo aveva teso l’orecchio.
            All’inizio pensò si trattasse del vento, che cigolava in mezzo agli alberi caduti, e faceva crollare quelli pericolanti: eppure quella voce l’aveva udita sul serio, e infatti dopo un poco tornò a farsi vivo un lamento.
            Avanzò con cautela in quella direzione, a tratti sprofondando fino alle ginocchia: la valanga aveva mutato completamente la fisionomia del luogo, e lui stesso faceva fatica a orientarsi. Poco più in basso riconobbe il tetto della cappella: le mura, almeno viste da lì, parevano integre, la riserva di legna era stata spazzata via, per fortuna si era ormai a primavera, anche se lo attendevano ancora parecchi mesi di gelo. Stava già per dirigersi verso il suo rifugio per constatare i danni, quando di nuovo, flebile, lo bloccò quella voce.
            -“Dove sei?”- si ritrovò a gridare, e a un tratto si spaventò nell’udire l’eco che rimbalzava contro i bastioni della Gran Madre -“dove sei, continua a parlare!”-
            -“Sono qui”- tremò allora la voce, e qui poteva essere in qualsiasi posto e nessuno.
            Enrico Del Valle cercò d’indovinare da dove proveniva, ma l’eco della Severa si metteva di mezzo, mandandolo fuori strada.
            -“Signore, sono qui! La prego, non mi lasci!”-
            -“Cosa vedi intorno a te?”-
            -“Che cosa? Non capisco! Non vada via la prego!”- la voce, già fragile, cominciò a singhiozzare. Enrico si rese conto che si stava dirigendo dalla parte sbagliata. Gli ci volle almeno un’ora di andirivieni forsennato, e solo quando stava per smarrire le forze e la voce era ormai ridotta ad un gemito, riuscì a trovare il punto dal quale proveniva: un cumulo di neve e di tronchi abbattuti sotto ai quali, probabilmente, si era formata una sacca d’aria.
            Scavò a mani nude, servendosi di rami, pietre e qualunque cosa gli capitasse a tiro.
            Finalmente riuscì a scoprire un pezzo di tela, e di seguito anche il resto: il Ragazzo era livido e semiassiderato, ma ce la fece ugualmente a levare le braccia per farsi tirare fuori. Una gamba poteva muoverla, mentre l’altra era voltata in una posizione innaturale e preoccupante.
            -“Ti è andata bene, giovane: una gamba rotta è il minimo che ti poteva succedere”-
            Non senza difficoltà, Enrico riuscì a recuperare la slitta con cui era solito trasportare la legna, e che era riuscito a riparare appena in tempo nella caverna, insieme alla propria pelle.
            Mentre caricava il Ragazzo, si sforzò di riflettere. Nel bosco faceva buio presto, già le prime ombre cominciavano a scendere e non ci sarebbe stato tempo e luce sufficiente per arrivare a valle: anche perché non sapeva quali ostacoli avrebbe incontrato, dopo che la valanga aveva spazzato via i sentieri e cambiato tutti i punti di riferimento. Non c’era altro da fare che portare il ferito all’eremo, sperando che la notte portasse consiglio e non un’altra ondata di ghiaccio e di disastro: evento peraltro possibile, dopo il primo smottamento che aveva alterato l’equilibrio dei ghiacci sulla Gran Madre.
           Si guardò intorno e un tratto lo colse un dubbio: non aveva considerato l’eventualità più angosciosa, e gli tremò la voce mentre si rivolgeva al Ragazzo, che nella luce serale pareva ancora più livido e grigio su quella lettiga improvvisata:
           -“C’era con te qualcun altro? In quanti eravate?”-
           -“Ero solo, signore”- rispose il Ragazzo, ed era la verità: la guida a cui suor Pesca l’aveva affidato aveva constatato l’impraticabilità del terreno già a metà del percorso, e aveva cercato di convincere il giovane a fare marcia indietro.
           -“La situazione è peggiore di quel che avevo previsto”- aveva detto herr Hauser, al terzo tentativo di guadare torrenti resi più furibondi e ardui dal disgelo, di seguire il sentiero aggirando punti franosi, smottamenti frenati a malapena dagli alberi. Tutti questi accidenti non facevano che allungare i tempi di percorrenza, col rischio di farsi sorprendere dal buio in una zona dove era difficile orientarsi anche in pieno giorno. Le pacate osservazioni di herr Hauser, un austriaco imponente che con lo zaino in spalla arrivava ai due metri, erano presto sfociate in un acceso litigio, perché il Ragazzo non voleva saperne di ritornare a valle e abbandonare l’impresa:
           -“Sei solo un ragazzino egoista e ignorante”- a un certo punto Hauser aveva perso le staffe -“la prima regola, in montagna, è di non mettere a repentaglio la propria vita e quella degli altri. Tu sei sotto la mia responsabilità, ed è mio preciso dovere riportarti a valle o quanto meno avvertirti che se decidi di proseguire lo farai a tuo rischio e pericolo. Quanto a me, appena in paese provvederò a segnalare la tua bravata e ad allertare il Soccorso Alpino. Ricordati, ragazzo: l’arroganza, in montagna, è sempre stata punita molto severamente”-
            Arrancando a fatica, Enrico Del Valle impiegò un’altra ora a raggiungere le mura del suo rifugio, e a quel punto ormai il bosco era sprofondato nel buio di una notte priva di stelle.
            Più volte, durante il tragitto, aveva sentito avvicinarsi lo strepito delle pale di un elicottero che sorvolava la zona, più volte aveva cercato di uscire dal bosco per sbracciarsi e segnalare la sua presenza. L’elicotterista aveva continuato a disegnare cerchi nell’aria, restringendo o allargando il percorso di volo, abbassandosi insieme al buio, allontanandosi e ritornando in un moto continuo e tormentoso: ogni volta, Enrico Del Valle si costringeva a lasciare la lettiga e a portarsi all’aperto, ma puntualmente arrivava troppo tardi, e quando finalmente decise di rimanere immobile allo scoperto, sventolando la giacca in segno di avvertimento, l’elicottero del Soccorso Alpino non era più ritornato.
            -“Adesso ci manca solo che venga giù altra neve”- pensò a quel punto Enrico, scrutando il cielo. Anche quella era una possibilità da considerare, ma i possibili eventi avversi erano ormai così tanti che si faceva prima a non pensarci neanche: giusto per non smarrire la calma e la ragione una volta per tutte.
            Avvolta nella bruma delle sue altezze, la Gran Madre dei Ghiacci vegliava dall’alto, e anche lei pareva dialogare col cielo che la sovrastava compatto, minacciando di scaricare altre tempeste: Enrico Del Valle poteva semplicemente augurarsi che quella coltre di piombo non facesse dispetti, ma il potere della Severa andava ben oltre, e la sua intercessione presso il Dio delle vette era ben più autorevole e persuasiva. Per questo, nel Medioevo, la sua cima di roccia di lavica e scura era anche denominata la Vergine Nera, come se si trattasse di un’imponente statua della Madonna scolpita dalla natura.
            Una volta arrivato all’antica cappella, Enrico ricoverò l’infortunato presso il focolare, spazzò la cenere spenta e si adoperò per riaccendere il fuoco. Dopo averlo spogliato degli abiti bagnati, lo infilò nel suo sacco a pelo e cercò di scaldarlo con tutte le coperte che poté rimediare.
            Liberò dalle scarpe i piedi gonfi e arrossati, constatando che alcune dita erano già diventate nere e legnose. Queste le abbiamo perse, pensò tra sé, mentre grosse vesciche cominciavano a tendere la pelle in più punti. La gamba sinistra, come aveva previsto, appariva piegata in modo innaturale, e quello era l’unico punto in cui il Ragazzo confermò di sentire dolore.
            -“Non ti do dell’idiota, perché hai già avuto quello che ti spettava”- esordì Enrico, quando le condizioni dell’alloggio e del giovane furono tali da garantirgli sufficiente tranquillità -“solo, vorrei sapere come ti è saltato in mente di andare allo sbaraglio senza avere una guida e in scarpe da ginnastica. Come un idiota, appunto, il solito ragazzino che guarda i film di avventura”-
            -“Ho quasi trent’anni”- precisò l’altro, che non se la sentiva di ammettere che la guida l’aveva piantato in asso, o meglio che era stato lui stesso a farlo.
            -“Ne dimostri di meno”- indaffarato a riscaldare una minestra in scatola, Enrico Del Valle gli rispose seguendo un pensiero improvviso:
            -“Hai la stessa età che avrebbe avuto mio figlio”-
            Era da molti mesi che non pensava a Walter.
            Osservò il volto del giovane, mentre gli porgeva la ciotola di minestra.
            Il Ragazzo si sentì interpellato da quello sguardo, in fondo non aveva ancora risposto alla prima domanda:
            -“Sono salito fin qui per cercare l’eremita che vive in questa zona”-
            Aveva le mani gonfie, non riusciva a reggere il cucchiaio e la ciotola. Enrico gli sollevò il capo con l’aiuto di una vecchia cerata, e cominciò a imboccarlo. Malgrado il grigiore, il volto del Ragazzo gli appariva colmo di un’energia appassionata: nei suoi occhi scintillava una fiamma di ammirazione che si faceva più intensa mano a mano che il giovane, pur con le deboli forze che gli restavano, cominciava a rendersi conto di aver trovato l’uomo della montagna, o meglio di esser stato trovato da lui.
            -“Cosa volevi da quel vecchio pazzo che vive da queste parti? Sai che questa bravata ti costerà almeno quattro dita dei piedi?”-
            Enrico gli porgeva i cucchiai di minestra con la stessa delicatezza che avrebbe usato con suo figlio, e chissà perché, nel farlo, provava un intenso turbamento. C’era qualcosa, in quel viso, che continuava a inquietarlo, gli pareva di averlo già visto ma non riusciva a richiamarlo dalla memoria.
            Gli tornarono in mente le parole di quel passo che aveva letto così tante volte sul piccolo Vangelo sbrindellato di Pesca: “raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo, e ordinò loro di darle da mangiare”. Loro erano i genitori della fanciulla tornata in vita. Che cosa aveva voluto intendere il Cristo con quell’ordine? Dar da mangiare a un figlio morto e tornato in vita, ed ecco che lui ora si trovava a soccorrere un giovane dell’età di suo figlio, a nutrirlo e scaldarlo nell’attesa di affidarlo, l’indomani, ai soccorsi.
            -“Potrò diventare ugualmente una guida alpina? Anche senza quattro dita dei piedi?”- quella domanda prese Enrico in contropiede. Abbandonando per un attimo i suoi pensieri, si voltò a guardare il Ragazzo che ora sorrideva, rinvigorito.
            -“Non ti affaticare”- rispose, sempre più inquieto -“al dopo ci penseremo”-
            -“No, io devo dirlo adesso. Sono venuto fin qui per questo, signor Del Valle. Ricorda tanti anni fa, la gita con gli scout e il falò attorno alle tende? Lei allora mi domandò perché ci si mette in cammino, e io ora so la risposta”- un colpo di tosse, a un tratto, gli tolse la parola.
            Stupefatto, Enrico Del Valle non si chiese neppure come facesse il Ragazzo a sapere il suo nome. Da qualche cassetto impolverato della memoria cavò fuori un frammento di quei giorni trascorsi in compagnia degli scout: ricordava di aver spedito a suor Pesca una foto di gruppo, e quel pensiero richiamò il dolore del tempo in cui sua figlia se n’era andata da casa. E poi sì, gli pareva che nel gruppo ci fosse un ragazzino un po’ più vispo degli altri, o solo più sognatore, che aveva chiacchierato con lui di viaggi e montagne, di colazioni da dividere con le marmotte, di grandi desideri.
            Vedi i casi della vita, pensò Enrico Del Valle, e com’è piccolo il mondo.
            Ma c’era dell’altro.
            Improvvisamente, il Ragazzo gli aveva afferrato la mano e tentava di sollevarsi, in un movimento disordinato che gli strappò soltanto un urlo di dolore: istintivamente, Enrico lo prese tra le sue braccia, per aiutarlo a coricarsi di nuovo.
            -“Cosa vuoi fare, razza di scimunito, con una gamba rotta?”-
            -“Signor Del Valle, io voglio domandarle perdono”-
            -“Direi che sei già stato punito abbastanza”-
            -“Io non sono pentito di esser venuto fin qui. Sono pentito, invece, per quello che ho fatto prima”-
            -“Che cosa hai fatto prima? Sentiamo…”-
            Enrico Del Valle era disorientato: qualcosa in quel giovane gli ricordava insistentemente un’altra foto di gruppo, quella da cui la sua ex moglie aveva cancellato un volto grattandolo con le unghie. Cominciava ad avere un brutto presentimento.
            Il Ragazzo si aggrappò di nuovo alla sua mano:
            -“Quando sono uscito dal carcere, Suor Pesca mi ha accolto. Ho letto sui giornali che secondo la gente non ho pagato abbastanza, perché ho scontato dieci anni invece di diciotto, e nell’ultimo periodo ho anche avuto la possibilità di imparare un mestiere. Secondo la società non meritavo un lavoro, e infatti nessuno ha voluto offrirmene uno”-
            L’infortunato si fermò per riprendere fiato, Del Valle lo ascoltava con il volto di pietra.
            Il Ragazzo della Sparatoria non riusciva a guardarlo in faccia, ma si risolse a continuare ugualmente. Si sentiva sfinito ma anche libero, come se Barry Dale fosse rimasto sepolto in quella tomba di ghiaccio che per poco non s’era richiusa sopra di lui:
            -“Suor Pesca non mi ha lasciato in mezzo alla strada, e adesso io sono qui dietro sua precisa richiesta per darle delle risposte, signor Del Valle”-
            -“Cosa ti ha fa pensare che volessi incontrarti? Sei venuto fin qui a dirmi che hai sparato a mio figlio perché ti ha provocato, perché ti faceva i dispetti?”-
            A parte il giorno in cui l’aveva colto sul fatto mentre strofinava su una pozza di urina il volto di uno scolaro, quello stesso che ora gli stava di fronte, Enrico Del Valle aveva appreso ben altre prodezze leggendo sui giornali le testimonianze dei compagni di Walter Del Valle.
             D’un tratto si rese conto che era proprio lì, il cuore del suo dolore: quello che neppure l’abbraccio del Dio delle Vette era riuscito a sciogliere, durante quella notte sulla Via delle Nevi.
            Si rivolse al Ragazzo, che lo fissava con occhi limpidi e tristi:
            -“È passato molto tempo ma credimi, è proprio con questo pensiero che non riesco a far pace. Non ho saputo impedire che mio figlio diventasse un prepotente, e questa è stata la causa che ha scatenato il resto”-
            -“A premere il grilletto sono stato io, signore. Non è stato suo figlio. Ero pieno di rabbia, la coltivavo come si fa con le piante, e solamente in carcere mi sono reso conto che stavo morendo anch’io. È stato allora che è iniziato il mio viaggio. Ricorda? Ci si mette in viaggio per andare da qualche parte, e quando si arriva alla meta ecco, ne appare un’altra. La mia destinazione, e me ne accorgo adesso, era arrivare fin qui, dall’uomo della montagna della mia infanzia,  ciò che devo dirle mi sembra che sia questo: si metta in cammino, signor Del Valle. Lasci andare le colpe, le ragioni, i rimproveri. Si metta in viaggio anche lei, perché il viaggio è vita, è una meta che si sposta sempre un poco più avanti”-
            Enrico aggiunse un ciocco alla fiamma del focolare. Fuori, la notte ancora rigida e invernale cominciò a rischiarare, perché anche la primavera era in cammino e in capo a pochi giorni sarebbe giunta all’eremo, sciogliendo il ghiaccio delle valanghe, facendo spuntare il muschio dai tronchi spezzati, e riportando il canto degli uccelli sui rami degli abeti.
            Più tardi, Enrico Del Valle uscì sulla soglia e proprio di fronte a lui, lungo il pendio che scendeva ripido verso la valle, l’alba iniziava a sorgere: sotto a un cielo di cenere, la neve era una brace scintillante di luce.
            Puntualmente si udì il rumore delle pale dell’elicottero, che era si avvicinava, era sopra di lui ed Enrico si sbracciava, e non sapeva più se quello era un segnale di aiuto oppure semplicemente un modo per scrollarsi di dosso il dolore e la rabbia che l’avevano immobilizzato così a lungo.
            Quando l’elicottero iniziò le manovre di atterraggio aveva le lacrime agli occhi, ma non era per via dello spostamento d’aria che a un tratto lo investiva con la sua turbolenza: dentro di sé avvertiva compassione e sollievo, tristezza e liberazione, nostalgia ma anche leggerezza, come se una cappa opprimente gli fosse caduta di dosso.
            Mentre i soccorritori caricavano l’infortunato sulla barella, continuò a fissare il Ragazzo, non più l’enigma di un volto stampato su un giornale ma una creatura in carne e ossa, fragile e soggetta a sbagliare esattamente come aveva sbagliato Walter, e forse anche Lidia, e lui stesso.    
            Dar da mangiare a un figlio: adesso gli sembrava di capire più o meno cosa significava, e ritornò a sentire su di sé il possente abbraccio del Dio delle Vette. Assorto, fece un breve cenno di saluto al Ragazzo, senza perdere di vista quegli occhi grandi e umidi che a loro volta lo guardavano con fiducia, fino a che l’elicottero non serrò lo sportello per poi alzarsi in volo.
            Continuò a fissarlo finché divenne un piccolo punto sull’orizzonte, nel cielo sconfinato della Gran Madre dei Ghiacci che alle sue spalle lo scrutava dall’alto: silente e impenetrabile ma con l’alba sul volto, che disegnava un gioco di ombre tra le sporgenze, e qualcosa di molto simile ad un sorriso.  

 
            ******
 
 
Colonna sonora: Armand Amar, “Inanna”
Lévon Minassian, “They have taken the Only I Love”
The Cinematic Orchestra, “Arrival of the Birds and Transformation”
Eddy Vedder, “Society”, “Rise”, “Long Nights”
Tchaikovsky, “Hymn of the Cherubim”

 

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