Diamante

di Myrddin Emrys
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


 
            Sbuffò e alzò lo sguardo dal libro di testo, per lasciarlo cadere sull’orologio sopra la scrivania che scandiva i secondi con un monotono ticchettio.
            Appena vide che erano le quattro del pomeriggio scattò in piedi, chiuse con un colpo il libro e afferrò al volo il borsone contenente la divisa di allenamento, il guantone, l’accappatoio e il bagnoschiuma. Si precipitò verso la porta di casa e urlò:
«Vado al campo!»
«Il giubbotto!» esclamò sua madre di rimando.
Allora tornò nella sua cameretta, prese il giubbetto jeans e tappando le orecchie a qualsiasi altro richiamo si precipitò fuori casa.
            Era tardi! Era dannatamente tardi!
            Ora l’allenatore lo avrebbe bacchettato e già immaginava i ghigni dei suoi compagni di squadra. Per fortuna il diamante -il campo di baseball- non era lontano da casa, ma comunque sia sarebbe arrivato tardi.
Corse con il borsone sulle spalle che pesava un quintale e gli rimbalzava sulla schiena sferzandogli le costole. Con una mano tirò su gli occhiali da vista che gli calavano di continuo sul naso a forza di scossoni e con il fiato grosso superò il cancello che delimitava l’intera area sportiva.
«Ehi!» esclamò una ragazza agitando le braccia.
            Loris le lanciò un’occhiata e riconobbe Ombretta, una delle giocatrici di softball che conosceva da una vita. Fece un frettoloso cenno di saluto e proseguì con il fiatone. Alle orecchie già gli arrivava il suono dei suoi compagni che si allenavano e quei tonfi metallici, procurati dalla mazza quando colpiva la palla, gli fecero capire che avrebbe saltato il riscaldamento.
            Piombò nel dugout -la panchina- e tolse il borsone dalle spalle, iniziando a spogliarsi.
«Pallesecche è in ritardo come al solito!» lo beffeggiò un compagno mettendo la mazza sopra una spalla.
            Loris non lo degnò di attenzione e si sbrigò a togliere pantaloni e maglia per indossare la divisa da allenamento e posizionare la conchiglia nel sospensorio a copertura delle parti intime. Era prassi comune cambiarsi direttamente in panchina quando c’erano gli allenamenti. Come riparo avevano solo una fitta rete metallica che evitava rischiose collisioni con la palla.
«Loris!» urlò l’allenatore dal monte di lancio.
            Il ragazzo alzò lo sguardo e lo osservò attraverso le lenti.
            L’uomo, un ex giocatore professionista di baseball, se ne stava sul monte con un secchio pieno di palle accanto ai piedi e lanciava verso casa base dove i cadetti si alternavano per ribattere con la mazza.
«Se anche la prossima volta arrivi tardi non ti faccio allenare!» minacciò senza troppa convinzione.
            I ragazzi sghignazzarono divertiti e Loris si sbrigò a infilare i guantini, calare il berretto sui capelli e prendere una mazza per correre in campo.
«Lascia quella mazza e fatti due giri di corsa!» urlò l’allenatore.
            Loris sospirò e mestamente ubbidì, seguito dagli sberleffi dei compagni.
            Ormai ci aveva fatto l’abitudine e quasi non li sentiva più.
Sette anni prima, quando per la prima volta aveva visto il diamante e aveva preso in mano una mazza, era rimasto folgorato: amore a prima vista. Il baseball gli era entrato nel sangue e, sebbene con il tempo gli impegni scolastici fossero raddoppiati, si faceva in quattro pur di non mancare agli allenamenti.
Ma se il diamante aveva aperto un varco nel suo cuore, non poteva dire altrettanto dei suoi compagni di squadra. Tra loro non era mai scoccata l’empatia e ora che da bambini si erano trasformati in adolescenti inquieti, il divario era aumentato notevolmente. I suoi compagni avevano iniziato a occhieggiare le ragazze del softball, a tentare i primi approcci, mentre lui, a dispetto dei diciassette anni, continuava a preferire dedicarsi al gioco.
            A essere onesti, già da tempo aveva capito che le ragazze lo interessavano solo come amiche e ultimamente si era dovuto arrendere all’evidenza che quando faceva la doccia insieme ai compagni dopo gli allenamenti doveva costringersi a fissare le piastrelle, per non perdersi in pensieri pericolosi che avrebbero potuto metterlo in imbarazzo.
            Anche ora, mentre faceva di corsa il giro del campo per scaldarsi, lanciava occhiate a Ezio, il sedicenne più bello dell’intera squadra cadetti. C’erano stati momenti in quegli ultimi anni in cui aveva sognato che smettesse di chiamarlo “Pallesecche” e lo guardasse in maniera diversa, magari accorgendosi che esisteva non solo come adolescente allampanato e occhialuto, bensì come Loris, interbase. Ma era e sarebbe rimasto un sogno: Ezio aveva più volte dimostrato un certo interesse per Ombretta e Loris si era messo il cuore in pace.
«Occhio!»
            L’urlo lo riportò al presente e si girò verso l’allenatore, per individuare la palla ribattuta. La vide all’ultimo momento e riuscì solo a portare un braccio davanti al viso per ripararsi, prima che la palla lo colpisse allo stomaco.
Si piegò in due, il fiato gli venne meno, barcollò e cadde perdendo i sensi.
 
***
 
            Salutò i compagni di scuola e si diresse alla metro per tornare a casa. In cielo grossi nuvoloni neri si rincorrevano, pronti a riversare il loro carico di pioggia primaverile e Loris si consolò pensando che quel giorno il campo sarebbe stato impraticabile e a lui non sarebbe pesato rimanere a casa.
            Il medico del pronto soccorso gli aveva prescritto assoluto riposo per tre settimane, per dare tempo all’ematoma di assorbirsi e lui si era rassegnato a rinunciare all’attività fisica che tanto amava. Per alcuni giorni gli era rimasto il segno della palla sullo stomaco e ringraziò il cielo che il colpo non fosse stato più forte, altrimenti avrebbe potuto procurargli un’emorragia interna.
Il baseball era uno sport tranquillo, tuttavia in alcune occasioni poteva risultare letale, soprattutto se non si stava attenti. La prima regola che gli avevano insegnato era stata di non perdere mai la concentrazione e di stare attento anche a chi si allenava dall’altra parte del campo, per evitare collisioni con le palle lanciate a forte velocità. E lui aveva imparato subito. Ogni volta che si udiva urlare “occhio!” era segno evidente che una palla era stata lanciata o colpita male e rischiava di diventare pericolosa.
«Loris!»
            Il richiamo lo riportò al presente, vide Ombretta che lo rincorreva e si fermò per aspettarla. Ombretta era la sua migliore amica, abitavano nello stesso palazzo e avevano fatto le elementari insieme. Era stata lei, all’età di dieci anni, a portarlo sul diamante e da allora erano diventati inseparabili.
«Come stai?» domandò appena gli fu al fianco.
«Bene, mai stato meglio.» e accompagnò la risposta con un sorriso.
«Fantastico.»
            Ombretta era rimasta sconvolta quando aveva visto arrivare l’ambulanza al campo e si era precipitata sul diamante dove si allenavano cadetti e seniores, per scoprire che Loris si era fatto male. Aveva chiesto a Ezio cosa fosse accaduto e il giovane glielo aveva spiegato, commentando a corollario che solo a uno stupido poteva capitare un incidente simile. Lei non aveva replicato ma dentro di sé lo aveva mandato al diavolo.
Sapeva che Loris aveva un debole per il lanciatore della sua squadra, anzi, ne era innamorato perso, glielo aveva confidato un paio d’anni prima e lei gli aveva suggerito di lasciarlo stare, che era solo un pallone gonfiato e che meritava di meglio. Ma, a quanto pareva, i consigli che elargiva si perdevano nel vento.
«Andrai agli allenamenti oggi?» s’informò Loris ammiccando al cielo plumbeo.
            Lei alzò gli occhi azzurri verso le nubi e tirò indietro i capelli che il vento le ributtava sul viso.
«Se non piove.» rispose sconsolata.
«Cosa si dice al campo?»
«Niente. Ci prepariamo per il campionato.»
            Loris annuì appena, consapevole che sarebbe rientrato la settimana in cui avrebbero giocato la prima partita e sperò che quella sosta forzata non avesse minato la sua preparazione.
            Presero la metro e rimasero in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, fin quando Loris adocchiò un ragazzo seduto che ascoltava la musica e seguiva il ritmo con la testa. Era carino, somigliava vagamente a Ezio e pensò che gli sarebbe piaciuto portarselo a letto.
Sospirò a quel pensiero. Già, prima o poi doveva capitare. Prima o poi avrebbe trovato un ragazzo con il quale perdere la verginità. Era cosciente di non possedere attrattive, con quei capelli castani ondulati e sempre spettinati, quegli occhi a mandorla marroni come le foglie autunnali, il volto spigoloso e il corpo magro; eppure sapeva che un ragazzo, da qualche parte, era in attesa di lui, pronto a fargli scoprire il mondo del sesso. Era solo questione di tempo.
Ultimamente, però, mordeva il freno e si rendeva conto che masturbarsi non gli bastava più.
            Azzardò un’occhiata a Ombretta e la osservò. Chissà se lei aveva già compiuto il grande passo?
            Attese che uscissero dalla metro e mentre affrontavano l’ultimo tratto a piedi si schiarì la voce e azzardò:
«Posso... uhm... posso farti una domanda intima?»
            Ombretta sgranò gli occhi e rallentò l’andatura, portando le mani alle cinghie dello zaino che portava sulle spalle. Loris fece un gesto vago e riprese precipitoso:
«Ok, scusa. Fa’ conto che non abbia detto nulla.»
            Lei gli afferrò il braccio e lo costrinse a fermarsi.
«Cosa vuoi sapere?»
            Un po’ imbarazzato si guardò intorno, sistemò meglio lo zaino sulla spalla e umettò le labbra secche.
«Tu hai... hai già fatto... sesso?»
            Ombretta si irrigidì e dopo un secondo ribatté:
«Ma sei scemo? Che domande fai? Certo che no, altrimenti te lo avrei detto.»
            Loris sembrò rinsanguare e lei tirò indietro i lunghi capelli biondi, fissandolo con ostentazione.
«E tu?» rimandò circospetta.
            Scosse la testa in risposta e lei gli lasciò il braccio, studiandolo a lungo.
«Non è che vuoi fare sesso con me?» indagò preoccupata.
            Loris inarcò le sopracciglia e fece una smorfia, facendola sorridere.
«Potrei,» rispose divertito, «ma non garantisco il risultato!»
«Scemo!» esclamò lei dandogli una spinta.
In lontananza si udì il rombo di un tuono, segno evidente che la pioggia stava per arrivare e prima di bagnarsi ripresero a camminare verso casa.
 
***
 
Controllò che nel borsone ci fosse tutto, quindi salutò sua madre e si diresse al campo.
Tornava dopo venti giorni di assenza. Fosse dipeso da lui, sarebbe tornato già il giorno successivo all’incidente, ma né il medico né i suoi genitori glielo avevano permesso. A dire il vero, sarebbe potuto andare come spettatore, ma aveva preferito evitare le tentazioni; sapeva che se si fosse presentato sugli spalti prima o poi sarebbe sceso in campo.
            Chiaramente in quel frangente nessuno dei suoi compagni lo aveva chiamato per sapere come stesse, sottolineando -se mai ce ne fosse stato ancora bisogno- che loro non lo consideravano parte del gruppo. E non se l’era neppure aspettato. Solo Diego, l’allenatore, aveva chiamato un paio di volte per informarsi sulla sua salute.
            Entrò nel dugout e si accorse di essere arrivato in anticipo: la forzata e prolungata sosta gli aveva messo le ali ai piedi. Posò il borsone e si cambiò.
            Il sole caldo di aprile aveva fatto crescere l’erba al di fuori del diamante e qualche anima pia stava usando il tagliaerba per consentire l’accesso alle aree da picnic. Nel campo adiacente, le ragazze del softball si stavano già allenando e scambiò un saluto con Ombretta. Lei gli fece cenno che si sarebbero sentiti in seguito e lui annuì.
            Posizionò meglio gli occhiali sul naso e in quell’istante si accorse di un ragazzo che si stava avvicinando. Non era della sua squadra. Lo seguì con lo sguardo attraverso la rete metallica che circondava il diamante, fino a quando non entrò nel dugout.
«Ciao.» salutò il nuovo arrivato.
«Ciao.» rispose.
            Rimasero in silenzio, l’odore pungente dell’erba tagliata che stuzzicava le narici. Il ragazzo posò il borsone dell’Urbe Baseball e Loris capì che faceva parte della sua squadra. Doveva essere arrivato durante le settimane della sua assenza.
«Io sono Valerio.» si presentò il giovane.
«Ah... Loris.» si ritrovò a rispondere.
            Lo vide mettersi seduto e osservare il diamante prima di aprire il borsone e tirare fuori i guantini e il berretto. Allora, quasi con timore, domandò stupidamente:
«Fai parte dell’Urbe Baseball?»
«Sì. Anche tu.» rispose l’altro sorridendo, ammiccando alla sua testa.
«Eh, già.» rispose toccandosi di riflesso il berretto che portava i colori della squadra.
«Che ruolo?» incalzò Valerio.
«Interbase. E tu?»
«Ah, sei lo shortstop che si è fatto male?» chiese incuriosito.
            Loris si domandò come facesse a saperlo, visto che era convinto che nessuno dei suoi compagni ne avesse fatto parola. Poi il pensiero corse a Diego e suppose che gliene avesse parlato lui. Annuì e Valerio continuò:
«Io catcher
            Loris rimase sorpreso: loro avevano già il ricevitore, per quale motivo prenderne un secondo? Studiò il nuovo arrivato ma quando si rese conto che anche l’altro lo stava sondando, distolse l’attenzione.
«E ora come stai?» s’informò Valerio.
«Bene, grazie.»
            Si accorse che le mani gli tremavano e non seppe darsi una spiegazione. All’improvviso si sentiva a disagio sotto quegli occhi neri che continuavano a osservarlo con curiosità e si chinò per indossare gli scarpini con le lame. Quindi uscì sul campo. Respirò a pieni polmoni l’odore della terra e dell’erba e avvertì il caldo del sole sugli avambracci scoperti.
            In quell’istante, alla spicciolata, vide arrivare i suoi compagni della squadra cadetti insieme ai seniores e a Diego.
«Ah!» esclamò Ezio con un sorriso strafottente e una strana luce negli occhi. «È tornato Pallesecche.»
«Ehilà, chi non muore si rivede.» rincarò Luciano, il loro ricevitore.
            Loris non rispose, ma si accorse dello sguardo di Valerio fisso su Ezio.
«Come stai?» volle sapere Diego dandogli le chiavi del box dove era conservato il materiale.
«Benissimo.» rispose con un sorriso, prendendole.
«Ezio, dai una mano.» ordinò l’allenatore.
            Il ragazzo sbuffò e dopo aver lasciato cadere a terra il borsone seguì Loris. Questi lo osservò di sottecchi, ammirando quei lunghi capelli neri che al sole avevano riflessi azzurri e quegli occhi grandi dal colore indefinito tra il verde e il ceruleo.
Ezio Rossetti era semplicemente meraviglioso e Loris si era innamorato di lui fin da quando aveva messo piede sul diamante. Certo, all’epoca non poteva capirlo ma con il passare degli anni si era reso conto che non riusciva a staccare gli occhi da lui, che il suo cuore prendeva sempre la rincorsa quando si trattava di Ezio e che i suoi sogni erotici erano sempre concentrati su di lui.
E lui non lo vedeva neppure.
«Chi è il nuovo arrivato?» s’informò mentre portava fuori dal box la borsa con le mazze.
«Uno nuovo.» rispose Ezio prendendo i secchi pieni di palle.
Loris gli lanciò un’occhiata perplessa: non aveva risposto alla domanda. Forse non aveva capito o lui si era espresso male. Lo vide fermarsi e portare il peso su una gamba, grattandosi la nuca.
«È il ricevitore della squadra seniores.» spiegò infine.
            Loris prese il borsone contenente l’armatura del ricevitore, mentre Ezio prendeva i caschetti e richiudeva il box.
«È più grande di noi?» esclamò Loris sorpreso. «Non l’avrei mai detto. Pensavo facesse parte dei cadetti.»
«Sì, se non sbaglio dovrebbe avere ventidue anni.»
A fatica portarono tutto il materiale in campo e Loris cercò Valerio con lo sguardo, inquadrandolo sul diamante a parlare con Diego. Gli riusciva difficile credere che quel tipo avesse così tanti anni più di lui: lo aveva scambiato per un coetaneo.
«Ehi, ma ti sei imbambolato?» borbottò Luciano dandogli una spinta.
            Loris si girò a guardarlo e si accorse che erano tutti pronti per iniziare l’allenamento. Allora sistemò gli occhiali sul naso e insieme agli altri iniziò a correre.

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Capitolo 2
*** 2 ***


«Vestiti.» ordinò Diego con tono perentorio.
            Loris deglutì e posò lo sguardo su Luciano, decisamente infastidito. Questi iniziò a togliersi l’armatura da ricevitore e a porgerla a Loris, il quale ci impiegò un bel po’ a vestirsi.
Era la prima volta che l’allenatore gli ordinava di ricoprire quel ruolo e tremava al solo pensiero: lui non era in grado di svolgerlo. Il ricevitore era colui che aveva l’intero gioco sotto controllo e doveva avere uno spiccato senso di strategia, nonché tattica e doveva conoscere a menadito gli avversari per poterli cogliere di sorpresa.
Sul monte di lancio, Ezio aspettava con pazienza e intanto lanciava la palla ad altri compagni per tenere caldo il braccio. Non gli andava a genio cambiare il ricevitore con il quale si intendeva a meraviglia, ma l’allenatore aveva deciso in tal senso e non poteva protestare. Sapeva già che quell’essere insignificante sarebbe stato un disastro e accarezzava l’idea di prenderlo a pallate come se fosse stato un sacco.
Loris Torri gli dava sui nervi. Non all’inizio, quando a nove anni era arrivato all’Urbe Baseball ed avevano allacciato amicizia, bensì in seguito, quando lui era cresciuto ostentando una certa sicurezza, mentre Loris era rimasto chiuso e riservato. Disprezzava quel volto spigoloso sormontato da occhiali brutti e quel corpo macilento che pareva doversi spezzare al primo soffio di vento.
C’era poco da fare: odiava Loris. Tuttavia non avrebbe protestato contro il volere dell’allenatore.
In quell’istante si accorse che Ombretta si era avvicinata alla rete metallica e osservava il suo ragazzo che si vestiva da ricevitore. Si domandò cosa ci trovasse in lui di così attraente, ricordando quando, da piccoli, avevano fatto parte della stessa squadra e lei e Loris erano sempre stati pappa e ciccia. Non che le cose con gli anni fossero cambiate: erano sempre innamorati come piccioncini e quel legame lo irritava.
Va bene, le avrebbe mostrato quanto poco valeva il suo amore.
            Soppesò la palla passandola dalla mano al guantone e quando vide che Loris si accucciava e si apprestava a ricevere, si posizionò sul monte.
Il primo lancio lo fece per testare la reattività dell’occhialuto e annuì appena quando vide che bloccava la palla con il guantone. Per un po’ si divertì a tirare con calma, per scaldarsi, fin quando l’allenatore fece cenno di iniziare.
            Sistemò meglio il berretto in testa, portò la mano che teneva la palla nell’altra guantata, alzò le braccia caricando e lanciò un missile.
Lo schiocco che si udì quando la palla entrò nel guantone di Loris accalappiò l’attenzione dei giocatori della squadra seniores che si allenavano sul lato opposto del campo e Valerio alzò il casco per osservare meglio.
            Ezio si incupì, domandandosi come avesse fatto Loris a prendere quella palla veloce e gettò un’occhiata a Ombretta che seguiva la scena con attenzione. Inspirò a fondo e si preparò per umiliarlo. Caricò e lanciò a una velocità impressionante per un sedicenne.
La palla sfuggì a Loris e schioccò sulla pettorina, facendolo barcollare. Stordito dal colpo, il ragazzo esitò e a quel punto l’allenatore urlò:
«La palla! Sii reattivo, cristo! La palla!»
            Il ragazzo sapeva che la palla era di primaria importanza e abbassò lo sguardo per vedere dove fosse caduta, ma quel gesto imbufalì Diego che sbraitò:
«Alza il casco, cristo! Gli avversari non aspettano il tuo comodo!»
            Loris ubbidì e a quel punto, libero dalla visuale a scacchi dovuta alle protezioni metalliche del casco, vide la palla in mezzo alle sue gambe e la prese in mano, rilanciandola a Ezio. Questi la prese al volo e non fece nulla per celare il sogghigno divertito.
            I successivi dieci minuti furono un incubo per Loris e un divertimento per Ezio, che già pregustava le risate nello spogliatoio.
            Quando l’allenamento ebbe termine e tutti andarono a farsi la doccia, Luciano commentò con aria saccente:
«Non ci si inventa ricevitori se non si ha quel ruolo nel sangue.»
«Sì,» accondiscese Ezio con tono mieloso, «ma occorre dare un’opportunità a tutti, anche agli incapaci.»
            Loris serrò le labbra per non rammentargli che si era limitato a lanciargli palle che in partita non avrebbe mai tirato, ignorando tutti i cenni che lui gli faceva. Preferì rimanere in silenzio, cullandosi nella certezza che, se si fosse allenato adeguatamente, sarebbe stato un buon ricevitore. L’allenatore probabilmente si era accorto delle sue potenzialità e lo aveva messo alla prova.
            Si spogliò e raggiunse gli altri sotto la doccia. In quel momento arrivarono anche i giocatori della squadra seniores. La cacofonia di voci si amplificò e risa e battute si alternarono a commenti sarcastici e rivisitazioni di situazioni in campo.
            Loris si insaponò, passò lo shampoo e strofinò bene la testa, lo sguardo fisso sulle maioliche, le orecchie chiuse. Come sempre gli dispiaceva lasciare il diamante, ma ormai era sera e doveva ancora finire i compiti.
«Se solo avessi lanciato meglio, lui avrebbe preso ogni palla.»
            Quel commento lo strappò dalle proprie riflessioni e si accorse che Valerio aveva risposto a una battuta di Ezio. Vide il volto tirato di quest’ultimo attraverso il getto dell’acqua e un secondo dopo la visuale fu riempita dal viso di Valerio.
«Sei stato bravo.» si complimentò questi iniziando a insaponarsi.
«Grazie.» rispose allontanandosi dalla doccia.
            Si avvolse nell’accappatoio e si avvicinò al borsone per prendere gli abiti e vestirsi. Solo dopo afferrò l’asciugacapelli e con calma si asciugò la massa informe e ondulata che gli circondava il viso.
«Io ho lanciato bene,» udì Ezio ribattere con stizza, «è lui che non è in grado di ricoprire quel ruolo.»
            Si girò verso le docce e vide i due ragazzi fissarsi in cagnesco.
«Io so quello che ho visto: un potenziale ottimo catcher che è stato in grado di prendere ogni palla prima che il pitcher decidesse di lanciare a caso.» ribatté Valerio con fermezza.
«Se ci fossi stato tu al suo posto, saresti riuscito a prenderle.» rincarò Ezio, per niente intimorito. «Anche Luciano le avrebbe prese.»
«Hai mai provato a fare il catcher, ragazzino?» borbottò Valerio lanciandogli un’occhiata sprezzante.
            Ezio sgranò gli occhi, l’acqua che continuava a cadergli addosso portando via il sapone e si girò verso Loris, come se fosse stato lui la causa della sua umiliazione dinanzi a un seniores.
            Loris ricambiò quello sguardo che, se avesse potuto, l’avrebbe incenerito e scrollando le spalle prese il borsone e se ne andò.
 
***
 
Suonò a casa di Ombretta e la madre della ragazza gli aprì.
«Ciao Loris.» lo accolse gioviale. «Vieni, si sta preparando.»
            Entrò in casa con un sorriso e la donna s’informò con tono preoccupato:
«Non farete tardi, vero?»
«No, assolutamente. Domani ho la partita, non voglio presentarmi stanco.» spiegò.
            Lei parve più sollevata e in quell’istante spuntò Ombretta, tallonata dal padre.
L’uomo stava facendo una smorfia che a Loris parve un fallito tentativo di sorridere e si domandò per quale motivo i genitori si preoccupassero così tanto. In fondo stavano solo andando in discoteca. Be’, rifletté, in realtà era la prima volta e aveva accettato solo perché Ombretta aveva insistito, visto che lui odiava la musica da discoteca.
            Il padre della ragazza lo guardò e chiese:
«Volete che venga io a prendervi?»
«Papà!» esclamò Ombretta indignata, girandosi di scatto a fissarlo con occhi spalancati. «Non siamo più bambini!»
«Lo so, ma siete ancora minorenni.» ribatté con falsa dolcezza.
«Non si preoccupi.» intervenne Loris. «Il venerdì sera la metro chiude presto, quindi non possiamo fare tardi.»
            L’uomo scambiò un’occhiata con la moglie e si rassegnò all’evidenza che la figlia fosse ormai una donna.
«Tenete i cellulari a portata di orecchio.» disse.
            Loris inarcò un sopracciglio, domandandosi se si rendesse conto dei decibel sparati in discoteca. Tuttavia non replicò e in quel momento Ombretta lo afferrò per la mano e lo trascinò verso l’uscita, non volendo più perdere tempo.
            Si diressero alla metro in silenzio e una volta sulla carrozza Ombretta studiò l’amico da capo a piedi, facendogli presente:
«Non ti sembra di essere vestito un po’ troppo ordinario?»
            Di riflesso a quella osservazione Loris abbassò lo sguardo, prendendo nota dei jeans e delle scarpe da ginnastica, della maglietta nera e del giubbotto jeans e alzò le spalle con noncuranza. Quindi studiò Ombretta lasciando vagare lo sguardo dalla minigonna alla maglietta scollata e sorrise.
«Stasera sembri quasi una donna!» esclamò divertito.
            Lei gli diede una spinta e toccò i capelli raccolti sulla nuca che lasciavano in bella mostra il collo sottile e lungo.
«La nostra prima volta in discoteca, ci pensi?» disse poi incapace di trattenere l’eccitazione.
            Loris annuì, non trovandoci nulla di esaltante in quell’uscita, se non per il fatto che il Muccassassina fosse un locale rinomatamente per gay sebbene frequentato da molti etero. A essere onesti provava un certo timore, non sapendo cosa avrebbe potuto trovare all’interno della discoteca.
«Chissà,» commentò Ombretta con aria sognante, «magari conosceremo l’anima gemella.»
            Loris scrollò le spalle senza neppure commentare e si concentrò sulla partita del giorno dopo. La prima di campionato era sempre elettrizzante e quell’anno iniziavano giocando in casa contro una squadra celebre per essere forte.
            Ombretta si incupì quando lo sorprese con espressione vacua, perso in un mondo tutto suo e gli assestò una gomitata nelle costole, richiamandolo al presente.
«Stasera ti proibisco di pensare al diamante! Ci penseremo domani, ok?» lo redarguì.
            Loris si piegò sotto il colpo e quando ebbe ripreso fiato domandò:
«Assisterai alla partita?»
«Certo! Come al solito.»
            Quella risposta parve rilassarlo e osservò l’amica rivolgendole un caldo sorriso.
 
***
 
            Seguì lo spettacolo ai piedi della pedana, abbagliato dai giochi delle luci, dai lustrini, dai corpi seminudi messi in bella mostra dai ballerini, nelle orecchie l’assordante musica house. Al suo fianco, Ombretta sembrava accalappiata dall’atmosfera e ballava stando sul posto. Del resto non poteva fare altrimenti, poiché erano stretti come sardine.
            Si accorse che un ragazzo lo fissava con evidenti intenzioni e abbozzò un sorriso, distogliendo l’attenzione per non incoraggiarlo.
«Andiamo a prendere qualcosa al bar?» urlò nell’orecchio di Ombretta.
            Lei tentennò incerta, tornò a osservare i ballerini sul palco e alla fine accettò. Si fecero largo a gomitate e solo dopo qualche metro iniziarono a respirare meglio.
«È tutto fichissimo!» esclamò lei con occhi brillanti. «E fa un caldo pazzesco!» aggiunse sfilandosi la maglietta e rimanendo in reggiseno.
            Loris si incupì e stava per dirle qualcosa, quando una ragazza si avvicinò a Ombretta e le parlò all’orecchio, allungando la mano sul suo seno. Lei si irrigidì e si scansò con un moto di stizza. Sbraitò qualcosa e l’altra rispose con un gesto eloquente delle dita.
«Stronza.» sibilò avvicinandosi a Loris. «È difficile capire che non sono gay?»
«Cosa ti aspettavi?» rispose lui con condiscendenza. «Siamo in un locale gay, sei carina, è normale che le donne ci provino.»
            Indispettita, Ombretta lasciò cadere l’argomento e si rivestì, prima di combinare altri guai. Si avvicinarono al bancone circondato da molta gente in attesa di essere servita e con pazienza si misero in fila.
«Allora?» domandò lei curiosa. «Hai trovato qualcuno che ti interessa?»
            Loris fece una faccia strana e rispose:
«Parecchi, a dire il vero. Ma sono io a non interessare a loro. Solo un tipo mi ha fissato, però non mi piaceva.»
            La ragazza scosse la testa e ribatté:
«Te lo avevo detto che sei vestito in modo troppo dozzinale.»
«Ma cosa c’entra?»
            Lei allungò le mani e gli sfilò gli occhiali, facendo un gesto per indicarlo.
«Vedi?»
«No, non ci vedo.»
            Ombretta impiegò alcuni secondi prima di scoppiare a ridere, spiegando:
«Ma no, scemo! Vedi, sei carino eppure la gente non sa andare oltre le lenti. Se non conoscessi le tue preferenze, ci proverei: sei adorabile.»
«Che idiozie.» borbottò riprendendo gli occhiali e rimettendoli sul naso.
            In quell’istante lo sguardo gli cadde su un ragazzo che sorrideva a un altro e gli accarezzava i capelli con modi seducenti. Si irrigidì e aprì la bocca per dire qualcosa, senza riuscirci. Ombretta se ne accorse e lo afferrò per un braccio, scuotendolo.
Ma Loris rimase con gli occhi puntati su Valerio che baciava l’altro ragazzo e l’unica cosa che riuscì a fare fu di sbattere le palpebre, stupefatto.
Si scosse solo quando Valerio alzò lo sguardo continuando a sorridere e il sorriso gli morì sulle labbra nel momento in cui lo riconobbe.

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