Cards Speak for Themselves

di LyaStark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Realgar ***
Capitolo 2: *** La Ladra ***
Capitolo 3: *** Il Traditore ***
Capitolo 4: *** La Scommessa ***



Capitolo 1
*** Realgar ***


CARDS SPEAK FOR THEMSELVES
 
REALGAR
 
Look, if you had one shot, one opportunity
To seize everything you ever wanted
One moment
Would you capture it or just let it slip?”

Lose Yourself, Eminem
 
Erano quindici anni che la nave Realgar solcava la rotta tra Veran e Encondida, trasportando il rame da quest’ultima alla capitale. Il dirigibile tracciava la sua strada nel cielo battendo la bandiera arancione e grigia della Compagnia dei Mercanti, la più potente gilda commerciale di tutto il mondo conosciuto.
Qualsiasi capitano che desiderasse trasportare merci all’interno dell’Impero doveva sottostare alle sue regole. I profitti erano prestabiliti, le rotte e i tempi di percorrenza definiti. Non erano contemplati imprevisti, malfunzionamenti o ritardi. Ogni ingranaggio di quella macchina perfetta che era la Compagnia doveva operare perfettamente, in ogni momento e in ogni luogo.
I furti e le truffe erano severamente puniti.
Dai dirigibili in partenza dalla capitale si potevano vedere i cadaveri dei ladri, penzolanti da lunghe funi attaccate ai moli del porto. C’erano capitani, marinai semplici, timonieri e macchinisti. La Compagnia non perdonava nessuno, non accettava nessuna giustificazione. Quei corpi non erano nient’altro che un monito. Chi ruba verrà punito, dicevano. Ricordate a chi dovete la vostra lealtà.
Nessuno avrebbe cercato di rubare alla Compagnia, almeno non chi era ancora affezionato alla propria vita. La paura dell’impiccagione e l’efficienza della polizia privata della gilda erano più che sufficienti per scoraggiare qualsiasi tentazione. I troppo deboli per resistere avevano vita breve.
Chi ruba verrà punito.
Tutti, anche i non affiliati, la riconoscevano come la regola aurea della gilda. Era talmente inflessibile che non ci si sarebbe stupiti se fosse stata il motto stesso della Compagnia. Era una garanzia sia per i compratori che per i venditori, necessaria perchè tutto funzionasse al meglio e i profitti fossero sempre in aumento.
Chi ruba verrà punito.
Era come affermare che il cielo era blu o che il sole sorgeva a est. Un’ovvietà. Tutti avrebbero fatto bene a tatuarselo in testa. Se cercavi di fottere la Compagnia, era la Compagnia a fottere te.
Chi ruba verrà punito.
Era la legge, e la legge valeva per tutti.
O perlomeno per quelli che venivano scoperti.
 
▪▪▪
 
Quando la avvicinarono, Ella Sheridan stava finendo di bersi i suoi ultimi rigali in una squallida taverna nel porto di Encondida. Aveva perso la paga di un mese in una disastrosa partita a quattro assi che non era finita in sangue solo per la comparsa di tre robusti galoppini con altrettanto robusti manganelli.
Alla dannazione pensò, guadagnandosi un’occhiataccia dal suo vicino al bancone. Probabilmente l’aveva detto ad alta voce. Era troppo ubriaca per riuscire a capire bene cosa stesse facendo.
– Alla dannazione! – ripeté, fissando meglio il suo vicino e alzando il boccale di legno in un brindisi immaginario. Un po’ di birra scura cadde per terra, schizzandole sugli stivali. Rise all’occhiata disgustata dell’uomo per poi tornare a dedicarsi al fondo del suo bicchiere, l’ilarità scomparsa di colpo.
La verità era che non aveva più un rigale. Si era giocata tutto, dai soldi all’onore, dietro a un amore per le carte che non era più ricambiato da mesi. Aveva sperato di vincere qualcosa con la paga del mese ma ogni moneta che aveva scommesso era svanita nelle tasche nei suoi avversari. Aveva debiti in tutta la capitale e nessuno che potesse farle credito. Nemmeno sua madre, che aveva mantenuto per anni dopo la morte di suo padre, sembrava più disposta a prestarle dei soldi.
Sheridan chiuse gli occhi, sentendo il mondo ruotare senza assestarsi. Sogghignò, pensando che era una bella definizione di quell’ultimo periodo della sua vita. Sentiva l’inizio di un mal di testa da birra scadente iniziare a batterle contro le tempie. Non aveva idea di come sarebbe sopravvissuta una volta a Veran. Probabilmente non l’avrebbe fatto. I suoi creditori le avevano fatto ben presente che se non fosse tornata con i soldi l’unica cosa che avrebbe ricevuto da loro sarebbe stata una coltellata nella schiena.
Se fosse stata imbarcata su una nave normale avrebbe potuto chiedere al capitano Chapman un anticipo sulla paga del mese seguente, ma la Realgar era nella Compagnia dei Mercanti. E ovviamente, nella stramaledetta Compagnia, chiedere credito era proibito per qualche stupido, insulso motivo.
– Alla dannazione anche la Compagnia – borbottò mentre alzava il boccale e tracannava gli ultimi sorsi di birra. Stava per chiedere un secondo giro all’oste quando una voce la precedette, interrompendola.
– Io non prenderei altro, se fossi in te. –
– E io non ho chiesto la tua stramaledetta opinione – rispose Sheridan, girandosi. La voce apparteneva a un uomo minuto, seduto sullo sgabello di fianco a lei come su un trono. Trasudava sicurezza da ogni poro. I suoi lineamenti sembravano tremolare nell’aria viziata del locale. Sheridan socchiuse gli occhi per metterlo a fuoco.
– Non ti conosco – mormorò, biascicando solo leggermente le parole. – Se sei qui a nome di Denavi, digli pure che avrà i suoi soldi. –
Lo sconosciuto sorrise. – Non sono qui per Denavi. –
– Meglio. Perché non è vero – Sheridan ridacchiò. – Perché diamine sto vedendo il fondo del mio bicchiere? – gridò, richiamando l’oste.
– Cinque rigali se non versi più da bere alla signora – lo sconosciuto iniziò a impilare monete sul bancone. Gli occhi del taverniere si dilatarono mentre vedeva la paga del giorno venirgli fornita senza fatica.
– Sissignore – rispose arraffando il denaro e allontanandosi. – Come desiderate. –
Sheridan aveva assistito alla scena chiedendosi se fosse uno scherzo della sua mente ubriaca. Si girò meglio sullo sgabello, fronteggiando lo sconosciuto. Non le piaceva che qualcuno le impedisse di bere, soprattutto non quando era l’unica cosa che poteva fare per dimenticarsi che la sua vita sarebbe finita di lì a breve.
– Si può sapere chi cazzo sei? – ringhiò, ogni traccia di divertimento scomparsa. La sua mano si spostò sull’elsa della spada che portava in vita, la sbornia per il momento attenuata dalla rabbia.
Lo sconosciuto non si scompose. – Pace – rispose. – Sono solo qualcuno che vorrebbe parlare con te. Possibilmente da sobria. –
– Allora sei fuori tempo massimo. –
– Non credo – l’uomo tirò fuori dalla casacca una boccetta piena di liquido rosato, che assomigliava al vino annacquato. Poi prese il boccale di Sheridan e ce la rovesciò dentro. – Bevi – ordinò.
Sheridan scoppiò in una risata. – Potrebbe essere qualsiasi cosa. Io quella robaccia non la bevo. –
– È ciran – Lo sconosciuto spinse il boccale verso di lei. – E lo berrei, se fossi in te. –
Sheridan scosse la testa, sentendo il mondo girare. – No, grazie. Non ci tengo a finire avvelenata in questo buco. –
L’uomo sospirò, poi allungò la mano verso il boccale e bevve un sorso. – Soddisfatta? –
Sheridan non rispose, fissando lo sconosciuto negli occhi e portandosi il bicchiere al viso. Annusò con attenzione, stupendosi di riconoscere le note amare del ciran. Ovviamente lo conosceva. Era un infuso che era in grado di spazzare via gli effetti dell’alcol in una manciata di secondi. L’aveva già usato, una volta. Gliel’aveva dato il suo capitano quando il mattino dopo un trasporto merci si era ritrovata così ubriaca da non poter controllare la sala macchine. Era miracoloso e troppo caro per chiunque non fosse disposto a spendere come per una piccola casa per aggiudicarselo.
Sheridan tirò giù l’infuso in una golata, suo malgrado incuriosita. Chi era quell’uomo, disposto a spendere centinaia di monete per parlare con lei in quel momento quando avrebbe potuto aspettare la mattina seguente? E comunque, anche se fosse veleno, sarebbe più misericordioso di quello che Devani ha in mente per me, pensò mentre sentiva il liquido scendere gelido attraverso il suo esofago.
Batté il boccale contro il bancone, sforzandosi di non vomitare. Come tutte le medicine, il ciran aveva un sapore orrendo.
Sheridan respirò profondamente, sentendo già gli effetti dell’infuso. La nebbia che le aveva avvolto il cervello si diradò, il mal di testa retrocesse a un lieve pulsare prima di sparire del tutto. Il rossore se ne andò dalle sue guance e la sua vista si fece più acuta. In qualche minuto era tornata l’efficiente Ella Sheridan, macchinista della nave Realgar della Compagnia dei Mercanti.
– Chi sei? – domandò, osservando meglio lo sconosciuto. Aveva una faccia banale, occhi e capelli scuri, una barba curata a coprirgli il mento. Non aveva armi e portava vestiti puliti anche se non nuovi. Le maniche della camicia erano arrotolate e un orologio meccanico faceva capolino da una tasca del gilet lasciata aperta. Sheridan era assolutamente certa di non averlo mai visto prima.
– Puoi chiamarmi Sarin. –
Sheridan inarcò un sopracciglio, mentre le labbra le si piegavano in un sorriso sardonico. Il sarin era un gas nervino che era stato utilizzato nella Guerra dei Dieci Giorni, non troppo tempo prima. Non aveva una buona fama.
– E sono sicura che sia il tuo vero nome – rispose ironica.
– L’unico che saprai e che ti interessa sapere, Ella Sheridan. –
– Come sai chi sono? –
– So molte cose di te – Sarin si mise più comodo sullo sgabello. – So che sei capo macchinista sulla Realgar. So che devi essere intelligente, per aver preso quel posto a soli venticinque anni. So che sei piena di debiti e con una passione smodata per il gioco d’azzardo. So che hai una madre e una sorella più piccola che ti aspettano a Veran. –
Sebbene fosse impressionata Sheridan si sforzò di non mostrare il suo stupore. Incrociò le braccia, assicurandosi che la lama nascosta nella sua manica fosse pronta all’uso. Non le piaceva la piega che aveva preso il discorso.
– Perché mi spii? –
Sarin sorrise. – Perché credo che tu possa essere la persona che mi serve. Per un lavoro. –
– Ce l’ho già, un lavoro. E si dà il caso che mi piaccia anche. –
– Senza dubbio – Sarin infilò le dita nel borsellino che portava alla cintura, facendolo tintinnare in un suono piacevole. Quando poggiò la mano sul bancone al di sotto si potevano intravedere i bordi di una moneta. – Ma è anche ben retribuito? –
Sarin spinse il denaro, che scivolò sul bancone fino a fermarsi davanti a Sheridan. Il bagliore dorato non l’aveva illusa: quello era davvero un aureo. Un aureo intero, puro, ancora luccicante. La macchinista sentì i suoi occhi spalancarsi. Era l’equivalente di quasi metà del suo debito presso Devani.
Si costrinse a rimanere fredda ma i suoi occhi faticavano a staccarsi da quella moneta. – Hai la mia attenzione, Sarin. –
L’uomo sorrise. – So che hai bisogno di denaro se vuoi continuare a vivere. Quell’aureo potrebbe essere tuo. Ma potresti guadagnarne altri. Molti altri. –
Sheridan tacque, sapendo in fondo dove quello sconosciuto volesse andare a parare. Se lo sentiva nelle ossa ma non aveva il coraggio di pensarlo, figurarsi di dirlo.
– Questo, però, non è il posto adeguato per parlarne – Sarin si alzò con un sospiro, riprendendosi la moneta. Le sue ginocchia scricchiolarono quando ci caricò sopra il peso. Con la coda dell’occhio Sheridan vide il luccicare di una protesi d’ottone tra il pantalone e la scarpa.
– Se sei interessata al discorso, aspetta dieci minuti da quando me ne sarò andato e poi esci anche tu. Svolta a destra nella via e prosegui per cento metri, poi gira di nuovo a destra. Sulla sinistra della strada ci saranno delle porte. Entra nella terza: la troverai aperta. E con questo aureo ad aspettarti. –
– Perché dovrei fidarmi? –
Sarin sorrise. – Perché non hai altra scelta. –
L’uomo si allontanò senza un saluto, le mani in tasca, sicuro di sé in una maniera quasi sfacciata. Sheridan rimase immobile sul suo sgabello, gli occhi fissi sul posto che la moneta aveva occupato sul bancone. Sentiva ancora il bagliore dell’oro stampato sulla sua retina. Dio, era la paga di quasi un anno per molta della gente che si trovava in quel posto e poteva significare la vita per lei. O almeno una boccata d’aria nel mare di merda in cui stava affogando. Avrebbe potuto tenere Devani a bada per un altro po’. Agli altri debitori poteva pensare con più calma. Si sentiva talmente sollevata che le sembrò di galleggiare sullo sgabello.
Guardò l’orologio che portava al taschino. Erano passati cinque minuti da quando quel Sarin se n’era andato. Sheridan fissò la porta, dolorosamente consapevole del vuoto del suo borsellino. In cuor suo, sapeva cosa Sarin le stesse offrendo: furto. E la Compagnia non tollerava i ladri.
Chi ruba verrà punito.
Sheridan, come chiunque altro sulla pidocchiosa faccia del pianeta, sapeva cosa volesse dire cercare di fregare la Compagnia. Ma un aureo… un aureo era più di quanto avrebbe mai potuto guadagnare prima del termine dell’ultimatum di Devani. Infinitamente di più. Con due aurei, sarebbe stata quasi libera. Con tre… beh, era quasi impossibile che avrebbe guadagnato tanto. Ma a una donna è concesso sperare.
Sheridan sorrise. Su un piatto della bilancia c’erano le lame di Devani, sull’altro quelle della Compagnia. Per il momento, però, quelle dell’usuraio erano molto più reali e tangibili, molto più vicine alla sua gola.
Sheridan si alzò, dirigendosi verso la porta con un sorriso.
In fondo, Sarin aveva ragione. Che altra scelta aveva?
 
▪▪▪
 
La porta nel vicolo era aperta, proprio come le aveva detto Sarin. Sheridan non era una sprovveduta e sapeva benissimo che molti incontri organizzati come quello terminavano con molto sangue versato e un morto sulle banchine del porto. Però, come sempre quando si infilava in una situazione pericolosa, non era agitata. Solo euforica.
Aprì la porta e si ritrovò in una stanza buia. La luce flebile della strada passava dalle finestre sporche, permettendole di distinguere solo qualche dettaglio. La camera era spoglia, disabitata. Su un lato si intravedevano delle scale pericolanti che portavano al piano di sopra. Una figura si muoveva nell’ombra.
Sheridan portò la mano all’elsa della spada, pronta a combattere se fosse stato necessario.
– Pace – la calmò la voce di Sarin. – Sapevo che saresti venuta. –
Una piccola fiammella illuminò la stanza. Era persino più squallida che nel buio.
– Vieni. –
Sheridan seguì Sarin su per le scale, sentendo il cigolio del legno a ogni passo. Il contrasto con il piano di sotto la lasciò senza fiato. Ogni oggetto, in quella stanza, urlava a gran voce ricchezza. Le pareti erano decorate con una carta da parati di un verde bosco, attraversata da disegni di appena un tono più chiaro. Alternati alle lampade accese c’erano quadri che persino ai suoi occhi ignoranti sembrarono magnifici. Le finestre murate erano dipinte mostrando uno scenario immaginario, di pieno giorno, talmente realistico che cozzava con la consapevolezza di Sheridan che là fuori fosse notte.
Al centro della stanza si alzava un’imponente scrivania di legno scuro, pregiato, piena di carte e libri e documenti. Un calamo e una penna dorati erano appoggiati sul ripiano, pronti per essere usati. Sheridan vide tutto questo in un battito di ciglia, lasciandosi colpire da quella ricchezza come da un maglio. Era talmente stordita che ci mise qualche istante a notare le persone che si trovavano in quella stanza.
Sarin era davanti a lei e la fissava con un sorriso compiaciuto. Appoggiati ai muri della stanza o seduti nelle sedie agli angoli c’erano altri uomini e donne che la guardavano seri. Nessuno di loro sembrava in qualche modo minaccioso, né impugnare un’arma. Sheridan sentì un brivido di sollievo percorrerla.
– Miss Sheridan, avanti. –
L’uomo che le aveva parlato era in piedi dietro la scrivania, le mani impegnate a sistemare dei fogli e un sorriso dipinto in viso. Vestiva una redingote blu notte che probabilmente valeva da sola quanto tutto quello che lei possedeva. Al di sotto si intravedeva una camicia di un bianco quasi accecante, abbottonata fino al collo e chiusa da una cravatta grigia. Sopra al viso sottile aveva capelli rossi che lo facevano assomigliare a una volpe. Gli occhi erano piccoli e scuri e osservavano Sheridan con un’intelligenza fuori dal comune. Avrebbe potuto avere una cinquantina d’anni.
– Lasciateci – ordinò ai suoi uomini, che uscirono chiudendosi la porta alle spalle. – Benvenuta. Il mio nome è Renard. Accomodatevi, prego – le indicò con una mano guantata una delle sedie imbottite davanti alla scrivania.
Sheridan avanzò, per niente stupita da quel soprannome. Renard, la volpe. Non ci sarebbe stato niente di più azzeccato.
– Avete dei nomi fantasiosi – mormorò sedendosi.
La bocca di Renard si inclinò in un sorriso che non si allungò agli occhi. – Forse. Ma converrete con me che in certi affari è più sicuro che affidarsi ai nomi normali. –
– Quindi, al momento, l’unico nome noto qui è il mio. Cosa volete da me? –
– Non desidero insultare la vostra intelligenza, Miss Sheridan. Siete una persona sveglia, vi sarete già fatta un’idea. –
– Vorrei sentirlo dire da voi. –
– Siamo dei ladri. Niente di più, niente di meno. E vogliamo rubare alla Compagnia. –
Sheridan non si aspettava nulla di diverso. Scoppiò in una risata priva di divertimento. – Chi ruba verrà punito – citò. – Ho visto troppi corpi pendere dalla forca per dimenticare questo preciso messaggio. Nessuno ruba alla Compagnia. Ditemi perché non dovrei alzarmi in questo istante e andare a denunciarvi. –
– Perché non avete un soldo – Renard iniziò a camminare per la stanza, girando attorno alla sedia di Sheridan. I suoi passi quasi non facevano rumore. – E più prossima alla morte di quanto non siate mai stata. Conosco l’entità del vostro debito e sapete meglio di me che non avete speranza di ripagarlo. Non fatemi tenere questo teatrino in cui fingo di dovervi convincere a fare qualcosa che è la vostra unica possibilità di salvezza. –
Sheridan si mosse irrequieta sulla sedia. – Come fate a sapere tutte queste cose? –
– Vi tengo d’occhio da molto tempo. Una sorta di patto con vostro padre. –
A quelle parole Sheridan sobbalzò. Suo padre era morto quando lei era piccola. Aveva avuto il suo stesso posto sulla Realgar ed era stato ucciso durante un abbordaggio. La Compagnia gli aveva dato funerali solenni e aveva poi assunto Sheridan quando aveva avuto quattordici anni. Di soldi, ovviamente, non se n’erano visti. Lo ricordava poco, ma di una cosa era certa: non era mai stato un ladro.
– Mentite. –
Renard si fermò, accarezzandosi il mento. – Thomas Sheridan, capo macchinista sulla Realgar. Capelli biondi, occhi scuri, cicatrice sulla guancia destra. Beveva solo whisky, diceva che non gli lasciava il mal di testa al mattino. Aveva, come qualcuno di mia conoscenza, una passione per le carte non ricambiata. Ed era un ladro. Mai scoperto dalla Compagnia, peraltro. –
Sheridan era scossa. Quella era la descrizione di suo padre, ma chiunque avesse parlato con lui per poco, o l’avesse seguito, avrebbe scoperto le stesse cose.
– Immagino che questi pochi dettagli possano non convincervi del tutto – continuò Renard. – Allora lasciate che vi dica qualcosa che potrebbe fugare ogni vostro dubbio. Vostro padre aveva un oggetto che portava sempre con sé. Una piccola clessidra di vetro e rame, con dentro pochi minuti di sabbia grigia e fine. Se non sbaglio, e imparerete presto che sbaglio con estrema difficoltà, l’avete con voi. –
Le mani di Sheridan corsero al suo collo, stringendo la clessidra che portava sotto i vestiti. Era un oggetto piccolo, un ninnolo che le era stato recapitato in un giorno di pioggia nella casetta dove viveva con sua mamma e sua sorella, quando aveva otto anni. La notizia che il padre era morto le avrebbe raggiunte solo dopo qualche giorno, ma dal momento che la clessidra era arrivata avevano capito che doveva essere successo qualcosa di brutto. Thomas non se ne separava mai.
– Una persona arguta come voi deve essersi accorta che, stranamente, non funziona – il tono ironico di Renard le diede una scossa di fastidio sulla schiena. Quell’uomo aveva ragione: la clessidra non funzionava. Le aveva provate tutte, sin da quando le era stata data, ma la sabbia non ne voleva sapere di scendere. Era rotta, per quanto ne sapeva lei. Aveva anche cercato di ripararla, ma presto aveva deciso di lasciar perdere. Se suo padre era stato affezionato a una clessidra che non funzionava non stava a lei tentare di rimetterla a posto.
– Esatto – rispose con un sorriso gelido. – Non funziona. –
– Non è che non funziona – Renard tornò a sedersi. – È che non avete trovato la chiave. –
Sheridan si mise più comoda sulla sedia, incrociando le braccia. – Sentite, è l’una passata e io sono stanca di tutte queste stronzate. Non è un dannato lucchetto, è una clessidra. Non ha una serratura. –
Renard sorrise e tese la mano. – Se volete farmi una cortesia, datemela per qualche secondo. Vi giuro su Dio che non la romperò. –
Sheridan era incuriosita, suo malgrado. Si sfilò la catenella dal collo, tenendo la clessidra in mano per qualche istante. Era leggera, una struttura aggraziata di vetro incastonata tra due dischi del rame più puro. Brillava arancione alla luce delle fiammelle che illuminavano la stanza. La sabbia sembrava come pressata all’estremità superiore, incapace di scendere. L’aveva osservata talmente tanto da averci perso la vista, ma non c’era mai stata traccia di serratura.
La porse a Renard. – Prendete. Se ci tenete così tanto a fare una figuraccia non sarò io a fermarvi. –
L’uomo la ringraziò con un cenno del capo. Poi, dopo averla osservata per qualche istante con aria concentrata, Renard diede una rapida torsione ai due bulbi, ruotandoli in senso opposto. Sheridan saltò sulla sedia e lanciò un urlo, allungandosi sulla scrivania, aspettandosi di vedere pezzi di vetro e sabbia sul ripiano.
– Perdonatemi, ma era necessario – Renard la guardò con un sorriso sornione, tenendo in una mano la clessidra integra e nell’altra una delle due aste dell’intelaiatura. Era lunga e sottile come un ago, e terminava con una piccola struttura a pettine. Era senza ombra di dubbio una chiave.
– Incredibile – mormorò Sheridan, prendendo i due pezzi dalle mani di Renard. Si frugò nelle tasche alla ricerca del monocolo che portava sempre con sé, infilandoselo per osservare quel piccolo capolavoro di meccanica. Le strutture di rame che reggevano la clessidra avevano ruotato su sé stesse con la torsione, liberando una piccola serratura e rilasciando la chiave.
Sheridan si rigirò i due oggetti tra le mani, studiandoli, mentre Renard parlava. – Come potrete immaginare, vostro padre era sicuro che nessuno avrebbe mai usato una clessidra in questo modo. Geniale, non è vero? Thomas era un uomo di viva intelligenza. Non ho mai incontrato nessuno che fosse abile come lui con le invenzioni e gli ingranaggi – vedendo che non faceva niente la spronò. – Usatela, suvvia! –
Sheridan fece come l’uomo gli consigliava. Piano, come se avesse paura di romperla, infilò la chiave nella serratura. La girò dolcemente, lasciando che il rumore di ingranaggi che ruotavano le colmasse le orecchie, tranquillizzandola.
La clessidra si sbloccò con un clic. La sabbia grigia, che le era sempre sembrata incollata a uno dei bulbi, inizio a scorrere.
– Incredibile – ripeté Sheridan, incapace di pronunciare qualsiasi altra cosa. Alzò gli occhi verso Renard, rimanendo sconvolta. Il ladro era immobile. Sul viso aveva un’espressione entusiasta, gli occhi erano spalancati e rivolti verso le mani di Sheridan. Le palpebre non sbattevano. Le labbra erano aperte, come se fosse sul punto di dire qualcosa, lasciando intravedere la superficie dei denti.
Sheridan era perplessa.
– Renard? – mormorò, agitandogli la mano davanti al viso. Non ottenne nessuna risposta. – Ma che diavolo… –
Sheridan si alzò guardandosi intorno, cercando di capire cosa fosse successo. Tutto era bloccato nella stanza. Il fuoco del camino era fermo, le scintille immobili. Persino l’aria sembrava sbagliata, statica. Sheridan si alzò, la clessidra ancora in mano. Sembrava essere l’unica cosa in grado di muoversi lì dentro. Tutto era silenzio.
Cos’è questa clessidra?
Le sembrava incredibile che suo padre avesse inventato un oggetto del genere. Quell’affare era in grado di fermare il tempo. Sembrava impossibile. Dove aveva trovato le competenze? Come mai aveva scelto di tenere segrete le sue scoperte e non di venderle agli Alchimisti? Sheridan poteva immaginare senza sforzo quanti soldi avrebbe guadagnato se avesse deciso di commercializzarla. Poteva avere usi pressoché infiniti: nella vita di tutti i giorni, nel commercio, in guerra. Era un’invenzione geniale.
Si portò la clessidra davanti agli occhi, ruotandola. I pochi minuti di sabbia scivolarono di nuovo nel bulbo inferiore. All’improvviso la stanza si rianimò.
Come se non fosse passato nemmeno un istante Renard si sistemò meglio sulla sedia, finendo il movimento iniziato minuti prima. – Senza parole, vero? –
– È... non ho mai visto niente del genere prima. Come funziona? –
– Non lo so – Renard scosse la testa. – Nessuno lo sa. L’ha progettata tuo padre, gli schemi sono andati persi con lui. Bisognerebbe smontarla per capire come funziona. –
Sheridan tolse la chiave dalla piccola serratura, tenendola in mano. – Non ho nessuna intenzione di smontare un oggetto del genere. Rischierei solo di romperlo – si risedette, incapace di staccare gli occhi dalla clessidra. – Cosa è in grado di fare? –
– Blocca il tempo – Renard non riuscì a trattenere un sorriso. – Per tutti coloro che si trovano nello stesso ambiente del portatore. Escluso il portatore, ovviamente, come avrete ben capito. Lascia dietro di sé solo una piacevole sensazione di déjà-vu. –
– Quanto dura l’effetto? –
– Una decina di minuti in cui un intero edificio o una nave possono essere bloccati. Minuti più che sufficienti per un gran numero di cose – Renard prese un aureo dalla tasca, lanciandolo verso Sheridan.
La macchinista lo prese al volo, rigirandoselo tra le dita. Lo fissò con un sorriso per niente rassicurante, feroce.
– Parlatemi di nuovo di questa rapina alla Compagnia. –
 
▪▪▪
 
Sheridan dormì poco quella notte, nella sua cuccetta sulla Realgar. Nella tasca della giacca sentiva il peso confortante della moneta e in testa sentiva le parole di Sarin e di Renard. Se la sera prima gliel’avessero detto, non ci avrebbe creduto. Invece si ritrovava lì a progettare un furto, viva e con un intero aureo in tasca.
Il piano dei ladri era semplice: doveva usare la clessidra per rubare il rame alla Compagnia. Avevano definito i dettagli e Sheridan, da perplessa, si era via via convinta che avrebbero potuto farcela. Potevano frodare la gilda e vivere a sufficienza da sfruttare il ricavato. Sospirò, rigirandosi per la centesima volta nel letto stretto.
Non aveva mai pensato a sé stessa come a una ladra, ma non riusciva a vedere altre soluzioni. Renard aveva ragione: era indebitata fino al collo e più vicina alla morte di quanto non fosse mai stata. Poteva scegliere se avere una morte certa e impietosa per mano dei suoi debitori o se affrontare il pericolo costituito dalla Compagnia. Non era da lei arrendersi senza lottare. Renard gli aveva dato una possibilità di sopravvivere, sarebbe stato da stupidi non coglierla.
Rame, pensò, liberandosi dalle coperte. Un metallo così insignificante ma allo stesso tempo così prezioso. Senza quello, l’intera industria della capitale e dell’Impero era bloccata. Se non si fossero prodotti ingranaggi le macchine non avrebbero potuto funzionare e tutto il sistema di produzione sarebbe crollato. Non c’era più nulla, in quel lato del mondo, che non fosse stato industrializzato. Alla base di ogni moneta, di ogni singolo aureo, c’era il potere del vapore e dell’ingegneria. Rubare il rame voleva dire tentare di mettere in ginocchio l’Impero. La Compagnia non l’avrebbe mai tollerato.
Poi c’era la questione di suo padre. Lo ricordava come si ricorda la propria infanzia, una via di mezzo tra sogno e realtà. Era un uomo alto e imponente, biondo come lei. Rideva spesso e volentieri, soprattutto quando era con sua madre. Nonostante fosse quasi un gigante nella sua memoria, Sheridan ricordava l’estrema delicatezza delle sue mani e delle sue dita. Adorava vederlo lavorare nel piccolo studio di casa loro. Era sempre circondato da attrezzi strani, quasi pericolosi. Le parlava quando montava le sue invenzioni, spiegandole nel dettaglio quello che faceva. La passione di Sheridan per le macchine era nata in quei giorni, alla scrivania di suo padre, guardandolo assemblare ingranaggi che sembravano prendere vita sotto le sue mani.
Non aveva mai saputo che fosse un ladro e dubitava che persino sua madre ne fosse a conoscenza. In effetti, pensandoci, ricordava un tenore di vita di poco superiore a quello che ci si sarebbe aspettati dalla famiglia di un capo macchinista, ma aveva sempre pensato che fosse dovuto alle vendite delle invenzioni del padre. Se Renard le aveva detto la verità, Thomas Sheridan non era mai stato scoperto. Era morto per sbaglio, in uno stupido tentativo di proteggere il capitano della Realgar quando la nave era stata abbordata dai pirati.
Sheridan sapeva che Luther Chapman aveva considerato saldato il debito nei confronti di suo padre solo quando l’aveva aiutata a prendere il suo posto sul dirigibile. Lei era brillante, e lo sapeva. Una delle migliori macchiniste in circolazione. Ma ci voleva molto di più per assumere quella carica a venticinque anni. Il capitano Chapman l’aveva aiutata, garantendo per lei e facendo pesare il suo nome nella decisione della gilda.
Il capitano. Sheridan sospirò, stropicciandosi gli occhi. Avrebbe tradito anche lui, la fiducia che aveva riposto in lei. Se fosse stata catturata avrebbe infangato il suo nome agli occhi della Compagnia. Chi garantisce per un ladro non gode della massima reputazione. Mentre finalmente il sole sorgeva e illuminava la sua stanza dal vetro degli oblò, Sheridan capì che non gli doveva abbastanza da sacrificare la sua vita per lui. Lo avrebbe tradito e sarebbe sopravvissuta. Avrebbe potuto conviverci.
Si sedette sulla cuccetta, la camicia stazzonata e il gilet slacciato. Sbadigliò senza trattenersi, strofinandosi la faccia. Quella mattina salpavano per Venar, il ventre della Realgar talmente carico di rame che sembrava quasi stupefacente che riuscisse ancora a muoversi nell’aria.
Sheridan si alzò, dirigendosi verso il ponte superiore e verso la sua tazza di caffè nero. Solo due giorni la separavano dalla sua prima rapina ai danni della Compagnia.

 

Ciao a tutti e ben arrivati fin quaggiù :)
Spero che il primo capitolo di questa storia vi sia piaciuta. Partecipa a un contest, quindi i capitoli sono già belli pronti, solo in attesa di essere pubblicati. A tal proposito, spero che l'editing sia venuto bene. Ho dei problemi con la gestione dell'html, spero di non aver fatto troppi pasticci. 
Ci tenevo anche a spiegare un attimo il titolo, che in italiano può essere tradotto con "la carta canta". In pratica, vuol dire che la tua giocata è dettata dal valore di quello che hai in mano e dalle carte stesse, niente di quello che dirai o farai potrà cambiare il loro valore. Spero che, più in là con la storia, si capisca perchè ho scelto proprio questo titolo.
Ho finito di importunarvi con i miei svarioni, grazie ancora di essere passati da qui e di aver letto.
Lunghi giorni e piacevoli notti,

Lya

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Capitolo 2
*** La Ladra ***


CARDS SPEAK FOR THEMSELVES

LA LADRA
 
“And once you're gone, 
you can never come back 
When you're out of the blue 
and into the black”

Hey Hey, My My (Out of the Blue), Neil Young 
 
I giorni di navigazione sulla Realgar erano una gioia per Sheridan. Viveva per quella nave e lo dimostrava porgendole tutta la sua attenzione. Quello era il suo regno e non c’era altro luogo in cui si sentisse ugualmente a suo agio. Era casa sua molto più dell’appartamento striminzito che divideva con sua madre, ma a volte faceva di tutto per farla davvero incazzare.
– Dan! – urlò per la terza volta, mentre un getto di vapore a una temperatura ustionante colpiva il legno poco sopra di lei. Era sdraiata sotto alla macchina per la pressione, aveva i capelli sulla faccia e faceva un caldo maledetto. – La chiave! –
– ‘Riva! –
Una chiave inglese dorata le si materializzo accanto. La prese senza spostare gli occhi dallo scomparto che aveva aperto, dove un bullone stava palesemente cercando di evadere. Trafficò per alcuni minuti, sudando e mormorando parole a mezza voce, stringendo viti, ruotando ingranaggi e in generale rimettendo a posto quel casino che sembrava essersi autogenerato.
Riemerse da sotto quell’inferno metallico completamente anchilosata, con tracce di grasso sul viso sudato. Sfilò i pesanti guanti di cuoio e alzò il monocolo, fissando Dan con severità da sotto le sopracciglia corrugate.
– Dan – disse, sforzandosi di stare calma. – Da quanto sei qui? –
– Poco più di due mesi. –
– Poco più di due mesi, signore. Sono più alta in grado di te. Anzi, a dir la verità, sono più alta in grado di chiunque tranne il capitano su questa stramaledetta nave. –
– Sissignore. –
Dan non le piaceva. Era un ragazzo di circa tredici anni, capelli chiari e mani nervose, faccia magra sotto un cappello floscio che aveva visto tempi migliori. Era pigro, lento, con l’insopportabile capacità di sparire quando c’era bisogno di lui. Era sulla Realgar ma Sheridan non pensava ci sarebbe rimasto a lungo.
– E in due mesi non sei ancora riuscito a capire una cosa basilare. –
– Cioè, signore? –
– Cioè che se io ti chiamo tu corri! – Sheridan urlò a pieni polmoni, facendo sobbalzare un meccanico che stava lavorando lì vicino. – Se ti chiedo una chiave inglese tu me la porti in due stramaledetti secondi! – Sottolineò le ultime tre parole colpendo il tubo metallico che correva di fianco a lei. Il rumore riecheggiò per tutta la stanza. – E ora sparisci! Vai a importunare qualcun altro con la tua ignoranza! –
– Sissignore – Dan incassò la testa nelle spalle, indietreggiò e corse via rapido, su per le scale a chiocciola che portavano fuori dalla sala macchine e al resto della nave.
Sheridan sospirò, spostandosi nel suo ufficio e lasciandosi cadere sulla sedia. Sulla scrivania davanti a sé c’erano fogli sparsi e pezzi di ingranaggi. Si asciugò la fronte con la manica e prese l’orologio che portava sempre nella tasca, osservando le lancette ticchettare. L’ora stabilita con Renard si stava avvicinando.
Guardò le ampie finestre che si aprivano alla sua sinistra. Il cielo era di un blu cobalto attraversato da rare nuvole. In basso scorrevano le ombre dei paesini, distanti migliaia di piedi e grandi come modellini. Si sentiva strana e nemmeno quella vista, che di solito la calmava, serviva a placarla.
Sheridan chiuse l’orologio con un gesto secco. Il ticchettio delle lancette minacciava di farle esplodere il cervello. – Basta – mormorò alzandosi. Si spostò nella sala e salì la scala a chiocciola senza fretta, osservando le colonne di macchine funzionanti attorno a sé. Il caldo lì dentro era soffocante.
– Ottone! – gridò poco prima di uscire dalle doppie porte.
Un uomo con un vistoso braccio metallico si sollevò dal tavolo di lavoro. – Sì? –
– La sala è tua fino a che non torno. Se ci sono problemi sono sul ponte superiore. –
– Ricevuto, signore – Ottone sottolineò il titolo con una ghignata, accompagnato da tutti quelli che erano vicino a lui. Sheridan scoppiò in una risata prima di sparire dietro alle porte della sala macchine.
Il ponte superiore era così diverso che sembrava di entrare in un altro universo. Il vento spazzava la superficie di legno e il silenzio che regnava al piano di sotto era rimpiazzato dalle urla dei tenenti e dall’obbedire rumoroso dell’equipaggio. Sheridan fece un respiro profondo e si appoggiò al parapetto di prua, lasciando che l’agitazione scorresse via.
Sopra di lei si stagliava il pallone della Realgar, migliaia di metri cubi di elio che permettevano alla nave di librarsi in aria. Subito sotto si intravedeva il berretto di Charleston, il poveraccio che passava più tempo sulla coffa che sul ponte. Il vero panorama però era attorno a lei: centinaia e centinaia di miglia di cielo libero, dove il sole splendeva caldo. In lontananza, in basso, si vedevano le prime propaggini di Rindegar, città al limitare dell’Impero.
Le nuvole erano bianche e soffici come panna. Alcune Ozene si libravano attorno alla nave, attirate come al solito dal cibo lanciato dai marinai. Erano sinuose come serpenti marini, coloratissime e del tutto innocue. Si diceva che portassero fortuna.
– Sheridan. Strano vederti sopracoperta. –
Il capitano Chapman stava avanzando verso di lei. Capelli brizzolati, occhi neri, bastone di legno. La giacca della Compagnia, bottoni ramati su un profilo grigio, gli dava un’aria affascinante e severa allo stesso tempo. Aveva un’andatura zoppicante che era un lascito dello stesso giorno in cui era morto suo padre.
– Capitano – la macchinista si spostò per lasciargli spazio. – A volte persino io tradisco gli ingranaggi per il panorama. –
– Non stanca mai, vero? –
Sheridan non rispose, osservando un’Ozena che si attorcigliava attorno a una gomena. Il sole stava avanzando verso la linea dell’orizzonte, una striscia color ocra sfocata e indefinita.
– Tra pochi giorni saremo a Venar – il capitano appoggiò il bastone al parapetto e allacciò le mani dietro la schiena. – Ci vorrà del tempo prima di ripartire, ci sono dei controlli da fare. Prenditi qualche giorno lontano da questa vecchia signora. –
– Come no – Sheridan fece una smorfia. – Mia madre sarà così felice di riavermi a casa. Non vedo l’ora di risentire la solita tiritera su quando mi sposerò, sul lavoro che faccio e su quanto sono una delusione rispetto a Charlotte. –
Charlotte Sheridan, sua sorella e figlia perfetta. Già sposata e con un bambino in arrivo, era il ritratto della felicità coniugale. Che il suo matrimonio e il mantenimento della famiglia fossero stati garantiti dal lavoro di Ella quando la pensione di loro padre era finita, era un dettaglio che nessuno nella famiglia Sheridan sembrava voler ricordare.
Il capitano Chapman sorrise e, vedendo le sottili rughe che gli incresparono gli occhi, la macchinista si chiese non per la prima volta come potesse essere a letto. Il loro era sempre stato un rapporto particolare che travalicava quello prettamente professionale. Il fatto che il padre di Sheridan fosse morto per difendere il giovane capitano fresco di nomina li aveva resi più simili a un protettore e alla sua protetta. Aveva funzionato fino a quando Sheridan non era diventata il capo macchinista, rendendo la loro relazione più paritaria.
– Se proprio ci tieni tanto, la tua cuccetta sulla Realgar rimane aperta. Qualcuno rimane sempre sulla nave – Chapman si appoggiò al parapetto, le spalle verso il vuoto e il viso rivolto a Sheridan. – Cosa ti preoccupa? –               
La macchinista si girò di scatto, stupita dall’improvviso cambio di argomento.
– Niente. –
– Ella, ti conosco da quattro anni e la vita su una nave non lascia molto spazio a momenti privati. È abbastanza per capire che sei turbata – il tono si era fatto più confidenziale.
– Nulla di irrimediabile. E nulla per cui tu possa fare qualcosa, Luther, ma grazie – Sheridan non sapeva perché, ma piuttosto che parlare dei suoi debiti con il capitano si sarebbe fatta scuoiare. Per quanto riguardava il furto… era insensato anche solo pensare di poter confidarsi.
Chapman stava per dire qualcosa, la fronte corrucciata. Fu interrotto da un grido.
– Capitano! –
Il timoniere stava avanzando verso di loro a passo spedito. – Siamo vicini alle Losten. –
Sheridan trattenne un sospiro di sollievo. Quando Chapman si metteva in testa una cosa poteva essere insistente come un mastino. Le isole Losten erano un agglomerato di roccia e sassi coperti da vegetazione che per qualche bizzarro motivo fisico ruotavano in aria, intralciando la rotta delle navi e a volte finendoci contro. Erano abituati a passarci attraverso ma era sempre una manovra che richiedeva attenzione. Chapman preferiva condurre da sé la Realgar.
– Arrivo – il capitano recuperò il bastone. – Se mai decidessi di parlarne, Sheridan, sai dove trovarmi – si allontanò zoppicando, seguendo il timoniere.
– Grazie, capitano. –
La macchinista rimase ancora per qualche minuto sul ponte, osservando il punto dove sapeva che sarebbero spuntate le isole. Con un sospiro si staccò dal parapetto e si diresse verso la porta che conduceva al suo regno. Durante il passaggio avrebbero avuto bisogno di lei nella sala macchine.
 
▪▪▪
 
Il grosso problema su una nave era non poter avere un momento privato. Nonostante Sheridan fosse un ufficiale e in quanto tale godesse di una cabina tutta per sé, non era pensabile poter andare a spasso per la Realgar senza essere visti. C’era sempre qualcuno impegnato a governare la nave e in generale a impedire che sbagliassero rotta o finissero travolti da qualche tempesta.
Sheridan sapeva già che la notte del furto la nave sarebbe stata popolata né più né meno delle altre sere. Non poteva sperare di non usare la clessidra se voleva davvero farla franca. Si alzò dalla sua cuccetta in piena notte, la testa che continuava a ripeterle le varie cose che avrebbe dovuto fare.
Uno: alzarsi e andare sul ponte.
Sheridan non era riuscita ad addormentarsi, preda di una sensazione di ansia che le era sempre stata estranea. Le era già capitato di infrangere le regole, di rischiare la vita, di combattere. Mai, nemmeno una volta, era stata così agitata. Sentiva il cuore rimbombarle nelle orecchie mentre camminava sul legno della nave, attraverso la sala macchine e sulla scala a chiocciola. Stava per rubare alla Compagnia. Non sarebbe potuta tornare indietro.
Come previsto, il ponte era animato da una strana e confortante vita notturna. Tre o quattro uomini dormivano vicino al cassero, il timoniere guidava la nave. Anche senza vederlo, Sheridan sapeva che c’era un uomo sulla coffa, subito sotto al pallone della Realgar. La macchinista si avvicinò al parapetto, aspettando che arrivassero le due di notte. Sopra di lei la luna era uno spicchio argentato e le stelle brillavano luminose. Di solito si sarebbe divertita a cercare le costellazioni ma in quel momento non era dell’umore adatto.
– Non dormi nemmeno stasera? –
Il tenente di vascello Benson le si era avvicinato silenzioso come un gatto. Sostituiva lui il capitano durante la notte. Aveva in mano il rompicapo di legno che era diventato il suo simbolo distintivo. Ce l’aveva da quando Sheridan era salita sulla Realgar e non era mai riuscito a finirlo.
– Ebbene – Benson era abituato a vederla comparire di notte sul ponte. Sheridan non aveva mai dormito molto.
– Dovresti farti dare delle pastiglie o qualcosa del genere, a Veran. Non fa bene dormire così poco. –
– Lo sai che non posso – rispose. – Se succedesse qualcosa devo essere pronta ad alzarmi, non essere svenuta nella mia cuccetta. –
– Ah, il solito dramma degli ufficiali in comando. Troppe responsabilità e troppo poco riposo – Benson sorrise. Era più vecchio di lei di parecchi anni e la trattava sempre in un modo bonario che, invece di offenderla, la inteneriva.
Due: farsi vedere e fingere di prendere qualcosa in coperta.
– Già – Sheridan ostentò uno sbadiglio, stiracchiandosi. Ogni istante diventava più consapevole del suo orologio nella tasca della giacca. – Credo che andrò a farmi una tazza di tè. Tu ne vuoi? –
– No, grazie – Benson beveva solo caffè o liquori. Il tè, secondo lui, era una bevanda per donne e malati. – Se poi vuoi fare due chiacchiere, sai dove trovarmi. –
Sheridan annuì e si allontanò, diretta verso il ponte coperto. Prese l’orologio sperando di sembrare sovrappensiero. Aveva le mani che le tremavano. Mancavano tre minuti alle due. Rallentò il passo e regolarizzò il respiro, lasciando che l’ansia se ne andasse. Non era il momento per essere agitati. Si fermò sul primo gradino delle scale che portavano alla stiva, fissando il quadrante. Le lancette sembravano procedere al rallentatore.
Finalmente, come in un sogno, indicarono le due.
Tre: alle due in punto attiva la clessidra.
L’ansia era svanita. Sheridan prese la clessidra da sotto la maglia, la torse e prese la chiave. La tenne in mano per qualche secondo, fissandola. Da lì non si tornava più indietro.
‘Fanculo. Con un respiro più profondo mise la chiave nella toppa e girò. La sabbia grigia iniziò a cadere nel bulbo inferiore.
Quattro: corri.
Sheridan non si prese nemmeno un istante per controllare che tutti, sulla nave, fossero bloccati. Corse a perdifiato giù per le scale, saltando i gradini e lasciando che il rumore rimbombasse. Si precipitò fino alla stiva, spalancando senza fermarsi le pesanti porte in metallo. Nessuno si preoccupava di chiuderle perché tanto nessuno rubava alla Compagnia. Sheridan avrebbe riso per l’ironia se non fosse stata così concentrata.
L’interno della stiva era buio come la pancia di una balena. Sheridan scosse la lampada che si era portata dietro, lasciando che una debole luce dorata cadesse attorno a lei. Casse su casse si ammonticchiavano su ogni lato, colonne di legno che sembravano minacciare di cadere da un momento all’altro. Sheridan non aveva tempo per guardarsi attorno. Le istruzioni erano chiare.
Cinque: apri il portellone.
La macchinista corse fino alla leva che sapeva avrebbe aperto il pesante portellone di carico e scarico sul fianco della Realgar. Per sua fortuna non era del tutto digiuna del funzionamento di quell’aspetto della nave. Si era fermata più volte al porto a osservare le manovre. Sapeva benissimo cosa dovesse azionare. Sheridan tirò la leva e le porte di legno grezzo si aprirono sul buio della notte. Era una visione da far rizzare i capelli e la assalì una leggera sensazione di vertigine. Nel giro di qualche istante il nulla totale su cui si affacciava si riempì con il profilo di una piccola nave e dei suoi due passeggeri.
Era una scialuppa di salvataggio, progettata per essere silenziosa e veloce. Dove i ladri l’avessero trovata, non era affar suo. Quello che le interessava era che tutto si svolgesse in fretta. Le parole dovevano essere ridotte al minimo.
Sei: apri una cassa e lancia il rame.
Sheridan aprì uno dei grossi chiavistelli che chiudevano le casse. Il pesante portello di legno crollò sul pavimento della stiva, alzando grumi di polvere e di truciolato. Dentro c’erano decine e decine di scatole, impilate l’una sull’altra con una precisione millimetrica. Come un automa Sheridan iniziò a prendere una confezione dopo l’altra, lanciandole sulla scialuppa senza preoccuparsi di verificare che le prendessero.
Dopo pochi minuti si sentiva le braccia in fiamme e un velo di sudore coprirle fronte, ma non poteva permettersi nemmeno un momento di pausa. Quando finalmente finì e l’ultima scatola fu al sicuro sulla scialuppa, aveva il fiatone.
Sette: prendi i tessuti.
Si avvicinò al portellone, sporgendosi per quanto glielo permettesse il suo coraggio.
– Pronta? –
L’uomo davanti a lei teneva in mano un grosso rotolo di stoffa colorata. Sembrava in procinto di saltare dalla scialuppa sulla Realgar.
– Pronta. –
Il rotolo le volò incontro, superando lo spazio tra le due navi in un battito di ciglia. Sheridan fece appena in tempo a lanciarlo sul pavimento che gliene piovve addosso un altro. Lei e il ladro lavorarono di buona lena per qualche altro minuto, le confezioni di tessuto andavano accumulandosi attorno a lei. Quanti minuti mancavano alla fine dell’effetto della clessidra? Uno? Due? Le sarebbero bastati?
Stava per chiedere una pausa per vedere quanto tempo le rimaneva quando il ritmo feroce a cui avevano lavorato si interruppe.
– Abbiamo finito – il ladro ghignò e le rivolse una specie di saluto militare, per poi sedersi comodo sulla scialuppa. Mormorò qualche parola alla donna al suo fianco e la piccola nave iniziò ad allontanarsi. – Alla prossima. –
Sheridan si allontanò dal portellone spalancato, tirando la leva per richiuderlo. Le mani le tremavano mentre prendeva la clessidra. Aveva ancora un paio di minuti.
Otto: riempi la cassa con i tessuti.
Sheridan si inginocchiò sul pavimento. Iniziò a buttare i rotoli nella cassa, senza un criterio o una logica, sperando solo che ci stessero tutti. Sapeva che a Encondida, nelle tintorie, non si preoccupavano più di tanto dell’ordine quando riempivano le casse da spedire. L’effetto che avrebbe dato sarebbe stato solo di una confusione un po’ più accentuata, ma niente di preoccupante. Almeno così sperava.
Nove: vattene dalla stiva.
Quando anche l’ultimo rotolo fu messo a posto, Sheridan chiuse la cassa e tirò il chiavistello. Riprese la lampada e corse via, i suoi stivali che battevano contro il pavimento di assi. Sfrecciò oltre le porte e se le richiuse alle spalle, accostandole senza far rumore. Non era sicura che il tempo fosse ancora bloccato.
Risalì le scale e solo quando fu all’altezza del ponte superiore si fermò. Sentiva il cuore batterle nel petto e le mani tremare. Aveva la giacca completamente fradicia di sudore, non sapeva se per la fatica o per la paura. Ormai era fatta. Aveva rubato alla Compagnia.
Sbirciò sul ponte, terrorizzata che qualcosa fosse andato storto. Benson si aggirava ancora per la nave, sereno come quando l’aveva lasciato. I tre uomini dormivano ancora sotto al cassero. Tirò un sospiro di sollievo, camminando con tutta la calma che possedeva verso la sua cuccetta.
Ancora non ci credeva. Quando aveva parlato con Renard, il ladro le aveva spiegato un piano semplice e ben congeniato. La Realgar trasportava soprattutto rame, ma portava alla capitale anche metri e metri di un tessuto tinto di un grigio talmente splendente da sembrare argento fuso. Quella roba si vendeva quasi a peso d’oro. Le donne della capitale ne andavano matte.
Secondo il libro mastro della Compagnia, per quel viaggio la nave carico Realgar trasportava duecento ottantatré casse di rame e ventuno di tessuto. Una di queste però, grazie al prezioso aiuto di un portuale, era piena zeppa di metallo. Una volta avvenuto lo scambio di cui Sheridan si era resa complice, nessuno a Venar avrebbe notato niente. I libri mastri della Compagnia sarebbero stati in ordine e nessuna partita di rame sarebbe scomparsa durante il viaggio.
Quel furto, in verità, non era mai accaduto.

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Capitolo 3
*** Il Traditore ***


CARDS SPEAK FOR THEMSELVES

IL TRADITORE
 
“One night of the hunter 
One day I will get revenge 
One night to remember 
One day it'll all just end”

Night of the Hunter, 30 Seconds to Mars
 
La Realgar attraccò a Venar nel più tranquillo dei modi. Sheridan rimase sul molo, al fianco del capitano, osservando decine e decine di casse uscire dalla stiva della nave e venire controllate dai contabili della Compagnia. I libri mastri furono esaminati, tutto era in regola. L’equipaggio della Realgar poteva godersi qualche giorno di riposo.
La prima cosa che fece Sheridan fu andare a saldare parte del suo debito con Devani. Lo strozzino era più stupito di lei quando gli consegnò l’intero aureo per pagamento. Era entrata nella casa da gioco sentendosi come una pecora circondata dai lupi e ne era uscita riverita come una signora d’alta classe. In un istante tutti i dubbi e le perplessità che aveva avuto sul furto svanirono. Quella era la vita che faceva per lei. Sarebbe diventata ricca, ben accettata, con la possibilità di sedere al tavolo da gioco ancora e ancora e ancora.
Quando a casa le arrivò una busta sigillata con dentro due aurei interi, rotondi e dorati, pensò di scoppiare dalla felicità. C’era anche un biglietto, vergato in un’elegante grafia color del rame:
 
È vero che, in fondo,
il tempo è denaro.
R.
 
Sheridan sorrise guardando il biglietto accartocciarsi tra le fiamme del camino. Le dita, in tasca, tracciavano distratte i bordi zigrinati delle monete. Davanti a lei si apriva un oceano di possibilità.
I furti continuarono. A ogni viaggio la Realgar imbarcava una cassa di rame in più e il metallo veniva sostituito con i tessuti durante la traversata. Nessuno si accorgeva di niente. La clessidra controllava il tempo alla perfezione e Sheridan aveva imparato a essere rapida, caricando e scaricando a una velocità che avrebbe lasciato perplessi i portuali. La Compagnia vendeva il suo rame e i suoi tessuti, mentre i ladri prosperavano. Per loro fortuna, il mercato nero era un abisso in cui ogni traccia andava persa. Nessuno poteva risalire a Sheridan o alla Realgar.
Si comprò un appartamento, allontanandosi con piacere dal clima asfissiante che c’era nella casa della madre. Saldò i suoi debiti, dal primo all’ultimo, facendo attenzione a non destare troppa attenzione. Tornò al tavolo da gioco ma questa volta sembrava che la fortuna fosse girata. Vinceva una mano dopo l’altra, accumulando pile e pile di rigali sul tavolo verde davanti a lei. Non si era mai sentita così prima d’ora.
La loro era la truffa perfetta. Guadagnava quasi più di quanto potesse spendere, aurei su aurei che arrivavano puntuali a sommarsi alla sua paga. Passarono così due anni, i più begli anni da quando aveva memoria. Era ricca, aveva un lavoro che amava e parecchi amanti. Viaggiava, rubava, giocava e rubava ancora. Avrebbe voluto che tutto quello non finisse mai.
 
▪▪▪
 
Le cose iniziarono ad andare male all’inizio di un piovoso autunno.
Sheridan si svegliò nella sua cuccetta, ancora assonnata. La rapina del giorno prima era andata bene e poi aveva deciso di fermarsi a chiacchierare sul ponte con il resto dell’equipaggio. Il tempo era passato più rapido di quanto pensasse e sapeva che avrebbe ripagato le poche ore di sonno durante il turno di giorno. La sala macchine non conosceva riposo.
Si alzò stiracchiandosi e strofinandosi gli occhi cisposi. Doveva ancora infilarsi la giacca quando un forte bussare alla porta la fece sussultare.
– Cosa succede? – gridò per farsi sentire. – Problemi in sala macchine? – Dio, sperava di no. Non poteva iniziare la giornata così.
– Nossignore. Il capitano vi vuole – era la voce di Dan. Finalmente aveva imparato un po’ di rispetto. – Vi aspetta nella sua cabina. –
Sheridan chiuse per un istante gli occhi, sperando di riuscire a svegliarsi almeno un po’. Cosa diavolo voleva Chapman da lei? In un attimo di panico si tastò il collo alla ricerca della clessidra. Era sempre lì, ramata e immobile come doveva essere. Il capitano non poteva averla scoperta. Nessuno avrebbe potuto. Probabilmente voleva parlarle della rotta. Ogni tanto lo faceva.
– Signora? –
– Sì, Dan – brontolò, la voce di una appena uscita dall’oltretomba. – Vado subito. Fammi finire di vestirmi. –
Sentì lo scalpiccio dei passi del ragazzo allontanarsi. Con calma finì di mettersi la giacca, si annodò i capelli e prese i guanti da lavoro, appoggiati a un minuscolo tavolo nella sua cabina. Uscì dalla sua cuccetta e si diresse verso gli alloggi del capitano, rivolgendo qualche rapido cenno del capo a chi la salutava.
– Capitano? – disse bussando alla porta. – Sono Sheridan. Volevate vedermi? –
– Entra. –
La macchinista spalancò la porta della stanza e come al solito fu sorpresa da quanto quell’ambiente non sembrasse fare parte di una nave ma piuttosto di un salotto elegante. La grande scrivania che occupava gran parte della stanza era di legno pesante e scuro, forse mogano. I grandi globi che di notte avrebbero fatto luce erano spenti, permettendo al sole pallido di illuminare la camera. Folti tappeti rossi e dorati serpeggiavano sul pavimento. Sulla parete di fondo della nave si apriva un grande oblò di vetro attraversato da un cannocchiale d’ottone. Sheridan aveva sempre amato quello strumento. A volte Chapman le aveva permesso di vedere le stelle da lì.
La cosa che però amava di più in tutta la stanza era l’enorme libreria che occupava la parete di destra. Decine e decine di libri erano accatastati in disordine sugli scaffali, i dorsi brillanti di scritte nere e argentate. L’odore della carta e del legno riempiva l’aria.
Il capitano Chapman era in piedi davanti alla libreria, un libro in mano. Quel giorno non portava la giacca e la camicia bianca era arrotolata sui gomiti, lasciando scoperti gli avambracci. Il bastone era abbandonato poco lontano, dietro la scrivania.
Sheridan rimase ferma, in attesa.
– Ella, ti ho chiamato perché ho una domanda da farti – il capitano sollevò lo sguardo dal libro, richiudendolo. Si appoggiò con noncuranza alla libreria, le gambe intrecciate. Era più informale del solito.
Sheridan si rilassò. – Dimmi. –
Il volume che Chapman teneva in mano le volò addosso, rischiando di schiantarsi sulla sua faccia se non lo avesse preso al volo. – Sai che libro è questo? –
Sheridan lo osservò per qualche istante, sollevando un sopracciglio. Un mappamondo ramato e la scritta “Compagnia dei Mercanti” campeggiavano sulla copertina grigia. La macchinista sentì all’improvviso il suo battito accelerare.
– È il regolamento della Compagnia – disse con noncuranza.
– Molto brava – Chapman si allontanò dalla libreria. Quando camminava piano zoppicava appena. – E scommetto che sai anche cosa c’è scritto dentro. –
– Beh, sì. Non tutto, ma quasi – rispose Sheridan titubante. Sentì il sudore iniziare a scenderle giù per la schiena.
– Scommetto anche – continuò il capitano. – Che sai qual è l’unica cosa che lì dentro non viene citata ma che è l’unica vera regola della Compagnia. –
Sheridan tacque. Divenne dolorosamente consapevole di tutto ciò che era attorno a lei. Il sole oltre il vetro, il legno sotto i piedi, il rumore del vento, l’odore dei libri.
– Ella? – il capitano parlava con voce dolce, rilassante.
– Sì – disse. – La conosco. –
– E potresti ripetermela? –
– “Chi ruba verrà punito” – a Sheridan sembrò che ogni parola fosse un graffio nella sua gola. Aveva bisogno di bere. Si obbligò a tenere sotto controllo la paura. Se davvero Chapman l’aveva scoperta, si disse, avrebbe negato. Non poteva avere prove contro di lei. Era impossibile.
– Molto vero – Chapman si diresse verso la sua sedia dietro alla scrivania. – Ora che abbiamo ricordato questo piccolo dettaglio, parliamo di affari. Vieni, siediti. –
Sheridan procedette piano, pensando. Non sarebbe morta così. In un istante si ricordò di aver lasciato la sua spada nella sua cuccetta. Dannazione.
– Non capisco – disse con un sorriso che sperò non fosse falso quanto pensava. – Che affari? –
– Ella, non prendiamoci in giro. So benissimo quello che stai facendo. –
– Controllo la sala macchine. –
Ogni traccia di benevolenza sparì dagli occhi di Chapman. – Sto parlando dei furti. –
Il tempo si cristallizzò. Poi Sheridan scoppiò una risata. – Continuo a non capire. Che furti? Qualcuno ruba sulla nave? –
Chapman non si unì a lei. – Ella, Ella – mormorò. – Negare sempre, eh? Non ti aiuterà questa volta. Non sto parlando di qualcuno a caso. Sto parlando di te. –
– E come farei? – Sheridan si stravaccò sulla sedia, una gamba accavallata sull’altra. Sentiva aloni di sudore ingrandirsi sotto le sue ascelle. – Nessun furto è stato ratificato dalla Compagnia. –
– Hai bisogno di un incentivo, lo capisco – Chapman versò da bere. – Whisky? – le allungò il bicchiere prima che lei potesse rifiutare. – Stai usando la clessidra. –
Sheridan si gelò, bloccandosi con il bicchiere in mano a metà strada tra la sua bocca e il tavolo. – Che clessidra? –
– La clessidra di tuo padre – Chapman bevve, osservando il liquido ambrato oscillare. – Un simpatico aggeggio che Thomas ha progettato anni fa. Blocca il tempo. Come lo faccia, lo ignoro. Ma so che lascia una sensazione di déjà-vu in tutti quelli che ne subiscono gli effetti. Déjà-vu che ho provato più e più volte in questo periodo. –
Sheridan capì che non aveva più senso negare. – Come lo sai? –
– Tuo padre me ne ha parlato, anni fa. E lo avevo già vissuto. Quando la usava per rubare alla Compagnia. –
Sheridan rimase in silenzio, osservando il capitano. Non c’era traccia di ilarità nel suo sguardo mentre la osservava da sopra il ripiano della scrivania. Stava fissando gli occhi di un predatore.
– Non ti denuncerò alla Compagnia, stai tranquilla. Non ne avrei gli interessi. –
La macchinista non si sentì sollevata da quella frase. – E in cosa avresti interesse? –
– A guadagnare di più – Chapman sorrise. – Voglio la mia parte, così come l’ho avuta quando a rubare era Thomas. –
– Eravate complici? – Sheridan era stupita. Nemmeno i ladri le avevano mai accennato una cosa simile.
– Per anni io e Thomas abbiamo rubato alla Compagnia. Con grande guadagno reciproco, aggiungerei. Quando è morto avrei volentieri continuato, ma la clessidra era sparita. Pensavo fosse andata persa, o rubata. Ma a quanto pare deve averla inviata a te. Sbaglio? –
– No – la voce le uscì strozzata. Che gran bastardo.
– E ora, se sei più bendisposta a credermi, parliamo d’affari. La metterò giù facile. Voglio il settanta per cento di quello che guadagni da questi furti. –
Sheridan si sentì crollare il mondo addosso. Settanta per cento. Era un’enormità. Non avrebbe più potuto fare nulla di quello che aveva fatto fino a quel momento. Si costrinse a rimanere calma. Tutto quello era così inaspettato che per un istante si chiese se non stesse ancora dormendo. Gli occhi le caddero sul tagliacarte che giaceva abbandonato sulla scrivania. Se si fosse mossa in fretta, avrebbe potuto uccidere Chapman.
Il capitano si allungò verso il bastone. In un batter d’occhi, la lama che era celata al suo interno era puntata al collo di Sheridan. – Non lo farei se fossi in te. –
La macchinista trasalì, consapevole che quello non era più un educato incontro con il suo capitano. Stava lottando per la sua vita e capire di essere in svantaggio la rese furente.
Chapman prese il tagliacarte e lo ripose in un cassetto, la spada riposta in equilibrio sulle sue gambe. – Perché non ti prendi tutto, già che ci sei? – ringhiò Sheridan.
– Non sono così esoso – il capitano sorrise. – Riconoscerai che è una buona offerta. O il settanta per cento o ti denuncio alla Compagnia. –
– E chi ti crederà? Quei furti non ci sono mai stati. –
– Encondida produce tonnellate di rame all’anno, è vero. Ma è anche vero che delle partite sono sparite nel nulla. Lasciati a sé stessi, quelli della Compagnia se ne accorgeranno tra anni. Con la soffiata giusta, gli ingranaggi si muoveranno con parecchio anticipo. –
– Se mi denunci – Sheridan quasi non riusciva a parlare per la rabbia. – Ti porto giù con me. –
Chapman la guardò con un sorriso freddo. – La piccola ladra che cerca di trascinare nel fango l’onesto capitano che l’ha denunciata. Chi ti crederebbe? Non essere stupida, Ella. Non lo sei mai stata. Darmi il settanta per cento è la tua unica possibilità di salvezza. –
Aveva ragione. Sheridan aveva ben chiaro che l’unica che sarebbe finita con il cappio al collo sarebbe stata lei. Non voleva morire.        
– Perché non mi uccidi e lo fai tu? Ti risparmieresti molti problemi. –
– Ho due ottimi motivi – Chapman finì il whisky in una sorsata. Il liquore di Sheridan giaceva abbandonato in un angolo. – Il primo è che non sarei abbastanza rapido. Sono zoppo, in pochi minuti non riuscirei a fare tutto quello che devo. Il secondo è che tu sei la copertura perfetta. Nessuno a parte te saprà mai che sono implicato. E anche se lo dicessi in giro, nessuno ti crederebbe. –
– Perché lo fai? – Sheridan non riusciva a crederci. Non aveva mai nemmeno lontanamente pensato che il gentile, onesto capitano Chapman potesse essere un tale figlio di puttana.
– Per lo stesso motivo per cui lo fai tu: i soldi – sollevò la bottiglia di whisky. – Vedi questa? Costa tre aurei. E non si compra da sola – osservò Sheridan da sopra la scrivania. – Abbiamo un accordo? –
– Questo non è un accordo – ringhiò lei. – È un ricatto. –
Chapman sorrise, piegandosi verso di lei. – Esattamente. –
Sheridan digrignò i denti. Sentiva la rabbia premere contro il suo cervello. Era in trappola. – Hai la mia parola. –
– Bene – il capitano si tirò indietro, sedendosi più comodamente. – Ora ti spiego come faremo: non mi fido di te. Mi lascerai la clessidra, in modo che non ti venga la voglia di venire qui a uccidermi mentre il tempo è bloccato. Oh, non fare quella faccia – Sheridan avrebbe voluto sputargli addosso. – Lo so che ci stavi pensando. È un errore da principiante che non farò. Mi informerai a ogni viaggio dell’esatto momento in cui dovrebbe avvenire la rapina e farò in modo di fartela avere poco prima nella tua cuccetta. Io rimarrò chiuso qui dentro, godendomi il déjà-vu. Non sperare di riuscire a irrompere in questa stanza: la serratura è stata fabbricata dagli Alchimisti di Venar. Nessuno potrebbe romperla. –
– Molto bene – la voce di Sheridan grondava acido. – Rimarrai qui a fare il topo a lungo? –
Chapman sorrise. – Solo fino a quando farai scivolare la clessidra sotto la porta. Allora uscirò, sicuro di non ritrovarmi accoltellato mentre non posso difendermi. –
Sheridan tacque, fissandolo. Era sicura di non aver mai provato tanta rabbia in tutta la sua vita.
– Ora dammi la clessidra. –
La macchinista si sfilò la catenella dal collo. Si rigirò tra le mani quell’oggetto meraviglioso. Aveva passato anni a portarselo dietro senza capire a cosa servisse e adesso se lo vedeva portare via. Non poteva sopportarlo.
– Ella – la voce del capitano conteneva una nota di pericolo. Strinse una mano sull’impugnatura della lama mentre allungava l’altra sul tavolo.
Sheridan fece scivolare la clessidra nel suo palmo. – Soddisfatto? –
– Adesso sì – Chapman strinse il pugno. – La metterò al sicuro, lontano dalle tue mani curiose – si alzò battendo le mani sul ripiano. – Ora puoi andare. Hai una sala macchina da controllare. Mandami i soldi appena li avrai ricevuti, in città alloggio alla locanda “le Sette Sorelle”. Se sparirai, ti denuncerò. Se i soldi non mi arriveranno prima della prossima partenza, ti denuncerò. Sono stato chiaro? –
Sheridan si alzò rigidamente dalla sedia, gli arti le sembravano diventati di legno. – Sissignore. –
Si diresse verso la porta, furente, spaventata suo malgrado, preoccupata. Aveva appena messo la mano sul pomello quando Chapman la fermò.
– Sheridan? –
– Sì, capitano? –
– Nel caso in cui ti venisse voglia di giocarmi qualche brutto tiro, ti rivelerò un altro piccolo segreto. Tuo padre non è stato ucciso dai ladri durante un arrembaggio. Ha cercato di convincermi ad abbassare la mia percentuale, minacciandomi di rivelare tutto alla Compagnia. La lama che ha posto fine alla sua miserabile vita è quella che ho puntato al tuo collo pochi minuti fa. Non costringermi a riservarti lo stesso trattamento – Chapman tornò a dedicarsi alle sue carte. – Ora puoi andare. –
Sheridan stava stringendo il pomello talmente forte che le sue nocche erano bianche. Aprì la porta e camminò nel corridoio, senza trarre alcun conforto dai rumori della Realgar. Per la seconda volta nella sua vita, era in trappola.
E questa volta nessun ladro misericordioso sarebbe venuto a salvarla.
 
▪▪▪
 
Il resto del viaggio per Venar fu interminabile. Era periodo di tempeste e la Realgar dovette barcamenarsi tra vento e pioggia e tuoni. Capitava spesso che una delle navi della Compagnia fosse costretta a fermarsi per il maltempo e qualcuna perfino si schiantava, il pallone dirigibile bucato e più di cento anime che crollavano al suolo sfracellandosi.
Fu durante una di queste tempeste che Sheridan pensò che avrebbe potuto buttare il capitano fuori bordo. Uno spintone, un urlo perso nel vento e tutti i suoi problemi finiti. Sarebbe stato piacevole. Chapman però sembrava averle letto nel pensiero. Non era mai da solo sul ponte ma sempre circondato da qualcuno dell’equipaggio. Le condizioni meteo erano tali che persino quando manovrava la nave il timoniere gli stava accanto.
Sheridan avrebbe potuto ucciderlo nella maniera classica, entrando nella sua cabina di notte e trapassandolo con la spada, puntellandolo al letto. Vedeva il sangue, la smorfia di dolore di Chapman e si sentiva finalmente in pace. Il pensiero le piaceva. Quando la scena le si affacciava alla mente si apriva in un ghigno inquietante. Se n’era accorta perché alcuni dei macchinisti la guardavano inquietati. Però, per quanto fosse un’idea stuzzicante, sapeva benissimo che non avrebbe mai potuto metterla in pratica. L’omicidio del capitano l’avrebbe fatta finire fuori bordo in pochi minuti e lei non voleva morire. Se no, tanto valeva andare a costituirsi alla Compagnia.
Continuava a lavorare con efficienza nonostante questi pensieri le occupassero ogni singolo istante di veglia e la visitavano persino nel sonno. Si vedeva che era preoccupata da qualcosa e la sala macchina non perdonava le distrazioni. Un giorno rischiò di perdere un dito tra gli ingranaggi. Una notte di tempesta una virata improvvisa la mandò a sbattere contro una pesante leva d’ottone, facendole quasi perdere i sensi. Non era normale per lei.
Non sapeva cosa fare. Dare il settanta per cento dei suoi guadagni a Chapman era fuori questione. Aveva lavorato sodo per i suoi soldi e per i benefici che le portavano. Senza non si sarebbe più potuta permettere la casa che aveva affittato, né le scommesse che puntualmente faceva al tavolo da gioco. Non sarebbe più tornata alla vita di prima, se l’era promesso. Mai più. Era una questione di orgoglio.
Il punto quindi non era come riuscire a sopravvivere pagando a Chapman il suo prezzo da infame ricattatore, ma come riuscire a farlo fuori senza venire beccata. Luther era un capitano, apprezzato nel circolo ufficiali, una risorsa di cui la Compagnia aveva bisogno. Che nessuno sapesse che fosse anche uno dei peggiori infami di tutto l’Impero dava l’idea di quanto fosse prudente.
Quel bastardo. Sheridan strinse ancora un bullone, talmente forte che sentì l’articolazione della spalla cigolare. Quel. Fottuto. Bastardo.
C’era anche il dettaglio dell’omicidio di suo padre, dettaglio che la macchinista non era disposta a dimenticare tanto in fretta. Era morto tanto tempo fa e Sheridan non si sentiva animata da un particolare desiderio di vendetta. Erano passati anni e lei era ancora troppo piccola quando lui se n’era andato. Gli aveva voluto bene, certo, ma aveva sempre vissuto con la sua assenza. Quello che la faceva veramente infuriare era la sensazione di essere stata presa in giro.
Il capitano si era posto nei suoi confronti quasi come un padre quando in realtà era stato lui a privarla di Thomas. Era andata a lavorare giovanissima per mantenere la sua famiglia e Chapman si era fatto avanti come un salvatore quando le aveva proposto di entrare nella Compagnia e di salire sulla Realgar. Se lui non fosse esistito forse lei avrebbe avuto una vita diversa. Non necessariamente migliore, ma diversa.
Decise che gliel’avrebbe fatta pagare. Oh, se gliel’avrebbe fatta pagare.
E guardando la bandiera della Compagnia sventolare sulla poppa della Realgar mentre scendevano verso Venar capì anche come avrebbe potuto fare.
 
▪▪▪
 
La prima cosa che fece dopo aver attraccato fu correre a casa. Una volta al sicuro tra le sue quattro mura decise di fare come le aveva detto il capitano. Via il dente, via il dolore. Prese il solito pacco di Renard, guardò con aria sognante i tre aurei che conteneva, poi ne mise il settanta per cento esatto in una busta. La sigillò, la indirizzò alla lussuosa locanda di Chapman e la imbucò. Così, almeno per un po’, si sarebbe evitata la denuncia. Sempre che il capitano decidesse di mantenere la parola.
Poi si sedette sulla sua poltrona, fissando il muro, cercando di trovare la calma necessaria per quello che doveva fare. Doveva sembrare affranta e combattuta quando in realtà si sentiva solo inferocita.
Ghignò, immaginandosi a qualche giorno di distanza, tutti i tasselli al loro posto. Sapeva che avrebbe avuto bisogno di una discreta dose di fortuna, ma si sentiva come prima di iniziare una partita a carte. Vedeva la posta in gioco e la desiderava. Sentiva il brivido del pericolo e dell’adrenalina. Poteva perdere, certo. Ma se avesse vinto avrebbe avuto tutto. Doveva solo scommettere.
Durante il resto del giorno e della notte bruciò tutto ciò che poteva comprometterla. Fece sparire lettere di cambio, documenti dubbi, attestati di pagamenti. Il bello di giocare con le carte era che non rimaneva traccia esatta delle vincite. Almeno non nelle bettole dove andava lei. Se la Compagnia avesse indagato avrebbe solo scoperto che aveva vinto. Quanto, non l’avrebbero mai capito con esattezza.
Mise tutti i soldi che aveva faticosamente guadagnato in una borsa. Erano decine e decine di aurei, risultato della sua brillante carriera di ladra e giocatrice assidua di carte. Se ne sarebbe dovuta sbarazzare. Se la Compagnia le avesse mai chiesto dov’erano finiti i suoi soldi, avrebbe detto di averli spesi. Non poteva permettersi di lasciare tracce.
Poi, dopo essersi liberata di tutto ciò che avrebbe potuto in qualche modo incriminarla, si mise a dormire. Poteva permettersi un paio di ore di sonno fino al mattino dopo, quando sarebbe andata alla sede della Compagnia.

 

Ciao a tutti ^^
Questo è il penultimo capitolo della minilong, conto di pubblicare la fine in questa settimana o
al più tardi nel fine settimana, impegni permettendo.
Grazie come al solito per essere arrivati fin qui, grazie a chi recensisce, a chi segue la storia e a chi legge, è molto importante per me. Spero che la storia vi stia piacendo e che non rimarrete delusi dal finale. 
Lunghi giorni e piacevoli notti,
Lya

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Capitolo 4
*** La Scommessa ***


CARDS SPEACK FOR THEMSELVES

LA SCOMMESSA
 
“Wild card up my sleeve
Thick heart of stone
My sins my own
They belong to me, me”

Gloria, Patti Smith
 
La prime luci del mattino la trovarono sveglia, già attiva. Si fece un bagno caldo, districando quella massa informe che erano i suoi capelli. Doveva in ogni modo possibile fare una buona impressione. Decise di vestirsi con cura, lasciando da parte i suoi soliti vestiti sporchi di olio per motori. Mise la camicia più pulita che aveva, stringendo bene i lacci del corpetto al di sopra. Abbandonò i suoi cari, vecchi pantaloni ammorbiditi dall’uso per una gonna pesante e barocca, più corta sul davanti, che aveva comprato in preda a una qualche forma di follia. Mettere le gambe in mostra non le avrebbe fatto del male. Avrebbe potuto aiutare a distrarre quei contabili fissati della Compagnia dalla sua storia. Lasciò a casa il suo fidato monocolo e la spada, prese la sacca di soldi e uscì.
Camminò spedita, diretta verso la sede principale della Compagnia. Una pioggerellina leggera le cadeva addosso, donando un’aria grigiastra e opaca a ogni cosa. Nonostante ciò la città era un incredibile miscuglio di persone, odori e colori, brulicante di vita già dalle prime ore del mattino. Commercianti gridavano le proprie offerte, i banchi addossati uno all’altro sulla via principale. Compratori si contendevano stoffe e pentole, orologi e cappelli. Le case erano basse e curate, ben diverse da quelle dei rioni più poveri ma non belle come quelle della zona ricca.
L’aria era satura dell’odore di gas e dei vapori di scarico, talmente densi che sembrava quasi di berli. Nonostante le fabbriche di ingranaggi fossero distanti le loro emissioni continue intasavano la città. Era impossibile respirare aria pura senza uscire da Venar.
Attraversando uno dei fiumiciattoli che tagliavano la capitale, Sheridan lanciò nell’acqua il sacco con tutti i soldi che aveva. Si costrinse a rimanere impassibile vedendo tutti i suoi guadagni affondare nell’acqua torbida. Era per sopravvivere. Era necessario.
Il cielo sopra di lei era solcato dalle scie della tramvia, piccole navi che andavano da un lato all’altro di Venar. Era a una delle stazioni che era diretta. Da lì sarebbe andata fino alla collina di Carina, dove si trovava la sede principale della Compagnia. Era la zona ricca dei mercanti, abbastanza vicina al porto ma comunque sufficientemente lontana per rendere chiaro che la gilda commerciava, non si sporcava le mani scaricando casse.
Quando finalmente arrivò alla sede della Compagnia mancava poco a mezzogiorno. Era un miracolo che il trabiccolo volante che l’aveva portata fin lì non si fosse schiantato sulla città. Attraversò la strada lastricata e fissò l’enorme palazzo. Un’alta scalinata portava a un portico di pietra grigia, interrotto qua e là da colonne. Uomini e donne in abiti eleganti si affrettavano per le scale, entrando e uscendo dal palazzo. Al piano superiore si aprivano delle enormi finestre mascherate da tende rosse. Sul timpano, in grosse lettere ramate, campeggiava la scritta “Compagnia dei Mercanti”.
Sheridan rimase ferma sulla strada, sentendosi all’improvviso piccola e stupida. Non sarebbe mai riuscita a ingannarli. Non lì dentro, nel loro campo di gioco, dove erano loro a dettare le regole. Si fece forza per salire i gradini, un passo dopo l’altro, fino sulla soglia dell’enorme porta di legno. Ai suoi lati c’erano due guardie armate, perfettamente vestite nelle uniformi della Compagnia.
Per la seconda volta si bloccò. Non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe morta.
– Miss? –
La voce di una delle guardie la fece sussultare.
– Sì? –
– Non potete fermarvi qui. O entrate o ve ne andate. –
Sheridan deglutì, sforzandosi di ricordare perché era lì. Era l’istante prima della scommessa, quando guardavi la verità delle tue carte e ti accorgevi di che mano avessi davvero. Pensava di poter vincere?
Sheridan fece un lungo respiro. – Sì – mormorò. – Entro. –
Poi con un passo superò la porta e fu dentro.
 
▪▪▪
 
La sede della Compagnia trasudava ricchezza. Al pian terreno c’era un’enorme unica stanza attraversata da scrivanie, dove i clienti concludevano i propri affari con la gilda. C’era silenzio, rotto solo dal mormorare sommesso dei mercanti e dal tintinnio dei registratori di cassa. Si vedevano ovunque vestiti eleganti, portamenti orgogliosi, sorrisi soddisfatti e borselli pieni.
Una grande scalinata portava al piano superiore, di cui si intravedeva solo una balconata. Sul camminamento intervallato da colonne qualche figura avvolta nell’oscurità guardava con attenzione la scena che si svolgeva al di sotto. Quello era lo spazio dedicato ai clienti più importanti, agli investimenti maggiori. Era lì che si realizzava il vero guadagno della Compagnia.
Sheridan si diresse sicura verso la base della scalinata. Due uomini, impettiti e con i muscoli in bella mostra, ne impedivano l’accesso. La macchinista era sicura che le spade che portavano alla vita non fossero ornamentali.
– Avete un appuntamento? – disse l’uomo di destra, squadrando Sheridan con supponenza.
– No, ma credo che dovrei. Devo denunciare un furto. –
La guardia strabuzzò gli occhi. – Dovete denunciare cosa?
– Un furto – Sheridan sostenne lo sguardo senza farsi intimidire.
– Se è uno scherzo, sappiate che è di pessimo gusto. –
– Non lo è. Voglio parlare con qualcuno. –
Le due guardie si scambiarono un’occhiata rapida, poi quella di destra parlò: – Bene. Seguitemi. –
La scortò su per le scale senza più dedicarle uno sguardo. Arrivati al ballatoio procedette fino all’ultima porta, poi bussò piano.
– Aspettate qui – disse a Sheridan prima di entrare.
La macchinista rimase ferma, osservando meglio il pavimento di marmo, le statue dorate, i tendaggi di broccato del ballatoio. Persino l’aria profumava di soldi. Prese un bel respiro e chiuse gli occhi, godendosi quell’odore. La calma che aveva minacciato di abbandonarla prima di entrare era tornata.
– Mr. Greville vi attende. –
Sheridan riaprì gli occhi. La guardia la stava fissando.
– Grazie – la macchinista entrò nella stanza, lasciando che la guardia le chiudesse la porta alle spalle. Era entrata in una sala spaziosa, illuminata dalla luce che entrava da un’ampia finestra alle spalle dell’imponente scrivania. Lì campeggiavano un mappamondo, un registratore di cassa e una clessidra. Il tempo è denaro.
– Accomodatevi, prego. –
Un uomo di mezza età, pelato, con un paio di occhiali a mezzaluna la stava fissando con aria bonaria da dietro la scrivania. Le indicò una delle due sedie imbottite davanti a lui.
– Non credo di avere l’onore. –
– Nossignore – Sheridan inclinò il capo. Meglio mostrarsi servile. – Sono Ella Sheridan, capo macchinista della Realgar.
– Incantato, Miss Sheridan. Perdonerete la mia fretta, non ho tempo da perdere. Il mio uomo mi ha già detto perché siete qui ma tendo a non fidarmi delle voci. Cosa volete? –
Sheridan prese un lungo respiro e piegò le labbra in una smorfia. – Voglio denunciare un furto. –
Ecco, era fatta. La partita era iniziata.
Greville sbarrò gli occhi, le sopracciglia alte sulla fronte e gli occhiali sulla punta del naso. – Un furto. Siete sicura? –
– Sissignore, sulla Realgar. La nave trasporta… –
– Trasporta rame e tessuti da Encondida alla capitale. Sì, Miss Sheridan, lo so. Mi perdonerete se faccio fatica a credervi ma è molto difficile rubare alla Compagnia. Siamo molto attenti. –
– Non abbastanza, se permettete, signore – Sheridan parlava in fretta, come intimorita. Sentiva il sudore inzupparle la schiena. – So per certo che sta succedendo qualcosa sulla nave. –
Greville si appoggiò più comodamente sulla sua poltrona, chiudendo con un colpo secco il libro mastro davanti a lui. Non avrebbe potuto liquidare in fretta la questione. Il furto era una cosa seria.
– Permettete che vi fermi un attimo, Miss Sheridan. Quello che state insinuando è grave. Ne siete sicura? –
Sheridan annuì lentamente. – Purtroppo. E so anche che, se fossi al corrente di un furto e non lo denunciassi, la mia posizione a bordo sarebbe in pericolo. –
Greville incrociò la punta delle dita. – Questo è il regolamento, sì. Non c’è pietà per i ladri o per gli omertosi, nella Compagnia – l’uomo fissò Sheridan da sopra gli occhiali per qualche istante. – Ditemi quello che sapete. –
La macchinista si mise più comoda. – So per certo che il capitano Chapman è in combutta con un gruppo di ladri di Encondida per rubare il rame. Sono sicura che abbiano già preso alcune casse. –
Greville ascoltava impassibile. – E da dove vi viene tutta questa certezza? –
Sheridan rimase in silenzio per qualche secondo. Quella era la parte più delicata dell’intera faccenda. Se il mercante le avesse creduto sarebbe stato tutto in discesa.
– Il capitano mi ha portato a un incontro con la banda, a Encondida. Sperava che potessi unirmi a loro, hanno bisogno di paio di braccia in più. –
– E come mai il tuo capitano si sarebbe fidato così tanto di voi? –
– Sono la sua seconda da cinque anni, signore. Sono la figlia di un suo vecchio amico e mi ha aiutato ad entrare nella compagnia quindici anni fa. Probabilmente ha creduto che non potessi tradirlo. Gli devo molto. –
– Non abbastanza a quanto pare – Greville fissava Sheridan con intelligenza. Sotto all’espressione seria, la macchinista capì che era disgustato dal suo tradimento. Un mercante di buon cuore, che cosa rara.
– In più – continuò Sheridan. – Ho un problema con le carte. Mi piace giocare. –
Greville annuì e la macchinista lo fissò di rimando, in attesa delle domande. Non avrebbe fatto l’errore di inondarlo di dettagli. Doveva sembrare che fosse stata appena introdotta nel giro dei ladri.
– Come avverrebbero questi furti? –
– È un metodo ingegnoso. A Encondida, un complice carica sulla nave una cassa di rame in più segnandola come trasporto di tessuti. In pieno viaggio il capitano va in stiva, apre il portellone e sostituisce il rame con la stoffa che gli viene portata dai ladri. Poi loro se ne vanno con il metallo, Chapman chiude la cassa con dentro il tessuto e il gioco è fatto. Nessuna traccia nei libri mastri. Semplice e veloce. –
Greville aveva lo sguardo perso di chi sta ragionando furiosamente. Sheridan trattenne un sogghigno, convertendolo in un sorriso mesto. Doveva sembrare affranta da tutta quella situazione. Solo così le avrebbe creduto.
– E come mai nessuno ha trovato strano che il capitano scendesse così spesso in stiva? –
– È il capitano – Sheridan si strinse nelle spalle. – Nessuno lo sorveglia, soprattutto non di notte. E poi è a lui che spetta controllare il carico. –
Greville annuì lentamente. Sheridan sapeva di aver toccato il tasto giusto. Quello era uno dei principali crucci della Compagnia: il capitano della nave aveva il compito di sorvegliare l’equipaggio e le merci, evitando i furti. Per quello erano pagati tanto. Ma chi poteva controllare i capitani, se avessero deciso di rubare?
– I ladri. Chi sono? Dove si ritrovano? –
Anche qui, Sheridan sapeva di non poter esagerare. Prudenza.
– Il capitano Chapman mi ha portato in una casa, vicino all’osteria “Tre Boccali” a Encondida. È nella zona più malfamata della città. A cento metri dall’osteria, in un vicolo sulla destra. La terza porta a sinistra. –
Greville inarcò un sopracciglio. – Sono molti dettagli per una che c’è stata una volta sola. –
Sheridan cercò di sembrare intimorita. – Posso essere sincera? Avevo paura. Ho pensato che un’idea di dove mi trovassi non mi avrebbe fatto male. In più, non si diventa capo macchinista a venticinque anni se non si ha una buona memoria. –
Greville annuì piano. – Proseguite. –
– Dentro c’erano cinque persone. Il capo, quello con cui ho parlato, si chiamava Renard. Mi ha spiegato i dettagli, mi ha proposto un guadagno, ci siamo stretti la mano – Sheridan si sforzò di far tremare la voce. – Dovete capirmi, signore. Avevo paura che se non avessi accettato mi avrebbero uccisa. Non voglio morire. –
L’espressione di Greville si addolcì. – No, certo che no. E poi cos’è successo? –
Sheridan scosse la testa, una smorfia di terrore in volto. – Io… –
– Avete fatto la rapina, non è vero? –
Sheridan scoppiò in un pianto dirotto. Avrebbe dovuto fare l’attrice. – Sono stata costretta. Il capitano mi ha detto che mi avrebbe uccisa se mi fossi rifiutata – singhiozzò. – Ho dovuto aiutarlo! –
Greville la lasciò piangere per qualche minuto, poi le porse un fazzoletto. Sheridan lo afferrò, tamponandosi gli occhi.
– Capisco la vostra situazione, Miss Sheridan. Vi siete ritrovata tra due fuochi – Greville la fissava bonario, ogni traccia di sospetto e disgusto svaniti. – Se quello che avete raccontato è vero, non dovete temere. Avete denunciato subito il fatto e sono sicuro che restituirete anche quanto avete guadagnato da questa attività illecita. Ma se mi avete mentito... – l’espressione dell’uomo si fece più torva. – Se mi avete mentito nemmeno la buona volontà nel denunciare i vostri complici vi salverà dalla forca. –
Sheridan annuì, ancora scossa dai singhiozzi. – Ve lo giuro signore. Restituirò tutto quello che mi ha dato il capitano – le sue dita corsero al borsello che teneva in vita e lanciò tremante due aurei sulla scrivania. – Non voglio saperne niente di questo denaro. –
Greville fissò i soldi sul tavolo, poi si alzò, controllò l’orologio che portava al taschino e si diresse verso la porta. – Miss Sheridan, quello che mi avete raccontato merita dei controlli. Sentirò i miei colleghi della Compagnia a Encondida, per controllare se c’è stata effettivamente una sparizione di partite di rame. Senza di voi ce ne saremmo accorti con ritardo e non saremmo riusciti a risalire alla Realgar. Tuttavia – Greville si fermò sull’uscio, fissando Sheridan con attenzione. – Tuttavia, mentre verranno fatte queste verifiche, voi dovrete aspettare qui. Ci vorranno delle ore. In questo tempo non potrete allontanarvi dall’edificio. Carson, l’uomo che vi ha accompagnata qui, rimarrà di guardia davanti alla porta. Spero che capirete. –
Sheridan annuì. – Sissignore. –
– Molto bene – Greville si allontanò rapido, chiudendosi la porta alle spalle.
La macchinista fece un lungo sospiro, stravaccandosi sulla sedia. La tensione era sparita. Greville le aveva creduto. Si asciugò meglio gli occhi, osservando il fazzoletto del mercante. Era di lino e le iniziali dell’uomo campeggiavano in un angolo. Pregiato, molto pregiato.
Le verifiche di Greville le avrebbero dato ragione. Le partite di rame erano sparite dalla miniera, caricate sulla Realgar. Se poi la Compagnia avesse trovato i ladri, questi sarebbero semplicemente scomparsi. La gilda sapeva essere spietata. Non rimanevano tracce del suo operato, non un’anima viva.
Sheridan non riuscì a trattenere un sorrisetto. Una volta sistemati i ladri rimaneva solo Chapman. Sentiva di averlo in pugno. Era il pensiero più bello della giornata.
Prudenza, si ricordò. Non doveva fare l’errore di credere di aver vinto. La partita si stava ancora svolgendo. Si sedette più composta e aspettò. I secondi divennero minuti e i minuti ore. Un cameriere in livrea le portò da mangiare e da bere. Lesse uno dei libri che Greville aveva nella libreria. Camminò su e giù per la piccola stanza, fece girare il mappamondo. Si annoiò e si agitò quando l’idea che il mercante avesse scoperto il suo inganno le si affacciò alla mente.
Finalmente, quando ormai aveva perso le speranze, la porta si aprì e Greville marciò all’interno della stanza.
– ­Miss Sheridan – esordì mettendosi seduto. – Perdonatemi, ma questa attesa era necessaria. Avete detto la verità. A Encondida sono sparite più di quaranta partite di rame in un periodo di due anni. Abbiamo mandato la nostra polizia privata dove ci avete indicato, sperando di trovare i ladri. Così è stato. Purtroppo hanno, come si dice, opposto resistenza – l’espressione di Greville lasciava intendere che non era per niente dispiaciuto. – Nessuno di loro è sopravvissuto. –
Sheridan dovette costringersi a trattenere un sorriso. Nascose il volto nel fazzoletto soffocando sul nascere un urlo di gioia.
– Non siate affranta – il mercante aveva interpretato quel gesto come sofferenza. – Quei ladri hanno avuto ciò che si meritavano. Ora toccherà al vostro capitano. Ma prima ci siete voi. –
Sheridan sollevò il capo, improvvisamente sull’attenti. – Signore? –
Greville si appoggiò allo schienale e incrociò le mani. – Avete reso un grande servizio alla Compagnia, Miss Sheridan. Ci avete risparmiato centinaia di aurei di perdite e avete aiutato a sgominare un pericoloso circolo malavitoso. Ho parlato con i miei colleghi e superiori e siamo tutti concordi: meritate una ricompensa. Cosa volete? – prese un libretto degli assegni e intinse la punta di una stilografica d’oro nell’inchiostro. – Trenta aurei? Cinquanta aurei? –
Sheridan rimase impietrita. Era una cifra inimmaginabile. Si costrinse a deglutire, immobile sulla sedia. Aveva i brividi.
– Non voglio denaro – gracchiò. Aveva la gola secca. Dio, quanto avrebbe voluto dell’alcol in quel momento. Chiuse gli occhi, pensando a quanti soldi stava buttando.
– Come? – Greville si fermò, la stilografica a mezz’aria, gli occhi fissi su Sheridan.
– Non voglio denaro. Ma ho due richieste. –
Greville sorrise. – Sentiamo. –
– Voglio le spalline di capitano. –
Il mercante la guardò incuriosito. – Ne avete le competenze? –
Sheridan si concesse un timido sorriso. – Nossignore, ma navigo sulla Realgar da più di dieci anni e credo di aver afferrato una cosa o due. Affiancatemi un secondo ufficiale esperto e vi dimostrerò che imparo in fretta. –
Greville si prese qualche istante per pensare. – Rischioso, ma si può fare – annuì. – Sì, si può fare. E la seconda cosa? –
Sheridan sorrise dentro di sé. Quella era la ciliegina sulla torta, l’asso calato a fine partita. La vittoria del gioco.
– Voglio esserci quando catturerete Chapman. Voglio che quel bastardo capisca che è per merito mio che morirà. –
Greville la fissò, immobile. Poi schioccò la lingua sul palato e si aprì in una risata che rimbalzò contro le pareti della stanza. – Affare fatto – allungò la mano sopra la scrivania. – Sarete un ottimo capitano, Miss Sheridan. –
La macchinista ebbe la prima reazione sincera da quando era entrata in quella stanza. Fece un sorriso feroce e strinse la mano del mercante. – Grazie, signore. –
 
▪▪▪
 
Il mattino dopo c’erano due guardie della Compagnia davanti alla sua porta di Sheridan. Si capiva che erano vestite per affrontare qualsiasi problema gli si fosse parato davanti. Alla vita avevano una spada e un manganello. Entrambi davano l’idea di essere stati usati più di una volta.
– Miss Sheridan – disse il primo uomo. – Mr. Greville ci ha pregato di portarla con noi oggi. –
– Mr. Greville è un uomo di parola – la macchinista uscì nella strada assolata. – Verso la locanda o verso la Realgar? –
– Verso la locanda. –
– Molto bene – Sheridan fece un inchino alle due guardie. – Fate strada. –
Camminarono nell’aria fresca del mattino. La macchinista aveva tutta l’intenzione di godersi la giornata: i suoi problemi stavano per giungere alla fine e Chapman stava per morire. Non poteva succedere niente di meglio.
Quando arrivarono alle Sette Sorelle il sole era ormai alto nel cielo. La locanda si trovava nella zona ricca della città, poco distante dalla collina dove c’era la sede della Compagnia. Era un grande edificio a tre piani, imbiancato di fresco, con finestre luminose e un grande orologio dorato sopra la porta d’ingresso. Era il posto preferito di capitani e mercanti, dove potevano ingannare il tempo prima di risalire sulle navi.
Le guardie fermarono Sheridan prima che potesse entrare.
– Miss, dovrete stare dietro di noi. Non possiamo permettere che vi capiti qualcosa. Gli ordini sono chiari. –
La macchinista fece il sorriso più innocente del suo repertorio. – In verità avrei un consiglio per voi. –
– Un consiglio? – i due uomini si guardarono. – Di che tipo? –
– Non credo conosciate il capitano Chapman. Io sì, e da molto tempo. Non verrà con voi senza combattere. –
– Siamo attrezzati in merito, Miss Sheridan – il soldato ridacchiò. – Fidatevi. –
– E voi fidatevi del mio giudizio – la macchinista sapeva di non poter strafare. Un solo piccolo errore e avrebbe perso la partita. – Fatemi entrare per prima. Lui ha fiducia in me. Se gli dirò che c’è bisogno di lui sulla Realgar, lui uscirà dalla stanza. Appena varcherà la porta potrete puntargli le vostre belle spade alla gola e prenderlo senza rischi e senza causare problemi alla locanda – i due uomini sembravano ancora titubanti. Sheridan mise su un’aria pensosa. – Lo sapete vero che questa locanda è di Leandro, uno degli uomini più influenti di tutta Venar? Non credo gli farebbe piacere avere una stanza mezza distrutta per un combattimento. E non credo nemmeno che alla Compagnia farebbe piacere pagare i danni. –
Quelle ultime parole sembrarono convincere le due guardie. Sheridan capì di aver vinto quando una delle due sbuffò. – Molto bene allora, faremo come dite voi. Ma a una condizione. –
– Sono tutta orecchi. –
– Avrete cinque minuti, non di più. Passato questo tempo faremo irruzione. –
Sheridan sorrise. – Cinque minuti sono più che sufficienti. –
Quando entrarono nella locanda ogni attività sembrò cristallizzarsi. Il rumore di chiacchiere e le risate cessarono all’improvviso. L’oste li guardò con occhi spalancati lasciando quasi cadere il boccale che stava pulendo. Sheridan sentiva su di sé gli sguardi perplessi delle persone: vedere due uomini armati fino ai denti guidati da una donna era un’immagine particolare. In più nessuno era troppo tranquillo quando si parlava della Compagnia. Le guardie portavano le insegne della gilda sul petto.
– Signori – mormorò l’oste incredulo. Sugli occhi aveva delle grosse lenti che lo facevano assomigliare a un insetto. – Posso aiutarvi? –
– In realtà sì – Sheridan si avvicinò alle scale senza degnarlo di uno sguardo. – La stanza del capitano Chapman? –
– La dodici. Secondo piano. –
– Molte grazie – Sheridan salì i gradini, seguita dai due uomini. Sentiva l’adrenalina scorrerle nel sangue. Le sembrava che tutto si stesse svolgendo al rallentatore ma in un batter d’occhio erano davanti alla stanza del capitano. Il numero dodici brillava dorato sulla porta.
– Miss… –
Sheridan si girò verso i due uomini, osservandoli bene per la prima volta. Erano più vecchi di lei e preoccupati, lo capiva da come stringevano le mani sull’elsa della spada. Uno dei due aveva dei baffi corti che la macchinista, nella sua euforia, trovò ridicoli.
– Solo cinque minuti, lo so. –
L’uomo annuì, nascondendosi con il suo collega dietro allo stipite, le lame sguainate. Sheridan bussò.
– Capitano? Sono Ella. –
Un suono attutito le fece capire che poteva entrare. Spalancò la porta e se la chiuse alle spalle. Che le due guardie pensassero quello che volevano.
– Ella. A cosa devo il piacere? –
Il capitano Chapman era seduto su una bassa sedia di cuoio, aveva delle mappe sul tavolino basso davanti a sé e un bicchiere colmo di un liquido dorato nella mano. Aveva la camicia stazzonata e i capelli spettinati.
Sheridan si aprì in un sorriso sensuale. Si avvicinò ancheggiando al tavolino dove c’erano i liquori, versandosi da bere. Poteva quasi sentire fisicamente lo sguardo del capitano addosso a sé.
– Sono qui per parlare del nostro piccolo accordo – disse, sorseggiando dal suo bicchiere.
– Ho ricevuto i soldi – Chapman si alzò prendendo il suo bastone. – Sei stata molto puntuale –
– Grazie – Sheridan si avvicinò al capitano. Aveva poco tempo. Camminando si assicurò di sentire contro l’avanbraccio la lama che teneva nascosta nella manica. – Ma non era di questo che volevo parlare. –
– E di cosa? – Chapman la fissava guardingo. Non si fidava di lei.
– Ho pensato a tutta questa faccenda – Sheridan si avvicinò ancora, fermandosi a pochi centimetri dal capitano. Fece un sorriso malizioso. – Sono giunta alla conclusione che non c’è motivo di farci la guerra. Anzi, potremmo andare d’accordo – alzò gli occhi, guardandolo dal basso. – Molto d’accordo, se capisci quello che intendo. –
Negli occhi eccitati del capitano si accese una scintilla di sospetto. La prese per i capelli tirandole la testa indietro, chinandosi sul suo collo. Sheridan sorrise nonostante il dolore.
– Se mi stai mentendo, Ella… – l’alito caldo di Chapman le accarezzava l’orecchio. – Se mi stai mentendo, sappi che all’inferno c’è un posto con il tuo nome. –
In tutta risposta Sheridan girò la testa e lo baciò. Lasciò che le mani del capitano la stringessero, tirandole i capelli. Lasciò che la sua lingua entrasse nella sua bocca, rispondendo al bacio come se fosse quello che aveva sempre desiderato. Poi lasciò che il coltello le cadesse in mano e lo pugnalò al collo.
Il sangue iniziò a sgorgare come da una fontana, macchiandoli di rosso vivo. Il capitano si staccò da lei sguainando la spada, gorgogliando, premendo sulla ferita con una mano cercando inutilmente di fermare l’emorragia.
– Brutta… puttana… – 
Sheridan sorrise feroce, gioiosa, mentre guardava il capitano cadere in ginocchio. – A quanto pare il posto all’inferno è tuo, bastardo. Dì a mio padre che ti mando io. –
Poi urlò, con tutto il fiato che aveva in corpo. La porta si scardinò e le due guardie irruppero nella stanza, armate.
– Cosa cazzo… –
Una guardia si precipitò sul capitano, ormai accasciato sul pavimento in una pozza rosso cupo. Il sangue usciva con getti sempre meno potenti dal suo collo.
Sheridan scoppiò in un pianto a dirotto, crollando a terra, lasciando che il coltello insanguinato cadesse dalle sue mani e rimbalzasse sul pavimento. L’altro uomo le si inginocchiò di fronte, scrollandola.
– Cosa cazzo è successo qui? –
– Ha detto che non si fidava di me… – Sheridan scosse la testa, le spalle sussultavano per i singhiozzi. – Ha cercato di uccidermi! –
I gorgoglii che provenivano dalla gola del capitano si fecero sempre più lievi fino a svanire del tutto.
– È morto – disse la guardia, alzandosi. La sua divisa era sporca di sangue. Si inginocchiò vicino a Sheridan, tirandole su il mento. – Ascolta quello che faremo: non possiamo dire a Greville che l’hai ucciso tu. Diremo che si è rifiutato di venire con noi, che ha lottato ed è rimasto ucciso. D’accordo? – Sheridan singhiozzò. La stretta dell’uomo sul suo viso si fece più forte. – D’accordo? –
Sheridan annuì, sapendo che doveva continuare a piangere per essere credibile. Dentro di sé si sentiva scoppiare dalla gioia. I ladri erano stati distrutti, la Compagnia la riteneva una salvatrice. Chapman era morto, l’omicidio coperto. Lei era libera.
Libera e capitano della Realgar.
 
▪▪▪
 
Il sole del mattino brillava sulla nuova divisa da capitano di Ella Sheridan. Era al porto e stava verificando che tutte le operazioni di controllo della nave procedessero come dovevano. La Realgar era vecchia e c’erano diversi dettagli da sistemare. In più doveva prendere possesso della cabina del capitano e cercare di scassinare la dannata cassaforte.
Sheridan si concesse un sorriso, sciogliendosi le spalle indolenzite. Quelli precedenti erano stati giorni difficili. Greville non era stato contento della morte di Chapman e le guardie avevano ricevuto delle sanzioni. Sheridan non era sicura che il mercante si fosse bevuto la loro storiella, ma oltre a guardarla con aria un po’ più sospettosa non l’aveva trattata in maniera diversa. Dopotutto aveva fatto risparmiare alla Compagnia centinaia di aurei di danni.
Ora, dopo aver risolto la burocrazia, aveva quello che aveva richiesto. Non pensava che la nomina a capitano le avrebbe dato tanto piacere, ma guardando le spalline decorate sentiva un brivido di orgoglio. Quando gliel’aveva detto, sua madre era quasi morta per lo stupore. Ghignò al pensiero di come era diventata “Ella cara” da un secondo all’altro.
– Attento con quelle corde! – urlò al povero malcapitato di turno, che stava praticamente legandosi da solo all’albero maestro. Scosse la testa, guardandolo cercare di sciogliere tutti i nodi che aveva creato.
Il rumore di passi sull’impianto di legno la fece girare. Greville le stava venendo incontro.
– Mr Greville – Sheridan inclinò il capo. – A cosa devo il piacere? –
– Capitano Sheridan – il mercante era molto più allegro rispetto all’ultima volta che si erano visti. Camminava spedito sul molo, le code della giacca che si agitavano verso di lei. – Purtroppo questa volta c’entra il dovere, anche se è sempre un piacere vedere una bella donna come voi – le si avvicinò, abbassando la voce. – Ho bisogno del vostro aiuto. –
Sheridan guardò la faccia serena del mercante. – È per la Compagnia? –
Greville annuì. – Venite con me, per favore. –
Sheridan lo seguì sul molo, verso i primi edifici del porto. – Di cosa si tratta? –
– Lo scoprirete quando arriveremo. –
Sheridan lo seguì in silenzio, sentendo il sospetto farsi strada nelle sue ossa. Aveva scoperto qualcosa? Com’era possibile? Tutti quelli che avrebbero potuto denunciarla erano morti.
Seguì Greville attraverso le viuzze del porto, calmandosi notando che non c’erano guardie nei dintorni. Se avesse voluto catturarla il mercante non sarebbe venuto da solo. Stava pensando a quello quando si accorse che erano quasi arrivati al grosso spiazzo che sporgeva dalla collina sul vuoto sopra la città. Sapeva che era il posto dove si affacciava il magazzino della Compagnia. Sapeva anche che era il posto dove si impiccavano i ladri.
Si bloccò sul posto, un sudore gelido che le scorreva su tutto il corpo. Le ginocchia iniziarono a tremarle. Fece un passo indietro, pronta a scappare, ma Greville la prese sotto braccio, stringendola.
– Di cosa avete paura, Sheridan? – il mercante sorrideva, felice. – Fidatevi di me come io mi sono fidato di voi. –
Sheridan si costrinse a camminare, un sorriso falso le tagliò il viso. Girato un angolo furono nello spiazzo.
Davanti al magazzino della Compagnia c’erano una cinquantina di persone tra clienti, mercanti e guardie armate. Gli occhi di Sheridan scivolarono su tutti loro, attirati dal patibolo che si alzava in piena piazza. Lassù, con già il collo nel cappio, c’era Sarin. Era livido in volto, i vestiti sporchi di terra e sangue.
– Ehilà, Sheridan! – le urlò, sputando un grumo rossastro verso di lei. – Pensavi di essere più intelligente di tutti noi? E invece anche tu finirai appesa! – la sua risata si spense in un gracchiare convulso.
Sheridan si liberò dalla presa di Greville. Fece due passi di corsa prima di essere fermata da due uomini in divisa. Si dibattè, lottò, ma non la lasciarono andare. Si prese una gomitata in piena pancia e rimase senza forze, sentendosi trascinare di peso. Fu issata sul patibolo, al fianco di Sarin, che la fissava con un sorriso macchiato di sangue.
Sheridan stava tremando. Rimase in piedi, fissando la folla accalcata sotto di lei.
– Ella Sheridan – urlò una voce. – Siete condannata a venire appesa per il collo finchè morte non sopraggiunga. I vostri crimini sono: furto ai danni della Compagnia dei Mercanti, omicidio del capitano Luther… –
Sheridan smise di ascoltare. Aveva paura, una paura fottuta. Stava per morire e non poteva salvarsi. Alzò gli occhi al cielo, lasciando che il sole glieli ferisse per l’ultima volta. Non poteva incolpare nessuno per quello che le era successo. Aveva scommesso e aveva perso. Capitava. Era l’ordine delle cose. Almeno, come promesso, aveva portato Chapman con sé.
Si accorse che l’uomo aveva finito di leggere i suoi capi d’imputazione per il silenzio che cadde sulla piazza. Trattenne il fiato. Greville la guardava dal basso con aria severa, ogni traccia di gioia sparita.
Chi ruba verrà punito – le sillabò, sicuro che avrebbe colto le sue parole.
Lei chiuse gli occhi. Chi ruba verrà punito. L’aveva sempre saputo. Nessuno sfugge alla Compagnia.
Sentendo le lacrime scorrerle sulle guance, Ella Sheridan mise la testa nel cappio.

 

Ciao a tutti :)
Questa è la fine della mia piccola storia. Spero che il racconto vi sia piaciuto e che il colpo di scena alla fine non fosse scontato. Mi mancherà Ella Sheridan, devo dire che fino all'ultimo sono stata indecisa se farla sopravvivere o farla morire... quello che ho scelto alla fine lo sapete anche voi. Grazie a chi è arrivato fin qui e soprattutto un grazie speciale a mystery_koopa, a Little_Rock_Angel5 e a Angel Texas Ranger per le bellissime (e utili) recensioni che mi hanno lasciato.
Spero di tornare presto a scrivere qualcosa ^^
Lunghi giorni e piacevoli notti

Lya

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