The Kids Aren't Alright.

di murderbaby
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gwen e Daniel - parte 1. ***
Capitolo 2: *** Joaquin parte 1. ***



Capitolo 1
*** Gwen e Daniel - parte 1. ***


20 Aprile 2018, Bath Township
 
“Ciao mamma, è arrivato Daniel, ci vediamo questo pomeriggio!” - disse Gwen, scendendo di fretta le scale della piccola casa in cui viveva con la sua famiglia sin da quando ne aveva memoria. Lanciò un bacio al volo alla madre, passando davanti alla cucina dove la donna era impegnata in una lotta contro il figlio minore che, come al solito, si rifiutava categoricamente di andare a scuola. Osservò per qualche secondo il proprio riflesso nel vetro di un mobile all’entrata e poi, con un sorriso quasi più splendente del sole che le aveva accarezzato la pelle non appena uscita fuori da casa, aprì la porta, trovando il suo splendente ragazzo aspettarla in macchina, come ogni giorno. Una bellissima routine di cui non si sarebbe mai stancata.
Daniel e Gwen si erano conosciuti su un gruppo online, circa due anni prima di quel 20 Aprile. Lui le aveva consigliato un posto dove mangiare, e lei aveva subito capito che quel ragazzo era diverso da tutti gli altri. Insomma, chi è che ti consiglia dove mangiare alla prima conversazione?
Avevano subito instaurato un meraviglioso rapporto di amicizia che poi era sbocciato in una giovane storia d’amore, sebbene fossero distanti chilometri, ma la distanza è un problema solo se la si vede come tale. Parlavano ogni giorno e si raccontavano tutto ciò che li passava per la testa, persino le cose più stupide, anzi, soprattutto quelle. Quando Daniel, che era due anni più grande di Gwen, si era diplomato, l’aveva raggiunta nella sua città, dove lavorava come programmatore di giochi in un’azienda. Probabilmente il loro amore sarebbe durato per sempre.
La ragazza salì in macchina, schioccando un bacio sulle labbra del fidanzato. Ogni mattina, prima di andare a lavoro, Daniel andava a prendere la ragazza a casa per accompagnarla al liceo e iniziare la mattina nel modo giusto. Dopo esser stati distanti per più di un anno, i due giovani erano riusciti a comprendere l’importanza di ogni singolo momento, di come un momento sono insieme e, qualche giorno dopo, tornano a essere due androgini separati.
“A che ora finisci oggi?” - chiese lui a lei, che aveva lo sguardo rivolto verso la strada di fronte a lei e la mano su quella del ragazzo. Alzò gli occhi al cielo, arricciando le labbra.
“Dovrei finire verso le 14, ma se sei libero prima posso saltare qualche lezione.” - rispose subito lei, quasi sperando che le dicesse di saltare le lezioni. Inutile dire che, ad Aprile, la sua voglia di studiare e seguire le lezioni era ormai sepolta insieme alla sua voglia di fare qualsiasi cosa. In realtà, se fosse stato per lei, avrebbe passato le sue giornate insieme a Daniel, le bastava solo che ci fosse lui.
Girò lo sguardo verso di lui, e un sorriso si formò sul suo viso.
Daniel e Gwen erano completamente diversi, e lei amava ripeterlo. Erano l’uno l’opposto dell’altro e per questo si completavano. Non riuscivano a vedere una Gwen senza il suo Daniel e un Daniel senza la sua Gwen.
Gwen aveva dei lunghi capelli ricci che le si appoggiavano soffici sulle spalle, cadendole lungo i fianchi e circondandole il viso, chiaro, adornato da due occhi neri e grandi. Daniel, invece, era il famoso principe azzurro che ogni bambina ha sognato almeno una volta: alto, biondo e occhi blu mare, “e delle bellissime spalle larghe”, avrebbe aggiunto Gwen. La ragazza era la persona più negativa del mondo, sarebbe riuscita a vedere un lato negativo anche nell’arcobaleno; il ragazzo, al contrario, riusciva a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno. Lui, informatico, completamente dedito alla sua passione; lei, fedelissima ai libri, sognava di essere una bibliotecaria. Insomma, tanto diversi quanto innamorati.
“No, piccola, già non vado così a genio a tua madre, se ti faccio anche saltare le lezioni, non mi accetterà mai come tuo marito.” - entrambi risero, mentre Gwen socchiudeva gli occhi e immaginava il bellissimo matrimonio che avrebbe organizzato insieme all’amore della sua vita. Avrebbe avuto un vaporosissimo vestito bianco con lo scollo a cuore, e lui si sarebbe commosso una volta che sarebbe entrata in chiesa. Si sarebbero guardati negli occhi e, con un bellissimo “sì”, avrebbero distrutto qualsiasi distanza che li avrebbe mai potuti separare.
“Mh, sì, hai ragione - disse, con lo stesso sorriso sulle labbra - come sempre.” - Aggiunse, poi, volgendo lo sguardo dal volto del suo fidanzato a quello della strada del suo liceo. C’erano diversi studenti che camminavano sul marciapiede, con fin troppa calma, considerando che la campanella sarebbe suonata a breve.
I genitori di Gwen erano sempre stati molto apprensivi, sia perché era la loro primogenita che perché era una ragazza, per cui avevano sempre voluto conoscere tutte le persone con cui usciva, anche solo per amicizia. Quando la ragazza gli aveva riferito di aver iniziato una relazione con un ragazzo conosciuto online due anni più grande di lei, non ne erano stati molto felice, ma si fidavano della scelta della figlia. Tuttavia, la madre ancora non vedeva di buon occhio quel ragazzo che, in qualche modo, era riuscito a cambiare la sua bambina in un modo in cui nessuno, neanche lei, era mai riuscito. E in effetti, era proprio così. Senza farla apposta, il biondo aveva completamente sradicato la vita della riccia, che ne era completamente entusiasta. Si sentiva quasi debitrice nei suoi confronti.
“Allora vai piccola, ci vediamo questo pomeriggio.” - disse lui, allungando il collo e il busto verso di lei per darle un ultimo bacio prima di andare a lavoro. Lei ricambio il suo bacio, sorridendo sulle sue labbra e lasciandogli una carezza sulla guancia. Uscì poi dall’auto, chiudendosi lo sportello alle spalle e salutandolo con la mano, per poi seguirlo con lo sguardo, finché la sua macchina non sparì dietro l’angolo. Sorrise, sospirando. Era davvero innamorata di quel ragazzo, non aveva mai amato nessuno nel modo in cui amava lui. Talvolta pensava di amarlo persino più di se stessa.
“Ma buongiorno principessa, ti ha accompagnata il tuo principe?” - Gwen sorrise, girandosi verso la voce della sua amica, annuendole.
Alyssa e Gwen erano diventate amiche il primo anno di liceo, durante la classe di letteratura. Entrambe erano appassionate, così avevano iniziato a leggere libri e commentarli insieme. Era un bel passatempo che le legava e che continuavano a coltivare anche dopo tre anni.
”Proprio lui, non mi sembra ancora vero.” - disse G., finendo la frase con un sospiro. Non era stata molto fortunata in amore, per quanto, alla sua giovane età, potessimo parlare di amore, ma con Daniel si sentiva davvero bene ed era convinta fosse quello giusto per lei. La sua amica scosse il capo, ormai disperata per quanto la sua compagna di lettura non facesse che parlare di lui. A volte, per quante cose sapeva di lui, pensava di essere lei la sua ragazza.
La spintonò, e in quell’istante la campanella avvertiva gli studenti di entrare nell’edificio.
 
8.30 a.M., aula di matematica, II piano.
 
Le due appassionate di letteratura sarebbero volute essere in qualsiasi altro posto, tranne che lì. A nessuna delle due piaceva la matematica, sebbene si sforzassero in tutti i modi per accettarla, almeno, giusto per studiare con più piacere e magari riuscire a ottenere voti discreti nei test. Ma sembra che fossero come due calamite dello stesso polo. Più provavano ad avvicinarsi a quella materia figlia di Satana, più lei le respingeva.
Sulla lavagna sembravano esserci dei geroglifici, che Gwen aveva ricopiato per filo e per segno sul suo quaderno, accompagnati anche dall’iniziale del suo amato, che intanto correva nei suoi pensieri come sempre. Sentiva già la sua mancanza sebbene si fossero salutati appena 30 minuti prima. Ah, l’amore!
Tuttavia, i suoi pensieri accompagnati da cuoricini disegnati sul foglio in cui ci sarebbero dovuti essere solo appunti, furono interrotti da... dei botti? Stavano facendo dei fuochi d’artificio in pieno giorno? Tutti gli studenti si gettarono verso la finestra, più curiosi di scoprire cosa stesse succedendo fuori piuttosto che interessarsi di quello che il povero professore Sanders cercava di spiegare, con lo sguardo verso il cielo. Gwen, però, andò verso la porta e, quando sentì le urla dei suoi compagni di classe e vide un ragazzo con un fucile a pompa puntato verso di lei, era ormai troppo tardi. Uno sparo, le urla della sua amica e il professore che trascinava il suo corpo all’interno dell’aula.

 

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Capitolo 2
*** Joaquin parte 1. ***


20 Aprile 2018, Bath Township
 
Gli occhi del ragazzo erano puntati sul suo obbiettivo: il tabellone del canestro nel suo piccolo giardino. La palla era stretta fra le sue mani, i piedi ancorati a terra si preparavano a fare un salto.
Aveva la passione per il basket sin da quando era bambino, sin dal primo momento in cui aveva stretto quella palla ruvida e dura fra le mani, facendola rimbalzare, o almeno provandoci, data la sua piccola statura, e con gli anni aveva coltivato la sua passione entrando anche nella squadra del suo liceo come ruolo di cestista. Quello era il suo ultimo anno prima di andare al college, per cui doveva darsi da fare per farsi notare da qualche università prestigiosa.. I suoi voti a scuola non erano eccellenti, ma gli bastava prendere una palla in mano per fare magie e lasciare tutti a bocca aperta.
Allungò le braccia verso il canestro appeso sopra il garage, facendo straccare i propri piedi da terra e la palla dalle proprie mani, che andò a toccare prima il tabellone e poi entrò nella retina, per poi rimbalzare per terra. Un sorriso si formò sul volto del ragazzo, mentre portava la mano destra sulla sua t-shirt con il numero 3, quella di Dwayne Wade, il suo idolo indiscusso. La tirò appena, portando prima lo sguardo verso l’alto e poi verso la porta di casa che si apriva. Sua madre percorse il cortile molto indaffarata, con delle cartelline in mano e un passo svelto. Quasi non aveva notato la presenza del ragazzo, finché lui non la chiamò.
“Ciao tesoro, hai bisogno di un passaggio a scuola?” - gli chiese la donna, con lo sguardo stanco, mentre posava ciò che aveva in mano sul tettuccio dell’auto, cercando le chiavi nella sua grande borsa.
La famiglia del futuro cestista non era economicamente stabile, sua madre faceva due lavori e il padre lavorava in una fabbrica che non lo pagava abbastanza, mentre lui si era sempre dato da fare con lavoretti, in modo da non pesare troppo sulla sua famiglia. In vista dell’ultimo anno di liceo prima del college, il figlio stava cercando in tutti i modi di riuscire a ottenere una borsa di studio per giocare allo sport dei suoi sogni, e molto probabilmente ci sarebbe riuscito.
“Se non sei in ritardo, accetto volentieri.” - disse lui, prendendo la sua palla che intanto era rotolata vicino al garage e poi la cartella, poggiata, o meglio buttata, a terra. La madre scosse il capo e gli fece cenno di salire in auto. Ritardo o non ritardo, quella donna avrebbe fatto di tutto per il figlio. Salirono in auto, e la donna mise in momento, uscendo dal vialetto e poi dirigendosi verso il liceo. Non riusciva a capacitarsi del fatto che quello era l’ultimo anno di liceo del suo unico figlio. Era cresciuto così in fretta che le sembrava ieri quando suo marito gli aveva relato la prima palla di basket. Era così felice che la teneva sempre nel letto accanto a lui. Sospirò, abbastanza in apprensione per la borsa di studio del figlio, ovvero l’unica possibilità per permettergli di frequentare un buon college e avere un futuro diverso da quello che potevano dargli lei e suo marito, ma soprattutto l’unica alternativa che aveva per inseguire e raggiungere il suo sogno.
“Cosa c’è che non va, mamma?” - chiese il giovane, rendendosi conto dello sguardo preoccupato che aveva la madre. Sapeva che la madre faceva tanti sacrifici per lui, per questo cercava sempre di essere un buon figlio e di non farle richieste troppo assurde come viaggi o cellulari costosi. Si continuava sempre a ripetere che avrebbe avuto tempo per viaggiare, quando sarebbe stato un giocatore di basket professionista  e tutto il mondo lo avrebbe amato. Avrebbe reso sua madre e suo padre fieri di lui, non avrebbe reso vani i loro sacrifici.
“Nulla di grave... Sono solo preoccupata per la borsa di studio. Quando ci saranno le selezioni?” - disse lei, tenendo lo sguardo fisso verso la strada. Erano circa le 7.45 circa, i marciapiedi erano calpestati da adolescenti, bambini accompagnati dai genitori e da signori anziani che invece volevano solo fare una passeggiata prima che il sole diventasse troppo caldo. Il liceo non era molto distante in auto dalla loro abitazione, in più era una piccola città in cui il traffico era praticamente inesistente, per cui le strade erano scorrevoli e sicure.
Alla risposta della madre, il ragazzo prese fra le mani la palle che aveva appogiato tra i piedi, facendola girare fra le due dita medie. Capiva alla perfezione l’ansia della donna al volante, poiché anche lui era abbastanza preoccupato per quelle selezioni. Era cosciente del suo talento, ma spesso si andava avanti solo a raccomandazioni o per nome, e lui non aveva nessuno dei due. Nessuno dei suoi genitori, o in generale nessun suo parente, era mai stato in una squadra al college, alcuni non erano neanche stati al college, per cui non poteva vantarsi di nessun talento familiare. Poteva contare solo sulle sue forze, e questo lo spaventava a morte. Tuttavia, decise di essere lui quello forte, e fece un grosso sorriso verso la madre, che lo guardava con la coda dell’occhio.
“Mamma, ricordati chi sono io.” - disse, facendo roteare la palla su un dito, per poi rimetterla fra i proprio piedi. - “Io sono Joaquin Oliver, sono uno dei migliori cestisti che la Bath High School può vantare. Vincerò tanti trofei, porterò gloria prima alla mia scuola e poi alla mia università. Non c’è niente e nessuno che può fermarmi da questo.” - concluse, allungandosi verso la madre e lasciandole un bacio sulla guancia.
Poteva sembrare un ragazzo egocentrico e fin troppo sicuro di sé, ma con con gli anni aveva imparato che, se non crede lui in se stesso, nessuno altro avrebbe riposto fiducia e speranza in lui.
La madre sorrise, fermando l’auto proprio davanti alla scuola, con il cortile ormai pieno di ragazzi. Si allungò a sua volta verso il figlio, stringendolo fra le proprie braccia.
”Sono davvero fiera di te, Jo.” - disse, lasciandogli un bacio sulla nuca. Lui le sorrise, e poi prese cartella e palla.
“Ci vediamo questa sera, buon lavoro.” - Uscì dall’auto e diede le spalle alla madre, che partì. Diede un’occhiata in giro, cercando qualche ragazzo della sua squadra. A breve ci sarebbero state le selezioni, per cui erano esonerati dal seguire alcune lezioni per gli allenamenti. Vide un braccio alzarsi vicino al portone d’entrata della scuola, riconoscendo il capitano. Corse dai suoi compagni, per poi varcare il portone dell’edificio non appena la campanella iniziò a suonare.
 
8.30 a.M., palestra di basket, I piano.
 
Ogni giorno gli allenamenti diventavano più duri. Giri interi di corsa del campo, suicidio, tiri e ancora corse. L’allenatore cercava di migliorare la loro forma fisica e soprattutto la loro resistenza, oltre che la tecnica di tiro. Erano dei grandi sacrifici, ma tutti sapevano che ne valeva la pena.
Per entrare nella squadra di basket del liceo bisognava superare una selezione, che consisteva in prove di corsa e di tiro, e poi in una partita amichevole fra coloro che volevano entrare. Gli allenatori e i giocatori già in squadra osservavano uno ad uno tutti gli sfidanti, cercando di capire chi sarebbe stato più utile per la squadra. In genere erano pochi i primini ad entrare, oppure, se entravano, finivano nelle riserve; i ragazzi del secondo e del terzo anno erano sicuramente i favoriti. Avevano avuto tempo sia per osservare la squadra che non avevano esami importanti da superare; tuttavia, i ragazzi del quarto anno erano quelli che in genere giocavano di più, in particolare perché avevano bisogno di rimanere impressi nella mente di eventuali osservatori delle università.
Nella squadra del liceo dell’anno scolastico 2017/2018, tutti avevano un grande obbiettivo per impegnare. Chi, come Joaquin, per la borsa di studio, chi, come Corey, per vincere il torneo fra scuole e chi, semplicemente, per farsi un nome nel liceo.
Mentre i ragazzi iniziavano a prendere le palle per tirare al canestro, dei rumori inconsueti cominciavano a farsi largo fra le mura della scuola.
“Saranno ancora i ragazzi del club del cinema” - penso uno di loro, passando la palla al giovane Joaquin.
Tuttavia, quei rumori si facevano sempre più vicini e l’allenatore cominciò a infastidirsi.
“8 - ovvero la maglia di Corey - vai a vedere cosa succede e qualsiasi cosa sia digli di fare meno casino! Abbiamo un torneo da vincere.” - disse scorbutico il coach. II ragazzo si diresse allora verso la porta della palestra, affacciandosi e trovandosi davanti una scena surreale. Degli studenti erano a terra feriti, sanguinanti, e non sembrava una semplice sceneggiatura di un film. Quelle persone erano morte. Spalancò gli occhi, pietrificato, sentendo un conato di vomito salirgli per la gola. - “8, entro oggi!” - aggiunse l’allenatore stizzito. Corey ritornò in sé, chiudendosi la porta della palestra alle spalle.
“Ci... Ci sono dei cadaveri fuori.” - disse, quasi in un sussurro. I ragazzi lo guardarono, e solo in quel momento si resero conto che, quei rumori che avevano sentito, erano degli spari.
Gli Stati Uniti erano ormai famosi per le loro stragi scolastiche. Adolescenti prendono delle armi e iniziano a uccidere i loro compagni di scuola, per vendetta, per protesta contro la scuola, semplicemente perché ne hanno voglia. Gli studenti hanno protestato più volte, hanno scioperato insieme ai loro insegnanti, ma fino a quando non ti trovi nella situazione, non comprendi mai la paura, la consapevolezza che quello potrebbe essere il tuo ultimo giorno di scuola.
I ragazzi erano terrorizzati, molti di loro iniziarono a prendere il cellulare per chiamare i propri cari, per allertare la polizia, altri addirittura per fare delle dirette online. Ma non Joaquin. Joaquin era un combattente e niente lo avrebbe fermato. Corse nell’atrio della scuola, dove trovò i cadaveri dei suoi compagni, oltre che quelli di feriti. Si avvicinò a una ragazza, prendendole la mano.
Avevano frequentato insieme le lezioni di educazione fisica, era una brava ragazza ma non ricordava il suo nome.
Mise le mani dietro la sua schiena e dietro le sue gambe, in modo da sollevarla e portarla in salvo. Ma il respiro gli si fermò nel momento in cui, alzando lo sguardo, si ritrovò una pistola semi-automatica puntata verso di sé. 

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