L'ultima battaglia di Resen-Lhaw di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Resen-Lhaw 1
Salve
a tutti/e! Ecco il nuovo mappazzone per la gioia (si fa per dire) di
tutti voi!
Rivolgo
un ringraziamento speciale a Jadis_ perché l’idea originale
per questa storia nasce da un suo contest che purtroppo non è andato
a buon fine, ma mi ha comunque regalato grandi spunti.
Ringrazio
ovviamente in anticipo tutti coloro che passeranno di qui, e la
giudice che ha mi ha dato l'occasione di finire questa vicenda
tristemente
rimasta a metà.
L’ULTIMA
BATTAGLIA DI RESEN-LHAW
Capitolo
1
Il
principe Herich e il suo precettore, un imponente chierico del culto
di Dras, stavano camminando fianco a fianco lungo il colonnato che
circondava la terrazza del palazzo reale. Era pomeriggio inoltrato e
il sole faceva splendere il marmo bianco dell’edificio donandogli
una corposa tonalità di avorio. I vessilli rossi della casata, uno
su ogni torre, sventolavano pigri nella lieve brezza.
L’orizzonte
era occupato dall’imponente scenario dei monti Kelis.
La
passeggiata non era uno svago fine a se stesso, ma uno dei modi che
il precettore aveva escogitato per fare lezione al suo pupillo:
alcuni filosofi sostenevano che impartire insegnamenti al cospetto
delle bellezze della natura aiutasse l’apprendimento ed egli era un
acceso sostenitore della teoria. “Ebbene, principe,” lo
interrogò, “cosa sai dirmi della poesia di Esthin?”
Il
ragazzo distolse a fatica lo sguardo dalla piazza d’armi che si
vedeva dalla terrazza e in tono distratto rispose: “La poesia di
Esthin, sviluppatasi nel palazzo omonimo nel secondo secolo dell’Era
Terza, anche detta Nostra Era, tratta principalmente di amore cortese
e nasce per cantare le virtù della donna amata elevandola al rango
di creatura semidivina.” Detto questo, tornò a rivolgere lo
sguardo nella direzione di prima.
Il
chierico emise un sospiro: le parole esatte che gli aveva detto a
lezione, e che lui aveva senza dubbio imparato a memoria. “Hai
scritto il componimento che ti avevo chiesto?”
“Sì,
maestro Cresdan.”
“Sentiamolo
un po’.”
Il
ragazzo si schiarì la voce e cominciò: “Oh mia signora, che...”
ma subito si interruppe e letteralmente sobbalzò quando uno dei
guerrieri che si trovavano sulla piazza d’armi ne disarmò un
altro.
“Ebbene?”
“Mia
signora… il tuo vestito...” Di nuovo si interruppe.
Il
chierico emise un sospiro. “Principe, tu non mi stai prestando
attenzione.”
Il
ragazzo ritirò appena la testa fra le spalle, ma non smise di
scrutare ansiosamente lo spiazzo disseminato di coppie intente a
duellare. “È che oggi torna Dewrich,” rispose in tono di scusa.
“E
questo ti sembra un buon motivo per non seguire la lezione? Conoscere
la poesia è importante per un principe.”
“A
Dewrich non serve la poesia,” fu la risposta, “lui è un
guerriero.” Poi il ragazzo emise un sospiro e si appoggiò alla
balaustra, guardando in giù con nostalgia.
“Parlami
della battaglia di Brielar, allora,” gli disse Cresdan.
Il
ragazzo si girò verso di lui con gli occhi illuminati. “Il
massacro del golfo di Brielar è la battaglia più famosa della
Guerra Orientale, in cui l’esercito del Waerund fermò l’avanzata
dei predoni di As’del e li ricacciò oltre il fiume Phorean. In
quella battaglia si ricordano il celebre comandante Tjeran Sonse,
anche detto Resen-Lhaw, o Leone Rosso del Waerund, e il suo eroico
sacrificio, che ha permesso al re Elkiergar, alla battaglia
successiva, di trionfare sull’esercito invasore. I bardi cantano le
gesta del valoroso generale, che alla testa delle sue truppe fermò i
nemici abbastanza a lungo da consentire al grosso dell’esercito del
re di attestarsi su posizioni tatticamente più vantaggiose. Lui e i
suoi soldati morirono eroicamente, con le armi in pugno.”
Il
chierico annuì soddisfatto. “D’accordo, vedo che hai studiato.”
“Posso
andare?”
“Dove
vuoi andare, Herich?”
“A
incontrare Dewrich.” Poi, visto che il precettore non dava segno di
decidersi, insisté: “Torna oggi dal tempio di Jechen, ha ricevuto
l’armatura con le insegne del dio in oro. Posso?”
“D’accordo,
ma per domani voglio un componimento nello stile di Esthin. Di almeno
cinquanta versi.”
“Sì,
sì!” gli rispose di getto il ragazzo correndo via. Cresdan era
sicuro che non avesse nemmeno sentito quello che gli aveva chiesto.
“Scommetto
che domani mi porterà un esercizio di matematica,” disse fra sé e
sé crollando le ampie spalle. Si incamminò con le mani dietro la
schiena, pensando che Herich era davvero un ragazzo sfortunato:
riusciva perfettamente in qualsiasi prova di natura intellettuale,
aveva memoria, sagacia e intelligenza, ma aveva in spregio tutto ciò,
mentre anelava disperatamente alla gloria delle armi. Peccato che a
sedici anni fosse ancora snello come una fanciulla, e così delicato
che anche solo usare la spada per mezz’ora gli faceva venire le
vesciche alle mani.
“A
volte i disegni di Dras sono davvero imperscrutabili,” borbottò
fra sé e sé.
Herich
nel frattempo stava scendendo a precipizio i gradini della terrazza.
Si lasciò alle spalle il palazzo di marmo bianco e corse verso i
quartieri delle guardie, raggiungendo la piazza d’armi.
L’enorme
spiazzo era diviso in due parti da una linea tracciata per terra: da
un lato i soldati di Dyat facevano le esercitazioni e dall’altro i
maestri d’armi impartivano lezioni agli alti ranghi militari e ai
figli dei nobili. In quella zona c’erano diverse coppie di
duellanti che si allenavano sotto l’occhio vigile degli istruttori.
Il
ragazzo sogguardò per un po’ l’arena, ma prima che potesse
decidere se entrarvi o meno, risuonò nell’aria un alto nitrito.
Tutti smisero di combattere e si voltarono verso la provenienza del
suono: dalla Via d’Onore, ovvero il viale che metteva in
comunicazione la piazza d’armi con la porta orientale di Dyat,
stava arrivando al galoppo un cavaliere. Aveva un’elaborata
armatura, ma non portava l’elmo. Dietro la schiena, assicurata alla
maniera dei guerrieri di Jechen, aveva una spada dalla lama
leggermente ricurva.
“Dewrich!”
esclamò il giovane principe. Senza indugio corse in quella
direzione, ma subito si trovò nel mezzo di una folla che stava
facendo esattamente la stessa cosa: gli ufficiali e i nobili,
infatti, unitamente ai maestri d’armi, stavano praticamente
facendo a gara per essere i primi a porgere i loro omaggi a quello
che con ogni probabilità sarebbe diventato presto l’erede al
trono.
Il
cavaliere arrestò il destriero al centro dello spiazzo e scese di
sella con un balzo agile, poi si tirò indietro i capelli che gli
erano scivolati sugli occhi. Si guardò intorno con espressione
fiera.
Tutti
si inchinarono.
“Salute
a te, Taman!” disse il principe per prima cosa, rivolgendosi al
capo dei maestri d’armi. “Hai visto che finalmente ce l’ho
fatta a diventare un guerriero?”
“E
vedo che sei consacrato a Jechen il Possente,” rispose l’uomo
porgendogli la mano. “È un grande onore per me.”
Dewrich
la strinse con calore. “Ora ti penti di tutte le volte che mi hai
fatto mangiare la polvere dell’arena?”
L’altro
sorrise. “No, principe. Se i miei insegnamenti fossero stati più
morbidi, il dio della guerra non ti avrebbe mai scelto come suo
adepto.”
Dopo
Taman, altri si fecero avanti, ansiosi di salutare il giovane o di
complimentarsi con lui.
Herich
attese pazientemente. Solo quando tutti si furono allontanati si
avvicinò cauto. “Fratello?” lo chiamò.
Dewrich
si voltò nella sua direzione. “Herich! Vieni qui da me, fratello
mio!”
Il
ragazzo corse ad abbracciarlo. “Resterai molto?” gli chiese.
Socchiuse gli occhi, inebriato dall’odore di cuoio e ferro
dell’usbergo, che gli ricordava le battaglie di cui amava leggere.
“Almeno
fino al Rito.”
“Dopo
andrai via subito?”
L’altro
alzò le spalle. “Dipende.”
Herich
sorrise. “Allora resterai. Dras sceglierà sicuramente te.”
“Vedremo,”
si limitò a rispondere Dewrich. Si tirò indietro i capelli e spostò
anche dalla fronte del fratello le ciocche ribelli che perennemente
la coprivano, poi soggiunse: “Vieni, andiamo a portare Aglas in
scuderia.”
“Non
lo affidi agli stallieri?”
“Solo
io posso toccare il mio destriero da guerra. E mio fratello,
naturalmente.”
Herich
sorrise. “Posso montarlo?”
“È
un destriero da guerra,” rispose Dewrich.
“E
allora?”
“Ci
vuole molta forza, Herich.”
Il
più giovane si rabbuiò e si chiuse in un risentito silenzio.
Fu
l’altro che dopo un po’ gli chiese: “Come vanno i tuoi studi?”
Il
ragazzo fece spallucce. “Bene,” rispose senza entusiasmo,
“Cresdan dice che se volessi potrei diventare chierico prima dei
vent’anni.”
“Prima
dei vent’anni? Sul serio?”
“Non
mi interessa diventare chierico. Non voglio passere tutta la vita a
scrivere delle pergamene e a buttare incensi sui turiboli. Voglio
combattere.” Fece passare qualche secondo, poi soggiunse: “Come
te.”
A
quelle parole Dewrich rimase in silenzio e per un po’ gli unici
suoni che si udirono furono lo scalpiccio degli zoccoli del destriero
e il rumore dei loro passi. Infine, il principe disse: “Non
disprezzare i doni di Dras, egli sa a chi deve elargire l’una o
l’altra virtù.”
“Allora
Dras deve proprio odiarmi,” replicò cupo il ragazzo. Chinò la
testa e si tirò indietro i capelli che gli erano di nuovo scivolati
sulla fronte.
L’altro
gli circondò le spalle con un braccio e lo tirò verso di sé.
“Chierico prima dei vent’anni non è una cosa da poco.”
“Io
non voglio diventare chierico,” ripeté Herich. “Voglio
combattere. Tutti i giorni mi faccio dare lezioni da Taman, sai?”
“Da
Taman? Allora sì che sei un coraggioso!” rispose Dewrich ridendo.
“Ha
detto che con lo stocco me la cavo bene,” replicò Herich, indeciso
se sentirsi preso in giro o unirsi alla risata.
A
quelle parole, il più grande si fermò, costringendo l’altro a
fare altrettanto. Lo prese per le spalle e fissandolo negli occhi
disse: “Allora domani combatteremo, d’accordo? Voglio proprio
vedere se Taman ti ha detto la verità o se ti stava solo adulando
perché sei il figlio del re.”
“Con
te non lo ha mai fatto, perché dovrebbe farlo con me?”
“Domani
vedremo,” gli disse Dewrich per tutta risposta.
Una
volta sistemato il destriero, i due si diressero verso il palazzo
reale. In previsione del Rito, tutti i templi erano aperti e ornati
di fiori e drappi ricamati. Anche le grandi porte di bronzo del
tempio di Dras erano aperte, una cosa che si verificava solo per
quell’importante cerimonia, quindi una volta ogni generazione.
All’interno si potevano vedere i sacerdoti e i novizi che si
affaccendavano ad allestire l’altare.
“Tu
sai come si svolge il Rito?” chiese Herich. Sogguardò l’interno,
che illuminato dal sole gli parve decisamente più ampio e maestoso
del solito. Era vagamente intimidito da tutti quei preparativi.
“Dovresti
dirmelo tu.”
“Perché
io?”
“Non
sei tu che studi da chierico?”
“Insomma,
basta!” protestò il ragazzo, dandogli una spinta come faceva
quando era più piccolo, “Io non voglio diventare un chierico. Non
mi interessa.”
L’altro
finse di barcollare. “Beh, domani Dras potrebbe anche dirti che
diventerai re.”
“Ma
figurati, vuoi che Dras scelga un inutile topo di biblioteca come me?
È ovvio che sceglierà te.”
“Siamo
nelle sue mani,” fu la sobria risposta.
Dopo
quella frase nessuno dei due aggiunse altro ed erano ancora in
silenzio quando arrivarono al cospetto del padre.
Re
Evertas era nella sala del trono, anch’essa addobbata per
l’occasione con gli stemmi della casata e le panoplie di armi degli
antenati. Herich si guardò intorno, sentendosi vagamente in
soggezione di fronte a tutte quelle insegne di guerra. Ancora una
volta, era come se impietosamente Dras gli ricordasse che non era un
guerriero e non lo sarebbe mai stato, e che la gloria delle armi gli
era preclusa. Ripensò a Resen-Lhaw e alla sua eroica resistenza e si
sentì invadere dallo struggimento: quello sì che sarebbe stato un
bel modo di essere ricordati. Chi si ricordava invece del pur saggio
e sapiente chierico che aveva scritto le liturgie del tempio di Dras?
Chi, a parte qualche studioso, parlava di lui con deferenza e
rispetto? Quante persone aveva salvato con l’impresa che aveva
compiuto? Si voltò verso il fratello e come sempre Dewrich gli parve
l’immagine stessa di Jechen, così come l’aveva sempre visto
raffigurato nei templi: alto, forte, con il volto pallido
incorniciato dai capelli neri lunghi fino alle spalle. Aveva
un’espressione decisa, che ispirava sicurezza. Sarebbe stato un
magnifico re.
Sospirò.
Con suo fratello aveva in comune solo il colore dei capelli, e forse
l’altezza. Paragonati a quelli verdi di Dewrich, persino i suoi
occhi cerulei, che normalmente suscitavano commenti estasiati, gli
sembravano brutti.
Il
re li chiamò a sé. Herich non poté fare a meno di notare che
l’atmosfera non aveva la connotazione informale delle riunioni
precedenti, e che il padre aveva un cipiglio grave che non gli aveva
mai visto se non in occasioni decisamente serie.
“Come
sapete, figli, domani notte Dras stabilirà chi di voi due dovrà
succedermi quando giungerà il momento.”
I
due si scambiarono un’occhiata ma rimasero in silenzio.
“Dras
sceglie secondo la sua imperscrutabile saggezza,” proseguì re
Evertas, “e non è bene andare contro i suoi voleri.”
Herich
annuì, poi si voltò verso Dewrich, che però si limitò ad
aggrottare appena le sopracciglia senza distogliere gli occhi dal
genitore. “Cosa succederà?” chiese il ragazzo.
“Sarà
il grande sacerdote a istruirvi,” fu la risposta. “La prima parte
della cerimonia avverrà nel grande tempio qui a Dyat.”
“E
la seconda, padre?”
“Il
prescelto si recherà a est, alla gola di Os’lak, dove sorge il
Primo Tempio. Lì riceverà la corona che il dio riterrà di
concedergli.”
“In
che modo?”
“Questo
è uno dei Sacri Misteri,” rispose Evertas, “non posso rivelarlo
neppure a voi che siete i miei figli.”
Herich
abbassò lo sguardo. Si chiese se il fratello gli avrebbe almeno
permesso di andare a Os’lak con lui.
Si
fermarono ancora un po’ a parlare col padre, poi vennero congedati
e uscirono nell’anticamera della sala del trono. Da lì si
diressero ai loro quartieri.
“Ho
voglia di togliermi questa armatura e farmi un bagno,” disse
Dewrich, “nonostante sia stata fatta dagli artigiani di Fjorn, dopo
una giornata comincia a pesare.”
Herich
la guardò: era tutta di ferro blu e cuoio, con decorazioni in
argento. “È bella,” disse. “Ne aveva una così Adale di Lidas,
secondo le cronache, e costava più di tutto il suo regno, perché il
ferro blu è uno dei materiali più rari che ci siano.”
“Vedo
che sei ben informato. Te la farò provare, se vuoi.”
“Davvero
posso indossarla?”
Il
maggiore stava per rispondere quando alle loro spalle echeggiò una
voce: “Che mi prenda un colpo se quello non è Dewrich il
guerriero!”
Un’altra
rispose: “Sì, è lui. Andiamo a salutarlo, scommetto che non
rifiuterà una bevuta con i vecchi amici!”
Essi
si girarono all'unisono e videro due giovani esponenti della nobiltà
di Dyas. In tono allegro, Dewrich esclamò: “Nelber, Lyerwen!
Quanto tempo! Datemi solo un attimo per togliermi questa roba e sono
da voi.” Si voltò di nuovo verso il fratello: “Perdonami,
Herich, ma è tanto che non li vedo.”
“Fa
niente,” rispose il ragazzo con un’alzata di spalle. “Va'
pure.”
La
biblioteca era una sala ampia e ombrosa, che odorava di pergamena e
legno incerato. I raggi di sole che entravano dalle vetrate facevano
brillare il pulviscolo che danzava nell’aria.
Herich
chiuse il libro che stava sfogliando e rimase con la guancia
appoggiata alla mano e il gomito puntato sul piano del tavolo. Emise
un sospiro, che il silenzio pieno di echi amplificò fino a farlo
sembrare il sussurro di uno spirito inquieto.
Dewrich
l’aveva lasciato per andare con i suoi amici e a lui non era
rimasto altro da fare che rintanarsi come al solito a leggere le
vicende degli eroi. Abbassò lo sguardo sul grande tomo miniato che
aveva davanti: Cronache della Guerra Orientale.
Ripensò
a Resen-Lhaw. Siccome non era riuscito a trovare immagini del suo
volto da nessuna parte, se lo figurava sempre di spalle, con addosso
l’elmo, l’armatura e la cotta d’arme rossa. Nella sua
immaginazione impugnava due spade, e si ergeva fiero e indomito a
scrutare il golfo di Brielar.
A
volte l’aveva anche sognato: Resen-Lhaw era di spalle, esattamente
nella posizione in cui lo immaginava, ma quando lui cercava di
raggiungerlo, si accorgeva che non era possibile, e mentre l’eroe
continuava a fissare sdegnoso il mare, le sue mani annaspavano nel
vuoto senza mai toccarlo.
Sospirò.
Talvolta rimpiangeva di non essere esperto nell’arte della pittura,
perché altrimenti avrebbe volentieri disegnato lui un ritratto di
Tjeran Sonse in armi. Sapeva dalle cronache che aveva gli occhi
azzurri e i capelli biondi, ma il resto poteva solo immaginarlo.
Si
chiese se nell’esercito ci fosse qualcuno che aveva preso parte
alla Guerra Orientale. Magari c’era ancora qualche veterano che
l’aveva visto, o che magari in qualche battaglia precedente al
Massacro aveva addirittura combattuto al suo fianco.
Appoggiò
la fronte sul tavolo emettendo un sospiro. Presto Dewrich sarebbe
diventato l’erede al trono. Si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei
figli che avrebbero portato avanti la casata, magari avrebbe
combattuto delle guerre, o sarebbe stato ricordato nelle cronache per
qualche altro motivo.
Poi
pensò a se stesso: cosa lo aspettava? Un avvenire da chierico,
segregato in un monastero a recitare salmi.
§
Il
mattino era radioso. Non c’era una nuvola in cielo e il sole faceva
splendere il marmo bianco del palazzo reale così intensamente che
guardarlo faceva quasi male agli occhi. La luce forte toglieva le
ombre agli elementi architettonici, e archi, lesene e cupole quasi
scomparivano confondendosi in un'unica massa candida.
Dalle
vette dei Kelis spirava una brezza fresca, che faceva sventolare i
vessilli scarlatti come lingue di fuoco.
Herich
e Dewrich percorsero la scala che dal porticato del palazzo portava
alla piazza d’armi. Il maggiore aveva lasciato da parte l’armatura
ed entrambi avevano come protezione solo una leggera imbottita. Al
fianco avevano uno stocco.
Il
più giovane precedeva l’altro di parecchi passi e spesso si
fermava e si voltava indietro per controllare che non rimanesse
troppo indietro. “Andiamo?” gli chiese a un certo punto.
“Con
calma. Hai tutta questa fretta di farti umiliare da me?”
Herich
sorrise. “E chi ti dice che sarai tu a umiliare me?”
Dewrich
non replicò.
Giunsero
alla piazza d’armi, che a quell’ora era percorsa solo dai soldati
di guardia. Si misero uno di fronte all’altro e sfoderarono le
armi, quindi si scambiarono il saluto.
“In
guardia,” disse Dewrich, poi assunse la posizione regolamentare.
Herich
si morse il labbro inferiore. Ora che si trovava di fronte suo
fratello con un’arma in mano, se ne sentiva piuttosto intimidito:
gli occhi verdi di Dewrich lo scrutavano per cogliere i suoi punti
deboli, la sua espressione risoluta lo metteva in soggezione. Il suo
fisico robusto, muscoloso, dalle movenze rapide e precise gli
sembrava quello di una belva pronta a colpire.
“Forza,
fratellino,” lo incitò il maggiore.
Il
ragazzo si obbligò a non cedere all’emozione. Strinse l’arma e
tentò un affondo, che l’altro parò senza difficoltà. Tornò in
posizione di guardia.
“Tutto
qui quello che ti ha insegnato Taman?” lo provocò Dewrich.
I
primi scambi furono molto tranquilli: parata e risposta, parata e
risposta. Dopo ogni assalto, Dewrich gli spiegava cos’aveva
sbagliato e glielo faceva ripetere come se gli stesse facendo
lezione. Poi, dopo un po’, gli chiese: “Ora sei pronto a fare sul
serio?”
Herich
deglutì. “Sono pronto,” rispose, sforzandosi di guardare il
fratello negli occhi.
“Molto
bene,” approvò l’altro, “preparati, perché ora vedrai cosa
succede davvero in quelle battaglie che ti piacciono tanto.”
Il
primo assalto fu talmente rapido che Herich non lo vide nemmeno
arrivare. Si trovò il ferro così vicino al viso che riuscì a
percepire l’odore dell’olio che era stato applicato sulla lama
durante l’affilatura, e poi si sentì spingere all’indietro e
finì nella polvere. Alzò lo sguardo e vide Dewrich che gli puntava
la spada al petto. “Rialzati,” gli ordinò brusco. Il volto si
era fatto duro, gli occhi fiammeggiavano.
Il
più giovane si rimise in piedi. Tentò un assalto, ma l’altro lo
deviò facilmente e di nuovo lo spinse via facendolo rovinare al
suolo.
“In
piedi.”
Herich
si rialzò ansante e si tirò indietro i capelli. Assunse di nuovo la
posizione di guardia, ben deciso a non mostrarsi inetto di fronte a
suo fratello. Si fece avanti con una punta al viso, ma l’altro parò
di filo falso e poi girò fulmineo il polso per rispondere con un
tondo rovescio. Herich si fece precipitosamente indietro, l’altro
lo incalzò senza dargli il tempo di rimettersi in posizione,
costringendolo a parare un colpo dopo l’altro. “Ecco, questa è
la guerra!” disse avanzando senza riguardi, “Che ne dici, ti
piace?”
“Dewrich...”
“Allora,
ti piace? Quando ti prendi colpi da tutte le parti e non sai cosa
fare, quando non riesci a vedere il tuo avversario da quanto è
veloce, è quella la guerra, non i tuoi stupidi libri con gli eroi
del passato, Haure il Senza Paura o il Leone Rosso del Waerund!”
Colpì
di nuovo con un fendente, Herich indietreggiò con un gemito
portandosi la mano al viso. Egli fece per colpirlo di nuovo, ma la
sua lama si arrestò contro quella di un’altra spada.
“Forse
non ti sei accorto che il tuo avversario è già fuori combattimento,
principe,” disse il padrone dell’arma con voce tranquilla.
Ancora
ansante, col sangue che gli colava lungo la guancia, il ragazzo aprì
le dita che gli coprivano il volto: chi aveva fermato il colpo era
una delle guardie, un soldato con la lorica segmentata e l’elmo
dalla cresta rossa. Percepì il bagliore di chiari occhi azzurri.
“Come
ti permetti?” ringhiò Dewrich. Fece per colpirlo con una
piattonata, ma il militare parò il colpo senza apparente difficoltà.
“Il giovane principe è ferito,” si limitò a fargli notare.
L’altro
stava per replicare quando echeggiò un brusco richiamo. Il soldato
rinfoderò la spada e si mise sull’attenti.
Arrivò
un sergente. “Che cosa sta succedendo qui?” sbraitò. Poi, una
volta che si fu avvicinato: “Ancora tu?”
Il
soldato rimase a fissarlo immobile.
“Ti
sei intromesso nell’allenamento di Sua Altezza?”
“Sì,
sergente.”
“Per
tutti i volti di Dras! Fila via, con te facciamo i conti dopo!”
poi, rivolto a Dewrich: “devi scusarmi, principe, quel soldato è
uno stupido, un buono a nulla. Di solito non dà problemi, ma ogni
tanto fa cose strane. Lo farò punire severamente, sta tranquillo.
Vedrai che gli farò passare la voglia.”
“No,”
intervenne Herich
I
due si voltarono verso di lui.
Ancora
con la mano sull’occhio, il ragazzo ripeté: “No, ha agito per
difendermi, ha fatto il suo dovere.”
“Non
eri in pericolo,” replicò brusco il fratello, “inoltre un
soldato semplice non deve intromettersi in certe cose. Io ti stavo
dando un insegnamento importante e quello stupido l’ha vanificato.”
Si rivolse poi al sergente: “Puniscilo in modo esemplare.”
Herich
gli prese il braccio. “No, per favore!”
“Ora
basta,” rispose brusco l’altro, “Non fare il bambino. I soldati
non devono prendersi certe libertà.”
“Ma
Dewrich...”
“Ho
detto basta.”
Il
ragazzo chinò la testa. Si voltò verso il soldato che si stava
allontanando e cercò di imprimersi nella memoria quanto più poteva
di lui: era alto e forte, ma quando nessuno lo guardava tendeva a
stare un po’ ingobbito, come se si vergognasse della sua
corporatura. Nei pochi secondi che l’aveva visto non era riuscito a
stabilire quanti anni avesse, ma gli sembrava comunque che non fosse
giovane. Di sicuro era più vecchio del sergente che l’aveva
redarguito. Si chiese come mai un uomo di quell’età fosse ancora
un soldato semplice.
La
voce del fratello lo distrasse dai suoi pensieri: “Ti fa male?”
Herich
si girò verso di lui, rapido come se fosse appena stato sorpreso a
fare una cosa molto sconveniente. “No, fratello,” mentì.
“Fa
vedere.” Gli prese il volto fra le mani e lo osservò attentamente.
“Non è nulla,” concluse poi sbrigativo. “O, per meglio dire, è
il minimo che ti puoi aspettare andando in guerra.”
“Tu
sei stato in guerra, Dewrich?”
L’altro
levò di lui uno sguardo che sembrava volerlo incenerire, tanto che
Herich deglutì spaventato. “Sono un guerriero di Jechen,” fu
l’asciutta risposta, e il ragazzo ritenne più saggio non
insistere.
“Ora
andiamo,” disse poi, “voglio che ti lavi via quel sangue dalla
faccia.”
“Sì,
fratello.”
Come
sempre in biblioteca, Herich chiuse il libro e si toccò cautamente
il viso.
La
ferita in effetti non era grave: era appena uno sgraffio, che gli
segnava il sopracciglio e lo zigomo sinistri. Un colpo più deciso
gli avrebbe probabilmente tolto l’occhio, ma Herich era sicuro che
il fratello avesse dosato la forza del fendente con precisione per
fargli solo un po’ di male. Non per niente era un guerriero di
Jechen, quella della spada era la via che aveva scelto di percorrere.
Riguardò
il libro di battaglie, che nonostante la dura lezione del mattino
esercitava su di lui un immutato fascino, e ripensò al soldato, e
alla facilità con cui quell’uomo che per età avrebbe facilmente
potuto essere suo padre aveva parato la piattonata di Dewrich. Non
era stata solo fortuna.
Ripensò
a quello sguardo azzurro: l’aveva incrociato forse per un secondo,
ma in quel pur brevissimo tempo gli aveva comunicato lealtà, onore e
forza, e anche una strana amarezza.
Rimise
a posto il libro e andò ad affacciarsi alla porta: il corridoio era
deserto.
Ciò
che aveva in animo di fare non era nulla di sbagliato, ma chissà
perché aveva l’idea che se Dewrich l’avesse scoperto non ne
sarebbe stato per nulla contento.
Uscì
dunque cauto e si diresse verso la piazza d’armi. Una volta giunto
là, si guardò intorno smarrito: non era mai stato nei locali
riservati alle guardie, suo padre non glielo aveva mai permesso,
forse in previsione del suo futuro come chierico di Dras, per cui non
sapeva da che parte andare per cercare il soldato. Prese ad aggirarsi
un po’ perplesso: fino a quel momento, per lui le guardie erano
state figure immobili ai lati delle porte o sugli spalti, quasi gli
sembrava strano che fossero persone come tutte le altre, che si
muovevano e respiravano, con le quali si poteva parlare.
“Principe?”
si sentì chiamare a un tratto.
Si
girò e si trovò di fronte un graduato. “Io… stavo cercando un
soldato,” disse esitante.
“Che
soldato, principe?”
“Quello
che stamattina è intervenuto sulla piazza d’armi. Ho bisogno di
lui.”
“È
già stato punto con la massima severità, principe,” gli assicurò
il graduato, “non devi preoccuparti.”
“Io
non volevo che venisse punito,” replicò il ragazzo.
Il
sergente alzò le sopracciglia stupito, poi replicò: “È solo un
buono a nulla, principe, non vale la pena che tu perda il tuo tempo
con lui.”
L’altro
corrugò la fronte. “Voglio vederlo.”
Di
fronte a quel cipiglio, il sergente dovette cedere. “Come vuoi,
principe. È nel cortile dietro la caserma.”
Ignorando
gli sguardi di curiosità che gli venivano rivolti, Herich oltrepassò
gli edifici dove alloggiavano i soldati e arrivò al cortile, che era
essenzialmente un’arena grande come la piazza d’armi disseminata
di fantocci di paglia, bersagli per le frecce e strumenti ginnici.
Un
uomo stava sistemando i manichini danneggiati: lo vide sfilarne uno
dal suo supporto, sollevarlo di peso e poi portarlo verso un angolo
della spianata, dove ce n’erano già altri. Non aveva la lorica, e
la tunica rossa gli si tendeva sulle spalle ampie. I capelli corti
erano di un biondo chiarissimo.
Riconobbe
l’andatura ingobbita. “Soldato!” lo chiamò.
L’uomo
si fermò, e Herich ebbe quasi l’impressione che il suo richiamo
non l’avesse colto di sorpresa. Posò il manichino e si voltò
lentamente. “Principe,” lo salutò, portandosi al petto la destra
chiusa a pugno.
Il
ragazzo si avvicinò titubante, non del tutto sicuro, ora che lo
vedeva senza elmo e con addosso una semplice tunica, che fosse la
persona giusta.
“Sei
tu?” gli chiese, fissandolo ansiosamente in volto alla ricerca del
suo sguardo.
L’altro
abbassò gli occhi. “Io, principe?”
“Tu
mi hai aiutato, questa mattina.”
Il
soldato annuì. “Perdonami se ti ho mancato di rispetto, principe,”
disse poi.
“Perché
sei intervenuto?”
L’uomo
non rispose.
“Sicuramente
ti avranno frustato a causa mia.”
“Non
fa niente, principe.”
Seguì
un lungo silenzio. Da lontano giungevano spezzoni dei canti sacri che
venivano intonati in preparazione alla cerimonia serale. Nell’aria
c’era un vago odore di incenso. “Come ti chiami?” chiese infine
Herich.
“Res,
principe.”
“Res,
e poi?”
“E
basta, principe.”
Il
ragazzo prese un gran respiro. “Beh, Res… ecco, io vorrei che
fossi tu a insegnarmi la scherma.”
L’altro
alzò la testa e per la prima volta lo fissò dritto negli occhi. Il
suo sguardo era ardente, quasi rabbioso. “Io non ho niente da
insegnare a nessuno, principe,” ringhiò. La voce si era fatta
improvvisamente dura come la pietra.
“Ma...”
“Scusami,
principe, devo terminare il mio lavoro.”
Senza
aggiungere altro, il soldato gli rivolse il saluto militare, poi si
girò e se ne andò a grandi passi.
“Aspetta!
È una posizione di privilegio, saresti il mio istruttore…!”
L’altro
non si voltò nemmeno.
A
Herich, che era rimasto a guardarlo senza parole, non restò che fare
ritorno al palazzo reale. Si sentiva molto avvilito: aveva dovuto
scavare fuori un bel po’ di coraggio, per chiedere a quel Res di
istruirlo, ma evidentemente neppure quello era bastato a convincere
il militare che da lui si sarebbe potuto cavare fuori qualcosa di
diverso da un pavido chierico.
§
La
preparazione alla cerimonia era durata tutto il pomeriggio. Erano
stati abbigliati, lui con una lunga tunica ricamata e Dewrich con la
sua armatura di ferro blu, ornati delle insegne della casata e
istruiti sul come avrebbero dovuto comportarsi all’interno del
tempio.
Ora,
fianco a fianco, si apprestavano a entrare nell’enorme edificio.
Herich
riconobbe nella navata centrale, fra gli altri religiosi, Cresdan in
paramenti solenni: dato che era il suo precettore, aveva chiesto il
permesso di officiare il Rito accanto al Grande Sacerdote.
Strinse
gli occhi. Già sulla soglia, il calore prodotto dalle innumerevoli
candele era soffocante. L’atmosfera era opaca per gli incensi che
bruciavano sui turiboli e greve di quell’odore, sempre a metà fra
l’inebriante e il nauseante. Herich dovette passarsi una mano fra i
capelli mentre una sorta di capogiro lo faceva vacillare.
Il
fratello lo sostenne prendendolo per un braccio. “Cos’hai?” gli
chiese sottovoce.
“L’odore
mi dà fastidio.”
“Resisti.”
Il
ragazzo annuì. L’interno del tempio gli sembrava sempre più
fumoso, torrido, igneo. Sbatté le palpebre, di colpo infastidito
dalla luce forte.
Si
rese confusamente conto che stavano avanzando. I canti e la musica
coprivano il rumore dei passi e anche la sensazione della pietra
sotto i piedi gli giungeva incerta e vaga. Si concentrò sulla
stretta di Dewrich come se essa fosse stata l’unico appiglio per
non cadere in un precipizio.
Lo
avevano istruito a lungo sul contegno che avrebbe dovuto tenere, ma
la ferita che aveva sul viso gli stava bruciando così intensamente
che dovette toccarla per forza. Ritrasse i polpastrelli con un gemito
di dolore: gli sembrava di averli posati sul ferro rovente.
“Dewrich...”
mormorò smarrito. Forse il fratello gli rispose, ma lui non riuscì
a sentirlo. Di colpo tutto intorno a lui sembrò scomparire, lo
sfondo del tempio addobbato divenne un magma indistinto, il calore si
fece così intenso che credette di prendere fuoco. Sentì che gli
cedevano le ginocchia, ma la sua caduta sembrava non arrivare mai al
pavimento. L’ultima cosa che vide fu una luce accecante. Udì una
specie di tuono e poi tutto si fece buio.
Herich
aprì gli occhi. Non sapeva quanto tempo fosse passato, aveva mal di
testa e una sete atroce. Cercò di guardarsi intorno, benché muovere
il capo gli facesse aumentare il dolore, e si accorse di essere
ancora nella navata centrale del tempio, sdraiato su qualcosa di
morbido. Intorno a lui c’erano sacerdoti inginocchiati che
pregavano. “Devo… morire?” mormorò con voce roca.
Comparve
nel suo campo visivo il volto del re. “Sei il mio erede, figlio,”
gli comunicò il sovrano con una solennità che lo fece rabbrividire.
“Dras ha scelto te.”
Gli
pose davanti al viso uno specchio: la ferita che Dewrich gli aveva
procurato si era trasformata in un segno rosso simile a un tatuaggio.
Sollevò a fatica una mano e la sfiorò con le dita, percependo sotto
i polpastrelli una linea appena rilevata, e più calda della pelle
circostante.
“Ma
io...” mormorò. Avrebbe voluto dire che non era pronto, che non
era in grado. Che quando era comparsa la grande luce non aveva
sentito voci che gli svelavano segreti arcani né provato sensazioni
di beatitudine celestiale, che non gli erano stati conferiti doni
sovrumani o altro, ma era troppo esausto.
Pensò
che alla fine non gliene importava molto: prima o poi se ne sarebbero
accorti da soli.
Chiuse
gli occhi, ma subito due mani robuste lo riscossero, sollevandolo
letteralmente dal suo giaciglio. “Sono io, fratello,” disse la
voce di Dewrich.
“Mi
dispiace,” fu l’unica cosa che il ragazzo riuscì a mormorare.
“Mi dispiace, mi dispiace...”
“Ora
devi alzarti,” gli disse il maggiore.
“Non
ce la faccio.”
“Alzati,
il Grande Sacerdote ti sta aspettando per completare il rito.”
“Aspetta,
posso...” avrebbe voluto chiedere dell’acqua, ma già Dewrich lo
stava sospingendo lungo la navata, tra due ali di folla osannante che
gettava fiori al suo passaggio.
§
Passarono
alcuni giorni. Cerimonie e festeggiamenti si erano succeduti a un
ritmo incalzante, e Herich sostanzialmente non aveva ancora avuto
modo di elaborare con calma ciò che era successo. Continuava a
sembrargli tutto troppo assurdo, troppo impossibile per essere vero.
Dras
non poteva aver scelto lui.
Eppure
quando si toccava il viso trovava il segno del dio.
Suo
padre gli aveva mostrato il segno che a suo tempo aveva ricevuto da
Dras: era una piccola cicatrice a forma di ferro di cavallo, proprio
sotto la clavicola destra. Il padre di suo padre ce l’aveva sulla
schiena, e così via, andando indietro nelle generazioni.
Non
era ancora riuscito a parlare a quattr’occhi con Dewrich,
principalmente per tutti gli impegni ufficiali, ma anche perché il
fratello sembrava in qualche modo evitare la sua presenza, e questo
lo faceva soffrire moltissimo.
Avrebbe
tanto voluto discutere con Dras, per chiedergli il perché di quello
scherzo di cattivo gusto, ma a differenza degli uomini, il dio poteva
concedersi il lusso di parlare solo quando ne aveva voglia, e di non
rispondere alle domande che non gli piacevano.
Uscì
dalla biblioteca, dove come al solito si era rintanato, e subito si
imbatté in un valletto. “Principe, ti stavo cercando,” disse
questi rivolgendogli un inchino. “Il re tuo padre chiede di te.
Desidera che tu lo raggiunga nella sala del trono.”
Herich
ringraziò e subito si mosse in quella direzione. Quando giunse sul
posto, vi trovò riuniti il re, la regina, Dewrich, il Grande
Sacerdote, Cresdan e il generale Kierev, comandante delle truppe di
Dyat. Tutti si alzarono quando lui entrò, facendogli sorgere il
desiderio di voltarsi e uscire di corsa per l’imbarazzo.
Se
quello era un assaggio della sua futura vita da re, non sapeva
proprio come avrebbe fatto a tollerarla.
“Volevi
vedermi, padre?” chiese comunque, inchinandosi come sempre.
L’altro
annuì. “Dobbiamo organizzare il tuo viaggio.”
“Che
viaggio, padre?”
Intervenne
il Grande Sacerdote: “Dovrai recarti al Primo Tempio per ricevere
la corona.”
Herich
annuì. Ormai tutto procedeva a prescindere dal suo volere, quindi
non avrebbe avuto alcun senso opporsi. “Quando partirò?”
“Tra
un mese, al solstizio. Ma non andrai da solo: ti sarà assegnata una
scorta.”
A
quelle parole, si fece udire il generale: “Os’lak è ai confini
con le steppe di As’del. Non è prudente andarvi senza una scorta
armata.”
D’istinto,
Herich si voltò verso il fratello: “Ti prego, Dewrich: vieni con
me. Sono sicuro che non avrò nulla da temere, se tu sarai al mio
fianco.”
Il
maggiore sorrise. “Tranquillo, sarei venuto in ogni caso.”
“Davvero?”
“Ma
certo. Trascorrerò questo mese nel monastero di Voldas a meditare,
poi partiremo insieme.”
“E
con la scorta,” soggiunse il generale.
Herich
annuì di nuovo, con lo stesso movimento che faceva istintivamente
quando il precettore gli spiegava una materia che richiedeva tutta la
sua attenzione. “Chiedo una cosa, però,” mormorò esitante.
“Cosa,
principe?” volle sapere il generale.
“C’è
un soldato che si chiama Res. Vorrei lui nella scorta.”
“Mai
sentito.”
“Mi
ha detto che si chiama solo Res.”
“Mi
informerò, principe. Considerala una cosa fatta.”
“Grazie,
generale.”
La
riunione si sciolse, ognuno tornò alle proprie occupazioni. Herich e
Dewrich si spostarono nell’anticamera della sala del trono. “Come
fai a conoscere i soldati per nome?” chiese il secondo.
“Non
li conosco, fratello, ma quel Res è stato gentile con me.”
“Gentile
in che modo?”
“Ecco...”
Herich esitò. Non voleva dirgli che si trattava del soldato che
l’aveva difeso quando si erano misurati in duello. “Mi ha
aiutato.”
“I
soldati hanno il dovere di aiutarti, Herich. Sei l’erede al trono.”
Al più giovane parve che l’altro calcasse esageratamente sulle
ultime parole.
“Lui
è stato gentile,” tagliò corto. “Se la mia opinione conta
qualcosa, voglio anche lui nella scorta.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Resen-Lhaw 2
Salve
gente!
Secondo
capitolo del mappazzone orrendo. Ringrazio tantissimo tutti quelli
che sono passati da queste parti, mi hanno messo in qualche lista o
sono stati così gentili da lasciarmi un loro parere.
Capitolo
2
L’aquila
si posò con uno strido, arruffò le penne sul collo, si scrollò e
fece scorrere lo sguardo grifagno tutt’intorno. Res, che stava
trasportando un sacco di provviste, si fermò per un istante a
fissarla: non era un’aquila di quelle parti, aveva penne più
chiare ed era più piccola di quelle che si vedevano nel Daishrach.
Il
rapace si voltò nella sua direzione e dall’alto del ramo su cui si
era posato sembrò guatarlo con sdegno.
In
quel momento, un colpo di verga sulla schiena lo fece sussultare.
“Ancora a guardare le nuvole, specie di fannullone?” abbaiò un
graduato.
Res
fu attraversato da un fremito, ma non rispose. Si limitò a
bilanciarsi meglio il sacco sulla spalla e a proseguire verso i carri
fermi al centro della piazza d’armi.
“Vieni
qua, muoviti!” lo incitò uno dei soldati che stavano allestendo i
carichi. “Non abbiamo tutto il giorno.”
L’altro
depose il sacco di granaglie, di almeno centoventi libbre, su uno dei
pianali.
“Non
qui! Su quello dei cucinieri, imbecille.”
Senza
parlare, il soldato sollevò di nuovo il sacco, se lo caricò in
spalla e procedette verso l’altro carro. Aveva colto uno scambio di
sguardi di intesa fra i due equipaggi, ma preferì far finta di
niente.
Prevedibilmente,
quando arrivò a destinazione, il cuoco protestò: “Chi ti ha detto
di portare qui questa roba? Rimettila dove l’hai presa.”
Res
non disse una parola. Raccolse nuovamente il suo fardello e si
allontanò.
Lo
fermò un sottufficiale: “Si può sapere dove stai andando?”
“Il
cuoco mi ha detto di riportare questo sacco dove l’ho preso,” fu
la risposta.
“E
tu ti fai dare ordini da un cuoco, razza di idiota? Che accidenti
vuoi che ne sappia un cuoco? Mettilo sul carro delle provviste e fila
a prenderne un altro!”
Il
soldato obbedì senza replicare e mentre si allontanava sentì il
graduato che diceva: “Per i volti di Dras, cosa dovrei farmene di
quel deficiente? Questo ormai non è più un esercito, è un ospizio
per mentecatti.”
Strinse
i denti e si allontanò in direzione dei magazzini. Si terse gocce
gelide dalla fronte: stava sudando più del solito, e non era una
buona cosa: significava che il suo problema stava tornando a farsi
sentire. Si chiese se sarebbe mai riuscito a liberarsene.
Si
appoggiò con le spalle contro un muro e inspirò profondamente ad
occhi chiusi, cercando di ignorare i segnali di bisogno che il suo
corpo gli stava mandando. Si passò fra i capelli una mano tremante e
la ritrasse fradicia. “Non ci siamo,” mormorò fra sé e sé.
Una
voce irata lo riscosse: “Datti una mossa, non abbiamo tutto il
giorno!”
Res
strinse i denti e tornò al lavoro.
All’alba
del giorno dopo, la colonna era pronta a partire. Nessuno gli aveva
detto dov’era diretta, ma Res aveva capito abbastanza presto che si
trattava della scorta per il principe Herich che andava al Primo
Tempio. Quello che lo stupiva era che anche lui era stato scelto per
farne parte: con l’aria di non capacitarsi della cosa, un graduato
gli aveva detto di raccogliere la sua roba, indossare la lorica e
unirsi alla scorta.
Mentre
prendeva posto in fondo al plotone, notò di nuovo l’aquila. Gli
parve che fosse la stessa del giorno prima, o perlomeno che fosse
delle stessa razza. Pensò che il rapace avesse deciso di seguire la
spedizione nella speranza di recuperare qualche avanzo. Se lo
facevano i gabbiani con le navi, era plausibile che lo facessero
anche le aquile con le carovane.
Si
disinteressò dell’uccello e lasciò vagare lo sguardo sulla
colonna: il generale Kierev aveva mandato addirittura il capitano
Arahad, che passava per essere il suo miglior ufficiale, a comandare
la spedizione. Il plotone di soldati, a parte lui, era composto da
elementi scelti, e anche sui carri c’erano solo veterani dai nervi
saldi.
Il
principe Dewrich, in armatura completa, stava girando su e giù in
sella al suo intrattabile roano, che impaziente di partire frustava
l’aria con la coda e scalpitava sul selciato. Il ragazzino, gli
pareva di ricordare che si chiamasse Herich, montava una snella
puledra grigia. Accanto a lui, su un mulo di proporzioni commisurate
al suo fisico, c’era un imponente chierico di Dras.
Seguivano
le truppe una serie di carri con i bagagli pesanti e le salmerie. In
fondo c’era un carro più piccolo e completamente coperto. Il
veicolo era di foggia civile e proveniva direttamente dal palazzo
reale.
A
un segnale del principe Dewrich, la colonna si mise in marcia. Dalla
piazza d’armi percorse tutta la Via d’Onore tra due ali di folla
esultante, quindi uscì dalla porta orientale e prese quella che nei
tempi antichi, quando il Daishrach era ancora un territorio vasto e
potente, veniva chiamata la via di Dras.
Da
allora erano passati decenni e le sempre più frequenti incursioni
dei predoni di As’del avevano reso pericolose le regioni di
confine. A parte chi doveva recarsi agli antichi templi, erano pochi
i coraggiosi che si avventuravano in quelle zone ormai selvagge.
Il
cielo era terso, solcato da poche nuvole. Una lieve brezza faceva
ondeggiare le messi ormai pronte per la mietitura. Res si rallegrò
che il caldo non fosse ancora quello della piena estate, perché
altrimenti marciare sotto il sole con l’armatura d’acciaio e lo
scudo sarebbe stata una pena.
Nello
stesso momento, Herich si guardava intorno, vagamente intimidito
dagli enormi spazi aperti che di colpo si trovava davanti. Fino a
quel momento era uscito poche volte dalla città, e sempre verso le
regioni occidentali, dove i monti Kelis creavano piccoli declivi,
foreste e anfratti ombrosi.
Quella
pianura che si perdeva all’orizzonte gli dava una strana
inquietudine.
“Che
meraviglia, vero?” disse Dewrich al suo fianco. Aveva la testa alta
e un’espressione spavalda sul volto pallido. Il vento scherzava
appena con i suoi capelli scuri e con la criniera del suo cavallo.
“Vuoi fare una corsa?” gli propose.
“Ma
io...” istintivamente si voltò verso Cresdan.
Il
fratello notò il gesto e disse: “Non essere sempre così fifone,
Herich. Come farai a diventare re dopo nostro padre, se non hai
nemmeno il coraggio di galoppare un po’ su questi prati?”
“Questi
non sono prati, sono campi,” obiettò il più giovane, “e se li
roviniamo?”
L’altro
alzò gli occhi al cielo come di fronte a un puntiglio assurdo.
“D’accordo,” sospirò, “allora sulla strada?”
Herich
si morse il labbro inferiore: a quel punto non poteva più esimersi.
“Va bene.”
“Ah,
ottimo. Fino alla quercia là in fondo, d’accordo? Cresdan, dà tu
il segnale di partenza!”
La
puledra sembrava aver capito cosa si aspettavano da lei, perché
aveva cominciato a scalpitare nervosa, con le orecchie dritte e le
froge dilatate. Herich faticava a tenerla. Fissò con apprensione il
nastro grigio della strada, il cui lastrico gli appariva quanto mai
scivoloso e malsicuro, e si pentì di aver acconsentito alla corsa.
Già si vedeva a terra in qualche curva, magari anche con un osso
rotto.
Poi
l’animale scattò in avanti. Cresdan doveva aver dato il famoso
segnale, perché Dewrich era al suo fianco e stava facendo del suo
meglio per superarlo. Strinse convulsamente le redini e le ginocchia,
con l’impressione di trovarsi in groppa a un dragone di Iarrim. Il
vento gli faceva lacrimare gli occhi e gli rendeva difficile
respirare. Per quel poco che riusciva a vedere, la quercia solitaria
si stava avvicinando a velocità vertiginosa.
Arrivarono
all’albero. Il cavallo di Dewrich, addestrato da guerra, girò
stretto intorno al tronco e ripartì nella direzione opposta, ma la
puledra rischiò di scivolare e Herich dovette aggrapparsi alla
criniera per non essere sbalzato a terra.
“È
bello, vero?” esclamò Dewrich al suo fianco, spronando il cavallo
per fargli aumentare ulteriormente l’andatura.
Concentrato
nel compito di rimanere in sella, il ragazzo non rispose.
Lentamente
i campi coltivati si trasformarono in una steppa incolta. Le case
coloniche, prima disseminate un po’ ovunque, divennero sempre più
rare e poi scomparvero del tutto, lasciando il posto a qualche rudere
abitato dai corvi. Dopo il crocevia di Luktavn, la strada lastricata
venne sostituita da una larga pista di terra battuta.
Sorsero
rilievi montuosi, dapprima appena dei corrugamenti del terreno, poi
pian piano tali ondulazioni si alzarono fino a diventare una parete
montuosa scabra e rossiccia, ai cui piedi si muoveva la spedizione.
Herich
si voltò verso il fratello: “Che monti sono questi?”
“La
Cresta di Kenegan, la seguiremo fino alla gola di Os’lak.”
“Dove
c’è il Primo Tempio?”
“Esatto.
È strano pensare che una volta la Capitale fosse qui, non è vero?”
“Già.”
Il
ragazzo si guardò intorno. A parte il sibilo del vento, c’era un
silenzio raggelante. Cosparsa di duri fili d’erba, la pianura
sembrava disabitata e inospitale. La falesia che stavano costeggiando
si faceva più incombente a ogni passo.
Di
tanto in tanto si vedevano in lontananza pezzi di muro, a volte anche
qualche arco. Il candore dei blocchi di marmo che spuntavano dalla
terra faceva pensare a vecchie ossa consumate dalle intemperie.
Herich non poté fare a meno di notare che la pietra era la stessa
con cui era stato edificato il palazzo reale di Dyat.
Era
pomeriggio inoltrato quando il capitano Arahad diede l’ordine di
allestire il campo per la notte. La luce stava scemando rapidamente,
il freddo cominciava a farsi sentire. In lontananza si udivano i
richiami rochi dei tanroth-ath.
Res
fece scorrere lo sguardo sull’orizzonte. Animali strani non se ne
vedevano, ma la cosa non lo tranquillizzò per nulla. Peraltro, gli
animali erano probabilmente il problema minore di quelle regioni
inospitali, battute in lungo e in largo dalle bande di predoni che
sconfinavano dalle steppe di As’del.
Di
sicuro la voce del loro passaggio era già arrivata alle orecchie di
chi di dovere, e presto avrebbero dovuto prestare molta attenzione
alle incursioni notturne.
Si
voltò verso il capitano Arahad, che stava parlando con il principe
Dewrich e pareva piuttosto sicuro di sé. Sapeva che aveva
combattuto, ma era troppo giovane per aver preso parte a qualcosa di
più serio di scaramucce di confine. Si augurò che fosse almeno un
uomo di buon senso.
Alzò
lo sguardo e vide che nel cielo roteava un rapace. Si fece ombra con
la mano per vedere meglio e notò che si trattava di un’aquila.
In
quel momento si fece sentire una voce irata: “Tu, laggiù! Credi di
essere in taverna a fine servizio? Datti una mossa!”
Il
soldato raggiunse gli altri.
Presto
sorse una palizzata tutt’intorno all’accampamento e furono
organizzati posti di guardia. La tenda dei principi fu allestita al
centro del campo, in mezzo a quelle dei soldati. Venne distribuito il
rancio.
Seduto
in un angolo in disparte a consumare la sua razione, il soldato
lasciava vagare sul campo uno sguardo stanco. Come sempre verso
quell’ora, il suo problema si faceva sentire e i crampi gli
facevano dolere tutti i muscoli. Si portò il cucchiaio alla bocca,
ma la mano gli tremava talmente forte che quasi gli cadde per terra
il suo contenuto. Lo ripose nella gavetta.
In
quel momento notò che il giovane principe gli si stava avvicinando.
Represse un’imprecazione: non era il momento.
Del
tutto inconsapevole del suo malessere, il ragazzo lo raggiunse e lo
salutò. “Posso stare un po’ qui con te?” gli chiese.
Res
strinse i denti. “Sei il principe, puoi stare dove vuoi.”
Il
ragazzo lo fissò incerto, poi si sedette su un sasso poco distante.
Per un po’ rimase in silenzio, poi gli chiese: “Sei stanco, Res?”
Notò che il recipiente che aveva in mano era ancora pieno a metà.
“Non ti va di mangiare?”
Il
soldato emise un sospiro. “Principe...”
Il
ragazzo assunse un’espressione preoccupata. “Ti disturbo, per
caso?”
Res
scosse la testa. “Questo non è il tuo posto, principe. Non è
opportuno che tu stia in mezzo ai soldati semplici.”
Il
ragazzo sgranò gli occhi. “Perché?”
Prima
che l’uomo potesse rispondere, si udì un brusco richiamo:
“Herich!”
Il
giovane principe si girò di scatto, poi tornò a voltarsi verso
l’uomo. “È Dewrich,” disse, quasi in tono di scusa.
“Ti
vuole dire, principe, che non è opportuno che tu stia qui. Il tuo
posto è in mezzo ai nobili.”
“Herich!”
Il
ragazzo corse via.
Res
rimase a seguirlo con lo sguardo. Lo vide raggiungere il fratello e
sentì il maggiore dirgli qualcosa alzando la voce. Il più giovane
ritirò la testa fra le spalle ed egli dovette distogliere lo sguardo
mentre un fremito di rabbia lo invadeva. “Non è il caso,” si
disse a mezza voce, “gli creeresti più problemi che altro.”
Riprese
la gavetta e ricominciò a mangiare, portandosi il recipiente vicino
alla bocca per evitare che il tremito della mano, nel frattempo
diventato più intenso, gli facesse rovesciare il contenuto del
cucchiaio.
§
Herich
riaprì gli occhi indolenzito dappertutto. Non aveva mai dormito su
un letto da campo e gli sembrava di essere stato tutta la notte sulla
dura pietra. Il sole stava sorgendo, da una fessura della porta
penetrava un raggio dorato, che faceva brillare i fregi della sua
veste da cerimonia.
Si
guardò intorno: da dietro una tenda proveniva il russare regolare di
Cresdan, ma il letto di Dewrich era vuoto. Da fuori provenivano voci
e ordini gridati.
Emise
un sospiro e si passò una mano fra i capelli arruffati dal sonno.
Aveva sognato di nuovo Resen-Lhaw. Questa volta il guerriero, sempre
girato di spalle, gli era apparso così vicino che per un breve
attimo aveva creduto di poterlo finalmente toccare. Ricordava ancora
le proprie dita che quasi sfioravano la rossa cotta d’arme
dell’eroe.
Si
mise a sedere sul letto, e in quel momento i lembi dei teli che
chiudevano la tenda si sollevarono ed entrò Dewrich. “Hai dormito
bene, fratello?” gli chiese.
“Sì,
benissimo,” disse subito il ragazzo.
“Allora
vieni, il cuoco ha preparato la colazione.”
Herich
si alzò un po’ perplesso. Nella sua breve vita non gli era mai
capitato di alzarsi dal letto e andare a mangiare così com’era. Di
solito la colazione era preceduta da lunghi preparativi, e da una
scrupolosa vestizione. Uscire così lo faceva sentire nudo.
“Ti
muovi?” lo richiamò il fratello.
“Ma
io...”
“Forza!
Se fa tanto di alzarsi anche Cresdan, per noi non rimane più neppure
una briciola.”
La
giornata trascorse così uguale alla precedente da far credere a
Herich che fosse esattamente la stessa: il paesaggio era talmente
monotono che se non fosse stato per i rumori della colonna in marcia,
avrebbe pensato di essere sempre fermo nello stesso posto. Il cielo
si era fatto bigio, lattiginoso, e nemmeno il movimento del disco
solare dava un’idea del passare del tempo.
Talvolta
si incontravano scheletri abbandonati lungo la via, più spesso di
cavalli o bovini, ma ogni tanto anche umani, a testimonio dei
numerosi pericoli di quella desolata contrada.
La
sera venne di nuovo allestito l’accampamento, con l’unica
differenza che Herich non tentò più di avvicinare il soldato. A
prescindere da ciò che l’uomo gli aveva detto su quale fosse il
posto più opportuno per lui, aveva la sensazione di dargli fastidio,
o forse di metterlo a disagio. Si mantenne accanto alla tenda e la
abbandonò solo quando il capitano Arahad lo invitò accanto al fuoco
a condividere con lui e Cresdan un po’ di vino col miele.
Il
giorno successivo cadeva una pioggia battente. La visibilità era
ridotta a poche centinaia di piedi, l’aria era opaca, immobile e
fredda, la falesia era una vaga ombra scura che incombeva sulla
spedizione. L’acqua impregnava e appesantiva ogni cosa.
I
cavalli scuotevano di tanto in tanto la criniera, lanciando spruzzi
tutt'intorno.
Avvolto
in una mantella cerata, il cappuccio tirato fin sugli occhi, Herich
procedeva in silenzio.
Stava
quasi sonnecchiando in sella, ipnotizzato dallo scrosciare della
pioggia e dai monotoni rumori della colonna in marcia, quando un
grido lo riscosse bruscamente: “Tanroth-ath!”
Si
guardò intorno: la colonna aveva immediatamente assunto una
formazione di difesa e i soldati stavano scaricando dai carri le armi
lunghe. Un paio di balestrieri approntarono le loro armi.
Dewrich
estrasse la spada e gli disse: “Resta vicino a Cresdan e non
muoverti per nessun motivo.” La voce aveva un tono di apprensione
che costrinse Herich a deglutire spaventato.
Passarono
angosciosi secondi, poi vide due figure avvicinarsi rapide: erano
quadrupedi che procedevano a balzi, grandi come un cavallo, con una
lunga coda irta di aculei e i corpi coperti di squame sul
bruno-verde.
Il
muso, lo vedeva sempre meglio man mano che le bestie si avvicinavano,
era una specie di cranio allungato e scarnificato, appena coperto da
uno strato di pelle. Avevano chiostre di zanne seghettate lunghe
almeno quattro dita.
“Per
i volti di Dras,” mormorò Herich.
“Sono
della razza che non vola,” constatò Cresdan al suo fianco. Poi, in
tono rassicurante: “Resta accanto a me, ragazzo. Conosco qualche
incantesimo difensivo che può fare al caso nostro.” Subito dopo
cominciò a salmodiare in tono monocorde in una lingua sconosciuta.
La
puledra alzò la testa e appiattì le orecchie. Tentò di scartare.
“Buona,”
le raccomandò Herich.
Le
due bestie intanto si stavano avvicinando. I balestrieri scaricarono
le loro armi, ma i dardi rimbalzarono sulle squame dorsali delle
creature.
“Negli
occhi o nella gola!” urlò una voce, e Herich fu quasi certo che
fosse quella di Res.
Cresdan
continuava a salmodiare e presto il ragazzo ebbe l’impressione che
ciò che stava succedendo gli giungesse ovattato, come da una grande
distanza. I suoni si erano fatti flebili, l’aria era immobile. “Che
cos’hai fatto?” chiese.
L’altro
alzò le spalle. “Solo un piccolo cerchio di protezione, così quei
due mostri non si accorgeranno nemmeno di noi.”
“Non
potevi farlo per tutti?”
“Nemmeno
il Grande Sacerdote potrebbe, mi dispiace.”
“Ma
così tanti soldati moriranno!” E nel dire ciò, si accorse di aver
rivolto il pensiero a Res.
La
risposta lo gelò: “Sei
tu quello che deve rimanere in vita, ragazzo mio. Ai soldati spetta
di morire per proteggerti.”
I
soldati nel frattempo si erano attestati in posizione difensiva,
puntando i calzuoli delle picche sul terreno e rivolgendo le punte in
direzione dei due tanroth-ath. Il più piccolo dei mostri, forse più
giovane e inesperto, non riuscì a interrompere la carica e se ne
piantò parecchie nel corpo, ma l’altro scartò all’ultimo
momento e balzò sul fianco della formazione per attaccare in
posizione di vantaggio.
Chiuso
nella sua bolla magica, Herich seguiva lo scontro con l’impressione
di assistere a qualcosa che si svolgeva a miglia e miglia di
distanza.
Vide
il tanroth-ath più grosso torcersi nell’aria come una specie di
serpente, poi assestare una zampata a un soldato, fargli perdere
l’equilibrio e intercettarlo a metà della caduta con un morso. Lo
vide sollevarlo di peso, scrollarlo e lanciarlo da una parte come uno
straccio.
Poi
il mostro diede una seconda zampata, facendo saltare la testa di un
altro soldato. Una picca gli penetrò nel fianco, la bestia urlò di
dolore, scartò e menò una sferzata con la coda, ma già un’altra
picca era in posizione.
Il
mostro più giovane frattanto, pur sanguinando copiosamente, si era
rimesso in piedi e stava di nuovo minacciando gli uomini.
Cresdan
alzò le sopracciglia e disse: “Già con uno di questi è dura, ma
con due...”
Poi
videro arrivare Dewrich a cavallo. Imbracciava una picca e si stava
dirigendo a tutta velocità verso il più piccolo dei due mostri.
Spronò il destriero da guerra e caricò, piantando l’arma in una
coscia del tanroth-ath. Questi si girò fulmineo menando una zampata,
ma Dewrich era già passato oltre. Il principe scartò, fece una
conversione e di nuovo si mise in posizione di attacco. Sfoderò la
spada.
“Oh,
no!” gemette Herich. “Ma che cosa vuole fare?”
Poi
vide un soldato che imbracciava con la sinistra il grande scudo
rettangolare, e nella destra aveva una spada corta. Aveva il
ginocchio destro appoggiato a terra e sembrava che si stesse
sostenendo sulla spada. La cresta scarlatta dell’elmo spiccava nel
grigiore della pioggia come una pennellata di sangue.
Impassibile
si alzò in piedi lentamente e batté la lama sullo scudo per
attirare l’attenzione dei mostri.
La
bestia più grande si voltò fulminea verso di lui, emise un ruggito
che a Herich giunse flebile, ma che faccia a faccia doveva essere
assordante. Spalancò le fauci insanguinate e partì in carica.
“Quello
non ha più voglia di campare,” commentò il chierico osservando la
situazione.
Il
tanroth-ath travolse il soldato, che cadde all’indietro
proteggendosi con lo scudo. Quando furono in corpo a corpo, l’uomo
strinse la spada e gliela piantò fino all’elsa nel ventre. La
bestia saltò all’indietro con un ululato di dolore. Il soldato si
rimise in piedi, di nuovo la invitò all’attacco.
Il
tanroth-ath si fermò. I fianchi gli battevano rapidi, segno che
stava ansimando. Frustò l’aria un paio di volte con la coda, ma
rimase immobile a studiare l’avversario.
Il
soldato fece un passo avanti, di nuovo batté la spada sullo scudo,
ora segnato da profonde intaccature.
La
belva scattò. Afferrò l’uomo a mezzo corpo, ma era indebolita e
il morso non fu poderoso come il primo. Le zanne scivolarono sulle
fasce d’acciaio della lorica. Il soldato le piantò la spada nel
collo una volta, due volte, il sangue prese a schizzare, ricoprendolo
nonostante la pioggia. Il mostro si torse ululando di dolore, cercò
di colpire con la coda, ma infine si accasciò e rimase immobile.
Il
soldato si svincolò dalla sua presa, poi si raddrizzò e si sfilò
l’elmo, rivelando capelli di un biondo chiarissimo. Piegò la testa
all’indietro e lasciò che la pioggia gli cadesse sul volto e lo
lavasse.
“Res!”
esclamò Herich.
“Sai
chi è?” chiese Cresdan stupito.
“So
solo il suo nome,” rispose avvilito il ragazzo.
“Ha
coraggio,” osservò il chierico, “ma combatte come se volesse
morire.”
Herich
lo fissò stupito. “Cosa?”
“Ma
Dras evidentemente non lo vuole ancora fra i piedi,” continuò
pacifico il sacerdote, seguendo il filo del suo ragionamento, “si
vede che quaggiù ha ancora qualcosa da fare.” Poi dissolse la
bolla di protezione. Subito i suoni tornarono normali e l’aria
riprese a muoversi. Herich rabbrividì stringendosi nel mantello.
Avrebbe
voluto andare da Res, ma era sicuro che il soldato non gli avrebbe
permesso di parlargli. Lo vide raccogliere lo scudo e allontanarsi
come se non fosse successo niente, con l’andatura ingobbita che
ormai aveva imparato a conoscere.
Mentre
lo stava ancora seguendo con lo sguardo, si sentì mettere in mano
qualcosa di freddo e viscido: abbassò gli occhi e vide che si
trattava di un lacerto di carne rotondeggiante e sanguinolento. In un
moto di ribrezzo lo buttò lontano da sé, poi cercò di pulirsi
contro la cerata fradicia.
“Perché
l’hai fatto?” gli disse Dewrich al suo fianco, ridendo di gusto,
“Quello era un trofeo del mio primo tanroth-ath.”
“Che
cos’era?”
“Un
testicolo. Ora vado a prendere l’altro e stasera dirò al cuoco di
cucinarlo, dicono che doni forza e virilità. Vuoi assaggiarlo?”
Herich
chinò la testa. “Fratello, e tutti i soldati che sono morti? E i
feriti?”
L’altro
lo guardò come se non capisse. “Che intendi dire?” gli chiese.
“Non
sei triste per loro?”
“Sono
soldati, fa parte del loro dovere. Dras li accoglierà e li
ricompenserà per il loro sacrificio.”
“Ma
fratello...”
“Quando
sarai re dovrai prendere anche decisioni che comporteranno la morte
dei soldati. Come farai allora?”
Il
ragazzo chinò la testa. Ecco di nuovo la sensazione che Dras gli
avesse giocato uno scherzo crudele: perché aveva scelto lui? Non
aveva nessuna delle doti che si richiedono a un re, mentre suo
fratello le possedeva tutte dalla prima all’ultima. “Cresdan?”
mormorò.
“Sì,
principe?”
“Gli
dei non sbagliano mai?”
L’altro
emise un sospiro. “Gli dei fanno cose che noi non abbiamo gli
strumenti per capire.”
“E
allora perché facciamo quello che ci ordinano, se non ne capiamo il
motivo?”
“Forse
perché gli dei sono come dei genitori e noi come bambini piccoli.
Quante volte tuo padre ti ha fatto fare qualcosa che non capivi? Poi
crescendo si comprende il motivo di ciò che da bambini ci pareva
assurdo.”
“Ma
noi non cresceremo mai, rispetto agli dei,” rispose il ragazzo, poi
spronò la cavalla e si allontanò prima che il chierico potesse
replicare.
Girò
per un po’ ai margini della carovana, osservando i soldati che
raccoglievano i caduti e scavavano buche per seppellirli, ascoltando
distrattamente le parole di Cresdan che distribuiva erbe e
incantesimi curativi. La pioggia portava via il sangue, quello degli
uomini e quello dei mostri, lo faceva penetrare nella terra, dove
forse avrebbe fornito nutrimento per delle nuove vite.
Osservò
un rivolo rosso che serpeggiava nel fango, diventando via via più
sbiadito mentre la pioggia lo diluiva.
Forse
era quello in significato finale di essere dei sovrani: diventare
parte attiva in quel grande ciclo, decidere dove si sarebbero spente
delle vite e dove ne sarebbero state generate altre. Avere la
saggezza di capire quando e dove ciò dovesse accadere.
Strinse
le dita sulle redini mentre i soldati finivano di ricoprire le buche
che avevano scavato per i compagni. Non si sentiva pronto per questo,
era un peso troppo grande.
Cercò
con lo sguardo Res e notò che il soldato lo stava fissando. Aveva
un’espressione cupa, consapevole. Sembrava quasi che gli stesse
leggendo nel pensiero.
Gli
fece un cenno con la mano, ma l’uomo gli voltò le spalle e si
allontanò.
§
La
spedizione proseguì giusto quanto bastava per allontanarsi
adeguatamente dal luogo del combattimento, poi Arahad diede l’ordine
di erigere la palizzata, piantare le tende e accendere i fuochi da
campo. Fece raddoppiare le sentinelle.
Aveva
smesso di piovere. La luce stava scemando e tutto si confondeva in
una nebbia che andava facendosi sempre più densa.
Le
tende furono piantate, il rancio cotto e distribuito. Chi era ferito
fu visitato dal chierico.
Calò
la notte.
Attorno
a un fuoco, alcuni soldati consumavano la razione e intanto parlavano
fra loro. Forse per l’euforia di essere ancora vivi nonostante
l’attacco dei due tanroth-ath, erano tutti piuttosto vivaci.
Uno
saltò su e propose: “Che ne dite di una canzone?”
“Giusto!”
approvò un altro, “Va bene quella del Leone Rosso?”
“Sì,
sì! Il Leone Rosso del Waerund!” esclamarono altre voci.
Venne
intonato il canto. Tutti coloro che non avevano compiti particolari
da svolgere si unirono al coro, alcuni battendo il tempo con il
bicchiere di latta contro qualcosa di duro.
In
disparte come sempre, Res prestò solo un orecchio distratto a quei
vigorosi vocalizzi. Finì di mangiare, aggrottò le sopracciglia alla
salva di acclamazioni che fece seguito alla conclusione dell’ultima
strofa, poi lentamente si alzò e si avvicinò al fuoco.
“Tre
urrà per il Leone Rosso!” stava proponendo uno dei più eccitati.
Res
li fissò serio per un po’, infine con durezza proferì: “A me
risulta che le cose siano andate in modo diverso.”
Per
quanto avesse parlato con un tono di voce neutro, la frase ebbe il
potere di far calare il silenzio. Tutti si voltarono nella sua
direzione. “Che intendi dire?” chiese uno dei soldati.
“La
storia dell’eroe è una montagna di frottole, che solo allocchi
creduloni come voi posso prendere per buona.” Parlava a denti
stretti, ogni parola era un sibilo rabbioso. Prima che gli altri
avessero modo di replicare, proseguì: “A metà della Guerra
Orientale, Resen-Lhaw, o se preferite Tjeran Sonse, venne ferito da
una freccia mewen. Il guaritore gli somministrò del tau’zeel per
aiutarlo a sopportare l'atroce dolore della sua punta avvelenata e
lui, invece di rifiutarlo come avrebbe dovuto fare un vero guerriero,
ci si attaccò come un infante al seno della madre. La sostanza si
impadronì di lui, cominciò a influire sulle sue decisioni tattiche
e sul suo comportamento. Il leggendario Leone Rosso divenne pavido e
debole.”
Si
interruppe, fece scorrere lo sguardo sui compagni seduti intorno al
fuoco. Il silenzio si era fatto carico di aspettativa e tutti lo
fissavano immobili.
“Il
massacro di Brielar sarebbe stato una grande vittoria, se Tjeran
Sonse non fosse sceso in battaglia imbottito di tau’zeel: mentre i
suoi uomini combattevano e morivano, il Leone Rosso del Waerund
farfugliava ordini insulsi con la bocca impastata e l’unica
preoccupazione che aveva, in mezzo alla carneficina che lui stesso
aveva provocato, era salvare la sua miserabile pelle e andare a
recuperare la fiala di droga che aveva nascosto tra gli scogli di
Brielar.” Fece un’altra pausa, quindi a voce più bassa
soggiunse: “Quando tutto fu concluso, re Elkingar gli inflisse
giustamente la più terribile delle punizioni: non la morte, quella
sarebbe stata un castigo troppo pietoso per gli atti ignobili che
aveva compiuto. Lo condannò a vivere con la consapevolezza di ciò
che aveva fatto. Lo spogliò delle sue insegne e lo scacciò, e per
tutti coloro che avevano creduto in lui, e che non meritavano di
scoprire la miseria di ciò che era veramente, fu creata la leggenda
che sopravvive ancora oggi.”
Quando
Res smise di parlare, per parecchi secondi l’unico rumore che si
udì fu il crepitare del fuoco. Infine, un soldato chiese: “E tu
come lo sai?”
“Lo
so.”
“Ma
figurarsi! Eri là, per caso?”
“Sì,
c’ero.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Resen-Lhaw 3
Gente,
eccomi qui con un nuovo capitolo del mappazzone fantasy. Ringrazio come
sempre tutti coloro che mi seguono, mi leggono o gentilmente mi
commentano.
Capitolo
3
Il
giorno dopo il cielo era sempre grigio, ma non pioveva. La pianura
però era fradicia d’acqua e negli avvallamenti del terreno si
erano raccolte piccole pozzanghere torbide. Le ruote dei carri
lasciavano solchi sul nastro di terra battuta che fungeva da strada.
Res
si guardava intorno. Era improbabile che arrivassero altri
tanroth-ath, la fine dei primi doveva aver insegnato agli altri che
il gruppo di umani era da lasciare in pace, ma quelle belve non erano
l’unico pericolo della regione.
Stavano
marciando da un po’ quando vide un’aquila solcare il cielo. Il
rapace volò dritto fino a oltrepassare la colonna, poi virò e tornò
indietro. Al secondo passaggio notò che era più piccola delle
aquile del Daishrach e aveva un piumaggio più chiaro.
Alla
vista dell’uccello, il capitano Arahad estrasse l’arco e lo armò,
quindi incoccò una freccia e lo cercò con gli occhi.
Res
vide il principe Dewrich raggiungere al galoppo l’ufficiale. Dalla
coda della colonna non riusciva a sentire cosa si stessero dicendo,
ma si accorse che il principe aveva alzato la voce. Il capitano mise
via la freccia, poi tolse la corda all’arco e lo ripose.
Nessuno
sembrò fare caso all’episodio, e la marcia proseguì come se non
fosse successo nulla.
Non
doveva mancare molto, ormai. Pian piano la falesia era passata dal
rosso scuro al grigio piombo e di pari passo si era fatta più ripida
e imponente. Ormai era una parete scabra che nei rari momenti in cui
il cielo era libero dalle nuvole proiettava sulla via un’ombra nera
e densa come pece.
Chi
ne aveva la possibilità cercava di procedere fuori dal sentiero,
verso la pianura aperta. Lasciati a se stessi, i cavalli e gli
animali da soma tendevano a stare lontani da quella mole sinistra.
Anche
gli uomini erano inquieti: Res si accorgeva che i commilitoni erano
tesi, scattavano per un nonnulla e per cose altrettanto futili si
lasciavano andare a risate nervose e cariche di inquietudine.
Sembrava
di essere nell’imminenza di una battaglia.
L’aria
del resto si era fatta strana. Aveva un che di incombente,
oppressivo. Era come se respirare costasse più fatica del normale.
Il
soldato si guardò intorno: forse era la magia di cui era impregnata
la zona del Primo Tempio. Tutto lì risentiva della sua presenza, non
c’erano animali, o tracce di essi, l’erba si era fatta ancora più
rada e dura. I rari cespugli che costellavano la pianura erano
scomparsi del tutto.
Il
vento intonava un canto mesto, che risuonava nelle orecchie carico di
dolore e rimpianto.
Avevano
ricominciato a tremargli le mani e sentiva il sudore scorrergli lungo
la schiena: anche il suo problema si faceva sentire di più in
quell’ambiente strano.
Un
brillio in un ciuffo d’erba attirò la sua attenzione. Guardò in
basso e vide che tra gli steli c’era un piccolo oggetto di metallo.
Si chinò a raccoglierlo, lo osservò: era un chiodo da maniscalco,
con la testa quadrata resa lucida dall’uso. Era piuttosto lungo,
segno che era stato forgiato per un cavallo pesante, forse
addirittura per un destriero da guerra. Non doveva trovarsi lì da
molto, dato che gli agenti atmosferici non avevano ancora fatto in
tempo a renderlo opaco.
Rimase
perplesso: i nomadi di As’del, che spesso sconfinavano in quei
territori, non avevano l‘usanza di ferrare i cavalli, quindi quel
chiodo non poteva essere caduto durante una scorribanda di predoni.
D’altra
parte, se dal Daishrach o dal Theythrim fosse partita una spedizione
diretta in quelle zone, si sarebbe venuto sicuramente a sapere, data
la concomitanza con la spedizione reale.
Ripose
il piccolo oggetto, riproponendosi di parlarne alla prima occasione
con il capitano Arahad.
“La
senti?” stava dicendo frattanto Cresdan. “La senti, principe?”
“Che
cosa, maestro?”
“La
magia! È dappertutto.”
Herich
annuì, poi si passò una mano fra i capelli, tirandoseli indietro.
Nonostante fosse freddo si sentiva avvampare, e il taglio che gli
segnava il viso aveva ricominciato a bruciare.
Il
cielo si era nuovamente coperto, in lontananza brontolavano dei
tuoni, ma non spirava un filo d’aria. La pianura si perdeva in un
crepuscolo livido. “Quando arriveremo?” chiese.
“Se
Dras ci assiste, questa sera dormiremo ai piedi del Primo Tempio.”
Il
ragazzo si voltò verso il precettore: “E poi cosa succederà?”
L’altro
gli sorrise. “Hai paura, per caso?”
Herich
chinò la testa. “Un po’.”
“Per
la cerimonia che devi compiere o per quello che verrà dopo?”
“Entrambe
le cose, credo.” Poi, dopo una pausa: “Anzi, più per la
seconda.”
“Ti
capisco. Ma è normale, nessuno è tranquillo quando viene qui. C’è
molta magia qui intorno, e la magia rende tutti nervosi. Ci mette a
nudo per come siamo veramente, costringe a pensare a noi stessi, e
non sempre in termini positivi.”
Passò
qualche istante di silenzio, l’aria era sempre fredda e immobile,
gli unici rumori che si udivano erano lo scalpiccio degli zoccoli e
lo scricchiolio del cuoio dei finimenti. Alla fine Herich chiese: “Tu
sei già stato qui, maestro?”
“Tanti
anni fa, quando sono stato ordinato chierico. Ma non sono entrato nel
Primo Tempio, lì possono entrare solo i membri della famiglia reale
prescelti da Dras.”
“E
se ci entra qualcun altro cosa succede?”
L’altro
si sporse sulla sella per fissarlo negli occhi. “Che domande fai,
Herich? Nel Primo Tempio può entrare solo chi è designato da Dras.
Sarebbe come se qualcuno invitasse ospiti a casa propria: è ovvio
che vuole solo quegli
ospiti,
non chiunque passi per di lì.”
Il
ragazzo chinò la testa. Non era certo di condividere quel
ragionamento, per come la vedeva lui ogni fedele aveva diritto a
entrare in un tempio del dio che venerava, tuttavia si limitò ad
annuire in silenzio. Era stanco, la lunga giornata di viaggio
cominciava a farsi sentire, l’atmosfera particolare del luogo gli
stava pesando sulle spalle come un mantello fradicio, per cui preferì
non replicare.
Ci
volle ancora un’ora di marcia, poi Herich si accorse che la falesia
era tagliata da una lunga spaccatura verticale, come se un gigante
l’avesse tranciata in due con un colpo d’ascia. Dopo quella
fenditura proseguiva perdendosi all’orizzonte.
L’atmosfera,
nel frattempo, si era fatta ancora più densa e opprimente, e nella
luce che andava scemando non c’erano altri rumori a parte quelli
prodotti dalla colonna in movimento.
Dewrich
passò al trotto, drizzandosi sulle staffe per vedere meglio la gola.
“Sembra che ci siamo, alla fine!” esclamò. Spronò il cavallo e
scomparve verso la spaccatura della falesia.
Il
chierico scosse la testa e disse: “Sempre così: impulsivo e
impaziente. Ci saresti dovuto entrare tu per primo nella valle di
Os’lak.”
Herich
lo fissò preoccupato. “E quindi cosa succederà se è entrato
lui?”
Cresdan
sorrise bonario. “Niente. Dras avrà la pazienza che manca a lui e,
bontà sua, non lo fulminerà.”
Nel
frattempo si stavano avvicinando alla fenditura. Herich cominciò a
intravedere una struttura che sembrava una specie di gigantesca
colonna svettante su tutta la pianura.
Quando
furono in grado di vedere al di là della falesia, il ragazzo non
poté trattenere un’esclamazione di meraviglia: dal terreno
sorgevano tre enormi costruzioni alte e strette, una più grande
centrale e due più piccole ai lati e arretrate rispetto alla prima.
Esse avevano le pareti completamente lisce, a parte una lunga
fenditura verticale che dalla porta di ingresso arrivava fino alla
sommità, decine di piedi più in alto. Lunghe scalinate scavate
nella pietra conducevano a ognuno degli edifici.
Non
appena si affacciarono, il cielo immobile prese a ribollire di nubi
scure, che si addensarono intorno alla sommità dei tre templi. Tra i
turgidi nembi cominciarono a crepitare dei fulmini azzurrini,
illuminando la zona circostante di un bagliore gelido.
La
puledra scartò innervosita. “Buona,” disse subito Herich,
battendole la mano sul collo, ma l’animale appiattì le orecchie e
cominciò a indietreggiare, tanto che Cresdan, il cui mulo stava
invece assistendo imperturbabile al fenomeno, dovette sporgersi e
afferrarla per le redini.
Le
nubi stavano girando in tondo sulla cima dei tre templi e lanciavano
fulmini contro di essi. Le scariche non li danneggiavano e si
incanalavano come acqua lungo la fenditura che tagliava la facciata
degli edifici dall’alto in basso, e a seconda della loro potenza si
avvicinavano di più o di meno alla porta d’ingresso.
Res
osservò ciò che stava accadendo senza curiosità. La magia di cui
la zona era pervasa accentuava il suo problema, per cui aveva i
muscoli doloranti, la bocca secca e sudava copiosamente nonostante il
freddo. Strinse i denti ben deciso a non far trapelare nulla,
ringraziando che nessuno l’avesse così a cuore da voler sapere se
stesse bene o male.
Il
fenomeno pian piano si esaurì, le scariche smisero di illuminare la
zona e le nubi interruppero il loro moto vorticoso. Sulla scena
ritornò la stessa calma immobile di poco prima.
“Questo
era Dras che ci salutava,” sentì dire al chierico. Represse a
fatica un’imprecazione.
Non
appena Arahad diede l’ordine di approntare il campo, si diresse
verso uno dei carri e cominciò a scaricare il necessario. Si sentiva
esausto, ma almeno la fatica fisica l’avrebbe distolto dai
pensieri, che tornavano particolarmente tormentosi e insistenti
quando il suo problema per qualche motivo si aggravava.
“Ehi,
tu!” si sentì chiamare.
Si
voltò e vide il sergente con i pugni puntati sui fianchi.
“Sergente?”
“Prendi
quel carro!” ordinò il sottufficiale indicando il veicolo civile
coperto dalla tela cerata, “Il principe vole che sia scaricato
subito.”
“Sì
sergente.”
“E
vedi di non rompere niente, altrimenti ti romperò io la schiena con
la frusta.”
Res,
che era tutta la testa più del suo interlocutore, senza particolare
emozione rispose: “Sì, sergente.”
Abbandonò
quel che stava facendo, prese per le redini il cavallo che trainava
il carro e lo condusse verso il principe Dewrich. Questi gli ordinò
di scaricare ciò che c’era sul pianale in una zona dove la parete
di roccia si incavava formando una larga grotta. “Così saremo al
coperto anche se dovesse piovere,” disse.
“Sì,
principe,” rispose il soldato.
“Ora
prendi le anfore e allineale lungo la parete. Vedi di non romperle.”
“Sì,
principe.”
“E
vedi di non rubarne una, guarda che le ho contate.”
“Io
non bevo, principe.”
“Questa
è bella, un soldato che non beve! Beh, vedi di non rubarne una da
portare ai tuoi compagni, allora.”
Res
non rispose. Si limitò a prendere un paio di anfore, una sotto ogni
braccio, e a portarle in un angolo della grotta. Ripeté il percorso
fino a che il pianale non fu completamente vuoto. A questo punto si
inchinò al giovanotto in armatura, che per tutto il corso
dell’operazione non gli aveva tolto gli occhi di dosso e gli disse:
“Ho finito, principe.”
“Ora
le ceste di provviste.”
“Sì,
principe.”
Anche
quelle finirono accanto alle anfore.
Alla
fine, Dewrich gli disse: “Sei
stato meno stupido di quello che pensavo. Puoi andare.”
Il
soldato si limitò a inchinarsi, quindi raggiunse il plotone.
Nel
frattempo era stato distribuito il rancio e tutti stavano mangiando.
“Non c’è rimasto niente per te!” lo accolse una voce. Alla
frase seguirono delle risate.
“Se
vuoi, c’è del pane secco.” disse un altro “Va bene per i cani
come te!”
Una
pagnotta arrivò in volo e rimbalzò a terra davanti ai suoi piedi.
Senza
un parola, Res si chinò a raccoglierla e si allontanò nel buio.
Era
seduto davanti alla sua tenda quando una voce lo chiamò. Stupito, si
voltò in quella direzione. “Principe?” chiese.
Herich
si fece avanti. Aveva in una mano un involto e nell’altra una
piccola lanterna. La fiammella tremolante gli illuminava il viso dal
basso, facendo sembrare ancora più trasparenti i suoi occhi cerulei.
Si morse il labbro inferiore come faceva sempre quando era
imbarazzato.
“Che
c’è, principe?” lo incoraggiò.
Il
ragazzo gli rivolse un lieve sorriso. “Tu una volta mi hai aiutato,
ora io aiuto te.” Appoggiò l’involto ai suoi piedi e corse via.
Quando
se ne fu andato, Res lo aprì e non poté fare a meno di sorridere
fra sé e sé: c’erano dentro pasticcio di carne, confettura,
frutta secca e focaccia, ovvero quello che probabilmente gli era
stato servito a cena. Doveva essersi accorto in qualche modo che gli
avevano impedito di mangiare, e quindi vi aveva rinunciato, del tutto
o in parte, per portarlo a lui.
Mangiò
tutto, più per non mortificare il ragazzo che per fame, e poi si
raggomitolò coprendosi col mantello.
§
Herich
si alzò all’alba. Aveva dormito poco e male, rigirandosi in preda
all’agitazione e all’aspettativa per la maggior parte della
notte. Ricordava però che in uno dei pochi periodi di sonno aveva
sognato Resen-Lhaw: l’aveva visto come sempre di spalle, sulla
scogliera a picco sul golfo di Brielar.
L’eroe
non si era voltato, ma una voce gli aveva detto: Si
rivelerà nel momento del bisogno.
Si
aggirò un po’ stranito nella tenda, chiedendosi se si trattasse di
un sogno premonitore. Fuori cominciavano a farsi sentire i primi
suoni dell’accampamento che si stava svegliando, il tramestio dei
soldati, qualche ordine gridato, qualche nitrito. Da una fessura, in
una luce lattiginosa che toglieva ombre e contrasti, riusciva a
vedere i tre templi. Alla base della scala che portava al più grande
c’era una piattaforma naturale di roccia e su di essa c’era
Cresdan, in grandi paramenti, che salmodiando a mezza voce accendeva
delle candele. Le prendeva una ad una da un cesto, appiccava fuoco
allo stoppino, inclinandole faceva colare un po’ di cera sulla
pietra e poi ve le incollava sopra. Doveva aver cominciato molto
prima del sorgere del sole, perché ormai la piattaforma ne era quasi
completamente coperta e alcune candele erano ridotte a mozziconi
consumati. Rivoli di cera bianca serpeggiavano sulla pietra e si
raccoglievano al suolo in piccole colate.
Non
volendo disturbarlo, Herich si ritrasse evitando di uscire dalla
tenda.
Sedette
sul letto con le mani in grembo e prese in considerazione l’idea di
vestirsi, saltare sul primo cavallo che trovava e allontanarsi nella
steppa.
Mentre
era immerso in quelle angosciose meditazioni, entrò Dewrich. “Buon
giorno, fratello!” lo salutò allegro. “Sei pronto?”
A
quella domanda, Herich quasi trasalì. “No, non credo di esserlo,”
mormorò.
L’altro
si spostò fino a chinarsi con un ginocchio a terra di fronte a lui.
“Ma devi,” gli disse, fissandolo negli occhi.
Il
più giovane si limitò a distogliere lo sguardo.
Passò
qualche secondo di silenzio, poi l’altro gli chiese: “Ricordi
quando abbiamo duellato?”
“Sì.”
“Ebbene,
ci sono situazioni nella vita in cui non ha importanza se sei
preparato o no per affrontare quello che sta arrivando: lo devi
affrontare e basta, con i mezzi che hai, sperando che siano
sufficienti. Come in guerra. L'avversario non ti colpirà certo più
piano, se si accorge che non sei alla sua altezza.”
“Questo
lo so, fratello.”
“Bene,
allora fa quello che devi e smetti di frignare. Nessuno verrà a
farlo al posto tuo.”
Herich
lo fissò speranzoso. “Neppure tu, fratello?”
“Dras
ha scelto te,” fu la lapidaria risposta. Poi Dewrich si alzò in
piedi. “Ha scelto te,” ripeté duro, “quindi vedi di non
deluderlo.” Fece per andarsene, poi però si fermò e si voltò a
fissare Herich. “Non pensare che questo sia un gesto crudele nei
tuoi confronti,” gli disse. “Per quanto ti possa sembrare strano,
io adesso ti sto aiutando. Ti impedisco di aggrapparti a qualcuno più
grande di te come hai sempre fatto nella tua vita, ti spingo a
camminare con le tue gambe. Un giorno mi ringrazierai per questo.”
Uscì.
Herich
rimase solo nella tenda, e di nuovo ponderò l’idea di saltare sul
primo cavallo e scappare lontano. Per quanto si ripetesse che
comunque suo padre Evertas avrebbe regnato ancora molti anni, anni
che avrebbe potuto utilizzare con profitto per apprendere e
accumulare esperienza, sapeva perfettamente che da quel momento in
poi la sua vita non sarebbe più stata la stessa, e quel cambiamento
gli faceva paura.
In
quel momento, entrò nella tenda Cresdan. “Principe, sei pronto?”
chiese.
Schierato
con gli altri a qualche centinaio di passi dal tempio, Res era in
posizione di riposo, con lo scudo rettangolare appoggiato contro la
coscia e la mano sull’impugnatura della spada. La lorica e l’elmo,
lucidati per almeno un’ora, brillavano come uno specchio.
Incorniciate
dalla valle, le tre costruzioni si ergevano maestose. Ai due lati
della porta di quella centrale erano stati accesi dei fuochi, che
davano alla pietra grigio-azzurra una tonalità vagamente dorata.
Sebbene
fosse giorno fatto, vi era nell’aria una luce livida. Le nubi si
stavano addensando sopra le tre costruzioni e già le prime folgori
avevano preso a crepitare sulla sommità. Nella scanalatura della
facciata scendevano fugaci rivoli di luce.
Accompagnato
dal chierico, il principe si presentò all’inizio della scala di
pietra. Res lo osservò: era pallido, aveva l’espressione tesa.
Immaginò che avesse paura. Indossava uno strano copricapo di piume
rosse che gli ricadeva fin sulle spalle e un abito nero dal colletto
rialzato, ornato di ricami. Dovevano essere vesti cerimoniali.
Il
corpulento sacerdote gli mise un braccio intorno alle spalle. Il
soldato vide che gli indicava il tempio e parlando annuiva con
decisione, voltandosi di tanto in tanto verso il ragazzo, come per
indurlo a fare altrettanto.
Alla
fine gli rivolse un inchino e si allontanò.
Il
principe rimase solo alla base della scala. Alla sua destra, il piano
coperto di candele tremolava sotto l’effetto della brezza che si
stava alzando.
Le
nubi si addensarono ulteriormente, fulmini poderosi, che si
abbattevano con scoppi che laceravano le orecchie, cominciarono a
tempestare la cima dell’edificio. Il canale di luce andò facendosi
sempre più intenso.
L’entrata
del tempio, un altissimo arco a sesto acuto, all’improvviso si
aprì, proiettando un bagliore dorato sugli ultimi gradini della
scala.
Il
ragazzo prese a salire. Camminava lento, sembrava che ogni passo gli
pesasse come piombo. A un certo punto addirittura si fermò, poi si
voltò indietro, come se stesse cercando qualcuno. Fece scorrere lo
sguardo sui ranghi e Res ebbe l’impressione che stesse cercando
lui.
A
rischio di attirarsi le ire del sergente, piegò appena la testa,
come per fargli capire che lo stava seguendo. Il ragazzo sorrise, poi
si girò e riprese la salita.
Fermo
davanti alla porta, Herich strinse gli occhi e spostò indietro le
piume rosse che, come i capelli, per l’ennesima volta gli erano
finite davanti al viso.
Cercò
di vedere qualcosa al di là della soglia, ma aveva l’impressione
di essere affacciato su una stanza completamente vuota.
Si
era immaginato un altare, statue imponenti, o magari una scala che
conducesse da qualche parte, invece oltre la porta non c’era niente
di tutto ciò.
Si
chiese cosa significasse. Cresdan non gli aveva detto quasi nulla su
ciò che sarebbe successo, sostenendo che sarebbe stato Dras in
persona a rivelargli ciò che doveva fare o non fare, ed egli si
trovò a chiedersi cosa sarebbe accaduto se il dio dai mille volti
invece di dargli istruzioni si fosse limitato a stare a guardare cosa
avrebbe fatto.
Fece
un passo oltre la soglia.
Di
colpo si trovò in un paesaggio innevato e illuminato da una
splendida luna piena. Ai suoi lati c’erano rocce aguzze, mentre
proprio di fronte a lui, su una cresta impervia e ghiacciata, si
ergeva una struttura circolare che sembrava un colonnato. Sopra di
essa si trovava un enorme trono, sul quale era seduto un uomo
imponente e barbuto, grigio come la pietra che lo sosteneva, con
abiti regali e una lancia nella mano destra.
Herich
rimase a contemplarlo meravigliato, chiedendosi se fosse una statua o
una creatura vivente. Si accorse di non provare paura. Il freddo
pungente non lo faceva rabbrividire, ma gli donava una piacevole
sensazione di vitalità.
“Chi
sei?” chiese.
La
figura si mosse. “Io sono il volto che tu vuoi vedere,” rispose.
Il
ragazzo si avvicinò. Per quanto fosse illuminato da tergo, quindi
con il viso in ombra, il suo misterioso interlocutore aveva senza
dubbio le fattezze di re Evertas. Gli abiti erano gli stessi di
quando il re dava udienza nella sala del trono e anche la posizione
sullo scanno. “Padre?” disse stupefatto.
Seguì
qualche secondo di silenzio, infine giunse la risposta: “Vedi il
padre perché lo cerchi e lo brami. Speri in qualcuno che ti dica
cosa devi fare. Ma tu sarai re e dovrai essere tu il padre dei tuoi
sudditi.”
Herich
chinò la testa. “Ma io non sono pronto,” mormorò.
“Ci
sono cose per cui nessuno è mai pronto, e tuttavia vanno portate a
compimento.”
“Come
morire?”
“Come
morire.” confermò la figura.
Il
ragazzo si avvicinò ancora, ormai era ai piedi della cresta di
roccia. “Ma il mio morire, vedi, non influirebbe sul benessere e la
sicurezza di migliaia di persone, mentre il mio cattivo governo sì.
Posso anche accettare di andare al cospetto di Dras, ma non di
condannare i miei sudditi alla miseria e alla sofferenza per colpa
della mia incapacità.”
“Sei
già al cospetto di Dras.”
Herich,
che stava per aggiungere altro, tacque e deglutì a vuoto. “Allora
sono… morto?” osò chiedere dopo un po’.
“Per
rinascere.”
“Che
cosa significa?”
“Oggi
muori come principe e rinasci come re. Ti darò una corona, essa avrà
occhi per vedere e orecchie per udire, e mani per soccorrere. Sarai
per il tuo popolo un padre misericordioso.”
La
figura sollevò la mano che non reggeva la lancia e la volse con il
palmo verso l’alto. La luce della luna sembrò condensarvisi sopra,
creando una sfera pulsante nella quale pian piano cominciarono a
formarsi delle diafane volute che si torcevano e si intrecciavano.
Nel
corso del processo lo splendore del globo divenne così forte che
Herich dovette coprirsi gli occhi con una mano.
Si
ritrovò sdraiato a faccia in giù nella sala del tempio, ancora con
una mano sugli occhi. Si alzò lentamente, si guardò intorno: non
c’era più il paesaggio innevato, la temperatura era confortevole.
Dall’alto proveniva una fioca luce dorata. Al centro della stanza
c’era un supporto di pietra sul quale era posata una corona di un
metallo bianco che poteva essere platino o argento estremamente puro.
Su di essa erano raffigurati tre fra i Wenos più potenti: Folan che
tutto vede, Cavach che tutto ode e Undiah Mano di Dras.
“Grazie,”
mormorò.
La
luce ebbe un’oscillazione.
Herich
raccolse con mani tremanti la corona. Le figure erano così
realistiche che davano l’impressione di guizzare sul metallo come
animate di vita propria. Cresdan gli aveva spiegato, in una delle
lezioni che gli aveva impartito durante il viaggio, che le corone
erano oggetti magici, in cui Dras infondeva dei poteri, diversi a
seconda delle figure che vi venivano rappresentate.
Il
fatto che il dio avesse scelto per la sua corona i Wenos, ovvero i
suoi aiutanti più fedeli, faceva capire che avrebbe guardato al suo
regno con benevolenza.
Si
passò una mano fra i capelli per spostarseli dal viso, e così
facendo si rese conto di non avere più il cimiero di piume rosse.
Forse Dras se l’era tenuto in cambio della corona. Si ripromise di
chiederlo a Cresdan.
Uscì
dal tempio. Il cielo era coperto, ma i fulmini avevano smesso di
crepitare e c’era una luce cupa come di crepuscolo. Sulla pietra
alla base della scala non c’erano più candele accese, ma solo uno
strato di cera solidificata. I soldati erano ancora dove li aveva
lasciati e il suo primo pensiero fu che probabilmente erano più di
quattro ore che aspettavano lì in piedi impalati.
In
armatura completa, i capelli sciolti sulle spalle, Dewrich gli si
fece incontro. “Fammi vedere la corona, fratello,” gli disse per
prima cosa. Herich gliela depose in mano senza esitare, poi lo
oltrepassò e raggiunse il plotone schierato. Si guardò intorno
ansiosamente. “Capitano Arahad?” chiamò.
L’ufficiale
si fece avanti. “Altezza?”
“Capitano,
fa riposare gli uomini. Non serve a nulla che stiano qui schierati,
non corro pericoli.”
“Non
si può mai sapere, altezza.”
In
quel momento sopraggiunse alle sue spalle Dewrich, che disse:
“Herich? Puoi venire un momento, per favore?”
“Sì,
fratello.”
Res
seguì con lo sguardo i due principi che si allontanavano. Per quanto
il maggiore cercasse di tenere la voce bassa, si sentiva chiaramente
che stava redarguendo il più piccolo. L’altro, che ancora non
aveva preso confidenza con la propria condizione di futuro sovrano,
lo ascoltava a testa china incapace di ribattere.
Mentre
seguiva quello scambio, il soldato udì un grido di rapace. Girò lo
sguardo verso la provenienza del suono e vide un’aquila posarsi su
uno spuntone di roccia poco lontano. L’animale arruffò le penne
sul collo, si scrollò e poi rimase immobile. Res ebbe l’impressione
che stesse scrutando i dintorni.
Poco
dopo i due fratelli fecero ritorno. Il più grande stava dicendo:
“Voglio dimostrarti che ho a cuore il benessere dei soldati,
Herich, e che ho pensato anche a loro quando ho caricato le derrate
per festeggiare.”
“Davvero?”
“Certamente.”
Poi, a voce più alta: “Capitano Arahad, metti gli uomini in
libertà. Questa sera tutti berranno alla salute del futuro re!”
Res
notò che l’ufficiale sembrava decisamente poco convinto.
Continuava a guardarsi intorno, e un paio di volte fissò l’aquila
con astio. Il soldato immaginò che le avrebbe volentieri tirato un
colpo di balestra, se non avesse ricevuto un espresso divieto in tal
senso dal principe.
Attese
l’ordine di rompere le righe, poi si recò da lui. “Capitano,
posso parlarti?” gli chiese.
“Che
cosa vuoi?”
Res
gli mostrò il chiodo che aveva trovato. “Qualcuno è stato qui da
poco, capitano.”
L’altro
si rigirò il piccolo pezzo di metallo fra le dita. “Predoni di
As’del?”
“Non
ferrano i cavalli, capitano.”
“Quindi
chi può essere stato? Dei fedeli?”
“Non
so se qui vengano dei fedeli a pregare.”
Arahad
lanciò uno sguardo ai templi, che svettavano minacciosi
nell’oscurità incipiente, e disse: “Non ci sono tracce qui
intorno e in questa pianura si vedrebbe un uomo a cavallo a una lega
di distanza.”
“Sì,
di giorno. Di notte non lo so, capitano.” Poi, dopo una pausa: “E
adesso abbiamo con noi l’erede al trono del Daishrach e la sua
corona.”
L’ufficiale
emise un sospiro e si voltò verso Herich, che sembrava assorto in
una conversazione con il fratello. “Raddoppierò le sentinelle,”
disse semplicemente.
Non
appena calò la notte, Dewrich diede ordine di accendere dei grandi
fuochi davanti al Primo Tempio. Il capitano Arahad provò a
protestare, facendogli notare che mancando la palizzata il bagliore
delle fiamme sarebbe stato visibile fino a grande distanza, ma il
principe lo zittì e fece portare presso i falò le anfore e le ceste
che aveva ordinato di stivare nella grotta. Nelle prime c’era il
vino migliore di tutta la città di Dyat, quello che veniva servito
solo alla tavola del re, e nelle seconde c’erano cibi di ogni
genere: salsicce, pasticci, dolciumi, confetti, frutta secca e altro.
“Prendetene
tutti!” esclamò Dewrich, “festeggiate con me, amici miei!”
I
soldati risposero con veementi acclamazioni, quindi cominciarono a
servirsi con abbondanza.
Presto
l’atmosfera divenne molto allegra, si improvvisarono canti in onore
di Herich e della casa reale e nonostante i racconti di Res,
tornarono le ballate su Resen-Lhaw e anche sugli eroi del passato.
Come
al solito, il soldato sedeva in disparte. Da tempo non beveva più
alcolici, perché il vino faceva diventare il suo problema più forte
che mai, inoltre per vari motivi non amava stare in compagnia dei
suoi commilitoni.
Rimase
comunque a guardarli, se non con tristezza, comunque con un senso di
estraneità malinconica.
Non
poté fare a meno di notare, però, che i soldati da una parte
sembravano in preda a un’euforia preoccupante e dall’altra, una
volta esaurita la fase di eccitazione, piombavano in un torpore dal
quale era difficile risvegliarli. Addirittura vide uno di essi cadere
riverso accanto al fuoco, così vicino che se fosse stato lucido
sarebbe saltato via con un urlo di dolore, e rimanere beato a ronfare
fino a che non fu afferrato per la collottola e trascinato via.
Spostò
lo sguardo sul principe Dewrich, e lo vide porgere una coppa
traboccante al fratello. Questi dapprima si schermì, poi bevve
qualche sorso, cominciando poco dopo a parlare forte e a barcollare.
Res
aggrottò le sopracciglia e involontariamente si leccò le labbra:
quelli erano gli effetti del tau’zeel, li conosceva molto bene.
Il
principe Dewrich stava somministrando tau’zeel di nascosto a tutti.
Pensò
al da farsi. Non poteva sapere cosa sarebbe successo, ma gli era ben
chiaro che il drogare qualcuno a sua insaputa implicava intenzioni
tutt’altro che buone.
Si
allontanò adagio fino a scomparire nel buio e dalla nuova posizione
rimase a osservare quello che stava succedendo intorno ai falò.
Aveva diverse possibilità. La prima era quella di inforcare un
cavallo, magari proprio il maledetto roano del principe, e partire al
galoppo verso Dyat. O verso qualsiasi altro posto di sua scelta.
Sarebbe diventato – o si sarebbe confermato – un vigliacco e un
disertore, ma almeno si sarebbe salvato la pelle. Le labbra gli si
stirarono in un sorriso amaro. Ma gli interessava, poi, salvare la
pelle? Andare da qualche altra parte, ricominciare in qualche altro
esercito, dato che non sapeva fare altro, sempre come l’ultimo dei
marmittoni, disprezzato da compagni e considerato un idiota dai
superiori?
Non
gli interessava più, in effetti.
La
seconda opzione era quella di unirsi agli altri. Non c’era più
nessuno abbastanza sobrio da accorgersi di lui, avrebbe potuto
ubriacarsi, avere finalmente tutto il tau’zeel che voleva e
sperimentare un’ultima volta quell’inaudita, estatica e al tempo
stesso terribile sensazione di assoluto piacere che conosceva così
intimamente.
Poi
sarebbe successo quel che doveva succedere, ma almeno avrebbe
concluso in bellezza una vita di disonore.
Non
si mosse, nemmeno quella possibilità gli andava bene.
La
terza scelta, forse l’unica che a conti fatti poteva considerare
accettabile, era quella di agire.
Ghignò
di nuovo. Agire, come?
Si
costrinse a ragionare lucidamente, nonostante il desiderio del
tau’zeel gli ruggisse ormai nelle viscere come un incendio. Deglutì
di nuovo, si sentì vacillare. Gli parve di cadere in uno stato di
trance, e quando si riprese aveva la mano su una delle anfore. Saltò
indietro come se avesse toccato del ferro rovente, con il cuore che
gli martellava nelle orecchie. Deglutì di nuovo più volte,
inghiottendo saliva che sembrava acqua. Aveva smesso da anni, ma in
quel momento avrebbe ucciso anche sua madre, pur di avere un sorso di
quel vino drogato.
Si
fece indietro, un passo per volta, percuotendosi le cosce con i pugni
più forte che poteva, per far sì che il dolore fisico lo
distogliesse dalla brama per la sostanza.
Urtò
con il tallone contro il primo dei gradini di pietra che portavano al
tempio. Si voltò in quella direzione. “Dras...” ansimò. Non
aveva mai pregato in vita sua, ma sentiva che la sua volontà stava
venendo meno. “Dras, aiutami.”
Salì
i gradini uno dopo l’altro, con i brividi che lo squassavano e la
vista annebbiata. Sprazzi del passato lo assalivano come pugnalate,
aumentando ogni volta il suo stato di agitazione.
Il
tempio non era illuminato, ma la porta era aperta. Non si soffermò a
considerare quella stranezza, si lasciò cadere all’interno e si
rannicchiò in un angolo, mentre la sua mente sovreccitata continuava
a ripetergli che doveva agire, agire, agire...
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Resen-Lhaw 4
Salve
gente,
un
altro capitolo del mappazzone! Ovviamente ringrazio tantissimo tutti
quelli che sono passati per di qui, che mi hanno letto o messo in
qualche lista, ma soprattutto chi è stato così gentile da lasciarmi
il suo parere. Grazie a tutti, vi adoro!
Capitolo
4
L’alba
giunse come una linea di luce lattiginosa all’orizzonte. I fuochi
erano da tempo spenti, anfore e cesti erano sparsi qua e là assieme
a resti di cibo. I soldati giacevano dov’erano caduti, alcuni con
recipienti mezzi rovesciati in mano. Uno o due dovevano essersi
soffocati con dei bocconi che non avevano fatto in tempo a
inghiottire.
Comparve
il principe Dewrich, in armatura completa e con la spada in pugno. Si
avvicinò ai soldati dormienti e per un po’ li osservò muto. Ne
spinse uno con la punta del piede, ottenendo in risposta solo un
basso grugnito.
Notò
che un altro si stava rialzando pesantemente e subito si mosse in
quella direzione. Gli andò alle spalle e gli piantò la spada nella
schiena, facendogli uscire un fiotto di sangue dalla bocca. Estrasse
poi la lama e l’uomo si accasciò nuovamente, questa volta per
rimanere immobile.
Si
avvicinò al fratello e lo scosse, ma il ragazzo non reagì in alcun
modo. Si raddrizzò e scrutò l’orizzonte, quindi adocchiò
l’aquila, che era posata su una cresta di roccia. “Va’,” le
disse, “avvisa il tuo padrone che può venire.”
Il
rapace volò via con uno strido.
Dewrich
si recò poi nella tenda principale, rimase dentro per un po’,
quindi uscì con in mano un involto di stoffa che ripose con cura in
una delle bisacce della sua sella.
A
quel punto l’aria cominciò a vibrare come per effetto di un
terremoto. Al tremore si unì dopo poco anche un rombo cupo, che
andava via via aumentando.
Facendosi
schermo con la mano, il principe scrutò di nuovo l’orizzonte e
rimase fermo a contemplare qualcosa. Sul volto gli comparve un
sorriso di soddisfazione.
Dal
suo rifugio, Res azzardò uno sguardo nella stessa direzione: stava
arrivando al galoppo una torma di cavalieri. Si avvicinavano
rapidamente, quindi in breve fu in grado di riconoscerli come predoni
di As’del: i capelli bianchi, le elaborate armature pettorali, i
calzoni larghi e i mantelli di colori sgargianti erano tipici di
quel popolo fiero e vanitoso, appassionato di monili preziosi e bei
cavalli.
I
cavalieri, non meno di una cinquantina, dilagarono su tutto il campo,
rovesciando le tende dell’accampamento, scrutando sotto i teloni
dei carri e girando intorno ai soldati ancora stesi a terra. Di tanto
in tanto si voltavano verso il loro capo, evidentemente aspettando
che questi desse l’ordine di smontare di sella e cominciare il
saccheggio.
Dal
gruppo dei nuovi arrivati si staccò un cavaliere che montava un
morello con una stella bianca in fronte e aveva un’aquila sulla
spalla. Poteva avere una trentina d’anni. Era alto, per essere un
uomo di As’del, e molto muscoloso. I capelli bianchi gli arrivavano
fin sotto le spalle. Aveva due spade legate sul dorso e indossava un
mantello scarlatto.
L’uomo
procedette fino a fermarsi di fronte a Dewrich, quindi smontò di
sella e si inchinò.
Il
principe rispose al saluto e disse: “Ho fatto ciò che mi chiedevi,
Jeisym Khan.”
L’altro
si guardò intorno e rispose: “Lo vedo, principe. Sono tutti lì?”
Con un gesto della testa indicò gli uomini dormienti.
“Dal
primo all’ultimo. Potete farne quello che volete.”
“E
il principe?”
“Se
non è già morto, ammazzatelo.
Non voglio vedermelo tornare a Dyat, magari con un esercito, fra
qualche anno.”
L’altro
annuì. “Certo, dici il giusto. Farò in modo che questo non possa
accadere.” A voce più alta diede un ordine nella lingua di As’del.
I suoi uomini emisero un tonante grido di gioia e smontarono da
cavallo, quindi si gettarono sui dormienti e cominciarono a scannarli
uno dopo l’altro, cacciandosi nel frattempo in bocca pezzi di
pasticcio o torta avanzati, e intascando tutto ciò che trovavano
interessante.
Uno
sollevò il principe esanime per le braccia e lo trascinò da una
parte, dandosi poi a spogliarlo degli abiti preziosi. Quando ebbe
finito, tirò fuori il pugnale per ucciderlo, ma qualcosa lo
distrasse ed egli se ne andò disinteressandosi di lui.
A
denti stretti, tremante, col sudore che gli ruscellava sul viso, il
soldato assisteva impotente al massacro e al saccheggio
dell’accampamento. Più di una volta aveva preso in seria
considerazione l’idea di palesarsi, per condividere il fato dei
suoi compagni, ma sempre il buon senso aveva prevalso, facendogli
capire che un simile sacrificio sarebbe servito solo ad appagare la
sua necessità di espiazione, senza peraltro apportare alcun elemento
positivo alla situazione contingente.
Mentre
l’orgia di massacro era in pieno svolgimento, Dewrich andò a
prendere il cavallo da guerra, montò in sella e disse a Jeisym Khan:
“Non appena giungerò a Dyat, la tua aquila ti avvertirà. Allora
tu mi raggiungerai al monastero di Voldas e io ti darò la seconda
metà di quello che ti ho promesso.”
L’altro
si inchinò. “Che il tuo dio ti accompagni nel cammino, futuro re
del Daishrach.” Detto questo, si rialzò e lo fissò negli occhi,
quindi soggiunse: “E per far sì che tu raggiunga Dyat sano e
salvo, i miei due uomini migliori, Nys e Den’en, verranno con te.”
Diede un ordine nella sua lingua e subito due robusti cavalieri
abbandonarono quel che stavano facendo, montarono in sella e lo
raggiunsero.
Jeisym
Khan sorrise e disse: “Questi, principe, sono i miei uomini
migliori, non ci sono guerrieri come loro in tutte le steppe di
As’del. I loro cavalli galoppano come il vento, la loro vista è
acuta, il loro braccio è poderoso e il loro cuore è intrepido. Da
ora e fino a che non ci rivedremo, essi saranno la tua ombra.”
“Ti
ringrazio, Khan,” rispose Dewrich a denti stretti.
“Non
devi ringraziarmi. L’affetto e la stima che ho per te mi spingono a
vegliare sulla tua incolumità.”
“Non
corre rischi, Khan, comunque ti ringrazio. Perlomeno avrò qualcuno
con cui parlare mentre attraverso queste steppe.”
“Per
chi sa ascoltare, le steppe parlano. Hai mai udito la brezza gentile
che sussurra sull’erba? O le pietre ghiacciate che gemono al
mattino, quando vengono scaldate dal primo sole?” Rivolse gli occhi
all’immensità ondulata e con tono ispirato soggiunse: “Oppure il
grido aspro del falco, e il sibilo del vento di maestrale?”
“Ho
sentito tutto questo, Khan,” confermò Dewrich sbrigativo.
“E
allora come puoi dire che la steppa non parla, principe? Essa parla
al cuore dell’uomo nobile, lo commuove e lo esalta allo stesso
tempo.”
“Indubbiamente,
ma ora devo andare. Vorrei raggiungere Dyat prima possibile.”
L’altro
assentì. “Certo, ti capisco. Ma Nys e Den’en saranno sempre al
tuo fianco, non dovrai preoccuparti di nulla.”
§
Jeisym
Khan rimase per qualche istante a guardare il principe che si
allontanava seguito dai suoi uomini. Non lo considerava
particolarmente infido, non rispetto alla media degli abitanti di
As’del, perlomeno, però suo padre gli aveva sempre ripetuto che la
fiducia è bene, ma il controllo è meglio.
“Shaar!”
chiamò. Si udì uno strido acuto, poi l’aquila arrivò in volo e
gli si posò sull’avambraccio. Volse verso di lui lo sguardo
grifagno.
“Shaar,
amica mia,” disse Jeisym, “segui il principe Dewrich. Sii i miei
occhi e le mie orecchie.”
L’aquila
emise un secondo strido, quindi prese il volo e si allontanò con
lenti battiti d’ala.
In
quel momento, un guerriero si avvicinò a lui. Portava un camiciotto
senza maniche fatto di pelliccia, aveva le braccia ornate di monili
d’oro e un’alta cintura d’argento e pietre dure. I capelli
bianchi erano legati in una treccia che gli arrivava a metà schiena.
Jeisym si voltò verso di lui. “Che cosa c’è, Therved?” gli
chiese.
“Volevo
solo dirti che tutto procede secondo i tuoi ordini, Khan.”
“Molto
bene. Dì agli uomini che possono prendere quello che vogliono, ma
non devono entrare nei templi. Non ho intenzione di farmi nemico
questo dio.”
L’uomo
si inchinò. “Come tu comandi, Khan.” Fece per andarsene, ma
l’altro lo fermò.
“Portami
il ragazzo,” ordinò.
“Come
tu comandi, Khan.”
L’uomo
si allontanò e poco dopo fece ritorno assieme a un altro. In due
sorreggevano, uno per le ascelle e uno per le caviglie, il giovane
Herich ancora privo di sensi. Lo deposero a terra.
Jeisym
si chinò su di lui, gli prese il mento fra le dita e gli voltò la
testa da una parte e dall’altra, poi gli sollevò una palpebra e
gli aprì la bocca per controllare i denti.
“Peccato
per quel segno rosso sull’occhio, Khan,” constatò Therved alle
sue spalle.
“Ti
sbagli, questo ne aumenta il valore. È come l’impronta del pollice
di Halmaikah, che fa raddoppiare il prezzo dei purosangue.”
L’uomo
si limitò ad annuire.
“Fallo
caricare su un carro,” disse allora il Khan, “mettigli una
coperta addosso, che non si ammali, e bada che nessuno lo rovini.
Deve arrivare intatto a Perechyra.”
§
Res
uscì dal tempio solo quando fu certo che i predoni fossero già
scomparsi all’orizzonte e per un po’ si aggirò in silenzio nella
devastazione che essi avevano lasciato. A parte i due principi, gli
altri erano stati uccisi tutti. Il chierico giaceva supino, l’avevano
spogliato prima di sgozzarlo, per far sì che i paramenti ricamati
non si imbevessero di sangue. Le dita erano state tranciate per
portare via gli anelli.
I
soldati erano tutti morti, la maggior parte delle armi e delle
armature, e in generale tutto ciò che poteva avere un valore, era
stato saccheggiato. Il capitano Arahad era stato decapitato nel
sonno, il volto conservava l’espressione atarassica conferita
dall’assunzione di tau’zeel. Probabilmente l’ufficiale non
aveva mai fatto uso prima della droga, quindi l’effetto era stato
più potente che mai. Gli dispiacque: Arahad era un buon capitano.
Emise
un sospiro: ecco che si trovava di nuovo, unico superstite, a
contemplare la distesa dei compagni morti.
Per
un istante lo prese l’impulso di buttarsi a grufolare fra i corpi
alla ricerca di qualche anfora che contenesse ancora un fondo di vino
con il tau’zeel, ma le impronte di ruote che si perdevano
all’orizzonte ebbero il potere di riportarlo in modo brutale alla
realtà contingente: quello non era il momento di piangersi addosso,
il principe Herich era nelle mani dei predoni, suo fratello Dewrich
stava correndo a Dyat per usurpare il trono e solo lui, per quanto
indegno, per quanto disonorato, poteva fare qualcosa.
“È
ora di tornare a combattere,” disse fra sé e sé.
Raccolse
in giro le poche cose utili rimaste: un otre d’acqua, un mantello
pesante, qualche provvista. Tra i resti del banchetto erano
disseminate anfore di vino drogato, per cui evitò di avvicinarsi a
quelle vivande, preferendo raccogliere gallette e carne secca da dove
i predoni le avevano con spregio buttate.
Si
congratulò con se stesso per aver tenuto con sé le poche monete che
possedeva, avrebbero potuto tornargli utili.
Le
loriche e gli elmi erano stati rubati, ma recuperò da sotto un
mucchio di cadaveri una buona spada con anche il fodero e se
l’affibbiò in cintura. Non aveva cavallo, ma i predoni si erano
impadroniti dei carri ed erano carichi di bottino, quindi per forza
di cose avrebbero tenuto un’andatura lenta. Doveva solo evitare di
avvicinarsi troppo, altrimenti in quella pianura senza rilievi si
sarebbero accorti di lui, poi avrebbe potuto comodamente seguirli
tenendo come riferimento le tracce che si lasciavano dietro.
Si
mise in marcia. Dopo essere rimasto nel tempio per tutta la notte si
era quasi abituato alla potente carica magica del luogo, tuttavia man
mano che se ne allontanava si sentiva meno affaticato e il suo umore
si faceva meno plumbeo. Quando il vento riprese a soffiare sulla
pianura lo accolse quasi con sollievo, anche se era ghiacciato e lo
faceva rabbrividire, perché gli dava una sensazione di vitalità che
da tempo non provava più.
Nel
tempio aveva fatto un sogno: aveva visto Dras, un uomo imponente,
seduto su un trono nel mezzo di un paesaggio innevato e roccioso, con
addosso un’armatura da generale. Aveva stretto un patto con lui.
“Sarà l’ultima cosa che faccio,” disse a mezza voce, “Ma è
giusto che sia così.”
§
La
prima cosa di cui Herich si accorse nel riprendere i sensi fu che
nell’aria c’era un penetrante odore di spezie esotiche. Era un
aroma greve, sensuale, con pesanti note di resine e fiori, che
inebriava e stordiva.
Si
rigirò su un fianco e realizzò di trovarsi su pellicce talmente
folte che quasi ci affondava dentro.
“Bentornato
tra noi,” disse qualcuno fuori dal suo campo visivo.
Herich
sussultò. La voce era quella di un giovane uomo ed era appesantita
da un accento straniero che non riuscì a definire. Non apparteneva a
nessuno di sua conoscenza.
Fu
attraversato da un’ondata di paura. “Dove sono?” mormorò con
voce incerta.
“Non
ha importanza.”
Il
ragazzo deglutì, cercò senza successo di alzarsi. “Chi sei?”
Il
padrone della voce si spostò nel suo campo visivo, rivelandosi un
predone di As’del che indossava ricchi abiti di seta e aveva monili
su entrambe le braccia. La sua muscolatura poderosa contrastava
stranamente con i lineamenti, che invece erano talmente delicati da
risultare quasi femminei.
“Chi
sei?” ripeté Herich, “Dove sono gli altri?”
“Intendi
quelli che erano con te?”
Sul
volto del ragazzo si accese una luce di speranza. “Sì, loro! Mio
fratello Dewrich, il chierico Cresdan e gli altri. Dove sono?”
“A
parte tuo fratello, morti.”
Herich
sbiancò. “Cosa?” Si puntellò su un gomito per sollevarsi.
L’altro
avvicinò il viso al suo, e lo fissò con aria di compatimento.
“Povero stupido,” gli disse, “tuo fratello ti ha tradito.”
Il
ragazzo aggrottò le sopracciglia. “Non è vero!”
Il
predone annuì con aria grave. “Oh, sì che è vero. E pensa che se
non fosse stato per me e per uno dei miei guerrieri, ora anche tu
saresti morto.”
Herich
deglutì. “Che… che significa?” Balbettò incerto, facendo
guizzare tutt’intorno lo sguardo spaventato.
L’espressione
dell’altro divenne quasi di degnazione. Con un sospiro, rispose:
“Significa che tuo fratello ha aspettato che tu ricevessi la
corona, poi ha drogato te e tutti gli altri, e mentre noi
saccheggiavamo il tuo accampamento e toglievamo di mezzo scomodi
testimoni, lui è tornato a Dyat, dove dirà al re vostro padre che
la spedizione è stata assaltata e lui è l’unico superstite.”
A
quelle parole, il labbro inferiore del ragazzo cominciò a tremare, e
grosse lacrime gli rotolarono lungo le guance. “Non è vero...”
singhiozzò, “non è possibile. Avrete ucciso o catturato anche lui
e non me lo volete dire.”
“Tuo
fratello vale molto meno di te, per noi. Tu almeno puoi essere
venduto come schiavo al grande mercato di Perechyra.” Gli prese una
ciocca di capelli e delicatamente se la fece scorrere tra le dita.
“Sei vergine?” gli chiese, come un altro gli avrebbe chiesto se
sapeva leggere e fare di conto.
“Ma
cosa ti viene in mente?” sbottò il ragazzo.
“Quelli
vergini li pagano di più,” fu la disinvolta risposta, poi il
predone soggiunse: “Cos’è quel segno che hai sul viso?”
Herich
sospiro. “Dicono che sia il segno della benevolenza di Dras.”
“Il
vostro dio?”
“Il
capo degli dei. Mi è comparso quando sono entrato nel Grande Tempio
a Dyat. La mattina mio fratello mi aveva ferito con la spada, e poi
la ferita è diventata così.”
“Forse
il tuo dio stava cercando di dirti qualcosa, allora.”
Il
ragazzo si limitò ad alzare le spalle. Si guardò intorno: si
trovava in una tenda circolare, arredata con cassapanche di legno
intarsiato e vasellame prezioso. Dovunque erano abbandonate ricche
stoffe dai colori sgargianti, pellicce e cuscini.
“Mio
padre ti coprirà d’oro, se mi riporti da lui.”
Il
predone scosse la testa. “Troppo pericoloso. Inoltre, tuo fratello
mi ha già coperto d’oro, e lo farà ancora, perché io non
ti riporti indietro, e Jeisym Khan dell’Aquila Bianca ha una sola
parola.”
“Un
predone di As’del che attribuisce valore alla parola data?”
Il
suo interlocutore gli sorrise sprezzante. “Meriteresti che ti
frustassi, per quello che hai detto,” replicò duro, e sogghignò
quando vide un’espressione spaurita comparire sul volto del
prigioniero. “A voi del Waerund fa comodo pensare che gli As’vaan
siano tutti ladri, traditori e predoni.”
Herich
distolse lo sguardo senza rispondere.
Con
lo stesso tono sprezzante, l’altro proseguì: “Presso il nostro
popolo, la parola data è più sacra di qualsiasi cosa. Anche più
della vita.”
Passò
qualche tempo, l’unico suono che si udiva era il sibilo del vento
all’esterno. Alla fine il ragazzo chiese: “Cosa vuoi fare di me?”
“Te
l’ho detto, sarai venduto al mercato di Perechyra. Sei bello,
inoltre suppongo che tu sia istruito e abbia buone maniere, essendo
un principe.”
“Verranno
a riprendermi.”
“Non
credo proprio, visto che non abbiamo lasciato in vita nessuno.”
A
quelle parole, le lacrime ricominciarono a scorrere sul viso del
ragazzo: se avevano ucciso tutti, significava che anche Res era
morto. Si sentì invadere dalla disperazione: per qualche irrazionale
motivo, aveva sperato che proprio Res sarebbe arrivato a salvarlo.
“È
inutile piangere.” La voce dell’As’vaan lo riportò bruscamente
alla realtà. “Non ti servirà certo a riavere la tua vita di
prima. Puoi solo adattarti a questa, e prima lo farai, meglio sarà
per te.”
Si
alzò dal giaciglio, sul quale si era seduto per parlargli, e
aggiunse: “Il mio nome è Jeisym Khan, comando il clan dell’Aquila
Bianca. Nell’accampamento sei libero, puoi andare dove vuoi, ma non
ti consiglio di provare a scappare, perché da solo nella steppa non
sopravviveresti nemmeno un giorno.”
Si
inchinò brevemente e uscì. Mentre scostava il telo che chiudeva la
porta, Herich fece in tempo a intravedere una pianura ondulata che si
perdeva all’orizzonte assumendo in lontananza i toni del grigio e
del viola.
§
L’acqua
gorgogliava piano scorrendo tra sassi lisci e ricoperti di muschio.
Res, che da più di un giorno aveva prosciugato l’otre, si buttò
faccia a terra lungo la riva del fiume e per un po’ non fece altro
che bere con avidità, incurante del fatto che l’acqua fosse
ghiacciata. Solo dopo essersi parzialmente dissetato, si sollevò
ansante sugli avambracci e rotolò di lato a occhi chiusi.
Le
gambe gli facevano talmente male che gli sembrava di avere due
tanroth-ath, uno per parte, che gliele azzannavano. La schiena era
dura come un pezzo di legno, la testa gli doleva e le orecchie gli
fischiavano.
Nonostante
l’urgenza di non perdere le tracce della carovana, doveva
riposarsi. Erano più di tre giorni che camminava ininterrottamente,
facendo pause solo per concedersi qualche ora di sonno, mai più di
due alla volta, e ormai aveva un disperato bisogno di ritemprare
l’esausto fisico.
Si
rialzò con una smorfia di dolore e camminò un po’ lungo la riva
alla ricerca di un punto in cui l’acqua fosse più profonda.
Una
volta che lo ebbe trovato, si disfò degli abiti e incurante del
freddo si immerse. Si adagiò sulle pietre lisce del fondo e per un
po’ rimase semplicemente immobile, lasciando che la corrente lo
accarezzasse, poi si accovacciò e cominciò a strofinarsi con forza
con un sasso piatto, assaporando la sensazione di vigore che l’acqua
gelida conferiva alle sue stremate membra.
Si
asciugò con un lembo del mantello pesante. Si guardò, mentre lo
faceva: il suo corpo era ancora il fascio di muscoli che ricordava.
Un po’ appesantito dagli anni, magari, ma pur sempre in grado di
servirlo fedelmente. Percorse con lo sguardo le cicatrici bianche che
lo segnavano: ognuna di esse aveva una storia e si portava dietro un
carico di dolore, paura, esaltazione e orgoglio.
Chinò
la testa. Orgoglio.
Non
aveva più molti motivi per essere orgoglioso, ormai.
Ancora
avvolto nel mantello si lasciò cadere sulla rena e chiuse gli occhi,
cercando di scacciare le immagini che stavano affiorando dalla sua
memoria.
Si
riprese qualche ora dopo. Stava calando il sole e sulla pianura aveva
preso a soffiare il vento. Incassato nel letto del fiume, però, Res
era relativamente riparato e non sentiva troppo freddo. Tirò fuori
quello che gli era rimasto da mangiare, ovvero desolatamente poco:
aveva ancora qualche pezzo di carne secca e alcune gallette, una
quantità di cibo che anche razionata nel modo più rigoroso non
sarebbe durata più di due giorni.
Prese
una galletta, e visto che era vicino al fiume si concesse il lusso di
ammorbidirla in acqua, poi tagliò una striscia di carne e cominciò
a masticarla. Nella luce che andava scemando, seguì con lo sguardo
il corso d’acqua: doveva trattarsi del Phorean, ovvero il confine
naturale che separava il Waerund dalle steppe di As’del. Le tracce
della carovana lo oltrepassavano e si perdevano verso nord est. Posto
che in quella distesa desolata non avrebbe avuto senso non seguire
una linea retta per raggiungere la propria destinazione, l’unico
luogo di una certa importanza che si trovava in quella direzione era
Perechyra, ovvero la città da cui passavano tutte le vie carovaniere
più importanti. Pensò che probabilmente i predoni stavano andando
là per vendere tutto ciò che avevano razziato, compreso il principe
Herich, che con la sua acerba bellezza e i suoi modi raffinati, in
mano a un buon banditore avrebbe fruttato non meno di ventimila pezzi
d’oro.
A
quel pensiero fu tentato di rimettersi in marcia immediatamente e
solo forza di volontà e buon senso lo costrinsero a rimanere
sdraiato per una notte di sonno. Con un sospiro di frustrazione, si
rannicchiò avvolgendosi nel mantello e chiuse gli occhi.
§
Jeisym
affiancò il proprio morello alla puledra grigia di Herich e disse:
“Copriti bene, se provassi a venderti con la tosse e il moccio al
naso, avrebbero la pretesa di pagarti di meno.”
Il
ragazzo gli rivolse uno sguardo freddo. “Cosa pensi che me ne
importi se ricaverete meno dalla mia vendita?”
Il
Khan gli rivolse un sorriso di degnazione. “Povero stupido. Chi
paga di più è più ricco, quindi vive meglio e come ovvia
conseguenza, anche i suoi schiavi vivono meglio. Hai tutta questa
voglia di finire in un bordello di lusso invece che nella casa di
qualche nobile?”
Herich
non rispose, si limitò a far vagare lo sguardo sulla pianura. Il
sole stava calando, ombre viola avanzavano silenti. Piegata dal
vento, l’erba dura della steppa prendeva un colore verde argentato
che ricordava le foglie dei gattici.
Non
l’avrebbe mai pensato, ma anche quella pianura desolata gli stava
diventando cara, soprattutto perché rappresentava l’ultimo sorso
di libertà che gli veniva concesso. Emise un sospiro.
Al
suo fianco, Jeisym Khan gli chiese: “Che c’è?”
Il
ragazzo lo fissò. “E me lo domandi?”
L’altro
annuì. “Sì, te lo domando. In fin dei conti non ti è stato fatto
alcun male, sei sempre stato trattato con gentilezza.”
“Solo
perché mi volete vendere come schiavo.”
“E
allora ringrazia il tuo dio che ti ha donato tanta avvenenza,
altrimenti ti avremmo ucciso come tutti gli altri.”
Herich
si avvolse la pelliccia intorno al collo e spronò la puledra,
distaccando Jeisym di alcuni passi.
Passò
qualche minuto, poi l’As’vaan lo raggiunse e disse: “Quella
cavalla mi sembra veloce. Che ne dici di fare una corsa?”
Il
ragazzo scosse la testa. “Ci ho già provato con mio fratello. Non
voglio finire schiavo, ma non voglio finire nemmeno con le ossa
rotte.”
Jeisym
lo fissò critico. “Allora non sai galoppare.”
“Lo
so fare perfettamente.”
“In
un maneggio, forse. Galoppare nella steppa è una cosa che si impara
da piccoli.”
Herich
si voltò verso di lui e non poté fare a meno di notare la sua
espressione orgogliosa. Nonostante fossero alla fine di un lungo
giorno di marcia, egli si ergeva dritto sulla sella e i suoi occhi
dorati scintillavano. “Ti insegno,” disse.
“No,
io...”
“Devi
imparare. Un uomo non è un uomo, se non sa galoppare nella steppa.”
Herich
avrebbe voluto fargli notare che di lì a poco non sarebbe
interessato a nessuno, se era uomo o no, e che anzi avrebbe potuto
ritenersi fortunato se trovava un padrone che non lo faceva evirare,
ma nonostante la sua cortesia, quel Jeisym continuava a dargli poco
affidamento e aveva paura di contraddirlo. Si limitò a fissarlo in
silenzio.
“Devi
imparare,” ripeté convinto il Khan. “La prima cosa è essere
tutt’uno con il cavallo, solo così potrai guidarlo come faresti
con le tue gambe, e più sarete insieme, più lui si fiderà di te e
ti servirà bene.”
Così
parlando si era avvicinato, e gli stava sistemando l’assetto e le
redini. “Devi far sì che i suoi movimenti diventino i tuoi.”
Alla
fine della spiegazione chiese: “Sei pronto?”
Il
ragazzo deglutì. Ormai era il crepuscolo, la pianura si estendeva
apparentemente inoffensiva a perdita d’occhio, ma chi gli garantiva
che non ci fossero un sasso, una tana di coniglio o qualsiasi altra
cosa in grado di far cadere il suo cavallo?
Come
se gli avesse letto nel pensiero, l’altro gli disse: “Non temere:
Halmaikah vede attraverso gli occhi dei cavalli. Non succederà
niente.” Tirò le redini del morello, che aveva capito cosa stava
per succedere, e nonostante la stanchezza anelava a lanciarsi al
galoppo, quindi chiamò: “Therved!”
Subito
si avvicinò il guerriero. “Khan?”
“Fa
approntare l’accampamento, mentre io e il principe facciamo una
galoppata in questa magnifica sera.”
“Come
tu comandi, Khan,” rispose l’uomo inchinandosi.
Jeisym
si rivolse al ragazzo: “Al mio via!”
Herich
si limitò a stringere le ginocchia. Fece scendere una mano sul
garrese, ad afferrare un ciuffo di criniera, e chiuse gli occhi.
“Non
così,” lo rimproverò il Khan. “Devi godere della cavalcata, non
subirla.” Poi, dopo una pausa: “Vieni con me.”
Partirono
affiancati al trotto. “Lo senti?” gli chiese Jeisym dopo un po’,
“Lo senti che vuole correre?”
In
effetti, la puledra fremeva in preda all’aspettativa, tanto che
Herich faceva fatica a mantenerla tranquilla.
“Lo
senti?”
“Sì,
Khan.”
“Sono
il Khan per i miei uomini, non per un mio pari. Per te sono Jeisym.”
Il
ragazzo si limitò ad annuire.
“Ora
allenta le redini, falle capire che vuoi che corra come il vento
sulla pianura.”
Herich
non avrebbe saputo dire com’era successo, ma un attimo dopo si
trovò lanciato al galoppo, con l’aria gelida che gli frustava il
viso e gli occhi che gli lacrimavano per la velocità. Accanto a lui
c’era l’As’vaan, e il suo morello doveva faticare per tenere
l’andatura della puledra, che invece scivolava sull’erba argentea
rapida come il pensiero.
Herich
pensò dapprima che quella corsa sfrenata sulla pianura immersa nel
crepuscolo gli faceva paura, poi subito dopo pensò che era la cosa
più bella che avesse mai fatto, che era come volare. Si sorprese a
incitare la puledra perché andasse ancora più veloce.
Tornarono
al campo che era già buio, guidati dalle voci e dai fuochi. La tenda
circolare era stata innalzata al centro dell’accampamento e già si
sentiva l’odore dei cibi messi a cuocere.
I
due abbandonarono i cavalli schiumanti e per un po’ rimasero a
contemplare la sottile striscia di luce aranciata che scorreva lungo
l’orizzonte a occidente. Il Khan mise la mano sulla spalla a Herich
e gli chiese: “Ora che mi dici delle cavalcate nella steppa?”
Il
ragazzo si limitò a socchiudere gli occhi inspirando l’aria pura e
gelida. “Sei crudele,” disse dopo un po’.
“Perché?”
“Perché
mi fai assaporare tutto quello che sto per perdere. Se la mia
prigionia fosse orribile, allora potrei forse anelare a un padrone
buono che mi accogliesse nel suo harem e mi desse bei vestiti e buon
cibo… ma così?”
“Lo
faccio per cortesia nei tuoi confronti.”
“Una
cortesia crudele, come quella di nutrire un maiale solo con le
ghiande migliori.”
Detto
questo, il ragazzo gli girò le spalle ed entrò nella tenda.
Passò
qualche minuto, poi il Khan lo raggiunse. Dopo di lui entrarono due
uomini con dei bacili d’acqua, li deposero sul pavimento e
uscirono.
Jeisym
si spogliò completamente, quindi si avvicinò a uno dei bacili e
cominciò a lavarsi come se niente fosse. Era già successo altre
volte, ma Herich non riusciva ancora ad abituarsi a quella
disinvoltura nell’esibire la nudità. Generalmente non lo guardava
mentre si lavava e aspettava che il Khan fosse uscito per lavarsi lui
stesso. Se proprio Jeisym non se ne voleva andare, allestiva con una
tenda un angolo nascosto alla vista e si lavava lì.
Quella
volta invece rimase a guardarlo. Notò che aveva una cicatrice
biancastra e leggermente incavata sotto la scapola destra. “Cos’è
quel segno che hai sulla schiena?” gli chiese.
Jeisym
gli rivolse un sorriso. “Io lo chiamo Benevolenza
di Halmaikah,”
rispose. “È il segno di un colpo di spada che avrebbe dovuto
uccidermi, ma non l’ha fatto. Sul petto ho il suo gemello.” Si
raddrizzò e si voltò verso il ragazzo: sotto il pettorale destro
aveva una cicatrice uguale a quella della schiena.
“Ti
ha trapassato,” constatò Herich.
“È
così.”
“Quando
è successo?”
“Nella
Guerra Orientale.”
Herich
alzò stupefatto lo sguardo fino a incontrare il suo. “Tu hai
combattuto nella Guerra Orientale?”
L’altro
assentì. “Avevo appena l’età per portare le armi, ma la
sconfitta era imminente, e anche i ragazzi venivano reclutati per
l’estrema difesa.”
“Capisco.”
“Devo
la mia vita al Leone Rosso, lo sai?”
All’udire
quel nome, il ragazzo letteralmente sussultò. “Davvero?”
“Mi
trovò sul campo di battaglia con una spada che mi passava da parte a
parte. Disse che ero troppo giovane per morire e mi affidò ai suoi
guaritori.”
“Tu…
l’hai visto?”
Il
Khan emise un sospiro. “Sì, e posso dirti che era un grande eroe.
Persino i nostri poeti cantano ballate su di lui. Mi donò una
bandiera su cui era ricamata la sua insegna, il Leone Rosso, e io la
porto sempre con me.”
§
Dewrich
fermò il destriero, i due guerrieri che lo accompagnavano fecero
altrettanto. Dall’altura su cui si trovavano si vedevano bene le
Cascate Grandi, ovvero un semicerchio naturale dei monti Kelis dal
quale si riversava, in maestosi salti d’acqua, tutta la portata
dell’enorme Edayr.
La
strada per entrare a Dyat passava attraverso quelle immense
cateratte, su un antico ponte di pietra sempre lucido di umidità.
Il
rombo delle cascate era così forte che anche a pochi passi di
distanza ci si poteva parlare solo urlando.
Più
oltre svettava, incastonata nella vegetazione, la massa candida del
palazzo reale. Fin da quella distanza si vedevano bene l’alta
costruzione ottagonale che ospitava la sala del trono e più in basso
il lungo colonnato che cingeva il resto dell’edificio, con archi,
cupole, lesene e modanature.
I
vessilli rossi garrivano al vento.
“Da
qui in poi è meglio che vada da solo,” disse senza distogliere gli
occhi dall’edificio, “voi vi presenterete al tempio di Voldas
come pellegrini e mi attenderete là.”
Si
fece avanti Den’en, il più vecchio dei due As’vaan e
probabilmente anche il più esperto. “Il Khan ha detto di
accompagnarti,” rispose categorico.
Il
principe lo fissò con degnazione. “Ragiona: come potrà mio padre
credere che sono stato assalito e sconfitto dagli uomini di As’del,
se proprio due di loro mi accompagnano come se fossero i miei
servitori?” Notò con soddisfazione che l’ultima parola aveva
fatto passare un’ombra nello sguardo dei due.
L’As’vaan
però replicò: “E noi come possiamo fidarci quando dici che
parlerai con tuo padre e poi tornerai da noi? Cosa ti impedirebbe di
chiuderti nella tua città e farci scacciare come comuni ladri di
polli?”
Dewrich
assunse un’espressione costernata: “La parola che ho dato al
vostro Khan.”
“Il
Khan è lontano, principe.”
L’altro
annuì grave, poi replicò: “Tuttavia non vi è altra scelta.
Pensateci: non correreste gli stessi rischi, forse addirittura
maggiori, se entraste in città con me? Cosa mi impedirebbe in quel
caso di farvi catturare e gettare nelle segrete? Sarete anche i
guerrieri più valorosi di tutto l’As’del, ma cosa credete di
fare contro un intero esercito?”
Den’en
annuì, poi si rivolse all’altro parlando in lingua As'vaan. I due
si scambiarono qualche rapida considerazione. Il principe capiva
abbastanza di quell'idioma da riuscire a seguire il dialogo, che
verteva sul rischio di essere traditi assassinati, ma rimase
impassibile
Infine
l’As’vaan gli disse: “Saremo al monastero di Voldas tra sette
giorni. Se non avremo tue notizie, torneremo dal Khan.”
“Dove
starete nel frattempo?”
“Nella
steppa, principe. Siamo abituati agli spazi aperti, il monastero
sarebbe troppo angusto per noi.”
Dewrich
annuì. “Può andare bene,” si limitò a dire. Evitò di chiedere
cosa sarebbe successo nel caso non si fosse presentato: gli As’vaan
erano un popolo orgoglioso, fiero ma anche ferocemente vendicativo.
Jeisym avrebbe aspettato decenni, forse, ma alla fine gliel’avrebbe
fatta pagare.
Se
fosse stato in vita, chiaramente.
Salutò
e spronò il cavallo verso il sentiero che dall’altura conduceva al
ponte di pietra.
Entrò
in città a briglia sciolta, abbandonò il destriero ai piedi della
scalinata che conduceva al palazzo reale, estrasse dalla bisaccia
l’involto che vi aveva tenuto nascosto per tutto il viaggio e salì
di corsa.
“Padre!”
gridò, non appena fu sulla terrazza colonnata. “Padre mio, dove
sei?”
Attirati
dai clamori, sopraggiunsero cortigiani e soldati.
“Mio
padre!” ripeté il principe, “Devo parlare assolutamente con lui,
devo riferirgli cose della massima importanza.”
Fu
mandata una guardia a chiamare il sovrano.
Quando
re Evertas sopraggiunse, Dewrich gli corse incontro e subito esclamò:
“Padre, è successa una cosa terribile!”
Il
re lo fissò allarmato. “Che cosa, figlio? È forse accaduto
qualcosa a Herich?”
“Andiamo
nella sala del consiglio, padre. Devo riferirti cose della massima
importanza.”
Il
re fece portare una coppa di vino per il figlio, poi serrarono le
porte e si sedettero al grande tavolo di quercia. “Parla,” lo
esortò a questo punto Evertas.
Dewrich
chinò la testa. “Siamo stati assaliti,” disse dopo un lungo
silenzio. “Predoni di As’del. Hanno aspettato che la cerimonia
fosse compiuta, poi col buio sono piombati sull’accampamento e
hanno ucciso chiunque.”
Il
re letteralmente sbiancò in volto. “Herich?” chiese, prendendolo
per le spalle e costringendolo a fissarlo negli occhi.
Il
principe distolse lo sguardo come se il peso di ciò che stava per
dire gli risultasse troppo gravoso. “L’hanno ucciso. Ho salvato
solo la sua corona e ora la consegno a te.” Spinse verso di lui
l’involto di stoffa.
Il
re lo fissò costernato, poi riluttante lo prese e lo soppesò fra le
mani. “È la sua corona, padre,” ripeté Dewrich.
“Non
mi interessa la corona,” rispose amaro il sovrano, “non se chi
avrebbe dovuto portarla è stato ucciso.” Fissò gli occhi in
quelli del figlio. “Com’è successo? Come hanno fatto i predoni
ad avvicinarsi così tanto senza essere notati? Perché i nostri
soldati non li hanno respinti? Erano tutti veterani esperti, com’è
possibile che si siano fatti sorprendere così?”
Il
principe chinò la testa. “Comprendo il tuo dolore, che è anche il
mio, padre, ma sei ingiusto. I soldati sono morti dal primo
all’ultimo per difendere Herich.”
“E
tu, figlio, dov’eri?”
“A
combattere con loro. Herich è stato ucciso sotto i miei occhi.” Si
alzò bruscamente in piedi, si diresse verso una delle finestre.
“Pensi che io non abbia sofferto, padre?” ringhiò. “Pensi che
non mi sia chiesto ogni attimo del viaggio che ho compiuto per
tornare qui se avrei potuto fare qualcosa di diverso, se avrei potuto
magari sacrificare me stesso per far vivere lui? Pensi che non me ne
importi nulla di quello che è successo?”
Calò
un silenzio greve.
Alla
fine giunse la voce di re Evertas: “No, non penso questo. Scusami.”
“È
stato terribile, padre.”
Il
re si alzò a sua volta e lo raggiunse. Gli mise una mano sulla
spalla e disse: “Saranno proclamati dodici giorni di lutto per la
morte dell’erede al trono, ma subito dopo muoveremo guerra a
quell’ignobile accolta di ladri e razziatori e faremo pagare loro
amaramente l’odioso delitto che hanno commesso. Voglio che sia tu a
comandare l’esercito.”
Dewrich
si voltò fino a fissarlo negli occhi, quindi si inchinò. “Come
comandi, padre.”
“Avvisa
il generale Kierev e manda dispacci al generale Odras e al generale
Xarey. Voglio che venga approntato un esercito in grado di spazzare
via quella feccia una volta per tutte.”
“Come
comandi, padre. Se me lo concedi, trascorrerò il periodo di lutto
presso il monastero di Voldas ad allenarmi nell’uso della spada.”
“Preferirei
averti qui, Dewrich, e sono sicuro che anche la regina tua madre sarà
del mio parere, ma tutto ciò che servirà a distruggere quei
maledetti è ben accetto, quindi va pure ad allenarti nell’uso
delle armi.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Resen-Lhaw 5
Ciao
a tutti/e!
Grazie
per essere sempre con me in questa avventura. Ringrazio chi mi ha
letto, chi mi ha messo in qualche lista, ma soprattutto chi mi ha
lasciato il suo parere.
Capitolo
5
Acute
strida di gabbiani lacerarono il silenzio della steppa. Herich alzò
gli occhi e vide gli uccelli marini solcare il cielo rapidi come
candide frecce.
Si
voltò verso Jeisym con espressione interrogativa.
“Siamo
vicino a Perechyra,” spiegò il predone.
Il
ragazzo fece scorrere lo sguardo sull’orizzonte, quasi aspettandosi
di veder spuntare le guglie della città dalla pianura ondulata.
Quelle parole ferali significavano una cosa sola: che presto
l’avrebbero venduto come schiavo.
Fino
a quel momento, era stato in viaggio, e il viaggio era una specie di
tempo sospeso, in cui le cose essenzialmente non accadevano, o in cui
si poteva fare finta che non sarebbero accadute.
Ma
il viaggio stava per finire, e con esso l’illusione di essere uno
stimato amico di Jeisym Khan che lo accompagnava per diletto a
Perechyra.
Spronò
la puledra e le fece fare qualche passo avanti, in modo da lasciarsi
alle spalle la carovana, poi per un po’ rimase a contemplare la
steppa immerso nei suoi pensieri. Probabilmente aveva ragione Jeisym,
non sarebbe sopravvissuto un giorno, da solo in quell’ostile
immensità, eppure si chiedeva se non fosse meglio morire nel
tentativo di riconquistare la libertà, piuttosto che salvarsi la
vita con la sola prospettiva di finire schiavo da qualche parte.
Il
buon senso gli diceva che sarebbe stato meglio vivere, che non poteva
sapere cosa gli avrebbe riservato il futuro, ma l’orgoglio era di
altro parere.
Udì
un rumore di zoccoli avvicinarsi e subito dopo Jeisym lo affiancò e
gli chiese: “Che c’è?”
Herich
si limitò a fissarlo torvo.
L’altro
si strinse nelle spalle. “Lo sai che presso il mio popolo il
secondogenito del re viene sempre ucciso dal primogenito? Il
terzogenito, poi, posto che esista, deve guardarsi anche dai cugini.”
“E
con questo cosa vorresti dire, che sono fortunato?”
“Se
tu fossi stato mio fratello, non avrei di certo aspettato sedici anni
per farti la pelle.”
Herich
si morse il labbro inferiore, poi disse: “Ma Dras ha designato me
come erede al trono.”
Il
Khan fece una breve risata e replicò: “Non mi sembra che Dras si
sia dato molto da fare per proteggerti, dopo averti designato.”
Poi, dopo una pausa soggiunse: “E comunque, ricordati di una cosa:
i diritti non valgono niente, senza i mezzi per farli valere.”
Herich
non rispose. Di nuovo guardò l’orizzonte, cercando di scorgervi
le guglie dalla città. Lasciò che il vento gli scompigliasse i
capelli e si passò una mano sugli occhi. Si chiese cosa stessero
facendo i suoi, se Dewrich fosse già arrivato da loro. Sospirò.
Ancora non riusciva a credere che suo fratello avesse davvero fatto
quello che gli aveva raccontato Jeisym.
Gli
sarebbe sembrato più plausibile che il predone l’avesse ucciso e
avesse tenuto lui per venderlo come schiavo.
“Quanto
manca?” chiese a bassa voce, come parlando a se stesso.
“A
Perechyra?”
Herich
annuì.
“Questa
sera ci accamperemo in vista della città.”
Il
ragazzo si morse il labbro inferiore. Un conto era immaginare, per
quanto fosche potessero essere le sue congetture, un conto era sapere
con certezza. “Jeisym?” mormorò.
Il
Khan si voltò verso di lui: “Dimmi.”
“Jeisym,
perché non posso restare con te?”
L’As’vaan
aggrottò le sopracciglia. “Perché questo non è posto per te.
Conosci la poesia e la musica, sai parlare in modo forbito, ma non
sai né cavalcare né combattere. Saresti solo un peso per il mio
clan.”
“Ma
potrei imparare.”
Il
Khan scosse la testa. “Certe cose le devi imparare da piccolo. Ora
sei un ospite, non ti è richiesto altro che di intrattenermi e fare
qualche piccola passeggiata a cavallo. Come pensi che te la
caveresti, invece, se dovessi procurarti il cibo ogni giorno,
combattere e razziare?”
Herich
abbassò la testa e rispose: “Non voglio essere schiavo. Potrei
fare qualcosa qui, magari le cose più semplici.”
“Ah,
no. No.” Jeisym scosse la testa con decisione. “Da noi, o sei
guerriero o sei schiavo. Tu guerriero non puoi essere e ti garantisco
che è meglio essere schiavo di un ricco patrizio con una bella
villa, che di un guerriero As’vaan che vive nelle steppe.”
Di
nuovo, il ragazzo si morse un labbro mentre una lacrima gli scendeva
lentamente lungo la guancia. Contemplò ancora una volta la pianura,
che a quell’ora del giorno era una distesa argentea i cui confini
si perdevano nella foschia.
Passarono
alcuni gabbiani, gridando nell’aria immobile, e scomparvero a
oriente.
“Vanno
alle foci del Porochta,” disse Jeisym.
“Vanno
dove vogliono,” replicò Herich fissandolo torvo, “cosa che
invece io non posso fare.” Spronò la puledra e si allontanò al
galoppo.
Come
aveva detto Jeisym, la sera le luci della città erano in vista come
un palpitare lontano, che ricordava il brillio della luna sull’acqua.
Herich
sedeva in silenzio sul pianale di un carro, lasciando che l’aria
fredda della notte lo accarezzasse. Ci aveva provato, ad
allontanarsi. Aveva galoppato per un tempo che gli era parso
infinito, salvo poi trovarsi da solo nel nulla, senza acqua né
provviste, né abiti pesanti per la notte. E nemmeno armi,
ovviamente. La consapevolezza era giunta quando gli era parso di
vedere una figura all’orizzonte, che si ergeva nella bruma. Un
uomo, un solitario viaggiatore, forse, o altro.
Era
tornato indietro, perché tra una situazione ignota e un male
conosciuto, l’uomo preferisce sempre il secondo.
O
forse quel discorso si attagliava solo ai vili come lui. Una persona
più coraggiosa o più determinata probabilmente sarebbe andata
avanti a dispetto di qualsiasi cosa.
Per
l’ennesima volta si chiese se fosse vero quello che gli aveva detto
Jeisym a proposito di suo fratello. Chissà, magari Dras si era reso
conto che uno come lui non sarebbe mai potuto diventare re e aveva
rimediato all’errore in quel modo.
Una
voce lo distrasse: l’As’vaan lo stava chiamando dall’entrata
della tenda. Non provò nemmeno a rifiutarsi di obbedire, non era
certo con degli stupidi puntigli da bambino capriccioso che avrebbe
dimostrato la sua volontà di ribellione e il suo coraggio.
Scese
dal carro e si diresse verso la tenda.
All’interno
ardevano molte luci. Sul tappeto centrale era stato posto un ampio
vassoio rotondo, probabilmente frutto di qualche razzia, con sopra i
cibi migliori che la cucina aveva ancora da offrire. Accanto a esso
c’erano due calici d’oro incrostati di gemme e un’anfora
sigillata.
Jeisym
sedeva a gambe incrociate sul tappeto, la schiena appoggiata a
cuscini ricamati. Indossava un lungo abito di seta bianca dagli
elaborati ricami, ma come sempre aveva con sé le armi.
“Vieni
avanti,” lo accolse. “Vieni a condividere con me questo ultimo
pasto.”
Fermo
sulla soglia, Herich rispose: “Non perdi occasione di ricordarmelo,
vero?”
“Io
posso anche dire che un asino è un cavallo, ma non per questo esso
muta la sua forma,” rispose pacato il predone. Fece un gesto di
invito nei suoi confronti e aggiunse: “Siediti, mangia con me.
Vorrei che tu avessi un bel ricordo del tempo che abbiamo passato
insieme.”
Herich
ghignò. “Ma certo, ricorderò con il più tenero affetto chi mi ha
preso prigioniero e venduto come schiavo. Come potrebbe accadere il
contrario?”
“Avresti
avuto un ricordo migliore di me, se ti avessi ucciso come tutti gli
altri?”
“Forse
avrei sofferto di meno.”
Jeisym
alzò le spalle. “Chi lo sa. Allora forse anche Resen-Lhaw mi ha
fatto un torto, salvandomi sul campo di battaglia, perché ti posso
garantire che la mia vita dopo quell’episodio è stata tutt’altro
che facile e piacevole.”
A
quelle parole seguì un lungo silenzio, poi Herich disse: “Parlami
di lui.”
Jeisym
si tirò indietro i capelli candidi e chiese: “Cosa vuoi sapere?”
“Ti
ha
parlato?”
L’As’vaan
annuì.
“E
che cosa ti ha detto?”
“Le
stesse cose che io ho detto a te questa sera, l’ha fatto quando
protestavo che avrei preferito la morte a ciò che lui mi stava
offrendo.”
Di
nuovo calò il silenzio, rotto appena dal sibilo del vento
all’esterno. Infine, Jeisym spinse uno dei calici verso di lui e
disse: “Permettimi almeno di farti assaggiare questo vino
pregiato.” Senza attendere risposta fece saltare il sigillo
dell’anfora e ne versò il contenuto nelle coppe.
§
Stretto
nel mantello, rannicchiato in un avvallamento del terreno, Res
cercava di ignorare la fame. Aveva finito le provviste e anche
l’acqua era ormai agli sgoccioli. Si massaggiò le gambe
irrigidite, cercando per quanto possibile di rilassare la
muscolatura.
A
ovest una linea rosso cupo brillava ancora all’orizzonte, mentre le
prime stelle cominciavano ad apparire sulla volta nera del cielo.
Se
guardava verso nord est, poteva vedere le luci di Perechyra palpitare
debolmente.
Prima
che il crepuscolo cedesse il passo alla notte aveva visto un uomo a
cavallo comparire in lontananza. Si era avvicinato al galoppo, poi si
era fermato, era rimasto immobile per qualche istante ed era
ripartito nella direzione da cui era arrivato. Montava un cavallo dal
manto chiaro, forse grigio, e di sicuro non aveva i capelli bianchi
degli As’vaan.
Si
chiese se si trattasse di un viaggiatore. La città non era lontano e
nel nulla della steppa si cominciavano a incontrare segni di bivacchi
o passaggi di carovane.
Forse
era scappato perché l’aveva visto, magari scambiandolo per un
bandito o qualcosa del genere.
In
un certo senso, fu quasi compiaciuto di riuscire ancora a far paura a
qualcuno.
Emise
un sospiro. “Beh, Dras,” disse a mezza voce, “Io ho fatto la
mia parte, ora tocca a te fare la tua.” La frase si perse nel
sibilo del vento.
“Ma
certo,” soggiunse il soldato, “tanto lo sapevo già che avrei
dovuto cavarmela da solo. Ma in fondo non posso darti torto, neanche
io aiuterei uno come me.” Si voltò di nuovo in direzione della
città. Non era mai stato a Perechyra, ma sapeva che vi convergevano
tutte le principali vie carovaniere dell’oriente. Era costruita su
canali e da un palazzo all’altro ci si spostava con le barche.
Sapeva
che il mercato più grande era galleggiante: si formava prima
dell’alba, raccogliendo venditori da tutti i dintorni, e poi si
dissolveva verso metà pomeriggio, quando le mercanzie erano
esaurite.
Il
secondo mercato in ordine di importanza era nel cortile del palazzo
che ospitava anche il governo della città. Si diceva che l’edificio
fosse così grande che nessuno l’aveva mai girato tutto. Era stato
costruito e rimaneggiato innumerevoli volte nel corso dei secoli ed
era divenuto nel tempo un inestricabile labirinto.
Si
narrava che ci fossero anche stanze murate ricolme di tesori, ma
nessuno ormai sapeva più se si trattava di una leggenda o della
realtà.
Sospirò
di nuovo e si raggomitolò meglio che poteva sotto il mantello.
§
L’orizzonte
si stava tingendo d’oro quando Jeisym uscì dalla tenda. Era a
torso nudo e la brezza della steppa gli agitava i lunghi capelli.
Il
campo era in movimento. Le tende più piccole erano già state
smontate, gli uomini stavano preparando i carri per la partenza. Si
sentivano le grida acute dei primi gabbiani.
Il
predone si guardò intorno inspirando l’aria gelida del mattino,
quindi si diresse a un bacile che era stato sistemato accanto al
fuoco e cominciò a lavarsi. Mentre era impegnato in
quell’operazione, si udì un acuto grido di rapace, e con un
possente sbattere di ali un’aquila si posò a poca distanza da lui.
Jeisym
si voltò verso l’uccello. “Ben tornata, Shaar,” salutò.
L’aquila
arruffò le penne sul collo ed emise un lieve suono chiocciante.
“Se
sei qui, significa che il principe è giunto a destinazione, non è
così?”
Di
nuovo, il rapace arruffò le penne.
L’uomo
annuì. “Molto bene. Farò preparare della carne per te, amica mia,
in modo che tu possa nutrirti.” Tacque per qualche istante, poi a
voce più alta chiamò: “Therved!”
L’altro
si avvicinò immediatamente. Era già vestito di tutto punto e pronto
a partire. Si inchinò brevemente e chiese: “Mio signore?”
“Therved,
ieri sera ho addormentato il ragazzo con il tau’zeel. Fallo
caricare sul carro, e fa in modo che non sia visibile dall’esterno.”
“Come
tu comandi, Khan.”
“E
fa portare della carne per Shaar, ha volato a lungo ed è affamata.”
“Sarà
fatto, Khan.”
Detto
questo, Jeisym rientrò nella tenda asciugandosi con un telo. Il
giovane principe giaceva addormentato sui cuscini nella posizione in
cui l’aveva lasciato la sera prima. L’As’vaan si chinò accanto
a lui, gli prese delicatamente il mento fra le dita e gli girò il
viso in modo che la luce che entrava dal foro centrale del tetto lo
illuminasse in pieno. “Bello,” disse poi a bassa voce,
“carnagione perfetta, capelli neri.” Fece una breve pausa, poi
soggiunse: “E quelle labbra piene sembrano fatte apposta per essere
mangiate di baci.” Si piegò fino a sfiorarlo, ma subito dopo lo
lasciò andare e si rialzò in piedi. “Non è bene assaggiare il
rosolio destinato ad altri,” soggiunse tirandosi indietro i
capelli, “nemmeno per essere certi che sia buono come sembra.”
Finì
di vestirsi, poi due uomini entrarono, sollevarono il ragazzo e lo
portarono fuori.
Perechyra
era ormai una sagoma scura e irta di guglie distintamente visibile
all’orizzonte. La strada su cui procedevano era lastricata e
percorsa nei due sensi da carovane di cammelli e di muli carichi
delle più varie mercanzie. Il cielo di smalto era un tripudio di
forme bianche e affusolate che si inseguivano stridendo. Il vento
portava l’odore delle spezie e del mare.
La
steppa immensa e il suo silenzio sembravano non essere mai esistiti.
Jeisym
si voltò indietro a controllare il proprio seguito, quindi spostò
lo sguardo su Therved e disse: “La puledra grigia voglio tenerla
io.”
“Frutterebbe
molti pezzi d’oro se la vendessimo, Khan.”
“Sì,
ma è veloce. Sono riuscito a starle dietro con Dalin solo perché il
suo cavaliere era inesperto, ma se avesse avuto in groppa un As’vaan
non ce l’avrei fatta.”
“È
una bella bestia,” concesse il guerriero, “ma è troppo delicata.
Non reggerebbe a un inverno nella steppa.”
“Non
la porterò nella steppa,” replicò il Khan, “la terrò al
palazzo di Jessartiaz assieme ai purosangue di mio padre.”
“Ma
così la vedrai solo una volta all’anno, Khan.”
Jeisym
sorrise. “Vorresti dire che sarebbe meglio venderla, e avere i
diecimila pezzi d’oro che ne ricaverei?”
“Halmaikah
mi è testimone, Khan, io ho giurato a tuo padre di consigliarti
sempre per il giusto.”
“Lo
stai facendo, Therved, ma spesso le cose giuste sono anche le meno
interessanti.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “E poi per il
ragazzo ti ho dato retta, no?”
“Frutterà
come minimo ventimila pezzi d’oro, Khan. Tuo padre sarà molto
soddisfatto.”
“Io
un po’ meno. Credo che iniziarlo alle delizie dell’amore sarebbe
stato un vero piacere.”
“Un
piacere per cui altri saranno disposti a pagare molto bene, Khan.”
Jeisym
emise un teatrale sospiro. “Lo so, lo so. E mio padre sarà
soddisfatto.”
“Proprio
così, Khan.”
L’altro
spronò il morello e si avvicinò al carro nel quale si trovava
Herich. Scostò la tenda che lo nascondeva e lo osservò.
“Dorme
ancora, Khan,” si premurò di fargli sapere uno dei suoi uomini.
“Lo
vedo,” rispose Jeisym, osservando i lineamenti distesi del ragazzo.
Lasciò ricadere la cortina di stoffa, tornò a fianco di Therved e
gli disse: “Manda un paio di uomini ad avvisare Eksiz che stiamo
arrivando.”
L’altro
annuì e rispose: “Come tu comandi, Khan.” Poi a voce più alta
chiamò due nomi. Subito i guerrieri si avvicinarono ed egli ordinò:
“Andate al quartiere sud e avvisate che venga preparato il palazzo
del Khan.”
I
due annuirono e spronarono i cavalli, scomparendo in breve alla vista
fra le carovane che occupavano la strada.
Ci
vollero un altro paio d’ore, prima che Jeisym riuscisse a farsi
strada con i carri nel caos delle vie di Perechyra. Ovunque vi erano
mercanti, che vendevano di tutto enumerando a gran voce le virtù
della loro merce. Chierici decaduti o di divinità troppo povere per
permettersi un tempio vendevano incantesimi, prostitute di entrambi i
sessi proponevano i loro favori, saltimbanchi e suonatori si
esibivano all’angolo delle strade, ognuno circondato da un
capannello di gente nel quale si aggiravano ladri e borsaioli. Nelle
rientranze dei palazzi o sotto i portici si annidavano le bancarelle
dei venditori di cibarie, che offrivano alimenti di ogni genere.
Dappertutto aleggiava l’odore del cibo, delle spezie e del limo dei
canali.
Al
passaggio del gruppo di predoni di As’del, che normalmente
incutevano terrore con la loro sola presenza, la gente si scostava
indolente brontolando proteste e più di una volta gli uomini del
Khan dovettero intervenire per scacciare a staffilate qualche
ladruncolo particolarmente temerario che saliva sui carri e cercava
di intrufolarsi sotto i teloni.
Finalmente
arrivarono in una strada quasi deserta, lontana dal caos del centro,
che da un lato aveva un muro con una fila di portoni e dall’altro
un canale in cui l’acqua scorreva gorgogliando lieve. Dopo il
chiasso delle vie principali, nella zona c’era una piacevole
quiete. L’aquila, appollaiata sulla spalla di Jeisym, emise un
chioccio infastidito.
“Lo
so, amica mia,” le disse il predone, “anch’io preferisco la
steppa immensa. Tu però puoi volare dove vuoi, e tornare qui quando
lo riterrai opportuno.”
Shaar
arruffò le penne sul collo ma non si mosse.
“D’accordo,
allora resta con me. Ti farò portare della carne fresca e
dell’acqua, in modo che tu possa ristorarti.”
Il
rapace volse verso di lui lo sguardo grifagno e rinsaldò la presa
degli artigli sullo spallaccio della sua armatura di cuoio.
“Con
il tuo permesso, Khan,” disse a questo punto Therved, quindi spronò
il cavallo e precedendo la colonna raggiunse uno dei portoni. Scese
di sella, sguainò la spada e con il suo pomolo batté tre volte
contro la porta. Dopo qualche istante si udì un rumore di
chiavistelli, poi l’anta si socchiuse e dalla fessura che si era
creata si affacciò un uomo anziano, con barba e capelli candidi e un
caffettano blu che gli arrivava fino ai piedi. Alla vista di Therved
si inchinò profondamente.
I
due si scambiarono qualche frase, quindi il vecchio arretrò, l’anta
si richiuse, si udì un nuovo rumore di chiavistelli e poi l’intero
portone venne spalancato.
Carri
e cavalli entrarono ordinatamente in un cortile lastricato. L’enorme
spiazzo aveva da un lato una fila di edifici bassi destinati al
ricovero degli animali e dall’altro degli alloggi. In mezzo si
trovava un grande abbeveratoio di marmo nel quale si riversava
continuamente un getto d’acqua.
Nella
parete di fondo c’era un altro portone di legno, più piccolo e
abbellito da intagli e battenti di ottone lucidato.
Jeisym
smontò da cavallo, affidò le redini del destriero a uno stalliere e
si avvicinò all’uomo col caffettano blu. Questi si inchinò di
nuovo e disse: “Benvenuto, Khan, lascia che ti accompagni alle tue
stanze. L’acqua del bagno è calda e i cuochi stanno approntando un
banchetto per festeggiare il tuo arrivo.”
Il
più giovane sorrise e gli fece cenno di alzarsi. “Sei sempre molto
efficiente, Eksiz,” gli rispose, “Mio padre ha scelto bene quando
ha deciso di affidarti la gestione del nostro palazzo di Perechyra.”
“Tu
mi lusinghi,
Khan. Ma ora vieni, vorrai ristorarti, dopo il lungo viaggio che hai
affrontato.” Così dicendo, sospinse il suo interlocutore verso la
porta intagliata.
Al
di là c’era un magnifico giardino. Lungo le mura che lo cingevano
correva un porticato con lampade d’oro che pendevano dalle volte.
Le colonne che lo sostenevano erano tutte di marmo intarsiato. Tra le
aiuole scorrevano dei canali d’acqua cristallina, che gorgogliavano
lievemente turbando appena la quiete sospesa del luogo. Ovunque vi
erano alberi di agrumi e roseti fioriti, che spandevano il loro
delicato profumo, e cascate di glicini e caprifogli.
Oltre
il giardino, salendo alcuni gradini, vi era una porta di ebano e
avorio. Una delle ante era semiaperta e al di là si intravedeva uno
scorcio di pareti coperte di maioliche multicolori, pavimento di
marmo e tende di broccato intessuto d’oro.
“È
tutto come lo ricordavo,” disse Jeisym chinandosi ad annusare una
rosa. L’aquila arruffò le penne, spiccò il volo e andò a posarsi
su un ramo di cedro che portava già profondi segni di artigli. Il
predone sorrise. “Anche tu ti senti a casa, Shaar?”
Il
rapace socchiuse gli occhi gialli.
§
“Ehi,
uomo! Ehi, dico a te!”
Res,
che si era seduto sul ciglio della strada per riposare gli esausti
piedi, alzò la testa e incrociò lo sguardo di un carrettiere che
stava guidando un tiro a sei di muli.
“Uomo,
lo vuoi un passaggio?”
“Quanto
chiedi?”
“Niente.
Mi aiuti a scaricare quando siamo a Perechyra e se lavori bene ti do
anche cinque pezzi di rame, così ti paghi da mangiare.”
“D’accordo,”
disse Res alzandosi. Fece per salire sul carro, ma l’altro lo
fermò: “Non hai bagaglio?”
“No.”
Il
carrettiere lo squadrò. “Hai un mantello militare. Sei un
disertore?”
“No.”
“Non
sei uno che parla molto, vero?”
“No.”
“Beh,
comunque salta su. Io sono Manse.”
“Res.”
Il
soldato salì a cassetta e si sedette, il carro ripartì. Dalla
posizione sopraelevata che aveva raggiunto, Res riusciva a seguire
bene il flusso di viaggiatori e mercanti che andava facendosi più
intenso via via che si avvicinavano alla città.
Le
guglie dei palazzi cominciavano a emergere dalla foschia, l’aria
era fresca e salmastra.
“Lo
senti?” gli chiese Manse, facendo schioccare in aria la frusta,
“Questo è l’odore del mare. L’hai mai visto il mare?”
Res
chinò la testa e per un attimo gli comparve davanti agli occhi
l’immagine del golfo di Brielar, con le acque arrossate dal sangue
dei soldati. “Sì, l’ho visto.”
Proseguirono
un altro po’ in silenzio, poi il carrettiere chiese: “Di dove
sei?”
“Sono
nato nel Fjorn.”
“Ah,
su
al nord.”
“Già.”
Manse
raccolse un piccolo otre e glielo tese. “Tieni. Vino delle mie
parti.”
Res
bevve un sorso per cortesia, ma tra il digiuno e la sua bassa
tolleranza all’alcol, non volle esagerare. “Grazie,” disse
restituendoglielo.
“Non
bevi? Sei un santo di Zephan, per caso?”
Il
soldato sorrise. “No, è che non mangio da un po’. Ho paura di
ubriacarmi.”
Il
carrettiere lo squadrò perplesso. “Non si va tanto in là a pancia
vuota,” considerò, poi raccolse una borsa di cuoio che teneva fra
i piedi e gliela porse. “Tieni, mangia.”
“Ma
io...”
“Mangia,
mi ripagherai con il lavoro.”
Nella
sacca c’erano del pane e delle fette di carne salata. “Mangia,”
ripeté Manse.
“Grazie.”
“Sono
sacchi da cento libbre, quelli che dobbiamo scaricare, e ce n’è un
carro pieno, quindi non fare complimenti.”
“Grazie,
Manse.”
“La
carne l’ha preparata mia moglie Bridh. Tu hai moglie, Res?”
“No.”
L’altro
fece una breve risata. “Dimenticavo che non ti piace parlare.
Comunque io sono di Corvean, nel Theythrim. Se ti interessa, e questo
è un carico di frumento di prima qualità. A quelli di Perechyra
piace il nostro frumento e ce lo pagano abbastanza da rendere
conveniente il viaggio fin qui.” Batté una pacca sui sacchi che
aveva dietro le spalle e soggiunse: “Il pane che si fa con la sua
farina va solo sulle tavole dei nobili.”
“Dev’essere
buono, allora.”
“Buono?
È il migliore.” Tacque per qualche istante, poi proseguì: “Ma
per fortuna non piace ai predoni. Troppo pesante per loro.” Fece
una breve risata.
Res
annuì e continuò a mangiare. Sulle prime aveva cercato di
trattenersi, ma erano due giorni che non toccava cibo e anche prima
era andato avanti con razioni che non avrebbero sfamato neanche un
bambino. In breve divorò tutto.
“E
adesso lo vuoi un po’ di vino?” gli chiese Manse quando si vide
restituire la borsa vuota.
“Va
bene.”
Bevve
qualche sorso.
“Com’è?”
volle sapere il carrettiere. “Buono, vero? È vino delle mie parti,
non ne trovi di migliore. Io ho anche una vigna, sai? Ma il mio vino
non lo porto qui a Perechyra, me lo bevo io!”
“Molto
buono.”
“Di’
pure che un vino così non l’hai mai bevuto. Solo Uva Mielata, non
un chicco di uva normale.”
“Certo,
si sente.”
Manse
stava per aggiungere altro, ma ormai erano prossimi alla città. Fece
deviare il carro dalla strada principale e disse: “Ora andiamo ai
magazzini, dove tu mi aiuterai a scaricare.”
“Va
bene.”
Arrivarono
a un piazzale circondato da depositi e già occupato da numerosi
carri. I conducenti vociavano e si insultavano, gli animali
innervositi ragliavano, nitrivano o bramivano a seconda della specie.
Gruppi di cammelli indolenti ruminavano qua e là insensibili alla
confusione. Nell’aria polverosa stagnava l’odore di sterco
animale e granaglie.
Da
una parte del piazzale c’era un abbeveratoio intorno al quale la
gente si assiepava spintonando e imprecando.
Manse
riuscì a fermare il carro in un punto abbastanza tranquillo, poi
scese e andò da un uomo che sedeva un po’ appartato su una sedia e
aveva davanti a sé un tavolino con sopra un registro, un calamaio e
una penna. I due parlamentarono un po’, poi il carrettiere fece
ritorno con un pezzo di coccio su cui era incisa una cifra e disse:
“Scarichiamo al magazzino numero tre.” Rimontò a cassetta e
condusse i muli a destinazione.
Quando
finirono il lavoro era ormai pomeriggio inoltrato. Manse si asciugò
il sudore dalla fronte, quindi prese l’otre di vino, lo stappò e
prima di bere lui stesso lo tese a Res. “Sei forte,” gli disse,
“portavi quei sacchi come se fossero stati pieni di piume.”
L’altro
si limitò ad alzare le spalle.
“Sei
un soldato.” Questa volta non era una domanda.
Res
gli rivolse un’occhiata. “Cosa te lo fa pensare?”
“Hai
delle cicatrici che possono venire solo da ferite di guerra, hai i
capelli corti e indossi panni militari.”
L’altro
sospirò. “I tuoi occhi non ti ingannano.”
“Sei
sicuro di non essere un disertore?”
“Non
lo sono.”
“Se
non sei un disertore, dove sono i tuoi compagni?”
“Tutti
morti.”
Manse
si grattò la testa brizzolata. “Com’è possibile?”
“Predoni
di As’del. Hanno assaltato il nostro campo e hanno ucciso tutti.”
“Tutti
tranne te.”
Res
aggrottò le sopracciglia. “E con questo cosa vorresti dire?”
ringhiò torvo.
L’altro
alzò le mani in segno di scherzosa resa. “Niente, non
preoccuparti. Volevo solo dire che Dras deve aver mandato un Wenos a
vegliare su di te. Non si spiega altrimenti che tu ti sia salvato dai
predoni di As’del.”
Il
soldato emise un sospiro e rispose: “Sì, forse è stato Dras a
proteggermi. Ho ancora qualcosa da fare per lui.”
“E
che cosa dovresti fare?”
L’altro
lo fissò negli occhi. Manse l’aveva aiutato, ma poteva
considerarlo affidabile? Visto quanto parlava, chi gli garantiva che
magari, con la lingua sciolta da un po’ di vino, non avrebbe
raccontato tutto a qualcuno? Non era certo un uomo di indole
riservata e gente curiosa ce n’era fin troppa in qualsiasi città
carovaniera. “Devo trovare una persona,” disse semplicemente.
Il
carrettiere assunse un’espressione astuta e gli chiese: “Qualcuno
che è stato preso dai predoni, forse?”
“Forse.”
Manse
annuì con l’aria di essere fiero del proprio intuito. “Allora va
a cercare Balrich,” gli consigliò. “Lo troverai stasera alla
locanda del Gatto Bianco.”
“Chi
è Balrich?”
“Un
soldato che presta servizio alla porta Ovest. Se i tuoi predoni sono
arrivati in città, sono passati per forza di lì e lui ci avrà
parlato. Digli che ti mando io.”
“Ti
conosce?”
“Se
mi conosce? Dì pure che Manse di Corvean è suo fratello.” Si
batté la mano aperta sul petto, producendo un rumore sordo. “Una
volta gli ho regalato un otre di vino,” disse poi, e annuì
compiaciuto.
“Capisco.”
“Quindi
tu chiedi a lui e se c’è qualche problema digli di venire qui da
me, che gli regalo dell’altro vino. Vedrai che quando gli dici così
ti racconta tutto.”
“Ma
il tuo vino è prezioso,” non poté fare a meno di rispondere Res.
“Anche
gli uomini d’onore sono preziosi,” rispose l’altro fissandolo
negli occhi.
Il
soldato chinò la testa. “Non sono un uomo d’onore, Manse.”
Con
tono che non ammetteva repliche, il carrettiere rispose: “Chiunque
abbia attraversato a piedi le steppe di As’del per liberare
qualcuno dai predoni lo è.”
Gli
strinse la mano e aggiunse: “Ricorda: Manse di Corvean è tuo
amico, adesso o quando ne avrai bisogno. E prendi questi due pezzi
d’argento, così portai pagarti da mangiare e una camera.”
“Ma
io...”
“Era
nei patti.”
“Veramente
l’accordo era per cinque pezzi di rame.”
“Beh,
hai lavorato bene. Ti meriti di più di cinque miseri pezzi di rame.”
Gli porse le monete.
Res
prese il denaro e lo strinse nel pugno. “Io non so cosa dire,
Manse.”
“Di’
solo che mi chiamerai se avrai bisogno d’aiuto. Rimarrò alla
locanda che c'è vicino ai magazzini finché non ho venduto tutto il
mio grano, il che significa più o meno fino all'inizio del mese
prossimo. Durante la notte mi trovi lì e durante il giorno ai
mercati generali, che sono a est, a mezzo miglio da Perechyra, lungo
la strada per Jessartiaz.”
“Va
bene.”
L'altro
lo fissò diffidente. “Ti ricordi tutto?”
“Locanda
vicino ai magazzini, mercato lungo la strada per Jessartiaz,”
ripeté Res.
“Va
bene. Guarda che ci conto.”
§
Res
se ne andò pensando al misterioso carrettiere di Corvean. Chissà,
forse era Dras in persona, o uno dei suoi Wenos. O forse era solo un
uomo gentile, che lo aveva visto in difficoltà – e gli dei
sapevano quanto lo era in quel momento – e aveva deciso di
aiutarlo.
Trovò
la locanda del Gatto Bianco senza nemmeno bisogno di chiedere in
giro: era proprio dietro la porta Ovest e aveva una grande insegna in
ferro battuto che rappresentava per l’appunto un gatto bianco in un
complicato intreccio di pampini e grappoli d’uva.
Anche
da fuori si vedeva che la sala centrale era piena di armigeri che
stavano bevendo o scambiandosi battute.
Il
soldato emise un sospiro. Fra tanti, era paradossalmente proprio
quello l’aspetto che gli mancava di più della sua vita precedente:
quel senso di cameratismo gioioso, di appartenenza. Uno degli uomini
sollevò il boccale e disse: “All’usbergo di Alven! Che Dras
glielo conservi!”
Gli
altri risero, evidentemente il primo si stava riferendo a qualcosa
che i suoi commilitoni conoscevano molto bene.
Res
distolse lo sguardo. Dopo quello che era successo, aveva perso il
diritto al cameratismo.
Attraversò
la sala senza guardare né a destra né a sinistra, circondato dal
chiasso allegro dei soldati in libera uscita. Si appoggiò al
bancone.
L’oste,
che stava mescendo una birra, mise da parte il boccale traboccante di
schiuma e gli disse: “Benvenuto al Gatto Bianco. Cosa posso
servirti?”
Egli
pose le due monete d’argento sulla superficie di legno. “Un buon
pasto e una camera. Puoi dirmi dove sono le terme più vicine? Vorrei
farmi un bagno e lavarmi i vestiti.”
“Puoi
lavarti qui, se vuoi. Jadzi ti preparerà tutto l’occorrente, e per
due pezzi di rame farà anche il bucato.”
“D’accordo.”
Spinse verso di lui le due monete.
L’oste
le raccolse, quindi chiamò: “Jadzi!”
Comparve
una ragazza di stirpe As’vaan, con i lunghi capelli bianchi
raccolti in una crocchia e svariati ornamenti di perline colorate al
collo e ai polsi.
“Quella
roba non va bene per lavorare,” la riprese l’oste, “ti impigli
dappertutto.” Il tono faceva capire che doveva aver ripetuto la
stessa frase almeno altre cento volte.
Per
tutta risposta, la ragazza si aggiustò meglio la collana.
L’uomo
emise un sospiro e alzò gli occhi sul soldato come in cerca di
comprensione. “As’vaan,” brontolò, “non vanno neanche a
zappare la terra, senza i loro gioielli.”
“I
gioielli esaltano la bellezza,” rispose Jadzi. Anche lei si voltò
verso Res. “Non ho ragione?”
“Smettila,”
intervenne l’oste, prima che lui potesse rispondere. “Ora tu e i
tuoi gioielli andate a preparare il bagno.”
“Per
lui?” chiese la ragazza.
“Sì.”
Jadzi
sorrise e si rivolse a Res: “Hai bisogno d’aiuto?”
“Che
cosa intendi?”
“Per
lavarti la schiena, ad esempio.” Fece una risatina.
L’altro
scosse la testa. “No, grazie.”
La
ragazza fece spallucce e se ne andò.
“Non
farci caso,” gli disse l’oste, “è il modo di scherzare della
sua gente.”
“Lo
so, li conosco.”
“Conosci
gli As’vaan?”
Res
annuì.
L’altro
lo squadrò perplesso. “Eppure non sei di qui.”
“No.”
“Per
caso hai fatto la Guerra Orientale?”
“Sì.”
L’oste
sorrise. “Ah, un veterano! Allora forse vuoi unirti ai soldati?”
“No.”
Poi, dopo una pausa: “Voglio solo lavarmi, mangiare qualcosa e
andare a dormire. Viene a bere qui un certo Balrich?”
“Sì,
cosa vuoi da lui?”
“Puoi
indicarmelo, per favore?” chiese Res, ignorando la domanda.
“Adesso
è ancora in servizio. Manderò Jadzi a chiamarti quando arriva.”
“Grazie.”
Erano
passate circa due ore quando Jadzi si affacciò nella sua camera.
Svegliato
di soprassalto, Res la guardò storto e ringhiò: “Non ti hanno
insegnato a bussare?”
“Speravo
di sorprenderti nudo,” fu la risposta, proferita con la solita
allegra sfrontatezza. Poi, dopo qualche secondo: “Volevo solo dirti
che quel gran fusto di Balrich è arrivato, se vuoi te lo presento.”
“Basta
che me lo indichi da lontano,” brontolò Res, mentre si alzava
coprendosi alla meglio con il lenzuolo.
“Posso
restare con voi mentre parlate?”
“No.”
“Vuoi
che ti aiuti a vestirti?”
“No.”
Jadzi
se ne andò ridacchiando, dopo aver lasciato la porta socchiusa.
Masticando un’imprecazione, Res andò a chiuderla vestito del solo
lenzuolo.
Quando
arrivò nella sala comune, capì il motivo degli apprezzamenti di
Jadzi: Balrich, che gli fu indicato dall’oste, era un uomo di circa
trent’anni. Portava i capelli biondi legati in un codino e
l’uniforme tesa sulle spalle lasciava indovinare un fisico
imponente. A occhio, doveva essere alto almeno quanto lui, il che
significava circa quattro dita più di chiunque altro in quella
stanza.
Si
fece dare dall’oste due birre e si avvicinò al tavolo della
guardia. “Salute a te,” gli disse. “Il mio nome è Res, posso
offrirti da bere?” Pose i boccali sul tavolo.
Balrich
lo fissò attento per qualche secondo, poi gli chiese: “Sei un
militare, vero?”
Il
soldato annuì.
“Non
sei un disertore, però, altrimenti non avresti ammesso così
facilmente di essere un militare.”
“Esatto
anche questo.”
“Allora
cosa fai qui?”
“Posso
sedermi, Balrich? Così magari ti spiego la questione.” Senza
attendere risposta, prese una sedia e si accomodò di fronte alla
guardia.
“Quindi
sei un soldato di Dyat,” disse alla fine Balrich, dopo aver
ascoltato attentamente il racconto di Res.
“È
così. Del predone che ha rapito il principe posso dirti...”
“Non
così forte,” lo interruppe la guardia, “Qui ci sono parecchi
As’vaan e la parola predone non è gradita.”
“Ah,
non è gradita?”
ringhiò Res rivolgendogli uno sguardo truce, “E che cosa dovrei
dire, allora? Simpatici compagni di viaggio?”
“Non
dire niente che facciamo prima. Qui la vendita di schiavi è legale,
c’è anche un mercato apposta, e nessuno si sogna di arrestare un
gruppo di As’vaan che arriva dalle steppe per vendere armi o
prigionieri.”
“Puoi
dirmi se almeno gli As’vaan che sto inseguendo sono passati per la
porta ovest?”
“Quanti
erano? Avevano qualcosa di particolare?”
“Il
loro capo tiene un’aquila sulla spalla. È alto per essere un
As’vaan, e molto muscoloso. Se li ho contati bene, direi che erano
una cinquantina. Hanno con loro quattro carri, uno con sopra la loro
roba, e gli altri tre presi dal nostro campo e carichi della roba che
hanno...” esitò cercando la parola. “Che hanno gentilmente
raccolto dopo aver aiutato i nostri soldati a raggiungere Dras?”
“Fa’
pure lo spiritoso,” brontolò Balrich. Vuotò il boccale con un
ultimo lungo sorso, quindi proseguì: “Comunque ho visto il tizio
di cui parli, alto, ben piantato e con l’aquila sulla spalla. È
passato stamattina.”
“C’era
un ragazzo con lui?”
“Capelli
neri? Un segno rosso sull’occhio sinistro?”
Res
sentì il cuore accelerare i battiti. “Sì, è lui. Stava bene?”
“Dormiva.
Probabilmente gli avevano dato qualcosa. Del tau’zeel, forse.”
“Dove
sono andati?”
La
guardia scosse la testa. “Non fare lo stupido. Cosa pensi di fare
da solo contro cinquanta uomini armati?”
Res
non rispose.
“Vuoi
farti ammazzare?” insisté l’altro al protrarsi del silenzio.
Il
soldato alzò gli occhi su di lui. Voleva farsi ammazzare? Per anni
aveva sognato una morte che forse era troppo vile per darsi da solo.
“Ora no,” rispose alla fine in un sospiro.
L’altro
aggrottò appena le sopracciglia, poi disse: “Tutti i gruppi di
As’vaan che percorrono la steppa sono guidati da un Khan, ovvero un
giovanotto che di solito si fa chiamare così anche se il vero Khan è
il padre. Vengono mandati a farsi le ossa con bersagli non troppo
difficili, come carovane o simili, e intanto imparano a comandare gli
uomini, a trattare con i mercanti e cose del genere.”
Res
annuì.
“I
Khan, quelli veri, vivono al di là della steppa, verso Jessartiaz,
ma tutti hanno un palazzo qui in città.”
“E
dove lo trovo quello del tizio con l’aquila?” chiese il soldato.
L’altro
emise un sospiro. “Allora non mi sei stato a sentire.”
Res
represse un moto di impazienza. “Forse non ti è chiara una cosa,”
brontolò, “quello che hanno catturato è l’erede al trono del
Daishrach, e io devo liberarlo prima che lo vendano come schiavo.”
Balrich
fece un cenno a Jadzi per farsi portare altre due birre, poi rispose:
“Primo, da morto non liberi proprio nessuno. Secondo, al mercato
degli schiavi non si va certo con cinquanta uomini al seguito.”
Comparve
la serva con i due boccali, entrambi si zittirono.
“Che
silenzio!” commentò allegra Jadzi. “Vi fanno questo effetto le
belle ragazze?”
“Non
hai niente da fare?” la rimbeccò Balrich.
L’altra
si mise le mani sui fianchi. “Sì, stare qui a guardarti.”
In
quel momento echeggiò la voce dell’oste: “Jadzi! Vieni qui!”
La
ragazza emise un teatrale sospiro. “Arrivo, arrivo! Non si possono
nemmeno guardare i begli uomini in pace...”
Balrich
scosse la testa con un vago sorriso. “Me la ricordo quando era
grande così,” disse, mettendo la mano poco più in alto del
tavolo. “Già allora faceva la civetta.” Bevve un sorso poi
continuò: “Ti dicevo che al mercato degli schiavi nessuno va con
cinquanta guardie al seguito, data la ressa che c'è. E nemmeno chi
compra gli schiavi si porta dietro molti uomini.”
“Vuoi
dire che dovrei agire in quel momento?”
“Se
te lo dicessi, ti starei proponendo di commettere un crimine, il che
non è esattamente ciò che ci si aspetterebbe da una buona guardia.”
Res
annuì grave. “Capisco.”
“Ma
se, tanto per fare un’ipotesi, dovessi suggerirti il modo migliore
per recuperare un prigioniero, ti direi di aspettare che la
compravendita sia conclusa, e poi occuparti dell’acquirente e dei
suoi uomini.”
“Tutto
chiaro.”
“E
ti suggerirei anche di uscire dalla città a mezzogiorno, perché a
quell’ora le guardie staranno consumando il rancio, ed è facile
che nessuno ti veda passare.”
Res
lo fissò attento, l’altro soggiunse: “Il mercato degli schiavi
di lusso, come credo sia il tuo ragazzo, è il primo del mese. Per
quel giorno succederà ciò che ti ho detto. Di più non posso fare.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Salve
a tutti/e!
Ecco
un nuovo capitolo, nel frattempo tantissimi ringraziamenti a chi mi
sta ancora seguendo, a chi è passato di qui per leggere, a chi mi a
messo in qualche lista, ma soprattutto a chi è stato così gentile
da commentarmi!^^
Capitolo
6
Herich
si svegliò turbato: aveva sognato di nuovo Resen-Lhaw. L’aveva
visto di spalle come al solito, intento a fissare sdegnoso il mare,
ma questa volta l’eroe aveva cominciato un movimento come per
girarsi verso di lui.
Purtroppo
il sogno si era interrotto prima che i suoi lineamenti diventassero
finalmente visibili.
Si
mise a sedere e sospirò passandosi le mani fra i capelli. Il cuore
gli batteva forte e aveva il respiro un po’ accelerato.
Non
se ne stupì, quello era il giorno in cui Jeisym lo avrebbe portato
al mercato degli schiavi. Era rimasto per giorni in quello strano
palazzo, aveva trascorso il tempo sonnecchiando, perlopiù chiuso in
casa perché il predone non voleva che il sole guastasse la sua
carnagione chiara, e non aveva fatto nulla per cercare di fuggire.
Una
parte di sé, quella assennata e razionale, continuava a ripetergli
che fuggire sarebbe stato un atto suicida: non aveva sé soldi né
armi, e a parte l’escursione al Primo Tempio non era mai stato
fuori dai confini di Dyat in vita sua. Cercare di evadere in quelle
condizioni avrebbe ottenuto come unico risultato quello di finire in
mani probabilmente meno premurose di quelle di Jeisym.
Un’altra
parte di sé, quella che si esaltava nel leggere le gesta del Leone
Rosso, gli diceva invece che era un debole e un codardo, e che se non
aveva il coraggio di lottare per la sua libertà, allora non meritava
altro che di finire schiavo da qualche parte.
Per
l’ennesima volta si chiese dove fosse suo fratello, se fosse già
diventato re al posto suo.
Si
alzò e fece qualche passo per la stanza. C’erano tappeti di seta
sul pavimento, le cortine del letto erano di broccato intessuto
d’oro. Il mobilio, simile a quello che aveva visto nella tenda di
Jeisym, era costituito da cassapanche di legno pregiato intarsiate di
avorio e madreperla. Vasellame prezioso ne abbelliva le superfici.
Si
avvicinò alla finestra dai vetri istoriati e per un po’ rimase a
guardare, cercando di distinguere qualcosa dell’esterno tra gli
spicchi colorati.
Era
lì da un po’ quando Jeisym lo raggiunse. “Sei pronto?” gli
chiese l’As’vaan.
Herich
si voltò verso di lui. “Cambierebbe qualcosa se ti dicessi di no?”
“Le
parole se le porta via il vento della steppa, principe. Sono i fatti
che cambiano le cose.”
“Vorresti
dire che dovrei cercare di fuggire?”
“Se
tu ci riuscissi, avresti guadagnato la libertà.” Il predone fece
una pausa, poi soggiunse: “Certo, una volta che l’hai guadagnata,
dovresti anche sapere cosa farne, e non mi sembra sia il tuo caso.”
Il
ragazzo preferì ignorare l’osservazione. “Cosa succederà ora?”
si limitò a chiedere.
“Le
mie ancelle ti prepareranno, poi ti porterò al mercato degli
schiavi. Ci sono già degli acquirenti che ti attendono.”
“E
così ci saluteremo.”
Jeisym
accennò un inchino. “Con affetto, spero.”
Herich
si limitò a stringere le labbra e ad aggrottare le sopracciglia. Gli
girò le spalle e si allontanò di qualche passo. Con
affetto.
Probabilmente avrebbe provato più affetto per un tanroth-ath
affamato. Quello almeno era un animale che assaliva per nutrirsi,
bruto, senza intelletto e senza malizia a parte quella che l'istinto
gli conferiva. Jeisym invece era un gatto annoiato e sardonico, che
si divertiva a giocare con un terrorizzato topolino.
“Manderò
Mira e Rehana, se non hai altro da aggiungere, principe.”
Herich
si girò con un movimento brusco. “Fa' quello che vuoi,” ringhiò,
fissandolo con occhi di fuoco, “tanto lo farai ugualmente, non ha
alcun senso che io ti conceda graziosamente il permesso di mandarmi
le tue ancelle, sarebbe come se un cavallo ti desse il permesso di
cavalcarlo.”
Jeisym
annuì. “Inconsapevolmente, hai scelto un paragone molto
appropriato, principe. Al mio migliore stallone, io chiedo il
permesso di montare in sella.”
Il
più giovane gli rivolse un ghigno sprezzante. “E se te lo nega?”
“Monto
un altro cavallo,” rispose l'As'vaan, come se stesse dicendo la
cosa più ovvia del mondo.
“Questa
è un'idiozia!” sbottò allora il ragazzo, “Un teatrino stupido,
che tu allestisci perché ti diverti a prenderti gioco di chi ti
circonda. Il cavallo è tuo, è una cosa tua, ci puoi fare quello che
vuoi. Che senso ha chiedergli il
permesso
di montarlo? Allora dagli la libertà nella steppa, fallo vivere con
i suoi simili, se sei così rispettoso nei suoi confronti, e se vorrà
servirti, allora sarà lui stesso a tornare da te.”
Un
guizzo sornione passò negli occhi dorati di Jeisym. “E se io
adesso ti lasciassi andare, principe, tu cosa faresti?”
“Tornerei
da mio padre, ovviamente.”
“Ah,
sì? E come?”
“Come
farebbe chiunque altro. Comprerei un cavallo, delle provviste e una
mappa, e mi metterei in viaggio.”
L'altro
assunse un'espressione addirittura divertita. “Principe, tu non ti
rendi nemmeno contro della sciocchezza che hai appena proferito. Ora
ti manderò le ancelle, perché su una cosa hai ragione, io posso
fare di te quello che voglio. Ma lascia che ti dica una cosa: se sei
ancora vivo, intatto e integro, lo devi solo al fatto che spero di
ottenere un buon prezzo da te nonostante la tua infantile ottusità.”
§
Il
mercato galleggiante era in pieno svolgimento. Molti venditori
avevano steso dei teli lungo le sponde dei canali e vi avevano
allestito la loro esposizione, ma la maggior parte delle
compravendite si svolgeva direttamente sull'acqua, tra snelle
imbarcazioni che incrociavano rapide nel Bacino Grande e nei canali
limitrofi. Nei piccoli natanti c’erano piramidi di frutti colorati,
spezie, fiori e ogni altro genere di merce. In un recesso un po’
discosto dalla confusione della zona centrale, un farmacista vendeva
pozioni e accanto a lui un profumiere dispensava essenze racchiuse in
fiale di vetro colorato. Più oltre c'era una vecchia che leggeva le
carte e alla sua barca era legata quella di una signora in abiti
eleganti che si stava facendo predire il futuro.
Merci
di tutti i tipi passavano da un'imbarcazione all'altra dopo essere
state pesate su stadere d'ottone rese lucide dall'uso; la chiatta di
un sarto, con abiti colorati appesi un po' ovunque, si faceva
lentamente largo, suscitando le accese proteste di chi veniva spinto
via. Da un angolo lungo la sponda saliva il martellare acuto del
fabbro.
Una
giovane donna su una snella canoa si avvicinò a una barca carica di
fiori pagaiando con sicurezza. Ci fu un rapido scambio con il
venditore e mazzi di peonie dai petali bianchi e rosati passarono
dall'uno all'altra. Poco distante, un uomo stava contrattando
animatamente una capra, che tra mazzi di ortaggi e stie di polli
chioccianti belava con le quattro zampe legate.
Tra
le grida dei venditori, il vociare della folla e la musica di qualche
saltimbanco che aveva allestito il suo spettacolo, il chiasso era
assordante.
Res
si tirò sugli occhi il cappuccio nero e si chiuse sul petto l'ampio
mantello sdrucito. Al suo apparire, un uomo si inchinò
rispettosamente e si scostò per fargli strada. Poco più avanti, una
donna che accompagnava per mano due bambine si fece indietro, gli
rivolse una riverenza e spinse le piccole a fare altrettanto.
Il
soldato passò oltre distribuendo qualche sobrio cenno del capo.
Un'altra
cosa per cui doveva ringraziare Manse era l'avergli ricordato
l'esistenza dei santi di Zephan: vestito come un appartenente a
quell'ordine di asceti, poteva praticamente girare ovunque senza che
gli venisse rivolto altro che qualche segno di rispetto da parte di
persone particolarmente devote. Nessuno cercava di convincerlo a
comprare cose e nessuno cercava di derubarlo, perché notoriamente i
santi di Zephan non possedevano niente che avesse valore.
Percorse
il marciapiede che costeggiava il canale, passò un ponte a schiena
d'asino e si trovò sul fianco del Palazzo Vecchio. Aggirò l'immenso
edificio, così antico che si era persa la persino la memoria della
sua fondazione, ed entrò da una delle porte posteriori. All’interno,
nell’enorme atrio centrale e nella maggior parte delle sale
limitrofe, vi era un secondo mercato, anch’esso in pieno
svolgimento. Lì vendevano più che altro gli stranieri, o i locali
per qualche motivo non sapevano o non volevano portare una barca.
Coperti
di teli sui quali erano disposte le mercanzie, i preziosi marmi del
pavimento erano quasi invisibili.
Un
vociare continuo, di venditori che magnificavano la loro merce e di
acquirenti che contrattavano, si riverberava sulle alte volte del
soffitto.
Con
un frullo d’ali, un uccello variopinto che era riuscito a entrare,
o forse che si era liberato da una delle gabbie, si posò sulla
balaustra del secondo piano e prese a lisciarsi le penne. Dal basso
qualcuno cercò di manovrare un retino con un lunghissimo manico per
recuperarlo, ma il volatile si limitò a spostarsi su uno dei
lampadari.
Res
si destreggiò attraverso la sala. Chi si accorgeva di lui gli cedeva
il passo, gli altri venivano avvertiti da chi lo vedeva passare e a
loro volta si spostavano con deferenza.
Una
donna gli porse un frutto e disse: “Prega per mio figlio, santo.”
Il
soldato si fermò e le rivolse un sobrio cenno del capo, poi accettò
l’obolo e proseguì.
Percorse
un corridoio, entrò in una seconda sala. Il locale aveva soffitti a
volta decorati, dai quali pendevano elaborati lampadari di vetro
colorato. Nonostante tutte le finestre fossero aperte, nell’aria
stagnava odore di sudore e olio da massaggi, appesantito di quando in
quando dal tanfo acre dell’urina.
Tutta
la sala era costellata di uomini e donne in ceppi. Vi erano robusti
montanari del Nomodu, nudi quanto la decenza lo consentiva per
mettere in mostra la muscolatura possente; fanciulle di Eskele,
bionde ed eteree, perlopiù strette fra di loro e piangenti; due
sdegnose lottatrici di Serhsy, con i capelli color fiamma e corpi
lucidi e abbronzati, scolpiti da una vita di addestramento. In un
angolo, una sottile catena assicurata alla caviglia, sedeva un
dottore di Loldet, sicuramente destinato a diventare il precettore di
qualche ricco rampollo. Accanto a lui si trovava una dignitosa
matrona che aveva i lineamenti spigolosi delle genti del Garash e
indossava quel che rimaneva di ricchi paramenti sacerdotali.
Res
vide schiavi di ogni genere e di ogni razza, destinati alle più
varie funzioni. L’aria risuonava di lamenti e pianti, e delle grida
dei banditori.
A
denti stretti, lo sguardo incollato a terra, lasciò a un ragazzino
in catene il frutto che la donna gli aveva donato e oltrepassò anche
quella sala.
Nel
mercato degli schiavi di lusso non c’erano odori, a parte una
delicata fragranza di incensi di Imril, e gli unici suoni che si
udivano erano una musica soffusa e un lieve brusio. I pochi presenti
sedevano intorno a tavolini di marmo intarsiato, conversando a bassa
voce mentre graziosi fanciulli servivano dolci e bevande
rinfrescanti, oppure sostavano lungo le pareti parlando fra loro e
indicandosi l’un l’altro quelli che sedavano ai tavolini.
Il
soldato trovò un angolo in ombra, nel quale il suo mantello nero lo
faceva quasi scomparire, e da lì rimase a osservare ciò che stava
succedendo.
Un
uomo si staccò dal muro e si accomodò presso uno dei tavoli.
Intorno a esso sedevano già altri due uomini, uno più vecchio,
dall’aria autorevole, e uno più giovane e robusto. Con loro c’era
una fanciulla silenziosa, di straordinaria bellezza, snella come un
giunco, con i capelli neri e gli occhi dal taglio allungato.
Gli
uomini cominciarono a parlare tra loro, sembrava stessero conversando
del più e del meno. L’ultimo arrivato rivolse qualche domanda
anche alla ragazza, che rispose con lo sguardo abbassato.
Alla
fine, sacchi di monete passarono da una parte all’altra del tavolo,
i tre si alzarono e si scambiarono strette di mano, poi la giovane
dai capelli neri si alzò a sua volta e andò via con l’uomo che si
era seduto per ultimo.
Il
tavolino rimase vuoto per qualche minuto, poi venne occupato da altri
due uomini: uno era un predone di stirpe As’vaan, l’altro era un
Waishir dai capelli grigi, in abiti di grande sapiente. I due
conversavano tranquillamente fra loro.
Da
due punti diversi della sala un uomo e una donna, entrambi riccamente
vestiti, si avvicinarono al tavolo e scambiarono qualche frase, ma
l’As’vaan fece cenno solo alla donna di accomodarsi. L’altro se
ne andò senza obiettare.
La
transazione si svolse come la precedente, sacchi di monete – molti
di più rispetto a quelli pagati per la ragazza – vennero
consegnati al predone e la donna si allontanò in compagnia del
sapiente.
Res
rimase a osservare per un po’. Vide altre compravendite, perlopiù
tranquille, a parte sporadici e appena accennati moti di ribellione
da parte di qualche giovane schiavo. Frattanto cercava di farsi
un’idea dell’ambiente, di quali fossero le vie d’accesso e dove
sostasse il seguito di coloro che entravano per comprare.
Si
spostò verso la porta che dava sull’esterno: fuori c’era uno
spiazzo che ospitava delle portantine e qualche guardia privata.
Lungo uno dei lati scorreva un canale in cui erano ormeggiate un paio
di barche lussuose.
“Perdonami,
santo,” disse una voce femminile alle sue spalle. Si voltò e si
trovò faccia a faccia con la donna che aveva comprato il Waishir. I
due erano fermi a rispettosa distanza e probabilmente stavano
aspettando da un po’ che lui decidesse di spostarsi. Arretrò di un
passo, i due uscirono e presero posto su una delle imbarcazioni, che
subito si allontanò.
Res
stava per rientrare nella sala quando vide sopraggiungere un
gruppetto di As’vaan a cavallo. Quello più avanzato era di
corporatura eccezionalmente forte per la sua razza e montava un
morello con la stella bianca in fronte. Lo seguivano quelli che
evidentemente erano i suoi uomini. Uno di essi teneva per le redini
un cavallo sul quale sedeva una persona di corporatura slanciata, con
con il volto nascosto da un ampio cappuccio da cui spuntavano
ciocche di capelli neri. Guardando con più attenzione, il soldato si
accorse che essa aveva i polsi legati fra loro e assicurati al pomo
della sella.
Scivolò
nuovamente nella sala e tornò al suo punto di osservazione.
Quando
gli As’vaan furono più vicini, senza ombra di dubbio riconobbe tra
essi il capo della banda che aveva visto in azione presso i templi di
Os’lak e il suo secondo. Il giovane Khan gli comunicò una strana
sensazione di familiarità, come se si trattasse di un volto
conosciuto ma dimenticato da tempo. Cercò di scacciare quel
pensiero: dopo il tau'zeel la sua memoria non era più molto precisa
e aveva imparato a non farvi troppo affidamento. Inoltre, l'unica
cosa su cui doveva concentrarsi era la situazione contingente.
In
quel momento la figura incappucciata si mosse bruscamente sulla
sella. Il cappuccio scivolò all’indietro rivelando il volto
pallido e contratto da un misto di paura e rabbia del principe
Herich.
Res
si fece indietro, cercando di scomparire nell’ombra: il ragazzo era
spaventato e frastornato e di certo non sarebbe stato in grado di
mantenersi impassibile riconoscendo nella folla un volto amico. Molto
meglio evitare che con qualche gesto inconsulto rivelasse la sua
presenza.
Rimase
ad attendere lo svolgersi degli eventi.
Alto
in sella, Herich aveva l'impressione di essere su una barca persa in
un mare di teste. La gente sciamava intorno ai destrieri, li tirava
per le redini, buttava sull’arcione stoffe o monili per convincere
gli As’vaan a comprarli, o perlomeno a esaminarli. Nel frattempo
gridava a gran voce il prezzo delle merci sperando di avviare una
contrattazione.
Jeisym
si limitava a scuotere la testa con indifferenza, mentre Therved
distribuiva staffilate quando i venditori diventavano particolarmente
insistenti. Qualcuno aveva provato a rivolgersi anche a lui, ma
immancabilmente uno degli uomini del Khan era accorso per scacciarlo.
Abituato
al silenzio del palazzo di Jeisym, Herich si sentiva assediato da
quella calca vociante, da chi gli tirava i vestiti, chi si premeva
contro il suo cavallo per passare, chi gli rivolgeva la parola
cercando di attrarre la sua attenzione, chi gli proponeva ogni genere
di affare.
Volse
lo sguardo verso il Khan come per chiedergli aiuto, ma questi stava
parlando con Therved e non si accorse nemmeno di lui.
Il
ragazzo emise un sospiro. Le ampollose cortesie con le quali fino a
quel momento Jeisym si era dilettato erano finite: ora l’As’vaan
era tornato a essere un predone che cercava di ricavare il maggior
guadagno possibile da ciò che aveva razziato. E lui naturalmente
aveva smesso di essere il principe suo pari per scadere al livello di
cosa da vendere, né più né meno di un cavallo o di un pezzo di
stoffa.
Strinse
i denti, di nuovo si guardò intorno. Forse al posto suo Resen-Lhaw
avrebbe studiato l’ambiente, avrebbe elaborato un piano che gli
consentisse di fuggire e far perdere le proprie tracce in mezzo alla
calca.
Ma
lui non era il Leone Rosso: anche se fosse riuscito a smontare di
sella non avrebbe avuto idea di dove andare o come comportarsi, e non
riusciva a fare altro che girarsi in continuazione da una parte o
dall’altra, sopraffatto dal caos che lo circondava, spaventato come
una volpe presa al laccio.
Jeisym
smontò da cavallo e gli si avvicinò, quindi sciolse la corda che lo
assicurava al pomo della sella e gli disse: “Scendi.”
Herich
strinse gli occhi. “E se io non volessi? Se io spronassi questo
animale e scomparissi tra la folla?”
L’altro
ebbe una smorfia sprezzante. “Non fare lo stupido,” gli disse
semplicemente.
Il
ragazzo abbandonò di malavoglia la cavalcatura, Jeisym e Therved gli
si misero ai fianchi, poi lo spinsero verso una porta. Al di là vi
era una sala che paragonata al caos esterno sembrava la navata
principale di un tempio. Vi era solo qualche tavolino, al quale
sedevano persone intente a conversare. Altre persone si muovevano
lente lungo le pareti, alcune parlavano fra loro, altre semplicemente
si limitavano girellare con aria svagata. Notò in un angolo un uomo
alto, completamente coperto da un manto nero, il volto nascosto da un
profondo cappuccio. L’indumento era sdrucito e rammendato in più
punti e creava uno strano contrasto con la generale opulenza dei
presenti. Nonostante il suo aspetto dimesso, nessuno sembrava
intenzionato a scacciarlo, ma tutti gli manifestavano anzi rispetto.
“Vieni,”
lo richiamò alla realtà Jeisym. Lo spinse verso uno dei tavolini
poi gli tolse il mantello, lasciandolo solo con una leggera tunica e
calzoni aderenti, e gli fece segno di prendere posto.
Non
appena si furono accomodati, un uomo si staccò dalla parete e si
diresse verso di loro.
“Salute
a te,” lo accolse l’As’vaan. “Vuoi sederti con noi?”
Questi
si accomodò. Era un dignitario di mezz’età, con i capelli
brizzolati sulle tempie e un principio di pinguedine. Portava
gioielli al collo e alle dita e aveva abiti di broccato intessuto
d’oro. Scambiò qualche convenevole con il giovane Khan, quindi
domandò: “Quanto chiedi per questo giovane?”
Jeisym
sollevò le sopracciglia. “Hai buon gusto,” rispose. “Questo
fanciullo è come il giovane puledro segnato dal pollice di
Halmaikah: unico. Non ne troverai nessun altro in grado di
rivaleggiare con la sua bellezza e la sua grazia.”
L’altro
assentì. “Capisco. Ma ha buone maniere? Sa intrattenere gli
ospiti?”
“Come
un vero principe,” rispose l’As’vaan.
Herich,
che aveva seguito lo scambio in silenzio, a quel punto intervenne:
“Io sono
un principe: sono l’erede al trono del Daishrach e costui mi ha
rapito.” Fissò negli occhi l’acquirente e aggiunse: “Riportami
a mio padre e ti coprirà d’oro.”
L’uomo
rimase interdetto. Mantenne il silenzio per qualche secondo, quindi
si rivolse a Jeisym: “Dice il vero?”
L’As’vaan
scosse la testa. “È solo un suo modo di rendersi importante.”
“Non
è vero,” replicò categorico il ragazzo. “Io sono l’erede al
trono del Diashrach e costui mi ha rapito. Mio padre, re Evertas, mi
sta facendo cercare per ogni dove e ti coprirà d’oro se mi
riporterai da lui.”
Sempre
più interdetto, l’altro fece saettare lo sguardo da lui ai due
As’vaan. “Non voglio complicazioni,” borbottò. Fece per
alzarsi.
“Aspetta,”
gli disse Jeisym, “il ragazzo vuole solo farsi bello ai tuoi
occhi.” Si fece scorrere fra le dita una ciocca dei suoi capelli e
soggiunse: “Come se ce ne fosse bisogno...”
L’acquirente
si alzò comunque in piedi. “Non voglio noie,” ripeté, “voglio
uno schiavo che mi dia picere, non una fonte di problemi.” Si
allontanò senza girarsi indietro.
Jeisym
lo seguì con lo sguardo per qualche secondo, quindi si girò verso
Herich e disse: “Immagino che sarai soddisfatto di te.”
“Non
voglio essere venduto come un cavallo,” replicò per tutta risposta
il ragazzo.
L’As’vaan
inspirò lentamente come per calmarsi, quindi con voce
minacciosamente bassa rispose: “Posto che comunque sarai
venduto, perché ne ho abbastanza di sopportare i piagnistei di un
moccioso inetto e viziato quale tu sei, hai due scelte: o accetti un
acquirente del mercato degli schiavi di lusso, o Therved ti porterà
nel mercato degli schiavi normali e ti venderà al migliore
offerente, che potrebbe essere il tenutario di un bordello come il
gestore di una cava di pietre o il padrone di una conceria di pelli.
Scegli con oculatezza, perché non ti darò un’altra possibilità.”
A
quelle parole ferali, Herich si limitò a stringere le labbra e ad
abbassare lo sguardo.
“Ricordati,
non voglio più problemi,” lo ammonì severo Jeisym.
Il
giovane non rispose.
“Mi
hai capito?” insisté il Khan.
“Sì,”
rispose Herich con voce incolore.
Jeisym
stava per aggiungere altro quando entrò nella sala un uomo alto e
solido, dallo sguardo penetrante. Vestiva una lucente cotta di
maglia, portava sulle spalle un manto scarlatto e aveva le insegne di
generale. Si guardò intorno con l’aria di chi è abituato a
valutare le situazioni con un’unica rapida occhiata, quindi volse
lo sguardo verso il tavolo dove sedeva il Khan. Questi chinò la
testa in segno di rispetto e gli disse: “Salute a te, comandante
Risskel.”
“Come
sta tuo padre, giovane Jeisym?” chiese il nuovo arrivato.
“Molto
bene, comandante, come spero di te. Vuoi sederti con noi?”
L’altro
si fece avanti. “Volentieri. Sono giusto alla ricerca di un ragazzo
per alleviare le notti di solitudine, e quello che hai qui con te mi
pare davvero grazioso.”
“Come
sempre hai buon occhio, comandante,” apprezzò il giovane predone.
“Non vi è fanciullo più avvenente in tutta Perechyra.” Si girò
verso Herich fulminandolo con lo sguardo, quindi proseguì: “Inoltre
ha le maniere di un vero principe, conosce anche la musica e la
poesia.”
“È
molto bello,” considerò il comandante. Gli mise una mano sotto il
mento e lo costrinse ad alzare il viso. “Cos’è quel segno che ha
in faccia?”
“Mio
signore, quello è un segno della benevolenza del suo dio. È come
l’impronta del pollice di Halmaikah che rende unici i purosangue.”
Si rivolse a Herich: “Alzati, fa’ vedere al comandante quanto sei
snello e grazioso.”
Il
ragazzo obbedì fissando ostinatamente davanti a sé con espressione
vacua.
“Quanto
chiedi?”
domandò Risskel dopo avergli rivolto uno sguardo di apprezzamento.
“Solo
perché sei tu, trentamila pezzi d’oro. A chiunque altro ne
chiederei il doppio.”
Il
comandante ghignò. “E perché a me solo trentamila?”
“Ma
perché sei amico di mio padre, ovviamente, e perché nutro la più
grande stima nei tuoi confronti.”
Tra
i due calò il silenzio. Il militare fissò ancora una volta Herich,
gli fece cenno di sedersi, quindi ghignò e disse: “Te ne darò
diecimila, e come sempre dirò alle guardie di chiudere un occhio sui
carichi che porti in città.”
Jeisym
si finse costernato. “Mio signore, tu vuoi scherzare! Guarda che
pelle bianca, guarda i capelli: puro ebano!” Fece una pausa, quindi
in tono astuto soggiunse: “Ed è intatto, mio signore. Pronto per
il tuo piacere...”
“Conosco
almeno dieci modi diversi per simulare una verginità perduta da
tempo.”
“Tu
mi offendi, mio signore. Offendi il buon nome di mio padre e del clan
dell’Aquila Bianca. Ho vegliato io stesso sulla purezza di questo
giovane.”
“Ma
certo, lo immagino. Comunque mi piace, intatto o no. Dodicimila pezzi
d’oro.”
“Ah,
comandante, un ragazzo così non si trova in tutta la regione.
Ventottomila, e lo stai già pagando molto meno del suo valore.”
“Tredicimila.”
“Ventisettemila,
non uno di meno.”
Herich
cercò di estraniarsi dall’umiliante contrattazione. Fece scorrere
lo sguardo sulla sala: nel tavolino accanto al loro si stava
svolgendo la compravendita di una donna alta e segaligna, con una
crocchia di capelli grigi e delle lenti sul naso. La signora
manteneva un contegno sussiegoso e annuiva impercettibilmente ogni
volta che il venditore elencava uno dei suoi pregi.
Al
tavolo successivo erano seduti solo venditore e acquirente. Lo
schiavo che veniva contrattato, un ragazzo del Fjorn
straordinariamente bello, biondo e muscoloso come un giovane dio,
aveva le mani legate dietro la schiena e strattonava irato la catena
con cui tre uomini robusti lo stavano trattenendo, incurante del
fatto che le maglie di metallo gli avevano già ferito la pelle
sottile del collo. Il compratore sembrava compiaciuto da quella furia
e ogni tanto gli lanciava occhiate soddisfatte, pungolandolo
addirittura con la punta di un bastone quando lo vedeva troppo calmo.
Herich
si chiese perché quel giovane si comportasse così. Forse voleva
mantenere intatta la dignità, far vedere che non si piegava. O forse
aveva semplicemente capito che al suo acquirente piacevano i ragazzi
focosi e si dava da fare per suscitare il suo interesse. Da quello
che aveva visto, infatti, lì nessuno schiavo sembrava in realtà
scontento di esserlo. Seguivano anzi i padroni come vecchi amici,
senza alcun bisogno di costrizioni.
Spostò
lo sguardo verso l’angolo della sala in cui aveva visto l’uomo
incappucciato, ma esso non c’era più.
In
quel momento, una mano pesante gli piombò sulla spalla e una voce
disse: “Andiamo?”
Si
girò e si trovò faccia a faccia con il generale Risskel. “Andiamo?”
ripeté il militare.
Herich
tentennò, dardeggiò intorno lo sguardo come alla ricerca di aiuto,
poi balbettò: “Io non...”
“Forza,”
lo interruppe l’uomo, “non ho tutto il giorno.”
Il
ragazzo fece un passo indietro frastornato, incapace di distogliere
la mente dall’angoscioso pensiero di essere stato comprato, di
appartenere
a qualcuno esattamente come un animale o un oggetto.
Si
sentì cingere il collo da qualcosa di duro e freddo, percepì come
in sogno il tintinnio di una catena e l’uomo che diceva: “È
meglio che ti metta questo, così non ti farai venire strane idee.”
La
vista di Jeisym che si allontanava in compagnia del suo secondo gli
suscitò nonostante tutto un’atroce fitta di nostalgia.
“Io
non voglio,” mormorò con voce incerta. Si accorse che gli occhi
gli si inumidivano.
Fermo
in un angolo del cortile, Res seguiva attento ciò che stava
succedendo all'interno della sala. Certo,
Dras, che hai uno strano modo di onorare gli accordi,
pensò. Si passò la mano sulla fronte: non stava sudando e nel
movimento anche i muscoli sembravano abbastanza sciolti.
Del
resto, era stato attento: da quando era arrivato a Perechyra non
aveva bevuto una sola goccia di vino, si era trovato un lavoro che lo
teneva impegnato tutto il giorno e di sera andava in giro col
mantello dei santi di Zephan per conoscere la città, tenendosi
scrupolosamente lontano dai quartieri nei quali avrebbe potuto
trovare in vendita il tau'zeel. Non aveva preso nemmeno l'erba di
Kaladorn o il miech, per essere il più pulito possibile, cosa che
peraltro gli aveva fatto trascorrere un bel po' di notti insonni.
La
sua parte l'aveva fatta, insomma.
E
l'acquirente di Herich era nientemeno che un alto ufficiale della
guarnigione di Perechyra, forse addirittura il suo comandante.
Emise
un sospiro. Forse Dras non c'entrava nemmeno. C'erano altri dei, nel
cielo, che esattamente come il suo potevano avere dei progetti da
portare a termine.
Sollevò
le spalle. A prescindere da Dras e dai suoi disegni, notoriamente
imperscrutabili, aveva giurato di liberare il ragazzo e di riportarlo
a suo padre, ed era quello che aveva intenzione di fare.
Arretrò
tirandosi maggiormente il cappuccio sugli occhi. Il discorso che gli
aveva fatto Balrich, ovvero che nessuno andava al mercato degli
schiavi con scorte consistenti, doveva più che mai valere per un
ufficiale di quel rango, al quale di sicuro nessuno avrebbe osato
nuocere.
Si
guardò intorno: in un angolo della piccola piazza c’erano alcuni
soldati che come lui tenevano d’occhio la porta del mercato degli
schiavi. Quando il comandante comparve sulla soglia, essi
abbandonarono la posizione rilassata che avevano fino a quel momento
tenuto e si misero sull’attenti. A un suo ordine gli si disposero
tutti intorno e il gruppo compatto cominciò a procedere. La strada
era ingombra di gente, ma tutti si scostavano non appena si faceva
udire il rumore cadenzato degli stivali militari.
Res
si mise dietro di loro. Come santo di Zephan, anche a lui veniva
frequentemente ceduto il passo, quindi non gli era difficile non
distaccarsi troppo dal drappello.
Continuò
a camminare in silenzio, stando attento a non cambiare andatura e a
non attirare in alcun modo l’attenzione su di sé.
Mentre
procedeva con l'aria di non curarsi per nulla di ciò che lo
circondava, osservava in realtà i soldati con l'occhio di chi ha
passato una vita a valutarli. Perechyra non subiva attacchi da tempo,
l'unico pericolo di una qualche rilevanza erano le bande di predoni
dell'As'del, che però normalmente abbandonavano la contesa se
l'avversario si rivelava troppo ostico. In città c'erano di sicuro
criminali di ogni genere, ma anch'essi del tipo che preferiva lasciar
perdere, piuttosto che rischiare di finire nelle prigioni. Nessuno
che combattesse fino alla morte, nessuno che aggredisse una guardia
col deliberato scopo di ucciderla.
Mezzi
soldati,
concluse fra sé e sé, con
l'occhio svelto a cogliere un ladruncolo sul fatto, ma poco abituati
a un avversario deciso e addestrato al combattimento.
Sperò
di essere ancora così: deciso e addestrato al combattimento. Certo,
di guerra ne aveva fatta parecchia, ma era successo anni prima.
Prima
del tau'zeel, anche.
Si
portò una mano al fianco, soppesando attraverso il pesante manto
nero la spada che si era procurato: un buon ferro, robusto e
bilanciato. Non certo l'acciaio del Fjorn, ma pur sempre un'arma in
grado di fare danni.
Strinse
gli occhi, spostò lo sguardo sull'ufficiale. Svettava sugli altri,
aveva movimenti misurati ma pieni di forza. Si guardava intorno
sicuro e attento come un rapace. Pur parlando con Herich, non
smetteva un attimo di tenere d'occhio l'ambiente.
Lasciò
che il drappello lo distanziasse di qualche passo: era certo che
l'ufficiale l'avesse notato e voleva scomparire dal suo campo visivo
per non metterlo in allarme.
Continuò
a camminare tenendosi rasente al muro. Ormai conosceva abbastanza
bene le strade di Perechyra da capire che il gruppo non si stava
dirigendo agli alloggi delle guardie. Stava anzi procedendo verso un
quartiere più silenzioso, addirittura signorile. Le strade si
facevano man mano più larghe e ariose, nei canali che le
costeggiavano scorreva acqua limpida.
Doveva
agire subito: nel caos del centro poteva passare inosservato, ma in
quella zona poco frequentata la sua sinistra presenza avrebbe
attirato l'attenzione come quella di un demone di Vurar.
Herich
si portò una mano al collo e infilò due dita sotto il cerchio che
lo cingeva: non era stretto e non era nemmeno pesante. Se non fosse
stato per la temperatura della sua superficie, non l'avrebbe nemmeno
detto di metallo.
Fece
scorrere le dita e nel movimento la catena che era assicurata al
collare tintinnò.
“Smettila
di fare la commedia,” gli disse l'ufficiale, in tono seccato. “Quel
collare non può essere così stretto, se ci puoi infilare dentro
mezza mano.”
Herich
sollevò gli occhi su di lui e fissandolo con durezza rispose:
“Potrebbe essere largo come la valle dell'Edayr, ma mi
soffocherebbe lo stesso, perché è il simbolo della mia prigionia.”
Lungi
dal raccogliere la provocazione, l'uomo chiese: “La valle
dell'Edayr? Vieni dal Daishrach, per caso?”
“Sono
il principe
ereditario
del Diashrach, per la precisione.”
L'altro
sollevò le sopracciglia come di fronte alle spacconate di un
bambino. “Ma davvero?”
“Mio
padre ti coprirà d'oro, se mi riporti da lui,” proseguì Herich
imperterrito. “Ti darà molto di più delle miserabili ventimila
monete che hai sborsato per avermi.”
L'ufficiale
annuì con aria divertita. “Ma certo, e poi magari mi accompagnerà
a visitare il regno, non è vero? E scommetto che sarò l'ospite
d'onore di un banchetto che durerà non meno di una settimana, giorno
e notte.”
“Non
prendermi in giro!” sbottò il ragazzo, fermandosi sui due piedi.
“Io sono Herich Averin figlio di Evertas il Saggio. L'As'vaan con
cui hai parlato mi ha preso prigioniero presso i templi di Os'lak e
mi ha portato qui!” Tacque per qualche istante, ansimando appena
nella foga del discorso. L'uomo continuava a fissarlo con un vago
sorriso, con l'aria di non credere a una sola parola. “Non vedi
questo?” disse allora, toccandosi la cicatrice che gli segnava il
viso. “Questo è il segno della benevolenza di Dras, significa che
sono l'erede al trono!”
A
quel punto, l'ufficiale non poté trattenere le risa. “Se non altro
sei divertente,” gli disse. “Quella sarà una frustata, che
qualcuno meno paziente di me ti ha assestato infastidito da queste
sciocchezze. Però devo dire che alla fine non ti sta male, ti dà
un'aria vissuta.” Tirò leggermente la catena come per convincerlo
a muoversi.
Herich
tese i muscoli strappando all'indietro. “Basta!” gridò. “Basta,
ne ho abbastanza! Io non sono uno schiavo, non sarò mai il tuo
schiavo!” Tese ferocemente la catena, si divincolò per cercare di
sfilarla dalle mani dell'ufficiale. Un soldato si mosse per
afferrarlo, ma lui riuscì a sgusciargli fra le mani. Gli sfilò dal
fodero il pugnale che portava in cintura e con quello prese a menare
fendenti davanti a sé mentre arretrava ansante. Non sapeva che cosa
stava colpendo, le lunghe lezioni di scherma del maestro Taman
sembravano scomparse dalla sua memoria senza lasciare tracce, ma
continuava ad agitare la lama forsennatamente, arretrando passo dopo
passo.
“Smettila,”
lo ammonì l'uomo, “non costringermi a farti male.”
“Sta'
lontano!” gridò Herich per tutta riposta. La catena si tese,
strattonandolo in modo brutale. Egli gemette a denti stretti,
d'istinto sfruttò la forza che lo strappava in avanti e riuscì ad
assestare un colpo al braccio dell'ufficiale. Questi ringhiò di
dolore e sorpresa, quindi fece per colpirlo a sua volta, ma a quel
punto qualcosa di nero gli piombò addosso mandandolo a rotolare sul
selciato.
Subito
dopo, Herich si sentì spingere indietro da una forza che gli parve
immane, ma mitigata da una strana connotazione di cautela, come
un'attenzione a non volergli fare alcun male.
L'estremità
della catena cadde a terra tintinnando, il ragazzo si allontanò di
qualche passo, poi udì un grido d'agonia: si voltò e vide uno dei
soldati crollare a terra in una sventagliata di gocce purpuree. Nello
spazio di un respiro, altri due fecero la stessa fine.
Sbatté
gli occhi stupefatto: l'uomo dal manto nero, quello che aveva visto
al mercato degli schiavi, stava attaccando le guardie.
Trattenne
il respiro, il pugnale ancora stretto in mano, gli ultimi anelli
della catena che tintinnavano sul selciato. Se avesse avuto il
coraggio di tentare la fuga, quello sarebbe stato il momento ideale.
Gli tornarono in mente le parole beffarde di Jeisym: Se
tu ci riuscissi, avresti guadagnato la libertà. Certo, una volta che
l’hai guadagnata, dovresti anche sapere cosa farne.
Fece
un altro passo indietro, pesante come piombo. L'atroce verità era
che non ce l'aveva, quel coraggio: non avrebbe saputo dove andare,
cosa fare, a chi rivolgersi...
Un
altro corpo che cadeva a terra lo fece sussultare. Di nuovo alzò lo
sguardo verso la lotta in pieno svolgimento e vide che erano rimasti
in piedi solo un soldato, il comandante delle guardie e l’uomo dal
manto nero.
Si
chiese chi potesse essere: qualcuno che voleva rapirlo e rivenderlo,
o qualcuno che voleva liberarlo? E liberarlo per quale motivo, poi?
Fece
un altro passo indietro. Si guardò alle spalle, verso la strada
vuota. Sarebbe stato facile imboccarla di corsa e far perdere le
proprie tracce. Per fare cosa, poi? Dove sarebbe andato, una volta
calata la sera? Cosa avrebbe mangiato? In che modo avrebbe racimolato
i soldi per tornare a casa?
In
quel momento, un urlo d’agonia interruppe il filo dei suoi
angosciosi pensieri: l’ultimo dei soldati era caduto, ora
rimanevano solo l’ufficiale e l’uomo dal manto nero a
fronteggiarsi.
Trattenne
il respiro mentre i due si giravano intorno con minacciosa lentezza e
letteralmente sussultò quando l’ufficiale balzò in avanti con una
punta al corpo del suo avversario. Questi scattò di lato sottraendo
bersaglio, prese ferro e colpì fulmineo con un tondo rovescio, ma
l’altro non si fece cogliere alla sprovvista, e a sua volta si fece
indietro. Di nuovo presero a girarsi intorno e prima che Herich,
ansante e con la bocca secca per l'emozione, potesse decidere cosa
fare, di nuovo l’ufficiale scattò in avanti con un fendente alto,
l’uomo dal mantello nero parò, ma dovette arretrare per non
perdere l’equilibrio sotto l’impatto e scompose la sua posizione
di guardia. L’altro gli afferrò un polso e in breve si trovarono
avvinghiati in un feroce corpo a corpo.
Poi
l’ufficiale abbandonò la spada ed estrasse un pugnale, Herich vide
la lama baluginare tra le pieghe del manto nero e udì l’uomo
incappucciato emettere un gemito. Questi tentò poi di farsi
indietro, ma l'altro non abbandonò la presa al polso.
D’istinto
il ragazzo si fece avanti e mentre i due ringhiando e ansimando
cercavano di sopraffarsi a vicenda, urlò “Tieni!” e tese il
pugnale all’uomo col manto nero.
Questi
lo ghermì con insospettata rapidità, se lo girò fra le dita in
modo da impugnarlo di sottomano e tirò un fendente al suo avversario
dal basso verso l'alto, così in fretta che Herich quasi non riuscì
a seguirlo con lo sguardo.
Da
quel punto in poi, la lotta divenne un rabbioso avvinghiarsi di
animali selvatici. I due si giravano furiosamente intorno e solo il
fugace baluginio delle lame o lo sgorgare del sangue facevano capire
che intanto si scambiavano colpi letali.
Herich
fece un passo indietro, arrivando ad addossarsi al muro. Di nuovo
lanciò una fugace occhiata alla strada libera, ma in quel momento
udì un gemito più profondo e subito dopo il tonfo di un corpo che
si accasciava a terra. Si girò e vide che l'ufficiale giaceva
esanime. L'uomo dal manto nero era in piedi e ansava pesantemente.
Gocce di sangue cadevano dall'orlo dell'indumento come la pioggia da
un tetto. “Andiamo,” si limitò a ordinare, premendosi una mano
sul fianco. Tese il braccio libero verso di lui.
Herich
cercò d'istinto di indietreggiare, ma l'altro fu svelto ad
afferrarlo. Subito dopo ripeté: “Andiamo, non c'è tempo.”
“Aspetta,
chi...” cominciò il ragazzo disorientato.
L'uomo
si mise a correre ed egli non ebbe altra scelta che raccogliere
l'estremità tintinnante della catena e seguirlo.
Corsero
per un tempo che a Herich parve infinito, svoltando di continuo per
strade sempre nuove, evitando quelle più frequentate, passando per
case diroccate e zone incolte.
Quando
gli edifici cominciarono a diradarsi, trasformandosi in una periferia
disseminata di capanne e intersecata da canali limacciosi, l'uomo dal
manto nero rallentò. Ansava pesantemente e dovette appoggiarsi al
tronco di un albero secco per mantenere l'equilibrio.
“Ho
bisogno di
riposare,” mormorò con voce roca. “Devo fasciarmi le ferite,
così siamo troppo rintracciabili.”
Herich
abbassò gli occhi sul selciato sconnesso e vide una serie di gocce
purpuree che si perdeva in lontananza. Rialzò lo sguardo sull'uomo.
“Chi sei?” osò chiedergli.
Per
tutta risposta, l’uomo si fece scivolare indietro il cappuccio.
Il
ragazzo spalancò gli occhi e d’istinto si mise una mano sulla
bocca come per frenare un grido. “Res,” mormorò dopo qualche
istante di incredulo silenzio. “Sei davvero tu, Res?”
L’altro
annuì grave. “Sono qui per riportarti a casa, principe.”
Con
un gemito, il ragazzo gli piombò fra le braccia e gli nascose il
volto sul petto. “Ti credevo morto,” disse in un soffio. Sulle
guance gli rotolarono due grosse lacrime.
Sentì
la mano del soldato posarglisi sui capelli in una lenta carezza.
“Res,” ripeté.
“Sono
qui, principe.”
A
quelle parole, Herich si sentì attraversare da un brivido. “Sei
ferito,” gli disse, costringendosi a staccarsi da lui e a fissarlo
in viso. “Dobbiamo trovare subito un guaritore, delle cure
adeguate...”
Il
soldato scosse la testa. “No, principe. Niente guaritori, non
abbiamo tempo e non possiamo farci vedere in giro.”
Il
ragazzo deglutì. Si voltò lentamente indietro, come per accertarsi
che nessuno li stesse seguendo. “Quelli là...” mormorò poi,
“sono… morti?”
“Penso
di sì, principe.”
Res
si diresse poi verso il rudere di una casa abbandonata, vi entrò e
lasciò cadere il mantello nero per terra. Subito dopo si sfilò con
qualche sforzo la tunica, mettendo a nudo un profondo taglio al
fianco. Herich avrebbe voluto aiutarlo, ma alla vista della ferita
aperta si sentì invadere dalla nausea e dovette arretrare mentre un
capogiro minacciava di farlo cadere a terra.
“Non
guardare se ti fa impressione, principe,” disse Res, senza nemmeno
alzare gli occhi.
Il
ragazzo si appoggiò al muro e si passò una mano sulla fronte,
ritraendola coperta di sudore gelido. Si diede dello stupido: Res
aveva bisogno di aiuto, e tutto quello che riusciva a fare era
svenire perché il sangue gli faceva impressione. Di nuovo pensò a
Jeisym e alle sue parole beffarde.
“Siediti,
principe,” gli consigliò il soldato.
Senza
abbandonare il muro, egli levò lo sguardo su di lui: era a torso
nudo e strappava strisce dal mantello per farne bende di fortuna. Il
taglio continuava a sanguinare e rivoli rutilanti gli scorrevano
lungo la gamba.
Strinse
i denti cercando di scacciare la sensazione di avere la testa piena
di bambagia. Fin da quella distanza l’odore ferroso del sangue gli
faceva rivoltare lo stomaco ed era certo che se avesse osato alzare
di nuovo lo sguardo sul taglio si sarebbe afflosciato a terra in
preda al deliquio. “Hai bisogno d’aiuto?” si costrinse a
chiedere nonostante tutto.
Res
interruppe quello che stava facendo e sollevò lo sguardo su di lui.
“Te la senti?” si informò dubbioso.
Herich
deglutì. “Ci provo.”
Il
soldato gli rivolse un pallido sorriso. “Se tu riuscissi a
prepararmi delle strisce di stoffa, principe, sarebbe già un grande
aiuto.”
Il
giovane strinse i denti e si fece avanti con passo malfermo. Aveva la
sensazione di fluttuare nella nebbia e macchie nere gli danzavano
davanti agli occhi, tuttavia si sedette su una cassa e prese un lembo
del mantello.
“Usa
il pugnale,” gli suggerì Res.
Herich
lo raccolse con mano tremante, sempre cercando di ricacciare la
sensazione di debolezza che lo invadeva, e per distrarsi dall’idea
del sangue fissò gli occhi sulla stoffa e cominciò a tagliarla.
Dopo
un po’, Res fermò la mano del ragazzo e disse: “Credo che così
possa bastare.”
Herich
quasi sussultò per la sorpresa. Alzò il viso su di lui sbattendo
gli occhi come svegliato di soprassalto e sembrò rendersi conto solo
in quel momento che aveva già finito di medicarsi. Abbandonò la
benda che stava tagliando con un’espressione quasi di imbarazzo.
Il
soldato gli diede un buffetto sulla spalla e disse: “Hai fatto un
ottimo lavoro, principe.”
Il
ragazzo si terse il sudore da un viso bianco come neve appena caduta.
“Grazie,” balbettò, poi levò lo sguardo fino a incontrare il
suo e gli chiese: “Stai meglio ora?”
Res
colse nei suoi occhi un’apprensione febbrile, tuttavia dovette
scuotere la testa. “Ho giusto diminuito la perdita di sangue,”
rispose con sincerità. “Speravo che saremmo potuti partire oggi
stesso, ma devo assolutamente riposare e farmi curare questa ferita,
altrimenti...” Non riuscì a finire la frase: una fitta di dolore
la troncò a metà.
Il
ragazzo scattò in piedi come punto da una vespa. “Troveremo un
guaritore, vedrai,” disse con foga, più per rassicurare se stesso,
forse, che per incoraggiare lui. “Lo troveremo e io lavorerò per
pagarlo.” Fece un pausa, poi aggiunse: “So fare delle cose
anch’io, sai?”
Res
si terse dal volto le gocce di sudore freddo che lo imperlavano.
“Davvero, principe?”
“Sì,
io conosco tante scritture sacre, la poesia, la musica e cose del
genere. Potrei metterle a frutto per fare qualcosa di utile,
finalmente.”
“Magri
più avanti, principe. Per ora devi solo aiutarmi a indossare la
tunica e il mantello. E lasciati ricadere i capelli davanti al viso,
il segno di Dras è troppo riconoscibile.”
Herich
emise un sospiro e non aggiunse altro. Si limitò a raccogliere gli
indumenti e a porgerglieli, quindi si pettinò come gli era stato
suggerito. Res mantenne a sua volta il silenzio. Si rendeva conto che
il ragazzo era rimasto deluso, ma in quel momento non aveva energie
da sprecare per consolarlo, e poi aveva provato di persona quanto
fossero pericolosi i lenitivi al dolore, fisico o morale che fosse, e
non voleva che anche il giovane principe ne rimanesse vittima.
“Ora
andiamo,” si limitò a dire. “Ci manterremo nelle zone poco
frequentate e tramite quelle cercheremo di raggiungere i magazzini
del grano. Là dovrebbe esserci una persona che spero ci aiuterà.”
“Dovrebbe?”
fece eco il ragazzo dubbioso.
Res
assentì. “Le cose non sono andate come avevo previsto. Non mi
aspettavo che il tuo acquirente fosse il capitano delle guardie, né
che avesse con sé una squadra di soldati.” Si toccò il fianco
ferito e strinse le labbra per il dolore. “E non pensavo che
sarebbe riuscito a ferirmi così gravemente,” concluse in tono
duro. Si mise in marcia senza aggiungere altro. Ricordava battaglie
in cui aveva fatto il vuoto intorno a sé, in cui i nemici al suo
confronto erano solo goffi burattini, che lui poteva colpire come e
quando voleva.
Aveva
sconfitto campioni, aveva spezzato spade leggendarie.
Tutto
questo prima che il tau’zeel lo rendesse una miserabile larva
tremante e farneticante, pronta a
ogni
bassezza pur di avere un sorso di droga.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Salve
gente,
ecco
un altro capitolo del mappazzone fantasy. Un grande ringraziamento a
tutti quelli che mi seguono, un ringraziamento speciale a chi mi ha
commentato.
Capitolo
7
Adagiato
su cuscini di seta, Jeisym Khan traeva svogliati accordi da un liuto
intarsiato di avorio e madreperla. Accanto a lui si trovava un basso
tavolino su cui era posata una coppa vino di Gald. Di tanto in tanto,
egli smetteva di suonare e beveva un sorso, oppure accarezzava con lo
sguardo i sacchi di monete che aveva ricavato dall’ultima
scorribanda, posati in ordinate piramidi di quattro sulla superficie
di una cassapanca.
Suo
padre sarebbe stato molto contento di quel bottino.
Ripensò
al giovane Herich e un motivo languido, non scevro di una certa vaga
nostalgia, si levò dallo strumento. Così come aveva cavalcato la
bella puledra grigia, avrebbe forse potuto cogliere quel fiore di cui
certamente al comandante Risskel importava meno di nulla.
Come
poteva, del resto, un soldato avvezzo ai duri campi di battaglia
lasciarsi commuovere dal fascino di un giovane ancora intatto,
inesperto di ogni cosa, tutto fremiti e ritrosie? Come poteva
cogliere la bellezza insita nell’avvicinarlo adagio, erodendo le
sue resistenze una dopo l’altra, con il lavorio paziente della
goccia che scava la pietra, per poi portarlo ad anelare a ciò che
fino a poco prima aveva rifuggito con tutto se stesso? Cosa ne sapeva
della commovente espressione di smarrimento che un piacere mai
provato avrebbe dipinto sui suoi lineamenti delicati?
La
melodia si fece più struggente, divenne carica di una brama
appassionata.
Dei
passi precipitosi si fecero udire in corridoio.
Jeisym
aggrottò le sopracciglia e posò lo strumento, quindi volse lo
sguardo verso la porta. Da essa entrò Therved, che gli rivolse un
inchino ed esordì: “Perdona se ti disturbo, Khan.”
“Che
cosa succede?”
“Il
comandante Risskel ha subito un’aggressione e ora giace gravemente
ferito, mio signore.”
“Cosa?
Quando è successo?”
“Ieri,
mio signore,” rispose Therved.
Jeisym
si alzò lentamente in piedi, quindi si avvicinò all’uomo. “In
quali circostanze?” gli chiese.
“Mentre
portava a casa il ragazzo che tu gli hai venduto, mio signore.”
“Quanti
erano gli aggressori?”
“Solo
uno, mio signore. Incappucciato e con un mantello nero.”
Il
giovane Khan assentì gravemente col capo. Ricordava una figura del
genere, ferma e silenziosa in un angolo della sala. “Un uomo solo?
Contro sei soldati e il comandante Risskel?” chiese, come parlando
fra sé e sé.
“Ammesso
che fosse un uomo,” si fece udire la voce di Therved.
Jeisym
si girò di scatto verso di lui. “Perché, cos’altro poteva
essere?”
“Non
lo so, mio signore. Forse un demone di Vurar.”
Tra
i due calò il silenzio. Il Khan andò alla finestra e per un po’
rimase fermo a scrutare attraverso gli spicchi di vetro colorato. “Il
ragazzo?” chiese poi.
“L’ha
portato via.”
“Risskel
l’ha visto? Ne è sicuro?”
“Dice
che l’ha preso per un braccio e lo ha trascinato con sé.”
Jeisym
emise uno sbuffo infastidito, quindi sibilò: “Questa è una
dannata complicazione.”
“Perché,
mio signore? Il ragazzo è stato venduto, i soldi li hai ricevuti.
Quello che è accaduto dopo non ci riguarda.”
“Ragiona,
Therved,” replicò Jeisym in tono esasperato. “Qualcuno ci ha
seguiti quando abbiamo condotto quel moccioso al mercato degli
schiavi, ha aspettato la fine della compravendita e poi ha assalito
colui che l’ha acquistato e gliel’ha sottratto.”
“Ne
sei certo, mio signore?”
“Tu
non l’hai visto l’uomo col mantello nero nella sala?”
“Il
santo di Zephan, mio signore?”
“Non
era un santo,” disse il Khan lapidario. “Era uno che per qualche
motivo stava aspettando che noi ci liberassimo del ragazzo per poi
rapirlo.”
“Ma
perché, mio signore? Per rivenderlo, forse? Allora perché non
attaccare direttamente noi quando siamo andati via con i soldi dal
comandante Risskel?”
Jeisym
rimase in silenzio per un po’, come meditando fra sé e sé.
Avrebbe potuto replicare che nessuno a Perechyra osava attaccare
degli As’vaan, specialmente se stavano trasportando i proventi di
qualche vendita di bottino, ma in cuor suo sapeva che quella non era
la risposta giusta. L’uomo di cui stavano parlando aveva abbattuto
da solo sei soldati e il comandante della guarnigione, quindi era uno
che sapeva tenere in mano una spada e non si faceva spaventare dalle
nomee sinistre.
“Sono
stati uccisi tutti presso i templi di Os’lak?” chiese.
“Sì,
tutti, mio signore,” fu la pronta risposta.
Jeisym,
che era tornato alla finestra, si girò a fissare il suo secondo da
sopra la spalla. “Ne sei sicuro?”
“Nessuno
è rimasto in vita, mio signore.” Therved tacque per qualche
istante, poi in tono incerto soggiunse: “A meno che...”
Con
gli occhi che mandavano lampi, l’altro si girò a fronteggiarlo. “A
meno che?”
“Khan,
tu ci comandasti di non entrare nei templi, ricordi?”
Jeisym
non rispose. Incupì lo sguardo, intrecciò le mani dietro la schiena
e prese a camminare rapidamente su e giù per la stanza. Attutiti dai
tappeti, i suoi passi nervosi producevano solo un soffice fruscio.
Qualcuno doveva essere rimasto vivo, rifletté, era l’unica
soluzione possibile. Qualcuno che non aveva subito gli effetti del
tau’zeel e che al loro arrivo si era nascosto nel tempio.
Successivamente li aveva seguiti a piedi attraverso tutta la steppa e
una volta giunto a Perechyra aveva aspettato il momento giusto per
liberare il principe.
Si
chiese chi potesse essere in grado di compiere un’impresa del
genere e per un attimo fu quasi tentato di dare ragione al suo
secondo: era difficile pensare che si trattasse solo di un uomo.
“Dobbiamo
ritrovare il ragazzo,” disse infine, “o perlomeno dobbiamo
impedire che torni alla sua città.”
“Mio
signore?” chiese Therved stupefatto.
“Chi
l’ha preso può essere solo uno del suo seguito. Sicuramente vorrà
riportarlo a Dyat, in modo che il fratello non possa ottenere il
trono al posto suo.” Strinse il pugno così forte che le giunture
scricchiolarono, quindi in tono duro proseguì: “Se ci riuscisse,
per noi sarebbe la rovina. Il principe Dewrich non ci darebbe più i
soldi che ancora ci deve, inoltre il nome di Jesym Khan e di tutto il
clan dell’Aquila Bianca sarebbe disonorato, dal momento che
uccidere il ragazzo era parte dell’accordo che ho stipulato con il
principe.”
§
Manse
posò una mano sulla spalla di Herich. “Vieni fuori, ora,” gli
disse in tono sommesso. Il ragazzo si girò a fissare con sguardo
carico d’apprensione il letto sul quale Res giaceva in uno stato di
dolorosa semicoscienza, ma l'uomo lo sospinse attraverso la porta.
“Usciamo,” ripeté.
“Ma
lui potrebbe avere bisogno d'aiuto,” balbettò Herich. Si passò
una mano sulla fronte, ritirandola coperta di sudore freddo. Aveva di
nuovo la sensazione di camminare nella bambagia e un rombo come di
cascata nelle orecchie. Varcata la soglia, la luce del corridoio e
l'odore di cucina che proveniva dalla tromba delle scale gli fecero
emettere un involontario sospiro di sollievo.
Di
nuovo gli giunse la voce tranquilla di Manse: “C'è la guaritrice
con lui, vedrai che presto starà meglio.”
Herich
alzò lo sguardo sul suo viso pacioso. Sbatté le palpebre cercando
di allontanare le lacrime che gli velavano gli occhi e balbettò: “Lo
credi davvero?”
“È
forte,” fu la risposta. “Ce la farà. Ora andiamo a prendere una
boccata d’aria, ragazzo. Non ti fa bene stare chiuso qui dentro.”
“Tu
credi che ci stiano cercando?”
Manse
assentì. “Certamente. Balrich della Porta Ovest mi ha detto che il
comandante Risskel non avrà pace finché non riuscirà a trovare chi
l’ha aggredito. E finché non riuscirà a recuperare te,
ovviamente.”
“Non
so ancora come abbiamo fatto ad arrivare fin qui ieri,” sospirò il
ragazzo. “Alla fine Res stava proprio male, sai, credevo che
sarebbe caduto lungo la strada.” Fece una pausa, poi soggiunse:
“Meno male che c’eri tu.”
“Sapevo
che sareste
arrivati.”
“Come
lo sapevi?”
“Ieri
era il primo del mese, ovvero il giorno in cui si tiene il mercato
degli schiavi di lusso. Sapevo che Res avrebbe provato a liberarti.
Anzi, che lo avrebbe fatto.” Scosse la testa, quindi proseguì:
“Quello che non immaginavo è che si sarebbe conciato in quel modo.
Ho dovuto scomodare la famosa Hjalmianna, e non è stato affatto
facile, vista la quantità di gente che chiede le sue cure.”
“La
guaritrice?”
“È
la più celebre di Perechyra.”
“Chissà
quanto ti è costata,” osservò Herich con apprensione.
Manse
scosse la testa. “No, si fa pagare in proporzione alle ricchezze di
chi la ingaggia. A un povero chiede una moneta, a un ricco ne chiede
cento. E poi a me non ha chiesto niente, perché le porto sempre le
erbe del Theythrim. Quelle buone, che si raccolgono solo sugli
altipiani di Coimhir.”
Herich
non replicò. Si guardò le mani, ancora sporche di sangue, e scosse
la testa per cercare di allontanarsi i capelli dal viso.
“Non
farlo,” gli raccomandò l’uomo, “quel segno che hai in faccia è
troppo riconoscibile.”
“Maledetto
anche questo segno,” imprecò il ragazzo. “Da quando Dras ha
ritenuto di elargirmelo, non ha fatto altro che crearmi problemi.”
L’uomo
rimase in silenzio per qualche istante, poi disse: “Il potere su
tanti è un peso, prima di essere un privilegio. Ci hai mai pensato?”
Herich
si voltò a fissarlo stupito. “Come fai a sapere cosa significa
questo segno?”
Manse
si strinse nelle spalle. “Lo so.”
“Sì,
ma come
lo sai? Sei un chierico di Dras, per caso?”
“Sono
uno che ha viaggiato molto, uno che sa molte cose.”
Il
più giovane continuò a camminare in silenzio per un po’, poi si
voltò di nuovo verso il suo accompagnatore e gli chiese: “Quindi,
secondo te, tutto questo sta succedendo perché Dras vuole farmi
capire che la mia futura esistenza di regnante sarà solo pericoli,
dolore, paura e sensazione di impotenza?”
“Sarà
anche
quello, certo, e giustamente Dras vuole che tu te ne renda conto.
Essere re non significa sfilare sulla Via d’Onore in grandi
paramenti, o presenziare ai banchetti del raccolto. Significa
prendere su di sé il dolore dei propri sudditi, significa accettare
la consapevolezza di non poterlo eliminare, ma solo sopportare.”
Di
nuovo calò il silenzio. Herich si tirò i capelli sulla metà
sinistra del viso e nel movimento l’odore del sangue che aveva
sulle mani gli diede quasi un capogiro.
“Che
c’è?” gli chiese Manse premuroso.
“Niente.
Dras mi fa capire che il mio posto è un monastero, nel quale stare
rintanato fino alla fine dei miei giorni.” Alzò lo sguardo fino a
incontrare quello dell’uomo, quindi in tono duro gli disse: “Io
non credo che sia come dici tu. Secondo me Dras si è accorto che ha
fatto un errore scegliendo me, e tutto questo sta capitando perché
ha deciso di mettere sul trono mio fratello.”
La
stanza era in penombra, i pochi raggi di luce che penetravano dalle
imposte chiuse prendevano corpo nell’atmosfera densa di fumi.
L’aria odorava di sangue, incenso ed erbe medicinali.
La
Waishir, una donna alta e snella, con una crocchia di capelli neri
appena venata di grigio, si rimboccò per l’ennesima volta le
maniche della tunica da guaritrice. Immerse le mani in una bacinella
d’acqua che uno dei suoi assistenti le aveva preparato e le
ritrasse solo quando furono perfettamente pulite, poi se le asciugò
con cura su un telo di lino e prese dalla sua cassetta dei
medicamenti un’ampolla che conteneva un liquido color rubino,
trasparente e denso come miele. Ne fece cadere qualche goccia in un
bicchiere e lo diluì con un po’ di infuso di valeriana.
Fatto
questo si avvicinò a Res, gli mise una mano dietro la nuca per
sollevargli la testa e gli accostò il recipiente alle labbra.
Bruciante
di sete, il soldato cercò subito di bere, ma non appena l’odore
del liquido gli colpì le nari, con le poche forze rimase distolse il
viso e tentò di farsi indietro. “Non quello,” balbettò con voce
debole.
“Devo
applicarti sulla ferita il muschio di Saytheri, ti farà molto male.”
“Sopporterò.”
La
donna scosse la testa e in tono calmo rispose: “Non sei in grado di
sopportare questo dolore, indebolito come sei. Ti muoveresti, e il
muschio ti brucerebbe anche i tessuti sani, invece di distruggere
solo quelli morti.”
Res
levò su di lei occhi febbrili, lucidi e cerchiati di scuro. “Non
darmi tau’zeel, guaritrice,” ansò con voce roca, “di’ ai
tuoi assistenti di legarmi, piuttosto, in modo che io non possa
muovermi, ma niente tau’zeel.”
La
donna sollevò le sopracciglia. “Soffrirai molto,” lo informò in
tono grave.
“Ti
ho detto che sopporterò.”
La
Waishir immerse un panno in una bacinella, lo strizzò e poi glielo
passò sul viso. “Avevi perso il limite?” gli chiese a bassa
voce.
“Sì.”
“In
che occasione?”
“Quando
fui ferito da una freccia mewen. Il guaritore mi diede del tau’zeel
per sopportare il dolore…”
“…e
tu non sei più riuscito a farne a meno,” finì per lui la donna.
“È
così.”
Ella
gli passò nuovamente il panno umido sul viso, quindi disse: “Ti
darò un pezzo di cuoio da stringere fra i denti. Non posso
prometterti che non soffrirai, posso solo prometterti che lo farò
durare il meno possibile. Se sarai fortunato, perderai i sensi per il
dolore.”
“Sarà
il volere di Dras,” mormorò il soldato.
Uno
degli assistenti estrasse da una sacca dei rotoli di tela robusta e
cominciò ad allinearli sul tavolo che era stato portato accanto al
letto. Prese poi uno di essi, lo svolse e si chinò per
assicurarglielo al polso.
Res
si lasciò legare. Man mano che le fasce gli immobilizzavano mani e
piedi, e poi gli passavano di traverso sul torace e sull’addome,
egli cercava di mantenere costante il ritmo del respiro per
controllare l’agitazione. Il cuore gli pulsava nelle orecchie, i
muscoli erano tesi come corde. La guaritrice gli avvicinò di nuovo
un bicchiere alle labbra. “È solo acqua,” gli assicurò.
Egli
bevve qualche sorso mentre un assistente gli tamponava per l’ennesima
volta il viso sudato.
Infine
giunse la domanda: “Sei pronto?”
Il
soldato assentì. Tentò dapprima di muoversi, come per saggiare
l’effettiva resistenza delle fasce, poi si abbandonò con un
sospiro e schiuse le labbra per accettare il pezzo di cuoio che uno
degli assistenti gli stava porgendo.
Si
voltò verso la Waishir e vide che si era messa uno spesso grembiule
di tela grezza e stava indossando un paio di guanti. Successivamente,
con una spatola di metallo ella prese da un piccolo orcio un impasto
denso e traslucido, di un colore che nella penombra gli parve verde
scuro. “Ora ricorda,” gli disse con voce sommessa, “più
intenso sarà il dolore, più rapida e completa sarà la tua
guarigione. Stringi i denti e cerca di resistere.”
Seduto
sul bordo della fontana, Herich contemplava assorto la propria
immagine. Gli sembrava decisamente assurdo che qualcuno avesse
sborsato ventimila pezzi d’oro per averlo: riflesso sulla
superficie dell’acqua vedeva solo un ragazzino smunto, con membra
ossute e sgraziate e un segno in faccia che sembrava il lascito di
una malattia. Emise un sospiro. Manse, che sedeva al suo fianco
sbocconcellando una focaccia ripiena, gli diede un colpetto col
gomito e gli chiese: “Ne vuoi un po’?”
“Non
ho molta fame, grazie.”
“Eppure
dovresti mangiare. Vuoi o non vuoi diventare come Resen-Lhaw?”
Herich
alzò le spalle e rispose: “Il Leone Rosso si metterebbe a ridere
se mi vedesse. Svengo se vedo un po’ di sangue, ho paura di
qualsiasi cosa, non sono capace di fare nulla…”
Buttò
un sasso dentro la vasca della fontana e rimase a guardarlo mentre
cadeva e poi si posava sul fondo sollevando una nuvoletta di limo. Un
pesce argentato vi guizzò intorno per un attimo, poi scomparve.
Un
istante dopo, un lamento straziante lo fece sussultare. “Che
cos’è?” gridò saltando in piedi.
“Sta
tranquillo,” gli raccomandò Manse. “Va tutto bene.”
“Ma
veniva dalla locanda,” replicò il ragazzo agitato, “È Res!”
“La
guaritrice sa il fatto suo, torna a sederti.”
“No,
devo andare a vedere.”
Corse
via senza aspettare la risposta del carrettiere. Attraversò il
cortile, salì a tre a tre i gradini che conducevano al piano di
sopra, si precipitò in corridoio e spalancò la porta della camera.
“Res!” gridò angosciato.
“Non
svegliarlo,” gli raccomandò la guaritrice.
In
piedi sulla soglia, ansante, il ragazzo lasciò vagare lo sguardo
all’interno: il soldato giaceva immobile, col capo reclinato da una
parte. Aveva il volto di un pallore spettrale e un’ampia
medicazione sul fianco. Su polsi e caviglie, ma in generale su tutto
il corpo, aveva segni rossi. Accanto a lui, un giovane con la tunica
da guaritore stava arrotolando delle fasce di tela.
Alzò
lo sguardo smarrito verso la Waishir.
“Abbiamo
dovuto legarlo,” disse lei in risposta alla sua muta domanda.
Herich
osò fare un passo avanti, cauto come un coniglio che esce dalla
tana.
“Puoi
avvicinarti, se vuoi. Basta che non lo svegli.”
Il
ragazzo avanzò ancora. Res era immobile, solo il petto che si
muoveva appena faceva capire che era vivo. Rimase a osservarlo: un
corpo poderoso, segnato da cicatrici, che raccontava una storia di
lotta e disciplina. Disteso nell’incoscienza, il volto aveva
lineamenti gravi, addirittura nobili. “Guarirà?” chiese con voce
sommessa.
Alle
sue spalle, la donna rispose: “Ora deve solo riposare.”
“Posso
stare un po’ qui con lui?”
“Puoi
sederti lì,” disse la guaritrice indicandogli uno sgabello accanto
al letto. “Se si sveglia e ti chiede da bere, dagli dell’acqua.”
“Va
bene.”
“Per
qualsiasi altra cosa chiamami, o chiama uno dei miei aiutanti. Saremo
nella sala grande.”
“Lo
farò, grazie.”
Herich
prese lo sgabello e si sedette, poi si appoggiò i gomiti sulle
ginocchia e il volto tra le mani. Rimase così per un po’,
l’orecchio teso a cogliere il respiro flebile di Res, lasciando
libero corso ai pensieri.
Dopo
un tempo imprecisato si alzò, andò a prendere una coperta e gliela
stese addosso.
Il
soldato socchiuse gli occhi. “Principe,” mormorò.
Il
ragazzo ebbe un tuffo al cuore. “Res!”
“Stai
bene, principe?”
“Io…
sì, certo. Tu, piuttosto, come stai?”
Res
strinse i denti e rispose: “Presto sarò di nuovo in grado di
cavalcare.”
“Io
voglio solo che tu stia bene, Res.” Herich spinse una mano a
toccare la sua, abbandonata sul letto, poi gli chiese: “Hai sete?
Vuoi dell’acqua?” Senza attendere risposta riempì un bicchiere,
poi gli passò la mano dietro la nuca come aveva visto fare alla
guaritrice e glielo avvicinò alle labbra.
Il
soldato bevve a piccoli sorsi, infine emise un sospiro e disse:
“Grazie, principe.”
Herich
chinò la testa. “Sono io che devo ringraziare te,” rispose.
“Ho
fatto solo il mio dovere.”
Il
ragazzo si guardò intorno e localizzò la bacinella con dentro il
panno. La andò a prendere e con gesti un po’ maldestri rinfrescò
il viso a Res. “Vuoi altra acqua?” gli chiese poi.
“No,
principe. Penso che ora dormirò un po’, con il tuo permesso.”
Herich
si sentì avvampare. “Ma certo, scusami,” si affrettò a
rispondergli. “Scusa, è che io…” Si interruppe: Res era già
scivolato nel sonno.
Gli
aggiustò la coperta stando attento a non svegliarlo, poi sedette di
nuovo sullo sgabello.
Fece
girare lo sguardo sulla stanza: il tavolo era ancora ingombro di
bende arrossate e gli incensi medicamentosi non riuscivano a coprire
del tutto l’odore ferroso del sangue. Si tirò finalmente indietro
i capelli e si passò le dita sulla cicatrice, trovandola come al
solito leggermente rilevata e più calda della pelle circostante. Si
chiese se la guaritrice fosse in grado di toglierla. Aveva sentito
parlare molte volte dei sapienti Waishir e la leggenda li voleva
padroni di ogni arte medica.
Cosa
sarebbe successo se l'avesse fatta cancellare? Dras gliel'avrebbe
fatta rispuntare da un'altra parte o si sarebbe rassegnato al fatto
che lui non voleva essere re?
Abbassò
lo sguardo su Res: il suo sonno si era fatto agitato, si vedevano gli
occhi guizzare sotto le palpebre abbassate. “No...” mormorò a un
certo punto, “Non loro, no... loro non c'entrano...”
Una
lacrima gli scese luccicando lungo la tempia.
Herich
lo fissò immobile, indeciso sul da farsi.
“Le
onde sono tutte rosse,” gemette il soldato, e altre lacrime
seguirono la prima.
A
quel punto, il ragazzo allungò titubante una mano e la posò sulla
sua. “Sono qui con te, Res,” sussurrò piegandosi su di lui.
“Sta' tranquillo, sono qui. Va tutto bene.”
§
Therved
si affacciò sulla soglia, si inchinò e disse: “Sono arrivati,
Khan.”
Jeisym
si alzò dai cuscini, appoggiò da una parte il liuto e chiese: “Lo
scrigno è stato preparato?”
“Secondo
i tuoi ordini, Khan.”
“E
le armi? I cavalli?”
“Tutto
come hai ordinato, mio signore.”
“Molto
bene,” rispose Jeisym, indossando i paramenti del clan dell'Aquila
Bianca, “Allora falli entrare nel cortile piccolo, verrò tra poco
a riceverli.”
L'As'vaan
sorrise fra sé e sé, quindi scostò uno dei cortinaggi che ornavano
la sua stanza, scoprendo l'imbocco di uno stretto corridoio. Lo
percorse a passi felpati fino a raggiungere una stanza ottagonale che
su ogni lato aveva un pannello di metallo finemente traforato. Si
avvicinò a uno di essi e vi guardò attraverso.
Al
di là vi era il cortile piccolo. Un gruppetto di As’vaan, uomini e
donne, vi stava entrando scortato da Therved. Tutti si guardavano
intorno meravigliati, qualche ragazza emise gridolini di stupore.
Quando
furono dentro, Jeisym rimase a studiarli per un po’: i maschi
passeggiavano su e giù cercando di scrutare verso le scuderie, le
femmine perlopiù ammiravano i fiori o i giochi d’acqua della
fontana. Tutti erano vestiti con la massima eleganza che le loro
finanze consentivano, avevano capelli lunghi e gioielli. Chi se li
poteva permettere sfoggiava oro e pietre preziose o semipreziose, ma
la maggior parte aveva monili di vetro o smalto. Argento sbalzato, al
massimo.
Sorrise
fra sé e sé: ecco che l’orgoglio e l’amore per la bellezza
tipici della sua gente gli risultavano utili.
Tornò
sui suoi passi, quindi si diresse verso il giardino. Al suo apparire,
i presenti, che si erano riuniti in capannelli a parlare fra di loro,
ammutolirono e fissarono lo sguardo su di lui.
“Buon
giorno, miei cari,” li salutò. Fece qualche passo, quindi
proseguì: “Immagino vi starete chiedendo perché vi ho convocati.”
Un
brusio attraversò la folla. Una ragazza con i lunghi capelli
raccolti in una crocchia e ornamenti di perline colorate al collo e
ai polsi si fece avanti, si pose le mani sui fianchi e disse: “Parla
in fretta, ti prego. Anche se sei davvero molto bello, tra un po’
dovrò lasciarti: sta per cambiare il turno delle guardie di palazzo
e tra mezz'ora almeno cento armigeri verranno a bere al Gatto
Bianco.”
Jeisym
sorrise in risposta a quello sfrontato complimento e le chiese: “Come
ti chiami, piccola impertinente?”
“Jadzi.”
In
quel momento si aprì una porta e due servi portarono nel giardino un
forziere irrobustito da bande di ferro e borchie. Lo posero sul
selciato, si inchinarono e uscirono, aprendo mentre passavano anche
la porta che dava sul cortile grande. Al di là erano state disposte
panoplie di armi cesellate che scintillavano al sole. Splendidi
cavalli passeggiavano liberi: lucidi morelli, sontuosi grigi e sauri
con riflessi di fuoco vivo sul manto.
“Vi
chiederete perché vi ho convocati,” ripeté Jeisym, notando con
soddisfazione che i presenti stavano allungando il collo con
cupidigia verso tutte quelle meraviglie. “Ebbene, ci sono occasioni
in cui ci si deve aiutare tra appartenenti alla stessa razza. Voi
siete As’vaan come me, condividiamo gli stessi valori, i nostri
padri ci hanno insegnato a credere negli stessi dei.”
Un
giovanotto robusto, con bracciali di rame sbalzato a entrambi i
polsi, chiese: “In pratica, che cosa ti servirebbe, Khan?”
“Informazioni,”
rispose Jeisym in tono di mistero. “Informazioni su due persone che
hanno tentato di disonorare il clan dell’Aquila Bianca, e che per
questo devono pagare.” Andò al forziere e lo spalancò, rivelando
gioielli di ogni genere, pietre preziose e stoffe pregiate, intessute
d’oro e d’argento. Dal gruppo dei presenti salì un ooh
di meraviglia.
Egli
affondò la mano nella cassa e la sollevò carica di gemme. “Ad
ogni informazione, io vi darò una di queste,” proclamò. “O vi
darò armi, o puledri di Jessartiaz segnati dalla mano di Halmaikah,
veloci come il pensiero.”
Un
altro mormorio di meraviglia attraversò la folla.
Si
fece avanti la ragazza di nome Jadzi. “Chi sono le due persone che
cerchi, Khan?” domandò, lo sguardo calamitato dai monili contenuti
nello scrigno.
Jeisym
lasciò ricadere le gemme, prese una collana adorna di rubini
talmente splendidi da sembrare piccoli fuochi e in tono sensuale le
disse: “Vorresti questa, non è vero?” Gliela fece ondeggiare
davanti agli occhi e le pietre, attraversate dai raggi del sole,
divennero lava incandescente e fiamma viva. “Cerco un ragazzo di
circa sedici anni, di altezza media, snello. Ha i capelli lisci,
lunghi e neri e gli occhi cerulei. Ciò che lo rende inconfondibile è
un segno rosso sull’occhio sinistro.” Col dito ne riprodusse il
percorso sul proprio volto.
Jadzi
cercò di toccare il gioiello, Jeisym lo allontanò
impercettibilmente. I due si fissarono negli occhi.
“Cosa
puoi dirmi dell’altro?” chiese la ragazza. Di nuovo allungò la
mano verso la collana, ma il Khan gliela sottrasse senza staccare gli
occhi dai suoi.
“È
molto alto, di corporatura estremamente robusta, sicuramente è o è
stato un soldato. Non lo abbandona mai.”
Jadzi
finse un broncio. “Tutto qui?”
“Devi
fartelo bastare. Io voglio il ragazzo, comunque.”
“Perché?
Vuoi farne il tuo amante?”
“Forse.”
“E
le belle ragazze non ti piacciono?”
Jeisym
sorrise. “Forse.” La collana tornò nel forziere, che si chiuse
con un tonfo. “La cosa vale anche per tutti gli altri,” disse poi
il Khan a voce più alta. “Chi mi porta informazioni su di lui avrà
ricchi doni: avrà gioielli, armi, cavalli o stoffe preziose. E ora
andate.”
Jadzi
lo fissò maliziosa. “Vado anch’io?”
“Portami
informazioni e riparleremo anche di questo.”
§
Res
fissò lo sguardo sul principe Herich, che si accaniva sul tronco di
un albero secco con una spada, e disse: “Devo andare, Manse.”
Il
carrettiere fissò a sua volta il ragazzo e rispose: “La guaritrice
ha detto che devi riposare almeno altri sette giorni.”
Il
soldato scosse la testa. “Non ce li ho, sette giorni. Il comandante
è ancora vivo e di sicuro starà facendo di tutto per trovarci.”
I
due rimasero in silenzio per un po'. “Si muove bene,” disse alla
fine Manse, indicando con un cenno della testa il ragazzo.
“Ha
delle potenzialità,” convenne Res, “è veloce e agile. Deve solo
convincersene.”
“Difficile,
dopo che per tutta la vita ti hanno fatto credere di essere capace
solo di recitare salmi,” considerò il carrettiere. “Abbiamo
parlato un po' io e lui, quando eri incosciente. Credo che sarà un
buon re.”
Res
si strinse nelle spalle. “Prima devo riportarlo a Dyat.”
“Ci
riuscirai.”
I
due si fissarono negli occhi, poi il soldato lentamente disse: “Devo
riuscirci, l'ho promesso.”
“A
lui?”
“A
Dras.”
Manse
si limitò ad assentire, Res ebbe l'idea che avesse colto
perfettamente il significato della sua risposta, tanto che preferì
cambiare discorso. “Dovremo trovare dei cavalli,” disse.
Il
carrettiere scosse la testa. “Non qui,” rispose categorico. “Per
prima cosa, le guardie controlleranno ogni mercato, e poi, se non mi
sbaglio di grosso, anche gli As'vaan lo staranno facendo.”
“Tu
credi?”
“Se
non ricordo male, hai detto che uno di loro aveva stretto un accordo
con il fratello di Herich.”
“È
così.”
“E
allora quell'As'vaan rischia di essere disonorato e di perdere ogni
credibilità. Farà qualsiasi cosa, per recuperare il ragazzo.”
Di
nuovo tacquero e rimasero a seguire con lo sguardo Herich che si
allenava. A un certo punto, egli gettò la testa all'indietro e il
segno che aveva sull'occhio, investito dal sole, spiccò sulla sua
carnagione chiara come se fosse illuminato dall'interno. “Prima ce
ne andiamo e meglio è,” disse Res categorico. “Oggi stesso, se
fosse possibile.”
Manse
gli batté una mano sulla spalla e rispose: “Per me è ora di
rientrare a Corvean, partirò domani. Posso accompagnarvi fino a
Werthyra col carro, là troverete quello che vi occorre, poi potrete
costeggiare le steppe di As'del fino al corso dell'Edayr e da lì
raggiungere Dyat.”
Il
soldato emise un sospiro. “Ancora una volta, Manse, non so come
ringraziarti.”
“Mi
ringrazierai portando il ragazzo a destinazione sano e salvo,” fu
la risposta. Poi, dopo una pausa: “A proposito, per questa sera ho
pagato una saletta privata qui alla locanda, perché avremo un ospite
importante.”
Res
aggrottò le sopracciglia. “Chi sarebbe?” gli chiese, di colpo
sospettoso.
“Vedrai.”
Seduto
al tavolo nella saletta privata, Res cercava di comportarsi come se
niente fosse, ma si sentiva teso come nell'imminenza di una battaglia
importante. Per quanto continuasse a ripetersi che Manse si era
dimostrato un buon amico e una persona fidata, la sua allusione a un
ospite
importante
l'aveva messo sulla difensiva.
“Mi
sembri un tanroth-ath che cova,” gli disse dopo un po' il
carrettiere, dandogli una scherzosa gomitata. “È tutta la sera che
te ne stai rintanato nel tuo angolo.”
Res
lo fissò torvo, quindi chiese: “Chi è la persona che deve
arrivare?”
Manse
gli rispose con una risata. “Ah, è per quello che sei nervoso?”
replicò in tono faceto. “Pensi che abbia invitato a cena un Grande
Khan degli As'vaan direttamente da Jessartiaz? Magari con tutti i
suoi uomini?”
Il
soldato brontolò qualcosa fra i denti, al che Manse si rivolse
scherzosamente a Herich: “È più sospettoso di un cavallo guercio,
ma del resto lo capisco: questo è un brutto mondo.”
Stava
per aggiungere altro quando la porta si spalancò e nel riquadro
comparve un'imponente guardia. Incurante della ferita che ancora lo
faceva soffrire, il soldato in un attimo balzò in piedi, si parò
davanti a Herich e pose la mano sul pomo della spada.
“Ehi,
calma,” si limitò a dire il nuovo arrivato, peraltro senza
muoversi dalla soglia.
A
quel punto, Res distolse lo sguardo dall'uniforme e si concentrò sui
suoi lineamenti. “Balrich?” chiese stupefatto.
“Manse
mi ha offerto un otre del suo vino, come potevo rifiutare?”
Il
soldato finalmente si rilassò, emise un sospiro e aggirando il
tavolo per porgergli la mano disse: “Scusa se sono saltato su in
quel modo.”
“Ti
capisco,” rispose l'altro, “nella tua situazione c'è da essere
sempre tesi.” Rivolse lo sguardo a Herich e aggiunse: “E lui è
il ragazzo di cui mi parlavi, vero?”
“Sì,
Sua Altezza il principe Herich Averin di Dyat.”
Balrich
sollevò stupito le sopracciglia. “Nientemeno,” commentò.
Il
più giovane abbassò gli occhi imbarazzato.
L'altro
si piegò a fissarlo, aggrottò le sopracciglia e disse: “Aspetta...
tu sei quello che tutti stanno cercando, il ragazzo del comandante
Risskel.”
Herich
si fece indietro, Res pose di nuovo la mano sulla spada, ma Balrich
fece un gesto come per invitarlo alla calma e proseguì: “Ora mi
spiego la generosità del nostro Manse: voi avete bisogno d'aiuto per
uscire dalla città.”
“È
così,” ammise Res.
Balrich
sorrise. “È presto fatto. Domattina sono di servizio e
dimenticherò
di ispezionare il contenuto del carro di Manse.”
Nessuno
commentò. Nel silenzio generale che aveva fato seguito a quelle
parole, Herich chiese: “È davvero così semplice? Tu dimenticherai
di controllare e noi usciremo? Nessun altro vorrà dare un’occhiata,
se tu ti dimentichi?”
“Sono
il comandante della sezione,” rispose la guardia, “non ci saranno
problemi.”
D'istinto,
il ragazzo volse lo sguardo verso Res.
Il
soldato si limitò ad aggrottare le sopracciglia. Aveva già avuto
modo di parlare con Balrich e il sesto senso acquisito in anni
passati a valutare gli uomini gli diceva che si trattava di una
persona leale, che non li avrebbe traditi. Il suo unico dubbio era se
egli avesse capito la reale portata del problema o lo stesse
sottovalutando. “Non avrai problemi con i tuoi superiori?” gli
chiese dubbioso.
“Sì,
certo. Se lo venissero a sapere,” fu la disinvolta risposta. “Ma
non lo verranno a sapere. Chi vuoi che faccia caso al carro di un
mercante di granaglie?”
“Chiunque
stia cercando due persone nascoste, immagino.”
“Io
controllerò con cura e dirò che le persone non
ci sono.”
Ci
fu un momento di silenzio assoluto, rotto solo dal lieve crepitare
delle candele e dalla vaga eco di una canzone cantata nella sala
grande, poi Manse annunciò: “E ora direi che possiamo far portare
l’arrosto e della buona birra per mandarlo giù, che ne dite?” Si
rivolse a Res e al ragazzo e soggiunse: “E voi due mangiate più
che potete: sarà l’ultimo pasto decente che avrete per un bel po’
di tempo.”
Aprì
la porta per raggiungere le cucine, ma subito si irrigidì e fece un
passo indietro.
Il
soldato lo fissò attento. “Che c’è?” gli chiese.
Manse
scosse la testa. “Niente di buono.”
Res
lo raggiunse e vide che subito dietro la porta, appiccicato a una
ragnatela, c’era un lungo capello bianco che ondeggiava pigro.
“Questo
vuol dire che un As’vaan è stato qui,” ringhiò dopo aver
esaminato il capello. “Una donna, direi. Gli uomini non hanno
chiome così lunghe.”
Balrich,
che si era a sua volta avvicinato, aggiunse: “E in questo momento
starà correndo da chi l’ha ingaggiata per riferire tutto quello
che ha sentito.”
Res
fece qualche passo nervoso per la stanza, con le spalle ingobbite e
le mani intrecciate dietro la schiena, infine rialzò la testa con un
gesto deciso e proclamò: “Dobbiamo partire subito.”
“Subito?”
fece eco Manse. “Ma non avete preparato niente, bisogna ancora
caricare il carro...”
“Di
notte le porte sono chiuse, non esce nessuno,” intervenne Balrich
categorico.
Di
nuovo calò il silenzio. Dopo un po’, Res chiese: “Non c’è
modo di uscire dalla città se le porte sono chiuse?”
“Non
certo con un carro.”
“E
due persone a piedi?”
La
guardia annuì. “Per due persone non sarebbe un problema, conosco
un passaggio non lontano da qui.”
“Molto
bene, allora io e il principe partiremo subito. Chi ci ha spiato sta
andando a riferire che noi partiremo domattina su un carro, e invece
noi usciremo adesso e a piedi, attraverso un varco nelle mura. Direi
che alla fine la cosa si risolverà in un vantaggio per noi.”
“Non
adesso,” intervenne la guardia, “Prima devo andare a prendere la
chiave.”
“Quanto
ti ci vorrà?”
“Una
mezz'ora e sono qui.”
“Sbrigati,
ogni attimo che trascorriamo in questa città può essere l'ultimo.”
“Vado.”
“Vi
prendo delle provviste,” intervenne Manse.
“No,
niente provviste,” fu la risposta. “Ce le procureremo a Werthyra
quando ci arriveremo, non voglio che in cucina scoprano cosa abbiamo
intenzione di fare.”
“Allora
del denaro. Dovrai comprare i cavalli e tutto quanto.”
Res
scosse la testa. “Non posso accettarlo, Manse. E poi ho quello che
ho guadagnato lavorando.”
“Sciocchezze.
Vuoi comprare dei ronzini e del pane secco? Se vuoi che il principe
torni sano e salvo alla sua città, avrai bisogno di cavalli veloci e
resistenti, di abiti adeguati e di provviste.”
“Ma...”
“Me
lo renderai quando tutto questo sarà finito. Verrai a Corvean e
chiederai di Manse il carrettiere, tutti mi conoscono.”
“Lo
farò sicuramente,” rispose Res, faticando per nascondere la
commozione.
“Certo,
e Bridh ci preparerà un pranzo come sa lei.” Si rivolse al
ragazzo: “Aspetto anche te, Herich. Conosco mia moglie: sarà
felicissima di ospitare un vero principe in casa sua.”
§
Jeisym
si stava accingendo a consumare la cena quando un servo lo raggiunse,
si inchinò e disse: “Mio signore, una donna chiede di te,”
Il
Khan allontanò il piatto d’oro che aveva davanti e chiese: “Una
donna? Che cosa vuole?”
“Dice
che ha informazioni per te, mio signore.”
“Porta
un altro coperto e falla passare.”
“Sì,
mio signore.”
Poco
dopo provenne dal corridoio l’eco di una risatina, poi una voce
femminile in tono civettuolo chiese: “Davvero mi invita a cena? E
dopo? Non vuole altro?”
Comparve
sulla soglia, scortata dal servo, la ragazza di nome Jadzi, che si
aggiustò i capelli, quella sera sciolti sulle spalle, e si fece
avanti con arie da gran dama.
“Mia
cara, sei sempre bellissima,” la accolse Jeisym. “Vieni, siedi
con me.”
“Ho
sentito tutto,” disse la ragazza prendendo posto e cominciando a
riempirsi risolutamente il piatto. “Quelli là hanno intenzione di
scappare domattina con un carro e Balrich della porta ovest li farà
passare.”
“Ne
sei sicura?”
“Come
di essere bellissima.”
Jeysim
levò il bicchiere nella sua direzione in un muto brindisi, quindi le
chiese: “Come hai fatto a sentire quella conversazione?”
“Stavo
seguendo Balrich per vedere se è vero che ha trovato la fidanzata.”
“Chi
è questo Balrich?”
“Un
bel ragazzo. Comunque, come ti stavo dicendo, ero alla locanda vicino
al deposito del grano e l’ho sentito parlare con della gente:
dicevano che dovevano portare via un principe, nientemeno!” Fece
una pausa che utilizzò per scrutare la reazione di Jeisym, ma questi
continuava a mangiare imperturbabile. Levò anzi di nuovo il
bicchiere verso di lei, come per invitarla a bere a sua volta.
Jadzi
si agitò sui cuscini, si guardò intorno perlustrando con gli occhi
ogni angolo della sontuosa sala.
“Qualcosa
non va?” si informò il Khan in tono cortese.
“La
mia collana?”
Jeisym
sorrise. “A tempo debito, mia colomba. Non appena sarò sicuro che
quanto mi hai riferito questa sera corrisponde a verità. Ma ora, ti
prego: consuma queste vivande e allieta questo luogo con la tua
bellezza, mentre io vado alla locanda.”
Jadzi
fece il broncio. “Perché ci vai? Tanto passeranno domattina dalla
porta ovest.”
“Perché
aspettare domattina? Potrebbe succedere qualsiasi cosa, in questa
lunga notte. Molto meglio andare subito, e sorprenderli nel sonno.”
“E
io?”
“Tu
mi aspetterai qui, mio piccolo tesoro, in modo che io possa darti la
ricompensa che meriti.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Gente mia,
come sempre grazie a tutti quelli che mi seguono e che mi commentano, è
sempre un piacere leggervi!^^
Capitolo
8
Jeisym
si fermò appena al di fuori del cerchio di luce creato dalle
lanterne della locanda e per un po’ rimase a osservarla in
silenzio. Le finestre ormai erano per la maggior parte buie e
dall’interno non proveniva alcun rumore. Nell’aria calma c’erano
solo un vago frinire di grilli e il latrare lontano di un cane.
L’As’vaan
fece un gesto e subito un altro uomo gli si affiancò. “Mio
signore?” sussurrò una voce.
“Therved,
manda gli uomini a circondare questo posto, ma che stiano attenti a
non farsi sentire. Voglio prenderli di sorpresa.”
“Come
tu comandi, Khan.”
“Subito
dopo torna da me per il piano che abbiamo deciso.”
“Ai
tuoi ordini, Khan.”
Therved
si allontanò e Jeisym riprese a osservare l’edificio: una
costruzione vecchia ma ancora solida, con i muri spessi e il tetto
spiovente nel quale si aprivano a intervalli regolari degli abbaini.
Dal camino usciva appena un filo di fumo. Mentre guardava, le ultime
luci si spensero e la locanda precipitò nel buio.
Dopo
un po’ ricomparve Therved, che attraversò lo spiazzo illuminato e
raggiunse la porta. Bussò due volte.
All’interno
si udì un tramestio, ma nessuno rispose.
Therved
bussò di nuovo, con più forza.
A
quel punto nella porta si aprì uno spioncino che proiettò
all’esterno un raggio di luce. Una voce maschile chiese: “Chi è?”
“Chiedo
ospitalità per la notte,” rispose l’As’vaan con voce sommessa.
“La
locanda è chiusa.”
“Vi
prego, non so dove andare, mia moglie sta male.”
Al
di là della porta si udì qualcuno confabulare, la luce che
proveniva dallo spioncino ebbe un’oscillazione.
Approfittando
della distrazione offerta da Therved, accompagnato da quattro dei
suoi, Jeisym aggirò silenziosamente l’edificio, raggiunse le
scuderie e si arrampicò sul tetto. Da lì gli fu facile raggiungere
uno degli abbaini più bassi, attraverso il quale riuscì a poi
infilarsi all’interno.
Rimase
immobile cercando di farsi un'idea dell'ambiente: doveva essere
capitato in una camera, perché da più punti si levava un russare
regolare. Si voltò verso i suoi uomini, che apparivano solo come
vaghe sagome appena delineate dal chiarore delle stelle, ed emise un
breve sibilo. Essi si mossero rapidi, si vide qua e là il baluginare
di una lama e i dormienti smisero di russare uno dopo l'altro.
Si
spostarono nel corridoio, appena rischiarato da un lumino a olio, da
lì scesero le scale e raggiunsero il piano inferiore. Jeisym tese
l'orecchio e localizzò il punto in cui si stava svolgendo lo scambio
fra Therved e i gestori della locanda. Si mosse rapido in quella
direzione e presto incontrò il chiarore dorato di una lanterna. Si
sporse a guardare da dietro uno spigolo: tre persone, due uomini e
una donna, in abiti da notte, stavano parlamentando addossati a una
porta. Al di là, Therved recitava egregiamente la parte del
viaggiatore stanco che cerca una sistemazione per la notte.
Fece
un cenno e immediatamente i suoi uomini scattarono in avanti. Si
udirono il tonfo della lanterna che cadeva, un lieve tramestio e
qualche gemito soffocato, poi silenzio.
A
quel punto, Jeisym avanzò lento. “Chi è il padrone, qui?”
chiese.
I
tre prigionieri mugolarono qualcosa, si agitarono cercando invano di
liberarsi. Con glaciale calma, il Khan ripeté la domanda.
La
donna emise un gemito soffocato.
Jeisym
estrasse il pugnale e ne fece scintillare la lama alla debole luce,
mettendo in mostra il filo senza un'intaccatura. “Urla e sei
morta,” la avvisò.
La
donna sbatté le palpebre come per dire che aveva capito.
“Molto
bene,” proseguì Jeisym. Fece cenno all'uomo che la teneva stretta
di liberarle la bocca. “E ora dimmi: c'è qualche carrettiere in
procinto di partire, qui da te?”
“Manse,”
ansimò subito la locandiera, “Manse di Corvean. Ha preparato
tutto, andrà via domattina presto. È alla camera due.”
L'As'vaan
annuì lento. “Molto bene. C'è qualcun altro con lui?”
“Un
uomo e un ragazzo. Stanno dormendo.”
“Ehi,
che cos'è questo scompiglio?” brontolò Manse, svegliato di
soprassalto dall'irruzione di quattro predoni As'vaan. Si strofinò
gli occhi e fissò gli intrusi a uno a uno con riprovazione.
“Domattina devo partire presto,” disse in tono risentito.
Jeisym
si fece avanti e chiese: “Dov'è il ragazzo?”
Manse
si voltò a guardare un letto sfatto, quindi rispose: “E che ne so?
Sarà uscito a fare i suoi bisogni. Io dormivo.”
“E
l'uomo?”
Manse
fece spallucce. “Ah, quello di notte è sempre fuori. Gli piacciono
le donnacce.”
“Sono
amici tuoi?”
“Padre
e figlio, non so altro di loro. Siccome sono di Corvean, mi hanno
chiesto un passaggio. A mia moglie non piace che io dia passaggi a
sconosciuti, ma pagano bene e io mi rifaccio delle spese.” Fece una
pausa poi chiese: “Hanno fatto qualcosa di male, per caso?”
Jeisym
gli rivolse un sorriso ferino. “Tu
hai fatto qualcosa di male, Manse di Corvean: non si dicono le
bugie.” Gli puntò alla gola il pugnale.
“Ma
questa è la pura verità, mio signore,” protestò il carrettiere,
apparentemente incurante dell'arma che lo stava minacciando, “come
vedi, l'uomo e il ragazzo non sono qui.”
“Li
hai aiutati a scappare? Bada che so chi sono l'uomo e il ragazzo, e
non sono certo padre e figlio.”
Manse
a quel punto cambiò espressione. Annuì come chi vede le cose andare
esattamente secondo le previsioni e gli rivolse un sorriso placido.
Tranquillamente gli disse: “In ogni caso, giovane As'vaan, ormai ti
sono sfuggiti. Puoi accanirti su di me, ma non ti servirà a nulla,
perché Dras mi è testimone che io non so dove siano in questo
momento.”
“E
non sai nemmeno dove stanno andando?” La lama premette contro il
collo dell'uomo, facendone stillare qualche goccia di sangue.
Egli
però rimase imperturbabile. “Lo sa Dras.”
Jeisym
si fece indietro con il movimento di un puledro nervoso. “Non è
detta l'ultima parola,” ringhiò fissandolo con occhi di fuoco.
“Come ho trovato te troverò loro, fosse l'ultima cosa che faccio.”
§
Herich
si strinse nel mantello ed emise un sospiro. “Manca molto?”
chiese.
“Sei
stanco, principe?” s'informò Res.
“Un
po'.”
Il
soldato annuì. Per un ragazzo abituato a stare in biblioteca o a
recitare preghiere insieme ai chierici, anche quelle poche miglia,
percorse nel fresco della notte e su una strada lastricata, erano
state uno sforzo intenso. “Presto arriveremo a destinazione,” lo
rassicurò.
Werthyra
era già apparsa all'orizzonte, nitida nel chiarore dell'alba,
adagiata come un gioiello sull'ultima foschia che ancora ammantava i
campi.
Tutt'intorno
non si vedeva anima viva, ovunque regnava un silenzio estatico,
assoluto, nel quale a ogni passo si udiva addirittura il fruscio
delle vesti che si muovevano sui corpi.
Res
inspirò l’aria tersa, godendo della calma bellezza del mattino, e
si voltò verso il ragazzo come per suggerirgli di fare altrettanto.
Raggiunsero
Werthyra che il cielo aveva già perso i colori dell'alba. I primi
negozianti stavano cominciando ad aprire le botteghe e nella piazza
centrale il mercato era in allestimento. Le donne chiacchieravano
animatamente stendendo a terra i loro teli, sui quali disponevano poi
frutti di vari tipi e mazzi di verdure. Si approssimò un uomo dalla
barba grigia su un carretto trainato da un asino, si fermò in un
angolo della piazza e tirò fuori cassette piene di nastri, fermagli
per i capelli e cosmetici. Accanto a lui prese posto il maniscalco,
che dispose i suoi strumenti su una cassetta rovesciata e rimase ad
attendere clienti.
Res
adocchiò una bancarella che vendeva cibi caldi. Si rivolse al
ragazzo e a bassa voce gli disse: “Perdonami se non mi rivolgerò a
te con il titolo che ti spetta, ma in questi posti non è bene che la
gente sappia chi sei.” Poi, in tono più alto: “Ti vanno un po'
di frittelle, Herich?”
Il
più giovane tentennò. “Io, veramente...”
“Non
ti piacciono?”
“Non
le ho mai mangiate,” fu l'imbarazzata ammissione.
Res
gli sorrise con fare incoraggiante. “Sono un cibo povero, da
soldati. Per quello non le hai mai mangiate. Però ti assicuro che
ancora calde, servite con il miele e un po' di cannella, sono una
delizia.”
Senza
attendere risposta si avvicinò al banchetto e ne comprò un po'. Ne
porse una a Herich. “Attento che è calda,” gli raccomandò.
Il
ragazzo la prese con due dita. Dapprima ne staccò cauto un piccolo
pezzo, indeciso su come consumarla senza posate, poi l’assaggiò e
sul volto gli comparve un sorriso. Finì il resto in due bocconi.
“Piano,
se no ti bruci,” gli raccomandò Res.
“È
buona.”
“Quando
si entra in qualche città, le bancarelle che fanno le frittelle sono
la prima cosa che si va a cercare. Ancora prima della birra, qualche
volta.”
Il
ragazzo lo guardò con l'aria di non aver capito ed egli specificò:
“Ai soldati piacciono molto. Assieme alla birra, poi, sono
squisite.”
Herich
emise un sospiro e disse: “Mi piacerebbe essere un soldato.”
Res
scosse la testa. “Non credo. Tu hai visto i generali, finora. Hai
visto tuo fratello. La vita del soldato non è quella. È dormire per
terra, sopportare fame e intemperie, trovarsi sul campo di battaglia
in mezzo alla mischia con gente che ti colpisce da tutte le parti
senza nemmeno sapere cosa sta succedendo.”
Herich
alzò gli occhi su di lui e lentamente rispose: “Se dovessi
scegliere se essere come mio fratello o essere come te non avrei
dubbi, Res.”
“Non
ti rendi conto della stupidaggine che hai appena detto,” ringhiò
l'uomo, con voce improvvisamente dura.
Il
ragazzo lo fissò stupefatto. “Ma Res...” balbettò.
“Non
dirlo mai più.” Allungò il passo in modo da lasciarselo dietro le
spalle e in un silenzio cupo raggiunse una bottega che vendeva
equipaggiamenti da viaggio.
Controllando
che il principe non si allontanasse troppo, si immerse nella scelta e
successiva contrattazione del materiale adeguato. Le parole del
ragazzo lo facevano soffrire, forse proprio perché pronunciate con
tanta limpida spontaneità. Si chiese come avrebbe reagito Herich, il
cui sguardo ammirato gli bruciava costantemente addosso come il sole
su una piaga, se avesse saputo chi era veramente: probabilmente lo
avrebbe odiato o disprezzato. Come lui meritava, peraltro.
Lasciarono
la città nel primo pomeriggio, in sella a due cavalli di Yereia,
robusti e veloci. Res era soddisfatto di averli trovati: erano
costati molto, ma si trattava di soldi ben spesi, perché in generale
erano più resistenti dei cavalli degli As'vaan e sulla lunga
distanza erano in grado di lasciarli indietro. Ai lati della sella,
entrambi avevano delle bisacce con dentro il necessario. Niente cibi
da cuocere, per non essere obbligati a fare il fuoco ogni sera, e
niente di superfluo per non appesantire troppo le bestie.
Con
il resto dei soldi che gli aveva dato Manse aveva comprato una buona
spada per sé e una più leggera per il ragazzo, un arco con una
faretra di frecce e qualche rotolo di bende e dell'unguento per la
sua ferita, che nonostante le attente cure di Hjalmianna era ben
lungi dall'essere chiusa.
Imboccarono
la strada che li avrebbe condotti verso il Waerund in un silenzio
greve. All'orizzonte, davanti a loro, nubi cupe si andavano
addensando.
§
Jeisym
tese il braccio protetto dalla manica di cuoio imbottito e l'aquila
prese il volo con uno strido acuto.
L'As'vaan
fece poi scorrere lo sguardo su un recinto nel quale si muovevano
eleganti dei robusti destrieri di razza Yereian, e in tono distratto
osservò: “E così, ieri è venuto uno straniero e te ne ha
comprati due?”
“Sì,
mio signore,” confermò volenteroso un uomo alto e robusto, che
però al suo cospetto teneva le spalle ingobbite e il cappello
stretto fra le mani. “Uno del Fjorn, se non mi sbaglio di grosso.
Ha preso i più grandi.”
“Era
solo?”
“No,
mio signore. C'era un ragazzo con lui.”
Jeisym
sollevò interessato le sopracciglia. “Un ragazzo, dici?”
“Sì,
per tutto il tempo è rimasto in un angolo, con un cappuccio tirato
sugli occhi.”
“Hanno
per caso detto dove andavano?”
L’uomo
annuì con decisione. “Hanno detto che andavano a caccia nella
steppa, mio signore.”
“Molto
interessante,” rispose assorto Jeisym. “Ti ringrazio per queste
informazioni, mi sono molto utili.” Tirò fuori dalla scarsella
alcune monete d'oro e gliele consegnò, quindi si allontanò a passi
lenti al recinto, raggiunse il suo destriero e rimontò in sella.
Si
allontanò meditabondo dal mercante di cavalli. L'aquila tornò
planando in maestosi cerchi e si posò sul suo braccio. “Hai visto
niente, amica mia?” le chiese.
L'uccello
rimase muto.
Jeisym
alzò gli occhi su Therved, che gli si era affiancato, e disse:
“Questo significa che hanno almeno mezza giornata di vantaggio.”
“Se
non una,” fu la cupa risposta.
Il
Khan aggrottò le sopracciglia. “Possiamo riprenderli.”
“Prego
Halmaikah che accada presto, mio signore.”
Jeisym
non rispose e mantenne un'espressione impenetrabile. Aveva imparato a
conoscere il principe: era un ragazzino sensibile e intelligente ma
sprovveduto, che non sapeva nulla del mondo. In tutto il tempo che
aveva trascorso nella sua casa di Perechyra non era riuscito nemmeno
a racimolare il coraggio per tentare di uscire dal portone e di certo
le sue azioni non avrebbero mai potuto rappresentare un pericolo per
lui.
Era
l'altro che lo impensieriva: era un'ombra senza volto, scaltra e
decisa quanto il ragazzo era ingenuo e irresoluto. Sapeva muoversi,
sapeva combattere e di certo non gli mancava il coraggio.
Si
chiese chi fosse, perché stesse effondendo tanto impegno per
un'impresa che sembrava persa in partenza.
Se
era qualcuno che si era salvato ai templi di Os'lak, infatti, non
poteva ignorare che il mandante di tutto era il fratello maggiore del
ragazzo. Quindi che cosa voleva fare? Lo voleva riportare alla sua
città d'origine, ovvero nella tana della belva che già una volta
aveva tentato di sbranarlo, oppure la sua idea era di andare da
qualche altra parte?
Strinse
i denti con rabbia: il problema di quell'uomo misterioso non sarebbe
esistito, se lui non avesse creato i presupposti per farlo esistere.
Tornò con la memoria al momento in cui gli avevano deposto ai piedi
il ragazzo addormentato e lui aveva deciso di risparmiarlo per trarne
un ulteriore guadagno.
Anche
presso la sua gente, che pure viveva di preda e di rapina, erano
molteplici le leggende che ammonivano a guardarsi dalla troppa
avidità. Nell'illusione di riuscire ad accaparrarsi un pezzo di
carne più grosso, il cane di una vecchia favola lasciava cadere
quello che già stringeva tra le fauci e alla fine rimaneva senza
niente.
Si
chiese se anche a lui sarebbe capitata la stessa cosa e si chiese
cosa avrebbe detto in quel caso suo padre, che dal palazzo di
Jessartiaz vigilava sulle sue azioni per decidere se fosse degno di
succedergli o no.
La
voce di Therved lo distrasse dalle sue meditazioni: “Ti vedo
pensieroso, Khan.”
Jeisym
gli rivolse uno sguardo in tralice e rispose: “Stavo pensando che
questa è la mattina ideale per cavalcare.” Spronò il suo morello,
che subito scattò in avanti distaccando il resto del gruppo.
§
Rannicchiato
nel suo mantello, infreddolito e stanco, Herich osservava il
paesaggio farsi sempre più indistinto mentre la luce si affievoliva
in un crepuscolo senza colore. L'unico rumore che si udiva era il
monotono scrosciare della pioggia.
Si
trovavano in quello che rimaneva di un antico tempio. Gli arredi e
gli ornamenti erano scomparsi, rubati forse, o semplicemente
consumati dal tempo, ma rimaneva la possente struttura
architettonica, che faceva pensare a un culto solenne, magnifico,
dedicato a una divinità dal tremendo potere.
Si
chiese se nei recessi oscuri della struttura aleggiasse ancora
qualche vestigia della presenza di quel dio.
Ripensò
al tempio di Dras, provò a immaginarlo senza alcun ornamento,
ridotto ai soli muri. Chissà se sarebbe apparso splendido e sinistro
come quello che stava contemplando?
La
voce di Res lo distrasse: “Sei stanco, principe?”
Herich
annuì. “Sì,” rispose semplicemente. Si passò una mano fra i
capelli umidi, cercò di sciogliere le membra irrigidite dalla lunga
cavalcata. Ormai erano giorni che trascorrevano le ore di luce in
sella, si accampavano al crepuscolo, consumavano un pasto frugale,
dormivano per terra e ripartivano all'alba. In quell'occasione per
fortuna avevano trovato un riparo, ma era accaduto anche che
dormissero sotto la pioggia, con l'esigua protezione di un telo
cerato.
Anche
Res era stanco. Ogni tanto lo vedeva tremare, e sapeva che non era
non per il freddo. Sapeva che la ferita gli faceva male, gli capitava
di sorprenderlo con un'espressione tesa sul viso, o notava che si
muoveva rigido sulla sella, come se determinate posizioni gli
provocassero dolore. Il taglio non si era ancora chiuso completamente
del resto. Lo aiutava a medicarsi, ormai aveva imparato a dominare la
repulsione che la piaga gli suscitava, e ogni sera le bende che gli
toglieva erano macchiate di sangue.
Guardò
fuori: la luce era ormai scemata del tutto. Si vedeva qualcosa del
paesaggio solo all'orizzonte, dove il punto in cui il sole era calato
manteneva un debole lucore grigiastro, che si rifletteva sulle
ondulazioni della pianura.
“Quando
arriveremo, Res?” chiese. La sua voce si riverberò sulle volte del
soffitto, dando l'idea che a porre quella domanda fossero decine di
creature appostate dove la luce del fuoco non riusciva a giungere.
Il
soldato prese un bastoncino dalla punta carbonizzata e si sedette
accanto a lui. Cominciò a tracciare dei segni sul pavimento. “Questa
è Perechyra,” spiegò, disegnando una X. Da lì tracciò una lunga
linea e disse: “Questa è la strada che stiamo percorrendo. A
sinistra abbiamo le steppe di As'del e a destra la regione di Rodr.”
“Dove
c'è Lidas?”
“Esatto,
è al confine con il Waerund.”
Herich
emise un sospiro. “È lì che è nato Adale.”
“Chi?”
“Adale
di Lidas, un grande eroe del passato.” Il ragazzo rimase in
silenzio per qualche istante, quindi soggiunse: “Anche se non sarà
mai grande come Resen-Lhaw.”
A
quelle parole fece seguito un tale silenzio da far pensare che la
pioggia avesse smesso di cadere e il fuoco di crepitare. Herich si
girò sentendo distintamente il fruscio dell'abito e il rumore dei
capelli che gli si spostavano sulle spalle: immobile, lo sguardo
rivolto verso il buio delle bifore vuote, Res sembrava un blocco di
pietra.
“Ho...
detto qualcosa che non va?” mormorò il ragazzo.
Si
udì lo schiocco del bastoncino che si spezzava. “Sì.”
Di
nuovo calò un silenzio greve come una pietra tombale. Dopo un po',
Herich osò chiedere: “Che cosa c'è, cos'ho detto di sbagliato?”
Con
voce appena udibile, senza girarsi il soldato sibilò: “Tu ti
aggrappi alle stupidaggini che leggi sui tuoi libri e non hai idea di
come siano le cose veramente. Non te lo chiedi nemmeno: per te la
realtà è quella delle tue pagine di storie epiche, non hai mai
visto un campo di battaglia, non ti sei mai trovato in uno scontro,
in preda a dolore, fatica e terrore di morire, mentre vedi cadere i
tuoi compagni davanti ai tuoi occhi e senti le loro urla di
agonia...” Si interruppe, il ragazzo lo vide ingobbirsi
ulteriormente, stringere i pugni come se avesse voluto frantumarseli.
“Resen-Lhaw, il tuo
Resen-Lhaw di cui hai letto tante imprese eroiche, esiste solo nelle
pagine dei tuoi stupidi libri. Nella realtà era un mentecatto
miserabile, che ha mandato al macello le sue truppe perché non era
in grado di comandarle.”
“Non
è vero!” sbottò Herich.
Il
soldato si voltò di scatto verso di lui. I suoi occhi azzurri si
erano fatti taglienti come lame. “Non è vero, dici? E tu come fai
a saperlo? L'hai conosciuto, per caso?”
“Lui
è stato un eroe. Lo sanno tutti che la Guerra Orientale si è
conclusa con una vittoria solo grazie al suo eroico sacrificio.”
“Quello
che tutti sanno è solo una montagna di balle. Sono stupidaggini,
buone solo per gli stolti e i creduloni.”
“E
tu come fai a dirlo? L'hai conosciuto, per caso? Oppure anche ai
tempi della Guerra Orientale eri solo un soldato buono a nulla e
disprezzato da tutti come ti ho conosciuto a Dyat? Tu sei invidioso
di lui, ecco che cosa sei!”
A
quelle parole, Res si alzò in piedi con minacciosa lentezza,
arrivando a torreggiare su di lui. Herich deglutì a vuoto e
indietreggiò di un passo, ma l'altro, immobile, si limitò a
rivolgergli un lungo sguardo che aveva il sapore amaro della
delusione. Alla fine, sempre in un silenzio glaciale gli girò le
spalle e si allontanò, stese il proprio giaciglio in un angolo della
stanza e si coricò voltandogli la schiena.
Raggomitolato
nel suo mantello, Res sentiva Herich singhiozzare piano. Non era
pentito di avergli rivolto quelle parole dure: il ragazzo era stato
tenuto per troppo tempo lontano dalla realtà ed era bene che
cominciasse a capire che tra le pagine dei suoi libri e la vita reale
c’era spesso una profonda differenza.
Era
bene che abbandonasse certi puntigli infantili, se in un futuro
doveva diventare re, e cominciasse a rapportarsi con i fatti concreti
e non con la rappresentazione ideale che aveva degli stessi.
Aveva
conosciuto soldati del genere, e di solito tendevano a morire alla
prima battaglia. Alla seconda, se erano particolarmente fortunati.
Se
al contrario erano molto sfortunati, sopravvivevano mutilati o
invalidi, e avevano tutto il resto della vita per capire la
differenza tra la loro immagine ideale di battaglia e la guerra vera.
Generalmente,
il miglior servizio che si poteva fare a costoro era proprio aiutarli
ad aprire gli occhi, possibilmente prima che lo facesse la guerra.
Si
mosse adagio, cercando di raggiungere una posizione in cui il fianco
smettesse finalmente di pulsargli. Sfiorò con le dita il bendaggio e
anche quella pur debole pressione fu in grado di spedirgli attraverso
il corpo una fitta di dolore che gli fece venire la pelle d’oca.
Emise un sospiro e si costrinse a ignorare le proprie condizioni. In
ogni caso, non avrebbe dovuto preoccuparsene ancora per molto.
§
L’alba
giunse fredda e lugubre. Aveva smesso di piovere, ma il terreno era
disseminato di pozzanghere grigie e cupe come specchi di piombo.
L’aria
era immobile, il silenzio assoluto.
Nemmeno
il verso di un uccello turbava quella quiete sinistra.
I
due cavalli procedevano a passo lento, arrancando nel terreno
fangoso. Res si voltò indietro preoccupato: sebbene avessero
guadagnato del vantaggio sugli As’vaan, quel terreno rischiava di
dissolverlo, perché cavalli più leggeri vi si sarebbero mossi molto
meglio dei loro. Non poteva però aumentare l'andatura, perché se
una delle bestie di fosse azzoppata sarebbe stata la fine del loro
viaggio.
Herich
procedeva a qualche passo di distanza, silenzioso e con la testa
china. Probabilmente si era pentito di ciò che aveva detto la sera
prima, ma non sapeva come fare per scusarsi.
Non
disse nulla. Non era più il momento di facilitare le cose al
ragazzo, ma soprattutto non era più il momento di approfondire una
conoscenza che a breve sarebbe dovuta comunque finire. Alzò gli
occhi sul cielo grigio e poi li volse all'orizzonte, dove le brume
del terreno si confondevano con le nubi basse. Qua e là sorgeva
qualche albero spoglio, o qualche rovina in lento disfacimento.
Trasse
da una bisaccia della sella una pergamena e la srotolò sull'arcione,
rivelando una mappa. Seguì col dito uno dei percorsi che vi era
tracciato, alzando di tanto in tanto la testa a scrutare i dintorni.
Prese poi la bussola che aveva al collo, ne aprì il coperchio e
rimase a fissare l'ago fino a che le sue oscillazioni non cessarono
quasi del tutto.
A
quel punto si fece udire la voce di Herich: “Manca molto a Dyat?”
Res
si voltò nella sua direzione: il ragazzo lo stava fissando dubbioso,
forse si aspettava una risposta brusca. “Entro questa sera
raggiungeremo l'Edayr,” si limitò a informarlo, “seguendo il suo
corso arriveremo a Dyat in un'altra mezza giornata di marcia.”
Il
più giovane si rizzò sulle staffe come per abbracciare una porzione
maggiore dell'orizzonte, poi chiese: “Quindi siamo quasi arrivati?”
“Non
è finita finché non è finita, principe.”
Il
ragazzo non replicò, Res tornò a concentrarsi sulla mappa.
Procedettero in un silenzio rotto solo dal rumore degli zoccoli e
dallo sporadico tinnire dei finimenti.
§
Jeisym
spinse il cavallo su una piccola altura e da lì rimase a lungo a
osservare l'orizzonte. L'aquila volteggiava sopra di lui in lenti
cerchi, ma rimaneva in silenzio.
“Significa
che non vede niente,” considerò Therved, rivolgendo un'occhiata al
maestoso rapace.
“Andiamo
avanti,” fu la secca risposta, poi il Khan spronò il destriero e
discese verso una pianura appena ondulata, spoglia, disseminata qua e
là dei resti di antichi templi.
Due
file di orme si perdevano all'orizzonte, parallele come i solchi
lasciati da un carro.
Spronò
il destriero e raggiunse le impronte, smontò di sella e si chinò a
osservarle. I bordi erano più secchi rispetto al fondo, nel cavo di
alcune di esse si era già depositato qualche granello di sporcizia.
“Sono vecchie di un giorno,” ringhiò fra i denti. Di nuovo alzò
gli occhi sull'aquila, ormai così alta da essere solo un puntino nel
cielo grigio. Conosceva Shaar e tutti i modi in cui essa volava:
quello indicava chiaramente che stava scrutando ogni anfratto, ma non
riusciva a trovare ciò che stava cercando.
“Maledetto,”
sibilò. Riandò con la mente alla figura nera e silenziosa che aveva
visto al mercato degli schiavi. Ormai cominciava a convincersi che
Therved avesse ragione e che stessero in realtà inseguendo un demone
di Vurar. Si chiese se esso li avrebbe infine condotti alla rovina
come voleva la leggenda.
Rimontò
a cavallo e prese a seguire le tracce, gettando di tanto in tanto uno
sguardo all'aquila, che continuava a volteggiare in un silenzio
attento.
Raggiunse
dopo un paio d'ore quello che rimaneva di una costruzione che un
tempo doveva essere stata magnifica: una navata immensa, sostenuta da
possenti pilastri, con finestre alte venti braccia, in cui si
coglievano ancora le vestigia di splendidi rosoni. Dal tetto sorgeva
una cupola maestosa, altissima, che un tempo doveva essere stata il
punto di riferimento per i viaggiatori di tutta la regione. Jeisym la
immaginò con la copertura di lucido rame che doveva aver avuto
all'epoca e involontariamente strinse gli occhi come per proteggersi
da un sontuoso sfolgorare di luce.
Le
impronte che stava seguendo entravano e uscivano dall'edificio, segno
che i fuggitivi vi avevano trovato riparo per la notte.
Lo
raggiunse con il suo seguito, smontò da cavallo e vi entrò
accompagnato da Therved.
La
polvere dei secoli aveva coperto qualsiasi cosa, per cui seguire le
tracce era molto facile. Jeisym si chinò a osservare il pavimento e
disse: “Sono entrati conducendo i cavalli a mano e stava di sicuro
piovendo, perché hanno lasciato gocce dappertutto. I cavalli erano
stanchi, guarda come trascinavano gli zoccoli.” Si alzò, fece
girare lo sguardo tutt'intorno, poi lo fissò verso un punto alla
base di un pilastro. “Là hanno messo i cavalli. Solo uno li ha
rigovernati, direi l'uomo, visto che le impronte dei piedi sono
grandi.” Fece un sorrisetto e soggiunse: “Il principe ovviamente
non si abbassa a lavori così triviali.” Si chinò a osservare un
escremento equino e confermò: “Come pensavo: vecchio di un
giorno.”
Si
rialzò, fece qualche passo nell'ampia sala. Una volta imparato
l'alfabeto, per così dire, le impronte diventavano un libro che
raccontava una storia. I due erano stati uno accanto all'altro e
probabilmente avevano parlato del percorso, perché con un carboncino
era stata tracciata una rozza mappa sul pavimento. Il disegno però
non era completo e il bastoncino giaceva spezzato in due, segno che a
un certo punto per qualche motivo l'atmosfera doveva essersi
raffreddata. Uomo e ragazzo avevano poi dormito lontani, uno accanto
al fuoco – verosimilmente il ragazzo – e l'altro a ridosso di una
parete, il che era strano, perché nei bivacchi precedenti erano
sempre stati uno accanto all'altro.
Il
problema però, al di là dell'interessante lettura, rimaneva
invariato: mantenevano un giorno di vantaggio. Certo con quel terreno
il vantaggio si sarebbe ridotto, gli yereian erano troppo pesanti e
sicuramente stavano affondando nel fango fino ai nodelli, ma la
distanza da colmare rimaneva comunque enorme e la meta si stava
inesorabilmente avvicinando.
Therved
si avvicinò e disse: “Non meno di un giorno, Khan.”
Jeisym
si girò a fissarlo con durezza. “Che cosa?”
“Il
loro vantaggio.”
“Lo
so, per tutti gli Abissi di Ghadar. Lo so benissimo. Ma possiamo
ancora farcela.”
“Sai
che non è così, Khan. Dovrebbe intervenire Halmaikah in persona, e
sbarrare loro il passo.”
Jeisym
emise un sospiro e rispose: “Halmaikah si comporta come tutte le
belle donne: chiede, chiede e chiede, ma quando è il momento di dare
fa finta di essere distratta. Si limita a segnare col pollice i
purosangue più pregiati e a vegliare sulla bellezza della steppa, ma
faccende triviali come il valore di un figlio agli occhi di suo padre
non le interessano.”
“Non
dire queste cose, Khan,” lo ammonì Therved. Spostò fugacemente lo
sguardo verso l'alto, come per accertarsi che effettivamente la
neghittosa divinità non stesse prestando attenzione alle loro
parole.
“Halmaikah
sa che è vero,” rispose Jeisym con un'alzata di spalle, “e
siccome è una divinità, fa comunque quello che le pare.”
Uscì
dall'edificio in rovina e per un po' scrutò assorto il cielo. Shaar
non era più in vista, ma il fatto che non si vedesse in giro nessun
altro uccello suggeriva che fosse posata non lontano.
Fece
qualche passo, un refolo di vento gli scompigliò i capelli candidi e
arruffò le criniere dei destrieri. Si voltò verso i suoi uomini,
che pur con l'aria di essere assorti nei loro pensieri lo stavano
fissando con aspettativa.
“Therved!”
chiamò.
Subito
il suo secondo lo raggiunse. “Mio signore?” chiese.
“Therved,
il cinghiale che non è capace di deviare la sua carica finisce
dritto nella rete del cacciatore. Quello scaltro, invece, che sa
frenare il proprio impeto e trovare altre strade, ottiene ciò che
vuole.”
L'uomo
lo fissò stupito. “Mio signore?”
“È
inutile che sfianchiamo i nostri cavalli per colmare una distanza che
nemmeno Halmaikah, con i suoi destrieri celesti, riuscirebbe a
coprire. Nys e Den'en sono ancora presso il principe Dewrich, saranno
loro ad andare incontro ai fuggitivi e a uccidere il ragazzo.”
“Sempre
ammesso che siano ancora vivi,” rispose Therved.
“Sanno
badare a loro stessi, inoltre Dewrich sa che se li uccidesse dovrebbe
poi guardarsi dalla mia vendetta.”
“Ti
faccio notare, Khan, che il principe Dewrich conta di essere re a
breve. Avrà un intero esercito a proteggerlo dalla tua vendetta.”
Jeisym
scosse la testa. “Non così in fretta: succederà al padre solo
alla sua morte, come in tutte le case regnanti che si rispettino. Per
ora è solo l'erede al trono.” Raggiunse il suo cavallo e rimontò
in sella, quindi proseguì: “E comunque, nemmeno un esercito di
centomila soldati può proteggere qualcuno dal veleno o dalla freccia
di un sicario.”
Therved
montò in sella a sua volta, affiancò il Khan e gli chiese:
“Cos'avresti in mente, mio signore?”
“Manderò
Shaar a raggiungerli al monastero di Voldas. L'aquila porterà loro
un messaggio. Non dovranno fare altro che appostarsi da qualche parte
lungo la strada per Dyat e ucciderli quando li vedranno arrivare.”
Therved
rimase in silenzio.
Jeisym
lo fissò aggrottando le sopracciglia e gli chiese: “Non sei
convinto?”
L'altro
continuò a tacere.
“Parla,”
gli ingiunse a quel punto il Khan. “Voglio sapere quali sono i tuoi
dubbi.”
“Un
piano del genere ha bisogno davvero della mano benevola di Halmaikah
per funzionare, Khan. Presuppone che Nys e Den'en siano ancora vivi e
liberi, che possano spostarsi senza attirare l'attenzione del
principe Dewrich e che riescano a individuare il ragazzo e a
ucciderlo. Non dimenticare poi che è accompagnato da un demone di
Vurar, che ha abbattuto da solo sei guardie e il comandante Risskel.”
“Nemmeno
i demoni sono immuni alle frecce avvelenate, che io sappia,”
rispose Jeisym, quindi soggiunse: “Inoltre, è l'unico modo che
abbiamo per tentare di fermarlo prima che arrivi a destinazione. Noi
da qui non riusciremmo mai a raggiungerlo in tempo.”
§
Nys
finì di pettinarsi i lunghi capelli bianchi e se li acconciò in una
treccia che poi fermò con un laccio di cuoio. Raggiunse gli spalti
del monastero fortificato di Voldas e per un po' rimase a guardare
l'orizzonte. La pianura si estendeva verde e ondulata fino alle
pendici dei monti Kelis ormai coperti delle prime nevi, nel cielo
terso vi era solo qualche rara nube. Il vento che sussurrava
nell'erba alta gli comunicò un'atroce fitta di nostalgia.
Udì
dei passi alle spalle e subito si girò con un movimento istintivo,
mentre la mano gli correva al pomo della spada.
“Sono
io,” lo rassicurò Den’en.
“Dov’eri?”
“Ho
fatto qualche scambio con la spada. Visto che dobbiamo stare qui,
tanto vale approfittarne.” A torso nudo, incurante del vento gelido
che spirava dalle vette dei Kelis, si passò le mani fra i capelli,
che a differenza degli altri As’vaan portava corti. “Che c’è
di nuovo?” chiese.
Nys
alzò le spalle. “Niente. Avremmo fatto meglio a rimanere accampati
fuori, secondo me.”
“Avremmo
dovuto procurarci provviste ed equipaggiamenti per stare fuori così
a lungo. E poi il principe avrebbe capito che diffidiamo di lui al
punto da non voler stare chiusi da qualche parte con lui.”
“Io
credo che lo sappia già,” obiettò Nys.
L’altro
gli si affiancò e a sua volta lasciò scorrere lo sguardo sulla
pianura deserta. Rimase in silenzio per un po', poi disse:
“Quest’attesa è snervante. Mi sento come se fossimo due lupi in
mezzo a un branco di mille cani. Certo, per ora non ci fanno niente,
ma come potremmo difenderci, in due, se il principe decidesse di
eliminarci?”
“Il
principe non può eliminarci. Sa bene che la vendetta sarebbe
terribile.”
Den’en
emise uno sbuffo infastidito. “È come stare sotto una lama sospesa
a un crine di cavallo.”
“A
proposito di cavalli,” sospirò Nys, “Quanto vorrei fare una
bella cavalcata. Il mio baio è così veloce che quando galoppa ti fa
lacrimare gli occhi, ti sembra di volare.” Assunse un’espressione
sognante.
L’altro
gli diede una gomitata e replicò: “Non sarà mai veloce come il
mio sauro.”
Il
primo stava per protestare quando dal cielo provenne un lungo strido.
Simultaneamente alzarono lo sguardo e videro che un’aquila si stava
approssimando a gran velocità.
Subito
Den’en si fece ombra con la mano e scrutò il rapace in
avvicinamento. “È Shaar!” esclamò alla fine, “È il
messaggero del nostro signore.” Si fece indietro per lasciare
spazio all’aquila.
Nys
sorrise e disse: “Finalmente Halmaikah ha ascoltato le nostre
preghiere e il Khan ci manda a chiamare.”
Il
rapace si posò solenne ed essi si accorsero che aveva un piccolo
rotolo legato a una zampa.
Den’en
lo staccò delicatamente e lo svolse, rivelando un testo scritto in
caratteri fini e regolari. Alzò lo sguardo sul compagno e disse:
“Meglio andare in un posto più tranquillo.”
L'altro
annuì. “Scendiamo,” propose.
Mentre
l'aquila riprendeva il volo e si allontanava con lenti battiti d'ala,
i due abbandonarono gli spalti e raggiunsero un anfratto appartato
del giardino in cui sorgeva l'altare di Jechen. Si guardarono
rapidamente intorno per accertarsi di essere soli, quindi Den'en
riprese il biglietto che nel frattempo aveva nascosto.
Man
mano che procedeva con la lettura, la sua espressione virava verso
una via di mezzo tra stupore e preoccupazione. Quando ebbe finito,
rialzò la testa e disse: “Questa, poi...”
Nys
si avvicinò incuriosito. “Brutte notizie?” chiese, scrutando a
sua volta la piccola pergamena.
“Strane,
più che altro. Il nostro signore ci chiede di andare verso la città
di Dyat e di fermare il fratello del principe Dewrich prima che vi
giunga. Specifica di non dire niente al principe.”
“Il
fratello del principe? Ma non era stato ucciso?”
Den’en
si strinse nelle spalle. “A quanto pare, no.”
“Non
ci capisco niente.”
“Nemmeno
io, ma il nostro signore ci ordina di abbandonare il monastero senza
farci vedere e recarci alla strada che conduce a Dyat. Il ragazzo
viaggia con un uomo di corporatura possente, entrambi montano cavalli
Yereian.”
“Beh,
allora andiamo a prendere le nostre armi e i cavalli,” disse Nys.
“Non
così in fretta, amici miei,” ammonì una voce alle loro spalle.
I
due dapprima si immobilizzarono, poi si girarono e si trovarono
davanti il principe Dewrich, in armatura e seguito da una torma di
guerrieri.
Questi
si fece avanti lentamente. La sua espressione era in apparenza
tranquilla, ma suoi occhi verdi fiammeggiavano. Stese la mano e
Den’en dopo qualche esitazione vi depose la pergamena. Il principe
la strinse in pugno e disse: “E così, il mio caro fratello è
sfuggito alla morte e ora sta tornando a reclamare il trono?
Decisamente efficienti i predoni di As'del, non c’è che dire. Una
sola cosa vi avevo chiesto: uccidere quel piccolo bastardo.” Fece
un sospiro come di esasperazione, poi proseguì: “Ho sborsato
migliaia di monete d’oro per questo lavoro, e chi sta arrivando in
città adesso? Proprio lui. Mi sa che dovrò provvedere
personalmente.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Resen-Lhaw 9
Carissimi
lettori, adoratissime lettrici,
siamo
giunti alla fine dell’ennesimo mappazzone.
Devo
a tutti voi un grandissimo ringraziamento, per avermi seguito,
incoraggiato, consigliato e commentato, per avermi comunicato le
vostre idee e le vostre impressioni e per avermi dato i vostri
suggerimenti.
Come
dico sempre, una storia non esiste in sé, prende vita se qualcuno la
legge.
Quindi
grazie a tutti voi per aver dato vita alla mia storia.
Capitolo
9
Il
principe Dewrich spronò il suo roano con un colpo di tacco che
spinse l'animale a sgroppare infastidito. “Buono,” gli ingiunse,
stringendo le ginocchia e raddrizzando la schiena. Rinsaldò la presa
sulle redini e il destriero arcuò il collo portando le orecchie
all'indietro. “Buono!” ripeté il principe a voce più alta.
Investita
in pieno dal sole della tarda mattinata, Dyat era come una bella
donna che si mostrava ma poi era restia a concedersi. Il palazzo
reale letteralmente scintillava, candido e splendente nella luce
tersa; spinti dal vento, i suoi rossi vessilli si torcevano in volute
sensuali.
Strinse
i denti: aveva passato la vita a prepararsi per essere un giorno il
signore di quel palazzo e di tutto il Daishrach. Aveva percorso la
Via della Spada, consacrandosi a Jechen, e aveva sparso sudore,
lacrime e sangue, perché la Via non era mai stata facile. Non appena
aveva avuto l'età giusta, aveva cominciato a seguire il padre in
ogni missione, in ogni incontro diplomatico e in ogni celebrazione.
Su sua concessione, aveva esercitato la giustizia su feudi lontani o
ricondotto all'obbedienza nobili recalcitranti. Era stato
inflessibile in quelle circostanze, perché così ci si aspettava che
dovesse essere un re, e suo padre l'aveva ogni volta avvallato, anche
quando i cortigiani mormoravano sulla sua mano pesante o sulla sua
mancanza di pietà.
Non
era stato facile resistere a quelle ondate di biasimo, sostenere
quegli sguardi di muta accusa, ma ogni volta si era imposto di
riuscirci.
Non
si era mai mostrato debole, tentennante o pavido, nemmeno quando in
realtà era spaventato a morte o non sapeva che fare.
Aveva
sopportato qualsiasi cosa, in vista del futuro ruolo di sovrano.
E
poi era arrivata una stupida cerimonia, una faccenda da comari che
fanno e tolgono il malocchio, e in un istante tutto era svanito: il
prescelto
era suo fratello, a lui non sarebbe rimasto altro che qualche
miserabile ruolo secondario a corte, o magari, se suo fratello si
fosse dimostrato buono,
il comando di una parte dell'esercito. Non di tutto, naturalmente,
per scongiurare il rischio di rivolte.
Lui,
il maggiore, il più forte, il guerriero consacrato, avrebbe dovuto
ritirarsi in buon ordine di fronte a un moccioso che aveva paura
della propria ombra, debole, inetto e irresoluto. L'acciaio avrebbe
dovuto cedere il passo alle piume, il leone al coniglio.
Si
chiese se Dras fosse compiaciuto di quel raffinato scherzo, se
dall'alto del suo trono celeste se ne stesse godendo gli effetti.
Rivolse al cielo uno sguardo di sfida.
Tornò
poi a fissare la città: c'era una sola strada per arrivare a Dyat,
ovvero quella che attraversava le Cascate Grandi. C'erano anche altre
entrate, naturalmente, che lui conosceva perché fin da giovanissimo
si era posto l'obbligo di sapere tutto
della città in cui avrebbe dovuto regnare, ma che senza dubbio il
suo stupido fratellino, perso nei libri di epica e nelle
giaculatorie, ignorava completamente.
Quella
considerazione gli fece per l’ennesima volta rivolgere il pensiero
all’identità dell'uomo che lo stava accompagnando. Per quanto ci
si fosse arrovellato, non era riuscito a giungere a una conclusione.
Non gli risultava che qualcuno, tra gli uomini che aveva scelto per
scortarlo, gli fosse particolarmente affezionato. Herich aveva
chiesto che alla spedizione fosse aggregato quel soldato di mezz'età
che si chiamava Res, o qualcosa del genere, ma si trattava di un
inetto, un mezzo scemo che forse gli era piaciuto proprio per la sua
aria da grosso orso stupido.
Un
As'vaan, forse? Magari Jeisym in persona? Possibile che Herich fosse
stato in grado di contrattare la propria salvezza promettendogli una
ricompensa se fosse riuscito a riappropriarsi del trono?
Abbandonò
quelle considerazioni con una smorfia di fastidio. Qualsiasi cosa
fosse successa, la certezza era una: chi avrebbe dovuto uccidere
Herich non l'aveva fatto, e ora suo fratello, assistito da un
misterioso accompagnatore, stava arrivando a rompergli le uova nel
paniere, a togliergli quello che gli spettava per diritto di nascita,
a fare di lui un miserabile subalterno in quello che a tutti gli
effetti sarebbe dovuto essere il suo
regno, il regno di Dewrich il Terribile, signore del Daishrach.
Fermò
il cavallo su un'altura e da lì rimase a contemplare le Cascate
Grandi, di cui anche a quella distanza percepiva il rombo cupo. Fissò
di nuovo la strada che conduceva alla città, e questa volta non lo
fece con l'occhio colmo di nostalgia e risentimento dell'amante
defraudato, ma con quello distaccato e preciso del condottiero che
deve elaborare una strategia.
§
Herich
gettò uno sguardo all'Edayr, di cui la strada seguiva il corso, e la
vista del grande fiume gli comunicò una sorda sensazione di disagio.
Con
un gesto quasi inconsapevole si trovò a voltarsi indietro, verso la
strada che avevano percorso, e percepì nei confronti di essa
un'acuta fitta di nostalgia. Come già gli era successo in vista di
Perechyra, rimpiangeva il rassicurante limbo del viaggio, nel quale
si aspetta qualcosa che comunque accadrà dopo,
e quasi si può fare finta che quel qualcosa non esista.
Teoricamente
avrebbe dovuto essere contento: stava per tornare a casa, dove il re
suo padre sarebbe impazzito di gioia nel rivederlo e tutti gli
avrebbero fatto festa. Era certo che sarebbero stati proclamati
dodici giorni di festeggiamenti, così come erano stati senza dubbio
proclamati dodici giorni di lutto alla notizia della sua morte, e poi
sarebbe cominciata la sua istruzione in vista dei nuovi compiti a cui
sarebbe stato destinato: niente più studi da chierico, ma arte della
guerra e del buon governo.
Ma
invariabilmente, quando pensava al futuro, ricomparivano i dubbi e le
preoccupazioni: sarebbe stato in grado di governare? Sarebbe riuscito
ad avere la giusta inflessibilità, il giusto distacco? Sarebbe
riuscito a essere imparziale o in ogni occasione avrebbe seguito le
emozioni momentanee a scapito della ragione e del calcolo?
Si
voltò verso Res, di cui percepiva con la coda dell'occhio la
massiccia presenza. Dalla notte nel tempio non avevano scambiato che
poche parole, perlopiù inerenti il viaggio o altre faccende
pratiche. Sentiva che qualcosa si era incrinato fra loro e forse,
nell'imminenza dell'arrivo e di tutto quello che sarebbe seguito, era
giunto il momento di chiarirsi. “Res,” disse.
Il
soldato si voltò e alzò gli occhi su di lui. “Principe?”
Herich
si morse irresoluto il labbro inferiore, poi mormorò: “Res... io
volevo dirti che mi dispiace per quello che ti ho detto. Erano cose
che non pensavo, le ho dette in un momento di rabbia, perdonami.”
“Non
hai bisogno di scusarti con me, principe,” fu la distaccata
risposta.
“Invece
sì,” insisté il ragazzo, alzando leggermente la voce. “Ti ho
offeso senza motivo, quindi ti chiedo scusa.”
Il
soldato non replicò, lui dopo un po' riprese: “Forse ero nervoso.
Cioè, lo sono. E sono spaventato, anche. Finché eravamo lontani,
era come se certe cose non esistessero, ma adesso non posso più
ignorarle, non credi?”
“No,
non puoi, principe.”
Herich
emise un sospiro, poi disse: “Già, è quello che temevo. Tu cosa
pensi che succederà quando arriveremo?”
“Nella
migliore delle ipotesi, principe, entreremo in città e tu andrai a
presentarti a Sire Evertas.”
Il
ragazzo deglutì mentre un'oscura sensazione di minaccia lo
pervadeva. “E nella peggiore?”
“Ci
sarà da combattere.”
Herich
non replicò. Quella notte aveva fatto un sogno che l'aveva lasciato
turbato e inquieto, forse anche più del pensiero di quello che
sarebbe successo una volta giunto a Dyat. Era cominciato come sempre:
aveva visto il Leone Rosso di spalle, mentre fissava sdegnoso il
golfo di Brielar dalle acque arrossate di sangue. Come sempre gli si
era avvicinato e l'aveva chiamato, e lì era accaduto il fatto che
l'aveva turbato: a differenza delle altre volte, egli si era voltato
verso di lui mostrandogli finalmente il volto.
Ricordava
molto bene il sogno che aveva fatto presso i templi di Os'lak, alla
viglia della cerimonia. Allora l'eroe era rimasto di spalle, ma una
voce aveva detto: Si
rivelerà nel momento del bisogno.
Alzò
di nuovo lo sguardo su Res, aprì la bocca con l'idea di
parlargliene, ma poi la richiuse senza aver proferito verbo. Dopo
quello che era successo nel tempio, era certo che ciò che aveva da
dire l'avrebbe fatto infuriare e preferì rimanere in silenzio.
§
“Torniamo
indietro, mio signore,” propose per l'ennesima volta Therved.
Jeisym
aggrottò caparbio le sopracciglia e rispose: “Ti ho detto di no.
Sul pantano abbiamo guadagnato parecchio terreno, l'ho visto dalle
tracce. Possiamo ancora riprenderli, o almeno possiamo dare man forte
a Den'en e Nys, e poi tornare indietro tutti insieme.”
“Tornare
indietro dopo aver ucciso il principe ereditario del Daishrach alle
porte di Dyat, mio signore? Come pensi che fuggiremo?”
“I
nostri cavalli sono più veloci.”
“Ma
sono anche stanchi per tutti questi giorni di viaggio, mio signore,
inoltre noi saremo venti contro mille.” Fece una pausa, quindi in
tono conciliante soggiunse: “Dammi retta, torniamo indietro finché
abbiamo la possibilità di farlo.”
“No,”
ringhiò il giovane Khan, quindi spronò il cavallo distaccandolo di
alcune lunghezze.
Therved
scosse la testa. Rivide Jeisym da piccolo: un bimbo pallido,
riottoso, con un orgoglio smisurato. Ricordò che una volta era
caduto da cavallo e si era rotto un braccio, ma non aveva detto
niente per paura che il padre lo considerasse un debole. Se l'era
steccato alla meglio, con le competenze che poteva avere un bambino
di dieci anni, e sarebbe rimasto così per chissà quanto se lui non
si fosse accorto della maldestra medicazione. Aveva dovuto lottare
per portarlo dal guaritore, rimediando morsi e calci.
Poteva
entro certi limiti capirlo: suo padre, Ezrym Khan, era un potente
sovrano, rispettato e temuto da tutti gli altri Khan. Per tutta la
vita, il ragazzo aveva dovuto lottare per essere all'altezza delle
sue immense aspettative, per non deluderlo e per non deludere
chiunque altro: il figlio di Ezrym Khan non poteva rivelarsi di
levatura minore rispetto al genitore.
Spronò
il cavallo e di nuovo gli si affiancò. “Dimmi cos'hai in mente,
mio signore,” gli chiese.
“Voglio
raggiungerli, mi sembra ovvio.”
“E
poi?”
Jeisym
si voltò di scatto verso di lui, i suoi occhi d'ambra fiammeggiavano
come illuminati dall'interno. “E poi uccido quel tuo demone di
Vurar e mi riprendo il ragazzo.”
Therved
dapprima lo fissò attonito, quindi in tono duro gli disse: “Te lo
riprendi,
mio signore? Non ti è bastata la prima volta? Vuoi esporti di nuovo
al rischio di fallire?”
“Questo
non è il modo di rivolgersi a me!” lo rampognò Jeisym in tono
aspro, “Io sono il tuo signore, non dimenticarlo.”
“Halmaikah
mi è testimone, mio signore, io parlo così solo per il tuo bene.
Già una volta hai sbagliato lasciandolo in vita, non farlo la
seconda.” Stava anche per chiedergli come mai improvvisamente
avesse deciso di riprendersi quel ragazzino pallido e magro, ma di
nuovo Jeisym spronò il cavallo e se lo lasciò alle spalle.
Therved
sospirò rassegnato. Diede un'occhiata ai dintorni: nonostante l'ora
ormai avanzata, la strada era quasi deserta. Solo qualche carro o
qualche viaggiatore a piedi la percorreva lento. Probabilmente la
notizia della morte dell'erede al trono si era diffusa e secondo le
credenze del Daishrach entrare a Dyat prima di un certo tempo avrebbe
portato sfortuna. Tese l'orecchio: il rombo delle Cascate Grandi
cominciava a farsi sentire come un mormorio cupo, il corso dell'Edayr
si era fatto più veloce e impetuoso. La città di pietra bianca,
nitida sullo sfondo dei monti Kelis, gli diede l'idea di essere un
sepolcro in attesa.
§
Herich
strinse le dita sulle redini e si guardò intorno vagamente
intimidito. Ormai erano entrati nell'enorme semicerchio delle Cascate
Grandi ed egli aveva l'impressione di essere precipitato di colpo in
un altro mondo. Il rombo dell'acqua copriva ogni altro rumore e tutti
quei piccoli suoni come il tinnire dei finimenti, il battere degli
zoccoli e tutto il resto, che di solito davano all'ambiente un
sottofondo noto e rassicurante, erano scomparsi. L'aria era fredda,
pervasa di un'umidità densa e opaca, nella quale i raggi del sole
diventavano corporei come creature e sembravano seguirlo dritti e
rigidi come le zampe di un immenso ragno. Tutto era imperlato
d'acqua, il selciato acquisiva strane traslucenze come di pietre
dure, che spuntavano qua e là tra le chiazze di muschio color
smeraldo.
Tutt'intorno,
immense cateratte di ogni colore dal blu cupo al bianco, passando per
tutti i toni del verde, si precipitavano verso il basso, andando a
infrangersi in un ribollire di spuma candida.
Di
quando in quando, un tronco raggiungeva il salto e precipitava
nell'abisso: lo si vedeva allora immobile per un lunghissimo istante,
stagliato contro un cielo azzurro pallido, poi subito dopo
scompariva, inghiottito dai gorghi impetuosi, conteso dalle onde come
una preda in un branco di lupi.
Alzando
la voce per farsi sentire, chiamò: “Res!”
“Principe?”
chiese il soldato.
“Res,
andiamo più in fretta, per favore. Non mi piace questo posto.”
L'altro
scosse la testa. “Non possiamo, principe. Questi ponti sono
scivolosi, e...” non riuscì a finire la frase: un dardo gli si
piantò nella spalla, sbalzandolo di sella. Il cavallo, spaventato,
fuggì sgroppando.
“Res!”
urlò Herich, faticando per mantenere il controllo della propria
cavalcatura. Il soldato si rialzò e afferrò l'asta che gli spuntava
dal corpo, quindi la strappò via con un gesto deciso. Lasciò cadere
il dardo, che scomparve nelle cascate, quindi gli ordinò: “Vattene!”
“Ma
io...”
“Va'
via!”
Un
secondo dardo passò sibilando, Res sguainò la spada. “Va' via!”
ripeté, “Qui mi crei solo impiccio!”
Senza
replicare, Herich fece girare il cavallo. Mentre l'animale si
voltava, colse con la coda dell'occhio una figura alta e robusta, con
lunghi capelli scuri, vestita di un'armatura di ferro blu.
“Dewrich,”
mormorò. Lo scroscio delle cateratte era talmente forte che non
sentì la sua stessa voce.
Forse
avrebbe dovuto allontanarsi al galoppo, ma non riuscì a fare altro
che pochi passi. Raggiunse uno slargo della strada, una specie di
terrazza panoramica che permetteva di ammirare la terribile
magnificenza delle cascate, e smontò di sella. Si passò una mano
tra i capelli umidi, deglutì faticosamente cercando di dominare il
tremito che l'aveva pervaso e cercò di concentrarsi su una preghiera
da rivolgere a Dras, ma nonostante Cresdan gliene avesse fatte
imparare a memoria delle decine, in quel momento non gliene veniva in
mente nessuna.
Strinse
gli occhi: Cresdan ormai era lontanissimo e annebbiato come i
dintorni che stava osservando in quel momento. Era una figura
indistinta, della quale a malapena ricordava la bonomia e l'imponenza
fisica.
Fissò
l'attenzione a quello che si stava svolgendo più avanti e vide Res e
Dewrich che si fronteggiavano.
Si
appoggiò al fianco del cavallo e rimase immobile, incapace di
distogliere lo sguardo.
Res
cercò di fare il vuoto nella mente. Sentiva il sangue scorrergli
lungo il torace, in rivoli caldi che gli inzuppavano gli abiti e
glieli appesantivano. La ferita al fianco pulsava, ma ormai ci aveva
fatto l'abitudine.
Respirò
adagio, concentrandosi sul peso della spada che stringeva in pugno e
sulla grana leggermente ruvida del cuoio che ne rivestiva
l'impugnatura. L'acciaio lucente della lama era appannato da una
corposa nebbia d'acqua.
“Sei
stanco, uomo?” lo provocò Dewrich, “Hai paura?”
Lasciò cadere la balestra con cui l’aveva colpito.
Il
soldato alzò lo sguardo su di lui: egli camminava con la grazia
letale di un predatore, spavaldo ma attento a ogni sua mossa. Portava
l'armatura senza apparente fatica e quando sguainò la spada lo fece
con la scioltezza languida di chi è in grado di maneggiare una lama
come un'estensione del proprio corpo.
Dewrich
inarcò le sopracciglia quando lo vide in faccia. “Sei proprio tu?”
gli chiese incredulo. “Sei quello che ha difeso il povero bambino
maltrattato sulla piazza d’armi, non è vero? Che cos’hai fatto
ai templi, ti sei nascosto da qualche parte per salvarti la pelle?”
Fece una breve risata, poi soggiunse: “Lascia stare, non mi
interessa, tanto tra un po’ ti manderò dai tuoi dei, se ne hai, e
poi mi occuperò del moccioso.”
“Sempre
se non sarò io a mandare te dai tuoi dei,” replicò con calma Res.
“Ma
davvero?” ghignò Dewrich. “Il peggior marmittone di tutto
l’esercito di Dyat che minaccia un guerriero di Jechen? Sei forse
pazzo, uomo?”
Res
non rispose.
“Fatti
sotto, allora,” disse il principe. Usò un tono quasi di scusa,
come se fosse dispiaciuto di doverlo abbattere.
Il
soldato rimase immobile. Per un attimo gli passarono davanti agli
occhi immagini di una mischia feroce, risentì le urla, rivide
l'acqua tinta di rosso, nel naso gli parve di avere ancora una volta
l'odore ferrigno e acre di corpi aperti. Il suo solito tremore
minacciò di invaderlo, ma egli strinse i denti imponendosi di nuovo
e con maggiore decisione il distacco.
“Non
vuoi farti sotto?” lo irrise Dewrich. “Vuoi il vantaggio di
vedermi colpire per primo?” Fece una breve risata. “Ma sì, te lo
lascio, vecchio marmittone. Così almeno il divario fra noi sarà un
po' meno ampio e ti ammazzerò senza che Jechen mi disprezzi troppo.”
Balzò
in avanti, fintò una punta al petto di Res, ma all'ultimo istante
con un mezzo giro del polso gli tirò un tondo dritto. Evitò di
proposito di toccarlo, poi con un movimento agile scattò di nuovo
all'indietro. Dalla nuova posizione rimase a fissarlo con un
sorrisetto di scherno. “Ebbene?” gli chiese.
“Certo,
molto bravo,” concesse Res, “Rapido e preciso.” Poi, in tono
grave: “Ma io passerò, principe, con il tuo consenso o no. Tu hai
tradito tuo fratello e la tua stirpe, giustizia vuole che ora il
principe Herich riprenda il suo legittimo posto di erede al trono.”
Dewrich
ebbe una risata sprezzante. “Giustizia, dici? Di che giustizia stai
parlando? Io sono stato defraudato del ruolo che mi spettava di
diritto in quanto figlio maggiore.”
“È
un ruolo che evidentemente non meritavi, se Dras ha scelto il
principe Herich.”
“Non
mi venire a raccontare delle favole, Dras non c'entra niente in
questa faccenda. L'erede al trono sono io, e intendo riconquistare
con le armi il mio diritto a regnare!” Di nuovo abolì la distanza,
questa volta sferrando un fendente alto. Non fu un colpo finto come
il precedente: fu portato a pieno e con tutta la forza. Res dovette
faticare per riuscire a pararlo e la sollecitazione della spalla
ferita gli strappò un grugnito di dolore. Si fece indietro ansante e
rimase a studiare torvo quel giovane guerriero che non sembrava avere
punti deboli.
Dewrich
gettò indietro i capelli con uno scatto del capo e prese a girargli
intorno lentamente. “Da che parte ti colpirò?” lo canzonava
frattanto, “Da dove arriverà il colpo di grazia?”
Res
si limitò a fare perno sui piedi in modo da mantenersi sempre faccia
a faccia con lui. Agganciò il suo sguardo mentre con la visione
periferica continuava a tenere sotto controllo la scena, poi
d'improvviso scattò in avanti con uno stretto tondo rovescio.
Dewrich aggrottò le sopracciglia e si fece indietro, la spada superò
comunque la sua guardia e si udì il clangore del ferro
sull'armatura. Un paio di scintille baluginarono per un istante e
poi si dissolsero nella nebbia.
“Molto
bravo,” commentò Dewrich sarcastico. “O, più probabilmente,
molto fortunato, non è vero? Ora tocca a me, però.”
Fece
un affondo talmente rapido che Res quasi non lo vide arrivare e non
poté fare altro che arretrare in modo precipitoso, scomponendo la
sua guardia. Il principe allora lo colpì dal basso verso l’alto
procurandogli un profondo taglio sul torace. Il soldato gemette e si
fece indietro barcollando. Per un istante dovette appoggiare un
ginocchio a terra, ma riuscì a balzare indietro prima che Dewrich
potesse incalzarlo con un altro assalto.
“Res!”
urlò Herich sentendosi venire meno. Il soldato barcollava grondando
sangue e sembrava che anche solo tenere la spada puntata contro
Dewrich gli costasse un’enorme fatica.
Si
fece avanti adagio, il cavallo sempre tenuto per le redini, incapace
di distogliere gli occhi dai due contendenti.
Dewrich
lo vide arrivare, gli rivolse un sorriso cattivo e disse qualcosa.
Egli non l’afferrò, nel fragore delle cascate che li circondavano
da ogni parte, ma immagino che fosse una promessa di morte.
Deglutì
ma si impose di non indietreggiare.
Dewrich
attaccò di nuovo, Res sottrasse bersaglio e con un fendente rovescio
riuscì a colpirlo in faccia, costringendolo a indietreggiare con una
mano premuta sulla fronte e rivoli di sangue che filtravano fra le
dita. Subito dopo il soldato lo incalzò, ma l’altro riuscì a
riprendere il controllo.
Sotto
gli occhi inorriditi di Herich, la spada di Dewrich si immerse nel
petto di Res come un coltello rovente nel burro, poi gli uscì dalla
schiena, sotto la scapola. Il soldato si irrigidì, la bocca gli si
spalancò in un grido muto, ma egli non cadde. Afferrò invece
saldamente il principe per una spalla, quindi lasciò cadere la
spada, che produsse sulle pietre un sinistro clangore, ed estrasse
dalla cintura il pugnale. La lama baluginò per un istante, come
investita da un fugace raggio di luce, quindi si immerse
completamente nel collo di Dewrich.
Il
principe spalancò gli occhi e barcollò all’indietro mentre dalla
bocca un fiotto di sangue scendeva ad arrossargli l’armatura.
Crollò al suolo con un lamento gorgogliante, si contrasse in un
assurdo tentativo di strapparsi di dosso la lama letale, poi si
afflosciò e giacque immobile. La mano che stringeva l’elsa della
spada si aprì e il soldato, la lama ancora infissa nel corpo, rotolò
da una parte.
Herich
corse a inginocchiarsi accanto a lui. “Res!” gridò,
sollevandogli la testa. “Res, parlami, ti prego!”
L’uomo
aprì lentamente gli occhi, che a Herich parvero più azzurri e
limpidi che mai. Abbozzò un pallido sorriso che però subito subito
si trasformò in una smorfia di dolore. “Principe...” mormorò a
fatica.
Angosciato,
il ragazzo gridò: “Res! Res, che cosa devo fare? Come posso
aiutarti?”
“Mi
hai già aiutato, principe. Grazie a te ho… pagato il mio debito.”
“Tu
non hai nessun debito!” Herich si buttò ad abbracciarlo. “Non
voglio che tu muoia, Res! Voglio che tu stia sempre con me!” Si
accorse di ansimare come in preda al terrore, mentre il cuore gli
batteva come se avesse voluto scoppiargli nel petto. “Res, ti
prego! Lo sai cos’ho visto in sogno? Il Leone Rosso si è girato a
guardarmi, ed eri tu! Eri tu, capisci? Questo è un segno di Dras,
non puoi lasciarmi!”
Res
inspirò stentatamente e quando fece uscire il fiato un rivolo rosso
lo accompagnò. “Io… devo andare,” mormorò, con voce così
debole che quasi si perse nel rombo folle delle cateratte. “Devo
andare, la mia missione è finita.”
“La
tua missione è appena cominciata, soldato!” gridò Herich, con le
lacrime che gli offuscavano la vista e un artiglio di ghiaccio che
gli serrava il petto. “Mi devi insegnare tutto, voglio diventare
come te!”
Ancora
una volta, l’uomo sollevò lo sguardo su di lui e Herich vide
spegnersi il suo fulgore nel momento in cui la vita lo abbandonava.
Rimase
immobile a fissarlo per lunghi minuti, forse nella speranza che anche
quello fosse un sogno, infine adagiò con delicatezza il corpo ormai
inerte sul selciato umido e col viso tra le mani prese a singhiozzare
disperatamente.
Passò
un tempo imprecisato. A un tratto, pur coperti quasi del tutto dal
fragore delle cascate, a Herich parve di sentire dei rumori in
avvicinamento. Abbassò le mani con cui si era coperto il volto e
alzò esitante lo sguardo.
Gli
si gelò il sangue: la strada era occupata da una torma di predoni di
As’del.
Rimase
immobile. Non avrebbe avuto senso cercare di scappare, ovviamente, né
in giro c’era qualcuno che avrebbe potuto intervenire in sua
difesa.
Dal
gruppo si staccò Jeisym Khan, che smontò da cavallo, affidò le
redini dell’animale a uno dei suoi uomini e a passo lento gli si
fece incontro. “Eccoti qui,” gli disse ironico. “Ci
ritroviamo, finalmente.”
“Non
ti avvicinare,” mormorò Herich, arretrando precipitosamente.
L’altro
si limitò a una breve risata. “E perché non dovrei avvicinarmi?
Non mi sembra che il tuo amico sia in grado di impedirmelo, ormai.”
Fece
girare lo sguardo sprezzante sui due corpi riversi, ma appena i suoi
occhi si posarono sul volto di Res, egli sbiancò in viso e si
immobilizzò. “Generale,” mormorò poi stranito. “Com’è
possibile?”
“Cosa?”
chiese Herich, ma lui non gli badò nemmeno. Apparentemente dimentico
di tutto si chinò accanto al corpo e rimase a fissarlo in silenzio
per un tempo che al ragazzo parve interminabile. Alla fine si alzò
bruscamente in piedi, si pose la destra chiusa a pugno sul petto e
solennemente disse: “Sono dolente di rivederti in una circostanza
così triste, generale. Non posso restituirti la vita che un tempo mi
hai donato, ma posso almeno portare a termine la tua missione.” Si
voltò verso Herich, che lo stava fissando ammutolito dallo stupore,
e in tono severo gli disse: “Bada, non mentire: era lui che ti
accompagnava?”
Il
ragazzo chinò la testa. “Sì.” Le lacrime ripresero a scorrergli
sulle guance.
“Alzati
in piedi,” gli ordinò allora l’As’vaan, “rimonta in sella, e
mantieni un contegno dignitoso davanti al generale.” Si voltò
verso i suoi uomini e chiamò: “Therved!”
L’uomo
si fece avanti. “Cosa comandi, Khan?”
“Therved,
scortate Sua Altezza come si conviene a un principe. Accompagnatelo
fino alle porte di Dyat e badate che non gli accada nulla. Quando
sarà al sicuro dentro le mura, tornate qui da me. Io non verrò con
voi: ho qualcosa da fare qui.”
“Come
tu comandi, Khan,” disse l’altro inchinandosi, poi diede un paio
di ordini nella lingua di As’del e gli uomini si disposero in una
guardia d’onore. Tutti presentarono le armi a Res, passando, e poi
si fermarono in due file parallele. Herich capì che stavano
aspettando lui e si portò alla testa della colonna.
Jeisym
lo fissò negli occhi e gli fece un muto cenno di assenso con la
testa, poi si disinteressò di lui e tornò a voltarsi verso il corpo
di Res. Rimase a contemplarlo in silenzioso raccoglimento.
Ancora
frastornato da tutto quello che era successo, incapace di parlare,
Herich mise il cavallo al passo lungo la strada che portava a Dyat.
Alle sue spalle, muti e solenni, cavalcavano venti predoni di As’del.
§
Quando
un corteo reale guidato da re Evertas in persona raggiunse il ponte,
tutti ammutolirono dallo stupore.
Con
lo sfondo maestoso delle Cascate Grandi, Res giaceva a lato della
strada su un manto scarlatto, composto come un antico eroe. Uno
stendardo con un leone rosso rampante copriva le sue ferite e ai suoi
piedi, come un trofeo, c’era la spada del principe Dewrich. Le sue
mani, posate sul petto, stringevano due splendide spade di fattura
As’vaan dall’elsa incrostata di gemme.
Egli
aveva un’espressione nobile e severa, che rendeva il suo volto
singolarmente bello.
Herich
abbandonò la propria cavalcatura e corse a inginocchiarglisi
accanto. Sollevò poi la testa verso il genitore e disse: “Padre,
voglio esequie solenni per lui. Dovrà essere sepolto nel Mausoleo
degli Eroi, in un sarcofago tutto d’oro...” Mentre parlava, in
tono sempre più urgente, con le parole che si accavallavano l’una
sull’altra, le lacrime ricominciarono a scendergli lungo le guance.
Di nuovo scoppiò in singhiozzi.
A
quel punto, accompagnato dal generale Xarey, smontò da cavallo anche
il re, gli si avvicinò e a sua volta fissò le spoglie di Res. “È
stato un uomo coraggioso,” disse in tono conciliante, “ti ha
riportato qui incolume.”
Herich
non replicò. Tra i singhiozzi si limitò a ripetere che voleva
esequie solenni. Il generale si sporse a guardare, sollevò stupito
le sopracciglia e si scoprì il capo in segno di rispetto, quindi
disse: “Principe, con il tuo permesso, io non credo che vorrebbe
riposare qui a Dyat.”
§
In
sella a uno stallone di razza Yereian, seguito dalla Guardia d’Onore,
re Herich percorreva la strada per il golfo di Brielar. Al suo
fianco, in sella a un pony di dimensioni proporzionare alle sue,
cavalcava suo figlio.
Eccitato
da tutte le novità del viaggio, il bambino si rizzò sulle staffe e
con voce argentina chiese: “Quando arriviamo, padre?”
“Manca
meno di un’ora, Tjeran.”
“Un’ora?
Ma è tantissimo!” protestò il principino, continuando a
mantenersi in equilibrio sulle staffe. “Io sono stanco.”
Il
re sorrise. “Vuoi dirmi che non riesci a stare in sella per così
poco tempo? Ma lo sai che il Leone Rosso poteva cavalcare per un
giorno intero?”
Il
bambino si sedette di nuovo. Come tutte le volte che lui parlava di
Resen-Lhaw, lo fissò con gli occhi sgranati, poi chiese: “Io mi
chiamo come lui, vero?”
“Certo,
Tjeran, come Tjeran Sonse. Porti il suo nome perché era un grande
eroe.”
“Anch’io
diventerò così?”
“Quando
diventerai grande.”
“Ma
quando diventerò grande?”
“Quando
mangerai tutto quello che hai nel piatto senza fare storie.”
Continuarono
a scambiarsi domande e risposte fino a che la strada non sbucò in
uno spiazzo che dall’alto dominava l’azzurra immensità del mare,
in quel momento accarezzata dalla luce calda del tardo pomeriggio.
“Ci
siamo,” disse il sovrano. Il bambino avrebbe voluto domandare
qualcos’altro, ma intimidito dall’aria di solennità che
d’improvviso il genitore aveva assunto, non osò proferire verbo.
Il
re smontò da cavallo e aiutò il figlio a fare altrettanto, quindi
lo prese per mano e si incamminò con lui lungo un viottolo che
saliva serpeggiando.
Raggiunsero
un secondo spiazzo più piccolo, dal quale si poteva abbracciare con
la vista l’intero golfo di Brielar. Esso era contornato da duri
arbusti costantemente agitati dal vento e ospitava una semplice tomba
di pietra grigia sulla cui lapide era inciso un leone rosso rampante.
Re
Herich si inginocchiò davanti al sepolcro, giunse le mani e chinò
la testa in segno di rispettoso raccoglimento. “Vieni anche tu,”
disse al bambino. “Se sarai buono, ti racconterò la storia
dell’ultima battaglia di Resen-Lhaw.”
“Quando
lui ti ha salvato?”
Il
re emise un sospiro. “Sì.”
Quando
si alzarono, il sole stava calando e la luce calda del tramonto
accendeva ogni cosa di un sontuoso rosso aranciato.
Re
Herich si avvicinò al bordo dello spiazzo e da lì rimase a
contemplare le onde. Esse erano vermiglie, ma non più di sangue.
Si
voltò verso la tomba, anch’essa accarezzata dai caldi raggi, e ne
sfiorò la superficie con la mano. “Grazie, Res,” sussurrò.
“Che
cosa dici, padre?” volle sapere il bambino.
“Niente,
Tjeran. Dico che è ora di tornare indietro, perché giù ci stanno
aspettando.”
Prese
il figlio per mano e si incamminò lungo il sentiero. Alle sue
spalle, Resen-Lhaw rimase a vegliare in eterno sulle acque del golfo
di Brielar.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3793813
|