Damned

di Angel_Strings
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Maledetto Inizio ***
Capitolo 2: *** Maledetto Casino ***
Capitolo 3: *** Maledetto Passato ***
Capitolo 4: *** Maledetto Suggerimento ***
Capitolo 5: *** Maledetto Indugio ***
Capitolo 6: *** Maledetto Allarme ***
Capitolo 7: *** Maledetto Bar ***
Capitolo 8: *** Maledetto Cambiamento ***



Capitolo 1
*** Maledetto Inizio ***


ATTENZIONE: Questi personaggi non mi appartengono. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Con questo mio scritto non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei personaggi, nè offenderli in alcun modo. 





♠CHAPTER I - MALEDETTO INIZIO
 
«Ne voglio un’altra.» Il mio sguardo era fisso sul cameriere, seguivo ogni suo movimento con gli occhi mentre lui, con una certa maestria, versava uno scuro liquido dentro al mio bicchiere. Era decisamente la serata adatta per una sbronza, continuavo a ripetermi dall’esatto momento in cui avevo varcato la soglia del piccolo locale all’angolo della via, lo stesso locale in cui mi trovavo attualmente. La birra scendeva con facilità attraverso la mia gola, punzecchiando di tanto in tanto ad ogni sorso e procurandomi solo pazza gioia nel constatare che, in una manciata di secondi, ne vedevo già il fondo schiumoso.
Mi accorsi solo dopo aver insistentemente cercato di raggiungere con la lingua le ultime gocce che il cameriere mi scrutava silenzioso, e perplesso. Posai con nonchalance il boccale sul bancone, mi pulii con la manica della felpa la bocca -gesto che risultò abbastanza sgradevole ai suoi occhi- e mi diressi verso la sua postazione per pagare le mie quattro birre doppio malto.
«Quanti anni hai?» Parlò lui, poggiandomi lo scontrino sotto al naso. Sogghignai «Undici.» Stupito dal tono informale e brusco che avevo usato, continuò comunque a tenere in piedi la conversazione con aria di scherno, il che mi fece innervosire ancora di più.                                                                                                   
«Non credi di essere un po’ piccola per andare in giro sola a bere birra?»
«E tu non credi sia il caso di farti gli affaracci tuoi?» Rimbeccai di getto, quasi lanciandogli addosso il conto.
Scosse la testa. «Offro io, piccola dal cuore infranto.»   
La risata che fuoriuscì dalla mia bocca fu disarmante, probabilmente perché mi fece proprio ridere di gusto.
Era davvero seccante avere a che fare con persone assetate di curiosità e senza scrupoli, ed era ancor più snervante vedere negli occhi delle suddette persone la malsana convinzione di essere in presenza di un libro aperto. Insomma, perché pretendere questo tipo di confidenza alla prima opportunità di chiacchiera? Chiaro, non che avesse un certo tipo di interesse per me. Avevo già notato un piccolo anello, forse d’oro bianco, ornargli l’anulare, e la barba incolta gli donava un non so che di uomo vissuto, uomo di casa. Pensai che comunque non avrebbe fatto eccezione. Non esisteva la parola “eccezione” nel mio vocabolario.                                                                                                                  
«Sei proprio un guastafeste, sai? Mi stavo impegnando così tanto per rendere il tutto così melodrammatico! Lascia stare, questa povera ragazza indifesa deve pur spendere i suoi ultimi spicci. Questione di principio. Il resto puoi anche tenertelo, buon proseguimento.»                                                                                                                                    
Sì, decisamente era la serata adatta per una sbronza.         
Mi avviai soddisfatta -e barcollando- verso l’uscita, sentendomi alle spalle il suo sguardo bruciarmi addosso, più indagatore di prima. Merda, le avevo promesso di non dare nell’occhio. Se avesse scoperto anche solo per sentito dire di una qualche conversazione poco incline alle buone maniere, mi avrebbe fatta a pezzi e gettata in discarica pronta ad essere rottamata. Mi ripromisi da quel momento di diventare più affabile con gli estranei, glielo dovevo.
Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, specialmente la testa girare dal piacere, la mente decise invece di girovagare nei meandri più reconditi del mio passato, ponendosi quesiti che, in quel momento, sarebbe stato alquanto impossibile soddisfare.                                                                                                                              
Cosa non andava in me?                                                                                                                               
Una barriera di ghiaccio marmosa ma al tocco così fragile e facilmente distruttibile, ecco cosa non andava. Ormai, dopo anni, ciò che mi aveva fortificata e nascosta agli occhi di tutti, plasmandomi come l’insensibilità esistente sulla faccia della terra, si era rivelato un fiasco. Eppure mai avevo sbagliato, mai la situazione mi era sfuggita di mano. Doveva sicuramente esserci una spiegazione. Divertente, avevo appena festeggiato l’ennesima sconfitta.                                                                                                       

È tutto sotto controllo.                                                                                                          

La strada era buia, e i pochi lampioni presenti illuminavano in modo minimo, forse consumati nel corso del tempo. In quel momento pensai che la lampadina verde mare regalatami da mia madre avrebbe sicuramente aiutato molto di più, quantomeno mi avrebbe fatto vedere dove poggiassi i piedi. Era tutto così silenzioso, un macabro silenzio che avrebbe potuto nascondere al suo interno tutto o niente, ed era proprio questo che lo rendeva così inquietante ma, al contempo, mi trasmetteva aria di casa. Quello era il mio mondo, fatto di ombre e discrezione, un mondo che non concepiva il sentimento. Un mondo che io mi ero scelta.                                                               
Chiusi gli occhi e assaporai la brezza fresca trasportata dal vento autunnale che abbracciava il mio corpo e lasciava furtivamente una serie di piccoli brividi lungo la spina dorsale.
Qualche cavalletta era intenta a zillare, nascosta dal buio. Che creature incantevoli, le cavallette.                                       
Il mio flusso di coscienza fu bruscamente interrotto da un suono pesante di passi, che percepii distintamente alle mie spalle. Non diedi alcun segno di sorpresa, sebbene il mio cuore avesse iniziato a palpitare più freneticamente: sapevo cosa fare in quelle situazioni.                                                                                                                       

È tutto sotto controllo.                                                                                                     

Continuai a camminare imperterrita per qualche minuto, tentando di aumentare la distanza che mi separava da quei passi nella maniera più disinvolta possibile, finché il rumore non cessò di colpo, e feci l’unica cosa che in anni di addestramento mi avevano sempre proibito: voltarmi. Con mia grande sorpresa, però, vidi solamente l’infinità di quei lampioni tanto odiosi e dalle luci tremolanti, ma non feci in tempo a tirare un sospiro di sollievo che una possente e ruvida mano mi schiaffeggiò il sedere.                                                                                                                       
«Ciao bellezza.»
Metro e ottantasette. Tra i ventisei e i trent’anni. Scapolo, ma ricco. Alcolista. ConcentratiLo scrutai a fondo e appuntai il maggior numero di informazioni che riuscii ad ottenere nello stato di non completa sobrietà in cui vigeva il mio corpo. «Cosa ci fa una bella ragazza come te tutta sola e per di più in giro a quest’ora?» Mi chiese, o perlomeno pensai mi avesse chiesto visto che metà della frase fu un miscuglio di sbiascichi e mugolii. Cercai di mantenere la pazienza il più possibile e strattonai quella sudicia mano ancora poggiata sul mio fianco, ma l’uomo non voleva demordere, forse stupidamente convinto che gli avrei dato la schifosa opportunità di finire ciò che aveva iniziato.                                           
«Lasciami andare finché te lo chiedo gentilmente.» Incatenai i miei occhi ai suoi, e iniziò così una tacita guerra che il poverino ancora non sapeva di aver perso in partenza.                                                                                                         
«Mm, mi eccitano le tipe combattive.» In una manciata di secondi mi liberai dalla sua presa strattonandogli il braccio e tirandogli una potente ginocchiata sullo stomaco. Gli mancò il fiato e si accasciò a terra, ma per me non era finita lì. Lo presi per il colletto facendolo avvicinare al mio viso, e gli sferrai un pugno dritto sui denti. Urlò per il dolore, ma io volevo di più. La rabbia si stava impossessando del mio corpo, e sapevo di non volerla fermare. «Fai schifo. Sei un rifiuto umano, e non toccherai mai più nessun’altra donna.»                                                                                 
«Farai la stessa fine di tua madre, quella puttana.» Persi un battito. Il mio sguardo si fece vitreo, il sangue iniziò a pulsare così forte che il mio viso diventò paonazzo dallo shock. Smarrii l’ultimo barlume di lucidità che mi impediva di porre fine alla sua misera vita, e gli spezzai l’osso del collo.
 

Trascinai con molta fatica la carcassa di quello schifoso per tutta la salita che conduceva all’unica casa isolata del quartiere. Non era male: piccola, tetra e circondata da spessi arbusti arrampicanti e verdognoli. Insomma, non male come casa degli orrori. Bussai quattro volte sulla porta principale, scandendo ogni colpo in modo tale da farmi riconoscere, finché non sentii una voce femminile proveniente dall’interno borbottare qualcosa, forse un insulto.                                                                          
«Ti ho portato un regalo.»


N.D.A

Buongiorno a tutte le scrittrici/lettrici della categoria!
Queste note saranno leggermente più lunghe delle prossime, giusto per dare qualche avviso. 
Questa storia appartiene a due scrittrici diverse, pertanto sarà una storia scritta a quattro mani.
Ogni capitolo (di lunghezza media 3 pagine di Word) sarà rispettivamente il P.O.V alternato di una delle due protagoniste della storia. 

Tutti i nodi verranno al pettine, non vi preoccupate! 

Qualsiasi critica, purché costruttiva, sarà ben accetta da entrambe: ci interessa davvero molto la vostra opinione. 
Per questioni di tempo abbiamo deciso che "Damned" verrà aggiornata mediamente UNA volta a settimana.
Qualora dovesse esserci l'occasione, anche prima.
Per piacere, fateci sapere se il tempo di aggiornamento e la lunghezza media dei capitoli va bene. (La lunghezza è stata volutamente decisa per non appesantire il lettore, ma siamo disponibili per eventuali richieste di modifiche).
Grazie di cuore per essere arrivati fino a qui. 
Un saluto XXL,
S. 
 
 

 

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Capitolo 2
*** Maledetto Casino ***


 
♠CHAPTER II - MALEDETTO CASINO

 
Mi sistemai il cappuccio della felpa grigia che indossavo sopra la testa. La brezza serale iniziò a farsi sentire sul mio corpo, ma niente potevafermarmi dal bere il mio solito bicchiere di vino sul balcone di casa nostra. Sbuffai guardando l’orologio nero allacciato al mio polso destro. Erano già le dieci inoltrate. Dove diavolo si era cacciata? Aveva promesso che per il calar del sole sarebbe stata a casa.
D’altronde perché essere sorpresa? Era la solita inaffidabile.
Mi spostai la frangia dagli occhi e mi lamentai sonoramente.
Non potevo permettere che anche i miei pensieri fossero una seccatura, quindi decisi di cambiare la loro rotta.
Il mio sguardo vagò sul cielo, che stava iniziando a tingersi di nero, mentre la mia mente iniziò a soffermarsi su nuove riflessioni.
Diverse immagini mi attraversarono lo sguardo, privandomi momentaneamente della vista delle nuvole e del cielo serale.

Lacrime. Sangue. Armi.

Scossi la testa. Perché non riuscivo a pensare ad altro? La mia fottuta mente era un peso ormai da una decina d'anni, o giù di lì. Ovviamente non era lei il problema, anche se poteva almeno degnarsi di rispettare i patti.
Certo, eravamo solo noi due ormai da anni e non c’era nessun genitore o qualche altro tipo di figura autoritaria alla quale dovevamo sottostare, ed era proprio questo motivo per il quale non dovevamo farci preoccupare a vicenda. Roteai gli occhi.

Ero io a sembrare il genitore adesso.

A soli ventidue anni, cazzo. Sbuffai rumorosamente per l'ennesima volta e portai il calice alla bocca per rimanere subito delusa: avevo finito il vino. Cos’altro potevo fare se non alzarmi e dirigermi verso la cucina per riempire il bicchiere di altra "acqua"? Risi di me stessa: ero troppo stressata. Ricominciai a pensare a lei. «È tutta colpa tua» Borbottai. 
Aprii il frigorifero e senza nemmeno guardare afferrai la mia amata bottiglia di vino rosso.
Il gesto mi fece sorridere e scuotere la testa allo stesso tempo. Iniziai a versare il liquido cremisi nel bicchiere quando un ricordo si fece strada tra i miei pensieri veloce come un proiettile.

Tanti macabri sorrisi a trentadue denti.

Sussultai facendo cadere il bicchiere che si ruppe in mille pezzi. «Cazzo. Il lato positivo è che ho ancora il vino» Dissi a me stessa.
Iniziai a raccogliere i cocci frantumati senza degnarmi di prendere precauzioni come afferrare lo strofinaccio appeso accanto al lavello, convinta che dopo tutto ciò che avevo e avevamo affrontato non sarebbero stati di certo dei vetri a fermarmi e, ovviamente, mi tagliai.
Tra un’imprecazione e l’altra iniziai veramente a perdere la pazienza.
Lei non tornava, e a me non ne andava bene una, tanto che fui sul punto di lanciare la prima cosa che mi fosse capitata sotto tiro finché non sentii bussare alla porta. Toc. Pausa. Toc toc. Pausa. Toc. «Era ora, brutta idiota.» Esclamai a voce abbastanza alta da farmi sentire. Mi incamminai verso la porta con il pezzo di vetro che mi aveva procurato un bel taglio stretto tra le dita. «Ti ho portato un regalo.»
Sentii la sua voce dall’altro lato della porta.
Rabbrividii non appena quelle parole arrivarono alle mie orecchie: noi non ci facevamo regali. Poteva solo essere qualcosa di negativo.
A confermare le mie ipotesi fu il corpo esanime scaraventato da mia sorella sul pavimento del nostro soggiorno.
Era un uomo sulla trentina con i capelli neri e uno squallido odore di dopobarba economico.
«Si può sapere che cazzo hai fatto?» Sbottai.
Alzò i suoi innocenti quanto troppo consapevoli occhi con uno sguardo di finta pietà. «Ha provato a toccarmi, Hei-Ran. Mi ha toccato il culo questo bastardo.» Spiegò lei. Il mio sguardo si addolcii e dissi solamente: «Capisco.»
Hai fatto bene cazzo, pensai invece tra me e me. «Per farti perdonare vedi di pulire quel disastro che ho fatto in cucina.» Aggiunsi sorridendo candidamente. Ha-Nun alzò gli occhi al cielo. «Almeno sei bella, con la tua pigrizia non troveresti mai un marito.» Rise mia sorella. «Chi ha detto che voglio un marito?» Risi io insieme a lei. Ha-Nun si avviò a sistemare il mio casino, e fu più intelligente dato che pensò bene di usufruire dello straccio.
La vidi piegarsi e sistemare velocemente, afferrando il vetro in frantumi e buttandolo nella spazzatura.
Osservandola, notai che le mancava un ultimo pezzo di vetro piuttosto grande, che mi fece tornare alla realtà. Le dissi di tornare da me.
Si avvicinò sospettosa con il pezzo di vetro tra le mani.
Posai gli occhi sul suo viso e sussurrai: «Cosa dovremmo farcene di questo rifiuto umano?» Mi guardò confusa prima di capire a cosa mi riferissi. Per essere più chiara indicai freneticamente il corpo accanto al quale ero inginocchiata. Mia sorella aprii la bocca per parlare quando restammo entrambe esterrefatte: l'uomo ai nostri piedi ebbe uno spasmo che la fece sussultare.
Nel giro di un secondo ci fiondammo senza neanche pensare sul suo corpo e il risultato fu, beh, disgustoso.
Il sangue iniziò a riversarsi sul nostro pavimento grigio, e dopo che ci fummo allontanate da quello schifo contemplammo il prodotto delle nostre azioni. Due pezzi di vetro erano conficcati nel suo collo.
Ci guardammo. «Beh, ora sarà un bel casino pulire.» Sentenziai sbuffando per l'ennesima volta in quel a dir poco sventurato giorno. «Cazzo. Almeno è decisamente morto ora. Mettiamoci al lavoro, sorellina.» Mi provocò Ha-Nun. «Abbiamo la stessa età, idiota.» Sibilai guardandola male.
Scoppiammo a ridere e ci piegammo a pulire quello scempio sul nostro pavimento.

 

N.D.A

Buonasera! 
Spero stiate tutti bene! Finalmente i nomi delle due principesse sul pisello (le prendo un po' in giro) sono stati svelati.
Questo capitolo è leggermente più corto rispetto all'altro, in quanto il successivo sarà abbastanza corposo e ho preferito fermarmi qua per non spezzarlo.
Come potete notare questo capitolo è anche una sorta di ripresa del precedente ma dal punto di vista della sorella, giusto per darvi un'idea generale del pensiero di entrambe come punto di partenza.
Non abbiamo in mente di fare così anche nei prossimi, se non per casi eccezionali o momenti "clou" della storia... ma non dico nulla altrimenti partono gli spoiler e la mia socia mi taglia la testa.
Spero sia di vostro gradimento, come già detto accettiamo critiche e consigli!
Baci e alla prossima,
F.

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Capitolo 3
*** Maledetto Passato ***


                                                                                      
 
♠CHAPTER III - MALEDETTO PASSATO
 

«Bisogna chiamare la polizia.»
Questo fu l’inizio di un casino così grande che ci mise in un mare di guai. Mia sorella e la sua sfacciataggine peggioravano di giorno in giorno.
Probabilmente sapeva che, alla fine, mi sarei assunta qualsiasi tipo di responsabilità -comprese le sue- pur di non dare nell’occhio.
Pensare che era stata proprio lei ad insistere su questo punto! Come se fossimo degli agenti segreti in incognito per un tempo indeterminato, e quel tempo era la nostra vita.
Davvero pessimo.
«Non puoi sempre comportarti così, Hei-Ran. Qui non si tratta di aver rubato una caramella al supermercato. Abbiamo ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Beh, non ho ancora capito quando sia morto con esattezza…ma non importa. Siamo senza protezione, con le spalle scoperte, e non abbiamo la possibilità di fidarci di nessuno.»
«Parli come se fossimo davvero con le spalle scoperte,» iniziò lei, «ma sai meglio di me che non è così. Diamine, cosa abbiamo fatto tutto questo tempo?» La domanda, ovviamente, era retorica. Sapevo dove voleva andare a parare, ma io non volevo. Il mio intuito affinato in anni e anni di addestramento mi stava urlando di lasciar perdere, di continuare come stabilito dal nostro patto: sole.
Non potevamo sbagliare, e questo era un enorme sbaglio, un gravissimo imprevisto.
«Ha-Nun.» Il suo richiamo mi fece distrarre quanto bastava per concentrarmi su di lei. «Ti prego. Noi non siamo sole, piuttosto sei tu a sentirti così; e anche io lo provo, con te, ogni giorno. Sì, hai ragione, è una cosa che noi e soltanto noi dobbiamo gestire, ma ciò non significa dimenticare chi ha sempre cercato di combattere insieme a noi.»
Mi si parò di fronte e mi prese la mano sinistra, accarezzando con una delicatezza insolita per il suo essere il palmo della mia mano.
«Fidati di me. Chiamiamo Hobi.»
 
⁕⁕⁕
 
Jung Hoseok non era di certo l’uomo che la gente avrebbe voluto come nemico.
Il suo viso dolce mascherava perfettamente il temperamento schivo e poco incline alla pietà, e il corpo massiccio non necessitava di ulteriori spiegazioni. Era un miscuglio ingannevole, una miscela letale, e forse era proprio questo il motivo per cui io e mia sorella avevamo legato con lui. Il corpo del mio molestatore era ancora steso accanto alla porta d’ingresso quando finalmente suonarono il campanello.
Il rumore fece sobbalzare Hei-Ran dallo spavento, che abbandonò lo straccio insanguinato a terra e si precipitò frettolosamente ad aprire la porta.
«Hobi.» Senza proferire parola, una figura fin troppo incappucciata fece il suo ingresso. Due occhi nocciola incrociarono il mio sguardo, e notai con piacere che la sua chioma ramata era rimasta uguale.
«Era un codice rosso, ma io di rosso vedo solo il vostro pavimento.»
«È una storia lunga.» Mi sbrigai a dire, sentendomi stranamente intimorita dal suo sguardo indagatore. Avrebbe avuto tutto il diritto di non voler immischiarsi in quella faccenda, dopotutto con quel giorno sarebbero stati sei mesi dall’abbandono. E sei mesi fantasma nei quali io e Hei-Ran eravamo completamente scomparse.
Il cipiglio accusatore dell’uomo, però, lasciò spazio ad uno splendido sorriso che fece scomparire in mezzo secondo ogni mia paura, e dopo circa una mezz’ora e una tazza di caffè, Hobi fu messo a conoscenza di quel fastidioso ma pericoloso inconveniente.
«E così vorreste tentare di corrompere un poliziotto.»
«Ti prego, Hobi. Se avesse gestito le cose Ha-Nun, a quest’ora avrebbe semplicemente bruciato il corpo e gettato gli avanzi per le strade di Seoul.» Mia sorella non supplicava.
Non avrebbe mai supplicato nessuno, tanto meno un amico e, come se non bastasse, avevo omesso un dettaglio importante. Un dettaglio che mi stava divorando la mente nelle ultime due ore. Questa mia negligenza non fu affatto accidentale, perché sì, avevo paura di confessarlo a mia sorella.
Dopotutto eravamo gemelle.
Da bambine il nostro legame era sempre stato intenso, due corpi e una sola mente. Io iniziavo una frase e lei la terminava; lei si faceva male e io piangevo. Non avrei potuto sopportare la sua rabbia.
La mia rabbia.
«Siete tornate ad essere persone comuni per scelta, fanciulle. Se qualcun altro avesse deciso di indagare sulla scomparsa di un uomo in una notte qualunque, non sareste state così fortunate.» Sospirò. «Incognito. Avreste dovuto imparare per bene il significato di questa parola quando vi fu messo sotto al naso un accordo di riservatezza. Perciò ditemi: perché ve ne siete andate dopo tutti questi anni? Voglio la verità.» Non avremmo potuto comunque nasconderci a lungo. Guardai Hei-Ran e gli diedi il tacito consenso di ripagare le sue aspettative.
«La morte dei nostri genitori non è stata accidentale.»
«Fanciulla…»
«No, Hobi. Forse sette anni fa eravamo troppo ingenue per capire. Prima papà, e dopo una manciata di mesi la mamma? Non esiste, non ho creduto ad una sola parola della scientifica. Devono esserci degli infiltrati, e vogliamo scoprire la verità.»
«Scavare di nuovo a fondo non vi riporterà in vita i vostri genitori.»
Quella frase mi trapassò il corpo da parte a parte.
Fu schietto, intenzionato a ferirci per tentare compassionevolmente di farci cambiare idea, pur sapendo che ogni suo sforzo sarebbe stato vano. Le sorelle Yun portavano a termine una missione. Fino alla fine. «E come pensate di farlo?» Chiese Hobi, sorpreso.
«Per il momento cerchiamo di non dare nell’occhio ma poi… poi ci servirà una copertura.»
 
⁕⁕⁕
 
Jung Hoseok decise di farsi corrompere nel nome di una amicizia e lealtà che ci legava da troppi anni. E non avrei mai, mai potuto biasimarlo.
Amore o solitudine?
Lui aveva scelto l’amore. Qualcosa per cui lottare e alimentare ogni giorno, aveva scelto la famiglia, che comportava il vivere non solo per se stesso, ma anche per il bene degli altri.
Io non avevo qualcuno per cui far battere il mio cuore, non avevo motivo di scegliere qualcosa che nessuno si era preso la briga di insegnarmi.
 
Non puoi fare del male se non conosci il bene. Privazione di privazione.
 
Salutato il nostro amico decidemmo di infrangere nuovamente quell’assurda regola e, qualche minuto più tardi, eravamo fuori, insieme, per una semplice e rinvigorente passeggiata al chiaro di luna.
Quella sera però la luna era triste, tinta di un rossastro scolorito, e pensai fosse così per ricordarmi che le mie mani erano macchiate della morte di troppe persone per essere così giovane. Per ricordarmi che i sensi di colpa mi avrebbero divorato per tutta la vita in una lenta danza di ricordi che spesso mi tenevano sveglia di notte.
Con una semiautomatica sotto al cuscino.

Decisi di chiamare un taxi.
«Dove vuoi andare a quest’ora della notte, stupida?» Senza darle spiegazioni chiesi al tassista di lasciarci ad Incheon, e finalmente capì. Rimase silenziosa per tutto il tragitto, con il capo rivolto sempre verso il finestrino e la mano che teneva salda la mia.
Non sarebbe stato difficile riconoscere l’edificio in questione. Alto, ingente, grigio, e con finestre così enormi che mi facevano chiedere tutte le volte come venissero pulite e tenute così a lucido.
Era asettico, e l’unica scritta che si imponeva sul tutto il resto, illuminata da una luce al neon blu, recitava:

“B.T.S – Bulletproof Security”.
 
«Ti manca?» Chiesi a mia sorella, che ne contemplava ancora la vista.
«Sì. A te manca?» Volevo sprofondare.
 
È tutto sotto controllo.
 
«No.»
 
La mattina seguente fu di nuovo tutto come prima.
La casa, il silenzio che vi alleggiava, mia sorella ancora cullata dalle braccia di Morfeo, e del cadavere solo un ricordo vago.
Così doveva andare, bisognava stare attenti ad ogni minimo dettaglio, diventare così invisibili da mettere persino in dubbio l’esistenza di ogni cosa.
E quello era il compito di un agente speciale: diventare inesistente. 
 


N.D.A

Zan zan zan
È entrato finalmente in gioco una personcina molto molto carina, il nostro meraviglioso J-Nope as a policeman!
E devo dire che con quella divisa... meglio finire qui la frase. 

Iniziamo ad entrare nel vivo della situazione e capire cosa stanno facendo queste due ragazze, ma soprattutto perché.
E voglio specificare che sì, sono gemelle, ma pur sempre diverse. Ognuna di loro, per quanto legate da un filo indistruttibile, vivrà la storia in modo differente dall'altra.

Spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto, e se volete discutere di qualcosa o darci le vostre opinioni siamo qui a vostra disposizione, always!
Un bacione a tutte e buon weekend,
S. 


 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Maledetto Suggerimento ***


♠CHAPTER IV - MALEDETTO SUGGERIMENTO
 

All'improvviso mi ritrovai in una stanza dall'aspetto familiare.
Pareti rosa corallo, tende bianche in tulle, due lettini in ferro battuto e quadri appesi ovunque ritraenti volti fin troppo inquietanti.
Tutte menzogne.
D’un tratto, quei visi così schifosamente felici iniziarono a fissarmi e a seguirmi con lo sguardo ovunque mi muovessi.
Un velo di sudore freddo mi ricoprì la fronte.
 
 
Sbarrai gli occhi di soprassalto, ritrovandomi a fissare il soffitto bianco della mia camera da letto.
«Cristo, che razza di sogno.» Biascicai nel tentativo di strapparmi dalla morsa umidiccia del mio piumone.
 
''Evidentemente non è ancora arrivata la stagione del piumone, Hei-Ran'' Avrebbe ironicamente canzonato mia sorella.
Si dà il caso, però, che io sia una persona molto freddolosa e che il piumone era in quelle condizioni esclusivamente a causa del mio incubo.
Scossi la testa.
Perché dovevo iniziare ad essere acida come un limone, così, di prima mattina, a causa -tra l'altro- di un discorso puramente fittizio?
Le mie labbra si trasformarono in un sorriso sardonico. In fondo quella era una delle parti che preferivo di me. 
Mi alzai dal letto con una morte addosso che avrebbe fatto invidia a chiunque, lanciando di sfuggita un'occhiata alla sveglia.
8:02.
Mi ero guadagnata ben sette ore di sonno. Assolutamente perfetto. Dirigendomi verso la cucina, notai che non c'era assolutamente alcun rumore, il che era alquanto strano data l'inclinazione di Ha-Nun ad essere, oltre che mattiniera, anche estremamente produttiva appena sveglia. 
Decisi quindi di fare ciò che lei faceva per me quasi tutti i giorni: una bella colazione.
Preparai il caffè, iniziai a mischiare malamente uova, latte e farina con la speranza di creare qualcosa simile a dei pancake, e aspettai.
Una volta pronto il tutto e apparecchiata la tavola mi diressi in fondo al corridoio dove era situata la sua camera, e bussai.
«Ho preparato la colazione. Svegliati, così potrai dirmi quanto fa schifo.» Urlai attraverso la porta.
Attesi qualche istante senza ricevere una risposta, e la cosa mi indispettì alquanto. Ha-Nun aveva il sonno davvero leggero e, di primo impatto, pensai fosse successo qualcosa, motivo per il quale entrai nella stanza.
Oltre al letto disfatto, però, non c'era nessuno. 
Sentii il mio cuore precipitare fino allo stomaco mentre il mio cervello era già occupato a ragionare con sollecitudine. 
 
Trasalendo, inorridii quando qualcuno mi afferrò la spalla per girarmi.
 
Mi preparai a caricare un pugno, quando i miei occhi misero a fuoco lunghi capelli neri che potevano appartenere solo ad una persona: Ha-Nun.
«Si può sapere dove cazzo eri?» Sbottai infuriata, fulminandola con lo sguardo.
«Prima di tutto buongiorno anche a te. In secondo luogo, ero uscita a fare una passeggiata per schiarirmi le idee. Dobbiamo parlare.» Mi lanciò un'occhiata carica di apprensione ma anche di intesa. 
«Cos'è questo odore, ehm, poco gradevole?» Aggiunse poi, guardandosi attorno.
Abbassai lo sguardo. «Ho provato a fare i pancake.» Sussurrai triste.
Il sorriso che fece subito dopo la mia affermazione mi scaldò il cuore.
«La colazione l'avevo preparata e ti aspettava sotto al coperchio che c’è sul tavolo, Hei-Ran.» Ridacchio lei.
Una volta mangiata -ovviamente la sua, di colazione- ci accomodammo sul dondolo della nostra piccola veranda. Alle nove del mattino di un mercoledì di ottobre la brezza mattutina faceva piacevolmente rabbrividire, ed entrambe prendemmo una grande boccata d'aria. 
Una boccata d’aria che forse poteva essere paragonata ad una lunghissima pausa dal mondo.
«Pensavo alle nostre indagini su quanto successo a mamma e papà. Mi sembra che non stiamo andando da nessuna parte, e non va bene.» Disse, lo sguardo pieno di rammarico.
«Dovremmo chiedere aiuto alla B.T.S. Non,» iniziai la nuova frase alzando la voce per sovrappormi al suo tentativo di interrompere il discorso sul nascere, «pensare male. Non intendo quello che credi, non possiamo tornare a lavorare lì. Quello che intendo è che lì dentro abbiamo persone fedeli di cui possiamo fidarci senza il minimo timore, e lo sai. Potremmo in qualche modo… sfruttare questa cosa. Ricordati che quando abbiamo deciso di andarcene sono stati proprio loro a dircelo.» Conclusi. 
 
Attese un momento prima di rispondere. Probabilmente ci stava riflettendo con attenzione pur sapendo che non avevo torto.
Quella mattina riuscii ad ottenere una piccola vittoria, poiché, ponderando attentamente le sue parole, disse: «Concordo. Ma ricorreremo al loro aiuto solo se sarà strettamente necessario.»
A quel punto non potei che accettare di buon grado la sua condizione.
 
La giornata proseguì al solito modo: ricerche, pranzo, ricerche.
Una routine a cui ormai davo poca importanza, nella speranza che, prima o poi, avrei concluso la faccenda. In quell’istante eravamo del tutto immerse dai documenti, sedute rispettivamente sui comodi divani bianchi del nostro soggiorno a sfogliare vecchi registri dei nostri genitori. 
 
Ero così assorta da tutte quelle parole incomprensibili e statistiche impossibili da decifrare che nemmeno mi accorsi di avere tra le mani una vecchia foto. Eravamo io e Ha-Nun, a cinque o sei anni. Indossavamo due completini identici ma di colori diversi, uno rosa e uno viola, e i nostri capelli erano legati in due codini bassi. Entrambi i nostri visi mostravano un timido ed innocente sorriso che lasciava intravedere una fila di minuscoli dentini accompagnati da altrettante minuscole fossette sulle guance.
 
Da quanto tempo non vedevo quelle fossette.
 
«Che succede?» Chiese Ha-Nun dopo aver sicuramente notando la tristezza che mi trapelava dagli occhi. 
Le feci un cenno con la testa per farla avvicinare, lei si inginocchiò ai piedi del divano e posò gli occhi sull'immagine che stringevo tra le mani. Entrambe rimanemmo ferme in un silenzio carico di parole mentre osservavamo quel ricordo.

In quel momento le nostre mani si sfiorarono vagamente.

Era tutto così perfetto. Eravamo così perfette. Così pure.
Quel momento intimo, però, fu presto spezzato. Distrutto, totalmente annullato da un suono molto insolito nella nostra dimora: lo squillo del telefono. Ci guardammo attonite per un attimo, i nostri sguardi incrociati erano carichi di preoccupazione.
Decisi di prendere in mano le redini della situazione e di rispondere.
«Pronto?»
«Salve, parlo con le sorelle Yun?» Era la voce di un maschio quella che sentii in quella telefonata. Data la cadenza delle sue parole e il suo tono di voce, doveva anche essere parecchio nervoso e di fretta. 
«Chi lo vuole sapere?» Controbattei freddamente.
«Sono il CEO Kim Min-Jun.» Si affrettò a rispondere.
«Credo proprio di avere bisogno dei vostri servizi. Siete raccomandate da molte persone per bene, a quanto pare.» Spiegò, calcando sul ''per bene'' come per fare intendere tutt'altro, e sicuramente aveva ragione.
«Di cosa si tratta?» Lo incalzai, per ricevere in risposta un due di picche con uno schietto “Non ora, non al telefono. Vi ricontatterò presto”
Poi il nulla.
 
Conclusa quell’assurda chiamata, risposi velocemente allo sguardo carico di domande di mia sorella. 
 
«Perfetto.» Disse, fin troppo serena. 
Sollevai velocemente gli occhi da terra e le puntai addosso il mio sguardo da ''ma sei pazza o cosa?'' a cui lei subito rispose.
«Pensaci, è proprio ciò che ci vuole. Innanzitutto perché ci stiamo arrugginendo, inoltre ci serve una copertura mentre indaghiamo per i fatti nostri. Calza proprio a pennello! E poi, ti ricordo che nessuno dei nostri ex superiori sa il vero motivo del nostro licenziamento. Cosa penseranno se non sentiranno parlare di noi?» Dannazione, quella donna era fin troppo convincente.
Mi lasciai andare ad un sonoro lamento e con la coda dell'occhio la vidi sorridere.
Come potevamo vivere così? 



N.D.A

Buongiorno a tutti! 
Un nuovo sabato, un nuovo capitolo.
Anche qui sarà presto chiaro cosa succederà e, soprattutto, chi riguarderà. Eheh. 
Devo dire che noi parliamo di questa storia ormai da mesi e sinceramente ne siamo molto contente. Spero lo siate anche voi e, mi raccomando, non esitate a farci sapere qualsiasi cosa, critiche comprese, purché costruttive, ovviamente. 
Spero vivamente che la storia vi piaccia, prossimo appuntamento next week! Stay tuned.
F. 

 

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Capitolo 5
*** Maledetto Indugio ***


♠CHAPTER V - MALEDETTO INDUGIO
 

Kim Min-Jun.
 
Non avevo mai sentito quel nome prima d’ora, e fu alquanto strano.
Avevo pur sempre lavorato per una delle società più richieste del paese, la conoscenza era un requisito fondamentale.
In molti avevano criticato la mia scelta e quella di Hei-Ran di lasciare la Bulletproof Security, ritenevano fosse più opportuno restare e continuare a fare il lavoro di sempre ma, per quanto potesse essere comodo, avrebbe distratto entrambe dallo scopo principale.
 
La B.T.S non era una agenzia di sicurezza qualunque.
 
Per potervi accedere bisognava anzitutto rinunciare alla propria vita, ai propri cari. Probabilmente io e Hei-Ran fummo privilegiate in questo.
Avevamo quindici anni quando vidi il nostro futuro strappato malignamente dalle mani di entrambe, quando morì anche nostra madre.
Di lei solo una frase scritta su un misero pezzo di carta stropicciato.
 
“Fate ciò che vi dice. Questa è la mia punizione,
Omma.”
 
Quelle parole, ora, suonavano ancora più incomprensibili di sette anni fa.
Con il senno di poi supposi che la persona a cui si riferisse fosse Choi Yong-Ho-ssi, il CEO della B.T.S, ma non ne ero più così sicura.
Ogni volta che provavo a chiedergli dei miei genitori rispondeva di non saperne nulla, che aveva visto in noi delle potenzialità e che ci avrebbe mantenute fino a formazione completa.
Più insistevo e più si rabbuiava, talvolta rispondendomi in malo modo e, dopo qualche mese, iniziai a tacere perché non volevo vederlo arrabbiato.
 
Il secondo step per potervi accedere, invece, era un accordo di riservatezza che, naturalmente, non era un contratto qualunque.
Era ASSOLUTAMENTE vietato parlare di ciò che succedeva all'interno dell’azienda: avevano comunque i mezzi per scoprire se un dipendente lo avesse fatto omettendo la cosa.
Meglio non scherzare con il fuoco, la penale sarebbe stata decisamente salata.
Non solo a livello pecuniario.
Per quanto ne sapessi vi fu un solo traditore nella storia della Bulletproof Security, e di quel traditore, una volta scoperto, si erano perse le tracce.
Come se non fosse mai esistito.
 
Appurate queste premesse rimaneva solo il training, prima di entrare ufficialmente nel corpo dell’azienda come dipendente riconosciuto.
Anche il training, però, differiva da persona a persona in base a ciò che essa avrebbe poi dovuto svolgere al suo interno, e generalmente poteva durare dai sei mesi ai tre anni.
Il nostro training durò esattamente tre anni, lunghi e difficili, terminati i quali eravamo già pronte e robotizzate ad eseguire gli ordini dei nostri superiori.
 
La B.T.S, infatti, era suddivisa in “strati”.
Il primo strato, la Basic Supervision, era lo strato che richiedeva il training più corto.
Si estendeva dal primo al quinto piano del palazzo, e ricercava una accurata conoscenza delle reti informatiche ampliate su tutto il suolo coreano.
Ogni singolo macchinario di quella stanza riceveva a tempo zero informazioni dall’esterno, le codificava e, se la situazione non era stabile, veniva mandato un allarme ai piani alti.
 
Il secondo strato, lungo altrettanti cinque piani sopra il primo, si chiamava Basic Security.
Più che una mente allenata come alla Supervision, bisognava avere un corpo temprato, massiccio ma agile.
Lì dentro vi erano centinaia di uomini -per la maggior parte- il cui scopo era quello di affiancare personaggi di spicco di tutti gli ambiti, principalmente politici o azionisti di ragguardevole fama.
La conoscenza di almeno due arti marziali era fondamentale.
 
Al terzo strato le cose si facevano più serie. Più segrete.
La Advanced Security non aveva nulla a che fare con la Basic precedente. Si estendeva fino al quindicesimo piano, e si preoccupava solo di una cosa: far rispettare le leggi.
Con la forza, se necessario.
Operavano in superficie accompagnati sempre da un’arma nella fondina nascosta sotto al completo nero e bianco che erano obbligati ad indossare ogni fottuto giorno, simile ad uno smoking ma meno fastidioso.

Poi c’era lui. Il sedicesimo.
Il fantasma.
Il Black Stratum.
Lo strato di cui non avrei mai potuto dare una definizione esatta per essere considerata soddisfacente.
Lo strato “debole” (potevano essere classificati tutti tali) non poteva salire, ma non viceversa, eccetto per il quarto.
Nessuno poteva accedervi ad eccezione degli stessi componenti e del CEO e, a prescindere, vi erano controlli di ogni genere sia quando si entrava che quando si usciva.
Nessuna pietà.
Nemmeno per lo stesso Choi Yong-Ho, questione di sicurezza nazionale.
Il quarto strato, per farla breve, poteva essere paragonabile all’FBI, motivo per cui l’accesso richiedeva così tanti anni di training, un miscuglio di conoscenze informatiche, marziali, destrezza con le armi, una dose di adrenalina fuori dal comune e, per finire, discrezione.
Noi agenti considerati “speciali” potevamo essere amici, fidanzati, cameriere… dovevamo trasformarci in qualunque cosa e utilizzare qualunque mezzo pur di completare la missione assegnataci.
 
Ora la mia missione era scoprirne di più su questo Kim Min-Jun.
Nonostante avesse detto che ci avrebbe ricontattate, erano già passati cinque giorni da quella assurda telefonata.
Inizialmente avevo provato ad inserire il suo nome nel motore di ricerca del mio fedelissimo portatile datato Era Dinosauri, ma nulla.
Nemmeno qualcosa riconducibile ad un CEO di qualche piccola organizzazione.
Vuoto cosmico.
«Ancora in ballo con quel nome?» Hei-Ran si accomodò accanto a me, tra le mani aveva un piatto fumate di ramen, che guardai esterrefatta.
Roteò gli occhi. «Davvero divertente. È ramen istantaneo.» Tirai un sospiro di sollievo, e mi resi conto che erano già le nove inoltrate quando il mio stomaco iniziò a brontolare dalla fame, ma non potevo fermarmi.
«Qualcosa non torna.»
«Quando mai ti torna qualcosa?» Le diedi uno sberlone sul collo.
«Porca puttana, Ha-Nun!» Tutto il ramen che si trovava nella ciotola era comodamente steso sulle su gambe. «Ti sta bene, stronza.»
Si alzò seccata dalla sedia e andò in cucina, probabilmente per prepararsene un altro mentre io, mordicchiandomi il labbro inferiore, decisi di tentare l’ultima sponda che mi era rimasta.

«Sei una stupida se pensi di poter accedere lì dentro.»
Sobbalzai dallo spavento.
«La prossima volta che ti metti di soppiatto dietro di me, giuro, sarà anche l’ultima. Perché non dovrebbe funzionare?» Non diede molto peso alle mie parole, piuttosto la guardai mentre afferrava il pc dalle mie mani e si riposizionava al mio fianco.
«Sai che il sistema informatico è pressoché infallibile. La tua rete verrebbe fatta rimbalzare da tutt’altra parte.» Il mio sguardo si fece rigido, e lei continuò la frase. «Beh, tanto vale provare. Lascia fare a me, sono più afferrata con queste cose.» Hei-Ran iniziò a pigiare così tanti tasti in una volta che, per un attimo, mi andò insieme la vista, perciò mi spostai per farla agire indisturbata.
 
Fu proprio in quel momento che il telefono squillò per la seconda volta in quella settimana.
 
«Kim Min-Jun, immagino.» Ci fu qualche secondo di silenzio prima di una vera e propria risposta.
«Sei davvero scaltra come dicono, Yun Ha-Nun.»
Poi, l’illuminazione.
«Anche lei è niente male, visto che ha dato a mia sorella un nome falso.»
«Sospettavo avreste fatto delle ricerche.» Rispose l’uomo.
«Date le dubbie circostanze, oserei dire che fosse scontato.» Replicai io.
Sogghignò. «Presentatevi per le diciassette e trenta al parco vicino alla scuola Sarang. Ci sarà una macchina ad attendevi, la riconoscerete subito.»
«Non ho mai detto che avrei accettato.»
«Ma non hai nemmeno rifiutato. Che peperina. Sarà proprio un bell’affare.» E, dopo quella frase, riagganciò, lasciandomi abbastanza perplessa.
Mi voltai a guardare la mia gemella, così assorta da quel maledetto schermo da non essersi accorta di nulla.
«Non ne abbiamo più bisogno, Hei-Ran.»
 
⁕⁕⁕
 
«La tua faccia sembra urlare “pericolo!”» La fulminai con lo sguardo.
«Ma davvero?» Chiesi sarcasticamente. Scoppiò a ridere, nonostante io non ci trovassi proprio nulla di divertente in tutta quella storia. Quello stronzo aveva pure avuto il coraggio di fare il simpaticone. Forse non aveva capito con chi avesse a che fare. Ero davvero furiosa, con lui e con me stessa per non averlo mandato a fare in culo subito.
«Saremo preparate ad ogni evenienza, domani. Non ti preoccupare. Mi copri le spalle?»
La guardai dritta negli occhi, decisa.
«Sempre.»



N.D.A


Ed eccoci con un altro capitolo.
Devo dire di essermi divertita abbastanza mentre lo scrivevo, specialmente le scene tra Hei-Ran e Ha-Nun.
Questo capitolo è più lungo del solito, spero non sia troppo pesante ma, in compenso, sapete qualcosa di molto importante sul passato delle gemelle.
Volevo fare una precisazione, onde evitare fraintendimenti, per quanto concerne la B.T.S:
Il primo strato non può salire al secondo, il secondo al terzo e il terzo al quarto.
Il terzo strato può scendere al primo e al secondo, mentre quest'ultimo solo al primo.
Tutto questo chiaramente per una questione di "gerarchia" (non che la Basic Supervision sia poco importante, anzi). 

Volevo nel frattempo approfittarne facendo un ringraziamento a tutte le persone che hanno inserito questa storia -per quanto sia ancora all'inizio- tra le seguite, preferite e ricordate. 
Ci riempite il cuore di gioia, spero tanto di non deludervi! 
Un bacione a tutti e buon weekend!
S.






 

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Capitolo 6
*** Maledetto Allarme ***


♠CHAPTER VI - MALEDETTO ALLARME


Aprire gli occhi fu decisamente difficile quella mattina, così faticoso che mi tornarono in mente i giorni di training per la B.T.S, sempre se le tre e mezza del mattino si potesse considerare un orario ragionevole.
A mio avviso tentare di svegliarsi risultava un’impresa immensamente superiore rispetto ad allenamenti vari e, francamente, a chi sarebbe piaciuto farlo così presto?
Fu terribile scattare in piedi con già un peso così massiccio nello stomaco. Sbuffai sonoramente, consapevole che avrei dovuto portarmi dietro quella terribile sensazione per quasi il resto della giornata.
Guardai dunque l'orologio. «Fantastico, mancano solo sei ore.»
 
La notte precedente io e Ha-Nun restammo sveglie fino alle quattro.
Mi sarebbe piaciuto dire che il motivo fosse dipeso da questioni rilevanti ma, in realtà, ci fiondammo in una maratona di drama -con tanto di birra e pizza- proprio come avrebbero fatto delle normali ragazze di ventidue anni e, poiché per entrambe il motto “prima il dovere e poi il piacere” era considerato uno stile di vita, tutto questo fu concretizzato solo dopo i classici controlli di routine tra i vecchi documenti e registri dei nostri genitori.
 
Una volta raggiunta la cucina i miei occhi si soffermarono su Ha-Nun, raggomitolata sopra una sedia e con ancora il pigiama indosso.
La osservai divertita mescolare il suo solito caffè macchiato con una mano, mentre con l’altra girava le pagine di un libro spingendosi ripetutamente gli occhiali sul piccolo nasino.
Ridacchiai, suono che la riportò alla realtà.
 
«Buongiorno principessa.» Disse con un tono beffeggiatore. 
Mi sedetti scompostamente sulla sedia accanto a lei e afferrai subito la colazione che mi stava porgendo poggiata sopra il vassoio grigio che più adoravo. Stavo gustando con piacere i miei ottimi biscotti quando Ha-Nun mi porse il giornale, indicandomi un articolo verso metà della pagina. Lo presi tra le mani e iniziai a leggere tentando in qualche modo di ingoiare il biscotto che si trovava ancora fra le mie labbra utilizzando come leva la mia lingua. Quel gesto risultò abbastanza spassoso per la mia gemella, che scoppiò in una fragorosa risata e accompagnò il suo sghignazzo ad un: “Pari Gollum”, riferendosi alla mia postura.
Mi unii a lei, e fu meraviglioso concedersi un momento del genere, simile a quello di qualsiasi altre spensierate sorelle. 
Mi concentrai poi sull'articolo, il quale evidenziava l'ennesimo caso di vandalismo e bullismo in una scuola parecchio rinomata che diede spunto per l’inizio di una lunga dissertazione.
L’orologio, intanto, ticchettava lo scandire di un tempo che pareva infinito, e quando arrivarono per davvero le quattro sembrò quasi un miraggio, tanto che ci fiondammo entrambe nei rispettivi bagni per lavarci e prepararci il più velocemente possibile.
La doccia, ahimè, non riuscì a tranquillizzarmi, e se lo scorrere dell'acqua calda sul mio corpo non riusciva a distendere i miei nervi… il problema poteva definirsi alquanto serio.
 
Incontrai i miei occhi gemelli -se non per il fatto che fossero velati da un paio di lenti- dall'altro lato del corridoio, e notai che anche Ha-Nun aveva optato per degli abiti scuri, anonimi, e una mascherina per nascondere almeno in parte il viso. 
Giocherellai con una ciocca dei miei capelli per poi lasciarla ricadere lungo la spalla, mentre lei legò nervosamente i suoi in una coda di cavallo.
 
Dopo aver preso un grande respiro uscimmo finalmente di casa.
 
In una ventina di minuti la destinazione si parò davanti ai nostri occhi, e pensai immediatamente a quanto fosse stata stupida la scelta di quel ''Kim Min-Jun'' ad averci portate in un parco a quell'ora dato che, essendo di fronte alla scuola Sarang, il luogo era affollato da bambini e corrispettivi genitori. Non riuscii nemmeno ad insultarlo per bene nella mia testa che una macchina nera si fermò proprio davanti a noi, dalla quale uscì un uomo sulla trentina che fece il giro, si inchinò e aprì la portiera. 
Ha-Nun decise di entrare per prima e io la seguì senza esitazione, assetata di ottenere risposte a tutte quelle domande che non smettevo di pormi.
«Finalmente conosco le due gemelle di cui mi hanno tanto parlato. Beh, è poco rispettoso non mostrarmi la vostra faccia, sapete?» Ridacchiò Kim Min-Jun. 
Mi presi un momento per studiarlo: era un semplice uomo brizzolato di mezza età, considerate le rughe che gli circondavano gli occhi. Continuava a tenere le labbra ancora imbronciate in quello strano sorriso che ci aveva precedentemente accolte, e non mi piacque affatto l’arroganza che traspariva dal suo essere.
«Non siamo qui per i convenevoli.» Rispose con prontezza Ha-Nun, rubandomi le parole di bocca.
«Potrai vedere la nostra faccia quando ci dirai chi diavolo sei e cosa ti serve, forse.» Aggiunsi poco dopo io con un velo di acidità e un sardonico sorriso dipinto sul volto. 
«Le gattine hanno le unghie, affascinante. Sarò breve: mi chiamo Sin Hyon-Su e sono il CEO di un'agenzia, la T&AR. Immagino ne abbiate già sentito parlare. Vanta un monopolio del 63% su tutta la rete informatica del paese. E non solo.» Non appena vide mia sorella scuotere la testa in segno di assenso riprese quello che per me sembrava un discorso del tutto irrilevante, sebbene quel nome avesse scatenato in me un campanello d’allarme.
 
«Conoscere altro non vi riguarda, per il momento. Vi basti sapere che due nostre figure molto, molto importanti sono state minacciate ripetutamente, e non possiamo permettere che succeda loro qualcosa, perciò qui entrate in gioco voi. A quanto dicono siete le migliori, anche se onestamente ora che vi vedo non riesco a concepire tutte queste belle lusinghe.» Sogghignò lui, pensando forse di essere simpatico.
 
«Sminuire persone che nel frattempo supplichi per avere un loro servizio e con le quali dovresti collaborare è sicuramente l’approccio migliore per convincerle ad aiutarti. Che pozzo d’intelligenza.» Lo interruppe mia sorella. La sua tagliente risposta lo fece irrigidire, ed esultai mentalmente per la piccola grande vittoria. Brava, Ha-Nun.
Quel momento di euforia però non durò così a lungo come mi aspettavo, e non mi scaturì la reazione desiderata.
 
''Davvero siamo arrivate a questo punto? Le persone tremavano di fronte a noi e ora dovremmo ridurci a fare le guardie del corpo di due nerd?''.
 
Guardai fuori dal finestrino. La macchina si stava muovendo fin troppo velocemente per essere ancora nel centro abitato, ma poco importava. Non avrei mai voluto accettare, ma era già da tempo che non lavoravamo e, inoltre, sentivo l’impellente bisogno di dover indagare su quella agenzia.Perché il nome mi era così familiare? Cristo, la testa stava quasi per scoppiarmi dal nervoso.
D’un tratto la macchina sterzò, e spostando nuovamente lo sguardo di fuori mi accorsi che stavamo già tornando indietro.
Tanta ansia per una schifosa chiacchierata di cinque minuti.
 
«Tra tre giorni riceverete un’altra mia telefonata, in ogni caso. A quel punto starà a voi accettare o rifiutare. Per il momento è tutto.»
«Aspetta!» Urlò la mia gemella affannosamente. «E se fosse anche questo un nome falso?» Sul volto di Sin Hyon-Su comparve un sorriso ammiccante. «Puoi sempre fare un’altra delle tue meticolose ricerche.»
Si congedò così e se ne andò, lasciandoci con mille pensieri.
 
⁕⁕⁕

«Dì quello che ti pare ma non ho intenzione di accettare, Hei-Ran. Assolutamente.» Disse bruscamente Ha-Nun sulla via di ritorno a casa.
Pareva che il passo di entrambe fosse veloce quasi quanto i pensieri che ci frullavano per la testa.
Misi parecchio tempo prima di rispondergli: non volevo essere schietta come al solito. Mi sentii davvero con le mani legate.
«Dobbiamo, purtroppo. An-» Il fiato mi si mozzò in gola mentre una immagine si fece largo nella mia testa, spazzando via quel momentaneo attimo di sconforto.
Si trattava di una pagina bianca, completamente bianca, se non per una misera incisione d’inchiostro sul lato sinistro di essa.
 
«Il nome dell'agenzia di cui ci ha parlato il vecchio compare in una pagina dei registri di mamma e papà.»
E la mia risposta spense ogni voglia di Ha-Nun di controbattere, che si lasciò andare in un profondo sospiro avvilito.


N.D.A

 
Salve a tutti! Un altro capitolo, nuovi problemi.
Che dire, sono in trepidante attesa, sinceramente non vedo l'ora che le cose diventino chiare anche per voi!
​C'è da dire che in questo capitolo 
avete sicuramente colto qualcosa.
Grazie mille di nuovo a tutte le personcine gentilissime che seguono la nostra storia e la recensiscono. Aw. Ci rendete tanto felici!
F. 
 

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Capitolo 7
*** Maledetto Bar ***



♠CHAPTER VII - MALEDETTO BAR
 

Due giorni.
Erano già passati due maledetti giorni dall’incontro, e ancora non avevamo preso una decisione sul da farsi. Hei-Ran pensava fosse scontato per me approvare la sua scelta, viste le circostanze e visto ciò che si era ricordata quel pomeriggio, eppure avevo il sentore che accettare avrebbe scatenato qualcosa… qualcosa di molto brutto.
Quella sera, dopo essere rientrate, mi fece vedere il registro su cui era scritto l’acronimo della azienda di Sin Hyon-Su e, di nuovo, le cose non quadrarono. Si trattava di un manuale abbastanza grande e ricco di informazioni, dalla prima all’ultima pagina.
Per quale mistico motivo proprio su quel foglio non vi era allora nulla, eccetto “T&AR”?
Soprattutto, per quale assurdo motivo non ero stata subito messa al corrente di quella scoperta?
Sapeva che ogni frase, ogni numero e persino ogni virgola contenuta nei fascicoli era importante per le nostre ricerche, specialmente se si fosse trattato di cose ambigue come quella. Ero davvero abbattuta, sconfortata, ma anche un po’ ferita dalla sua scelta di tenermi all’oscuro di quel minuscolo particolare, dato che ai miei occhi non lo era affatto.
Decisi di maledire tutto, me stessa, la stupida regola del passare inosservate, la B.T.S e la situazione in cui ci trovavamo.
Non mi importava più nulla, pensavo solo alle strade di Seoul, a quel mondo caotico che per anni mi era stato negato a causa solo mia e del lavoro che facevo.
 
Lo schiaffo morale che mi diedi fu l’innesco che fece scoppiare una bomba di rimpianti a cui mai avrei creduto di soccombere.
 
Pensavo di essere felice, una donna appagata e pronta a combattere per la giustizia, una piccola Robin Hood intenta a cavalcare le onde della vita nel migliore dei modi, e invece quelle stesse nefaste onde mi stavano silenziosamente affogando a causa della pesantezza dei miei rimorsi intenti a trascinarmi sempre più a fondo.
Satura di quei pensieri, mi misi addosso lo stesso giubbottino nero che avevo indossato per l’incontro. «Dove diavolo pensi di andare adesso?» Mi chiese Hei-Ran, appoggiata alla porta di camera sua.
«Da qualche parte, basta che sia lontano da qui. Ne ho abbastanza di misteri per un giorno solo.» Presi il mio mazzo di chiavi e uscii, senza più voltarmi.
 
⁕⁕⁕
 
Non seppi esattamente quanto mi spinsi lontano da casa, né tantomeno la zona in cui mi ritrovai, ero consapevole solo del senso di inquietudine che stava insistendo nell’accompagnarmi lungo quella passeggiata senza meta.
L’autunno era ormai inoltrato, le strade coperte da un arcobaleno di foglie scricchiolanti e il cielo era tinto di un grigio così scuro che sembrava già notte, sebbene mancassero ancora parecchie ore. Nel complesso trovai il paesaggio meraviglioso, quasi fosse una rarità potervi assistere.
La magia della natura.
Dopo aver adocchiato un bar dall’aspetto più che confortevole in fondo alla via decisi di coccolarmi con una tazza fumante di the, e sperai che il calore, oltre a bruciarmi la gola, potesse anche ardere i miei pensieri.  
“Peaches and Cream”, il bar in questione, era magnifico. L’arredamento in legno gli conferiva un’aria vintage e, appena varcata l’entrata, si poteva odorare per tutto il locale un profumo di brioches appena sfornate.
 
Come per tutte le cose all’apparenza perfette, però, doveva esserci una crepa da qualche parte.
 
Mi avvicinai quasi felice alla cassa per ordinare la mia bevanda preferita quando mi cadde la mascella dallo stupore.
 «Ha-Nun? Ma che sorpresa! Non avrei mai pensato di vederti qui. In realtà non avrei mai pensato di rivederti e basta.» Due occhietti vispi color cioccolato mi salutarono dall’altro lato del bancone, regalandomi persino un sorriso mozzafiato che, ebbene sì, fece perdere un battito al mio cuore ghiacciato.
Kim Taehyung era semplicemente meraviglioso, dovevo ammetterlo.
Mai nella vita avevo visto un uomo così affascinante, così ammaliatore, specialmente con addosso quella divisa che sembrava più adatta ad un cuoco che un cameriere. Non mi piacque affatto l’effetto che mi fece, e dopo aver chiuso con finta indifferenza la mascella mi ricomposi.
«Agente V. Qual buon vento ti porta qui?» Maledetto sorriso.
«Beh, anch’io ho deciso di mollare. Non ero più in grado di indossare i panni di un agente speciale.»
Sei come me.
Lo guardai dritto negli occhi.
«Non la bevo, Taehyung. Pensavo fossi migliorato con le bugie.» Arricciò il naso sbuffando.
«Abbassa la voce. Sono sotto copertura. Come diavolo ti sei ridotta? Sembri una scappata di casa.» Aggiunse poi.
Fui io ad arricciare il naso, a quel punto. «Ci sei andato vicino. Allora?»  Non volevo parlare di me, non in quel momento. Non con lui.
Si guardò attorno con attenzione, preparò il mio the con nonchalance e finalmente mi rispose. «È un brutto ritrovo qui dentro.
Qualcosa a che fare con arroganti figli di papà e un giro di droghe ben assortito. Li stiamo tenendo d’occhio da un mesetto ormai.»
Bevvi un sorso di the inglese sperando che mi riscaldasse e, contemporaneamente, cercai di analizzare ciò che Taehyung aveva appena detto. In effetti quel locale era perfetto per loschi ritrovi, e visto l’aspetto elegante e raffinato nessuno lo avrebbe mai supposto.
Elementare, Watson.
Svuotata metà tazza, mi resi però conto di stare temporeggiando. Volevo rimanere più tempo con l’Agente V, osservare le sue movenze come facevo un tempo durante le missioni, o respirare l’aspro profumo che emanava il suo corpo per poi tentare di memorizzarlo il più a lungo possibile.
Non potevo cancellare il passato, né tantomeno ridisegnare il futuro, e Kim Taehyung non faceva sicuramente parte del mio.
Mi feci coraggio e ingurgitai l’ultimo sorso di the per poi voltarmi, chinare il capo in sua direzione come saluto e andarmene, quella volta mi ripromisi per sempre.
 
Non dimenticherò mai ciò che sei stato per me.
 
Ero quasi arrivata alla porta, quando un dolore fortissimo urtò la mia spalla sinistra e mi scaraventò un metro più in là.
Il colpo fu così forte che spaccò in mille pezzi il piccolo tavolino di ciliegio che mi aveva appena fatto da airbag.
Rimasi immobile per qualche secondo tentando di riacquistare la vista e il controllo dei miei sensi mentre un liquido cremisi stava scivolando lungo il braccio che aveva ricevuto la botta. Perdevo pure sangue.
Quando finalmente la vista tornò limpida alzai gli occhi per capire chi fosse il coraggioso in questione che aveva osato toccarmi, ma ciò che mi si presentò davanti -per quanto avessi visto di peggio- mi distrasse. Ogni tavolo della saletta era a pezzi e ogni muro imbrattato di vari fluidi, mentre un gruppo di uomini si stava ammazzando di botte fino allo stremo delle forze.
Realizzai in un millesimo di secondo che quegli uomini fossero i soggetti del discorso che feci poco prima con il mio ex collega, e fui felice del fatto che avrebbe finalmente potuto coglierli in fallo e sbatterli in prigione una volta per tutte. Vidi Taehyung uscire da dietro il bancone e dirigersi verso i tre con in mano un walkie-talkie probabilmente collegato alla centrale, mentre uno di loro, il più vigoroso, estrasse furtivamente un coltellino dalla tasca dei pantaloni.
Non potevo restare lì a guardare, dovevo fare qualcosa al più presto e far sì che V non si facesse male. Non doveva succedere.
Mi affrettai a raccogliere un pezzo di legno -dedussi fosse un resto delle sedie frantumate- per poi iniziare a correre verso il centro della sala, ma qualcuno fu più veloce di me. Quel qualcuno mi prese per il maglione tirandomi all’indietro e facendomi di nuovo volare a terra. «Che cazzo pensi di fare, ragazzina? È pericoloso per una donnina raffinata come te immischiarsi.»
Un ragazzo alto, muscoloso e dai semplici capelli scuri mi dava le spalle. Lo vidi poi avviarsi in direzione della rissa, con un atteggiamento fin troppo spavaldo. Colsi la palla al balzo per alzarmi -di nuovo- e quando gli fui abbastanza vicina arricciai una gamba attorno alle sue, tirai con tutta la forza che avevo in corpo e lo feci cadere rovinosamente a terra.
Senza perdere ulteriore tempo mi fiondai addosso all’omaccione e gli tirai una gomitata così forte sotto alla mascella da fargli saltare due denti. Urlò dal dolore e cercò di colpirmi sulla pancia con il coltello, ma fui più veloce e saltai a lato schivando il colpo.

Ginocchia, braccia, diaframma, viso.

Lo schema di lotta che mi avevano insegnato non fu molto d’aiuto in quella situazione, mentre il boccale di vetro in esposizione sì.
Presi una leggera rincorsa e scivolai tra sue gambe lungo il pavimento in parquet, annullando la distanza che mi separava dal bicchierone posizionato proprio alle sue spalle. L’azione fu rapida: colpii esattamente la parte superiore del cranio facendolo crollare privo di sensi a terra, terminando così lo scontro in maniera definitiva.
«Sempre così… sportiva.» Ridacchiò Taehyung intento ad ammanettare i tre uomini. Arrossii vistosamente. «Certe cose non cambiano mai.»
Una volta chiamata la polizia e portato via i tre uomini fui pronta per andarmene sul serio, ma qualcosa catturò la mia attenzione.
Anzi, qualcuno. Il ragazzo che aveva cercato di fermarmi era ancora nel locale e mi stava osservando da un angolo della stanza, divertito.
Brutto stronzo, come aveva osato interferire? Sarebbe potuto succedere il peggio!
Non potevo assolutamente lasciar correre, perciò andai a passo spedito verso di lui per dirgliene quattro.
«Chi cazzo ti credi di essere, il paladino del mondo? Forse non ti è chiaro che la vita non è una fottuta gara tra finti coraggiosi come te! Fai un favore all’umanità e sparisci, altrimenti ti faccio fuori.» Sputai velenosa.
Dovetti alzarmi in punta di piedi per poterlo guardare dritto negli occhi. Lui, in risposta, sogghignò con fare presuntuoso e io, fumante di rabbia per quell’affronto e perché non mi aveva palesemente ascoltata, gli tirai un pugno sullo sterno facendogli mancare il fiato e spegnendo quel sorrisino strafottente una volta per tutte. «Ridimi in faccia ancora e non sarai così fortunato.» Non aspettai una risposta, poco mi importava di quell’uomo, e mi voltai per andarmene il più velocemente possibile, scocciata dal fatto che non fossi riuscita a stare in pace nemmeno in quel momento.
 
Quel giorno capii che le regole esistevano per essere rispettate, e che evidentemente la mia vita era destinata a non essere ordinaria come quella di qualsiasi altra persona.
 
Il braccio smise di sanguinare quando arrivai davanti a casa e con esso scomparvero anche il dolore e il ricordo di Taehyung, lasciando però spazio ad una rabbia micidiale e un paio di occhi sconosciuti, occhi ambrati. Che frustrazione.
«Hei-Ran! Devo parlare immediatamente con qualcuno e quel qualcuno sei tu!»
Quel giorno capii anche quanto avessi bisogno di mia sorella nella mia vita.


N.D.A

Buona sera bellissimi e bellissime! Perdonate l'orario, di solito pubblico il sabato pomeriggio, ma c'erano cose che non mi convincevano e quindi ho tentato di procastinare fino alla fine, però non posso e voglio pubblicare un giorno in ritardo. 
Il capitolo, in effetti, è uscito lunghetto rispetto al solito e a tutti gli altri, ma è il capitolo fondamentale, il salto prima del vuoto. 

Dal prossimo aggiornamento si entra sul serio nel vivo della storia, perciò iniziate a prepararvi psicologicamente, perché sarà tosta! 
Ha-Nun è abbastanza stufa della situazione, e come si evince dalla lettura vorrebbe solo vivere una vita normale. Hei-Ran è della stessa idea? Boooh. Chi è questo ragazzaccio? Boooh. Lo scoprirete solo leggendo. 
Spero abbiate passato un Halloween macabro e in compagnia. Il mio è stato meraviglioso, sotto alle coperte. Sadness.

Smetto di parlare a vanvera e vi auguro come al solito di passare un buon weekend, un bacione grande e al prossimo capitolo! 
S.
 

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Capitolo 8
*** Maledetto Cambiamento ***




MALEDETTO CAMBIAMENTO
 

Il sole era calato da un bel po', e ancora quella stupida di Ha-Nun non era tornata. In quelle ore la mia mente aveva vagato così tanto che arrivai a pensare fosse stata rapita. Chissà fino a quali quartieri di Seoul si era spinta… scartai però subito l'opzione poiché, insomma, era praticamente impossibile che qualcuno ci riuscisse senza lasciarci le penne.
Voleva solo uscire, andarsene.
Era solita fare cose di quel tipo, era nella sua indole. Ogni tanto nei momenti di forte stress, quando il suo cervello formulava pensieri fastidiosi a raffica -cosa che ultimamente capitava molto spesso-, si staccava per un po' dal mondo. Era un ottimo modo per calmarsi, con lei funzionava alla grande. Io, invece, ero tutt'altra storia. Ci avevo provato più volte, ma finivo sempre con lo sbronzarmi a livelli schifosi e distruggere la prima cosa mi fosse capitata tra le mani accompagnando il tutto con urla e piagnistei.
Buffo come riuscissi a trasformarmi invece in una persona spietata e senza cuore durante il lavoro, quasi come se soffrissi di personalità multipla.
 
Tirai su il cappuccio della giacca, pronta per uscire a cercarla.
Erano passate troppe ore. 
Mi avvicinai alla porta, infilai le scarpe e afferrai la maniglia pronta ad uscire, quando un “Hei-Ran! Devo parlare immediatamente con qualcuno e quel qualcuno sei tu!” mi costrinse a fermarmi con un piede all’aria e scalzo.
«Idiota.» Sussurrai con un sorrisino sulle labbra.
Mi scollai di dosso giacca e scarpe, lei mi imitò e insieme ci dirigemmo al divano, sedendoci una accanto all'altra.
Avevo notato subito le lievi contusioni e il sangue sul viso e vestiti, ma lei non sembrava scossa, perciò pensai fosse la solita prassi. 
Difatti, come poco dopo mi spiegò, aveva incontrato l'agente V e beh, il resto era prevedibile.
 
Mi mancava quel ragazzo, davvero, uno dei migliori agenti. Diligente, ben addestrato, efficiente ed efficace. Guardai di sbieco Ha-Nun. Anche a lei mancava, sicuramente più di quanto ne sentissi io la nostalgia, ma decisi di non proferire parola a riguardo. 
«Quindi… ti sei rimessa in sesto? Ora stai bene?» Le chiesi con lieve apprensione nella voce, una volta che finì il suo racconto. 
Sospirò profondamente, chiuse gli occhi e si buttò sul divano.
Gli occhiali da vista poggiati sul suo piccolo naso alla greca erano lievemente appannati per il freddo, i lunghi capelli neri un disastro; per non parlare del viso, ancora più pallido del solito.
«Dovremmo accettare la missione. Ho bisogno di sapere e anche tu ne hai bisogno. So cosa ti passa per la testa.» Rispose infine con una voce quasi soave.
Inclinai lentamente la testa e aspettai di incrociare nuovamente il suo sguardo una volta riaperti quegli occhi che tanto usava come scudo per nascondersi dalla realtà.
«Lo so.»
 
Decidemmo di berci una birra per tentare di scacciare la negatività.
Un po' di spensieratezza ogni tanto ci voleva, ed era sempre bello passare il tempo a coccolarci reciprocamente. 
Ha-Nun alzò il viso in mia direzione e, con le lunghe dita affusolate, mi passò una mano tra i capelli, facendomi una lieve carezza.
La sua mano, però, si bloccò una volta arrivata circa a metà del percorso.
«Quando diavolo ti sei pettinata l'ultima volta?» Mi domandò sfacciatamente. 
Feci una smorfia. «Uno, è tutto il giorno che sono impegnata a capire dove ti trovassi, due, bella frase detta da una con un nido di uccelli in testa.» Risposi malignamente, per poi voltarmi fingendo di essere offesa. 
Iniziammo a ridere come due cretine e la serata proseguì con allegria. 
 
Verso mezzanotte il telefono squillò smorzando l’entusiasmo di colpo, e calò il silenzio. Ci fissammo con espressioni indecifrabili, poi mi alzai a rispondere.
«Allora? Avete deciso?» Gracchiò senza convenevoli una voce ormai conosciuta e fastidiosa.
«Buonasera anche a te,» cinguettai falsamente, «ad ogni modo, sì, l'abbiamo presa»
«Dunque?» Chiese sardonico.
«Che fretta c'è?» Lui voleva giocare al gioco di chi fosse più maleducato"? Perfetto, non avrei per nessuna ragione al mondo permesso che ne uscisse vincitore.
Il suo sbuffo mi fece capire di averlo sconfitto, perciò risposi con un flebile cenno di voce.
«Perfetto, domani allo stesso posto alle quattro. È arrivato il momento di presentarvi i clienti.» Quel bastardo riattaccò senza lasciarmi il tempo di rispondere.
Aggiornai subito dopo Ha-Nun ed entrambe decidemmo di mantenere la calma e andare a letto: era quasi l’una.
 
Dopo essermi fatta la doccia il mattino seguente, ammisi con tristezza che disfare i nodi nei miei capelli fu veramente un’impresa.
Infilai i jeans, degli anfibi, una felpa e una giacca lunga -tutto rigorosamente nero per non dare nell'occhio- e lasciai i miei capelli finalmente senza grovigli liberi di muoversi per l'intera lunghezza della mia schiena. Attesi mia sorella davanti alla porta e, vedendola, notai ridacchiando che il suo outfit era praticamente identico al mio. Tipico. 
 
Nessuna delle due spiaccicò parola durante il percorso, nemmeno una volta salite in macchina.
Parlammo solo con quel viscido di Sin Hyon-Su, che ci spiegò a grandi linee i tratti principali dei clienti. 
Uno degli uomini aveva 25 anni, l'altro 28, ed erano i punti di riferimento della T.&A.R., così preziosi da essere celati agli occhi di molti. A quanto diceva Sin Hyon-Su, non erano proprio puliti gli affari di cui si occupavano.
"Ed ecco svelato il mistero dei nemici. Che noia" Pensai.
«Possiamo sapere i loro nomi?» Chiese la mia gemella.
Sin Hyon-Su alzò lo sguardo e rispose distrattamente «Perché non lo chiedete agli interessati? Qualche minuto e farete la loro piacevole conoscenza.» A quel punto Ha-Nun mi sussurrò di non prenderlo per il collo.
 
La macchina si fermò davanti ad un grattacielo grigio, situato praticamente nel centro di Seoul.
L'enorme scritta T.&A.R. risplendeva attraendo a sé l’interesse di chiunque passasse in quella zona. Qualcuno ci aprì la portiera e noi tre uscimmo dall'auto. 
Dire che l'interno dell'edificio era moderno era di certo un eufemismo. Era tutto così liscio, lucente, minimal, zeppo ovviamente di ogni tipo di tecnologica all’avanguardia. Uno strano oggetto fatto forse di plastica catturò la mia attenzione e mi concentrai per cercare di capire se quel coso fosse un pc o una macchina per il caffè, quando fui strattonata da Sin Hyon-Su. «Di qua.» Disse in modo burbero conducendoci verso un ascensore.
Fece scorrere una tessera accanto ai numeri di quest’ultimo e si aprii uno scompartimento sulla parete laterale. A quel punto compose una serie di numeri e l'ascensore iniziò a muoversi. «Giusto, questo è il codice.» Bisbigliò porgendoci un biglietto che mi affrettai a mettere al sicuro. Ebbi comunque il tempo di leggere "2710**".
«Queste invece sono le vostre tessere.» Aggiunse porgendoci schedine magnetiche nere, uguali alla sua. Su di esse erano impressi i nostri nomi in caratteri argentati e la scritta T.&A.R. ovviamente dorata.
Dio, tutte quelle innovazioni mi stavano facendo venire mal di testa.
 
La mia mente, però, si soffermò su qualcosa di più importante che una emicrania. Sin Hyon-Su sembrava strano, parecchio.
Parlava poco e non aveva quella vena da viscido e antipatico che aveva avuto giusto qualche minuto prima... qualcosa non andava.
Il tempo in ascensore sembrò infinito, mi voltai per leggere il numero dei piani appena passati, quando ci fu un tonfo e notai l'uomo inginocchiato, che respirava affannosamente.
«Tutto bene?!» Strillammo all'unisono io e mia sorella.
«S-si.» Balbettò lui, con un velo di sudore in viso per poi rialzarsi all'istante. La mia ipotesi fu confermata. Avrei dovuto indagare.
Finalmente il viaggio nella scatola delle torture finì, e ad attenderci proprio lì davanti trovammo un uomo sulla trentina che si inchinò e ci intimò di seguirlo. 
La stanza in cui ci fece accomodare era piena di computer, monitor e tablet.
Notai anche una lavagna e degli schedari. In fondo alla stanza, semi nascosta da altri computer, una porta. Strano.
 
Avrei voluto chiedere come mai ci fosse un fottutissimo ingresso dentro una fottutissima stanza, ma lo sbattere della porta da cui eravamo entrate fece voltare tutti di scatto, e le mie iridi si posarono finalmente su coloro che avremmo dovuto proteggere per i prossimi mesi. 
L'uomo a sinistra era alto, magro, pallido ma non troppo, capelli neri come la pece. Il suo viso esprimeva un non so che di rassicurante, forse per via degli occhi dolci e freddi al contempo. O per quei lineamenti perfetti.
Quello a destra invece era meno alto, più magro del primo, con una chioma biondissima. Era più inespressivo, e se lo sguardo del primo pareva freddo… il suo era glaciale. Avevano entrambi un finto sorriso stampato sulla faccia che, però, ci mise poco a scomparire.
Un occhio meno critico li avrebbe probabilmente definiti “belli da togliere il fiato”, ma era davvero irrilevante per i miei scopi.
Sentii Ha-Nun irrigidirsi e spalancare la bocca, sconcertata.
 
«TU?» Urlarono all’unisono lei e quel Jungkook.
Che diavolo? «Voi due vi conoscete?» Esclamai esterrefatta.
«No!»
«Sì.» Sogghignò il ragazzo. Ha-Nun puntò il dito in sua direzione, furiosa.
«Non finisce qui, moretto.»
«Sto tremando dalla p-»
«Siamo o non siamo qui per il lavoro? Non me ne frega un cazzo se conosci mia sorella o no, sta’ lontano da lei.»  Interruppi quel battibecco. Il ragazzo spostò la sua attenzione su di me, lo sguardo era tutt’altro che rassicurante. Per un attimo mi sentii bruciare la pelle.
 
Ci fu qualche secondo di silenzio e tensione scambiata dai nostri reciproci sguardi, finché il ragazzo si schiarì la gola e riprese a parlare. «Sono Jeon Jungkook. Lui è Min Yoongi. Penso vi abbiano già spiegato a grandi linee i vostri compiti. Avremo bisogno di voi ventiquattro ore su ventiquattro. In. Qualunque. Momento.» Scandì l’ultima frase. Nelle sue parole c'era qualcosa di strano.
«Non vedo come due esseri così minuscoli possano proteggerci.» Disse invece il biondo, scrutandoci dall’alto al basso, al CEO.
Il moro sembrò soddisfatto, come se gli avessero tolto un peso. Probabilmente si chiedeva la stessa cosa.
 
"Ma guarda questi due piccoli bastardi" pensai automaticamente e ebbi la certezza che la mente di mia sorella formulò lo stesso pensiero quando la vidi incrociare le braccia al petto.
«Posso farvi vedere.» Iniziai a sibilare furiosamente.
«Non vi conviene farvela nemica, è tough cookie*.» Li beffeggiò Ha-Nun. A quel punto si intromise Sin Hyon-Su.
«Sono le migliori in circolazione. Non ho avuto modo di farvi leggere il loro curriculum perché ho dovuto fare tutto in fretta e furia, ma è un miracolo che abbiano accettato un caso così poco rilevante rispetto alle loro solite mansioni. Ve li lascio qui.» E, dopo aver tirato fuori una cartelletta dalla sua ventiquattrore, la posò sulla scrivania più vicina. 
Così accondiscendente.
«Ora vi lascio alle presentazioni.» Concluse poi, abbandonandoci.
Fantastico.


N.D.A 

 
Ciao a tutti, è F. che parla!
Innanzitutto chiedo scusa per il ritardo nella pubblicazione del capitolo, purtroppo sono stata ammalata e ho avuto molti impegni.
Non vi preoccupate, però, ci faremo assolutamente perdonare, e il primo passo è questo aggiornamento di metà settimana per evitare di saltare una pubblicazione (ovviamente anche per implorare il vostro perdono). 

Per quanto riguarda il capitolo, sono felicissima che finalmente siamo arrivati al dunque.
Una svolta. Cosa succederà ora? Chi lo sa. Beh, noi lo sappiamo :') e lo scoprirete anche voi! * Tough Cookie, nello slang, vuol dire letteralmente "tipo tosto". In questo caso Ha-Nun lo usa appunto per mettere in guardia i ragazzi sulla forza e caparbietà della sorella. ****Zico sempre presente nei nostri cuori***
Grazie mille per il supporto che ci date, buona notte e al prossimo capitolo!


 

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