Tiny love

di ValeriaLupin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Love you (even) when I'm drunk ***
Capitolo 2: *** Over my shoulder ***
Capitolo 3: *** Ocean eyes ***
Capitolo 4: *** Invisible ***
Capitolo 5: *** Make you happy ***
Capitolo 6: *** She's ashamed of me ***
Capitolo 7: *** Hold me carefully ***
Capitolo 8: *** Miss you ***
Capitolo 9: *** Bozze ***



Capitolo 1
*** Love you (even) when I'm drunk ***


Love you (even) when I'm drunk

  Se ne stava seduto al bancone del bar a lasciarsi scorrere le ore addosso, immagini orride avvelenavano ormai le sue notti, privandolo del sonno, e affollavano la sua mente anche in quel momento mentre portava alla bocca l’ennesimo shot di tequila. Neanche l’alcol riusciva davvero a scacciarle, come aveva sperato quando si era allontanato da casa per cercare un posto dove passare la notte.
Dormire era diventato impossibile e non aveva di meglio da fare: da più di un anno aveva perso la sua più grande valvola di sfogo, piombando in un asfissiante aridità creativa che lo aveva tanto inquinato da renderlo distruttivo per se stesso e chiunque lo circondasse.
Qualche settimana prima il più feroce litigio che avesse mai avuto con Andy li aveva allontanati in maniera definitiva; il greco aveva notato quanto fosse distante, come si stesse isolando da tutti, quanto fosse diventato improvvisamente indifferente nei suoi confronti e aveva addossato la colpa al suo blocco creativo, ma Mika sapeva che in realtà non provava più nulla per lui. Quello che ancora rimaneva ad unirli era l’abitudine, le pesanti aspettative di chi li conosceva. Mika non faceva che ripetersi che tutto era stato troppo veloce fra loro, che quella relazione era diventata soffocante, che pretendeva indietro la sua libertà.
Da quella sera non si erano più sentiti, gettando via quattro lunghi anni delle loro vite, ma negli ultimi due giorni il biondo aveva cercato insistentemente di contattarlo. Ogni volta che gettava uno sguardo al monitor del suo cellulare per vedere se ci fossero aggiornamenti sulle condizioni di sua sorella Paloma, poteva notare almeno due chiamate perse da Andy.
«Fammene quanti ne escono» si rivolse, alticcio, al barista, allungandogli una banconota. Il ragazzo dietro il bancone non esitò a prenderla e cominciò a versare il liquido nei bicchieri, uno ad uno li posò di fronte a Mika che, volta per volta, li beveva in un sorso.
All’ennesimo shot avvertì lo stomaco rivoltarsi e fu sul punto di vomitare. Si posò il dorso della mano sulle labbra serrate, cercando di cacciare indietro l’acido che aveva raggiunto la sua gola. Il barista, un ragazzo di appena qualche anno in meno di lui, lo guardò un po’ preoccupato.
«Sicuro di volerne ancora?» gli chiese, ma il cantante si limitò ad annuire, senza neanche riuscire bene ad afferrare le parole di quella domanda. La sua mente ormai era del tutto offuscata, il suono pulsante della musica lo disorientò ulteriormente quando si guardò attorno nel locale stipato di ragazzi.
«Scusa» lo richiamò il barista. Mika si voltò con un movimento brusco che gli fece perdere l’equilibrio: quasi cadde dallo sgabello, riuscì a sorreggersi giusto in tempo mentre un risolino gli sfuggiva dalle labbra. «Ti stanno chiamando» lo informò il ragazzo indicando il suo cellulare, abbandonato a qualche centimetro dalla sua mano.
Non ebbe neanche il tempo di mettere a fuoco il nome sullo schermo che la telefonata terminò. Prese in mano il telefono e, non senza difficoltà, controllò le ultime chiamate. Andy lo aveva chiamato altre tre volte.
«Ma che ore sono?» si domandò, ma lo urlò così forte che il barista riuscì ad udirlo sopra il suono elettrico della musica.
«Le due e quaranta» gli rispose. Mika lo guardò confuso poi riportò l’attenzione sul suo cellulare e notò che in effetti l’orario era scritto anche lì, come sempre.
Perché Andy lo chiamava a quell’ora? Sentì una morsa allo stomaco che, questa volta, poco riguardava tutto l’alcol che aveva ingurgitato. Forse le immagini dell’incidente di Paloma le aveva allontanate per un po’, ma le sensazioni che gli avevano provocato erano ancora lì, ben lontane dall’abbandonarlo anche solo per qualche minuto. Era terrorizzato, nauseato, attanagliato da un’ansia che lo logorava nel profondo. I medici si dicevano pessimisti sul futuro di sua sorella e lui non si sentiva minimamente pronto a perderla.
Mika sospirò e portò alla bocca uno degli shot che ancora gli rimanevano. Poi spostò il dito sul nome del suo ex e avviò la chiamata. Il ragazzo rispose al secondo squillo.
«Mika?» rispose, stupito. «Ci sei?» aggiunse dopo qualche secondo di silenzio. Il solo sentire la voce di Andy, lo rese più tranquillo. Sorrise appena e si inumidì le labbra secche prima di rispondere.
«Vieni?» gli chiese immediatamente, d’un tratto aveva bisogno di lui più che mai e sapeva che avvertirlo vicino a lui lo avrebbe fatto sentire meglio. «Sono al Number one».
«Arrivo» e chiuse la chiamata. Forse si era accorto che fosse ubriaco, probabilmente la sua voce lo aveva tradito, ma in fondo che importava, sarebbe comunque stato lì fra qualche minuto. Mika a quel pensiero non potette evitare di sorridere, arricciando il naso e osservando le sue mani stringere gli ultimi due bicchieri del liquido ambrato. Li ingurgitò uno dopo l’altro, strizzando gli occhi per il bruciore a gola e stomaco e portando una mano ai ricci inumiditi dal sudore. Cercò di districarli inutilmente e si arrese dopo un paio di minuti, posando il gomito sul ripiano e sorreggendosi la testa.
Si accorse che seduto affianco a lui un ragazzo lo osservava, insistente. Se lo avesse riconosciuto, sarebbe stato anche più umiliante di quanto già non fosse. Il cantante avvertì una sensazione di ansia pervaderlo lentamente. Il ragazzo invece si presentò, sorridendo. Non lo aveva riconosciuto, fortunatamente.
Mika stava per rispondergli quando vide in lontananza una figura slanciata molto famigliare che si districava in mezzo alla folla con evidente difficoltà. Il libanese fece per alzarsi e andargli incontro, ma mettere i piedi l’uno dopo l’altro gli parve un’impresa sempre più difficile, tanto che si avvicinò solo di qualche passo, quel che bastava perché Andy lo notasse. Sorrise nell’incontrare i suoi occhi poi perse l’equilibrio, finendo addosso ad una ragazza alle sue spalle che gli lanciò un paio di insulti di cui nemmeno afferrò il significato.
Rise, cercando di rimanere dritto. Una mano gli sfiorò una spalla: Andy l’aveva raggiunto e, notato il suo equilibrio precario, lo sorresse per un fianco.
«Sei impazzito?» urlò per sovrastare il rumore assordante della musica. Mika lo guardò, la mano di Andy sul suo fianco gli pareva incandescente e aveva bisogno del suo tocco più che mai. Si avventò sulle sue labbra, constatando quanto gli fossero mancate. In un primo momento, il biondo, sbigottito, lo lasciò fare poi lo scostò dolcemente.
«C’è gente qui, Mika» lo avvertì il ragazzo, ispezionando intorno a loro.
«Lo so, ma chi vuoi che mi riconosca?» e così dicendo cercò di nuovo di baciarlo, ma Andy sfuggì alle sue labbra, facendogli blaterare parole imploranti contro il suo petto. «Vieni…» gli sussurrò, tirandolo verso la porta del bagno. Andy decise di lasciarsi guidare ora che Mika sembrava aver recuperato parte del suo equilibrio.
Una volta che vi furono dentro, Mika lo costrinse spalle al muro, spalmandosi su di lui in un modo che da sobrio avrebbe ritenuto ben poco dignitoso e infilando una mano sotto la sua maglietta. Andy portò una mano fra i suoi capelli e si lasciò andare solo per qualche minuto, nonostante vagamente disgustato dal sapore delle sue labbra, per poi allontanarlo quando le mani del cantante si fecero più audaci, cercando di slacciare il bottone dei suoi jeans.
«Sei impazzito?» ripeté per la seconda volta in pochi minuti con un filo di voce e il respiro corto mentre allontanava le mani di Mika, prendendole fra le sue. Ispezionò il voltò del ragazzo, soffermandosi sugli occhi lucidi e le gote arrossate. L’espressione implorante che si dipinse sul suo volto lo colpì. Aveva notato che fosse ubriaco da quando lo aveva sentito al telefono, ma non si aspettava di trovarlo in quello stato. Non lo riconosceva; negli anni aveva avuto modo di vederlo sbronzo più di una volta, ma mai fino a quel punto. «Sei ubriaco lercio» gli disse a metà fra il preoccupato e l’infuriato.
«Ma io ti voglio» ribatté Mika, posando le labbra sul suo collo e sospirando «Ti voglio vicino a me» lo pregò, le parole soffocate sulla pelle dell’altro. Andy rimase senza parole. Lo aveva cercato proprio per stargli vicino durante quei due giorni, ma lui aveva sempre rifiutato le sue chiamate. Si chiese che senso avesse quel comportamento.
Prese ad accarezzargli i capelli umidi, stringendolo a sé in un abbraccio protettivo, mentre qualcosa di più umido gli solleticava il collo dove Mika aveva abbandonato il viso. Sentì il respiro di Mika tremare sulla sua pelle e presto il suo corpo fu scosso dai singhiozzi.
«Ho bisogno di te» quasi gridò, la voce spezzata, senza più la forza di trattenere quel pianto che gli urlava dentro da due giorni a quella parte. «Non posso farcela senza di te, Andy».
«Sono qui» sussurrò appena lui con voce rotta «e ci sarò, te lo prometto».
Presto alle lacrime si aggiunsero le urla soffocate sulle sue spalle mentre si aggrappava alla sua maglietta come fosse l’unica cosa a tenerlo ancora in piedi. Urlava parole disconnesse e rabbiose, il corpo scosso da tremiti e singulti, la bocca che dava vita a lamenti depurati d’ogni filtro, d’ogni vergogna. Andy non riuscì ad evitare che qualche lacrima abbandonasse anche i suoi occhi.
Non era in grado di sopportare la vista di Mika così distrutto. Andy lo allontanò quel poco sufficiente a cancellare i segni del pianto dal suo viso, prendendolo fra le mani, poi avvicinò le labbra alle sue e gli diede un lieve bacio a stampo. Posò la fronte alla sua e lo guardò negli occhi ora un po’ più asciutti. Mika fu sorpreso di vedere anche le guance del biondo bagnate, poi d’improvviso tutto l’alcol che aveva bevuto gli risalì in gola. Corse vicino la tazza, districandosi dall’abbraccio, e vomitò. Istintivamente si sentì meglio, nonostante il sapore sgradevole in bocca. Andy lo raggiunse per soccorrerlo e quando gli fu vicino, Mika sentì che sussurrava qualche parola con voce esile.
«Come ti sei ridotto…».
 
 Andy lo accompagnò a casa, sorreggendolo fino a quello che fino a poco tempo prima era stato il loro letto. Attorno a loro si muoveva, irrequieta, la loro cagnolina Melachi. L’animale fiutava l’odore del biondo dopo tanto tempo e questo la rese iperattiva. Il greco lo aiutò a svestirsi e a entrare nel pigiama prima di avvolgerlo nelle coperte. Si abbassò su di lui e gli baciò la fronte imperlata di sudore, sussurrandogli l’augurio di buonanotte. «Grazie» mormorò Mika ad occhi chiusi, in risposta, mentre la testa girava vorticosamente. 
Entrambi sapevano a cosa davvero si riferisse. In fine il riccio sentì i passi di Andy allontanarsi e la porta di casa chiudersi. 
 
 
 
Mika si svegliò con un mal di testa pulsante e la prima cosa che fece fu controllare il cellulare, tastando attorno a sé alla sua ricerca. Quando lo trovò, sul comodino alla sua sinistra, si districò con difficoltà dalle coperte per raggiungerlo, nonostante avesse chiuso gli occhi per cercare sollievo dal frenetico turbinio della stanza. Si portò il display davanti agli occhi, affondando la testa nel cuscino, e controllò se ci fossero notizie di sua sorella: sospirò di sollievo nel notare che avesse un solo messaggio da Andy. Nel leggere quelle quattro lettere, gli balenarono in mente scorci della nottata precedente e arrossì, pieno di vergogna. Come aveva potuto fare quello che aveva fatto? Contava qualcosa in fondo? Davvero non riusciva a controllare le proprie azioni?
Si portò una mano ai capelli e li tirò indietro, scostandoli dal volto. Si sentiva uno schifo, come sempre dopo aver esagerato con gli alcolici, certo, ma questa volta in un modo ancora più profondo.
Era stato un errore.
Visualizzò il messaggio. “Va meglio?” gli aveva scritto. Nel leggerlo Mika fu colpito da un moto di profondo fastidio. Inizialmente non capì neanche perché, poi ricordò lo sguardo di Andy la notte prima, quelle lacrime che avevano abbandonato i suoi occhi zaffiro. Uno sguardo pieno di pena e delle lacrime di compassione; Andy lo aveva cercato solo per quello che era accaduto e tutto ciò che aveva fatto la notte prima era stato una diretta conseguenza dell’incidente. Non c’era alcun sentimento che lo aveva mosso verso di lui prima di quell’avvenimento e Mika sapeva che, fosse stato altrimenti, non si sarebbero più visti.
Gettò a qualche centimetro da lui il cellulare, facendolo rimbalzare sul materasso e schiantare a terra. Grugnì, indifferente. «Perfetto» sibilò, sarcastico. Si portò le mani ai capelli in un gesto nervoso e cercò di alzarsi, si mise seduto e guardò dinnanzi a sé, aspettando che la stanza si fermasse.
Non aveva cambiato per niente idea su di loro, su lui e Andy, le azioni in fondo contavano meno di ciò che provava. Aveva sbagliato, si era reso ridicolo, era stato solo un momento di debolezza. Recuperò il telefono dal pavimento e fece per rispondere al messaggio del greco.
“When I kissed you it was such a big mistake” scrisse, ma non ebbe la forza di inviarlo e uscì dalla conversazione, lasciandolo nelle bozze quasi a monito per il futuro.
Mika rimase a fissare con occhi vitrei lo schermo del cellulare, la mente nuovamente a qualche ora prima: quella notte aveva condiviso con Andy molto più di quanto avesse mai fatto con chiunque altro. In quattro anni di relazione non si era mai esposto tanto, mai aveva osato mostrare tutta quella fragilità e non lo aveva mai fatto con nessuno. C’erano stati già momenti come quello, ma la sua unica compagna era stata la musica. Solo a lei era riuscito a dare tanto di se stesso, senza paure.
Quel pensiero lo riempì di terrore, lo fece sentire persino più vulnerabile di quando era crollato fra le braccia di Andy senza preservare un briciolo delle sue difese. Come se ormai fosse troppo tardi, come se fosse prigioniero dei suoi sentimenti. Il respiro si fece improvvisamente più accelerato.
Se pensava a quanto significava per lui la musica, a come averla abbandonata solo per qualche mese l’avesse ridotto, sentiva di morire all’idea che anche Andy potesse diventare importante fino a quel punto. Lo terrorizzava e rabbrividì appena l’idea sfiorò la sua mente.
And if I can’t control all of the things I do
I guess I better be leaving” scrisse di getto, riaprendo la conversazione con l’ex.
Lasciò nuovamente il messaggio fra le bozze.
Colto dopo mesi di nulla da uno slancio creativo, si alzò di scatto e strappò un foglio da un blocco note che teneva sopra il comodino. Rovistò nei comodini alla ricerca di una penna e cominciò a scrivere tutto ciò che gli passava per la testa, come una specie di lettera indirizzata a Andy: riversò sul foglio parole velenose, ricordi atti a ferirlo nel peggiore dei modi, una crudezza che gli era sempre appartenuta, ma che mai aveva usato con l’intento intimo di infliggere dolore. Rileggendo il testo della canzone si sentì sprofondare per la crudeltà che conteneva, ne fu disgustato. Repellendo se stesso e ciò a cui aveva dato vita, appallottolò il foglio.
«Che schifo!» sbraitò e, in un gesto rabbioso, lo lanciò contro il muro. Tanto non sarebbe stato neanche in grado di comporvi una musica.
Doveva andarsene, partire e lasciarsi alle spalle Andy, quella consapevolezza di essere impigliato ad una rete troppo grande, l’orribile incidente di Paloma e gli incubi che lo assalivano se solo osava chiudere occhio, ma prima doveva assicurarsi che sarebbe stata bene. Doveva starle vicino e assisterla finché non avesse avuto la sicurezza che si sarebbe salvata – perché non poteva essere diversamente: Mika non voleva credere che un altro esito fosse anche solo possibile.
I messaggi rimasero nelle bozze e Andy non ricevette risposta, né quel giorno né quelli a venire quando il greco lo chiamò nuovamente. Ci fu solo un silenzio assordante, per Andy incomprensibile. Il ragazzo lo aveva cercato anche di persona, ma Mika non aveva mai voluto vederlo e aveva fatto di tutto per evitarlo.
 
 
Qualche mese dopo, durante i primi giorni del 2011 con il cuore alleggerito dalla certezza che sua sorella si stesse riprendendo Mika stava preparando le valigie, pronto a prendere il volo per Montreal che aveva prenotato solo il giorno prima. Melachi gli scodinzolava tutt’attorno, avendo percepito l’umore decisamente migliore del padrone, nonostante quest’ultimo si muovesse con estrema lentezza, spossato a causa dell’insonnia delle settimane appena trascorse.
Il cantante sorrideva lievemente come non avveniva da tempo. Lasciarsi indietro tutto e ricominciare gli dava l’impressione di rigenerarsi e voleva farlo portandosi dietro l’unica cosa che l’avrebbe fatto sentire se stesso anche a chilometri da lì: la musica. Aveva contattato Nick Littlemore per ricominciare finalmente a lavorare oltreoceano e aveva avuto il buonsenso di avvertire la sua casa discografica del suo trasferimento, così che avrebbero saputo dove trovarlo in caso di necessità.
Mika abbassò tutte le serrande, chiuse il gas e staccò la luce, trascinò le valige lungo il vialetto di casa con la golden alle calcagna, chiudendo la porta con due giri di chiave. Si fermò di fronte al cancelletto e, mentre aspettava l’arrivo del taxi prenotato qualche ora prima, si mise a spulciare nella cassetta della posta. Era una sua abitudine, prima di partire.
Non c’era molto dentro, ma qualcosa gli saltò all’occhio. Riconobbe subito il libro della sua infanzia, consunto dalle ripetute letture, uno dei primi libri che era riuscito a leggere per intero e, in assoluto, quello cui era più legato.
La copertina riportava in un bel corsivo “Il piccolo principe” con l’illustrazione di un bambino dai capelli biondi che sovrastava un pianeta poco più grande di lui, circondato da stelle e da astri dorati. Mika rimase paralizzato a fissarlo, avvertì una morsa allo stomaco. Andy doveva averlo messo lì solo quella mattina perché durante la notte aveva piovuto e il libro era del tutto asciutto. Ricordava con estrema chiarezza di averglielo prestato quando lui gli aveva confessato di non averlo mai letto. Non lo aveva dimenticato, aveva semplicemente pensato fosse in buone mani, ma ora che lo aveva fra le sue si chiese se non vi fossero altri motivi per cui non l’aveva voluto indietro. Altrimenti perché non riusciva ad essere felice di riavere uno degli oggetti cui teneva di più al mondo?
Il corso dei suoi pensieri fu interrotto dall’arrivo del taxi su cui Mika caricò le valige e fece salire il cane, prima di entrare anche lui nell’abitacolo freddo. Il cantante lasciò una carezza a Melachi, il libro ancora stretto nella mano destra. Voltò la copertina e sulla prima pagina notò una scritta a matita, in stampatello, piuttosto precisa. In modo che riuscisse a capirla facilmente.

“Ho pensato che fosse venuto il momento di restituirtelo.
A"

Il libanese chiuse di scatto il libro, quasi ferito da quelle parole. L’umore di pochi minuti prima del tutto cambiato. Il ragazzo si protese verso il tassista e gli chiese di cambiare destinazione, l’uomo annuì senza aggiungere altro.
Quando furono davanti l’appartamento, Mika prese un respiro e invitò la golden a seguirlo con un sussurro. «Ti porto da Andy, su», nel sentire quel nome dopo tanto tempo la cagnolina scodinzolò, scendendo festante dalla macchina.
Avvicinatosi con Melachi al portone del condominio, citofonò.
«Chi è?» rispose poco dopo la voce metallica del greco. Il suo lieve accento lo fece sorridere.
«Puoi scendere?» chiese lui.
«Mika?» fece il ragazzo, perplesso.
«Sì, puoi scendere un secondo, per favore?» ripeté, più persuasivo.
«Non dovresti prendere un aereo?» ribatté gelido Andy.
Mika sospirò. «Scendi solo un secondo, devo… darti una cosa». Il citofono si spense con un rumore secco. Qualche secondo dopo Andy comparve sul portone, lo sguardo freddo, la mascella serrata.
Vedendo il padrone per la prima volta dopo tanto tempo, la golden gli saltò addosso, venendo accolta piacevolmente dal biondo.
«Melachi!» gridò, pieno di gioia. Improvvisamente si rilassò, i suoi occhi si riempirono di amore e sorrise mentre coccolava la cagnolona. Una visione come quella fece istintivamente allargare il sorriso di Mika.
«Ho pensato…» ora che era lì davanti a lui, accucciato e abbracciato a Melachi, era molto più difficile di quanto avesse pensato «… che fosse giusto restituirtela».
«Non è di mia proprietà» fece lui alzandosi, il sorriso gli era scivolato via.
«Lo so, ma non è nemmeno mia» ribatté Mika «Pensavo di lasciarla da Sam, ma… è giusto che stia anche con te».
«Non so come pensi di gestirlo, ma non me ne frega più di tanto» fece lui, acido. Mika incassò.
«Come lo sai?» chiese dopo interminabili minuti di silenzio il libanese. Il biondo capì subito a cosa si riferisse.
«Fortunè, Jasmine, Joannie… un po’ tutti» rispose lui «Io non ho chiesto, ma loro me l’hanno detto comunque» aggiunse, facendo spallucce. Mika annuì.
«Bene» esordì dunque Andy «Te ne vai quindi». Per un solo secondo la freddezza era stata vinta dalla malinconia, ma il ragazzo fece del suo meglio per non darlo troppo a vedere.
«Sì, parto» confermò Mika «… e non torno». Il biondo annuì.
«Allora addio» rispose, guardandolo dritto negli occhi, senza mostrare nessun tipo d’emozione.
«Addio» sussurrò il moro, mentre il portone del condominio si chiudeva, privandolo della vista di entrambi. Inspirò e si disse che averlo affrontato ora era stata la scelta migliore perché gli aveva permesso di chiudere definitivamente con il passato. Poteva partire e lasciarsi davvero tutto alle spalle, magari vedere qualcun altro che gli avrebbe dato la giusta ispirazione per il suo prossimo album.
 
 
Più tardi sull’aereo che l’avrebbe portato a Montreal, mentre sorvolavano l’oceano, Mika sfogliò Il piccolo principe che aveva continuato a tenere in mano per tutto il tempo. Il libro si aprì automaticamente a pagina 18 dove una foto faceva da segnalibro.
Era un’istantanea che avevano scattato qualche anno prima con una delle polaroid vintage facenti parte della collezione del biondo. Li ritraeva entrambi da vicino, stretti l’uno all’altro: Mika rideva verso l’obiettivo con il naso arricciato e gli occhi pieni di gioia mentre cercava di farli entrare entrambi nella foto, Andy accanto a lui non era messo bene a fuoco, ma lo guardava con un sorriso dolce e una mano abbandonata sul suo collo. Il cantante non ricordava dove l’avessero scattata, ma sapeva con certezza che il momento dopo si erano baciati.
La prese con mano tremante, si umettò le labbra e sorrise, nostalgico.
Sottostante alla foto vi era una scritta con un pennarello dorato. Mika ci mise un po’ a decifrarla perché era in corsivo.
“Solo un ricordo” c’era scritto con la calligrafia di Andy. Il sorriso del moro scivolò via nel leggerle, mentre un nodo gli si formava in gola. Continuava a tremare e non sarebbe stato in grado di proferire parola.
Questo era tutto ciò che rimaneva di loro? Solo un ricordo?
“Ma cos’è che davvero sto lasciando?” si chiese. Non riuscì a pronunciare neanche una sillaba per il resto del viaggio, neanche agli assistenti di volo quando gli chiesero cosa volesse mangiare, era come se avesse perso la sua voce. Gli sembrò di essere tornato bambino.
La prima cosa che fece una volta atterrato nella metropoli canadese fu dirigersi allo studio di registrazione, tirandosi faticosamente dietro le valige nonostante fosse stremato e disorientato dal viaggio e dal jet lag. Solo quando fu davanti al pianoforte riuscì a impossessarsi nuovamente della sua voce, suonando le prime note di una melodia nuova e cantando le parole che per tutto il viaggio si era rigirato nella mente. Accese velocemente il computer, aprendo un foglio e cominciò a scrivere. Scrisse in una specie di flusso di coscienza, le parole vennero da sole, come se stesse dando vita ad una lettera d’amore indirizzata a Andy.
 
“I want your love don’t try and stop me
Can’t get enough still hanging on me”.
 
Era tutto sbagliato, perché lo aveva fatto? Cosa pensava di risolvere, scappando?
 
“Like every one that you fear
And every thing you hold dear
Even the book in your pocket
You are the sun and the light
You are the freedom I fight
God will do nothing to stop it”
 
Muoveva le dita veloci sul pianoforte, come se anche la musica si stesse generando da sola e lui fosse solo un altro strumento attraverso cui essa poteva prendere vita.
 
“The origin is you
You’re the origin of love”
 
Quando le ultime note echeggiarono per lo studio, Mika si sentì come svuotato, annientato, la sua anima nullificata nel silenziò che seguì. Rimase minuti interi a fissare davanti a sé, lasciando scivolare le dita sopra i tasti bicromatici in una lieve e mesta melodia.
D’un tratto alla musica unì la voce, in un lieve sussurro.
«Sit there and count your fingers
What can you do?» intonò con un filo di voce, chiudendo gli occhi.
«Old girl you're through
Sit there, count your little fingers
Unhappy little girl blue» concluse, riaprendo lentamente le palpebre pesanti, allontanando le mani dalla tastiera e abbandonandole poi, intrecciate, sulle proprie gambe.






Note: Ciao a tutti! Datemi il benvenuto nel fandom perchè questa è la mia prima storia su Mika! 
Grazie di aver letto tutta la one shot, spero sia stata gradita, fatemi sapere cosa ne pensate sinceramente in una recensione. 
Prima di salutarvi, vorrei fare qualche appunto. Questo è come ho interpretato la canzone fin da subito, pensiero che si è rafforzato quando Mika ha affermato di essere stata concepita come una break up song estremamente crudele e che non sarebbe neanche dovuta essere nell'album, originariamente. Ho visto inoltre che molte persone l'hanno interpretata come se Mika avesse "tradito" Andy, io ho pensato che l'inizio della canzone fosse riferita ad un suo semplice sogno (come peraltro dice esplicitamente) oppure che fosse pure invenzione atta a ferire l'altro. Nonostante tutto non credo che il nostro caro Mika sia proprio un angioletto :')
Il Piccolo Principe so per certo essere uno dei suoi libri preferiti e sono convinta che vi sia molto legato, ma penso che la maggior parte di voi già lo sappia. Melachi, in realtà, è stata lasciata da Mika da "un'amico/a in campagna", perlomeno questo ha detto nelle interviste, ma io ho immaginato questa scena quindi mi perdonerete per averla scritta comunque :)
Mika è un po' incerto su quale canzone abbia scritto prima fra Origin of love e Underwater ahahahah, ma dato che nel Making of e sul palco durante la dedica ad Andy ne parla come la prima scritta dopo tanto tempo di blocco creativo... mi sono presa la libertà di credere a queste affermazioni :')
Il finale è del tutto casuale, scritto di getto e anche se non c'entra assolutamente nulla con il resto ho voluto lasciarlo perché mi sembra che chiuda la storia con l'atmosfera adatta. La canzone è molto vecchia ed io ho immaginato Mika suonare la versione meravigliosa di Nina Simone che sappiamo tutti essere una delle sue artiste preferite. Eccola qui per chi volesse ascoltarla, ho immaginato Mika cantare solo la prima strofa fino al minuto 1.30, per intenderci:
 https://www.youtube.com/watch?v=wT_Z-D31vbU . 
Bene ora posso salutarvi tutti, dopo avervi ammorbato con cose a caso che non interessano a nessuno, alla prossima spero!
Bacioni :*

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Capitolo 2
*** Over my shoulder ***


Over my shoulder

 
Un fascio di luce ancora timida incontrò il suo volto, interrompendo l’inquieto dormiveglia in cui era piombato da solo un paio d’ore.
Aspettò qualche minuto prima di alzarsi, abbandonando il confortante tepore delle coperte. Lo fece di slancio, senza pensarlo, credendo per un brevissimo secondo che gli avrebbe strappato via anche quella fedele stretta al petto.
Nonostante le poche ore di riposo, non aveva sonno, non si sentiva neppure stanco, anzi avvertiva già l’adrenalina in circolo, naturale reazione di una preda che scorge il predatore.
Michael si sentiva troppo spesso preda.
Preda di giochi crudeli, preda di parole di scherno, preda di quel mondo, preda di quel naufragare che lentamente l’affogava nell’inerzia del suo vivere.
Una volta in piedi, si trascinò di fronte alla finestra per spalancarla. Alzò le persiane, squarciando la penombra e accogliendo nella stanza un frammento d’uggiosa mattinata di novembre a cui diede il benvenuto con una smorfia inquieta. Le nuvole inghiottivano il cielo con tanta celerità che si stupì anche un solo raggio di luce fosse riuscito a destarlo, un dolce colpo di revolver a dare il via ad una corsa a perdifiato.
Andava avanti da un po’ quella sensazione di soffocamento, di mancanza d’ossigeno nei polmoni, di dolore alle costole, imprigionato egli stesso nella propria opressiva gabbia toracica. Sapeva bene cosa riguardasse, ma volgeva sempre lo sguardo: era tutto ciò che poteva permettersi. Ci conviveva da tanto a lungo che non riusciva a portare alla mente le sue prime reazioni; arrossiva, forse, di rabbia o d’imbarazzo.
Il tempo, comunque, gli aveva presto insegnato a lasciare che le parole lo trafiggessero in silenzio, senza macchiare il suo volto, in modo da non donare loro la soddisfazione d’averlo ferito davvero. Allora, mentre ancora affinava l’abilità d’apatia, s’era scoperto abbandonato in una caduta infinita. Precipitava e precipitando s’inoltrava in un marciume che gli tingeva lo sguardo di pece, timoroso di trovare una mattina il fondo di quel nulla e speranzoso di tastarlo, al tempo stesso.
Sospettava che se non avesse avuto la musica, la sua famiglia, l’avrebbe già trovato, ma non seppe se esserne felice.
Non si guardò dentro oltre. Era doloroso, pericoloso come poche cose nella sua monotona vita e prima di vestirsi di maschere (una divisa smeraldo cupo) sentirsi vulnerabili era una pessima scelta, soprattutto se lo eri davvero.
La sveglia cominciò a suonare, senza che lui la prendesse in considerazione.
Smise di scrutare il cielo, smise di scrutarsi dentro, spense la sveglia sul comodino e si preparò il più velocemente possibile, scendendo in cucina mentre ancora s’infilava una scarpa. Saltellò verso il tavolo, salutando i presenti, spento. Yasmine gli fece un sorriso mentre si versava del te caldo alla vaniglia, Paloma gli rispose ancora assonnata portando alla bocca un cucchiaino di yogurt magro, sua madre si avvicinò per lasciargli un lieve bacio sulla guancia, senza aggiungere altro.
La guardò, riconoscente, accennando un sorriso dritto dalla sua bella infanzia parigina. Tenero ed infantile, ma con una pennellata di verità.
Sua madre, quella sua capacità di capire intimamente qualunque persona su cui posasse il suo sguardo caldo e materno, lo spaventavano immensamente. Aveva un’intelligenza emotiva che spesso lo metteva a nudo, sviscerando ogni sua emozione con una singola occhiata tanto breve che sarebbe potuta apparire distratta, non fosse che dinnanzi a quelle iridi color caffè era totalmente esposto. Le sue maschere cadevano in un battito di ciglia.
Joannie sapeva pazientare e conosceva i demoni di suo figlio, pur non sapendo i loro volti. Joannie attendeva un gesto, una parola, una lacrima. Aspettava perché consapevole che domandare non era il modo giusto di chiedere spiegazioni a Mika.
D’altra parte troppo spesso si trovava a gridargli addosso le sue paure, le lacrime che gli cadevano copiose sulle guance. “Cosa ne sarà di te?”, “Perché butti via la tua vita?”, gli vomitava addosso quando tornava dalle discoteche alle cinque del mattino, sudato e inebriato dall’anarchica gioia del ballo, dai baci cremisi d’uno sconosciuto, più che dall’alcol.
“Non lo riesco a vedere, non ci riesco, a vedere il tuo futuro” sussurrava, l’angoscia che prendeva posto fra i suoi lineamenti.
E, a dire il vero, non lo vedeva neanche lui.
Diede un veloce sguardo alla sua casa, alla sua famiglia: erano il suo rifugio, un posto dove poteva essere davvero se stesso, dove poteva esprimersi liberamente, dove se fosse uscito di casa indossando una camicia rosa o pantaloni gialli nessuno avrebbe avuto da commentare. Si sentì particolarmente fortunato nel pensare che alla Westminster school era previsto l’uso di divise verde scuro.
Un motivo in meno per deriderlo, un modo in meno di annullarsi.
A volte era terrorizzato dall’idea che tutte quelle parole fossero riuscite a cambiarlo. Si aggrappava alla sua diversità con unghie ben affilate e voglia di combattere per preservarla. Era l’unica cosa autentica che gli era rimasta: l’amore per la musica, l’estetica stravagante, l’affetto profondo che lo legava alla famiglia.
Gli sovvenne il ricordo di un bambino con i capelli pettinati come Lucky Luke e dei coloratissimi papillon. Cos’era rimasto di quel bambino?
Ricordava con dovizia di particolari ogni scuola in cui avesse messo piede: una minuta scuola parigina, un grande lycèe francese a Londra, una piccola scuola pubblica londinese. La prestigiosa e storica Westminster school era solo il suo ultimo approdo; l’abilità di suonare era stata la chiave del suo accesso.
In ognuna di queste avevano trovato modo di sputargli veleno, d’intossicarlo di ghigni, risatine, sibilii. Per chi si faceva portavoce di quell’odio non era altro che divertimento, senza conseguenze, senza colpe alcune. Poi quel passatempo si era lentamente trasformato in cruda violenza.
Quell’istituto, frequentato da ragazzi e ragazze di famiglie più che benestanti, non era altro che il covo di ragazzini arroganti e viziati e d’altronde l’immensità dell’intero complesso pareva dar loro l’impressione di gettare un infantile pugno di briciole in un lago d’acqua torbida.
Non lasciava traccia, se non in chi subiva e celava i tagli nelle rughe dell’anima, quelle che rivelano la vera età di una persona. Il preside aveva acconsentito a chiunque ne fosse vittima di entrare con qualche minuto di ritardo a lezione e fingeva, con intima indifferenza, che questa fosse la soluzione.
Mika cominciava a credere che se davvero tutti trovassero sempre qualcosa di sbagliato in lui, allora lo era.
 
Era sbagliato.
 
Ricordava con particolare chiarezza quando, dopo appena qualche settimana nell’istituto, all’età di undici anni, commentavano con soddisfazione il suo peso, preoccupandosi con cura che quei malevoli bisbigli raggiungessero le sue orecchie. Non sarebbe mai riuscito a dimenticare i volti di quel gruppo di quindicenni che aveva proclamato divertente lanciargli addosso lattine di coca-cola mentre, a testa bassa, attraversava i giardini meticolosamente curati della scuola.
Mika addentò un pezzo di pane con marmellata, cercando di non sporcare la divisa e una volta terminata la colazione attese le sorelle più grandi per recarsi a scuola assieme a loro.
Come se non potesse più abbandonare quel corso di riflessioni, nel tragitto, si ritrovò a meditare sugli anni successivi, quando il suo fisico era cambiato. Questo non gli aveva risparmiato il costante sogghignare dei suoi compagni. C’erano state e c’erano ancora allusioni e patetiche imitazioni, insulti, umiliazioni. Ancora lambito dall’innocenza dell’infanzia, o perlomeno della preadolescenza, non s’era mai neanche posto domande sulle proprie preferenze sessuali, eppure spesso nei corridoi si sentiva chiamare “frocio”, “ricchione”, “presoinculo”.
Vi aveva quasi fatto l’abitudine, quasi ne era diventato indifferente quando, d’improvviso, un intenso sguardo nei cortili della scuola, uno sguardo che per un secondo gli aveva intrappolato il respiro fra le labbra schiuse, si era fatto beffe di ogni sua certezza. Quel breve intrecciarsi di speranze, di fiamme, di storie gli aveva insinuato il dubbio che non avessero tutti i torti.
 
Aveva quattordici anni e la vergogna nello sguardo.
“Mai, mai lo dirò” da quei giorni di tre anni prima non aveva mai smesso di ripeterselo.
 
Era giunto ad un passo dal perdere la testa: cosa gli assicurava allora che non avessero ragione anche sul resto?
Era stupido? Brutto? Ridicolo?
Scosse la testa, tentando di sfuggire a quelle grida troppo forti per essere contenute dalle sue fragili pareti mentali. Non sapeva come darsi un nome, non sapeva se voleva. Non si conosceva e, in quell’esatto momento, realizzò che non sapeva se volesse farlo.
Lasciò vagare la sua mente su note di musica, s’immaginò al piano ad accarezzarne i pulsanti bicromatici, ripassò le parole di Cherubino da “Le Nozze di Figaro” cui fortemente era legato poiché era stata la sua prima esibizione sul palco della Royal Opera House. L’aveva interpretato un paio d’anni prima, finalmente immerso nel mondo in cui aveva ottenuto il rispetto che a scuola pareva essergli precluso.
Un piccolo fastidioso ricordo gli rimase impigliato alla mente.

Un paio di labbra che si sfiorano, ingenue, impacciate, gli occhi chiusi a suggellare l’atto e un po’ anche per sfuggire alla paura. Non passa molto che Mika si scosta, mal celando una smorfia di disgusto. “Ha un brutto sapore” si trova a pensare. La ragazza lo guarda, le folte sopracciglia si nascondono sotto la sua frangetta ed il gesto palesa una richiesta di spiegazioni nonostante lei avesse ignorato la sua alla strana domanda con cui aveva esordito.
«Mi baceresti?» aveva detto, pochi minuti prima.
Lei che gli rivolgeva la parola solo da qualche giorno, lei che guardava i suoi amici con sufficienza, lei il cui passatempo prediletto era disprezzare, ora gli chiedeva di baciarla. «Perché?» aveva risposto, spaventato. Forse era stato lo sguardo ancor più sbigottito di Jody che lo aveva spinto ad esaudire la sua richiesta.

Mika storse il naso e recuperò le cuffie da dentro la cartella scolastica mentre camminava verso il campus. Ormai erano quasi arrivati. Infilò gli auricolari nelle orecchie, sperando avrebbero fatto desistere chiunque dal rivolgergli la parola. Non voleva problemi, soprattutto quella mattina: aveva un test di matematica che aveva la netta sensazione di non poter passare.
Si sedette nei giardini verdi dell’istituto, gettando di fianco a sé la cartella dal peso di un paio di libri e poggiandosi alla corteccia umida e farinosa del platano; era garantita un po’ di riservatezza grazie alla sua ampia chioma sangue e caramello, appena sfoltita dall’imminente gelo. Le tonalità erano solo più sporche di quelle che aveva in pieno autunno. Attese come sempre che tutti entrassero nelle classi e, una volta suonato l’inizio delle lezioni, si avviò verso la sua dove lo attendevano due insostenibili ore di verifica.
Giunto in classe e privatosi delle cuffiette, rivolse un timido sorriso ai pochi compagni con cui aveva legato in quel corso infernale: Alex, un ragazzino di origini cinesi dal viso tondo e gli occhi timorosi, Erika con i suoi fini capelli rossi che sempre le nascondevano il viso, Karissa accompagnata dal consueto sguardo morbido, come un vento estivo a Londra. L’intera classe si voltò ad esaminarlo, tentò di ignorare quanto taglienti fossero i loro occhi. Andò dalla docente e prese il proprio foglio per poi iniziare il compito, sedendosi nell’unico posto libero.
Fece appena in tempo a posare la punta della sua biro sul foglio che udì il primo commento della giornata.
«Lo vedi che sai scrivere» sibilò quello con un falso tono rassicurante. Qualche risatina si levò tutt’intorno e una voce più acuta si unì alla prima.
«Ogni tanto anche lui è come noi comuni mortali» commentò in un sussurro aspro la ragazza, come a voler rivendicare l’ingiustizia nei loro confronti, ma senza perdere un mezzo sorriso.
«Sì, farsi diagnosticare la stupidità è un’idea geniale» rincarò, divertito, il ragazzo, scatenando altri bisbigli e risate più forti che la professoressa mise velocemente a tacere. “Certo, perché voi sareste in grado di fare oralmente tutte le verifiche scritte che copiate” pensò, amareggiato.
Non rispose. Doveva solo concentrarsi sui numeri, cercare di fermarli, di afferrarli e metterli nel giusto ordine. Il peso del giudizio lo affaticò ulteriormente.
“Concentrati”.
 
 
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«Com’è andato il test?»
Mika si limitò ad alzare le spalle, incassandovi la testa mentre addentava una mela, consapevole di non essere stato sufficientemente bravo, o preparato. «A te?» le chiese di rimando, osservando Erika aprirsi in un sorriso mentre rispondeva felice alla domanda, abbandonando il cibo della mansa nel piatto.
Per un attimo la ragazza si scoprì un po’ di più il volto, illuminato dal momento di gioia. Solo uno dei suoi penetranti occhi azzurro cielo lo fissava. L’altro pareva invece assorto a scrutare oltre di lui, come attirato da un cielo diverso, carico di grigio. Mika non ci aveva messo molto a farci l’abitudine. D’altronde sua sorella Paloma aveva delle deficienze fisiche che la costringevano a zoppicare, seppur non in maniera troppo evidente, dunque si poteva ritenere avesse una sensibilità naturale nel mettere al proprio agio le persone che, come Erika, nascondevano con fin troppo zelo le proprie imperfezioni, giungendo a sparire completamente, ad annullare la propria presenza.
Michael le sorrise, di un sorriso vero nonostante le invidiasse la costanza e la perspicacia.
«Mi dispiace che a te non sia andata bene» si fece seria lei, in qualche secondo, mentre sul tavolo della mensa li raggiungevano altri. C’erano Karissa e Alex, c’erano i ragazzi della compagnia teatrale, il gruppo di outsider che aveva radunato mr. Rice. Attorno a quel tavolo Mika poteva affermare che sedevano alcune delle persone per lui più importanti, di sicuro tutti gli amici che possedeva. Mika lasciò cadere il discorso, lasciandole uno sguardo zeppo di spiegazioni: nonostante sovrastasse di molto la maggior parte dei suoi compagni, era facile non sentirsi alla loro altezza. Soprattutto in una scuola come quella che faceva dell’eccellenza il suo marchio distintivo.
Mika salutò gli amici con qualche sorriso e un paio di abbracci in cui era stato inaspettatamente stretto da Adele e Christian, mentre lo oltrepassavano per sedersi alla sua sinistra. I due facevano parte assieme a lui della compagnia teatrale e sapevano essere affettuosi quanto bastardi. In un modo bello, giusto, s’intende.
«Mika!» cinguettò la ragazza, accomodandosi accanto a lui e sistemando la lunga chioma nera dietro le spalle. Era di una bellezza disarmante e questo non era certo passato inosservato. Tuttavia pareva più una condanna che un privilegio: Adele era maggiormente se stessa quando poteva essere qualcun altro. La sua passione per la recitazione permeava anche le sue azioni del quotidiano, i suoi gesti, le sue riflessioni, il modo di enfatizzare la parola, di costruire una connessione con i movimenti dello sguardo. L’intensità di quest’ultimo sapeva pesare come centinaia di macigni, inchiodandoti e facendoti morire ogni pensiero.
Adele si sentiva parte di innumerevoli vite eppure chiunque posasse gli occhi sulla sua avvenenza infausta era propenso a darle il valore d’un oggetto da poter commentare a proprio piacimento. I più stolti agivano nella convinzione di poterla persino maneggiare, al pari di una pallina da baseball passata di palmo in palmo, senza cautela né premura.
Checchè se ne potesse dire (ché la gente ama ripetere gli stessi preconcetti), era una ragazza arguta ed era riuscita a crearsi un ambiente protetto, per quanto possibile, a circondarsi di persone latrici di positività con cui potesse coltivare rapporti sani e sinceri.
Mika le passò un braccio attorno alla vita, stringendola a sé con affetto. Lei era decisamente una delle poche persone con cui a scuola si sentiva libero di lasciarsi andare a contatti fisici. E, forse era la sua esuberanza, forse l'abilità di guardargli un po’ dentro, ma con lei non provava una briciola d’imbarazzo a prendere parte a gesti tanto plateali.
Qualcosa di duro gli colpi con forza la nuca. Si voltò e arretrò, sottraendosi a quel dolore. Incontrò lo sguardo di un ragazzo biondo ossigenato che lo superava, sorridendo. Mika si massaggiò la parte lesa, osservando il ragazzo allontanarsi con risatine a mo’ di cornice e l’arma fra le mani: il vassoio blu scuro dagli spigoli smussati. “Almeno” pensò, lievemente sollevato. La ragazza che, come chiunque li circondasse, aveva assistito alla scena, carezzò la nuca di Mika e gli lasciò un delicato bacio sulle labbra chiuse, sorprese. Parve fraterno.
In fine, si allontanò con un’espressione del tutto invariata a quella di qualche minuto prima e spostò la sua attenzione su altro; una conversazione cui diede facilmente inizio. Mika rimase impalato a fissare dinnanzi a sé, consapevole che tutti lo stessero fissando, cogliendo ogni sua reazione. Se c’era qualcuno che non li avesse visti, lo avrebbe saputo entro la fine della pausa pranzo, in tutta probabilità, e di quel bacio così autenticamente privo di passione tutti avrebbero fatto qualcosa di molto diverso.
Michael era avvolto come da l’aurea onirica che ti avvolge appena ti desti da un sogno e la testa gli fluttuava a qualche metro dal corpo, tanto era sorpreso e turbato da quel bacio. Tanto v’era dentro che non si accorse del mormorio attorno a loro, qualche sprazzo di risatina, l’atmosfera tesa di quando si è spettatori di un evento sovrannaturale. Si alzò, abbandonando il piatto ancora pieno per metà e dirigendosi lontano da lì, sotto lo sguardo curioso dell’intero istituto. In quello di Adele c’era preoccupazione.
 
Raggiunto il bagno fece per entrarvi.
«Aspetta!»
Si fermò, sorpreso, voltandosi a guardare Adele che gli correva incontro. Riprese il respiro, fermandosi dinnanzi a lui e tendendo una mano verso la sua spalla.
«Scusa» sospirò senza fiato e poi lo ripetette con voce più corposa, due, tre volte ancora. «Non so come farmi perdonare… so cosa si prova e non so cosa mi…». Il suono della campanella la interruppe, il rumore delle sedie che fischiavano sul pavimento alle loro spalle diede vita ad un boato.
«Tutto a posto, tranquilla» scosse la testa lui. Gli occhi della ragazza si strinsero e il verde bosco delle sue iridi divenne sensibilmente più cupo.
«Perché sei scappato, allora?» chiese lei, sospettosa che nelle rassicurazioni di Mika ci fosse traccia di menzogna.
«Avevo gli occhi di tutti addosso» rispose, sincero solo in parte.
Lei lo incitò a continuare e lui raccolse il suo coraggio.
«Co-cos’era per te?» le domandò, un velo di preoccupazione sul volto. Adele ne fu stupita.
«Mika tu mi piaci…», sentì un tuffo al cuore «ma come amico» terminò, tentando di non ferirlo. Mika sospirò.
Di sollievo, però. Adele lo notò e per la prima volta in quella conversazione riuscì a incontrare lo sguardo del ragazzo. Si guardarono per un paio di secondi poi scoppiarono in una risata liberatoria. Quella condivisione fece bene ad entrambi. Adele lo abbracciò di slancio, continuando a ridere di sé e di quella situazione assurda che era riuscita a creare. Gli altri alunni stavano di nuovo riempiendo i corridoi, le aule e i laboratori con lentezza pari alla volontà di arrivare a destinazione.
«Non farlo mai più!» quasi gridò Mika, rilassato, senza neanche accorgersi della gente che li circondava. L’amica s’allontanò di qualche centimetro, sorridente.
«Perché? Non ti è piaciuto?» fece lei, fingendo insicurezza e risultando fin troppo credibile. Mika la conosceva abbastanza da sapere che scherzasse e dunque si limitò a una smorfia eloquente. Lei rise ancora.
«Devo scappare adesso, ci si vede!» terminò la frase mentre già si allontanava.
Nonostante sapesse che avrebbe avuto l’attenzione di tutti per un paio di settimane, Adele era riuscita a lasciare sulle sue labbra un sorriso sereno.
S’incammino verso la lezione di biologia dopo aver preso il libro di testo nell’armadietto e non appena fece i primi passi si infilò gli auricolari con cui sperava avrebbe attraversato il campus al riparo da qualche stupido commento. Tenne la testa bassa, non voleva vedere le loro facce.
Era quasi giunto a destinazione – vide la porta dell’aula e accelerò il passo – quando qualcuno gli afferrò un braccio. Sussultò, spaventato, portandosi una mano al petto e cercando di divincolare il polso stretto nella morsa di una mano decisamente più forte. Gli disse qualcosa, soffiandogli il suo alito sul viso, ma la musica coprì il suono delle sue parole.
Mika non fece in tempo a rallegrarsene che il ragazzo gliele tolse. Attorno a lui c’erano tre dei suoi amici, di cui una ragazza. Sembravano tutti equamente curiosi di cosa stesse facendo il loro compagno.
«Dicevo, ti è piaciuto il bacio?» gli chiese con una prepotenza insita più nel ghigno che nella voce.
Mika non seppe se rispondere, cosa rispondere, non capì cosa stesse succedendo. «Lasciami» si limitò a biascicare debolmente.
«Ah certo, tu sei ricchione!» fece, come se gli fosse appena balenato in mente, scatenando le risate dei compagni. «Certo che magari con una zoccoletta come lei un po’ etero ci diventi perfino tu…» ipotizzò, ridendo anche lui.
«Invidioso?» gli sibilò contro, pervaso dalla rabbia. Ne furono sbigottiti, tanto che la presa del ragazzo divenne leggermente più debole, abbastanza per liberarsene e allontanarsi da loro a passo svelto.
«Ragazzi» lo sentì dire poi ai suoi amici «mai toccare la ragazza del frocio». Il tremolio d’astio nella voce di quel ragazzo suonava come un presagio. Gli fece entrare un gelo nelle ossa che aveva assaggiato già tante volte.
Mika entrò nell’aula di biologia accompagnato da risate di disprezzo dal suono stridente e volgare, una melodia suonata da un pianoforte scordato che gli trafisse i timpani. Sperimentò un dolore lancinante, pulsante sulle tempie, premeva sulla fronte. Era spaventoso che tutto quell’odio, tutta quella rabbia stesse cercando una via d’uscita, rompendo ogni sua difesa, ogni suo controllo.
Ritrasse le lacrime che premevano dietro gli occhi: le pianse in un cassetto dove custodiva un mare.
 
 
****
 
 
Al suono della lezione successiva Mika aspettò che l’aula si svuotasse. Sapeva cosa l’attendeva fuori di lì.
Sarebbe rimasto lì seduto, immobile, al sicuro con la professoressa finché quel ragazzo non fosse stato costretto ad abbondonare i propri propositi, qualunque essi fossero. Magari erano solo sue paranoie, ma non seppe evitarle.
«Penniman» lo richiamò la donna «Forse è ora che tu vada».
Mika si alzò, recuperò la sua cartella e rimase impalato ad attendere che lei uscisse.
«Forza!» lo spronò «Dai che devo chiudere».
«Merde» si lasciò sfuggire in francese con un sussurro.
«Come?»
«È l’ultima lezione?»
«Sì, l’ultima di biologia» precisò Miss Dixon, confusa. Mika annuì e si mosse con poche falcate verso l’uscita.
Forse aveva guadagnato abbastanza tempo da sfuggire a brutti avvenimenti.
La cartella stretta nella mano destra con forza eccessiva, la testa bassa, le cuffiette dimenticate, calpestate nel corridoio dov’erano state gettate, si diresse verso il suo armadietto dove recuperò il materiale per la lezione successiva e lasciò quello che non gli serviva più.
Loro l’aspettavano lì; gli stessi con un paio di aggiunte. Chiacchieravano tranquilli nel corridoio quasi deserto.
«Eccoti» fece lui. La sua voce lo fece rabbrividire. Cercò di ignorarli.
«Dove vai?» chiese, retorico, un brunetto. Non rispose e continuò per la sua strada, dando loro le spalle. «Hai paura? Stai un po’ con noi!» insinuò, lanciandogli la sfida. Avevano toni plastificati, ma pacifici.
«Non ho paura» rispose, senza voltarsi.
«Perché non stai qui un po’?» aggiunse la ragazza, amichevole. «Abbiamo qualcosa per divertirci».
Brunetto estrasse dalla cartella una bottiglia di superalcolico, scuotendola con un sorriso. «Scommetto che non l’hai mai assaggiato» sogghignò.
Il ragazzo di prima si fece una risata leggera. Le buffe orecchie a sventola stridevano con il suo sguardo. «Non ne ha le palle questo, che ti aspetti da uno come lui?» diede ragione all’amico, scatenando qualche ghigno.
«Non sono gay» mentì.
«Non ho detto questo» ribatté, divertito, Orecchie-a-sventola, alzando le mani e mostrandogli i palmi. «Coda di paglia?» fece, inclinando il sorriso.
Mika sentì una morsa al petto, i battiti del cuore fino allo stomaco, le mani gelide. Di nuovo l’adrenalina lo pervadeva.
«Ne bevi solo un goccio» intervenne per la prima volta un ragazzo dalla pelle olivastra. Aveva occhi più sinceri, ai quali credette.
«Devo andare a lezione» rispose flebilmente «sono già in ritardo».
«Assaggialo e puoi tornare in classe» fece Orecchie-a-sventola. Nelle sue parole era abilmente occultata una minaccia.
Mika annuì e si rimangiò tutti i “perché?” che gli giungevano sulle labbra. Sapeva che volessero solo divertirsi: lui era uno sfigato, asociale, frocio, senza amici e non aveva mai messo piede fuori casa oltre le nove di sera. Ai loro occhi, almeno, era così, seppure la realtà era a tratti ben diversa.
Tuttavia il massimo dell’alcol che aveva ingerito era stato un paio di drink nei locali di Londra. Già quelli bastavano per sentire la testa un po’ leggera.
Il gruppo di amici, con rinnovata allegria, lo accompagnò in una stanza che pareva un ripostiglio, ma era ben illuminata e anche fin troppo capiente per essere destinata a magazzino. Si sedettero chi a terra e chi su qualche mobiletto basso o scatolone pieno di chissà cosa. Mika li imitò e prese posto fra Orecchie-a-sventola e la ragazza, lì dove il primo gli aveva fatto segno di accomodarsi. Cominciarono a passarsi la bottiglia e a bere un sorso ciascuno.
Quando arrivò fra le sue mani, Mika esitò per un secondo prima di inghiottirne poco. Gli bruciò la gola e si trattenne dal tossire.
«ah, ah… troppo poco!» rise Olivastro, rimproverandolo scherzosamente.
«Fallo abituare un attimo, James» venne in suo soccorso la ragazza, ridendo.
A Mika sfuggì un piccolo sorriso del quale si pentì immediatamente. «Un assaggio, fatto, io vado…»
«No, dai, ti sei solo bagnato le labbra!» si lamentò Orecchie-a-sventola. «Bevine un po’» gli disse, trattenendolo con una mano sulla spalla. Mika s’irrigidì, rimase immobile, paralizzato. Fece un lungo sorso alla fine del quale, gli altri si spesero in un’ovazione condita da risate.
La bottiglia fece altri due giri, Mika altri due sorsi. Poi Brunetto ne estrasse una seconda dalla cartella. «Questa è l’ultima, però» informò i presenti.
A quel punto Mika non riusciva a tenere gli occhi ben aperti, vigili. La testa galleggiava e lui si sentiva a suo agio, un piccolo sorriso sulle labbra. Gli altri parlavano, non sapeva dire di cosa, non riusciva a seguire l’intero discorso. Il ragazzo che più di tutti era stato silenzioso era spalmato sulla ragazza affianco a lui. Le loro bocche si confondevano.
«Tu lo baceresti mai un ragazzo, Sam?» fece James a Orecchie-a-sventola. Quest’ultimo sembrò pensarci.
«Non so, tu?» chiese di rimando.
«Baciarlo… forse me lo scoperei, dipende».
Sam rise di gusto. «Da cosa?». Mika non si accorse di tremare, troppo attento alla conversazione.
«Dal culo, ovviamente» tuonò, scoppiando a ridere, dopo aver bevuto fino all’ultimo goccio d’alcol presente nella bottiglia di vetro. Sam si unì a lui e Mika fu costretto ad imitarli, facilitato dalla sottigliezza dei suoi pensieri.
Sam si rivolse a lui, riprendendo fiato. Gli mise una mano sul fianco, facendo una leggera pressione per voltarlo.
«Girati un po’» rise, rivelando parte della sua schiena, fasciata dalla divisa smeraldo. In un attimo di lucidità, si scostò da quel tocco, da quel gesto. Recuperò la cartella e fece per andarsene. Si sentiva sporco.
«Ma dove vai?» si alzò anche lui, sorreggendolo quando lo vide barcollare. «Non ti reggi neanche in piedi». Dietro di lui, la risata di James pareva un latrato di dolore. O forse erano solo le sue urla, quelle che gli gridavano dentro.
«Sì, invece» ribatté stupidamente. Sam gli prese i polsi, ridendo.
«Guarda, Michael» esordì uno dei due ragazzi che avevano passato il tempo accanto alla finestra a fumare. «James ti sta facendo una dedica» annunciò con tono indifferente, indicandolo mentre accucciato su una cartella scolastica stava scrivendo una frase a caratteri cubitali con un pennarello nero.
Mika aveva la sua nella mano destra. No, si rese conto. Non c’era nulla nella sua mano destra. «Ma… è la mia?» chiese al fumatore, confuso, agitandosi e liberandosi dalla stretta di Sam. Quello sbuffò fumo dal ghigno, annuendo appena.
«Che cazzo fai?!» urlò con voce stridula, gettandosi sulla sua cartella e sfilandola dalle mani del ragazzo. Le risate aumentarono. «Che cazzo hai scritto?» sbottò poi lanciando uno sguardo perso alle parole che ne marchiavano la superficie. Se aveva difficoltà a leggere da sobrio, non poteva pretendere che andasse meglio adesso. Le lettere fuggivano in ogni direzione, ancor più velocemente.
«Non riesce neanche a leggerlo». Altre risate.
«Quanto puoi essere stupido». Sghignazzate più forti.
«Tesoro» intervenne poi il colpevole, imitando una voce effeminata e gridando per sovrastare le risate «Ho scritto: “Al mio frocetto preferito, ti scoperei se fossi abbastanza ubriaco”».
Michael sentì un lucchetto frantumarsi, qualcosa spalancarsi, un cassetto svuotarsi di getto, un maremoto scontrarsi violento contro ogni protezione, ogni argine sicuro. Non sentì neanche l’ultima campanella trillare.

Tutto si sgretola, ogni cosa preme per essere buttata fuori, il veleno si riversa nel sangue, denso come fango. Fa fatica a respirare. Prende a correre senza sosta, la cartella stretta al petto, il petto stretto in una morsa, il respiro che corrode la gola. C’è gente nei corridoi.
“Dovunque, dovunque ma non qui”.

Avrebbe voluto tornare a casa, nel suo rifugio, ma non poteva inquinare anche quel mondo puro, non ancora toccato a pieno dalla sua realtà.
Come le avrebbe spiegate poi quelle parole alla sua famiglia. Si catapultò nel primo posto che vide isolato: un bagno.
 
Fu come essere schiacciati dal peso intero del mondo. Il livore, la rabbia cieca avevano spazzato via l’ebbrezza dell’alcol. Sentiva il cuore martellare sulle tempie, la mascella dolorosamente serrata. Non voleva che lo trovassero, ma le urla gli sfuggirono comunque dalle labbra, soffocate come sospiri. Il viso deformato, la giacca gettata a terra in un gesto feroce, Mika lasciò che vivessero solo dentro di sé. Il solo suono udibile era il chiacchiericcio e tramestio di passi, oltre la porta.
Si abbandonò a terra, lanciando, violento, dinnanzi a lui la cartella scolastica. Tentò di portare via la scritta con gli occhi, poi con le mani, la saliva, l’acqua dei rubinetti. Era tutto inutile, gli portava via solo le forze.
Vide di sfuggita una spazzola per capelli abbandonata su uno dei lavabi e realizzò di essersi rifugiato nel bagno delle donne. L’afferrò di scatto e la sfregò all’ecopelle con tutta la forza che aveva; la scritta non sbiadì affatto, il materiale si graffiò appena.  Non si arrese, usò tutto il peso del suo esile corpo. Immaginò che fra le mani avesse una striglia, dai denti di ferro, affilati, e che la usasse sul volto dei suoi aguzzini con la stessa ferocia di cui gli avevano fatto dono. Gli occhi gli si tinsero di cremisi, il tremito giunse fino alle ossa, il sangue raggiunse le sue mani, fiottando da quelle facce distorte dal dolore.
A quella visione si fermò. I brividi non gli diedero tregua, invece.
Ebbe un tale ribrezzo di sé che non riuscì ad alzare lo sguardo; le pareti coperte di specchi gli avrebbero rimandato il riflesso di un bambino rannicchiato su se stesso, pervaso d’odio, asfissiato dall’ira, con occhi da assassino. L’unica cosa che fu in grado di fare per quei pochi minuti fu fissare ciò che solo un briciolo della sua esplosione era riuscito a generare: brandelli di pelle finta pendevano dalla cartella, i dentini di plastica della spazzola erano tutti intorno, uno stormo di uccelli neri nel cielo grigio su cui era inginocchiato. Respirava con affanno.
S’alzò in uno slancio di estrema energia, strappò un pezzo di carta asciugamani, frugò nella cartella, entrò in una delle cabine wc, sbattendosi la porta alle spalle e chiudendola a chiave, e sedette a terra, posando la cartella sulle gambe. La usò come scrittoio e, penna fra le dita, iniziò a buttare giù ogni cosa gli tuonasse nelle membra.

Il gelo dentro, la mente offuscata, la nebbia nello sguardo, le notti carbonizzate, senza sogni, il terrore, la voglia di fuggire dalla vita, di correre senza ritorno, di toccare il fondo di quella caduta eterna.

 
Dov’è che sta andando? Dove si trova?
Perché non riesce a piangere?

 
Il tremito accompagna la mano in una scrittura svelta e rabbiosa. La punta della biro buca la carta, le parole gli graffiano la gola quando la canta, un filo di voce che echeggia nell’aridità della stanza.
 
Una volta terminata, il tremore l’aveva abbandonato, la mente era più leggera, il dolore sulle tempie sparito, restava solo una stanchezza infinita. Persino respirare sembrava faticoso.
 
È passato.

Le parole sul foglio erano impossibili da decifrare, distorte e lacerate com’erano, ma non gli importava. Erano impresse così nel profondo che Mika aveva la certezza di non potersi liberare del loro ricordo.
Chiuse gli occhi, vinto dalla spossatezza. Prima di cadere in un sogno, dedicò un pensiero alla canzone che teneva stretta fra le mani.
“È bella”, sorrise al silenzio.





Note: 
Ciao a tutti! 
Sono tornata con un'altra storia breve (che poi tanto breve non è ahahah). Spero vi sia piaicuta :) Grazie a chi ha messo la storia fra le seguite e le preferite, ma grazie soprattutto a chi si è preso un minuto di tempo per scrivere una piccola recensione!  
Ora qualche breve precisazione: molto in questa storia è frutto della mia immaginazione, ma molto altro è frutto di cose dette da Mika stesso. Le cose di mia totale invenzione sono solo ed esclusivamente il personaggio e la vicenda di Adele, il luogo dove è stata scritta la canzone e la vicenda che l'ha ispirata in sé. Del luogo dov'è stata scritta, che io sappia, ha detto solo che si trovava nella sua scuola. Ho pensato alla cosa più probabile. Sulla vicenda le informazioni sono poche e ho voluto rispettarle: doveva essere ubriaco e si stava nascondendo. Fra i personaggi, tutti inventati, Alex è un suo reale amico di scuola che in un concerto cantò come corista proprio in Over my shoulder (basta cercare su youtube immagino).
Tutto il resto sono sue dichiarazioni nelle interviste :) Lasciatemi qualche commento per farmi sapere se vi è piaciuta.

Bacioni e alla prossima :*

 

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Capitolo 3
*** Ocean eyes ***


Ocean eyes

 
Il cielo era nudo, tinto d’un tenue cobalto, ma sull’orizzonte si erano adagiate coltri di nuvole cupe, cariche di pioggia. Nell’aria avvertiva l’elettricità tipica dei momenti che preludono una tempesta estiva, la gravezza dell’umidità sulla pelle, ancora intiepidita dal sole gentile di Londra. Michael non aveva con sé un ombrello né un cappotto più pesante del leggero giubbino di jeans che aveva indossato quella mattina per prepararsi ad affrontare una giornata di metà giugno.
Si passò una mano fra i capelli ricci che quasi giungevano a carezzargli le spalle. Lì tirò leggermente indietro finché la pelle del cranio fu dolente.
Prese la prima sigaretta dal pacchetto, l’unico che avesse mai comprato, e la mise fra le labbra con spirito di ribellione, l’accese e guardò il fiume scorrere, aggrappandosi alla ringhiera. Tossì nell’avvertire il fumo farsi spazio nella sua gola, irritarla un poco e lasciare la sua bocca senza eleganza.

 
Che importa, in fondo?
 
La vibrazione del cellulare lo destò appena, diede una distratta occhiata al display, rilevando la presenza di un messaggio della madre.
“Un altro rifiuto?” lesse, preceduto da un messaggio che ne era la copia esatta, risalente, però, a qualche giorno prima.
«L’ultimo» rispose con voce sottile, tornando ad osservare le acque torbide dinnanzi a lui, quasi che quel sussurro potesse rimanere intrappolato nella luce arancione dei lampioni ed essere spazzato via dal temporale imminente.
Michael aveva ventidue anni e lo sguardo ferito, spento, che si lasciava traghettare dal navigare lento delle nuvole. La strada era vuota, si sentivano solo le macchine sfrecciare alle sue spalle, il debole ronzio dei lampioni, il mormorio lontano dei locali che si riempivano di gente in cerca di riparo. Assieme al fumo, soffiò via quel sogno stupido e infantile mentre avvertiva le gocce di pioggia sferzargli il viso, ghiacciandogli addosso l’emozione di un momento.
Quando la pioggia si fece torrenziale – lo scrosciare dell’acqua sul Tamigi divenne assordante, la sigaretta fradicia e inerme fra i denti – si fece una promessa: non avrebbe mai più cantato, non avrebbe più riversato pezzi di anima su un foglio puro né sfiorato i tasti del pianoforte per tradurvi ogni emozione che fosse troppo grande da tenere dentro.
La musica, si disse, bastava anche solo ascoltarla.

 
****


Le sue lunghe gambe si muovevano rapide, ma senza grazia né coordinazione. Chiunque a vederlo l’avrebbe ritenuto goffo, ma Michael non se ne curò. Con il respiro veloce e un leggero bruciore ai polmoni, corse nell’aula dove si svolgeva la lezione di Igiene e Territorio, la prima del semestre e la prima in assoluto cui quelle matricole partecipassero.
La sciarpa legata al collo per schermarsi dal freddo autunnale e il bavero del cappotto ancora alzato, raggiunse trafelato l’entrata. Non conosceva nessuno e aveva perso l’orientamento nel tentativo di trovare l’aula nell’enorme campus. Come inizio per il corso di Geografia, non era certo l’ideale.
L’aula era fin troppo affollata ed era sudato, ansante per la corsa. Appena immersosi nel tepore della stanza, si aprì il cappotto e si scostò qualche ciocca dal viso un po’ arrossato, in cerca di aria. Nella stanza vi era ancora silenzio, un semplice mormorio soffuso che pareva quasi rassicurarlo mentre prendeva posto nel primo spazio vuoto adocchiato.
Il professore prese la parola, presentandosi e iniziando a snocciolare in cosa consisteva la sua materia, quali sarebbero stati gli obiettivi formativi del corso, quando ci sarebbero stati i primi esami. A chi rivolgersi in caso di bisogno, come comportarsi in particolari situazioni, il nome del libro di testo. Lo mostrò a tutti: un tomo dall’aria pesante, dava l’impressione d’essere zeppo di nozioni di dubbio interesse.
Presto iniziò a fare un’introduzione alla disciplina, usufruendo dell’ausilio di un proiettore su cui faceva passare svariate immagini. Scorrevano con estrema lentezza, ma d’un tratto sfrecciarono sulle sue retine distratte ad una velocità che gli ferì lo sguardo.
Cercò di ascoltare le parole del professore, la spiegazione accompagnata dallo stridere del pennarello sulla lavagna, ma il proprio respiro, calmo solo da pochi minuti, aveva ricominciato ad accorciarsi.
Lo stridio del pennarello divenne doloroso, il debole chiacchiericcio un rombo, l'aria gli mancò nei polmoni. Il petto faceva male di un dolore acuto e penetrante, una pugnalata fra le costole. Il vocio si fece intollerabile, il cuore batteva all’impazzata, così forte da sembrare gli frantumasse le ossa.
L’aria bloccata in gola. Affogava.
Si portò una mano al collo, annaspando e tentando di non darlo a vedere, poi la luce gli accecò la vista: il mondo era nebbioso, privo di contorni, bianco e grigio, senza colori. Era fuori dal suo corpo, si muoveva senza sapere di stare per farlo, come mosso da un abile marionettista in una scenografia di guerra. Dei brividi lo scossero da capo a piedi.
Tentò di tornare in sé, si alzò in modo scoordinato e mosse qualche passo verso l’uscita. Sentiva un rumore assordante, il dolore al petto aumentava senza dargli tregua.
Quando finalmente fu fuori dall’aula si sentì meglio; la purezza dell’aria gli diede sollievo, il calore di corpi ammassati non lo soffocava, il loro brusio era ormai lontano.
Ma continuava ad affogare, solo con più lentezza.
Si accasciò a terra, la schiena che aderiva al muro gelido. Cercò di rendere il respiro regolare, ma la sua mente lo ingannava con una facilità sconfortante.
D’un tratto avvertì delle mani affusolate dalle punte fredde e dai palmi bollenti sfiorare il dorso della sua. La voce di un ragazzo lo raggiunse come un’accozzaglia di suoni privi di senso, una melodia soffice come un soffio di vento primaverile. Una fragranza di scogli e acqua salata l’avvolse come una nebbia sottile. Se ne intossicò, assaporandola ad occhi chiusi. Si concentrò sui suoi fievoli incoraggiamenti, carezzevoli folate d’aria, sul gelo rovente della sua stretta. Michael serrava la sua mano fra le dita di rimando, aggrappandosi ad essa come ad un salvagente in quel mare assassino che gli toglieva la vita con pigra spietatezza.
Cominciò a seguire il ritmo del suo respiro, ad inspirare ed espirare all’unisono con lo sconosciuto. Il battito prese a decelerare, come ad aver trovato il proprio ritmo, come stesse battendo nel modo giusto per la prima volta in ventitré anni. D’improvviso nacquero i singhiozzi, inevitabili, dalla potenza inaudita. Si sentì svuotato d’ogni forza, ancor più arido di quanto era stato negli ultimi mesi.
La vista era ancora appannata, questa volta da lacrime immotivate, ma fra la confusione riconobbe alla perfezione il volto terso, semplice di un ragazzo biondo, accovacciato di fronte a lui. La delicatezza con cui aveva preso a strofinare il pollice sul dorso della sua mano destra, la fermezza dei suoi occhi blu topazio, la sua presenza lì accanto a lui, sul pavimento umido dell’Università, lo frastornavano.
«Stai perdendo la lezione» riuscì a dirgli fra i singhiozzi.
«Lo so» rispose lui. La sua voce si rivelò ancora più calda di pochi minuti prima. Vi rimase accoccolato come ad un abbraccio.
«Dovresti rientrare» asserì, asciugandosi le guance, a disagio. I singhiozzi gli morirono improvvisamente fra le labbra, così com’erano sorti.
«Entri anche tu?» gli chiese con premura. Aveva un modo di parlargli che somigliava a una carezza. Le loro mani erano ancora intrecciate. Mika ne fu imbarazzato, ma non volle scostarla.
«Non so se me la sento» rispose, il respiro tremante.
«No, neanch’io» ribatté il biondo.
Calò un silenzio che non pareva teso né leggero. Solo una quiete preziosa quanto agognata che gli leniva le tempie doloranti.
«Non preoccuparti per me» Michael ruppe quel momento, facendo scivolare una mano sul viso, un’onda che porta via i segni su di una spiaggia bagnata.
Le dita scosse dal tremito. Aveva creduto di morire.
«Non è quello» chiarì il ragazzo «È che non credo sia il mio posto». Indicò l’interno dell’aula con uno sguardo serio e sereno a un tempo. Fece scorrere quelle pietre di topazio sul suo viso, esaminandolo.
«Va meglio?» si premurò di sapere.
«Sì» rispose con un sussurro, vergognandosi del suo pianto. «Non so cosa… mi sia successo…»
«Oh, io sì» fece lui, inaspettatamente «Era un grido d’aiuto»
«Non ho bisogno di aiuto», scosse la testa il riccio, facendo scivolare via la mano dalle sue. Se c’era una cosa che sempre respingeva era la commiserazione.
«Non del mio, del tuo» precisò il biondo, accennando un sorriso «Gridavi aiuto a te stesso» spiegò, con sicurezza.
Michael si sentì spogliato da un’affermazione così profondamente intima. «Non so…»
«Questo non è neanche il tuo posto» affermò, indicando con un cenno del capo l’aula da cui erano usciti.
Mika corrucciò la fronte, infastidito dall’invadente verità di quelle parole.
«Perché mi hai seguito fuori?» domandò a bruciapelo, scandagliando il bel viso che gli era di fronte. Una bellezza che è impossibile catturare con uno scatto perché inondata di vita.
«Ti ho visto in difficoltà…» gli rispose per poi far scivolare gli occhi sul pavimento, concentrato, quasi stesse scavando dentro di sé per la risposta. «Ma, se devo essere sincero… hai attirato subito la mia attenzione» continuò titubante, immergendo lo sguardo in quello cioccolato fuso dell’altro.
Quest’ultimo si alzò, un po’ rigido, con uno sguardo meno morbido, e il biondo lo imitò, preoccupato di aver parlato troppo onestamente. Rimase sorpreso nel constatare che fossero più o meno della stessa altezza.
«Non sai niente della mia vita, ok?» scandì duramente il riccio.
«So solo che non vuoi questo» ribatté il biondo, calmo, con tono saccente.
«Non ti riguarda» s’infastidì ulteriormente.

Davvero si prendeva il diritto di giudicare la vita di uno sconosciuto? Di leggergli ogni incertezza e sputargliela addosso con tanta dolcezza?
 
Sul volto del ragazzo si dipinse un sorriso boschivo, verde smeraldo. «Spero che farai quel che è meglio per te». Sulla pelle lattea del biondo, Mika aveva l’impressione di scorgere ovunque rapide pennellate di colore: una tela che si dipingeva liberamente di emozioni, incontri, musiche, passioni, ricerche, amori, danze, vite.
Mika aveva la mente stipata di domande e dubbi. Era confuso da quell’atteggiamento di cura nei suoi confronti da parte di un perfetto sconosciuto, disorientato dal caleidoscopio che gli scoppiava nelle retine a guardarlo. Scosse la testa, cercando di riordinare i pensieri, di dare una spiegazione logica alle parole che stava ascoltando, a ciò che vedeva.
Il cuore prese a battergli più veloce come davanti a un pericolo. Fece per rispondergli – voleva affrontarlo - ma lui lo precedette.
«Cambia la tua vita. Io lo faccio adesso: non ha senso sprecare altro tempo qui» concluse, aprendo le braccia per indicare attorno a loro mentre il volto dai tratti mediterranei si tingeva d’oro.
Il riccio rimase in assoluto silenzio, privato della voce dallo sgomento.
«Ti auguro di fare la scelta giusta» allargò il sorriso color autunno e cominciò a muoversi verso l’uscita. Con una mano sulla maniglia della porta, si voltò. «Addio» disse, una cinerea goccia di delusione increspò la perfezione di quel sorriso arancio bruciato quando non ricevette neppure risposta.
Quegli occhi se ne andarono, portando con loro ogni sua determinazione, strappandogli ogni incertezza.
Michael era pietrificato sul posto, sbigottito da quanto appena accaduto, innervosito dall’invadente perspicacia di quel ragazzo e squassato da una musica che gli premeva sulle tempie, gli dava il formicolio alle dita. Un sottile grazie scivolò fuori dalle sue labbra secche, senza produrre alcun suono.
Gli sembrò di scorgere delle impronte sul pavimento perfettamente candido, seguì quel sentiero fantasma fatto di ombre del suo futuro. Uscì con la certezza di non fare più ritorno. Le parole erano lì, nella sua mente, in attesa di essere scritte. Non c’era più spazio per nasconderle.

Era il momento di ascoltarsi.
 
****

Parecchi mesi dopo si trovava ancora a pensare di lui. Non ne sapeva neppure il nome.
 
Non sapeva, sopra ogni cosa, perché il suo ricordo gli fosse rimasto incastrato nella mente.
 
Si chiedeva se sarebbe stato comunque lì, negli studi della Universal, se non si fossero mai incontrati, se non l’avesse inconsapevolmente costretto ad ascoltarsi, a lottare ancora per quel sogno stupido e infantile.
 
Come aveva potuto pensare di buttare tutto ciò cui aveva consacrato la sua esistenza? Ciò che sempre gli aveva offerto un valore da custodire?
 
Da una parte gli era riconoscente, dall’altra detestava il fatto di dovere qualcosa a qualcuno, riguardo la sua recente carriera di musicista.
Delle volte invece si scopriva naufrago in un oceano che aveva trovato rifugio fra un paio di ciglia bionde, il suo sguardo impedito da pennellate di colore, lasciate senza criterio che non fosse quello del caos primordiale.

 
Quale magia possedevano quegli occhi per poter leggere così a fondo nello sguardo di un altro uomo? Come poteva somigliare all’atto di dipingere quel suo modo di esprimersi?
 
Lui che non decifrava neanche la parola scritta, gli invidiava con tanta intensità quell’abilità di tradurre persino il linguaggio segreto degli sguardi, da giungere quasi a odiarlo.
Il colore però gli aveva sempre incendiato lo sguardo: sulle sue retine rimaneva traccia indelebile di quell’incontro e Michael non sapeva ignorarla.

 
«Mika, per favore» lo richiamò il tour manager, schioccando le dita un paio di volte con fare professionale. «Lo so che non dormi da giorni, ma cerca di seguirmi» lo pregò.
In risposta il riccio annuì freneticamente. Aveva ragione, non aveva avuto tempo neanche per chiudere occhio, allo stesso tempo non ne aveva avuto neanche per sentirsi stanco.
Il manager sorrise, divertito. «Bene, dicevo…» riprese, rivolgendosi al cantante «Fra poco incontrerai tutto il team, ci stanno aspettando». Lo guidò verso una delle sale riunioni dell’edificio e spalancò la porta per farlo entrare e seguirlo all’interno.
La riconobbe immediatamente quella particolare fragranza. Acqua di mare, scogli bagnati. Era stranamente piacevole e del tutto sua.
I loro occhi si rincorsero attratti da una forza magnetica, si scontrarono come calamite di poli opposti. Immergersi di nuovo in quello sguardo d’oceano fu un colpo al cuore, così dolce da tramortirlo.
La voce di John che elencava i nomi dei vari componenti della squadra messa insieme per il tour non era che un debole brusio di fondo a cui non riusciva a prestare attenzione.
«Ma…Vi conoscete?» s’intromise ad un tratto, notando quel contatto visivo prolungato. Mika scostò lo sguardo sorpreso sul viso del manager.
«Sì»
«No»
Si guardarono nuovamente e non seppero quale risposta appartenesse all’uno e quale all’altro.
John aggrottò la fronte. «Vedo che c’è un po’ di confusione» commentò, divertito. Tutti i presenti si lasciarono andare ad una risata.
Fu quello il momento in cui entrambi si accorsero che erano gli unici ad avvertire la tensione, che esisteva unicamente fra loro. Michael ne fu grato e accennò un sorriso, di modo che nessuno potesse notarla.
«In ogni caso, lui è Andrew Dermanis» soggiunse l’uomo al termine del momento d’ilarità «Sarà il tuo camera operator».
«Tu devi essere Mika, invece» scherzò il biondo, allungandogli una mano per scuoterla. Nacquero dei sorrisini sul volto dei presenti.
«Ah, certo» fece il manager di rimando, ridendo «Per chi non l’avesse ancora capito, lui è Mika». In quel periodo la sua faccia era ovunque, non c’era persona che non sapesse il suo nome.
Attenuò un po’ il sorriso, marcando le fossette e guardando, imbarazzato, il pavimento per qualche secondo, prima di rivolgersi al suo manager. «Possiamo andare avanti?» lo implorò, sorridendo.

Avvertiva l’intensità di quegli occhi d’oceano su di lui. Lo stavano annegando, ma era una morte deliziosa.










Note: Ciao!
Sono tornata con un nuovo capitolo un po'  sdolcinato... spero vi sia piaciuto <3
Il titolo come avrete notato è preso dalla canzone di Billie Eilish perché mi ha ispirato nello scrivere e penso ci stia bene con il senso della one-shot. 
L'idea è nata da una cosa detta da Mika nel suo programma, tempo fa: ha frequentato un giorno la facoltà di Geografia prima di riuscire ad ottenere un contratto e questo è ciò che ho immaginato :') Per quanto riguarda l'attacco di cui si parla nel testo (la mancanza d'aria, il pianto ecc) si tratta di un attacco di panico. Una delle case è, per esempio, l'interruzione di una lunga relazione (quella con la musica, nel caso di Mika) o, altro esempio, quando si sta facendo qualcosa che non si vuole fare (quindi no, Andy non è un sensitivo eheh).
Grazie a chi legge, recensisce e mette la storia fra le seguite e preferite. Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto con un piccolo commento, grazie ancora <3
Bacioni e al prossimo capitolo! :*

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Capitolo 4
*** Invisible ***


Invisible

 
La pioggia cadeva fitta e sottile, affilata quanto un migliaio di spilli e poco più fastidiosa di un filo di sudore sul volto. Avvolto da un cielo candido come la vela gonfia di una nave, se ne stava fermo ad ascoltare il ticchettio dell’acqua sui canali di scolo, il battito d’ali frettoloso delle colombe che si annidavano negli alberi ai lati del sentiero di mattoni, il proprio respiro affannato, che esalava nuvole di vapore contro il muro in cemento. Affinò l’udito, pronto ad intercettare ogni tipo di suono, ogni passo rapido e fruscio sospetto.
Posò le mani sulla parete della casupola dietro cui si era nascosto e smorzò il sorriso, unendo le labbra arrossate dal freddo e sporgendosi oltre il suo nascondiglio in modo da controllare il viottolo dinnanzi a lui.
Era vuoto. Michael fece un salto e si trovò nel mezzo della stradina, poi corse in punta di piedi sul lato opposto, rintanandosi fra due dei centinaia di mausolei che formavano quella necropoli dei tempi moderni.
Si sporse appena per individuare il traguardo, o quello che ne era visibile: un tetto ocra che si stagliava contro la cittadina senza vita. Si mosse per raggiungerlo, fiondandosi verso il nascondiglio successivo, attento a non fare rumore quando, improvviso, un grido squarciò il silenzio.
«Visto!» un piccolo stormo prese il volo dai rami dell’albero «Mika!»
«Daiii» sbuffò, abbandonando con forza le mani sui fianchi. Rise, preso per mano dalla risata della sorella.

 
Un trio di ragazzini donava vita a quella città morta, custode di affetti remoti e nomi desueti.
 
 
Mika si voltò, sorridente, verso la voce della sorella, scrutando la linguaccia di Yasmine con simulato fastidio. La ragazzina sparì di nuovo fra le viuzze, continuando la sfida con Paloma.
Mika tirò un sospiro rassegnato, avvicinandosi al sentiero principale; non vinceva mai a quel gioco e si trovava sempre costretto ad aspettare tutti davanti il mausoleo di famiglia.
Passò il tempo al riparo sotto la pensilina della casupola dal tetto ocra, usando un ago di pino a mo’ di pennello e il fango come acquerello per disegnare sei piccoli soli sul cemento ingrigito del pavimento e portare una pennellata di luce in quella giornata tetra.
«Ti ho vista!» sentì d’improvviso.
«Prima io!» ribatté l’altra voce.
Michael fece appena in tempo ad alzare lo sguardo dal suo dipinto che le vide entrambe sfrecciare verso di lui. Dovette scansarsi e rovinò con il sedere a terra. Come prevedibile, Yasmine toccò per prima il muro del mausoleo, guadagnando la vittoria e uno sguardo omicida dalla sorella più giovane. Quest’ultima gli diede una spinta giocosa subito seguita da uno scroscio di risate cristalline.
«Avete rovinato i soli che avevo disegnato» si lamentò il più piccolo, notando come fosse ruzzolato proprio sopra il suo disegno.
«Sempre a lagnarti tu!» lo rimproverò Paloma, scoppiando in una risata ancora più prorompente nel vedere i pantaloni del fratello sporchi di fango. «Secondo me dovresti preoccuparti di quelli» disse, indicando il disastro.
Il ragazzino diede uno sguardo preoccupato al retro dei suoi jeans, cercando di porre rimedio con una mano.
«Oh, la mamma ti ucciderà» profetizzò solennemente la più grande.
«Aiutatemi, dai!» le implorò, spaventato.
Paloma mise le mani a coppa per raccogliere un po’ d’acqua piovana e cercare di pulire la macchia, mentre Yasmine si limitava ad assicurare l’inutilità del tentativo.
Udirono un mormorio che lentamente si andava intensificando. Ben presto la voce gracchiante della nonna si fece chiara, al contrario quella più dolce di Joannie divenne udibile solo quando furono più vicine.
«Penso che meglio di così sia impossibile» dichiarò con una smorfia Paloma, rassicurando Mika sul fatto che il danno non fosse più così visibile.
«Questi bambini ce l’hanno un po’ di rispetto per le loro origini?» esordì la più anziana e i tre si misero in ascolto, consapevoli che quelle parole non fossero destinate alle loro orecchie.
La risposta della madre giunse ovattata.
«Un briciolo di rispetto per i defunti glielo hai insegnato?» gracchiò, acida «Corrono, ridono, saltano, urlano. Un po’ di educazione!»
«Sono solo bambini» tentò di dire Joannie in difesa dei propri figli.
«E diventeranno criminali di questo passo» ribatté la vecchia, abbassando poi la voce a un sussurro «Soprattutto… per non parlare di… Michael, me ne intendo io, quel ragazzino si dimostra sempre più per quello che è»
«Mika ha passato un momento difficile, ma ora lavora, è felice, molto creativo…»
«Strano» sentenziò l’anziana donna, cercando di tenere un tono basso. Portava scritto sulla pelle il romanzo di una vita straordinaria dinnanzi al quale qualunque lettore diventava un granello di sabbia. «Io ti avverto… è uno scherzo della natura»
Yasmine trattenne il respiro, facendo scivolare una mano su quella del fratello, pietrificato.
«Mika poi! Smettila di chiamarlo con quel nome da femmina» fece poi, parecchio disgustata, comparendo nella loro visuale e intercettando lo sguardo dei tre nipoti. «Oh, siete qui!».
Il volto di Joannie era così tetro da far paura, la mascella serrata di qualcuno che avrebbe tanto da dire, o da urlare più verosimilmente, ma che è costretta a zittire ogni pensiero.
Osservò preoccupata i propri figli e addolcì lo sguardo nell’incontrare gli occhi nocciola del più piccolo. Era così indifeso, seppure ormai non più così piccolo come quando aveva perso la parola.

 
I suoi dieci anni sembravano raddoppiare in quello sguardo ferito che gli rammentò il bambino senza voce che era stato.
 
 
La rabbia di non poterlo davvero difendere da quegli insulti gli corse fino agli occhi. S’inondarono di lacrime che dovette intrappolare, brucianti, fra le palpebre.
«Ecco» esordì la vecchia «Questi sono il vostro passato…»
Mentre la donna narrava la storia di immigrati della famiglia, Joannie si avvicinò al figlio e si chinò appena per baciarlo sulla fronte e lasciargli una carezza.
«Hai bisogno di un solo superpotere» mormorò sulla sua pelle, ripetendogli quelle parole che spesso gli rivolgeva. Come uno di quegli artisti di strada pitturati di bronzo che prendevano vita di tanto in tanto nelle strade di Londra, si mosse un poco e accennò un sorriso stremato.
 

 
****
 
 

Aveva imparato a farci l’abitudine a sua nonna e alle sue parole, dardi intinsi in tossine che avrebbe voluto saper scoccare anche lui, individuando il punto dove la carne era più morbida, fragile e mirandovi con impeccabile precisione. Sembrava le venisse completamente naturale, un’arte del tutto innata.
Se ne stava seduta in silenzio e quando apriva quelle labbra raggrinzite e timbrate da chiazze di vecchiaia, ci si chiedeva solo chi stesse per ferire. Naturalmente lui era uno dei suoi bersagli preferiti.
 

«… è uno scherzo della natura», parole che gli riaffioravano ancora alla mente dopo oltre quattro anni che le aveva pronunciate. Scappavano dal rifugio dove le aveva confinate e gli arrugginivano i pensieri.

 
 
“Aveva ragione” pensò amaramente, finendo di addentare una mela rossa.
Quella sera aveva rifiutato di prendere parte alla cena di famiglia perché aveva litigato ferocemente prima con sua sorella e poi con sua madre. A dire la verità, non ce l’aveva con nessuna delle due, era solo innervosito dalla presenza di sua nonna: doveva spegnersi quando lei era nella stessa stanza, così com’era costretto a scuola di fronte ai suoi compagni. E, dopo un po’, quella presenza diventava asfissiante, opprimente.
Forse avevano ragione a pensare che fosse ridicolo.
Se solo avesse provato a dire quel suo segreto alla nonna, Mika sospettava che lei lo avrebbe negato fino alla fine dei suoi giorni. Avrebbe avuto ribrezzo di lui, avrebbe provato pena nei suoi confronti, magari celandoli dietro una bugia dorata. In fondo, non avrebbe avuto tutti i torti.
Era forse giusto ciò che provava?
Sembravano naturali quelle sensazioni intessute sulla sua pelle, penetrate nelle sue ossa, ricamate sulle sue labbra, suonate nella sua musica. Se invece s’intrufolavano nella sua mente, parevano sbagliate, contronatura, perverse. La vergogna lo seguiva ovunque andasse.

 
Dopo anni, scopriva che nulla era cambiato: giocava ancora a nascondino, questa volta con i sentimenti, e pareva fosse destinato a vincere.
Proprio ora che avrebbe voluto scrollarsi l’invisibilità di dosso.
Era rimasto incastrato in un rifugio fatto di corazze.

 
 
La risata di sua nonna gli giunse alle orecchie come il peggiore dei violinisti avesse sfiorato le corde sottili dello strumento. Si ergeva sopra le altre, più melodiose, giovani, sincere.
Gettò il torsolo della mela nella pattumiera e si corazzò di virilità, entrando nel suo stesso spazio. «Che ridi, strega?» sussurrò appena, rivolgendo uno sguardo d’odio alle sue spalle.
«Come dici, tesoro?» chiese stridula la nonna, voltandosi verso di lui. Qualche altra testa si volse nella sua direzione. Avevano appena iniziato a vedere un film.
Il fumo le aveva lasciato un’impronta raspante e grigia nella voce, ora ghignava, scoprendo denti macchiati qua e là dalla nicotina, ma ancora tutti al loro posto.
Se ne stava abbandonata sulla poltrona del soggiorno, davanti al televisore che la inondava di colori innaturali, abbagliando le pareti come lampi allucinogeni in un club. Il suono invadeva la stanza, il volume alto gli martellava i timpani. Ripeteva spesso di non sentire più come una volta. Eppure l’udito di quella donna pareva funzionare selettivamente: sarebbe stata capace di fiutare qualsiasi tipo di affronto sussurrato a metri di distanza.
Suo fratello e le sue sorelle più piccole sedevano a terra, a gambe incrociate, sotto la televisione, con la schiena poggiata sulle gambe dei genitori e di Yasmine che, invece, occupavano la poltrona, sbocconcellando qualche popcorn.
«Che state guardando?» rimediò, pronto.
«La Cage aux folles» rispose la più anziana, tornando a prestare attenzione al film.
«Vieni» lo invitò il padre, battendo una mano sul posto fra lui e la sorella. Mika fece per rifiutare quando sentì nuovamente la risata della nonna unita a quelle dei suoi fratelli.
Sua madre lo guardava. «Dai» lo spronò, facendogli un cenno con il capo. Guardò di sfuggita lo schermo, dove comparivano parole in francese sull’insegna al neon di un locale. Quel titolo gli solleticò la mente, così li raggiunse, accomodandosi dove il padre gli aveva gentilmente indicato.
Si voltò per un secondo verso sua sorella che, accortasi del suo sguardo, si limitò a corrucciarsi, imprimendo al suo giovane volto una serietà che non si addiceva alla visione di quella leggera commedia. Era ancora arrabbiata con lui per prima. Mika sospirò, riconoscendo quanto avesse ragione.
Delle volte si sentiva patetico quando, senza neanche accorgersene, dava inizio a una di quelle sue scenate che si concludevano spesso con una battuta dal sapore decisamente tragico. Era una tendenza famigliare che in lui si esasperava all’inverosimile. Era semplicemente troppo ed era qualcosa che lo spingeva a distruggersi.
 

 
Ricordò un giorno in cui piangeva senza poter smettere e piangeva così forte da respirare a fatica e, piangendo, serrava fra le dita un desiderio aberrante perché aveva scorto un po’ di quella donna – di quel mostro – in sua madre.
Aveva immaginato di stringere con brutalità le mani attorno al collo vizzo di quella vecchia. Non si era posto domande: nulla era più giusto. Non aveva avuto la forza di inorridirsi di se stesso.
Aveva pianto le lacrime di mille notti e aveva sognato di non essere mai nato.

 
 
Era stato uno dei suoi giorni più bui. Lo rammentava avvolto nelle fiamme oniriche e nelle colonne brumose di un incubo.
«Il dito!» la voce dell’uomo in completo color panna lo destò dai suoi pensieri «Non tenere quel dito in aria così, è da zio secondo te?» fece all’uomo al suo fianco, intento a girare il tè con un cucchiaino.
«Si alza da solo» ribatté, incurante l’altro, scatenando qualche risatina. Le labbra del ragazzo s’incurvarono.
«Uno zio uomo si muove così? Eh sì, eh!» chiese, retorico, accennando ai suoi modi femminei. «Cominciamo a virilizzarlo un pochino questo zio, proviamo!»
La scena che seguì lo fece ridere di gusto, insieme al resto della sua famiglia. La risata di sua nonna lo stupì profondamente. Sul suo volto non poteva notare neanche una vena di disgusto o disprezzo.
«Ma questa è la sorella di John Wayne!» sospirò, rassegnato l’uomo di nome Baldi. Una nuova risata venne fuori dalle labbra dei presenti. Lasciando l’ombra di un sorriso sui loro volti che si affievolì al suono del “frocio” rivolto ad Albain.
Perfino l’espressione di sua nonna divenne più cupa, nonostante avesse visto più volte quella parola fuoriuscire dalla sua bocca, seppur non nei suoi confronti.
La prontezza dell’uomo in completo nel difendere il suo compagno gli riscaldò il cuore e espressioni colorate affiorarono sui volti di tutti i presenti. Mika le osservò, affascinato e felice, per qualche strano motivo.
 

 
Forse era l’impressione di non essere difettoso, come aveva creduto.
Forse l’idea che non ci fosse più giudizio.
Ché quei sentimenti li capivano tutti.
 

Un nuovo scroscio d’ilarità lo trascinò in una risata di pura gioia. Nulla aveva a che vedere con il film, quanto piuttosto con quella sensazione di essere compresi, giusti.
Si spogliò dell’armatura: non ne avrebbe usata altra che non fosse la sua pelle, neanche al cospetto di sua nonna.
Nacque per la seconda volta, nudo e vulnerabile, con una risata invece che un pianto, una scelta cosciente e la volontà di essere visibile. Accettarsi era stata la sua conquista in quei pochi secondi. Faceva mille passi verso se stesso e uno verso gli altri.
Non c’era modo di fingere oltre, di spegnersi ancora. Ma non poteva ancora avere il coraggio di rendersi del tutto vulnerabile, seppure autentico. Non aveva ancora la forza per parlarne, ma si promise che lo avrebbe fatto.
Si rivolse a sua nonna, alla sua famiglia, a se stesso.

 
 “Sono più di quello che sai.
Non mi vedi ora, ma mi vedrai.
Non sono invisibile”.






 
Note: Ciao a tutti!
Allora grazie di aver letto, recensito, messo fra le seguite e le preferite la storia. Grazie mille!
Ora, per me è stato davvero difficilie scrivere questo capitolo perché non sono riuscita a trovare informazioni chiare sulla nonna di Mika. Non che io volessi sapere la sua vita, ma mi chiedevo più che altro se si trattasse della nonna materna o paterna, dove abiti, generalmente. Dato che non ho trovato nulla, ho lasciato la storia in un ambientazione molto vaga, fin troppo forse. Fatemi sapere se vi è piaciuta. Inoltre ho dato per scontato che fosse quella materna, perchè davanti quest'ultima aveva detto di non baciare o toccare in qualche modo il compagno.
"Ti serve un solo superpotere" è una cosa che la madre realmente gli diceva. Mika lo disse in una delle interviste a Che tempo che fa. Ho immaginato che fosse diventato quasi un motto.
De Il vizietto parlò in Casamika, ma anche nella press conference di cui vi metto il link per chi volesse vederla. L'ispirazione per il capitolo si trova al minuto 27:20 circa. Ecco il link: https://www.youtube.com/watch?v=3uUWJ8qITS0

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se non sono troppo convinta del risultato e se si sia capito il senso... Ho parecchi dubbi, ma vabbè :)
Ci si legge, alla prossima!
Bacioni :*


P.S. Le ultime tre frasi e il titolo sono riprese da una canzone degli U2 che stavo ascoltando e ho pensato ci stesse troppo ;)

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Capitolo 5
*** Make you happy ***


Make you happy

 

Se ne stava all’uscio della porta come un cane abbandonato, un rifiuto.
 
Ma era stato lui ad abbandonarlo.
 
Il sole primaverile di Londra che penetrava dalle finestre gli ricordava quanto tempo fosse passato. Quanti mesi avesse vissuto lontano da casa, da Andy.
Non riusciva a ricordare come quel nome scivolasse fuori dalle sue labbra, come danzasse sulla sua lingua, eppure aveva popolato ogni suo pensiero, ogni suo sogno o incubo, ogni sua canzone. Era l’unico abitante della sua musica.
Il coraggio di partire e lasciarsi tutto alle spalle lo aveva perso una volta atterrato a Montreal. Come se solo il gesto di fuggire fosse stato il suo reale intento: non era scappato, si era solo cercato in qualcun altro. Lontano e senza meta vera, solo un’anima da riconquistare.
Aveva trovato ad attenderlo i suoi più grandi incubi: la solitudine e l’assenza. Quando restava solo, i suoi pensieri lo pugnalavano, cadeva in turbini neri da cui era difficile uscire intatto. Quell’assenza si presentava a lui come una compagna velenosa; Andy era lì, non lo lasciava mai davvero solo. Questo lo aveva salvato. Era assurdo come solo il ricordo di un amore, di una fiamma ancora viva avesse potuto donargli tanta forza.
Della sua presenza era stato assuefatto per anni, così in quei giorni di solo ricordo, come un cocainomane privato della sua droga, si era sentito morire di un’atroce astinenza. Sopravviveva di piccole dosi, ma non bastavano a disintossicarlo: ne era affamato. Tanto da avvertire fitte allo stomaco e tremiti fantasma.
Ora la sua droga era lì, oltre quella porta, ma il coraggio lo aveva perso oltreoceano e gli occhi gli ardevano di colpa. Voleva vederlo, annegare di nuovo in quei suoi occhi d’oceano, voleva sentire la sua voce calda come un tè davanti al fuoco, desiderava con tutto se stesso poter avvertire nuovamente quella sua fragranza di scogli marini, l’odore della sua pelle, candida come sabbia di spiagge greche. Avrebbe voluto sfiorarla almeno con un dito, affondare poi le mani nei suoi capelli biondi.
Ma non ci sarebbe stato nulla di questo. Ci sarebbero state urla e addii.
Volle crederci per un secondo, credere che tutto sarebbe tornato al suo posto. Che era stato via solo qualche giorno e tutto era stato un sogno. Solo per questo, dopo interminabili minuti, ebbe la forza di bussare.
«Chi è?» sentì quella carezza ovattata e quasi le corse incontro. Si avvicinò alla porta posando una guancia sul legno freddo, gli occhi che si riempivano di lacrime, la voce scomparsa assieme al respiro. Avvertì qualche rumore oltre l’ingresso e immaginò che Andy stesse guardando dallo spioncino, ma lui non vi era visibile da quella posizione.
Il ragazzo biondo sbuffò, forse convinto di essersi sbagliato. Mika soffiò una risata leggera come il volo di una farfalla ferita e pianse in silenzio, ascoltando i passi dell’uomo che non aveva mai smesso di amare allontanarsi da lui.
Doveva aspettarselo però, Andy aveva sempre avuto la capacità di avvertire l’energia altrui. Era una di quelle magie che possedeva come un umile segreto. Si svelava solo con il tempo e, se sapevi dargliene lo spazio, ti abbagliava e ti lasciava cieco a brancolare nel buio, guidato solo dal suo respiro.
Mika non sapeva descrivere in modo più calzante la sua personalità, ma forse è sufficiente dire che tornò lentamente indietro, silenzioso quasi quanto le lacrime di Michael, e con voce più chiara e delicata sussurrò qualche parola, sulla porta. Come a soffiargliele nell’orecchio.
«C’è qualcuno?» mormorò e il pianto di Mika abbandonò il suo silenzio, sputò il suo respiro a scatti. «Chi sei?» la voce di Andy pareva diventare sempre più carezzevole, un filo appena giungeva oltre lo spessore della porta, ma bastava ad avvertirne il tepore, come se il suo fiato l’avesse raggiunto sul collo. Rabbrividì e si coprì il volto con le mani per la vergogna.
 
Come poteva ripresentarsi a casa sua senza neanche il coraggio di palesarsi per piangere sulla sua porta?
Con quale diritto poteva anche solo sperare che Andy lo avrebbe consolato.
 
 
«Sto per aprire la porta» lo ammonì Andy, un po’ di preoccupazione macchiava la sua voce mentre il suono della maniglia abbassata raggiungeva le orecchie di Mika. Ne fu come risvegliato. Raggiunse la sua voce, lì dove si era confinata, e ebbe l’impressione di parlare per la prima volta.
«No, ti prego» lo implorò, sentì un respiro trattenuto oltre quella barriera «Scusa». La parola si ruppe nel mezzo e lui credette di rompersi assieme a lei. Si scusava perché piangeva sulla sua porta, ma in qualche modo anche per quei mesi lontano da lui.
«Che ci fai qui?» ogni sfumatura di preoccupazione era scivolata via e c’era solo durezza. Nonostante il tono così basso da non poterlo quasi udire.
«Scusa» ripeté più forte, con più decisione e più dolore.
Andy sospirò.
«Vattene…» fu tentato di aggiungere il suo nome, ma non ne ebbe la forza e lasciò la frase sensibilmente troncata. Mika se ne accorse e si morse un labbro.
Tremava: sentiva freddo dentro. La sua voce lo feriva, ma non era abbastanza, ne voleva ancora di lui. Voleva anche i suoi occhi a trafiggerlo. «Non posso» mormorò roco.
«Io non ho niente da dirti» rispose atono e si allontanò senza più tornare indietro.
Le lacrime che parevano non dargli tregua, si sedette a terra, la schiena contro il legno dove aveva abbandonato anche la testa, il volto verso il soffitto. Lo sguardo perso a rincorrere quei mille scalini, ringraziò il Dio che gli aveva fatto trovare il portone del condominio aperto e gli aveva permesso di sentire la voce di Andy pura, anche più bella di quanto la ricordasse.
Era accasciato sullo zerbino con ferite aperte negli occhi e parole prigioniere delle sue labbra. Si trovò a pensare che avrebbe preferito squarciarsi totalmente gli occhi e poterlo toccare anche solo con lo sguardo. Quando le lacrime divennero troppe, si limitò a sognarlo in un sonno bagnato e allucinogeno.
Si svegliò quando sentì la porta muoversi dietro di lui. Il sole primaverile era quasi scomparso, ne restava una tenue traccia, ma le ombre improvvisamente erano più lunghe. Mika ebbe paura che potessero raggiungerlo e inchiodarlo nel buio.
«Come immaginavo» alzò lo sguardo al suono della sua voce rassegnata e si lasciò morire nello sguardo freddo di Andreas. «Torna a casa, è tardi» ordinò, uscendo con in mano una busta dell’immondizia.
Mika non aveva abbastanza forza nelle gambe per seguirlo mentre scendeva le scale. Si limitò a farlo con uno sguardo ormai arido. Quando il biondo ricomparve sul pianerottolo e lo vide ancora lì, gli lasciò uno sguardo impaziente e fece per rientrare, poi si fermò.
«Sarò chiaro con te» annunciò severo «Mi fa piacere che tu sappia di esserti comportato da stronzo, ma non credo che tu possa pretendere di essere perdonato. Non lo farò, punto»
Le labbra di Mika tremarono, quasi lasciarono fuggire qualche parola. Ciò che faceva più male era quel punto finale.
«Spero vivamente che tu ti senta una merda» aggiunse, la voce improvvisamente carica di rancore «Sei venuto a chiedermi scusa piangendo per sentirti in pace con te stesso?»
Mika scosse il capo violentemente, sconvolto dalle conclusioni cui era giunto.
«Be’, non ti scuso proprio un cazzo!» riprese, arrabbiato «Meriti di sentirti in colpa…».
«Non è per questo, ti dico!» lo interruppe, cercando di schiarirsi la voce rasposa. Aveva ancora sulle guance i segni delle lacrime, ma ora il suo viso era asciutto. «Sono qui perché…»
«Perché?» lo incalzò, innervosito Andy.
«Non voglio buttare tutto quello che abbiamo costruito insieme» sospirò Mika, alzandosi in piedi a fatica.
«L’hai già fatto» ribatté lui «Devi andare avanti con la tua vita, io sto cercando di fare lo stesso».
Mika pensò a quante volte avesse provato a dimenticarlo e scosse la testa. Non era servito a nulla.
«So di non meritare una seconda possibilità, ma se credi ancora in noi, in quello che ci lega…» iniziò Mika, mettendosi più dritto.
«Non c’è niente più a legarci, non c’è nessun noi» scattò lui, il tono nonostante tutto moderato «Tu l’hai distrutto»
Mika capì che voleva ferirlo dal modo in cui osservava la sua reazione, ma non per questo nelle sue parole si nascondeva meno dolore e verità.
«I sentimenti» mormorò l’altro «Quelli non si possono distruggere»
«Ma possono cambiare» ribatté, freddo. Il gelo raggiunse il cuore di Mika e vi si annidò, lasciandogli un’impronta sul viso. Notò che Andy la colse e i suoi occhi d’oceano sgusciarono via dai propri.
Ci fu un silenzio interminabile, irreale. Andy non lo guardava. D’improvviso avvertì Melachi abbaiare dentro l’appartamento, la porta semiaperta lasciò sgusciare fuori il cane e Andy non la trattenne quando si avvicinò a Mika, festante.
Non era il momento adatto, forse, ma la cagnolina gli era mancata davvero tanto. Si accucciò ad accoglierla fra le sue braccia e le accarezzò il pelo caramellato, morbido. Melachi le leccò la guancia e il collo, facendogli scivolare dalle labbra una lieve risata. Un po’ affettuosa, un po’ amara. «Mi sei mancata» soffiò alla golden, coccolandola e ricevendo la coda dell’animale in piena faccia; si muoveva frenetica, tanto era felice di ritrovare il suo padrone dopo tutto quel tempo.
Poi la realtà scoppiò quella bolla di pura gioia. Senza neanche un motivo, entrò in quell’istante e lo macchiò un poco di consapevolezza. Mika si alzò, triste di non poterla tenere ancora stretta a sé, scorgendo come una luce improvvisa un lieve sorriso sulle labbra di Andy. Sparì così veloce che Mika si convinse di averlo solo immaginato.
Il biondo richiamò Melachi che ancora scorrazzava fra loro, la fece rientrare in casa, chiudendo la porta abbastanza perché lei non potesse uscire ancora.
Mika si sentiva stanco, privo di forze. Sorrise appena a Andy, un sorriso coperto di parole. Il volto del greco era serio, ma le lesse tutte.
«Addio» disse e aprì la porta per rientrare nel suo appartamento.
«Combatterò per te» proferì Mika, guardandolo dritto negli occhi, quasi stesse dando voce a una promessa. Prima ancora che la sorpresa si facesse strada sul volto di Andy, il ricciolo era andato via. Lo aveva oltrepassato con passo deciso e occhi luminosi come fari.
Andreas riconosceva quello sguardo, era lo sguardo di un obbiettivo e, solo per quell’istante, si permise di considerarsi vinto, esitando ancora un po’ sull’uscio solo per respirare un’ultima volta il profumo che il ragazzo si era lasciato dietro.
 
****
 
Fece ritorno a casa, la loro casa, piena dei loro ricordi, ovunque si voltasse la sua impronta era visibile. Gettò un urlo di frustrazione e quello fu l’ultimo suono che si propagò nella casa per molto tempo.
Passò i giorni seguenti a pulire ogni angolo della villetta, nel silenzio più assoluto si aggirava nei corridoi vuoti, cercando persino di muovere i mobili senza produrre rumore, perché nulla disturbasse il macchinare dei suoi pensieri. Non gettò nulla, neanche uno di quei piccoli ricordi di lui, spine di rose disseminate ovunque.
 
Si sarebbe odiato se l’avesse fatto. D’altronde ogni cosa sapeva di lui in un modo che non era nemmeno possibile, ma che lo toccava nel profondo.
Qualunque cosa sfiorasse, lo faceva sanguinare.
 
S’imbatté, fra mille di quelle memorie delicate, in una più fragile delle altre: un segreto.
Era una rubrica verde bosco cui non aveva fatto mai veramente caso, se n’era stata chiusa nel cassetto del comodino a nascondere riflessioni buie, parole prive di vita. Non c’erano scritti numeri di telefono in quelle pagine, ma costellazioni di poesie.
Erano solo frasi gettate di tanto in tanto sui fogli, senza seguire le linee, con colori spesso diversi, ma parevano scritte da un qualche poeta ermetico. Parlavano di lui, parlavano con lui.
 
“Maybe you can’t hear me,
But I feel like screaming when you’re near me”
 
 
Capì immediatamente quando quelle parole erano state pensate e riversate sul foglio. Avevano smesso di parlare e qualcosa era cambiato. Mika era diventato tossico per chiunque gli fosse vicino.
Voltò pagine su pagine, sporche o candide. Poi un’altra frase lo colpì.
 
“If I said I’m upbeat, I’d be lying,
Show me what your hiding”
 
Non seppe cosa lo aveva spinto a scrivere quella manciata di frasi in rima, proprio quando lui ne aveva persa la capacità.
Proprio Andy che sempre aveva preferito esprimersi con i gesti piuttosto che con le parole, che si diceva incapace di usarle nel modo più giusto. Una volta Andreas gli aveva confessato di ritenere ci fosse qualcosa nei sentimenti che, se taciuti, li rendeva più potenti.
Era una rivelazione che aveva amato e amava profondamente, ma non poteva restare indifferente di fronte alla bellezza che stava leggendo.
Ne trovò un’altra subito sotto uno squarcio di penna nera. La pagina si era aperta e l’inchiostro aveva marchiato anche quella sottostante.
 
Can’t you see the love around you?
You know, you’re stupid not to notice it”
 
Quella frase era intrisa di rabbia e di amore a un tempo. Aveva lasciato un solco con la punta della penna, più profondo del dovuto. Mika riuscì ad avvertire tutto il peso di quei giorni in cui si era convinto di vivere una vita che non fosse sua. I litigi, la sua indifferenza, quella sua stupida voglia di fuggire.
Erano frasi di una semplicità disarmante, racchiudevano in esse una comprensione perfetta di ciò che stava provando negli ultimi giorni. Erano frasi che Andy avrebbe tranquillamente potuto rivolgergli quando gli erano balenate in mente, non fosse per la paura di essere inghiottito dal grigiore in cui Mika stesso era caduto.
Capì solo in quel momento che aveva cominciato a minare il loro rapporto da prima della sua fuga a Montreal, quando non parlava, si allontanava e fingeva malessere, lo incolpava di quella monotonia e gli chiudeva a chiave ogni porta.
Sorrise amaramente. Lasciando vagare i suoi occhi nocciola sulla frase seguente.
 
«All I wanna do is make you happy» lesse a voce alta, poi ancora e ancora e ancora.
 
Una melodia si fece largo fra i suoi pensieri e in poche falcate raggiunse il piano, cominciando a pigiare i tasti con dolcezza e rapidità.
Fu tutto estremamente naturale. Le frasi di Andy si incastrarono alla perfezione nelle sue e aveva chiaro in mente ciò che voleva dire. Lo scrisse con tanta furia da farsi dolere la mano.
 
“All I wanna do is make you happy
Whatchya gonna do? I am not over you”.






 
Note: Ok, lo so, avevo detto che avrei postato il momento fra Mika e la madre proposto da SaraPenny che ringrazio molto perché mi ha ispirato e mi lascia a ogni capitolo una recensione molto bella <3 però mentre lo stavo scrivendo, mi è venuto in mente questo. Spero che dalla lettura si sia capito più o meno il momento in cui è ambientato, dovrebbe essere chiaro, spero di essere stata comprensibile :) 
Qui c'è tanta fantasia, davvero poco di ripreso dalla realtà dei fatti: l'unica cosa che mi ha fatto immaginare l'origine di Make you happy in questo modo è che so che quando rilasciò la canzone disse che non si trattava del primo singolo, ma solo di una canzone che amava e a cui teneva molto. Non so perché, ma questo ne è il risultato. Spero vi sia piaciuto!
Grazie di aver letto, a tutti quelli che hanno messo la storia fra le preferite e seguite <3 Grazie mille a chi recensisce e mi farebbe tanto piacere che anche tu, sì, tu che leggi, lasciassi un piccolo commento, se ti va :)
Grazie ancora e bacioni! :*


ps. Il prossimo capitolo sarà basato sul suggerimento di SaraPenny, il capitolo è quasi terminato in realtà, forse potrò pubblicarlo già questo finesettimana!

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Capitolo 6
*** She's ashamed of me ***


She's ashamed of me


 
Mika, la fronte contro il finestrino, occupava il posto del passeggero, guardando il paesaggio urbano sfuggirgli dalle palpebre; lo inseguiva come fosse attratto da ogni sua increspatura: una pozzanghera di cielo, un cane corvino, una ringhiera sbiadita, una donna che corre, una bicicletta arrugginita.
Sospirò, provando a gettare via un po’ di quell’astio che lo aveva riempito. Sentiva di dover piangere. La madre, ignara del suo rancore, guidava in silenzio affianco a lui.
Come al solito, lo aveva costretto a cantare di fronte agli invitati e lui non aveva potuto rifiutarsi in alcun modo. Avevano applaudito e sua madre lo aveva seguito con quel suo consueto sguardo preoccupato quando aveva preso la parola.
Gli aleggiava ancora in mente quella sensazione di malessere, di essere fuori posto, sbagliato.
«Hai cantato bene, oggi, Miriam ti ha fatto anche i complimenti!» esordì poi la donna, felice «Dovresti essere più coraggioso».
La sensazione si acuì, fu troppa da contenere.
«Dovrei?» sbottò, acido «Strano…»
«Qualche problema?» si allertò Joannie, turbata dal suo tono accusatorio.
«No, continua pure a dirmi come dovrei essere»
«Era solo un consiglio»
«Non li voglio i tuoi consigli! Non te li ho chiesti!»
«Ah?» sbottò sua madre, arrabbiata. «Io lo faccio per te! Non è certo per me che-»
«Ti ho detto che non mi servono, ok?» urlò interrompendola. «Ma a te non basta. Sarà che forse servono a te?»
«Ma che dici?» strillò anche lei
«Non sono come volevi, fattene una ragione»
«Sei impazzito?» la donna lo fulminò, furibonda. «Stai dicendo un sacco di cavolate!»
«A te interessa solo di avere un figlio trofeo» gridò Mika, gli occhi che si riempivano di lacrime «da poter mostrare a tutti, ma io non vado bene per questo, ti creo solo imbarazzo, mh?» incalzò, fissandola mentre parcheggiava.
«Non è vero» rise lei, nervosa, una volta spenta la macchina «Lavori alla Royal Opera House, già solo con questo potrei vanta-»
«Be’ l’importante è che stia zitto davanti a amici e parenti» bofonchiò, la vista offuscata mentre usciva dalla macchina, sbattendo lo sportello con violenza.
«Mika!» lo rimproverò lei. A quel suono scoppiò in un pianto violento, si nascose il viso fra le mani mentre avanzava nell’edificio e lasciò che il respiro gli si spezzasse.
 Mika si rifugiò dentro quella stretta stanza che gli faceva da camerino. Sua madre lo seguiva a distanza di una manciata di passi. Quando fu dentro, gettò la giacca in un angolo, cominciò a sbottonarsi la camicia con rabbia. I singhiozzi che lo rallentavano nei movimenti.
Erano in ritardo, come sempre. Il suono intermittente dei tacchi di sua madre gli ricordò che ci avrebbe messo anche più tempo.
Non voleva affrontarla, non in quel momento, sentiva che avrebbe potuto dire cose che neanche davvero credeva, ma ne aveva un bisogno viscerale, come a voler soddisfare una sete crudele che le sue lacrime non potevano sopire.

 
 
****

 
 
Le parole gli scorrevano sul volto e lui non sapeva pronunciarle.
Gli occhi di sua madre erano così aridi da graffiargli il viso. Neppure cercavano di raccogliere le frasi che inondavano, inascoltate, le guance di suo figlio.
Non c’era altro da aggiungere: tutto era già stato urlato, nulla era stato detto. Non scelsero il silenzio che presto li avvolse. Venne indisturbato a serpeggiare fra loro come un torrente irruento.
Il chiacchiericcio di fuori era un suono opaco, lo scalpiccio di passi pareva invece appannato. I singhiozzi di Michael li sovrastavano senza difficoltà.
«Basta piangere, Mika» la voce di sua madre si caricò di dolcezza, pur rimanendo autoritaria.
Mika la guardò con rabbia, rapito da singulti sempre più vicini. Qualcuno bussò alla porta della stanza e, attraverso il legno, ricordò ad entrambi che di lì a cinque minuti sarebbero iniziate le prove per lo spettacolo.
Poi udirono i passi dell’uomo allontanarsi.
«Non… posso… non… ce la poss… posso fare» proferì, strappando ogni parola con forza dai propri polmoni, divenuti della grandezza di due biglie. Anche lui si era fatto piccolo, ancor più di quei dodici anni che possedeva, e se ne stava con la schiena appoggiata al muro e lo sguardo puntato al pavimento.
«No, tu adesso vai a fare il tuo lavoro» il volto di Joannie divenne duro «Per questo vieni pagato».
«Non riesco nea… neanche a parla-» il pianto gli esplose ancor più feroce nella gola con un acuto soffocato e non seppe trattenere altre urla: «Come faccio a cantare?»
Il muco gli era giunto al mento, le lacrime gli avevano infuocato le guance, gli occhi erano arrossati e sfuggevoli.
Joannie gli diede le spalle e raggiunse il lato opposto della stanza, cercò qualcosa nella sua borsa e si avvicinò nuovamente a lui con in mano un pacchetto di fazzoletti. Ne prese uno e si abbassò su di lui per pulirgli il viso, con cura e amore. Il suo sguardo castano rimase severo anche di fronte alle sue lacrime che non accennavano a fermarsi.
Mika la lasciò fare per qualche secondo, spossato, poi si ritrasse e sfuggì alle mani di sua madre, quasi nauseato. Nessuna delle parole che Joannie gli aveva gettato contro era riuscita a strappargli la convinzione che lei si vergognasse di lui. Come parlava, ciò che diceva, la difficoltà con cui leggeva la mettevano in profondo imbarazzo, lo coglieva da quei suoi sguardi rapidi, intensi. Glieli lanciava a mo’ di ammonimento quando si trovava a dire una qualsiasi parola di fronte a estranei, amici, persino dinnanzi alla famiglia libanese.
«Smettila Mika» ordinò la donna, arrabbiata.
«Me ne vado» urlò lui in risposta, cominciando ad avanzare verso la porta del camerino e raggiungendola in poche falcate «Non posso cantare!»
Pareva che urlando le parole lasciassero le sue labbra con maggiore semplicità, come fosse l’unico modo possibile per abbandonarle.
«Mika!» sua madre gli si avvicinò prima che potesse uscire dalla stanza e lo prese dalle spalle. «Smettila di fare il bambino!»
«Sono un bambino!» gridò lui, scosso dai singhiozzi.
«Ma hai della responsabilità: questo è il tuo lavoro!» ribatté lei «Quante volte dovrò ripeterlo?»
Mika si divincolò, cercando di allontanarsi da lei.
La donna rafforzò la presa sulle sue spalle e avvicinò il viso a quello di suo figlio, strattonandolo.
«La tua vita personale» soffiò improvvisamente calma «deve rimanere fuori dal palco».
Non era più sua madre. Joannie lo guardava con uno sguardo serio e fermo, non c’era traccia di astio o d’amore in quei suoi occhi scuri. Riuscirono a tranquillizzarlo un poco.

 
Divenne grande in un tempo brevissimo, un istante di quello sguardo di carbone.
 
 
Accolse in un palmo il fazzoletto che Joannie gli aveva teso, quasi a sancire una tregua dalla loro realtà di madre e figlio. Il respiro si andava calmando e i singhiozzi lo abbandonarono poco alla volta. Le lacrime restarono ancora un po’ prima di dargli il loro addio, mentre lui ne tamponava i segni con la carta.
Si lavò il viso e tentò di riparare i suoi occhi rotti con le dita indolenzite, strofinandoli appena. Si allontanò per le prove, accompagnato da uno sguardo ancora troppo arrabbiato per parlare.
Le parole erano troppo pregne di astio per poter cadere oltre la sua mente, stipata di tutte le parole di suo figlio.

 
Un figlio non vede una persona quando immerge lo sguardo in quello di un genitore.
 

Forse per questo crede che ogni frase sia lecita, che comunque vada non c’è modo di ferire chi ti ama spontaneamente. Invece Joannie era lì con le labbra strette a ricucire qualche taglio.
Se ne avesse avuta la capacità, avrebbe dato voce ad ogni suo pensiero. Ma come? Come poteva dirgli che ognuno di quei suoi sguardi non contenevano nessuna vergogna, ma solo paura e preoccupazione.
 

 
Quell’anima così vulnerabile, voleva proteggerla dentro allo sguardo.
Vigilarla e racchiuderla nel caldo abbraccio dei suoi occhi.
Perché la fragilità costa cara a chi non ha un posto nel mondo e lei aveva tentato di avvicinarlo al suo.

 
 
Neanche per un solo secondo poteva vagliare la possibilità che Mika ricadesse in quella non-esistenza, quel mutismo doloroso che lo aveva accompagnato per mesi nella sua infanzia. Voleva tenerlo ancorato a quel suo posto nel mondo, sapeva che era quello giusto con la sicurezza di una madre che aveva saputo guardare dentro il proprio figlio.
 
Con la musica l’anima di Mika si riempiva di colori e questo era sufficiente.
I colori parlano.







 
Note: Ciao! Ecco il nuovo capitolo, basato sul suggerimento di SaraPenny, grazie ancora!
L'ispirazione viene da un'intervista in cui Mika a questa domanda: "
Che immagine ha di sua madre nei suoi ricordi?" Rispose questo: 
"Un giorno, all’inizio della mia carriera, quando ancora lavoravo alla Royal Opera House di Londra ho litigato con lei e io piangevo al punto da non poter cantare alle prove. Lei mi ha preso da parte, mi ha dato una pacca alle spalle e mi ha strattonato: «La tua vita personale», mi ha detto, «deve rimanere fuori dal palco». Non era un consiglio da madre, ma una dritta professionale. Le ho dato ascolto e dopo la performance abbiamo ripreso a urlare come prima."
Nonostante fossi molto ispirata ci ho messo un po' a pubblicare perché è un capitolo piuttosto corto, rispetto agli altri :/ Questo in realtà perché aveva scritto di più del loro litigio, ma mi sono arresa al fatto che non fossi poi così capace di scriverlo: le discussioni mi piacciono, i litigi sono solo urla sopra urla, impossibili da descrivere in modo accurato per quanto mi riguarda.
Dunque ho cercato di far trasparire ogni cosa in modo indiretto, non con il dialogo diretto. Questo però ovviamente ha accorciato il capitolo.
Sulle motivazioni del litigio mi sono guardata un po' alle spalle, a quello che giusto qualche anno fa faceva arrabbiare me e ho provato a cambiare prospettiva: devo ammettere che è stato quasi terapeutico ahahah 
Nella parte finale ho provato a mettermi nei panni di Joannie, non so quanto mi sia riuscito :')
Spero vi sia piaciuto!
Fatemi sapere con una piccola recensione e bacioni :*
Alla prossima!


piccolo spoiler: sono indecisa fra due momenti, tutti e due mikandy ma diametralmente diversi: uno fluff e uno angst puro... sarà l'ispirazione a decidere!
 

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Capitolo 7
*** Hold me carefully ***


Hold me carefully




Delle volte gli capitava di sentirsi pieno della sua stessa vita. Muoveva le dita, avvertendo tirare la pelle, come fossero d’un cadavere gonfio d’acqua, affogato in un mare di ricordi sopiti. In quei momenti c’era quella lettera muta che gli incideva domande sul petto, mille tagli di carta gli impreziosivano la pelle e lui vi si dissanguava senza resistenze.
Era una giornata rumorosa di novembre, il vento urlava in tutte le lingue che avesse mai udito e si era portato dietro un’ombra di tempi passati che lo aveva colto, proprio come si coglie un fiore di prato, strappandolo dalla vita.
Poco alla volta Andy lo aveva visto appassire e ringhiare inutilmente contro le sbarre della sua prigione, non osando entrare nella sua guerra interiore.
Andy non si era sorpreso quando aveva sentito la sua sconfitta aleggiare per casa e neppure quando l’aveva visto cercare di raccoglierla e di nasconderla nel suo bagaglio con una rara vergogna nello sguardo. Mika aveva trascinato quel suo fardello fuori di casa e aveva sbattuto la porta per unirsi al coro del vento, donandosi a lui con tutto il corpo, come potesse inghiottire per sempre quella sua valigia invisibile.
Andy non lo aveva seguito né cercato di contattarlo. Aveva compreso che stesse cercando di difenderlo. Sapeva già dove si sarebbe rifugiato: nel posto in cui erano nati i suoi sogni.
 

 
Vi andava per ricordarsi di non poter smettere di sognare.
Lì ne seminava altri e li lasciava crescere come ciliegi.
 

Kensington gardens.
Quando mise piede in quella casa fu colpito dalla certezza che vi erano sempre piovute foglie ocra e arancio. Quella pioggia lo investiva con la forza di una tempesta autunnale che presto gli fece tremare le labbra e sbattere i denti: aveva un’eco del vento anche dentro le ossa.
Si sedette sul suo letto che aveva coperte di foglie secche o di fili d’erba verde o bianca per un lenzuolo di brina. In altri giorni avrebbe potuto percepire il calore di quel luogo del cuore, ma ora vi sentiva freddo.

 
La bufera infuriava dentro e fuori.
Eppure tutto era pervaso d’una quiete onirica: il tempo era immobile, le foglie erano sospese a mezz’aria, le chiome degli alberi accarezzavano il cielo e l’urlo del vento era un debole sussurro.
 

Chiuse gli occhi e rimase immerso in pensieri troppo caotici per poter essere afferrati. Una bambola di ceramica abbandonata ai piedi di una quercia secolare, immobile e accartocciata su se stessa per un tempo che parve interminabile, tanto che quasi poteva percepire il muschio nascere nelle crepe della sua pelle di porcellana.
Un paio di braccia avvolsero il suo corpo, senza che le avesse udite giungere. Un petto si scontrò delicatamente con il suo, l’odore inconfondibile di Andy lo cullò in una mano tiepida, il suo volto s’affiancò al proprio, celando il respiro caldo fra i suoi ricci. I loro corpi s’incastrarono alla perfezione e, come guidate da un sentiero percorso già mille e mille volte, le braccia di Mika strinsero Andy a sé di rimando.
 
 
Si bruciava così.
Così Andy con un solo gesto aveva raccolto tutti i suoi frammenti.
 
 
Rabbrividì quando le mani del greco cominciarono a scorrere sulla sua pelle per raggiungergli il viso. Il biondo sciolse l’abbraccio per guardarlo con attenzione, le mani ad incorniciargli il volto stanco. Mika lo ringraziò in silenzio perché quegli occhi avevano il potere di calmarlo.
«Vieni» bisbigliò Andy, soffiandogli un po’ di respiro bollente sulle labbra ruvide. Come colpite da un incanto, quelle si schiusero appena in un sorriso debole, mentre Andy gli tendeva una mano per aiutarlo a mettersi in piedi.
«Scusa» mormorò, sgusciando via da quegli occhi d’oceano.
«Non devi scusarti» pronunciò il biondo e tirò a sé il riccio per potergli camminare accanto.
 
 
****
 
 
«Te l’ha detto mia madre, vero?» dopo ore di silenzio, quelle furono le prime parole ad abbandonare le labbra di Mika. Se ne stava raggomitolato sul divano, avvolto nell’abbraccio di Andy. Fra le dita una tazza di tisana bollente dentro la quale lasciava vagare lo sguardo.
«No, non mi ha detto niente» rispose con leggerezza, scostandogli un riccio dalla fronte.
«Davvero?» domandò, sorpreso e avvertì Andy annuire dietro di lui, nonostante non potesse vederlo.
«Non ho voluto che me lo dicesse: ho pensato che fosse tuo e non volevo invadere la tua intimità» spiegò e, senza pronunciarlo, si disse che la condivisione di qualcosa di intimo non poteva affidarla alle parole di sua madre, in ogni caso.
«Che ti ha detto, allora?» chiese, curioso, sorridendo alle parole del compagno e muovendosi un po’ sul posto.
«Che avete litigato per una lettera di molti anni fa che avevi deciso assieme a lei di non leggere mai, ma ogni paio d’anni gliela chiedi»
«Lei si rifiuta di darmela e finiamo a litigare» concluse Mika, sospirando poi portò alle labbra la tazza e bevve un sorso di tisana. «Sì, è di una vecchia insegnante di scuola» disse, sistemandosi meglio sul suo petto.
Andy si limitò a posare la punta del naso sul collo dell’altro in un gesto spontaneo, guidato dal profumo che si annidava sopra la sua clavicola. Sentì Mika ridere e scostarsi un po’.
«Dai, non fare così che mi deconcentri!» lo rimproverò, ridendo. Andy si unì a lui e lo riavvicinò a sé.
«Tu non esporre il collo, allora» gli fece notare lui, sogghignando.
«Touché!» ribatté Mika nel suo perfetto accento francese. «Ero in un lycée qui a Londra, forse te ne ho già parlato» riprese a raccontare come non si fossero mai interrotti.
«Un po’, sì»
«Be’, c’era questa insegnante che trovava divertente prendersi gioco di me e di un’altra bambina… avremo avuto, non so, otto anni» Mika avvertì il corpo del compagno irrigidirsi.
«Prendersi gioco?» ripeté lentamente, sperando di non aver capito.
«Sì, inventava delle filastrocche su di noi piene di insulti e le faceva recitare alla classe, ci faceva restare ore in piedi sopra la sedia senza poter parlare o andare in bagno»
«Senza andare..?» iniziò con un filo di voce, ma non seppe terminare.
«Se dovevamo fare pipì, eravamo costretti a farcela addosso, sulla sedia» lo disse con una punta d’astio e la voce trasparente, ma per la prima volta mentre raccontava di questi episodi i suoi occhi non divennero lucidi. Ne comprese immediatamente il motivo: il petto di Andy accoglieva la sua schiena come una confortevole armatura. Riusciva a proteggerlo, a quietarlo.
Mika lo sentì tremare appena e continuò con il racconto: come ne fosse uscito, come la donna si fosse presentata ad un firmacopie del suo primo disco con questa lettera e lui non l’avesse riconosciuta, al contrario della madre che aveva preso la lettera e non gli aveva mai permesso di leggerla. Quando ebbe terminato, sentì che il tremito dietro di lui era aumentato. Si voltò, in cerca del suo sguardo.
«Senti freddo?» domandò, lievemente preoccupato.
Andy scosse la testa, tremava ancora e Mika si discostò un po’ da lui in modo da esaminarlo meglio: aveva gli occhi persi, inghiottiti da un’emozione vorace ed era scosso da lievi tremiti.
«Ti sto facendo paura» realizzò Andy d’un tratto, incatenando i loro occhi.
«No» scosse la testa, convinto, ma i suoi occhi scuri erano molto più sinceri. Andy ne colse le emozioni.
Il biondo sospirò, cercando di placare i brividi. «Mi dispiace» sussurrò appena e poco dopo aggiunse «Non voglio spaventarti».
Quelle parole furono capaci di mutare lo sguardo del moro. Posò la tazzina sul treppiedi di fronte il divano e gli avvicinò una mano alla guancia. «Non mi spaventi» disse, lasciandogli una carezza «Va tutto bene?».
«Come può una persona fare qualcosa di tanto… mostruoso?». Non avrebbe voluto dirlo, ma la domanda, che sapeva non avere risposta, era bloccata nella sua gola come un pugno di vetri rotti.
Mika fece un sorriso triste, alzando le spalle. «Non lo so» mormorò.
«Un insegnante, poi. A un bambino!» sputò le parole una ad una, frammenti di vetro affilati che gli avevano lacerato la bocca. Avvertiva il sapore rugginoso del sangue. Si alzò di scatto e cominciò a misurare a grandi falcate la stanza.
Si rendeva conto di non essere d’aiuto, che era sbagliato muovere la discussione su cosa lui stesso provasse, ma gli era avvenuta un’esplosione dentro e non riusciva ad ignorarla.
Tentò di racchiuderla dentro di sé e lasciarla morire inascoltata, ma il tremore non accennava a smettere. «Scusami, Mika» mormorò, fermandosi di colpo.
«Non devi scusarti» ribatté lui, usando le sue esatte parole di qualche ora prima. Sorrise e con gli occhi gli indicò il posto accanto al suo. Andy si sedette, sfinito e ancora colto da forti tremori.
«È solo… che mondo di merda…» affermò con forza nel tentativo di muovere la mascella serrata. Mika sorrise di un sorriso amaro e lo abbracciò stretto finché non avvertì il tremore diminuire. Andy era la persona più paziente che conoscesse: non lo aveva mai visto così pieno di rabbia.
«Va meglio?» gli chiese Mika dopo qualche secondo, soffiandogli la domanda direttamente nell’orecchio. Percepì che stava annuendo e sciolse l’abbraccio. A Andy parve di aver vissuto con lui altri dieci anni in quella breve ora, una vita in quell’abbraccio; tanto di lui si nascondeva in quei ricordi e ora che li conosceva, poteva sentirlo più vicino.
Il biondo rilasciò un respiro tremolante, gli occhi sfuggenti.
«Non dovresti essere tu a consolarmi» mormorò, quasi in imbarazzo. «Dovrei dire qualcosa di utile, ma… qualsiasi cosa possa dire sarà stupida e di troppo»
«Sì, forse hai ragione» acconsentì, dandogli nuovamente le spalle e sogghignando mentre riprendeva la posizione di qualche minuto prima. Recuperò la tazzina e inghiottì l’ultimo sorso di tisana ormai fresca, ascoltando la risata leggera di Andy fargli vibrare la schiena.
«Almeno mi dai ragione per una volta, questo giorno è da segnare sul calendario» dichiarò, divertito, mentre Mika rideva di gusto.
Passarono qualche secondo in silenzio, lasciando che l’eco delle loro risate svanisse.
Mika sospirò nel notare come i pensieri fossero tornati a nuotargli nella mente in ogni direzione. «A volte» iniziò, con voce roca e sottile a un tempo, «vorrei davvero sapere cosa ci sia scritto… delle altre, mi convinco che posso vivere anche senza saperlo, ma poi puntualmente ci ricado».
«Perché vuoi leggerla?»
«Non lo so, è come se ne avessi bisogno per chiudere un capitolo»
«Lo chiuderesti?» gli chiese. Andy sospettava che piuttosto avrebbe aperto vecchie ferite.
«Non lo so» sussurrò, flebile e quel suono così bianco sembrò illuminare la stanza «Vorrei solo capire…»
«Non c’è nulla da capire» ribatté Andy, duro, «Niente di quello che quella donna ha fatto può essere giustificato»
«Non giustificato, ma c’è un motivo e io vorrei…»
«Mika» lo interruppe l’altro, se il ricciolo avesse potuto vedere quel suo sguardo furioso probabilmente si sarebbe spaventato di nuovo «Non ti permetto di dire una cosa del genere: nessuno, per nessun motivo può meritare di essere trattato così».
Mika rimase in silenzio, ma i suoi pensieri quasi producevano rumori e fruscii; schioccavano come fruste. «È difficile lasciarsi alle spalle tutto se non posso conoscerne i perché» soffiò poi come un’ombra tiepida che si aggirò nel salotto.
Fu il turno di Andy di tacere e custodire quell’assenza di suoni. V’erano solo i loro respiri lenti a riempire quel loro piccolo spazio di vita. Ed erano la colonna sonora di un attimo infinitamente prezioso.
«Cos’ho che non va?» fu talmente flebile quella domanda che Andy si convinse l’avesse pronunciata direttamente il cuore del suo compagno, senza poter contemplare il consueto filtro delle parole. Mika si strinse a lui, facendo aderire i loro busti, celandosi ancora nel suo abbraccio. Ringraziò infinite volte la loro posizione perché, nonostante tutto, non sarebbe stato in grado di reggere il suo sguardo. E medesimo fu il gesto di Andy perché mai avrebbe voluto che Mika scorgesse nei suoi occhi il luccichio delle lacrime. «Perché proprio me?» continuò, ripescando quegli interrogativi dal mare che gli infuriava dentro.
«Non c’è niente che non va in te. Niente.
Io mi chiedo cosa non vada in quella donna, piuttosto» disse, con voce leggera. «Non ti rendi conto di come riesca a condizionarti anche adesso con questa lettera? Vuoi davvero dargliela vinta?» aggiunse poi, alzando appena la voce.
«Forse…»
«Questa persona dovresti gettarla via dalla tua vita eppure in qualche modo continua ad essere presente»
«Solo leggendola potrò gettarmi alle spalle tutto» affermò e si girò per guardarlo in volto. Scoprì un sentiero sulla sua guancia generato da una lacrima solitaria che ancora si ostinava a sostare sulla sua mandibola. Ne fu talmente sorpreso da dimenticare ogni parola che aveva voluto rivolgergli. Andy scuoteva il capo.
«No, credo che aprirebbe solo vecchie ferite» lo disse, decise di aprirgli completamente i suoi pensieri così come lui aveva fatto con i suoi ricordi più dolorosi. I loro occhi si scontravano come eserciti in un campo di battaglia.
«Devo leggerla» decise, sicuro. Andy sospirò e sorrise.
«Chiamerò tua madre per cercare di convincerla» gli promise, portando via con una mano quel residuo di debolezza che gli solleticava il volto e alzandosi. Non lo fece per vergogna: fu come voltare una pagina.
«Perché?»
«Perché è quello che vuoi e io voglio che tu sia felice» rispose, voltandogli le spalle e lasciandolo solo sul divano. Mika sentì improvvisamente freddo senza il corpo di Andy vicino al suo, ma quel suo momento di solitudine lo gettò in una riflessione molto pacifica. Non combatteva più contro i suoi pensieri, ma in qualche modo riusciva a dare loro un ordine e una priorità.
Rimase immobile a guardare i carboni rossi nel camino, unica traccia del fuoco che ardeva minuti prima. Ne ascoltò il suono come si ascolta una musica e cercò di prestare attenzione anche alla sua.
 
 
***
 
 
La lettera era sgualcita e tratteneva un odore pungente di muffa. Si chiese dove sua madre l’avesse tenuta per tutti quegli anni e, per l’ennesima volta, come avesse fatto il suo compagno a convincerla a cedergliela.
Se ne stava lì, sul comodino, dove l’aveva trovata al risveglio, eppure non l’aveva sfiorata neanche con un dito. Aveva invece preso il post-it giallo al suo fianco che recitava: “Ho pensato che avresti voluto leggerla da solo”. L’aveva guardato da vicino e aveva sorriso.
 

 
Andy sapeva che ci sono di quelle cose che non si vuole condividere con nessuno, neanche con se stessi.
Momenti di vulnerabilità che si vivono da soli e da soli muoiono.

 
 
Quando toccò la carta ingiallita della lettera era già il tardo pomeriggio. Andy non sarebbe tornato prima di cena, sapeva che quel giorno avrebbe dovuto lavorare e aveva utilizzato i suoi impegni per dargli spazio. Così si prese tutto il suo tempo e esaminò la busta che aveva fra le mani: non era mai stata aperta, nemmeno da sua madre. Questo lo stupì molto.
Tremava un poco mentre l’aveva fra le mani.

 
Ma come, ancora dopo tutto quel tempo, le parole di quella donna gli facevano paura?
 
 
Prese la lettera con più decisione e la portò con sé in salotto.
 
 
***
 
 
Quando Andy rientrò in casa e vide che le luci erano tutte spente sentì il cuore balzargli in gola. Era ora di cena, ma nessun profumo di cibo giungeva dalla cucina.
«Mika?» avanzò un poco nella penombra e si mosse verso l’unico suono che udiva: un debole crepitio. Quando si affacciò in salotto notò che era illuminato da bagliori caldi e irregolari. Contro di essi si stagliava la figura di Mika. Seduto a gambe incrociate osservava, rapito, le fiamme che giocavano ad afferrarsi le une con le altre.
Andy si avvicinò e si sedette accanto a lui, emulando la sua posizione. Non chiese nulla, si limitò a volgere lo sguardo verso il fuoco. Rimasero così per un paio di minuti.
«L’ho bruciata» disse poi Mika, senza staccare gli occhi dalle fiamme.
«Perché?» chiese, perplesso. Sperò che le parole di quella lettera non l’avessero ferito tanto da doverle distruggere.
«Non volevo che mi condizionasse ancora» rispose Mika, in un sussurro. Poi si corresse, accennando un sorriso: «Non volevo che mi ferisse ancora». Andy si guardò le mani, chiedendosi se avesse fatto la cosa giusta.
«Vuoi parlarne?» domandò Andy, titubante.
«No, non c’è niente di cui parlare» fece, alzandosi e tendendogli una mano per invitarlo a fare lo stesso «Non l’ho letta».
Le sopracciglia chiare di Andy schizzarono verso l’alto per lo stupore e un minuscolo sorriso comparve sulle sue labbra carnose. Ne era tanto sollevato che per qualche secondo ignorò la mano che il ricciolino gli stava dando.
Infine la prese e si mise in piedi, gettando un ultimo sguardo al fuoco. Gli lasciò un lieve bacio sulle labbra e si scostò, osservando il suo volto disegnato dalle luci aranciate della stanza. Così prendeva vita come in un dipinto di Caravaggio, emergendo direttamente dalle ombre.
 
 
Un granello di malizia gli baciava lo sguardo e le labbra gli traboccavano di gioia.
 
 
«Scusa se non ho cucinato» disse, divertito, spezzando quel silenzio intenso.
«Per ‘sta volta ti perdono» gli concesse il biondo, facendo ridere l’altro. Ed era un suono così autentico che Andy pensò si sarebbe potuto saziare anche solo dei suoi sorrisi.



Note: Ciao a tutti! 
Il capitolo forse è un po' contorto, ma spero si capisca tutto l'accaduto. Allora, questo capitolo è ispirato dalle sue ultime dichiarazioni alla Suite parentale che credo sia un programma tv francese in cui parlava appunto dell'episodio della pipì e poi di un'intervista recente francese sempre sul bullismo in cui aveva parlato di questa lettera. Quindi queste "parti" della storia sono vere, il resto è ovviamente tutto frutto della mia fantasia. Ho pensato che dopo un litigio con la madre per il suddetto motivo, lui si fosse potuto sentire confuso e sappiamo da varie interviste che in momenti difficili si è rifugiato nel parco della sua infanzia. L'idea che ogni paio d'anni la volontà di leggere la lettera si ripresenti improvvisa non è campata in aria, ma ispirata a un fatto reale per cui chi ha il 50% di probabilità di aver ereditato una malattia genetica degenerativa dal genitore può decidere se fare il test per scoprirlo. Coloro però che non lo fanno spesso hanno dei break down ogni paio d'anni. So che non c'entra molto, ma questa è stata l'ispirazione e volevo raccontarvela :')
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e grazie per le recensioni e a chi segue la storia!
In teoria questo doveva essere il capitolo di angst puro, ma credo che alla fine io sia stata molto delicata e in alcuni punti molto fluff, non so, ditemi voi come vi è sembrato!
Bacioni e grazie ancora :*

 

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Capitolo 8
*** Miss you ***


Miss you

 
Il sole veniva pian piano inghiottito dall’orizzonte irregolare di Londra, inondando la città di una luce soffice. Le tende chiare erano state tirate perché potesse entrare quel piccolo assaggio dolce di giorno morente capace di cullarli in un sogno nitido.
Mika era tornato da Milano solo quella mattina e ad aspettarlo aveva trovato la sua famiglia, per una volta al completo. Erano state ore molto dolci e anche molto movimentate, spossanti, colme di pensieri sottili, sguardi candidi e sorrisi di miele.
Aveva passato così tanto tempo a sorridere che sentiva i muscoli indolenziti, di un dolore lieve e piacevole. Quando giunse il momento di coricarsi, quel sorriso gli rimase artigliato al volto come a non volerlo più abbandonare e, in mezzo a quel silenzio improvviso, si sentì così leggero e libero che non volle neanche intrappolare lo sguardo sotto le palpebre.
Se ne stava a fissare l’oscurità come fosse una luce accecante dinnanzi alla quale gli occhi s’inumidivano. Avvertiva qualcosa scalciargli il petto, una creatura di pura gioia che voleva liberarsi: alla fine si lasciò andare a una risata solitaria e fanciullesca. Colto da un pensiero improvviso, volse lo sguardo accanto a sé, preoccupato di aver infastidito il sonno del compagno, ma non appena si accorse del gesto si lasciò andare a una seconda risata, questa volta divertita. Nonostante non fosse in grado di squarciare quel nero lenzuolo che l’avvolgeva, sapeva con certezza che quel lato fosse vuoto.
Si morse un labbro e pensò a Andy, ancora impegnato in Grecia per lavoro. Non poteva esprimere quanto avrebbe voluto che fosse già lì a condividere tutto con lui. Si sentì mancare un poco l’aria, così discostò le coperte e afferrò il cellulare con foga.
Aprì la galleria e osservò le foto che aveva scattato quel pomeriggio, ne aveva almeno una decina solo del nipotino e Amira. Le osservò a lungo in cerca di quel segreto dettaglio che era stato in grado di inondarlo di quella felicità immensa, così da poterlo cercare sempre e in ogni cosa. Si trovò a credere che da un momento all’altro gli sarebbe esploso il cuore nel petto.

 
Tenere per sé tutto quell’amore l’avrebbe fatto sentire un folle che getta via qualcosa dal valore inestimabile.
Voleva donarlo.
 

 
Fu per questo motivo che, senza neanche averlo pensato, si trovò a chiamare il compagno. Il cellulare squillò per diverso tempo prima che qualcuno rispondesse.
«Pronto?» la voce di Andy era impastata di sonno e Mika si diede dell’idiota per aver dimenticato il fuso orario.
«Sono io» rispose con un filo di voce.
«Mika… È successo qualcosa?» si allarmò l’altro.
«Ehm… No, tranquillo, volevo solo sentire la tua voce» non appena finì di pronunciare la frase si accorse di come suonasse stupida; non tanto se la pronunci all’una di notte, ma piuttosto se l’ascolti alle tre del mattino.
Il silenzio si prolungò un poco e Andy sbuffò. Gli sembrò di averlo sentito mormorare qualcosa come “Certe volte proprio non-”.
«Lo so che non ha senso» continuò Mika, incupendosi e ripetendosi mentalmente quanto fosse stato stupido «Ti lascio dormire, allora» terminò con voce sottile e tono leggermente amaro.
Chiuse la chiamata prima di poter sentire una risposta e gettò il cellulare sul letto, accanto a lui. Si sentiva in colpa per averlo svegliato ad un’ora così tarda e ora tutto il suo entusiasmo si era spento in un secondo.

 
Quanto era facile cadere dalla felicità più assoluta alla malinconia, il vento di un respiro era sufficiente a spegnere anche la fiamma più alta.
 

Ignorò lo squillare ripetitivo della suoneria fin quando questo non si spense e al suo posto sentì il rumore delle notifiche. Incuriosito prese il telefono e si accorse di qualche messaggio in cui Andy lo minacciava di continuare a chiamarlo finché non avesse risposto. Mika sorrise alla testardaggine di quell’uomo e quando il cellulare riprese a suonare rispose quasi immediatamente.
«Scusa» esordì subito il greco.
«Per cosa? Non hai detto niente» sorrise Mika in risposta e avrebbe giurato che Andy era riuscito a percepirlo. Il biondo a chilometri di distanza riuscì a vedere anche le sue fossette.
«Lo so, ma l’ho pensato» rise l’altro «e tu mi conosci così bene che riesci a capire cosa penso da un sospiro».
«Mi dispiace di averti svegliato a quest’ora» rispose dopo qualche secondo.
«Non fa niente» lo rassicurò «Ho solo avuto una giornata un po’ pesante, non dovevo sfogarmi con te. Che volevi dirmi?».
D’improvviso aveva una dolcezza nella voce che gli fece rinascere quella sensazione di esplosione nel petto. Si sentì come solleticato da mille piume, si mosse sul letto quasi a cercare di sfuggirvi.
«Niente di che, è vero quello che ti ho detto prima… mi manchi, vorrei che fossi qui ora, anzi vorrei che fossi stato qui oggi»
«Anche tu mi manchi molto, ma sarò lì fra qualche giorno, lo sai» Mika lo avvertì sorridere e gli si scaldò il cuore ad immaginarlo «comunque è incredibile: sei la persona meno sdolcinata di questo mondo, per una volta che vuoi fare il romantico ti sbuffo in faccia».
Mika ascoltò la risata di Andy solleticargli l’orecchio e si unì a lui. Era la cosa più naturale che potesse fare.
«Per questo funzioniamo» ribatté poi, facendo allungare di poco la risata del compagno poiché avido di quel suono come di poco altro.
Erano risate tiepide, assonnate, di quelle che si condividono come si condividono i respiri, in un’intimità autentica. Erano fatte della sostanza del buio e delle memorie custodite negli odori.
«Perché una giornata pesante?» gli chiese, un po’ apprensivo.
«Non preoccuparti, c’è stato brutto tempo e il programma è andato a rotoli» Andy prese un lungo respiro e poi continuò «Domani dovremo fare più del previsto: non ho intenzione di tornare più tardi né restare indietro sulla tabella di marcia… ma ce la faremo»
«Se proprio il lavoro si dovesse prolungare, verrei io per qualche giorno» propose, serio.
«Non ce ne sarà bisogno» affermò con determinazione e cambiò argomento «Com’è andata oggi?»
«Benissimo, è stata una giornata bellissima, sono stanco ma è stato davvero bello» rispose di slancio.
«C’è un altro motivo per cui mi hai chiamato» insinuò Andy, sicuro della sua intuizione «Forza, racconta»
«Non lo so, non riuscivo a dormire perché volevo condividere questa gioia con te, ma tu ora non ci sei e…» Mika sospirò pesantemente e riprese con voce strozzata «…mi manchi così tanto».
«Anche tu, come l’aria» ribatté l’altro, senza esitazione ma con voce sottile.
«Poi c’era anche Bobo ed è stato bello vederlo giocare con Amira e Mel… tre esseri così puri, era come assistere a… non lo so». Avrebbe detto la nascita di un fiore dai petali ruvidi e dai profumi intensi, ma Andy non avrebbe potuto capire, così si tenne per sé quel pensiero disegnato dall’emozione e lo catturò in un ricordo così vivido che ne sentì l’odore.
«Immagino» e lo faceva davvero, cercava di figurare la scena del piccolo e paffuto nipotino che giocava a tirare la coda di Mel o le orecchie di Amira. Rise appena.
Mika si limitò ad ascoltare quel suono roco, chiudendo gli occhi e immaginandolo vicino solo per un secondo. Poi quella domanda che chissà in che modo o perché si era infiltrata nella sua mente ore prima, gli sfiorò le labbra e abbandonò la bocca. Aspettò una risposta di Andy che tardò ad arrivare, poi il greco si schiarì la voce.
«Se preferirei che il nostro ipotetico figlio fosse vittima o carnefice?» domandò incerto, una nota di incomprensione nella voce.
Mika annuì e solo dopo un paio di secondi ricordò di aggiungervi un suono corrispondente.

Andy prese un lungo respiro e a Mika parve di sentire il rumore dei suoi ragionamenti. «Io non credo che sia così sempl-»
«Sì, lo so bene che il mondo non si divide in buoni e cattivi, vittime e carnefici, ma tu pensa a una situazione specifica… cosa preferiresti?»
«Io- non so, è davvero difficile, credo… sarei troppo egoista se dicessi vittima?» chiese, assonnato «Mika, perché me lo chiedi?»
«Non lo so» lasciò che il silenzio conversasse un po’ con entrambi e dicesse le cose più importanti.
«Avremo dei bambini, quando ci sarà più tempo» ancora una volta il biondo aveva colto il motivo dei suoi pensieri «Sarà bello, difficile, saremo stanchi – accennò una risata – ma sarà bello»
«Come questa giornata»
«Come questa giornata» confermò «Ce ne saranno altre mille».

Mika sentì gli occhi pizzicati dalla felicità e il sorriso gli si allargò talmente tanto da fargli male alle labbra. Non emise alcun suono. Si figurò Andy disteso sul suo letto nell’appartamento in Grecia, immaginò la luce lunare specchiarsi come una goccia di latte perlaceo nei suoi occhi d’oceano e d’improvviso lo colse una voglia irrefrenabile di stringerlo. Avvicinò un cuscino e lo cinse a sé.

«Ti sto abbracciando» mormorò all’altro
«Anch’io» rispose lui.

L’indomani entrambi si sarebbero sentiti stupidi per quelle parole, troppo orgogliosi per ammettere che quel momento sarebbe stato custodito come uno dei più bei ricordi che avessero. In quel momento però tutto parve perfetto, non c’era paura in quella loro dimensione, esisteva solo amore, protezione, vita.

«Mika» Andy spezzò un lungo silenzio con quel sussurro, consapevole che il compagno si era ormai abbandonato al sonno «Fai bei sogni».







Note: Ciao a tutti!
Scusate l'assenza, ma la sessione chiama e io ovviamente sono stata sommersa dallo studio. Mi dispiace dovermi ripresentare con un capitolo corto e poco interessante, ma le cose dolci forse sono meglio così, no? :')
Non so davvero come mi sia venuto in mente quello che ho scritto, o meglio sono stata ispirata da una foto risalente tipo al 2014 pubblicata su instagram, ma ecco... in realtà non sono esattamente il tipo da cose super romantiche (probabilmente si vede) comunque fatemi sapere cosa ne pensate, tornerò presto con altri capitoli, tempo permettendo.
Bacioni e grazie di commentare e leggere questi piccoli racconti!

 

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Capitolo 9
*** Bozze ***


Bozze


From: andreas.dermanis@gmail.com
To: michaelmikapenniman@gmail.com

Ho passato ore nel parco, c’era una luce bianca accecante, mi ci sono immerso da capo a piedi come in una piscina colma di vernice candida. Avevo la compagnia di un vecchio libro di papà che puzzava d’inchiostro eppure il cigolio degli alberi che accennavano rispettosi inchini al vento mi raccontava una storia mille volte più bella e dolce e veritiera. Così li ho ascoltati parlare la loro lingua di sussurri, ho chiuso gli occhi e ho quasi potuto avvertire l’odore di quella vernice incolore e la sua consistenza densa farsi strada nelle narici e nella bocca, lungo la laringe e nei polmoni. Per qualche secondo, o qualche ora, non saprei dire, mi sono come sentito parte di quella luce: non c’era tempo, non c’erano vite oltre a quelle silenziose degli alberi, né c’era pensiero che potesse sfiorarmi la mente. È stato un tempo infinito e nullo, il più prezioso che abbia vissuto nelle ultime settimane.
 

From: andreas.dermanis@gmail.com
To: michaelmikapenniman@gmail.com

Non facevo che guardare volti di sconosciuti, un miliardo di specchi su cui rimbalzavano le mie stesse espressioni cupe e vuote. Credevo mi sarebbe stato utile lambire il mondo di altri, invece mi ero trascinato dietro il mio come un tozzo di carbone in mani bianco latte, trasparenti. Lasciavo impronte di vernice ovunque posassi anche solo lo sguardo. Mi portavo addosso la voglia di scomparire e potevo usarla contro gli altri, loro avevano paura di me, di quello che vedevano nei miei occhi, di poter essere macchiati dal mio pallore.
Le persone, per quanto ottuse, sono animali: fiutano la morte e ne stanno lontani e io ero come un cadavere. Non sono mai stato così vicino alla morte in vita mia. Non sapevo che sul punto di spirare si potesse provare tanta rabbia. Un’ira così intensa per tutto quel che vive che lentamente si tramuta in odio, ma io non voglio inghiottire parole d’odio e gonfiarmene il ventre. Ti capisco ora, ho voglia di scappare anch’io, ma non serve a nulla se la mia valigia rimane quel tozzo di carbone. Sono stufo di avere il volto ricoperto di cenere e lo sguardo ingabbiato da un pennacchio di fumo. E non lo so, perché sto qui a scriverti cose che non esistono e che non leggerai mai, ma è come se le vedessi, come se me le sentissi addosso.
 
 
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Non ascolto più musica: ho paura di leggerti nel testo di una canzone, di svegliare memorie intrise del tuo profumo, ho il terrore di ascoltare per sbaglio la tua voce, una tua melodia.
Tu non ci sei e la tua voce non saprebbe che ingannarmi, sarebbe come usare una lama affilata sulla pelle.
 
 
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La notte scorsa c’era la nostra casa in sogno, non era che un cumulo di macerie. Io vi ero intrappolato sotto, schiacciato dal peso di migliaia di frammenti e schegge di devastazione. C’eri anche tu sotto le macerie, non vedevo che i tuoi piedi, continuavi a tirarmi calci sul petto come a volermi strappare l’ultimo respiro dal corpo. Ad ogni pedata sentivo il rumore delle ossa che s’incrinavano.
Non c’era fuoco, ma uno strano lezzo di fumo, un pugno di cenere fra i denti che s’impastava alla saliva e al sangue. La terra sembrava ancora tremare, il terremoto che aveva fatto crollare la casa era ancora lì a perseguitarmi e tu sembravi quasi esserne l’origine. Smettesti di muoverti e tutto si fece immobile, anche la terra, anche il mio cuore. Mi sono svegliato con la sensazione di sostenere ancora su di me la pesante carcassa della nostra vita passata, colpito dalla certezza d’essere anch’io un cadavere. Sono saltato a sedere nel tentativo di riprendere aria, di accogliere nuova vita nei polmoni. Un dolore acuto al costato mi appannava lo sguardo.
 
 
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Andavano bene le cose, vanno ancora bene. Stavo preparando della zuppa per pranzo, ero sereno come non mi capitava da tempo. Sai bene quanto mi piaccia cucinare, quanto abbia il potere di catturare i miei pensieri. Ero libero come un’aria placida, era come essere in una di quelle piacevoli ore che prima trascorrevo fra le mura di un’altra casa. Quando mi sono accorto di averne fatta troppa, “ne porterò un po’ a Mika” ho pensato, ho persino sorriso.
Le lacrime sono giunte per la prima volta solo per quel pensiero ingenuamente dolce. Non posso smettere… come dovessi piangere quelle che in questi mesi mi sono tenuto dentro. Se bussassi ora alla mia porta, ti lascerei entrare. Mi troveresti seduto a terra con la faccia bagnata, gli occhi come due bruciature da sigaretta, poco più grandi ma della stessa morta cupezza, indifeso come mai mi avevi visto. Immagino potrebbe farti piacere saperlo se calpestassi il mio ultimo briciolo di dignità, inviandoti queste mail. No, non sei così crudele, ne rimarresti solo indifferente: ora per te non sono niente, se sono mai stato qualcosa. Fa male dubitare di ciò che è stato, ma quale altra scelta ho?
 
 
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Fortunè è venuto a trovarmi due ore fa, ha bussato per quasi venti minuti, ripetendo che sapeva fossi dentro. Io non ho detto una sola parola, la sua voce aveva la tua impronta, il tuo stesso sapore. Era già troppo da sopportare, non sarei riuscito a guardarlo in quegli occhi così simili ai tuoi. “Cosa sta succedendo?” mi ha anche chiesto. Avrei voluto urlargli che non sapevo niente, che io ho solo domande e le risposte le hai tu, te le tieni strette, ma ho taciuto ancora e poi gli ho chiesto di andarsene via.
Se n’è andato.
S’è lasciato dietro un silenzio così tonante, prima non l’avevo neanche notato per quanto era divenuto parte di me. Allora ho sentito il bisogno di una presenza amica, silenziosa e affettuosa. Per un po’ non avevo saputo prendermene cura e l’avevo affidata a Sam, penso che ora sia il momento di riportare Mel a casa.
 
 
 
 
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Non possiamo continuare a parlare. So che non lo stiamo facendo, ma io ti dico tanto di me anche se non puoi saperlo. Non mi fa bene, tu non meriti tutte le mie lacrime, il mio sonno, neanche queste mie parole, le mie mezze confessioni. Tutte queste lettere mai spedite sono patetiche e piene d’amore, ma non è amore che voglio darti. Te ne sei andato e hai lasciato dietro polvere e ricordi, nient’altro. Una scia di dolore che io ho percorso come un sentiero ben tracciato in questi mesi. Non posso più pensarti, pensarti lontano con qualcun’altro, pensarti felice di avermi superato, pensarti e credere che non sia ancora tutto finito. Basta, basta, basta!
Ne ho abbastanza di continuare a mentirmi, di continuare ad esserti fedele, ne ho abbastanza di te. Continuerò a camminare sapendo di non poter mai vivere qualcosa di altrettanto totalizzante, vivido. Devo smetterla di scriverti cose che non leggerai, pensieri che non ti interessa conoscere. La smetto, lo giuro. Ti odio, lo sai.

 






Note: Ciao!
Scusate i tempi lunghi ma... a dire il vero questo capitolo era già pronto da circa due settimane ma non mi convinceva abbastanza da pubblicarlo, l'ispirazione comincia un po' a scemare e ho anche molto da fare ultimamente. Questo capitolo in realtà tutt'ora non mi piace. Lo trovo troppo calcato e stupido in un certo senso e sto cominciando a pensare che anche tutto il resto di quel che ho scritto per questa raccolta sia stupido e brutto. Perdonatemi ma forse per un po' non scriverò... non lo so, il tempo mi chiarirà le idee. Spero che vi abbia fatto piacere leggere questo, ovviamente gli indirizzi sono inventati ahah.
Baci.

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