Bracciale di perline

di 09Chia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritrovamenti ***
Capitolo 2: *** Bicolore ***
Capitolo 3: *** Rosa antico ***
Capitolo 4: *** Cioccolato ***
Capitolo 5: *** Nero lucido ***
Capitolo 6: *** Rosso corallo ***
Capitolo 7: *** Fiordaliso ***
Capitolo 8: *** Bianco cangiante ***
Capitolo 9: *** Grigio ***
Capitolo 10: *** Gessato ***
Capitolo 11: *** Rosa rosa ***



Capitolo 1
*** Ritrovamenti ***


Bracciale di perline

Ovvero: troviamo motivi per sorridere in questo mare di sf**a. Ma ho preferito il titolo più caruccio.

 

Ho ritrovato poco tempo fa una scatola rimasta nell’angolo di un armadio per almeno una quindicina d’anni, con dentro un’infinità di piccoli braccialetti di perline, riposti evidentemente con cura e dedizione da una me stessa molto più piccola.

Se sapete di cosa parlo, avete di certo passato un discreto quantitativo di tempo durante la vostra infanzia a infilare perline colorate in un filo elastico e semi trasparente, convinti di realizzare opere di gioielleria degne di entrare nella prossima collezione di Tiffany.

Per quanto mi riguarda, posso affermare che un discreto 90% dei miei braccialetti risultano privi di qualunque schema di base: infilavo perline a caso, senza nessun interesse per misura, colore, peso o forma.  Il restante 10%, credo fossero quelli realizzati insieme alla mia “cugina grande”, evidentemente dotata di un senso estetico migliore del mio.

Nonostante tutto, tra questi bracciali tendenzialmente raccapriccianti, qualcuno si salva: legge del caso, intervento divino, qualche consiglio della mamma dato al momento giusto, lampi di lucidità da parte mia… non chiedetemi perché o come, ma fidatevi se vi dico che, in quella scatola fortunosamente ritrovata, ci sono degli agglomerati di perline che non seguono alcun filo logico, ma che risultano graziosi.

Presa dalla commozione per il mio ritrovamento, ho deciso di realizzare uno di questi braccialetti. Sono però troppo grande per mettermi a infilare perline: credo che finirei in un manicomio seduta stante.

Dunque, ho deciso di realizzare un braccialetto di perline narrative.

Storie piccole e semplici, perché non voglio una collana di diamanti, ma un piccolo braccialetto simpatico e leggero, da portare tutti i giorni.

Storie carine, divertenti, da strappare un sorriso, perché nonostante la loro diversità dovranno risultare graziose una accanto all’altra.

Storie vere: piccoli stralci di quotidianità, di incontri, di conversazioni origliate sull’autobus, di gesti che se non li scrivi rischiano di sfuggire via; perché è un peccato se le perline più belle le lasci rotolare fin sotto al divano e rimangono lì dimenticate.

 

 

Spero di saper costruire un braccialetto che sia piacevole portare al polso, da guardare quando si è un po’ tristi e c’è bisogno di ricordarsi che, in mezzo al grigiume della giornata, può sempre capitarci in mano una perlina scintillante.

A presto,

                                                                                                                                                                                 Chia

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Capitolo 2
*** Bicolore ***


Bicolore

Perché se vogliamo che il nostro sia un bel braccialetto, è importante partire con originalità.

 

La perlina bicolore sono i due ragazzi che lavorano nel negozio di frutta che c’è all’angolo: non due perline, ma una sola, in cui si mescolano due colori; se dovessi sceglierli, direi verde e rosso, uniti insieme in una sorta di Yin&Yang sferico.

Sono innamorati, a giudicare da come si guardano, e marito e moglie, a giudicare dalle fedi che portano entrambi sotto i guanti di plastica.

Lui ha colorito e capelli scuri, abbinati ad uno spiccato accento dell’est e ad un paio di inattesi occhi verde foglia. Lei ha i capelli rossi, riccissimi, lunghissimi e sempre raccolti in un disordinato chignon sopra la testa, gli occhi nocciola e la carnagione costellata di lentiggini.

Il loro negozio è una microscopica stanza piena di scaffali inclinati di colore rosso, ricoperti da una quantità quasi insopportabile di verde: verdure, mele, zucchine, peperoni. Qua e là fa capolino qualche altro colore, ma il verde e il rosso dominano.

Rosso, come i capelli di lei e il mondo da cui proviene lui, assolato e caldo; verde, come gli occhi di lui e le irlandesi distese da cui sembra essere spuntata lei.

Non frequento molto il loro negozio e credo che non sia mai troppo affollato: d’estate la porta è aperta e frutta e verdura sono esposte anche all’esterno. D’inverno, la porta è chiusa. In entrambi i casi, i due proprietari sono seduti sul fondo, perfettamente visibili dal marciapiede, a parlare per riempire il tempo.

E quanto tempo che sono capaci di riempire solo di loro due, in una piccola e spoglia stanza soffocata di verde e di rosso.  

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Capitolo 3
*** Rosa antico ***


Rosa antico

… e con una sfumatura di malinconia

 

Torno verso la mia bicicletta come tutti i giorni e lo vedo che mi viene in contro sul marciapiede. Ha pantaloni, giacca e panciotto grigi, un cappello come se ne vedono solo nelle fotografie, un bassotto affaticato al guinzaglio e un fazzoletto rosa antico piegato nel taschino sinistro.

Non si capisce se sia lui a portare a spasso il bassotto o viceversa, ma avanzano lentamente sul marciapiede, nella mia direzione.

Ripasso mentalmente le mie battute e quando si avvicina rallento il passo.

Ciak. Azione.

«Signorina!» esclama, fermandosi e trattenendo il bassotto.

Io sono già ferma: ormai conosco la parte a memoria.

«Come sto vestito così?» mi chiede, per la terza o quarta volta questo mese. Fingo di osservarlo dalla testa ai piedi e, come sempre, ammiro la piega perfetta del suo fazzoletto.

«Molto bene signore» rispondo, ignorando l’occhiata sconsolata del cagnolino che vorrebbe continuare la sua passeggiata.

«Quanti anni mi darebbe?»

La prima volta ho sbagliato risposta, ma oggi non ho dubbi «Non più di settantacinque»

«Oh!» fa lui, sventolando la mano libera dal guinzaglio, come gli avessi fatto un complimento esagerato: «Faccio gli ottantacinque questo venerdì!».

«Accidenti, signore! Complimenti!» rispondo.

Dallo sguardo scettico del bassotto, il mio stupore non è proprio da oscar. Il mio co-attore, però, non sembra notare nulla e io continuo: «E come festeggia?»

«Vado a mangiare al ristorante con mio figlio» mi dice «domenica a pranzo».

«Allora, buon finesettimana» gli auguro, cercando di mettere tutto l’entusiasmo possibile nel mio sorriso e sperando che, anche se forse il suo compleanno è passato da un pezzo, domenica sia davvero a pranzo da suo figlio.

«Grazie signorina, lei è davvero gentile».

Mi saluta sfiorandosi leggermente la punta del cappello con la mano destra e si allontana piano, piano, con il bassotto che lo segue docile e forse un po’ annoiato dall’ennesima replica.

È una figura strana, che fa un originale contrasto con gli studenti che escono ora in massa dal liceo; un personaggio rimasto incastrato in qualche angolo nel tempo, che si porta dietro la malinconica eleganza di un fazzoletto rosa antico.

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Capitolo 4
*** Cioccolato ***


Cioccolato

… ripieno alla fragola.

 

La prossima perlina somiglia ad un cioccolatino: è rotonda e liscia, con il cuore più tenero e più dolce che si possa immaginare. Se vi fa piacere, potete immaginarvi un ripieno alla fragola.

 

 

 

È il color cioccolato della pelle del bambino seduto nel sedile davanti al mio in autobus, sulle gambe di quello che immagino essere il suo giovane papà.

Ride alle battute che fanno due uomini dalla pelle ugualmente scura, in piedi accanto a noi, avvolti in vestiti colorati che mi trasportano a sud di qualche decina di migliaia di chilometri senza muovermi di un dito.

Parlano in una lingua incomprensibile e giocano con il piccolo nascondendo a turno, nei pugni chiusi, un cioccolatino avvolto in carta luccicante. Il bambino ride come un matto e il suo papà fatica a non farselo scivolare dalle gambe, tanto si divincola; rispondono entrambi, di tanto in tanto, nella stessa lingua. Non capisco nulla, ma mi diverto a leggere le loro espressioni.

Arriva la fermata e i due signori avvolti in vestiti colorati restituiscono il cioccolatino al bambino, salutano lui scompigliandoli i riccissimi capelli scuri e il padre con una serie di incomprensibili suoni e due sorrisi amichevoli.

L’autobus riparte, il bambino si rivolta tra le braccia del papà e il suo sguardo incrocia il mio. Ha occhi grandi e tondi, di una tonalità leggermente più scura della sua pelle. Extrafondente.

Gli sorrido, lui esita un secondo e scambia due parole sottovoce con il papà; sono parole piene di suoni aspirati e schiocchi di lingua. Il papà ridacchia e risponde, poi si sposta leggermente per lasciare che la manina paffuta del piccolo si tenda verso di me.

Ho appena il tempo di riflettere sul fatto che resterò impalata come uno stoccafisso quando una vocetta cristallina, con appena un soffio di accento straniero, mi chiede con tranquillità: «Vuoi cioccolatino alla fragola?».

Il suono della mia lingua mi lascia più stupefatta di tutto il loro discorso in africano.

«No, grazie» riesco a rispondere, cercando di nascondere la sorpresa «mangialo tu».

Lui non sembra affatto dispiaciuto del mio rifiuto, si volta e comincia a scartare il suo cioccolatino con aria soddisfatta.

Rimango ad osservarlo per qualche istante, ammirata dall’intuito di quel piccolo uomo dagli occhi color cioccolato, grande abbastanza da capire che io, con il mio colore di pelle così diverso dal suo, non so comprendere la sua lingua; troppo piccolo per rendersi conto della meraviglia che suscita.

 

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Capitolo 5
*** Nero lucido ***


Nero lucido

… della notte dietro al finestrino.

 

 

Guardare la notte che scende da dietro il finestrino di un treno, un’auto o un aereo, porta con sé il leggero brivido dell’adrenalina sottopelle. Vuol dire che si è in viaggio, e che il viaggio è abbastanza lungo da richiedere qualche ora notturna.

Per me, il nero lucido è quello del finestrino del pullman che ci porta in GMG, nella notte tra il 24 e il 25 Luglio 2016. Siamo in viaggio dal tardo pomeriggio sui sedili più stretti che io abbia mai provato. Abbiamo superato da un’oretta la frontiera italiana e ci dirigiamo verso Cracovia. Ci aspettano due milioni di ragazzi come noi, numerose famiglie polacche pronte ad accoglierci, treni pieni zeppi di bandiere, canzoni cantate in tre o quattro lingue diverse in contemporanea e lunghissime ore di attesa; per ora, però, non lo sappiamo ancora. Abbiamo passato le nostre ore su questo pullman a suonare, cercare di conoscere i ragazzi degli altri gruppi e ascoltare i racconti dei più grandi, che di GMG ne hanno già fatte due o tre.  

Ora è scesa la notte e qualcuno si è già addormentato. Sto raccontando ad Andrea delle mie vacanze al mare quando qualcuno, dalle prime file, dove è stata istituita una piccola dittatura per il monopolio del televisore, propone di mettere un film.

Dopo qualche minuto di consultazioni che neanche il governo italiano, è ufficializzato Harry Potter. Riusciamo a spegnere le luci del pullman e a farlo partire: per fortuna conosco le battute quasi a memoria, perché l’audio è terribile e lo schermo talmente lontano che fatico a mettere a fuoco.

Andri fa apparire dal nulla un sacchetto di patatine che iniziamo a sgranocchiare mentre giochiamo ad anticipare le battute degli attori. Man mano che il film continua, le chiacchiere lungo il pullman scemano a poco a poco.

«Chia» chiama Andri, quando penso ormai di essere rimasta tra gli ultimi svegli «non è fighissimo?» mi chiede con l’aria di un bimbo con le mani nella nutella.

Il mio sguardo interrogativo dev’essere eloquente.

«Be’» riprende, come cercando di esprimere a parole un concetto difficile «Siamo in viaggio per la GMG, stiamo guardando Harry Potter… e mangiamo patatine» lancia un’occhiata alla confezione «patatine al pistacchio.» conclude con aria solenne.

Cerco di ridere senza fare rumore: «Cosa si potrebbe desiderare di meglio?»

Andrea sembra soddisfatto dalla mia risposta e torna a guardare il film. Io cerco di incastrarmi meglio sul sedile e appoggio la fronte al finestrino, cercando di penetrare con lo sguardo oltre il buio, fuori dall’autostrada.

Riesco appena a intravedere le sagome degli alberi e pian piano mi addormento, cullata dal dondolio del pullman, con le mani che formicolano di aspettativa e gli occhi pieni del nero lucido della notte dietro al finestrino.

 

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Capitolo 6
*** Rosso corallo ***


Rosso corallo

… e il suono di un tamburello.

 

 

Siamo sul lungomare di un microscopico villaggio del Salento, con le spalle che bruciano dopo la giornata in spiaggia e gli occhi a fessura per proteggerci dal vento e dal sole rosso corallo che si riflette sul mare, in un tramonto che sembra disegnato.

A un certo punto, alla nostra destra si apre una piazzetta e siamo investiti dal suono di una chitarra e di un tamburello scatenato. Riconosco il ritmo della pizzica che mi ha suonato la sera prima il proprietario della casa in cui siamo ospitati, battendo come un matto su un antico strumento probabilmente costruito a mano. I ragazzi che suonano qui sono più giovani e i loro strumenti meno impolverati dal tempo, ma il ritmo forsennato è lo stesso. Ci fermiamo a osservare, incuriositi da un paio di coppie che hanno iniziato a ballare: un ragazzo e una ragazza devono avere più o meno la mia età; lei porta pantaloncini bianchi, lui consumate infradito. Ballano un po’ goffamente, ridendo quando uno dei due sbaglia un passo. Accanto a loro si muovono due anziani signori, sollevando appena le braccia e alzando i piedi dal pavimento di qualche centimetro.

Da una stradina laterale sbuca una terza coppia e gli occhi di tutti sono su di loro prima ancora che comincino a ballare: hanno la pelle scurita dal sole, rughe di espressione attorno agli occhi e alla bocca, capelli scuri striati di bianco. Lui indossa camicia e pantaloni chiari, lei un lungo vestito nero, con una gonna larga. Tiene tra le mani uno scialle color rosso corallo. Forse arrivano da un’esibizione, o forse sono d’accordo con i musicisti.

I loro piedi si muovono veloci e leggeri, le mani e le braccia compiono movimenti aggraziati; sembra che ciascuno balli per conto suo, quasi non si sfiorano. Ogni tanto, però, alcuni movimenti precisi e sincronizzati svelano la coordinazione. E poi si guardano: lui le gira attorno, lei gira su se stessa per non staccare gli occhi dai suoi. In mezzo a loro, come un sottile muro di pudore, lo svolazzante scialle rosso corallo.

Rimango incantata dai movimenti di questo ballo che mi fa sentire straniera in questa terra che è anche la mia, sensazione che si accentua quando la musica accelera e uno dei ragazzi inizia a cantare: il salentino è per me incomprensibile, ma mi accorgo che tra la piccola folla che si è formata attorno ai ballerini, qualcuno muove le labbra.

I due ballerini dallo scialle rosso seguono la musica, accelerando anche loro. Il ragazzo con il tamburello muove le mani così veloce da renderle invisibili e dopo un’ultima, infuriata giravolta, la canzone finisce in uno spontaneo applauso. I ballerini hanno il fiatone, ma sorridono. Stringono le mani ai musicisti e, dopo qualche parola, si allontanano, mentre anche la folla si disperde.

Li guardo andare via: lui  le cinge le spalle con un braccio, lo scialle rosso corallo le dondola sulla schiena;svaniscono lentamente nel rosso del sole che, ormai un po’ più cupo, li trasforma in due sagome nere.

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Capitolo 7
*** Fiordaliso ***


Fiordaliso

                                            …su sfondo caffelatte.

 

 

È il colore del piumone che metto in inverno, della sedia girevole su cui studio, dello smalto che metto quando vado al mare, del cielo nel momento che sta tra il tramonto e la notte. È il colore dell’app di messaggistica che, nell’intero universo, usiamo solo io e i miei amici, il colore dell’oceano visto da Cabo da Roca, quello della sfumatura nello sguardo che ogni tanto porta via ancora il sonno. È anche il colore del quadernetto dei pensieri che usavo quando ero piccola, del vestito che ho comprato l’estate scorsa, del fiore di campo che simboleggia la serenità e che si regala ad amici e innamorati. È il colore del braccialetto che mi hanno regalato a fine anno i bambini a cui faccio lezione e il colore dell’unico pennarello che ancora tengo nell’astuccio, fondamentale per scrivere i titoli e sottolineare le mie disordinate righe di appunti.

È un colore così difficilmente definibile, che sento così esclusivamente mio, che quando lo ritrovo in un quadro di Joan Mirò postato su facebook, rimango sconcertata.

È un’immagine strana, non sono nemmeno certa si possa chiamare quadro: un foglio caffè latte, la scritta Photo, grande, in alto; in basso a destra una macchia di colore; sotto, in un ordinato corsivo, la frase “Ceci est la couleur de mes rêves”. Questo è il colore dei miei sogni.

Fisso lo sguardo sulla macchia in basso a destra: non è blu, non è azzurro, non è nemmeno violetto. È proprio il mio. Mi scappa un sorriso appena accennato e salvo l’immagine.

Che una perlina del mio braccialetto dovesse essere color fiordaliso, l’ho sempre saputo. Mi chiedevo però con un filo di inquietudine quale sarebbe stato il ricordo a cui collegarla: sono così tanti i miei ricordi fiordaliso, e tutti così belli… come avrei fatto a scegliere? Il cielo dietro le torri della cattedrale di Strasburgo o la fascia per capelli che usavo in GMG? La copertina del canzoniere che uso con i bimbi al campo estivo, o l’anello di fidanzamento che la mia nonna porta ancora al dito? La mia festa di compleanno, la matita per gli occhi che ho usato alla maturità, le notifiche sul telefono, il laccino che chiude la promessa scout… o i titoletti di EFP?

Adesso, nella mia perlina, ci sono tutti. Non è una perlina rotonda e liscia, questa: ha la forma di una macchia su un foglio caffè latte del 1925; un piccolo, inaspettato regalo della storia dell’arte: la prova che qualcuno, oltre a me, ha fatto sogni color fiordaliso.

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Capitolo 8
*** Bianco cangiante ***


Bianco cangiante

di luci da concerto.

 

 

Nei sacchetti di perline che mi regalavano da piccola ce n’erano sempre un paio di quelle speciali: non perfettamente sferiche, ma sfaccettate, di un bianco quasi trasparente e ricoperto di brillantini. Suppongo fossero delle cattive imitazioni di brillanti e diamanti, ma direi che noi ci possiamo accontentare.

È il colore dei fari che dal palco di piazza Duomo illuminano lunghe file di seggioline gremite di gente. È il colore delle torce dei telefoni che ondeggiano. Dal mio posto in piedi sui gradini del Duomo vedo questo mare di lucine e volti sorridenti. Il concerto è appena all’inizio, ma dopo un’apertura col botto, tra salti e chitarre elettriche, questo è il primo brano melodico che sentiamo. Ed è una specie di karaoke collettivo: cantano tutti e tutti hanno gli occhi incollati al palco, a cercare di individuare tra le luci accecanti, bianco brillante, la sagoma dell’artista che siamo venuti ad ascoltare.

Bianco brillante è la luce che illumina il balcone al secondo piano di una delle case che delimitano la piazza. È il colore della coppia che lassù ha iniziato un lento, dondolandosi nello stretto spazio del balconcino, indifferente alla folla sottostante, suscitando un moto di commozione e un filo di invidia in tutto il pubblico. Me li indica mio fratello sul secondo ritornello, e sono talmente belli che per un momento dimentico di guardare il palco.

La canzone finisce e sull’inizio di quella seguente i colpi indiavolati della batteria mi fanno dimenticare la coppia che balla.

Mi torna in mente il mattino dopo e rimane una delle immagini più vivide delle due ore di concerto: una delle poche che non sembra appartenere ad una realtà surreale. La infilo nel mio braccialetto a memoria dell’intera serata: una perlina bianco luminoso, sfaccettata e cangiante come le luci del palco, brillante come l’emozione di un lento sulle note di un concerto. Di un momento talmente perfetto da far commuovere.

Sono solo lacrime,

è tutta scienza, la si può spiegare:

è solo un po’ di acqua con il sale.

È solo un’occasione per cantare a bassa voce

una canzone d’amore.

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Capitolo 9
*** Grigio ***


GRIGIO 

… e storie di sintonia.

Non vivo a Londra, ma stamattina il cielo sopra la città di Brescia dev’essere simile al suo. E’ ciò che di meno mediterraneo potrei immaginare: grossi nuvoloni scuri trasformano la luce del sole in un opaco riflesso. Si sviluppano in altezza, come giganteschi palazzi sospesi in aria, e rendono l’idea dell’abisso che ci separa da loro.

Un vento furioso si incastra tra i vicoli del centro storico e sembra cerchi di strapparmi la testa dal collo. Se mi portasse via anche tutti i pensieri, con quella, non sarebbe male.

Le case e gli alberi sembrano tenersi aggrappati al terreno e gli uni con gli altri, nell’affannato tentativo di non essere spazzati via.

Eppure non piove.

Sono lì, le gocce di pioggia: pesano nei nuvoloni neri e li trascinano verso il basso, ma qualcosa le blocca: forse temono il vento? Forse vogliono darci ancora qualche istante di tregua.

 

 

Stamattina il mio umore è ciò che di meno mio potrei immaginare: piccoli e grandi cumoli di tristezza velano il naturale entusiasmo di inizio giornata e lo trasformano in nulla di più che un opaco riflesso. Sembrano pesi immensi accumulati da qualche parte tra il cuore e lo stomaco, e mi sorprende quanto grande sia l’abisso che riesco a percepire se mi fermo a pensarci.

Folate di rabbia si incastrano tra i miei tentativi di pensare lucidamente, come se volessero trascinarli via per fare spazio a qualcosa di diverso. E lo facessero, una buona volta.

I pezzettini in cui mi sento divisa, dentro, sembrano tenersi stretti tra di loro per sopravvivere a questi pesi e a questa rabbia, nel tentativo di non esserne travolti definitivamente.

Eppure non piango.

Sono già lì, le lacrime: premono dietro agli occhi, ma qualcosa le ferma. Sarebbe ammetterlo: accettare di fronte a me stessa la ragione e la vera portata di quei cumoli di tristezza e delle folate di rabbia impotente.

Ho bisogno ancora di qualche istante di tregua.

 

Davanti alla stazione, la fontana sputa fuori con il solito brio il suo zampillo, che però si perde dopo poche spanne e viene trascinato via, bagnando le macchine in coda.

Mi stringo nel mio cappotto rosso, un insulto a questa giornata, e mi infilo nelle strade del centro con passo veloce. È grigio l’asfalto, grigio il cielo; grigie le case, le nuvole, i riflessi sui vetri dei negozi, gli alberi sul colle del Castello. Persino la cupola del Duomo, di solito così sgargiante nel suo verde acqua, sembra ricoperta di una patina grigia.

Anche il vento sembra grigio, mentre mi butta i capelli da una parte all’altra e mi fa fischiare le orecchie. Ho rinunciato agli auricolari e alla musica: il vento fa troppo rumore, ed è quasi piacevole sentirselo urlare in testa, a impedire di pensare. Ho rinunciato anche alla coda ordinata che avevo fatto a casa: che si diverta pure a spettinarmi; non c’è nessuno che mi aspetta per accorgersene.

Cerco di fissare il mio cappotto, e di sforzarmi per assorbirne un po’ di energia. Ma mi sembra di avere davanti agli occhi solo grigio, azzurro, blu.

Insopportabili combinazioni di colori, troppo conosciute, troppo poco familiari.

Mi chiedo quanto ci metta una tempesta a formarsi: giorni? Settimane? Mesi? Noi umani siamo decisamente rallentati. La mia ci ha messo anni, e sono piuttosto sicura che non abbia intenzione di sfogarsi definitivamente nemmeno oggi.

E non posso farci nulla.

Rabbia impotente.

Un tuono sbotta nel cielo e fa tremare l’asfalto sotto i miei piedi.

Sorrido leggermente a questa nuova, insperata prova di sintonia.

Accelero il passo, svolto un angolo e il vento si ferma un istante. L’improvviso silenzio che ho in testa lascia parlare tristezza e rabbia e finalmente do un nome a quel magma ingombrante che mi si è fermato in gola: si chiama rifiuto, inutilità. Non sono abbastanza.

Un singhiozzo mal camuffato da colpo di tosse mi scuote le spalle.

Davanti a me, finalmente, cade la prima goccia di pioggia.

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Capitolo 10
*** Gessato ***


Gessato
                                                                                               E briciole di cavalleria
 
 
Ore 9, primo piano, atrio: panico dilagante tra gli studenti che aspettano l’inizio dell’orale. Il professore non è ancora apparso, degli assistenti nessuna traccia.
Solo voci, che ripetono concitate date, nomi, versi riarrangiati in qualche modo per far si che la metrica non metta in luce gli strafalcioni.
-Io è la sesta volta che lo ripeto-
-Zitto guarda, l’ultima volta ha mandato a casa  una perché non si ricordava il secondo nome di Vittorino-
-Ma smettila!-
-Te lo giuro! Me lo ha detto Stefano-
-Ma Dante è prima o dopo S. Francesco?- 
-L’assistente coi capelli corti è incinta, dicono-
-Speriamo abbia la luna dritta-
-Oh, altrimenti si torna il dodici…-
-Sto cavolo. Si passa oggi e basta.-
-Senti, mi provi Petrarca? Controlla le date…-
Si apre la porta dell’ascensore, svelando due figure. Gli sguardi dell’intero corpo studenti sono su quella dell’uomo, a destra.  Indossa, come al solito, un completo blu gessato. Come al solito, la cravatta è stretta, lunga e sottile, in tinta con l’abito. Gli occhiali spessi scivolano sempre un po’ troppo sul naso, i capelli corti sono leggermente imbiancati sulle tempie.
Come al solito, è sepolto sotto una pila di libri: tiene tra le mani una piccola torre di volumi, incastrati sotto al mento per non farli scivolare; sotto al braccio sinistro, la sua inseparabile ventiquattrore. Quando l’ascensore si apre, lui si abbassa e recupera da terra sue pesanti borse di tela stracolme di portalistini e quaderni, e una sottile borsa di pelle. Riesce in un battito di ciglia a disporre tutto quanto in equilibrio e si incammina verso di noi con passo deciso.
Accanto a lui c’è una ragazza sulla trentina con i capelli corti, il vestito beige appena tirato sul ventre svela una leggera rotondità: arrossisce di botto.
«Paolo, lascia stare» tenta di protestare «dammi almeno la mia borsa». Ci superano rapidamente: lei ci rivolge un sorriso rassicurante, con appena un filo di imbarazzo; lui ci saluta con un tonante «Buongiorno, ragazzi» e l’aria disinvolta di chi sta facendo una passeggiata al parco. Come se non fosse sepolto sotto dieci chili di cultura in formato manualistico.
«Non ti preoccupare» lo sentiamo rispondere, qualche passo dopo «Una fanciulla in dolce attesa non deve portare pesi».
Superano la porta dell’aula. Sentiamo che lei dice qualcosa sul fatto che è appena ai primi mesi. Lui appoggia i vari libri sulla cattedra, le rivolge un sorriso e alza le spalle: «Un briciolo di cavalleria non può far male.»
 
Passano le ore, diminuiscono i sussurri agitati. Tanti escono esultanti, qualche lacrima.
Chiamano il mio nome. Quarantacinque minuti di agonia, poi una firma sul libretto e una stretta di mano soddisfatta.
Il professore è più veloce di me a spostarsi dalla cattedra e raggiungere la porta.
«Prego» dice, tenendola aperta e restando rispettosamente di lato, col suo vestito blu gessato e la spontanea eleganza di un gentleman di altri tempi «e complimenti».
Fuori, mi ritrovo assalita da compagni che mi interrogano su domande e richieste dell’esame, e mi fermo a rifletterci solo una volta uscita dal portone, in strada, circondata dal mondo di tutti i giorni dove la galanteria è una cosa da libri.
Eppure anche nella nostra epoca, a piccole dosi, ogni tanto, un briciolo di cavalleria non può far male. Anche se al posto dell’armatura c’è un completo blu gessato.

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Capitolo 11
*** Rosa rosa ***


Rosa rosa…

… e scampoli di utopia

 

Una ragazza occupa il posto vicino al finestrino. Il treno sfreccia in mezzo al buio, le luci della periferia disegnano strisce gialle e bianche che spiccano sul nero. Il cappotto scuro, le scarpe di vernice, l’orologio sottile, un filo di trucco. I capelli acconciati le regalano un paio di anni in più.  Dalla borsa spuntano un’agenda e l’angolo di un computer. Ogni tanto messaggia al telefono. Sulle gambe ha un libro chiuso, tra le braccia un mazzo di piccoli boccioli rosa, che sfiora sovrappensiero. Ha l’aria stanca, ma felice. Forse torna dal lavoro, forse invece ha accompagnato qualcuno che è partito, o rientra da una visita: torna a casa con un mazzo di boccioli di rosa da mettere in un vaso nel suo microscopico soggiorno, ricordo profumato di un sentimento che abita in un’altra città. Forse, ancora, sono stati un dono inaspettato, consegnato a distanza con la follia che possono avere solo gli innamorati, e sul binario li mostrerà, con un sorriso misto di esasperazione e dolcezza, a qualcuno che la aspetta. Forse.

 

 

Che se poi il regionale una volta ogni due settimane fosse in orario, magari il venerdì sera, quando già sei un po’ sul mood del weekend, sai quanto migliorerebbe la vita dei pendolari? Già tra esame e segreteria oggi è stata una giornata d’inferno: sveglia, fatti presentabile perché a un esame non si può andare in tuta, treno, ore di attesa, esame, biblioteca, segreteria, corse verso la stazione; soddisfacente, certo, ma mi sembra di aver corso la maratona di New York, invece che aver passato una giornata a Milano. Guardo fuori dal finestrino le luci fredde della periferia e rispondo al messaggio di mamma che mi chiede a che ora dovrei arrivare. I fiori presi per il compleanno della nonna -boccioli piccoli, rosa chiaro, come piacciono a lei - si appoggiano un po’ sofferenti al manuale di letteratura che ho sulle gambe, chiuso. È troppo ingombrante perché ci stia nella borsa.

Sto per lasciarmi scappare uno sbuffo, annoiata, quando incrocio lo sguardo di una signora: mi rivolge un’occhiata complice e maliziosa, fa un cenno ai miei fiori e mi indirizza un’espressione ammirata. Mi vedo, in un fotogramma, con i suoi occhi: una ragazza con un mazzo di rose che occupa il posto vicino al finestrino e ha la testa troppo occupata dai suoi pensieri per riuscire a leggere.

Sorrido alla signora, il mio imbarazzo sembra solo confermare la sua espressione complice. Stringo un po’ di più i fiori e appoggio la testa al vetro freddo.

Forse dovrei spiegare alla signora tutta la verità, non confermarle il suo errore con il mio silenzio, non fingere di essere qualcuno che non sono.

Ma perché privarmi di una mezz’ora di utopia?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eccoci alla fine del braccialetto. Per qualche motivo, è diventato difficile raccogliere “perline” di realtà quotidiana: mi sono ritrovata ad inventare e modificare la verità.

Quindi, direi che possiamo prendere il filo, chiudere il tutto con un nodino e mettere il braccialetto al polso. 

Spero vi piaccia!

 

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