L-Iconoclast, Atto V

di RaidenCold
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Istante sincero ***
Capitolo 2: *** Ecclesia ***
Capitolo 3: *** Le stelle di Asgard ***
Capitolo 4: *** Catabasi solare ***
Capitolo 5: *** Requiem ***
Capitolo 6: *** Eroi ***
Capitolo 7: *** Danziamo ***
Capitolo 8: *** Un'ultima volta ***
Capitolo 9: *** La dea della guerra ***
Capitolo 10: *** L'ira dei cieli ***
Capitolo 11: *** Stella salente ***
Capitolo 12: *** Cuore di ghiaccio ***
Capitolo 13: *** L'offensiva di Atena ***
Capitolo 14: *** L'era degli eroi ***
Capitolo 15: *** Saluto ***
Capitolo 16: *** L'Acropoli ***
Capitolo 17: *** Il tormento della dea ***
Capitolo 18: *** Gli inganni dei gemelli ***
Capitolo 19: *** Μεγας Κεραυνος ***
Capitolo 20: *** L'iconoclasta ***
Capitolo 21: *** Un'ombra si avvicina ***
Capitolo 22: *** Tramonto ***



Capitolo 1
*** Istante sincero ***


Infelix opera summa, quia ponere totum nesciet”

Infelice in tutta la sua opera chi non la sa vedere in tutto il suo insieme

(Orazio, Ars poetica 34)
 

I sacerdoti ed i soldati presenti con loro guardavano le dodici case in lontananza, poi voltandosi videro la coltre grigiastra e le macerie fiammeggianti di quella che un tempo era stata Atene, e che adesso sarebbe stata probabilmente la loro nuova casa.

 

Chiron osservò dal terrazzo quel gruppo di reietti allontanarsi dal Santuario, e si riempì le narici d’aria sbuffando.

“Era davvero necessario?” - disse facendosi avanti Jun.

“Sì.” - rispose seccamente il grande sacerdote.

“Erano nostri uomini fidati.”

“Non mi fido di un esercito di maniaci!” -si voltò lui quasi urlando.

“Ti riferisci a ciò che è successo a Loki?”

“A tutto il processo!” - riaffermò il suo tono con veemenza.

“Lei era colpevole.”

“Non meritava quel trattamento, a maggior ragione a mia insaputa. La casta sacerdotale non serve Atena, ma solo i propri interessi, sono solo vecchi corrotti che non hanno mai visto la dea neppure adesso che è tra noi! L’ostracizzazione è la più antica e giusta legge che i nostri antenati ci hanno tramandato, come punizione andrà più che bene.”

Il cavaliere della bilancia si fece scuro:

“Tu avresti fatto lo stesso… sei così arrabbiato perché avresti eseguito le sue stesse mosse, vero?”

Chiron rimase un attimo in silenzio, con gli occhi chiusi.

“Adesso mi è impossibile saperlo.”

Calò il silenzio per alcuni istanti.

“Perché non chiedi direttamente a lui cosa ne pensa?” - Chiron distese la mano indicando qualcosa dietro alle colonne della terrazza del tempio.

Jun si voltò e vide Kalos dei gemelli, adagiato su una parete nell’ombra.

“Sei rimasto qua per tutto questo tempo…?”

“Perdonatemi, non stavo origliando, Chiron mi ha detto che potevo rimanere, poco prima che arrivaste.”

Chiron si avvicinò a Jun:

“Avanti, digli di come ti fidi degli uomini che hanno messo le mani sul corpo di sua sorella.”

A quel punto Jun deglutì, comprendendo ancora una volta la differenza tra idee e azione.

“Vi prego, non litigate…” - tentò di frapporsi tra i due colleghi dorati.

“No, non stiamo litigando… Chiron mi stava solo facendo ragionare.”

“Chiedete a lei direttamente, che cosa ne pensa.” - sentenziò una voce profonda poco lontana: Heracles, vestito dell’armatura della Bussola.

A quel punto, fece la sua comparsa nel terrazzo, in tutta la sua magnificenza, la dea in persona, ed i quattro cavalieri si inginocchiarono prostrandosi; lei passò oltre, e si affacciò osservando la lunga marcia degli esiliati.

“Perdonatemi, somma Atena… ho agito con sconsideratezza?”

“Io non riuscirei a cacciare a cuor leggero così tanti uomini dalle loro case, anche se apprezzo il fatto che tu sia stato clemente con i soldati che non sono stati coinvolti nell’umiliazione di Loki, punendoli solo con l’esclusione dall’esercito. Tuttavia sono la dea della giustizia, e quando vedo un atto di siffatta natura, non posso che dare il mio appoggio: hai agito secondo ciò che ritenevi giusto, ed io approvo questa tua misura.

Quanto a quei cosiddetti sacerdoti, a cui io non ho mai rivolto parola, loro hanno creato una situazione di malessere assolutamente indipendente dall’agire di Loki, ed anche in questo caso approvo le tue misure.

Sei un uomo saggio, sapere il mio esercito nelle tue mani mi rincuora più del fatto che le nostre fila si siano sfoltite.”

“Con tutto il rispetto, Chiron ha semplicemente salvato loro la vita.” - intervenne secco Heracles - “In questa guerra è bene che combattano solo cavalieri: uomini comuni privi di cosmo sono semplice carne da macello.”

Atena annuì:

“Questo conferma ulteriormente che sei il mio giusto vicario. Ma adesso Kalos” - disse voltandosi verso il ragazzo dai capelli biondi - “dimmi, te la senti di combattere per salvare le vite di quelle persone?”

“Sì, Atena.” - rispose lui senza traccia di esitazione.

“Non mentire alla tua dea, cavaliere.” - rispose fulminante Atena, senza tuttavia apparire adirata.

Kalos la guardò stupito e senza parole.

“Voglio sapere ciò che vuoi, non ciò che vuoi fingere di volere.”

Il ragazzo chinò il capo:

“Io… li odio.”

Per quasi dieci anni Chiron aveva visto la maschera che il cavaliere si era imposto, una casta maschera di purezza e coerenza priva di esitazione o sentimenti negativi: una maschera disumana.

“Vorrei mettere loro le mani addosso, guardarli negli occhi e vedere se hanno coraggio di essere prepotenti con chi a differenza di mia sorella aveva la facoltà di ribellarsi. Adesso quando passa per le strade, con la sua armatura di platino, la gente trema, sanno che basterebbe una sua parola e potrebbero venire cacciati, e si ritiene soddisfatta di questo. Ma io sono più rancoroso, e penso che se si sono comportati così quel giorno, allora non esiteranno a tradirsi: tale è la natura umana. Tuttavia so che ci sono delle brave persone, ed anche se rimanesse una sola di esse in vita, non smetterei comunque di lottare per quell’essere umano che è riuscito ad anteporre l’amore all’odio.”

Atena lo guardò sorridendo:

“A me non servono paladini, a me servono uomini onesti, in primo luogo con sé stessi.”

Detto questo lasciò il terrazzo, e Jun le venne dietro.

 

Kalos era rimasto immobile ad osservare l’orizzonte, ancora scosso dalle sue stesse parole, quando Chiron gli si parò davanti:

“Sono orgoglioso di te, Kalos.”

“Chiron, in tutti questi anni voi non mi avete mai odiato, nonostante…”

“Senti” - disse Heracles appoggiato su una colonna lì accanto - “ad uccidermi è stato tuo padre, tu non hai nessuna colpa. Ero diffidente nei tuoi confronti, specie negli ultimi tempi, ma ho capito che sei un vero cavaliere, e sarò lieto di combattere e se necessario morire al tuo fianco. Quanto a tua sorella, ammetto che inizialmente ero adirato per le sue macchinazioni, «Un altro inganno dei gemelli!» mi sono detto, ma poi quando l’ho vista uscire dalla sua prigione,ed invece della machiavellica manipolatrice che avevo in mente si è presentata quella ragazza così fragile… non ho potuto fare a meno di compatirla per il suo destino avverso, ed ammirarla per la forza con cui l’ha affrontato.”

Chiron si avvicinò a Kalos e gli strinse la mano:

“La tua famiglia non deve rimettere nulla alla mia, adesso Kalos di Gemini, dobbiamo solo combattere fianco a fianco.”

“Voi avete sempre creduto in me… non vi deluderò Chiron.” - rispose il ragazzo sorridendo, finalmente appagato.

 

 

Era una notte scura, e grandi nuvole nere coprivano il cielo.

“Tutta colpa della puttana dei gemelli!” - gridò un uomo mentre orinava su di un muro, che nonostante la situazione non aveva perso la voglio di battagliare.

“Dovevamo violentarla quando potevamo, almeno ci saremmo presi quella soddisfazione.” - rispose un suo compare di spalle reggendo una torcia.

“Dico che siamo stati fortunati, le abbiamo lanciato sputi e sassi dopo il processo, dobbiamo solo sperare che non si ricordi i nostri visi.”

“Hai sentito di quei tizi trovati in stato catatonico? Bianchi come cadaveri, privi di memoria, e col viso deformato dalla visione di chissà quale terrore… che un demone protettore dei gemelli si stia vendicando?”

“Ho sentito, e alcuni li conosco, erano con noi il giorno del processo… ma c’era tanta gente quel giorno, sarebbe impossibile ricordare tutti i presenti!” - ridacchiò alzandosi la patta dei pantaloni.

Pochi istanti dopo i due si ritrovarono a terra, con le convulsioni e la schiuma alla bocca.

Loki li osservava scura in volto:

“Io non dimentico mai un volto.”

Se ne andò, lasciando che l’illusione del re demoniaco facesse il suo corso.

 

 

 

Tre mesi dopo

 

Alexander entrò nell’undicesima casa: come al solito, si sarebbe seduto sulla sua poltroncina, avrebbe acceso l’abat jour e si sarebbe messo comodamente a leggere uno dei suoi amati libri – quella particolare sera si sentiva ispirato dal don Chisciotte di Cervantes.

Dovette invece rivedere i suoi piani quando, accendendo la luce, si ritrovò davanti Silen e Deneb con… una torta in mano.

“Sorpresa!” - esclamarono sorridendo.

“Si festeggia qualcosa?”

“Il tuo compleanno, cretino!” - rispose Silen col suo consueto modo diretto.

“Ah.” - constatò lui stranito.

“La torta l’ha fatta Claire.” - gli confidò Deneb.

“Quindi immagino verrà anche lei, con Keith, e con Leonidas, e con Lun…”

“E poi tutti gli altri.” - concluse Silen ghignando.

Alexander sospirò rassegnato adagiando i suoi occhiali da lettura su un comodino, mentre gli altri due se la ridevano; poi li guardò e sorrise vedendo come finalmente Silen, tornata tonica e forte, ed il suo allievo Deneb, fossero lì felici a scherzare con lui.
 

Dopo aver compiuto la sua vendetta, la quale era stata vocazione della sua vita, si era ritrovato a un punto morto: fu la richiesta di aiuto di Silen a smuoverlo dal suo distacco, e la costante presenza di Deneb a farlo perseverare. Ne era valsa la pena, di investire gli uni su gli altri: forse sarebbe durata un attimo, o una notte, o per sempre, ma in ogni caso l’autentica felicità che provavano in quel momento si era incisa adamantina nei loro cuori.

 

“Buon compleanno fratellino!”- Claire scattò una foto ad Alexander che fissava la torta aggrottato, mentre tutti gli altri applaudivano e fecero un brindisi al cavaliere dell’Acquario.

La donna lo abbracciò e gli diede un forte bacio schioccante sulla guancia:

“Cerca di sorridere almeno, è la tua festa.”

“Io odio queste situazioni.”

“Sai chi mi sembri? Brontolo dei sette nani.”

Alexander sospirò e si limitò a fare un sorriso ebete e palesemente finto; Claire apprezzò comunque lo sforzo.

“Ehi!”- si voltò Alexander irritato - “ti ho visto che mi hai scattato una foto mentre facevo quella faccia idiota!”

“Ma no, sei venuto benissimo zio!” - gli rispose Keith sghignazzando con ancora la macchinetta in mano. Era tornato da pochi giorni dal suo addestramento: ora, era anch’egli tra le fila dei cavalieri d’oro, e in battaglia avrebbe indossato la stessa armatura appartenuta a suo padre.

 

Kypros era uscito dall’undicesima casa per prendere un po’ d’aria, poiché aveva bevuto del vino leggermente troppo forte per i suoi gusti, e gli girava la testa; vide sulla gradinate due figure abbracciate intente ad osservare l’orizzonte.
“Ah sei tu.” - si voltò Leonidas sorridendo all’amico.

“Perdonatemi, non volevo disturbarvi.”

“Ma no, nessun disturbo!” - gli rispose Lambda.

Leonidas si alzò in piedi e andò a stringere la mano al cavaliere dei pesci, che prontamente si tirò indietro

“Non credo avrebbe effetto su di me a questo punto della mia esistenza.”

“Hai pur sempre un corpo mortale.”

“Ad ogni modo, volevo ringraziarti a dovere… senza di te non avrei mai potuto riabbracciare mia madre.”

“Sono davvero contento della vostra felicità. Spero che anche Loki ora possa farne parte…”

“Dopo che gli comunicasti che lei era sopravvissuta, mia sorella le ha cancellato la memoria, ed alterato i ricordi. Ha voluto tenerla lontana dal Santuario per non farla soffrire ulteriormente, sapendo che ad Asgard sarebbe stata al sicuro con Gunnar.”

“Le donne della tua famiglia sono davvero forti e ammirevoli, e pronte a sacrificarsi senza esitazione per proteggere coloro che amano… e sono certo che tale spirito non sia meno presente in te, o in Kalos.”

“E tu non sei da meno, amico mio; sapere che avrò al tuo fianco persone come te in questa guerra mi dà enorme sicurezza.”

“Cosa potranno le mie rose contro la furia degli dei…?” - sospirò il ragazzo dai capelli turchesi.

“Lo vedremo quando ci attaccheranno.”

“Quasi quattro mesi sono passati dalla morte di Ares, e ancora nessun segno… anche se so che è impossibile, mi auguro che non avvenga nessuna guerra.
“Gli dei hanno un volere ed un modo di agire differente dal nostro; io riesco a comprenderlo solo in minima parte, essendo presente in me una scintilla di Atena, ma posso garantirti che il passare dei giorni è qualcosa che non li affligge, e che i loro sentimenti, che siano di odio o di amore, non si placano in tempi brevi.”

A quel punto Lambda – un po’ per stemperare le preoccupazioni dei due compagni – si alzò ed andò in contro a Kypros sorridendo:

“Ma toglimi una curiosità… dov’è la tua Miia?”

Kypros arrossì:

“N-non siamo fidanzati… non ufficialmente. Comunque è dentro assieme agli altri, si diverte un sacco in compagnia, è una persona così energica, a volte faccio fatica a starle dietro!”

Leonidas e Lambda si guardarono complici con un sorrisetto malizioso .

“Ma cosa avete capito!” - disse scandalizzato mettendosi le mani sulle guance. I due ragazzi si misero a ridere, e Kypros sentendo una risata trattenuta alle spalle si voltò, vedendo Miia la quale a quel punto scoppiò in risa a sua volta.

Senza parole Kypros chinò il capo sospirando, e sentì una goccia bagnargli il collo; pochi istanti dopo ne caddero altre.

“Andiamo dentro, sta iniziando a piovere.” - fece cenno Miia rientrando in casa.

«Chissà per quanto pioverà…» - si domandò Kypros rientrando.

 

 

Raggi di luce fendevano l’oscurità; non era il sole, ma una diabolica forza luminosa, forgiata da un’aura divina al fine di creare un sigillo incrollabile.

Dentro la caverna, sui gradini di marmo finemente levigati, lei aspettava seduta, incatenata al collo come un animale feroce; pur essendo logorata dal tempo, la tunica che aveva addosso non aveva perso il suo candore, poiché niente poteva violare la purezza di quella prigione. La sua candida pelle invece, era ovunque coperta di sangue – sia fresco che incrostato – e ferite in via di guarigione.

D’un tratto, passi vigorosi ma al contempo aggrazziati fecero il loro ingresso nella grotta, seguiti da una figura femminile indossante uno splendido e pudico chitone color perla, pochi ma elegantissimi gioielli su tutto il corpo, e una sottile ed elaborata corona dorata sul capo: con questo aspetto si presentava Era, la regina degli dei.

Con tutta la sua imponenza, la dea si erse dinnanzi alla prigioniera, la quale non disturbò un muscolo per accoglierla o prostrarsi.

“Alzati.” - le intimò sistemandosi con un gesto deciso i lunghi capelli castano scuro intrecciati.

La ragazza si alzò, facendo vibrare la catena che la legava, e uno dei raggi di luce fece brillare la sua chioma argentata con baleni azzurri, in certi punti inchiostrata di sangue.

“Potrai finalmente fare quello per cui sei stata creata: combattere e morire per gli dei. Ti è chiaro?”

La guardò impassibile coi suoi occhi blu, un blu scintillante ed innaturale, con bianche pupille illuminate da un enigmatico bagliore interno.

“Chiaro.”

 

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Capitolo 2
*** Ecclesia ***


“… e solo quando mi avrete tutti rinnegato ritornerò tra voi.

In verità, con altri occhi, fratelli,

cercherò allora i miei discepoli perduti;

con un altro amore vi amerò allora.”

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (Della virtù che dona)

 

Il tribunale in origine era conosciuto con il nome di Ecclesia - ovvero Assemblea - ed in passato vi venivano prese importanti decisioni; in seguito, venne maggiormente utilizzata la sala del grande sacerdote venne delegato unicamente a luogo di funzioni giuridiche.

Ma ora che Atena, per la prima volta nella storia, aveva radunato tutti e ottantotto i suoi cavalieri, le stanze sacerdotali non erano più sufficienti, e la vecchia Ecclesia era l’unico edificio chiuso abbastanza capiente da poter ospitare un centinaio di persone senza che queste dovessero stringersi eccessivamente.

Un edificio chiuso, poiché le condizioni meteorologiche ormai rendevano impossibile lo svolgimento di qualsiasi attività all’aperto: da ormai sette giorni consecutivi, una pioggia incessante si era abbattuta non solo sul Santuario, ma sull’intero pianeta.

 

Atena sedeva dove solitamente sedeva il giudice dei processi, su un soppalco rialzato, e nei posti ai suoi fianchi, i quali normalmente sarebbero spettati ai sacerdoti, Aster, Ikki, ed i quattro cavalieri di platino; i cavalieri d’oro sedevano a sinistra del soppalco sulle panche destinate ai giurati, mentre Niche e Civetta si ergevano davanti ad Atena come due guardiani.

Accanto a Ikki sedeva, come rappresentante di Asgard, Hyoga un tempo cavaliere di Cygnus.

Solo un piccolo angolo delle panche comunicava col palco del giudice, e nelle rispettive estremità del vertice di quell’angolo sedevano Kalos e Loki: quest’ultima era irrequieta, e nonostante fosse al fianco di Atena, quel luogo smuoveva in lei ricordi angosciosi. Ogni tanto, senza essere visto, Kalos le stringeva la mano per tranquillizzarla.

A un certo punto, Atena si alzò in piedi, e tutti i presenti tacquero per poter udire al meglio la loro dea:

“Miei valenti cavalieri, per la prima volta vi vedo tutti uniti al mio cospetto… ahimè, avrei preferito riunirvi in circostanza meno spiacevoli, ma tale è la necessità del momento.”

Guardò i suoi cavalieri per un istante:

“Vi sarete accorti ormai che su di noi si è abbattuto un cataclisma innaturale, e io vi dico che conosco molto bene colui che vi è dietro: Poseidone, dio dei mari.” - un lieve mormorio serpeggiò tra i presenti - “Riuscii a sigillarlo circa trent’anni fa, dopo una guerra che alcuni di voi sicuramente ricordano; ad ogni modo credo che un potere superiore al mio lo abbia liberato, e che ora ci stia funestando con un diluvio persino peggiore del precedente. Per tale motivo, ho deciso che invierò alcuni cavalieri in avanscoperta nel regno sottomarino di Poseidone: Kiki di Ara e Aster di Pegasus, e con loro ci sarà anche la mia fedele Niche. In ogni caso, se qualcosa dovesse andare loro storto, i cavalieri con capacità di teletrasporto accorreranno subito a dare man forte.”

A quel punto Atena scese dal palco e si diresse verso i cavalieri d’oro:
“Leonidas, tu andrai ad Asgard assieme a Mime di Lyra e Deneb di Cygnus; voglio che siate il nostro contatto diretto con loro, e che ci riferiate tutto quel che accade, poiché temo che i nostri nemici attaccheranno anche loro per indebolirci.”

Leonidas annuì, dopodiché Atena si voltò verso gli altri due cavalieri i quali a loro volta fecero un cenno di assenso.

Atena tornò al suo posto e alzò lo scettro con un gesto trionfale:

“Cavalieri, se lotterete uniti sconfiggeremo anche l’olimpo!”

A quel punto tutti i presenti si infervorarono ed esultarono gridando diverse volte il nome della loro dea.

 

Miles fece per uscire dall’Ecclesia, quando venne fermato dal cavaliere dell’unicorno:
“Cavoli, questa sarà veramente dura…”

“Non abbiamo ancora incominciato a combattere, Alvin.”

“Lo so, ma ho come la sensazione che… potremmo morire tutti.” - Alvin glielo stava dicendo sorridendo, ma Miles poteva percepire il lieve tremolio del suo corpo, e gli mise una mano sulla spalla per tranquillizzarlo. Subito dopo, un’altra mano si posò sulla sua spalla, quella di Syd del triangolo australe:
“Se rimarremo uniti salveremo noi stessi, e l’umanità. So che sembra assurdo detto da me che sono scomparso di punto in bianco…”

“Per volere di John.” - aggiunse Miles.

“… sì ad ogni modo, penso che sia così: se ci copriremo le spalle, allora potremo sopravvivere all’attacco degli dei.”

Alvin sorrise, poi aguzzò lo sguardo e tra la folla notò un personaggio inaspettato:
“Brutus? Ehi, Brutus dello Scudo!”

Il ragazzo, più massiccio di quanto lo ricordassero e con una barba corta sul viso, li guardò un po’ diffidente, e così furono loro ad avvicinarsi a lui:

“Saranno almeno tre anni che non ci vediamo! Pensavo non fossi più un cavaliere di Atena…” - gli si rivolse Alvin.

“Sì ecco…” - rispose lui timidamente ed in contrasto con la sua voce un tempo forte e impavida - “… ho abbandonato la mia armatura per unirmi ai cavalieri neri assieme a Jude, e ho partecipato all’attacco di Tifone. Allora ero solo uno sciocco, credevo che l’uomo dei gemelli ci avrebbe ricompensato rendendoci tutti immensamente ricchi e potenti… ma quando vidi davanti a me Jude morire in battaglia per un attacco vagante, scagliato da non so nemmeno chi, mi guardai attorno e ho realizzai che le mie mani erano sporche del sangue di tutti coloro che stavano combattendo e morendo quel giorno. Dopo la battaglia, mi arresi e passai un anno nelle prigioni del Santuario, finché Eden non ha interceduto per la mia liberazione: da quel giorno mi sono allenato duramente per tornare ad essere degno della mia armatura, e con l’Ecclesia Atena mi ha concesso la grazia di tornare ad essere il cavaliere di Scutum.”

I vecchi compagni di Brutus ascoltarono colpiti le parole del cavaliere, e Miles lo guardò sorridendo:
“Sono contento che siamo tutti sotto la stessa speme di nuovo… mi spiace che Jude non ce l’abbia fatta, si sa qualcosa del nuovo cavaliere del delfino?”
“Si chiama Nicola, viene dall’Italia ed è stato compagno di addestramento di Zeno e Silen dello scorpione, è un abile guerriero che non ha mai avuto l’occasione di poter indossare un’armatura, pur essendone assolutamente degno: infatti, non solo è stato lui ad istruire Jude in Inghilterra prima che giungesse a Metellene, ma è anche uno dei discendenti della famiglia Kido, essendo suo padre uno dei famosi cento orfani.”

“Certo che ne sbuca fuori di gente interessante ogni tanto dal Santuario!” - ridacchiò Alvin.

 

Poco lontano, John osservava orgoglioso la scena, assieme a Connor dell’Indiano:

“E’ bello essere di nuovo tutti assieme dopo tre anni… o quasi.”

“Purtroppo, Connor, Jude ha scelto una via dal quale non sono riuscito a salvarlo… lui rimarrà il mio più grande fallimento.” - disse chinando il capo.

“Però io e Brutus siamo tornati.” - passò davanti a lui Eden sorridendo - “perché abbiamo imparato a credere nei nostri compagni, e in Atena.”

John lo guardò rasserenato:

“Sì… ve la caverete in questa guerra.”

Nonostante la positività del suo maestro, Connor non riusciva a rimanere quieto: ripensava alla forza degli dei di Ares,ai quali era sopravvissuto per miracolo mentre aveva visto molti uomini valorosi venire letteralmente fatti a pezzi, e sapeva che avrebbe dovuto affrontare nuovamente quel mostruoso potere divino. Fino a ché punto la fortuna lo avrebbe assistito?

 

Il primo impulso di Kypros, finita l’assemblea, fu di andare dalla sua maestra, come era solito fare un tempo nei momenti di maggiore inquietudine: la trovò in una navata di quella sorta di basilica, intenta a chiaccherare con un altro cavaliere di platino suo pari, Melas.

 

“Secondo te mi farà la proposta, finita la guerra?”

“Credo proprio di sì” - rispose Hana col suo solito sorriso dolce - “ormai siete inseparabili.”

“Il fatto è che è difficile capire cosa pensi quel cretino di Miles…”

Kypros ridacchiò ed Hana si accorse della sua presenza:
“Ah, eccoti qua, un altro eterno indeciso!”

“Io?” - disse puntandosi il dito perplesso.

“Sì proprio tu, con quella bellissima ragazza dalla chioma smeraldina…”

“Shh! Che fai, vuoi mettermi in imbarazzo davanti a tutti?”

“Come sei rosso, sembri una delle tue rose!” - lo schernì ridacchiando Melas.

“Lasciatelo un po’ in pace…” - intervenne Heracles.

“Tu lo difendi perché ci hai messo più di dieci anni per sposarmi!” - rispose Hana punzecchiandolo.

“Grazie tante, ci siamo conosciuti che eravamo due bambini!”

A quel punto risero tutti assieme, e Melas vide Miles poco lontano osservarla lieto: sapeva quanto aveva dovuto faticare per inserirsi nel mondo dei cavalieri di Atena dopo una vita passata sull’isola di Death Queen, e non poteva che essere felicissimo nel vedere un tale affiatamento con i suoi nuovi compagni d’armi.

 

Atena, ancora sul palco, osservava pensierosa i suoi cavalieri:

“Sono così affiatati…” - le si rivolse Civetta.

“Già, posso affermare senza dubbio che questo è il mio esercito più potente: non sono solo cavalieri di bronzo, oro, argento, e platino, ma amici, amanti, fratelli… Civetta, amica mia, sto pensando a questo, e mi convinco sempre più di aver commesso un errore madornale.”

“La vostra centralità?”
“Precisamente; fino a poco tempo fa, i miei cavalieri avevano una devozione assoluta, cieca… ora invece, vedo i loro cuori così grandi.”

“Però ci sono stati uomini in passato che con la vostra fede incrollabile hanno compiuto miracoli, soprattutto Pegasus…”

La dea si voltò ed afferrò delicatamente la mano di Civetta:

“Ancora mi tormento per quanto tu abbia dovuto soffrire per me e per lui…”

“Sono stata ben lieta di farlo. Tornando al nostro discorso, i vostri cavalieri forse ora hanno un cuore più grande, ma voi rimarrete sempre il loro faro, la luce che li guiderà nei momenti più bui.”

“Per quasi tutti è così.”- posò lo sguardo su Leonidas.

“Unico nel suo genere… vi confesso che un po’ mi spaventa.”

“Lui non combatte per Atena in quanto idea, anzi, lui l’ha distrutta quell’idea… lui combatte per il legame che c’è tra di noi. Possiamo dire che non ha nessuna fede, ma un puro sentimento di solidarietà verso ciò che sono stata quando ero Minerva.”

“In pratica vi vuole bene e lotterà per voi perché vi vede come una persona amica.”

“Mi vede come una persona e non come un ideale, e comunque combatte per me; forse è lui il mio cavaliere più leale, sotto un certo punto di vista.”

Leonidas si voltò e vedendo la dea sorridergli ricambiò:

“Ha un’aria così cupa che mi meraviglio ogni qual volta riesce a sorridere tanto facilmente.” - commentò Civetta.

“Spero che dopo questa guerra continui a farlo…”

“Credete si salverà?”

“Lui? Non saprei, forse ha persino più possibilità di me. Il problema sarà il dopo, quando questo palazzo che ora vedi brulicante, sarà vuoto e silenzioso…”

Ogni duecento anni Atena piangeva la perdita di quasi tutti i suoi cavalieri nelle guerre contro Ade, ma quella volta sarebbe stato diverso, poiché anche se non lo dava a vedere, in lei si stava insinuando il tarlo del dubbio: uno spettro che le mostrava lei e tutti i suoi cavalieri come una pila di corpi senza vita, e subito dopo il resto del mondo.

Su quella pila, vedeva troneggiante suo padre Zeus, re degli dei.

 

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Capitolo 3
*** Le stelle di Asgard ***


Marzo 1988, Kara:

Sapevo che avrei dovuto vestire la divina corazza di Alcor prima o poi,

ma mai avrei immaginato di incontrare dei guerrieri così incredibili da subito:

c’è Hyoga di Cygnus,un cavaliere di Atena molto legato a lady Freja,

e poi c’è quel ragazzo che non indossa nemmeno un’armatura,

ma che possiede un cosmo spaventosamente forte…”

 

Leonidas osservava il palazzo di Asgard, ed in particolare una torre, e sorrise scuotendo il capo.

“Cosa ti frulla per la testa?” - gli domandò Deneb incuriosito.

“No niente…” - rispose continuando a camminare.

La torre che stava osservando, era quella dove aveva fatto l’amore con Lambda la prima volta.

 

“Eccoci arrivati.”

Hyoga fece un cenno alle guardie ed il portone del palazzo si aprì per farli entrare;

ad accoglierli vi era, con indosso la sua armatura color ebano, Gunnar.

Il cavaliere rese i suoi omaggi a Hyoga, e dopo aver salutato gli altri cavalieri strinse la mano al nipote e gli appoggiò l’altra sulla spalla:

“Avete fatto un viaggio tranquillo?”

“Quando eviti gran parte di esso grazie al teletrasporto lo è per forza.” - rispose Leonidas sorridendo.

“Molto bene, Gunnar, dove sono gli altri?” - gli domandò Hyoga.

“Lady Hilda li sta convocando e fra breve giungeranno nella sala delle riunioni; Leonidas, Kara si sta addestrando nel campo, potresti andare a chiamarla?”

 

 

Il sole splendeva alto allo zenit, e non soffiava neanche un filo di vento; Asgard era calda, troppo calda, le nevi si stavano ritirando ed i ghiacci sciogliendo. Nonostante in quelle terre non scendesse la pioggia funesta che stava tormentando quasi tutto il mondo, il clima non era meno ostile per via di quella calura afosa che Asgard non aveva mai conosciuto.

Kara si era seduta su una roccia per riposare, e aveva cominciato a guardarsi attorno: la poca neve che era rimasta era sporca e fangosa, e la terra nuda di Asgard si stava rivelando sempre più. D’un tratto si accorse che, tra gli alberi, una figura la stava osservando, e lei d’istinto balzò in piedi mettendosi in guardia:

“Chi sei?”

La figura si fece avanti, rivelandosi un uomo slanciato, con capelli rossi appuntiti non troppo lunghi, ed intensi occhi color nocciola; aveva un volto ed un naso leggermente allungati, ed una graziosa piccola fossetta sul mento.

Indossava abiti semplici, ma del tutto fuori luogo in un posto vetusto come Asgard: dei pantaloni neri, una camicia del medesimo colore coi primi bottoni sbottonati, e una giacchetta rossa in pelle.

Kara lo studiò per alcuni istanti, poi sgranò gli occhi sbalordita:

“Non è possibile…”

L’uomo le sorrise:

“Ciao Kara.” - la salutò con voce calda ma al contempo un po’ graffiata.

“Sei proprio tu?”

“In carne ed ossa.” - rispose serrando gli occhi e scuotendo leggermente il capo.

La donna si avvicinò incredula:

“Sono passati così tanti anni. Io… credevo fossi scomparso per sempre.”

“E invece eccomi qua.”

Kara gli assestò uno schiaffo sul volto:
“Sei sparito per quasi trent’anni, e te ne esci così sorridente dal nulla?!”

L’uomo si massaggiò la guancia dolente:
“Vedo che non hai perso il tuo temperamento!”

“E tu la tua faccia da cretino…”

Kara si voltò imbronciata incrociando le braccia, e lui le si portò accanto:

“Sono contento di vedere che stai bene… so che hai passato momenti difficili.”

“Me la sono cavata.” - rispose secca.

“Non avevo dubbi.”

“Tu invece, dove sei stato Nyx?”

“Ho avuto il mio bel da fare.”

Kara si voltò, e pur tenendo le braccia ancora incrociate, lo guardò sorridendo:
“Anche io sono felice di vedere che tu stia bene.”

La osservò attentamente in volto, e lei arrossì:
“Che hai da guardare?”
“Sono passati così tanti anni… il tuo viso era già perfetto, ma adesso sei persino più bella. Il tuo corpo è cambiato, ora sei una donna; non pensavo ti avrei mai visto portare i capelli così lunghi.”

“Non ho più il fisico di quando ero una ragazzina, anche perché…”

I due si voltarono, e videro una figura con indosso un’armatura d’oro osservarli - leggermente sconcertata – e Kara d’istinto arretrò:
“Leo… sei già qui!” - lo salutò visibilmente imbarazzata.

“Ah capisco, lui deve essere uno dei perché…” - se la rise l’uomo.

Leonidas si fece avanti mettendosi – con una certa prepotenza – tra i due:
“Hyoga vuole vederti, mamma.”

A quel punto Leonidas si voltò, e con sguardo austero si rivolse a Nyx:

“Temo di non conoscervi.”

Kara si frappose a sua volta fra i due:
“Leo, lui è un mio vecchio amico, si chiama Nyx.”

I due si strinsero la mano:
“E’ bello incontrarti finalmente, stella nera.”
Il ragazzo sussultò: il modo in cui lo aveva chiamato non gli era nuovo.

“Ci… ci siamo già visti da qualche parte?”

“Ho viaggiato molto.”

Quella risposta non lo convinceva:

“Il tuo cosmo… è potente. Lo stai tenendo sopito, ma lo percepisco.”

“Nyx è un portento, da quando lo conosco ha sempre avuto questo cosmo immenso.”

Leonidas fece una breve pausa, poi parve illuminarsi:
“Tu eri nel mare di cosmo nel quale ero intrappolato…!”

“Diciamo che ti ho dato una mano ad uscirne.”

Kara guardò entrambi sbalordita:
“Nyx allora tu sapevi che lui è mio figlio?”

“No, non nel momento più opportuno per lo meno, altrimenti non avrei atteso tre anni per liberarlo; a tal proposito, ti chiedo scusa, ma se non avessi aspettato che l’energia si disperdesse un po’ nella dimensione in cui il cavaliere dei gemelli ti aveva scagliato… beh, ora non saremmo qui a parlarne, credimi.”

Kara lo guardò con un mezzo sorriso:
“Era mia figlia, sai?”

“Due cavalieri d’oro?”

“In realtà suo fratello gemello è il vero cavaliere di Gemini; lei ora indossa un’altra armatura.”

“Tre figli, e tutti cavalieri di Atena… rispondi con sincerità: te lo saresti mai immaginato, Kara?”

La donna scuoté il capo:
“Per niente.”

Leonidas gli porse nuovamente la mano:
“Ti ringrazio per avermi salvato.”

Nyx ricambiò il gesto sogghignando:
“Ma quando vuoi.”

“Un amico eh…?”

“Sì certo.”

“Nulla di più?”

Kara li divise:
“Leo ti prego, non fargli l’interrogatorio…”
“Non c’è nessun problema per me, se vuole conversare sono contento, così posso conoscerlo meglio. E poi sono felice di conoscere tuo figlio… la somiglianza è lampante! Assomiglia anche a Gunnar ovviamente, però quegli occhi…” - disse agitando l’indice verso sé stesso nella linea d’aria davanti ai propri occhi.

“E’ una lunga storia.” - rispose il ragazzo.

“Capisco. Ad ogni modo, non voglio trattenervi oltre, se Hyoga ti chiama, sicuramente è importante; manda a lui e agli altri i miei saluti!”

“Non vuoi venire anche tu? Sei sempre il benvenuto a palazzo…”

Nyx la guardò, e il suo primo impulso fu di accogliere la richiesta di quei grandi occhi corvini, ma in quel momento doveva rimanere all’erta, pertanto si incamminò verso il bosco:
“Resterò in zona. Se hai bisogno di me, fa un salto da queste parti e io ti raggiungerò.” - e detto ciò scomparve tra gli alberi.

Kara osservò il tutto in silenzio con le labbra semi aperte:

“Tutto a posto?” - le chiese Leonidas stringendole la mano.

“Sì, è solo che era davvero tanto tempo che non lo vedevo. E’ stato come vedere un fantasma del mio passato…”

Kara si voltò e guardò il figlio negli occhi sorridendo:
“Sei geloso di lui Leo?”

Il cavaliere spostò lo sguardo e arrossì leggermente:
“Io? Figurati. E’ solo che tutti gli uomini che hai amato ti hanno usata e poi se ne sono andati, non voglia che tu soffra ancora per questo…”

“Sta tranquillo, adesso ho due uomini forti e coraggiosi che so non mi abbandoneranno mai.” - disse abbracciandolo - “E uno è proprio qui con me in questo momento.”

 

Leonidas entrò nella sala delle riunioni e si sedette vicino a sua madre; sarebbe stata la prima volta che vedeva tutti gli otto cavalieri di Asgard riuniti.

Di fianco a lui, vi era un giovane uomo imponente dai capelli biondi rasati sui lati, con indosso un’armatura blu scuro:

“Tu devi essere Leonidas; è un piacere incontrarti!”

“Sì sono io, ma non credo di conoscerti…”

“Mi chiamo Fasolt, Bull è stato il mio maestro.”

“Ma certo… tu hai allenato Keith, giusto?”

“Esattamente: mi ha parlato un sacco di te. Tu e Lun siete i suoi modelli, assieme ovviamente a suo padre.”

“Era un uomo eccezionale.”

“Lo so, un esempio di virtù per ogni cavaliere che lotta per la giustizia, al di là della divinità che serve. Sono contento di essere stato suo allievo.”

“E’ grazie anche a te che lui continua a vivere.”

“Già, noi siamo la sua eredità.”

Leonidas sorrise ripensando alla sua infanzia, e ai giorni in cui si era addestrato con il cavaliere del toro.

D’un tratto, entrò una donna con indosso un’armatura scarlatta, dai fluenti capelli biondi tendenti al rame, ed un viso armonioso in cui vi erano incastonati due taglienti occhi ambrati; Leonidas la osservò incuriosito, pensando che in qualche modo assomigliasse a Lambda.

“Perdonate il mio ritardo.” - si scusò la donna prendendo posto vicino tra Gunnar e Mime.

“Tranquilla Reginn, sei puntuale, non abbiamo ancora iniziato.” - la tranquillizzò Hyoga. - “Dunque, ora che siamo tutti, possiamo cominciare.”

La riunione fu breve e di per sé non molto rilevante: Hyoga si limitò a riaffermare la reciproca lealtà tra Asgard ed il Santuario, e di come l’una sarebbe andata in soccorso dell’altra in caso di necessità.

Terminata la riunione, alcuni cavalieri si congedarono mentre altri rimasero nella sala a parlare di eventuali strategie, e dell’innaturale calura che stava affliggendo Asgard.

 

Reginn camminava lungo uno dei corridoi di Asgard, e accanto a lei Mime:
“Sempre in ritardo, maestra?” - disse il cavaliere d’argento spostandosi un ciuffo dagli occhi.

“Non prenderti tutta questa confidenza…” - sbuffò lei in risposta.

Detto ciò i due si guardarono attorno, e constatato che non vi fosse nessuno a parte loro, si nascosero in una rientranza buia del corridoio e si strinsero in un intenso bacio.

“Mi sei mancata…” - sorrise lui quasi a corto di fiato.

“Ti basta un po’ di passione e già sei così?” - lo punzecchiò lei con il medesimo tono.

Dopo un altro bacio della stessa intensità, rimasero abbracciati nel buio:

“Non ho fatto altro che pensare a te per tutta la riunione.” - le disse Mime.

“Avresti dovuto ascoltare idiota.”
“Nella guerra che sta per iniziare potremmo morire entrambi…”

“Già, ma ci penseremo quando accadrà, adesso pensiamo a noi.” - e detto ciò Reginn afferrò la mano del suo amante e lo trascinò nelle sue stanze.

 

Deneb condusse Leonidas da quello che dopo Fasolt era il cavaliere più imponente nella sala: era un giovane con un’armatura blu scuro, sulla cui spalla sinistra era raffigurata la testa di un drago, e aveva capelli lisci castano chiaro, ed occhi cerulei tendenti al grigio.

“Leo, lui è mio cugino Sigurd, ed è protetto dalla stella Dubhe.”

“Piacere di conoscerti; è la prima volta che incontro un cavaliere d’oro.” - si presento Sigurd rivelando, a dispetto della stazza, una voce gentile, tanto quanto lo era lo sguardo nei suoi occhi.

“E’ un piacere anche per me. Deneb ti ha descritto come il più abile della generazione giovane di Asgard.”

Sigurd sorrise:
“Oh non dargli ascolto, lui esagera sempre, e poi non sarò mai all’altezza di Reginn…”

Deneb tossì:
“Ma lei non è della generazione giovane…” - disse ridacchiando.

“Non farti sentire, quella è capace di strapparti il cuore a mani nude!”

Accanto a loro comparve un ragazzo con capelli turchini e occhi del medesimo colore, con indosso una corazza color avorio:
“Io sono Ingeld, comunque”
“Piacere Ingeld… noi non ci siamo mai incontrati giusto?”
“Credo che questa sia la prima volta.”
“Eppure hai un non so ché di familiare.”
“Probabilmente hai incontrato mia madre Lythia.”

“Sì, mi ricordo di lei! Come sta?”
“Se la passa bene, anche se ultimamente come vicaria di Odino ha un sacco di lavoro da sbrigare.”
“Ricordo che era molto colpita dalla mia armatura d’oro…”
Ingeld sorrise leggermente imbarazzato e si grattò la testa:
“Ecco, parecchi anni fa incontrò un tuo predecessore, e diciamo che ci fu del tenero tra loro… ma è meglio se non ne parli davanti a mio padre Frodi.”

“Fu un triangolo amoroso movimentato!” - commentò Sigurd.

“Rivedere quell’armatura le avrà dato una certa nostalgia.” - aggiunse Ingeld.

“Fu per caso durante la battaglia contro il dio degli inganni?”

“Sì Loki.” - rispose il ragazzo dai capelli azzurri.

Sentendo quel nome, fu Leonidas a fare un sorrisetto imbarazzato, ma Deneb lo tranquillizzò:
“Non preoccuparti Leo, è un nome molto comune da queste parti, non devi vergognartene.”

Leonidas sospirò sollevato:
“Capisco… dovete aver sofferto molto per quel dio.”
“Sì, ma foste proprio voi cavalieri d’oro a sconfiggerlo, o meglio, quelli di trent’anni fa.”

“Lo so, fu grazie alle armature divine… mi domando se anch’io sono in grado di ottenere tale evoluzione dalle vestigia di Leo.”
“Heracles ci è riuscito tre anni fa, tu non dovresti avere troppe difficoltà; e comunque, anche senza armatura divina, rimani colui che ha ucciso Fobos con un colpo solo.”

“Un colpo solo?” - sgranò gli occhi Ingeld.

“Puoi giurarci!” - strizzò l’occhio Deneb mettendo una mano sulla spalla dell’amico.

“Allora sono proprio contento di avere un alleato come te!” - ridacchiò Ingeld.

 

Kara osservava la scena seduta là vicino:
“Si trova bene con i cavalieri di Asgard… se fosse nato qui sarebbe sicuramente stato uno di loro.”

“Cavaliere di Asgard, cavaliere di Atena, ormai non conta più come distinzione, perché combattiamo tutti per la medesima causa.” - rispose Hyoga.

“Già, questa potrebbe essere l’inizio di una nuova epoca per tutti coloro che vogliono proteggere la Terra… spero solo se ne salvino il più possibile.” - commentò malinconicamente Gunnar.

Hyoga si alzò in piedi e si affacciò ad una finestra:
“Questi giovani cavalieri sono forti, persino più forti di quanto non fossimo io, Seiya, o Siegfried: Heracles reincarnazione del mitico figlio di Zeus, Leonidas figlio di Tifone, e Ian della vergine, il cui potere non fa che aumentare di giorno in giorno…”

“A proposito di fenomeni” - Kara parve illuminarsi - “Non indovinerete mai chi ho visto prima al campo di Marte!”

Gunnar e Hyoga si voltarono verso la donna con aria interrogativa.

“Nyx.”

“Quel Nyx?” - domandò Hyoga stupefatto.

“Sì era lui, non ho dubbi; lo ha anche visto Leo, non era un’illusione.”
“Ti ha dato fastidio?” - domandò Gunnar cercando di mascherare un certo fastidio.

“No, anzi, gli ho anche dato un bel ceffone per non essersi fatto vedere per tutti questi anni!”

“Hai fatto bene!” - rispose ridendo Hyoga.

“Intende combattere al nostro fianco?”

“Come al solito, non è facile capire cosa abbia in testa quello… però credo voglia proteggermi.”

“Arriva un po’ tardi.” - sbuffò Gunnar.

“Io però credo alla sua sincerità…”

“Meglio così” - aggiunse Hyoga - “mi sento sollevato ad averlo come rinforzo, anche se tu non sei certo una che ha bisogno di aiuto, Kara di Alcor.”

Kara sorrise, poi ripensò all’incontro di poco prima:
«Cos’hai in mente, Nyx… ?»

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Capitolo 4
*** Catabasi solare ***


O buon Appollo, a l’ultimo lavoro

fammi del tuo valor sì fatto vaso,

come dimandi a dar l’amato alloro.”

(Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso I, 13-15)

 

 

Leonidas passeggiava lungo il bastione, osservando i paesaggi di Asgard; il sole era davvero cocente, e le montagne un tempo innevate rimanevano sempre più scoperte, rivelando la loro brulla e infertile terra. D’un tratto si ritrovò davanti un uomo con indosso un’armatura rossa dai dettagli argentati: aveva fluenti capelli castani, e una barba di tre giorni, ed era un po’ più alto di Leonidas, ma con un fisico molto simile al suo.

“Buondì Hermodr.”

L’uomo si voltò sorpreso:
“Oh, ciao Leonidas.”

I due avevano già avuto modo di incontrarsi prima del consiglio, durante una precedente visita del cavaliere d’oro;Hermodr aveva una personalità malinconica di per sé, ma vedere la sua amata terra ridotta in quello stato lo faceva visibilmente soffrire.
“Perdonami, ero così assorto nel contemplare questo paesaggio, che non ho notato il tuo arrivo; fa caldo vero? So che da voi nel sud è una frase come un’altra… qua invece è normalmente una cosa incredibile. Di solito aspettiamo l’estate, quando il freddo ci dà un po’ di tregua, ma ora persino lo rimpiango.”
“Ti capisco, spero che questa cosa finisca al più presto.”

“Anch’io.”

All’improvviso, davanti al sole di mezzogiorno comparve una bizzarra macchia di forma indecifrabile ad occhio nudo. Lentamente, quell’insolita forma scura scese dal sole abbassandosi di quota, e rivelando le sue fattezze antropomorfe: indossava una lunga tunica bianca, e dalle spalle fino al collo portava un monile dorato riccamente decorato.

Fermatosi a metà tra il suolo ed il sole, impose le braccia e prese parola:
«Asgard» - la sua voce, potente e solenne, come per magia giunse in ogni angolo di quelle terre - «il vostro Dio vi ha abbandonato. Le vostre sorti non saranno diverse da quelle degli altri mortali, ma anziché annegare nella disperazione, brucerete per mano mia. Non tentate di opporvi, poiché sarà tutto inutile: i miei cavalieri della Corona fra pochi istanti si abbatteranno su di voi, e non avranno alcuna pietà, salvo darvi una morte rapida ed indolore. Pregate i vostri nomi, stringetevi ai vostri cari, per voi è appena iniziato il Ragnarok

Detto questo, calò a terra e dalle mura non fu più possibile vederlo.

 

“Ma chi era quello?” - domandò confuso Hermodr.

“I cavalieri della Corona, ho già udito tale nome…” - e dopo aver rimuginato per alcuni istanti Leonidas parve illuminarsi: “Ma certo, ho capito chi è il nostro avversario, spiegherebbe la siccità e questo innaturale calore!”
“Puoi spiegarti meglio?”

Leonidas chiuse e gli occhi e solennemente si rivolse al cavaliere:
“Apollo.”
“Il dio del Sole della Grecia?”
“A quanto pare ha allungato le sue mire fino a qui.”

Da dietro comparve un uomo con un’armatura blu dai dettagli celesti; aveva i capelli corti e grigi, con occhi del medesimo colore, ed un viso leggermente squadrato con una fossetta sul mento.

“Vali, dove sono gli altri?”
“Sigurd è qui alla roccaforte, gli altri sono in giro per la città.” - l’uomo si voltò verso Leonidas - “Hai detto che quello è Apollo?”
“Ne sono quasi certo.”
“Vado ad avvertire subito il signor Hyoga. Voi andate in città presto, se un dio la sta per attaccare, dobbiamo essere pronti al peggio!”




“Chi sei!?”
Le guardie puntarono le loro lance al viso dell’uomo con l’armatura ardesia dai bordi blu notte.
“Ah, quanta maleducazione in queste terre…”

Aveva un viso androgino e lunghi capelli scuri, ed una voce soave; tra le braccia stringeva uno strumento simile a una piccola arpa.
“Il mio requiem porrà fine alle vostre sofferenze, credetemi è meglio così…”

“Non fare un movimento!” - gli intimarono le guardie con le lame sempre più vicine alla sua gola.

Il cavaliere fece per toccare le corde del suo strumento con le dita, ma la sua mano venne bloccata da alcuni fili dorati:
“Ma…” - esclamò senza perdere la calma mentre lentamente alzava lo sguardo - “… che incredibile coincidenza.”
Mime e Reginn si ergevano impugnando i rispettivi strumenti musicali, dai quali fuoriuscivano i raggi di energia che bloccavano il cavaliere.
“Non pensavo avrei rivisto le mie sacre vestigia d’argento, dopo tutti questi secoli…”

“Ho visto troppa morte per mano dei soldati di Ares, sono qui per impedire che questa carneficina si ripeta; andatevene voi, ci sareste solo d’intralcio qui, portate al sicuro i civili!” - urlò Mime ai soldati.

 

“Chi sei, cavaliere?” - domandò bruscamente Reginn.

L’uomo sbuffò col naso e sorrise, poi d’un tratto i fili di cosmo si dispersero, lasciando i due sbigottiti:
“Volete sapere chi sono? Ebbene, cavaliere di Lyra, lo strumento che ora impugni era originariamente di mia proprietà, ti basti sapere questo.”
Mime rabbrividì:
“La lira della mia armatura è un artefatto leggendario, che si dice sia appartenuta al divino musico in persona…”
“Ma che intendi?”
“N-non può essere…” - la voce di Mime si era fatta tremolante, e le ginocchia fecero per cedere.
“Mime che succede!”

Lentamente il ragazzo si voltò e la guardò negli occhi: Reginn non aveva mai visto un simile terrore in nessun altro essere umano.
“Non abbiamo speranze, lui è l’uomo che portò la propria arte musicale a un tale livello da essere considerato da alcuni un dio.”
“Chi è costui?”

Il cavaliere sorrise beffardamente:
“Avanti, pronuncia il mio nome.”
Mime deglutì:

“Orfeo.”


 

 

“Quanta morte…” - singhiozzò il cavaliere dinnanzi a quelle decine di cadaveri, con la spada ancora intrisa del loro sangue- “Perché l’umanità non ha fatto tesoro dei propri errori! Oh, sventurati, ci volle così tanto per divenire cari agli dei, e ora voi distruggete in pochi anni un’opera di millenni. Quelle armi così scellerate, e tutta la crudeltà verso i vostri simili…”
“Hai finito il tuo monologo?”

Il cavaliere posò i suoi occhi glaciali sull’uomo che gli aveva rivolto quelle parole così sfrontate:

“Sciocco, adesso anche tu dovrai essere purificato da me, Oreste, figlio di Agamennone! Le mie mani sono eternamente sporche di sangue, perché ho ucciso la mia stessa madre…”

“Io invece sono Fasolt di Phecda, e mia madre mi è stata tolta tempo fa da un male incurabile, però le volevo bene e non l’avrei mai uccisa.”

“Tua madre è stata una donna molto fortunata, cavaliere: non dovrà vedere l’orrore di questa guerra!”

Detto ciò Oreste si lanciò con la spada sguainata su Fasolt, che impugnava le sue due asce Mjolnir pronto a difendersi.

 

 

“Hai detto di chiamarti Ettore?” - domandò perplesso Gunnar.

L’uomo vestiva un’armatura di un intenso rosso vivo, con varie decorazioni dorate che ricordavano le pianta dell’alloro; aveva i capelli castani portati corti, ed era di bell’aspetto, con il viso liscio e leggermente squadrato.

“Ettore figlio di Priamo, re di Troia, servo del grande dio Febo Apollo.”

“Gunnar…” - gli si rivolse Sigurd ancor più confuso di lui - “Ma questo non era nell’Iliade?”

“Sì, e ha detto di servire Apollo, il dio del sole…”
“Allora è lui ad aver ridotto così le nostre terre!”
“Ridotto?” - domandò ridacchiando Ettore, per poi tornare subito serio: “Questo posto era solo un cumulo di neve, abitato da uomini disperati che hanno impiegato migliaia di anni per avere una vita appena dignitosa. Ma perché continuare a soffrire… il venerabile Apollo intende radere al suolo questo regno, per farne il suo giardino su questa terra.

“Perché proprio Asgard?” - gli urlò Sigurd.

“Sono qui, non serve gridare. Comunque, Asgard è così fredda che il potere solare di Apollo non la incenerirebbe… inoltre egli trova estremamente stimolante l’idea di coltivare un giardino da zero, poiché grande è il suo amore per la natura. Ma al momento, queste terre sono aride, e occorre concimarle: insomma, devono essere nutrite.”
“Intendete dare in pasto il nostro popolo?” - domandò sconvolto Gunnar.

“Non lo sai che attorno ad un vulcano la vegetazione cresce rigogliosa? Eppure se pensi a tutta la devastazione che ha portato quella montagna fumante in precedenza, ti sembra impossibile che tanta vita: ebbene, per creare qualcosa di nuovo, bisogna distruggere ciò che c’era prima.”

 

 

Ogni cosa dinnanzi alle porte del palazzo era stata spazzata via dalle fiamme, formando un macabro corridoio di fuoco, dal quale si ergeva una figura che attaccò le guardie investendole con una spirale fiammeggiante dai palmi di entrambe le mani, uccidendole sul colpo; subito dopo le immense porte del bastione vennero sfondate e caddero facendo un pesante tonfo udibile da tutto l’ampio salone del Valhalla.

Ingeld ,Vali, Hermodr e Leonidas si misero in guardia, dinnanzi al loro avversario: aveva un aspetto nobile con un viso armonioso e capelli riccioluti a simili a giacinti, di cui avevano anche il medesimo colore violaceo. La sua armatura presentava diversi colori: verde in certi punti, cremisi in altri, nero o bianco in altri ancora. Quella corazza ricordava in un certo senso il piumaggio di un maestoso uccello; a giudicare dalla cresta sul diadema del cavaliere, il pennuto in questione doveva essere il gallo, animale sacro ad Apollo.

Il cavaliere avanzò, e notati i quattro, fece un lieve inchino e si presentò:

“Io sono Giacinto, comandante dei Cavalieri della Corona. Guerrieri di Asgard, ancora non avete compreso che la vostra è una battaglia già persa?”
“Asgard non è sola.” - sentenziò Leonidas.

“La progenie del mostro… il leone che ora serve Atena.” - ridacchiò Giacinto.
“Uccisore di Fobo!” - aggiunse Ingeld.

“Sì lo so ma, vedete, le divinità minori sono fuori portata per quasi tutti i mortali; poi ci siamo noi, uomini superiori che hanno trasceso il significato del Cosmo… dovresti sapere bene di cosa parlo, flagello di Nemea.”

“Esperienze di energia estrema.”

“Esattamente.”

“Leonidas” - gli si rivolse Hermodr - “Qua ci pensiamo noi, tu devi andare ad aiutare gli altri… noi ti raggiungeremo appena possibile.”

“Ci conto.” - sorrise in risposta il cavaliere, e come un lampo oltrepassò Giacinto e la porta.

“Impressionante” - commentò il cavaliere - “ad ogni modo, là fuori troverà solo morte e desolazione. I miei compagni stanno purificando questa città con il sacro fuoco della Corona, mentre il nostro signore Apollo si assicura che tutto proceda per il meglio.”

 

 

 

 

Leonidas sentiva il cosmo del dio del Sole propagarsi per tutta la città: non era molto diverso da quello di Ares, ma pareva più caldo, eccessivamente caldo, un’energia bollente e pervasiva, che non lasciava un attimo di tregua.

A un certo punto, mentre attraversava dei palazzi avvolti dalle fiamme qualcosa lo colpì facendolo sbalzare via; lesto Leonidas si rialzò, incolume, e si mise in guardia. Si scrutò attorno, in cerca del suo aggressore, e lo vide poggiare terra dopo alcuni istanti: una figura femminile avente lunghissimi capelli argentati, ed il cui volto era coperto da una maschera bianca dalle decorazioni turchese, con indosso un’armatura alata dai medesimi colori.

Il suo braccio era ancora carico di cosmo, ed ella subito riattaccò con dei getti energetici, che Leonidas si limitò a schivare agilmente rimanendo sempre in guardia, dando l’impressione che non stesse muovendo i piedi.

Con uno scatto il cavaliere si portò sull’avversaria e la colpì con una scarica elettrica stordente, poi si rimise con un balzo a distanza di sicurezza: immediatamente constatò che il suo attacco non aveva sortito alcun effetto.

 

“Bravo.”

 

Quell’unica parola, fredda e monocorde, fece sussultare Leonidas, il quale aggrottò gli occhi confuso.

“Chi sei?” - domandò con tono autorevole il giovane, ottenendo come risposta una risatina che rimbombava inquietante sotto la maschera della ragazza.

“Sei un cavaliere della Corona?”

“No, affatto.”

 

Quella voce.

 

“Allora parla, chi sei, cavaliere?”

“Così tanto desideri sapere la mia identità, Leonidas, figlio di Tifone?”

 

Ogni parola detta da quella voce risuonava grave nella sua testa.

 

“Ti vedo inquieto, probabilmente ti stai domandando dove hai già udito il suono della mia voce…” - ridacchiò lei.

Leonidas non rispose, limitandosi a fissarla minacciosamente.
“Puoi chiamarmi 6.”

“Questo non è un nome.”
“Altri non ne ho.”

Detto questo, la ragazza spiegò le ali e si preparò ad attaccare il cavaliere che sempre più stava cadendo preda di una lacerante perplessità.

 

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Capitolo 5
*** Requiem ***


Papà…”

Che cosa c’è piccolo mio?” - rispose pacatamente togliendosi gli occhiali.

Perché mi chiamo così?” - domandò il bimbo timidamente.

Shun chiuse gli occhi e sorrise, dopodiché chiuse il libro che stava leggendo, si alzò dalla poltroncina e si inginocchiò davanti al figlio, poggiandogli le mani sulle spalle:

Vedi, a Nord c’è una terra freddissima, dove tempo fa io, Ikki, e gli altri tuoi zii, abbiamo combattuto delle terribili battaglie con dei guerrieri molto forti, e uno di loro si chiamava come te: Mime.”

Era cattivo?”

No affatto” - rispose dolcemente - “Era una delle persone più gentili che abbia mai incontrato.”

E perché avete lottato?”

Perché purtroppo le guerre sono brutte, e portano tanto dolore.”
“E allora perché le facevate?”

Un giorno te lo spiegherò, quando sarai più grande…”

Adesso non le facciamo più, vero?”

Adesso no, le nostre battaglie sono servite anche per portare la pace.”

E Mime?”

Shun sorrise, ripensando al cavaliere dall’armatura rossa che suonava le sue dolci melodie con l’arpa:

Anche con lui abbiamo fatto pace.”
 

 

Leonidas e la sua misteriosa avversaria continuava a scambiarsi furiosi attacchi energetici: 6 volteggiava turbinando in ogni direzione alla velocità della luce, e il ragazzo zigzagava cercando di intercettarla.

Era forte, molto più forte di un comune cavaliere d’oro, ma in quelle condizioni Leonidas era a malapena in grado di tenerle testa: era necessario un cambio di stato.

6 si stava preparando ad attaccare ma, un secondo prima che potesse scattare, l’armatura del Leone prese a brillare mutando di forma, e la ragazza mascherata si rese conto di aver dinnanzi delle vestigia divine soltanto quando fu troppo tardi per fermare la propria carica; un fulmine di potenza divina la avvolse, ed ella cadde rantolando sotto quella micidiale scossa.

Leonidas la guardò per un istante, ed ebbe come l’impressione che sotto la maschera lei lo stesse osservando con occhio furente; tuttavia non indugiò oltre e, fatta tornare la sua armatura alle fattezze originali, ripartì nella sua corsa disperata verso il dio del Sole.

Mentre giaceva al suolo paralizzata, 6 malediceva il cavaliere promettendosi che non l’avrebbe mai più colta di sorpresa in quel modo.

 

 

 

 

 

 

Le armature di Reginn e Mime non presentavano grossi danni, ma il loro spirito era messo a dura prova: Orfeo si stava rivelando un avversario elegante e letale, e le sue melodie danzavano come un vento caldo ma mortifero, che faceva appassire in silenzio tutto ciò che lo circondava.

Continuava a suonare, il divino cantore, come se fosse la cose per lui più naturale del mondo; i due guerrieri invece respiravano con affanno e sentivano che il potere di quelle notte era tale che il dolore spirituale si stava iniziando a ripercuotere sul corpo, stritolando loro lentamente le viscere.

Ormai persino parlare era divenuto impossibile, e la concentrazione dei ragazzi era tale che neanche le loro menti trovarono contatto interiore, essendo ciascuna intenta a difendersi come poteva dalla musica di Orfeo, suonando senza sosta il rispettivo strumento ultima arma di difesa a loro rimasta.

“Perché vi ostinate a non cedere al mio Stringer Nocturne, allungando la vostra agonia? Però, in particolare tu, mio erede, come puoi essere in difficoltà da quello che, se sei davvero un vero cavaliere della Lira, dovrebbe essere una tua peculiare mossa?”

Orfeo scrutava austero Mime, che lentamente veniva schiacciato non solo dalle note ma da quel mesto senso d’impotenza che il suo avversario aveva ben sottolineato: lui conosceva perfettamente quelle esecuzioni musicali, e allora perché era tanto difficile combatterle?

«Ho sbagliato, ho appreso male…» - si disse in preda allo sconforto.

Allora si voltò verso la sua maestra, in cerca di aiuto:

Reginn era piegata sulle ginocchia, eppure nella sua prostrazione imposta vi era una fiera possanza che ben rispecchiava la natura indomita della ragazza; i suoi capelli dorati fluttuavano sospinti dalla brezza melodica della lira di Orfeo, mentre le dita scivolavano rapide ma aggraziate sulla sua arpa. La guerriera di Benetnasch non si sarebbe arresa e avrebbe suonato fino a che non le avessero sanguinato le dita: era la donna che amava, ma il senso di impotenza gli impediva di aiutarla.

 

Gli venne in mente suo padre, sorridente, caldo, gentile, come era sempre stato:
«Mime…» - gli disse dolcemente.

«E’ troppo forte, padre.»

«Non scoraggiarti, dentro hai un vento molto più impetuoso.»

«Un vento… impetuoso?»

«La mia nebulosa è in te.»

 

Mime iniziò a bruciare il cosmo, e attorno gli comparve un’aura che brillava di tenue luce purpurea:
“Io sono Mime” - esclamò alzandosi con la schiena dritta - “cavaliere della Lira, figlio di Shun di Andromeda, da cui ho ereditato la forza che ora userò contro di te, Orfeo!”

“La nebulosa di Andromeda… conosco la sua potenza, ma nella mia lunga esistenza ho imparato a deviare forze grezze scaturite da cosmi esasperati e incontrollabili.”

A quel punto, Reginn si mise in ginocchio davanti al cavaliere d’argento:
“Io incanalerò la tua forza, e colpirò precisa il bersaglio.”

Mime sussultò:
“E’ un potere troppo pericoloso…”
“Non c’è altro modo, non so per quanto riuscirò a sostenere le note di Orfeo, e con un’energia così dispersiva non lo colpirai mai.”

“Ma rischi di morire!”
“Non piagnucolare adesso, te l’ho detto tante volte che saremmo potuti morire in battaglia; e mentre noi titubiamo, Orfeo avanza veloce nella sua calma furia, e presto morremo entrambi!”

Il ragazzo strinse i denti, dopodiché poggiò entrambe le mani sulle spalle di Reginn, e attraverso il suo corpo vi ci infuse la forza compressa della nebulosa; senza farsi prendere alla sprovvista, Orfeo intonò una nuova melodia, più aggressiva e sincopata.

Dall’arpa di Reginn uscì una spirale rosata forte e impetuosa, la quale si scontrò con il flusso di Orfeo: le due forze raggiunsero in breve un delicato equilibrio, e sarebbe stata l’abilità del musicista a stabilire la vittoria di una o dell’altra.

Fasci di luce uscirono filiformi dalla lira di Orfeo, che andarono avvinghiandosi alla nebulosa:
“E’ giunto il momento del mio Stringer Fine, addio, valorosi guerrieri.”

La luce avanzava contaminando qualsiasi cosa vi capitasse sotto, e Reginn contrattaccò mimando la medesima mossa: anche dal suo strumento uscirono fasci di luce i quali si frapposero tra lei e il cosmo di Orfeo, ormai sempre più opprimente.

Mime si accovacciò ad abbracciò da dietro la ragazza, avvolgendole le braccia sotto il collo; appoggiò la testa sulla sua bionda chioma, e le trasmise ogni energia che gli era rimasta.

 

In quel momento la minima incertezza avrebbe determinato vita o morte:

fu Orfeo ad averla.

 

Li vide abbracciati, travolti dal suo e dal loro stesso cosmo, e la sua mente venne attraversata dai ricordi: i capelli color oro della ragazza gli rimembravano la sua amata, Euridice.

Molti cicli di vita e morte avevano attraversato i due amanti, ma il destino era sempre stato avverso, e di generazione in generazione il misero Orfeo doveva fare da guardia alla sua ancor più sventurata consorte.

Ma lui era il primo, colui che aveva iniziato, e che non poteva cambiare le cose: coloro che aveva davanti invece sarebbero forse riusciti a vincere quella tragica catena di eventi apparentemente immutabili.

La sua Euridice non c’era più ormai, e tanto era valso lasciarsi guidare da Apollo per aver almeno vittoria apparente sulla morte, ma in Mime e Reginn, lui riconosceva sé stesso e la donna che amava: prevalse dunque il più umani dei sentimenti, che ormai credeva sopito per sempre.

 

Il cavaliere della Lira sedeva sfinito, con l’armatura a pezzi ed il corpo dolorante, e tra le braccia teneva la sua maestra, priva di respiro; tanto immensa era stata la fatica, che riusciva solo a fissare col capo chino e lo sguardo sbarrato il volto esausto di Reginn. Sembrava dormire beatamente, senza dolore, con le rosee labbra serrate come i morbidi petali di un fiore.

Orfeo si erse sopra di lui, con l’armatura crepata, ma ancora scintillante, e lo guardò sorridendo:

“Siate vittoriosi, e ponete fine a questo destino crudele che ci ha legati fino ad oggi.”

Accarezzò la guancia della ragazza, trasfondendovi un’impercettibile seppur deciso impulso, dopodiché oltrepassò Mime, e cadde a terra alcuni passi dopo; come la vita abbandonò il corpo del leggendario cantore, le narici di Reginn si riempirono d’aria, e lentamente la ragazza aprì gli occhi ambrati.

Non dissero nulla, e dopo essersi scambiati un dolce sorriso persero i sensi: rimasero abbracciati e incoscienti per tutto il resto della battaglia.

 

 

Fasolt sedeva a terra col capo chino, con animo e armatura spezzate, si guardò le braccia, entrambe rotte, e poi osservò le asce Mjolnir conficcate nel suolo con la lama infranta, e fu pervaso da un lacerante senso di impotenza nel constatare che ogni sua offensiva era stata annientata.

“Non temere guerriero.” - gli si rivolse Oreste - “Adesso cesserai di soffrire.”

Il cavaliere della Corona si ergeva dinnanzi a lui con aspetto malconcio: sanguinava e diverse parti della sua armatura erano incrinate, ma era chiaro chi dei due avesse vinto lo scontro.

“Sei anche l’ultimo della tua stirpe vero? Mi sembri troppo giovane per avere figli, e se avessi fratelli ora sarebbero qui a combattere con te…”

Fasolt non rispose, ma si limitò a guardarlo, fiero, impavido e sprezzante verso la morte.

“Un guerriero fino alla…”

Oreste si arrestò e sgranò gli occhi turbato, dopodiché lentamente si girò, come se dietro di sé avesse avuto un fantasma:

“T-tu, progenie di Tifone…” - tremò il cavaliere.

Leonidas si stava avvicinando, avvolto di cosmo dorato dalle venature cineree.

“Non mi avrai mostro, non mi avrai!” - urlò Oreste caricandogli contro.

I due cavalieri si scambiarono alcuni colpi, dopodiché Leonidas caricò il suo letale Lightning Plasma, e Oreste venne avvolto da una griglia di luci folgoranti, che non gli lasciarono scampo.

 

“Ecco dunque le Erinni che mi portano via…” - e pronunciate tali parole spirò.

 

Leonidas si avvicinò all’imponente Fasolt, facendo per aiutarlo ad alzarsi:
“No” - lo fermò il cavaliere - “Ci riesco da solo…”

Si rialzò, tremando di dolore ogni volta che le sue braccia vibravano anche di poco, ma riuscì a ergersi nuovamente in piedi, seppure un po’ chino e con le braccia penzolanti.

“Lascia che ti faccia almeno della fasciature, con le ossa ridotte così rischi danni permanenti…”

Dall’apertura sulla spalla, Leonidas si strappò parte della maglietta nera che indossava sotto l’armatura, e delicatamente vi fece due tutori improvvisati.

“Adesso vai Leo, io me la caverò.”

Il ragazzo fece un cenno e lesto scattò riprendendo la sua corsa.

“Buona fortuna…” - sospirò Fasolt incamminandosi dolorante verso il mastio.

 

 

Apollo si ergeva possente su una roccia, osservando la città in fiamme, mentre i venti fumosi smuovevano la sua lunga e candida veste come un divino arazzo di purezza e nobiltà.

D’improvviso accanto a lui volteggiò una figura esile dalla bionda chioma riccioluta sbucante da un casco sui cui lati spuntavano un paio di ali con scaglie simili a piume; indossava un’armatura dorata sottile ma elaborata, che ne copriva le spalle il bacino e parte del petto, mentre ai piedi, sotto gli schinieri del medesimo stampo, calzava sandali che, come il casco, erano dotati ciascuno di una coppia di ali.

“Salute a te, Febo Apollo.” - disse poggiando a terra il bastone che impugnava: era un caduceo sottile, del medesimo colore dell’armatura, ed era avvolto da una coppia di serpenti, anch’essi color oro.

“Mio buon Ermes” - rispose il dio del Sole - “Cosa ti porta qui, nel mezzo della battaglia?”

“Puro interesse.”

“Nessun messaggio?”

“Solo un invito alla prudenza da parte del Signore dei cieli.”

“Dunque il padre Zeus dubita della mia competenza.”
“Ritiene questa tua azione superflua.”

“Si ricrederà, quando gli offrirò il vino prodotto nel mio nuovo giardino.”

“Il vino gli è un po’ indigesto, ultimamente.”

“Teme forse quel folle?”

“No, ma la sua incontrollabilità potrebbe darci delle noie.”

Apollo ridacchiò scuotendo il capo:
“Farebbe meglio a starmi alla larga, se non vuole incorrere nelle mie ire… già a lungo abbiamo mal sopportato la sua condotta inadatta a una divinità. Sai, ora che ci penso sotto questo punto di vista potrebbe essere amico di Atena, ma a differenza di nostra sorella, nutro ben poche simpatie per lui.”

“Non sei il solo, anche la madre Era non ha mai nascosto il suo malcontento per la sua presenza tra noi dodici; d’altro canto, è sempre stata ostile anche verso di noi…”

“Col tempo ha imparato ad accettare la nostra presenza, ma colei che non potrà davvero perdonare è Atena, che ha ucciso il suo amato Ares.”

“So che ha inviato uno dei suoi mastini.”

“Sì, è là da qualche parte, ma i suoi ordini erano di ingaggiare battaglia solo con i cavalieri di Atena.”

A quel punto, i due dei videro arrivare in lontananza un uomo dai capelli biondi, con indosso un’armatura di un colore metallico e opaco; impugnava una lunga spada affilata, ed avanzava con aria austera.

“Riconosco tali vestigia.” - lo salutò Apollo - “Ma tu non sei Odino, né la sua reincarnazione… ci siamo già incontrati, cavaliere?”

“Il mio nome è Hyoga; a lungo ho servito Atena, ed ora sono protettore di queste terre, e in quanto tale vesto la divina armatura del padre degli Dei.”

“Ora ricordo, fratello” - gli si rivolse colpito Ermes - “Fu uno dei quattro mortali che assieme ad Atena uccise Ade!”

Apolllo fece un mezzo sorriso a denti stretti:
“Quanta arroganza… sei sopravvissuto allo scontro con il signore dell’oltretomba, e ora sfidi nuovamente la sorte mettendoti contro di me, il divino Febo?”

Con un guizzò Apollo si portò sopra Hyoga, il quale venne travolto da un caldo vento di cosmo; riuscì a non essere spazzato via conficcando la spada al suolo ed usandola come appoggio.

“Capisco, la divina armatura di Odino non ha nulla da invidiare alle nostre, e anche quell’arma, che immagino essere la famosa spada Balmug, dev’essere fatta della medesima sostanza; in ogni caso, il tuo è il corpo di un mortale, e non mi sarà difficile spazzarti via.”

Hyoga strinse la spada e la sfoderò dal terreno, mettendosi in posizione di guardia:
«Odino, Atena, datemi la vostra forza!»

 

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Capitolo 6
*** Eroi ***


 

Homo sum, humani nihil a me alienum puto”

Sono un uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo

(Terenzio,Heautontimorumenos 77)
 

 

Ettore si ergeva troneggiante nel piazzale, ormai avvolto dalle sacre fiamme della Corona, e accanto a lui, Sigurd e Gunnar giacevano con le armature crepate e piene di buchi, sfiniti e ormai sconfitti, nonostante avessero attinto anche dall’ultima goccia di energia che avevano in corpo:

il cavaliere che avevano dinnanzi era umano, ma la sua potenza poteva tranquillamente competere con quella di una divinità di quelle al servizio dei dodici dell’olimpo.

“Siete stati avversari notevoli, avete un’ottima padronanza del settimo senso, ma servite gli dei sbagliati: se come me foste stati servitori di Febo, che sì ama i mortali, ma solo quelli forti, adesso non sareste con la faccia nel fango di questa terra decadente. Io ero come voi, e in effetti il potere che ho è il frutto della mia vita straordinariamente lunga per mano del divino Apollo e della sua medicina. Ho incontrato molti cavalieri che hanno vissuto a malapena per comprendere le basi del Cosmo assoluto e voi siete gli ultimi di questa lista, mi dispiace perché so che in questa epoca siete in tanti ad avere un simile ardore, ma come ho detto, servite gli dei sbagliati: addio. ” - e detto ciò impose le braccia al cielo, le quali vennero avvolte da turbini di cosmo infuocato. Fece per colpire i due cavalieri inermi, ma d’improvviso tutte le fiamme sparirono, domate da un gelido vento:
“Che diavoleria è mai questa?” - esclamò l’eroe di Ilio guardandosi intorno confuso.

I suoi occhi caddero su una figura argentata, con una chioma dorata, e due scintillanti occhi blu mare:

“Chi sei, cavaliere?” - gli intimò Ettore.

“Il mio nome” - rispose lui - “E’ Deneb di Cygnus.”

“Cygnus? Ho sentito parlare della tua armatura, sei un cavaliere che compare di rado nella storia… ma rimani solo un guerriero di bronzo, mentre io sono di una risma divina ben più preziosa dell’oro.”

“Questo lo so, ma io arderò tutto il mio cosmo per scalfire quelle tue vestigia insormontabili!”

Deneb si mise in guardia, ed iniziò a bruciare il proprio cosmo: in pochi attimi, raggiunse senza sforzo il settimo senso.

 

 

La sala del Vahlalla crollava a pezzi: le colonne e le statue antichissime erano state distrutte dalla ferocia di quella battaglia tra i tre difensori di Asgard e l’invasore del Sole.

Vali fece per rialzarsi, ma Giacinto scattò colpendolo con un pugno sull’addome, poi tosto si fiondò su Hermodr e lo atterrò; infine arretrò fino a Sigurd, il quale a sua volta cadde con un singolo colpo.

E come i tre guerrieri tentavano di rialzarsi, subito il cavaliere della Corona si abbatteva funesto su di loro senza arrestare quel suo moto vorticoso simile ad una danza mortale: la sua maestria nel combattimento era tale da poter affrontare uomini brucianti al massimo il settimo senso come fossero bambini inermi.

D’un tratto una sfera di cosmo improvviso diede tempo al trio di scattare indietro e mettersi in guardia a distanza di sicurezza; Giacinto si pulì impassibile la polvere formatasi sull’armatura, poiché di fatto quel colpo oltre a prenderlo alla sprovvista non aveva poi fatto molto.

Ingeld si voltò verso la direzione da cui era partito il colpo, e sconcertato vide chi lo aveva lanciato:
“P-Padre?”

Era un uomo forte e robusto, dai fluenti capelli bruni e lo sguardo austero, e non indossava alcuna armatura:
“State bene?” - disse il nuovo arrivato salutando i suoi amici ed il ragazzo.

“Sono guerrieri di Asgard, Frodi, ci vuole ben altro per spezzare il loro animo!” - disse avanzando dietro di loro un altro guerriero, il quale invece indossava un’armatura grigia dalle decorazioni cobalto.

“Frodi, Sigmund, che ci fanno due cariatidi come voi sul campo di battaglia?” - li salutò scherzosamente Vali.

“State facendo un frastuono insopportabile” - rispose Frodi - “E Lithia era tanto preoccupata per il suo bambino.” - continuò dando una pacca sulle spalle al figlio.

“Padre, non indossi un’armatura, devi andartene o le fiamme di costui divoreranno il tuo corpo!”

“Credo che non possa farmi niente di peggio di quello che ha già fatto a voi, Ingeld.”

Hermodr si avvicinò a Sigmund:
“Dove hai preso quella corazza?”

“E’ l’armatura di Grani, la indossai tempo fa quando ci scontrammo contro i cavalieri di Atena.”

“Avete finito la vostra rimpatriata?” - li interruppe bruscamente Giacinto per poi scagliarsi nuovamente sui guerrieri di Asgard.

 

La situazione non cambiò molto: certo, adesso erano in cinque e potevano difendersi meglio, ma il guerriero di Apollo sembrava instancabile e si occupava di tutti loro contemporaneamente. Vedendo che la difesa non portava a niente, taciti i cinque organizzarono un perfetto attacco coordinato: eppure Giacinto schivava e parava ogni pugno calcio o raggio di cosmo che gli veniva scagliato contro, e non ci mise molto a contrattaccare e rimettersi sull’offensiva.

“Non lo capite? Sono un uomo oltre la vostra portata, io sono prescelto dal Sole!” - esclamò turbinando su sé stesso in una spirale di fuoco violaceo che scaraventò tutti ai lati del salone.

“Lo abbiamo capito” - disse tremolante Vali appoggiato su di una colonna - “Ma non ci fermeremo, perché dobbiamo proteggere la nostra terra.”

“Dunque è amore patriottico che vi spinge a combattere?”

“Amore, orgoglio, chiamalo come vuoi…”

“Non parlarmi come se io non fossi in grado di capirlo, cavaliere, sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo.”
“Come puoi allora permettere un tale genocidio?”

“So che ai vostri occhi tutto ciò sembrerà folle e privo di senso… ma io non posso non seguire il mio Dio.”

Mentre pronunciava quelle parole, fu possibile udire per alcuni millesimi di secondo, un lieve tremolio nella vigorosa voce del guerriero che tradiva la sua apparente imperturbabilità: anche se minima, nel suo cuore vi era esitazione. Come una doccia fredda, tale esitazione destò l’austero Giacinto, il quale aveva bisogno di scacciare quel sentimento di titubanza, la battaglia doveva terminare.

Scattò col pugno caricato alla velocità della luce, ma i cavalieri non ebbero il tempo di reagire: riuscirono solo a constatare di non essere più in cinque a combattere.

Vali giaceva a terra, con un buco nel petto, e pochi metri dopo di lui, Giacinto stava chino, con il braccio avvolto dalle sue fiamme scure.

Ingeld guardò sconvolto il padre e gli altri compagni, ma sembrava essere l’unico col morale ridotto in quello stato;
“Attento!” - lo spostò di scatto Sigmund, ricevendo il calcio infuocato di Giacinto; la sua armatura finì in pezzi, ed egli ruzzolò via sputando sangue, venendo afferrato da Hermodr prima che potesse cadere.

La sua disattenzione era costata cara al compagno, e si sentiva vacillare; guardò ancora una volta il padre, non ottenendo nuovamente alcuna emozione in risposta. Allora Ingeld capì a cosa gli altri stessero pensando, e a cui lui in primis avrebbe dovuto rivolgere le sue attenzioni: dovevano vincere, per sopravvivere e salvare Asgard, e ogni esitazione li avrebbe portati sempre più lontani da quel proposito.

Con suo padre scattò in difesa di Hermodr, il quale a sua volta aiutava Sigmund a riprendersi dal colpo; la loro difesa fu fruttuosa, e il cavaliere di Grani poté riunirsi al combattimento dopo pochi istanti.

I quattro vennero rincuorati dal fatto che potessero ancora sostenere il combattimento, e ciò li ispirò in una nuova carica: tale peccato di superbia costò loro molto caro. Rallentato dal precedente colpo, Sigmund venne intercettato prima di potersi riunire con gli altri e sferrare il suo attacco, e le fiamme di Giacinto lo investirono sul fianco, cadde a terra urlante di dolore, mentre la metà sinistra del suo corpo veniva consumata dal fuoco divino, ed in breve si ritrovò privato del braccio. Smise di gridare solo quando il dolore fu talmente forte da fargli perdere conoscenza:
“Non possiamo andare avanti così…” - sospirò Hermodr, che come gli altri suoi compagni ansimava sfiatato e coperto di sudore e sangue - “Le nostre ferite non sono debilitanti, ma sono molte, e appena le sue fiamme sfioreranno i nostri corpi, tali ingiurie si infiammeranno e noi bruceremo paralizzati come Sigmund…”

“Cosa proponi?” - gli chiese Frodi serio.

“Credo tu lo sappia.” - rispose l’amico.

Frodi sorrise verso il figlio:
“Quando te lo diciamo, tu colpiscilo con tutta l’energia che hai in corpo.”

“Che intendete fare?”

“Ti diamo una possibilità: sei quello meno affaticato tra noi, e il tuo colpo lo investirà più duramente.”

“Ma come farò a ferirlo…?” - urlò mentre Frodi ed Hermodr corsero contro il cavaliere della Corona.

“Ancora non vi arrendete!” - esclamò cercando di colpire Frodi: ma al suo posto, fu Hermodr a riceve in pieno petto il pugno infuocato. Giacinto non si preoccupò di quel cambiamento e preparò il successivo attacco, ma quando fece per estrarre il pugno, i muscoli del guerriero gli trattennero il braccio:
“Stai bruciando, e le ultime forze che ti sono rimaste le spendi così? Folle, ti sei condannato a morte!”

A quel punto Frodi lo afferrò di spalle:
“Adesso Ingeld!”

Il ragazzo si sentì tremare:
“Non era una tattica, era un suicidio…” - constatò sommamente sconcertato; il colpo era carico, ma il suo braccio non voleva saperne di scagliarlo.

“Moriremo comunque, ma se non attacchi sarà stato tutto vano!”

“Non avresti dovuto esitare ragazzino…!”

Giacinto fece per liberarsi, ma sentì una scossa di dolore partire dalla gamba, sopra il ginocchio, uno dei pochi punti non protetto dall’armatura della Corona: la mano di Sigmund vi ci era conficcata.

Quell’istante permise a Ingeld di rimediare all’errore dettato dall’insicurezza, e scagliò quel fatidico colpo:
«Padre, amici, perdonatemi!»

“Non mi ucciderà un attacco così debole!”

Frodi sorrise:
“Quella è sola la miccia, il bello viene adesso.”

Il colpo giunse al cavaliere e propagandosi collegò i tre guerrieri i cui cosmi si infiammarono all’unisono:


«Addio Sigurd, proteggi tua madre.» - sospirò Sigmund.

 

«Che Asgard torni ai suoi fasti.» - pregò Hermodr.

 

Frodi non disse nulla, limitandosi a lanciare un cenno sorridente al figlio.

 

 

Deneb veniva colpito senza sosta da Ettore, i cui pugni erano sufficienti a frantumare grossi pezzi della sua armatura di bronzo.

“Sembra quasi che ti stia lasciando colpire di proposito… speri di prendere tempo?”

Il ragazzo non rispose, e con una mossa leggiadra evitò il colpo ponendosi a lato del braccio avversario, dopodiché lo avvolse in alcuni anelli di cosmo congelante, i quali però dopo pochi istanti si dispersero nel fuoco emesso dall’armatura della Corona:
“Credi che Apollo doni a noi, i suoi guerrieri più devoti, delle armature incapaci di resistere a un po’ di freddo?” - lo schernì Ettore.

Ma ancora una volta il biondo non diede nessuna risposta: nonostante la sua evidente inferiorità non aveva minimamente perso il sangue freddo, e con la sua consueta lucidità stava valutando ogni azione possibile per vincere.

Oltre alla strategia però, nella sua testa si stava facendo largo un’idea, una chiave necessaria ad aprire una porta per un potere superiore, insito nell’essenza stessa del settimo senso, che in lui non cessava di crescere.

 

Dinnanzi a Deimo e Fobo era rimasto paralizzato dalla paura, e da quel giorno si domandava cosa effettivamente avrebbe potuto fare contro quei due dei, se la sua mente non ne avesse boicottato la determinazione combattiva. Il suo avversario ora era più forte di Paura e Terrore stessi, ma lui lo stava affrontando e sentiva qualcosa oltre la sconfitta, qualcosa che era insinuato e sopito a lungo nelle polveri della sua armatura, distrutta da Tifone nel medesimo campo di battaglia dove Atena aveva sparso il suo sangue.

 

«Atena.»

 

Un pugno lanciato alla velocità della luce si infranse sul suo addome, e Deneb cadde in ginocchio.

“Mi ricordi un uomo che uccisi, e che sicuramente conosci, si chiamava Patroclo e…”

A quel punto l’armatura prese a brillare e il ragazzo si rialzò in piedi avvolto a sua volta da quella luce argentata.

Ettore subito fece per colpirlo, ma questa volta Deneb afferrò il pugno del suo nemico, come se quell’energia avesse donato nuovo vigore al suo corpo. La luce si dissolse, lasciando il posto ad una scintillante corazza alata color indaco e dalle decorazioni argentate con un residuo di quel bagliore che aveva mutato l’aspetto dell’armatura del cigno.

“Un’armatura divina…” - commentò Ettore, ritraendo il braccio; per la prima volta da tanto tempo, percepiva il freddo insinuarsi nelle sue carni.

Il biondo arretrò di scatto, dopodiché iniziò a far oscillare le braccia, come se stese inscenando una specie di danza ipnotica:

 

Diamond Dust.”

 

Ettore si rese conto solo all’ultimo la potenza di quel colpo, e con un guizzo improvviso lo scansò, restando comunque preda di quella polvere nefasta; approfittando del suo rallentamento Deneb si portò accanto a lui per colpirlo con pugni carichi di cosmo gelato, ma il cavaliere della Corona non si fece prendere alla sprovvista e contrattaccò brillantemente.

I pugni ardenti del principe di Troia faticavano a scalfire le divine vesti del Cigno, ma neanche Deneb riusciva ad aprirsi una breccia in quel mulinare di attacchi inarrestabili; vi era, anche se estremamente precario, un equilibrio tra i due combattenti.

“Sai” - gli si rivolse il biondo, fino a quel momento taciturno - “Ho letto molte volte delle tue gesta, e dentro di me speravo un giorno di incontrare un eroe del tuo calibro… ora eccomi qui.”

“Scommetto che non ero come ti immaginavi, vero?” - domandò con un affondo.

“I nostri eroi non lo sono mai.” - rispose evitando il colpo.

“E’ la paura della morte che ti cambia… oh, io l’ho vissuto un trapasso, e doloroso per giunta, e tu conosci bene la mia storia da quanto ho capito.”

“Persino Achille placò la sua furia capito l’amore che provavano per te i tuoi cari…”

Ettore ridacchiò beffardo:
“Voi uomini di questo tempo confondete fatti e fantasia: Achille era un eroe, e di natura divina, ma quando la paura che la sua fama si intaccasse lo colse, allora gli convenne che continuare a banchettare sul mio corpo non fosse la migliore scelta!”

Incalzato dai pugni e dalle parole, il cavaliere del cigno non ribatté.

“Cosa ne sapete voi degli eroi, e dell’eroismo? Io ho perso tutto per quelle cose, avevo una moglie e un figlio, e dopo la caduta di Troia la prima divenne la puttana di qualche acheo, mentre l’altro venne gettato dalle mura della città, idea di Odisseo taluni dicono, ma come ti ho già riferito, voi confondete fatti e fantasia e attribuite ruoli e caratteristiche a persone come se le aveste conosciute, idealizzandole o demonizzandole! E vi beate di questo concetto, quello degli eroi, e tutti vorreste esserlo, ma anche il vostro beniamino Achille, mio compagno nel tartaro a lungo, pianse i giorni in cui era vivo; questo però non ve lo raccontano i vostri comandanti quando vi mandano in battaglia…”

Deneb a quel punto incrociò le mani, in un gesto simile a una preghiere:

“Hai ragione, nobile figlio di Priamo, spesso anche noi cavalieri pecchiamo di superbia, ma questo non ha assolutamente niente a ché fare con la strage che stai compiendo, e non si addice al tuo lignaggio!”

Quelle parole trafissero lo spirito di Ettore come dardi scagliati dall’arco degli occhi marini del cavaliere:

“Mi piacerebbe discutere a lungo con te sulla natura dell’eroismo, ma ha ben poca importanza fintanto che i tuoi bei monologhi sono accompagnati da fiamme e morte.”

“Cosa ne sai del dovere… io ho rinunciato a tutto, e solo Apollo mi ha ridonato almeno la vita e la dignità.”

Il biondo sollevò le braccia, tenendo sempre le mani incrociate, portandole al cielo:

“Dunque le cose stanno così, sei conscio di servire un dio malvagio, ma senti di non avere altra scelta.” - disse serrando gli occhi.

“Taci cavaliere!” - e adirato il guerriero del Sole scagliò un getto di cosmo infuocato.

Deneb a quel punto aprì gli occhi e di scattò abbassò le braccia, da cui partì una carica di energia congelante: era l’Aurora Execution, il più potente colpo che il cavaliere dell’Acquario gli aveva trasmesso, e per di più ora lo stava scagliando carico del potere della sua armatura divina.

Le fiamme si spensero e l’eroe venne travolto in pieno da quella corrente impetuosa che come un torrente in piena si abbatteva su un visitatore troppo avventato.

Inginocchiato, con le braccia distese per appoggiarsi al suolo, Ettore assiderava pietrificato e tremolante:

“L-le fiamme della Corona solare… com’è possibile?!”

In quel momento l’avversario si portò dinnanzi a lui, con sguardo commiserante:

“Non voglio umiliare il tuo orgoglio…”

“Lo stai facendo molto bene.” - rispose lui guardandolo carico d’odio.

Impose le braccia e un feretro di ghiaccio si formò attorno al guerriero, congelandolo per sempre.

 

“La tua rabbia e la tua paura erano troppo grandi, perdonami non ho potuto fare nulla.”

Deneb rimase a contemplare la tomba fatta per il guerriero con cui aveva lottato, e a un certo punto sentì un braccio appoggiarsi sula sua spalla: si voltò e vide, un po’ malconcio, Gunnar.

“Hai salvato questa terra.”

“Ma non lui…”

“Non tutti riescono a farcela: Ettore voleva semplicemente rimanere vivo, ma riusciva farlo solo combattendo, e noi non potevamo lasciare che seminasse altra morte…”
“Immagino che il mondo vada semplicemente così, a volte.” - sorrise il biondo senza allegria.

A quel punto, l’armatura del cigno brillò nuovamente, abbandonando le proprie fattezze divine, e Deneb crollò esausto, venendo raccolto da Gunnar prima di toccare terra; il cavaliere di Mizar lanciò il suo sguardo verso il bastione in lontananza, notando una luce accecante provenire da esso.

 

 

Tutto il salone venne avvolto in una cupola di luce, e Ingeld si trovò scagliato fuori dal mastio tanto fu forte l’esplosione.

Cadde ruzzolante nel fango, paralizzato dalla immane potenza che aveva investito il suo corpo; si portò supino, e distese le braccia sopra la testa.

Guardò il cielo, e per un istante gli parve di non provare niente, ma poi un mare di emozione lo travolse e scoppiò a piangere.

“Fai bene a piangere, cavaliere.”

Quella voce interruppe bruscamente il suo singhiozzare, il giovane si sentì morire dentro. Ruotò il collo lentamente e con orrore apprese la realtà: parte dell’armatura era danneggiata, e aveva qualche graffio sanguinante, ma Giacinto era ancora là e si ergeva avvolto nella sua aura di fiamme purpuree.

“Era tuo padre, uno dei cavalieri appena periti, giusto? Fra poco lo raggiungerai.”

Ingeld si rialzò barcollando, rimettendosi in guardia:
“C-come può essere?!”

“Ti chiedi come faccia io ad avere tutta questa forza? Eppure la risposta è così semplice: domandati quale possa essere il più nobile sentimento per cui un essere umano possa combattere.”

Ingeld pensò alcuni istanti, poi ripensò a quel tentennamento avuto poco prima dall’avversario, e sul suo volto si dipinse un’espressione di incredula consapevolezza:

“Tu combatti per… amore.”

Giacinto fece un cenno di assenso:

“Sono più forte dei miei compagni che servono Apollo, ma non perché le mie doti combattive siano superiori, bensì perché egli mi ama in modo diverso da come ama gli altri…”

Ingeld lo osservò colpito: mai avrebbe immaginato che un dio potesse nutrire un simile amore per un mortale.

“Ora capisci? Io lotto per colui che amo, e non posso perdere.”

Il cavaliere scattò e solo imponendo il palmo la pressione fu sufficiente da scagliare via Ingeld.

«Ma certo, papà e gli altri sono morti perché non avevano capito per cosa combatteva Giacinto; non avrebbero mai potuto vincere…»

Ancora una volta, Ingeld si rialzò, e ancora una volta Giacinto si avventò su di lui, mandando in frantumi la sua armatura e scagliandolo ancor più lontano; eppure, nonostante l’ingente danno subito da quei colpi, il ragazzo si rimise in piedi.

“Sei determinato, immagino che sia perché conscio dopo la tua caduta avrò la strada spianata per la fortezza; dev’esserci qualcuno di importante per te là dentro, a giudicare da come ti rialzi…”

“Odino…” - sussurrò il giovane.

“Come?”

“Odino, dammi la forza di proteggere coloro che amo!” - urlò venendo avvolto da un’ aura color zaffiro, da cui turbinavano gelide schegge di cosmo. Il ragazzo incanalò la sua fredda energia e la scagliò turbinante contro l’avversario, travolgendolo con una tormenta di gelido cosmo.

Cessato l’attacco, Giacinto si scosse di dosso i pezzetti di ghiaccio che si erano formati sulla sua armatura:

“Non esiste ghiaccio che possa congelare le armature della Corona, esse sono protette dal Sole stesso, ardono del divino calore di Apollo; ho sentito solo un fresco venticello.”

Ingeld prese un lungo respiro, e cercò di fare ordine nella sua mente: pensò a sua madre, che sicuramente dal parapetto stava osservando lo scontro e pregava incessantemente per lui, poi a suo padre e ai suoi compagni che si erano sacrificati e avevano riposto le loro speranze in lui.

Sentì tutta Asgard in lotta per la vita e la morte, e lui sentiva di essere uno dei pilastri della prima: proprio per questo non poteva essere sconfitto.

Quasi nel medesimo istante i due guerrieri caricarono scontrandosi, ciascuno avvolto nella propria aura e nelle proprie intenzioni.

 

“Eri carico di amore, ma io lo sono di più.” - commentò Giacinto camminando oltre il suo nemico che cadde a terra esanime.

“Eppure…” - sospirò - “… la tua determinazione si è rivelata più forte: alla fine, il mio amore era troppo egoista. Eppure…” - cadde in ginocchio - “… non mi pento dei giorni felici; addio, mio Sole splendente.”

Giacinto crollò e la vita lasciò il suo corpo; subito dopo Ingeld si accasciò, ormai prossimo ad esalare gli ultimi respiri della sua giovane vita.

 

 

Hyoga stava in guardia con la spada alzata, pronto a ricevere il prossimo attacco del dio del Sole: l’armatura di Odino lo stava proteggendo a dovere, ma combattere una divinità da solo lo stava rapidamente prosciugando di ogni energia, ed era già a corto di fiato.

Poi, sollevato lo sguardo verso l’avversario, vide qualcosa che lo lasciò incredibilmente colpito: delle lacrime cristalline rigavano il volto di Apollo.

 

“Giacinto, amore mio, mi lasci di nuovo? Questa volta immagino per sempre…” - sospirò tristemente Febo per la dipartita del suo prediletto.

 

Hyoga scosse il capo stranito, e in quel momento la divinità gli parve meno distante dal dolore umano, che fino a quel momento aveva ritenuto a portata della sola Atena.

Asciugate le proprie lacrime, Apollo guardò il cavaliere adirato:

“Un motivo in più per spazzarvi via dalla faccia della Terra.”

Ora Hyoga riconosceva in lui un sentimento divino che la sua pelle aveva già saggiato: la furia vendicativa di un dio verso i mortali.

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Capitolo 7
*** Danziamo ***


I greci, che esprimono e al tempo stesso nascondono la dottrina segreta della loro visione del mondo nei loro dei, hanno stabilito come duplice fonte della loro arte due divinità, Apollo e Dioniso. Questi nomi rappresentano nel dominio dell'arte dei contrari stilistici, che incedono l'uno accanto all'altro quasi sempre in lotta tra loro, e appaiono fusi una volta soltanto, quando culmina la «volontà» ellenica, nell'opera d'arte della tragedia attica.”

F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo

 

 

Ingeld aprì lentamente le palpebre, trovandosi dinnanzi il viso in lacrime di Lithia:
“M-Madre…” - bisbigliò lui.

“Non parlare.” - rispose la donna abbozzando un sorriso tra i singhiozzi.

Le mani della donna erano appoggiate sul suo petto, e gli stavano trasmettendo un’energia benefica che a poco a poco stava curando il suo corpo, ma non il cosmo: era vivo, ma non avrebbe combattuto oltre per quel giorno.

“Papà è…”

“Lo so.”

Allungò le braccia, constatando che nella mano destra, quella con cui aveva colpito Giacinto, era assente il dito mignolo – perso per via della violenza della colluttazione avuta col cavaliere della Corona – dopodiché, recuperate forze a sufficienza, rantolando abbracciò la genitrice.

Il ragazzo portò lo sguardo in lontananza, verso il bosco al confine della città, dove poté vedere dei turbini infuocati sollevarsi minacciosi:

«Amici, signor Hyoga, ora è tutto nelle vostre mani…»

 

 

Apollo colpiva con furia implacabile, avventandosi sul vicario di Odino, il quale parava con la sua spada ed i suoi attacchi congelanti le spietate fiamme del dio; Ermes lì accanto osservava impassibile lo scontro, seduto con le gambe a penzoloni su un masso.

“Ora basta, io sono un Dio, non esiste che un mortale come te possa resistere ai miei colpi!” - sempre più infuriato, il dio del Sole caricò una gigantesca sfera di fuoco, la quale si abbatté sul cavaliere, investendolo in pieno.

Ci fu una grande esplosione, e diradatesi le fiamme, Apollo poté osservare compiaciuto il suo avversario in ginocchio nel mezzo di un cratere fumante: sul corpo di Hyoga vi erano diverse ustioni, ed il suo sguardo era sbarrato e assente, come se fosse caduto in un profondo stato catatonico.

“L’armatura ti ha salvato la vita… ma quando ti mozzerò il capo dal collo allora non ci sarà protezione che potrà aiutarti.”

Apollo avanzò e distese la mano a mo’ di lama, e poi questa iniziò a brillare di un calore incandescente:

“Addio per sempre, mortale.”

“Dio del Sole…” - disse Hyoga quasi sussurrando.

“Inutile pregarmi, non salverò la tua vita.”

“Non è questo, è che… voi assomigliate alla divina Atena.”

Udite quelle parole il dio fece una smorfia di disappunto:
“Ovviamente, essendo entrambi figli del supremo Zeus.”

“Non è solo in questo: in voi avverto un animo che non vidi né in Ade né in Poseidone.”

“Ma che diavolo vai blaterando?”

“Atena mi ha mostrato quanto fosse forte il potere dell’amore, e per un istante ho visto tale forza in voi.”
“Non osare fare leva sui sentimenti di un Dio!” - esclamò adirato afferrandolo per il collo - “Atena è una sciocca… credi mi abbia fatto piacere vederla ridursi nel corso dei millenni come una misera mortale? Lei si è attirata le ire di forze molto più grandi di sé e, per quanto mi addolori la cosa, se deve morire allora morirà, per sempre.”

“Questo conferma nuovamente ciò che i miei occhi hanno visto in voi.” - rispose Hyoga sorridendo.

Sempre più incollerito Apollo fece per calare la propria mano incandescente, ma il suo braccio rimase paralizzato, come se una scossa avesse attraversato i nervi del suo braccio: non poter muovere parte del proprio corpo, era cosa nuova e decisamente sgradevole per un dio del suo rango. Nell’istante in cui si distrasse per comprendere cosa stesse succedendo, un baleno portò via da lui la vittima designata a ricevere il colpo mortale nella sua mano.

 

Hyoga aveva i sensi annebbiati, e ci mise alcuni istanti prima di rendersi conto che era ancora vivo e non si trovava più sul campo di battaglia.

Lentamente la vista divenne meno appannata e vide sopra di sé un paio di occhi color ebano osservarlo preoccupato:
“K-Kara…”

“Riposa Hyoga, hai protetto Asgard in maniera impeccabile.”

La donna alzò lo sguardo e il biondo tentò di seguirlo roteando lentamente il collo, e vide avanzare dalla foresta un uomo vestito di una corazza dall’intenso colore rosso con sfumature purpuree; l’armatura era elegante, con decorazioni a forma di foglia sulle spalle, ed un paio di corna caprine sul diadema che coronava il capo di quella figura dal portamento elegante ed in qualche modo ipnotico.

 

 

“Non è possibile…” - lo guardò esterrefatto Apollo.

“Salute a te, Febo.” - lo salutò il nuovo arrivato accennando ad un inchino.

“Cosa ci fai qui?”

“Non sei contento di vedermi?” - sorrise sfilandosi l’elmo, rivelando la chioma fulva ed arruffata.

“Tra tutti gli dei dell’Olimpo tu sei l’ultimo che vorrei vedere, Dioniso.”

 

 

Hyoga sussultò quando riconobbe quella figura dai capelli rossi:

“Nyx?”

Kara fece un cenno con un sorriso deciso dipinto sulle labbra:
“Ebbene, il nostro Nyx è la reincarnazione di una divinità.”
“Dioniso, il dio che Atena stava cercando e di cui riteneva impossibile stabilire la fazione con cui si sarebbe schierato…”

“Infatti non ha accettato di combattere con Atena.”

“Dunque è nostro nemico?”

“No” - rise guardando il rosso con ammirazione - “Lui è semplicemente Volontà.”

 

“Che intenzioni hai, folle?”
“Non è carino appellarmi con tanta ostilità.”

“Come altro potrei chiamare un folle se non in tale maniera?”

“Pazzo, forsennato, matto, alienato, irragionevole…”

“Taci!” - tuonò il dio del Sole - “Sai bene cosa intendevo dire.

“Mmm… no a dire il vero: un folle come me non coglie le sfaccettature di un essere limpido come lo splendente Apollo.”

“Ti prendi gioco di me?” - sbuffò sempre più adirato Febo.

“Non-oserei-mai!”

“Vattene ora e fingerò di non averti visto.”
“Ma sono appena arrivato…”

“Eppure il tuo soggiorno mi ha già irritato a sufficienza!”

“Andiamo, lasciami divertire un po’, fratello…”

“Non osare chiamarmi fratello, tu bastardo del padre degli dei!”

Dioniso lo guardò confuso:
“Ma non eri anche tu un bastardo? Insomma, Era non è tua madre e questo fa di te…”

“TACI!”

Apollo distese le braccia e sulle palme delle mani comparvero due grandi sfere fiammeggianti di energia.

“Nobile Apollo”- gli urlò da dietro Ermes, rimasto fino ad allora come spettatore muto di quel pittoresco incontro - “Non avrai intenzione di scatenare una guerra contro un tuo pari rango!”

“Costui non è e tanto meno mai sarà un mio pari!”

A quel punto il dio lanciò le sfere infuocate verso l’altro suo simile, che si limitò a schivarle agilmente:
“Lenti Apollo, erano lenti questi attacchi… non ti starai rammollendo?”

Con uno scatto Febo si portò su di lui, liberandosi della propria tunica bianca, e rivelando la propria armatura: elegante e finemente decorata con dettagli scarlatti, brillava di un colore dorato e intenso come il Sole stesso.

 

Apollo scagliava i suoi colpi infuocati e Dioniso rispondeva con i suoi, brillanti di un cosmo scuro dalle tinte violacee: tanto erano luminosi gli attacchi del dio del Sole, tanto erano foschi quelli del suo rivale.

Le mosse di Apollo erano eleganti e ben coordinate, come facessero parte di una coreografia eccellente dove ogni singolo spostamento aveva la sua ragion d’essere; Dioniso invece si muoveva in maniera caotica ed imprevedibile, talvolta sembrava danzare, altre invece i suoi movimenti apparivano incontrollati o addirittura spasmodici.

E come i movimenti anche i cosmi agivano di conseguenza: quello di Apollo era limpido e ardeva potente sovrastando persino coloro che erano lontani a diversi chilometri dal campo di battaglia, mentre quello di Dioniso appariva e scompariva, serpeggiando oscuro tra le zone cieche dell’aura apollinea, carico di un’angoscia e di un potere inebriante.

 

Leonidas giunse sul campo di battaglia, che si illuminava a tempi alterni di fuochi cremisi e purpurei:

“Leo, sei arrivato…” - lo salutò Kara.

“Sì, spero non sia troppo tardi…” - disse posando il suo sguardo su Hyoga che giaceva ancora dolorante tra le braccia della donna.

“Non preoccuparti per me” - rispose il biondo - “Me la caverò, è solo che sto cominciando a diventare troppo vecchio per certe cose…”

A quel punto il cavaliere d’oro portò la sua attenzione allo scontro tra le due divinità:
“Mamma, quello non è il tuo amico, Nyx?”

“Dioniso.”

“Capisco, ora tutto ha un senso: solo un dio poteva farmi uscire dalla mia prigione di cosmo, e dal momento che l’ho visto ho percepito in lui qualcosa di oltre umano.”

Leonidas udì un lieve spostamento nell’aria e si mise in guardia: subito dopo si trovò a pochi metri di distanza dal dio riccioluto venuto assieme ad Apollo.

“Calzari alati, voi dovete essere Ermes, il messaggero divino.”

“Non rivolgerti a me con tanta confidenza, progenie di Tifone.” - lo guardò il dio disgustato.
“Avete deciso di eliminarmi?”
“No, anche se credimi in cuor mio lo vorrei tanto; mi assicuro solo che nessuno intervenga nello scontro: sono qui solo in veste di osservatore.”

“Apollo e Dioniso dovrebbero eguagliarsi nel potere, potrebbe durare più di mille giorni questa battaglia, il vostro intervento metterebbe fine alla cosa.”
“Non capisci stupido mostro, quei due hanno un conto in sospeso dall’alba dei tempi! Apollo è il dio dell’arte, della poesia, della bellezza, e tutto ciò che ha grazia a questo mondo deve renderla a lui: ha una mente brillante, tiene sotto controllo ogni cosa che prende di mira, e la sua vista è eccellente. Dioniso invece è il suo nemico naturale, poiché agisce abbandonandosi agli eventi e alle emozioni, travolto dal vortice del fato: si abbandona spesso indecorosamente all’estasi dei sensi, e la sua follia è come una piaga inarrestabile, che fa marcire le barriere della razionalità.

Per millenni il signore del Sole si è dovuto confrontare con questa forza distruttiva, e ultimamente sembrava aver trionfato su di essa definitivamente … ma a quanto pare è impossibile avere certezze di qualunque genere quando si parla di Dioniso.”

Mentre il messaggero divino rifletteva ad alta voce, lo scontro parve letteralmente infiammarsi: il cosmo di Apollo divenne così incandescente da aumentare la temperatura dell’area circostante a un punto tale che gli alberi della foresta attorno al campo di battaglia presero fuoco, carbonizzandosi sotto la furia di quelle fiamme impietose.

E nel mezzo di quel turbine fiammeggiante, Dioniso si ergeva affaticato ma possente, mentre il suo corpo veniva avvolto da lingue di fuoco divine, simbolo di una legge ancestrale al quale lui non voleva in alcun modo sottomettersi. Ma Apollo furente ignorava la potente volontà del suo avversario e lo tempestava senza sosta, non rendendosi conto che egli avanzava con una rapidità crescente:

“Sei sconfitto, Apollo.”

Il dio lo guardò, sorpreso di avercelo praticamente davanti:
“Com’è possibile… come sei arrivato fin qui?!”

“Scivolando tra i tuoi attacchi.”

“I colpi di un dio non possono essere evitati scivolandovici!”

“Dimentichi che anch’io sono un dio? Io posso comprendere ciò che hai in mente, i tuoi pensieri non mi sono oscuri come lo sarebbero per un umano, e per il medesimo motivo vedo nel tuo ordine e nella tua saggezza le tue più gravi lacune.”

“Osi forse dire che io sono prevedibile?”

“In un certo senso: la fantasia nell’attacco non ti manca, ma il tutto è riconducibile a una matrice, che ti dice sempre di agire in un determinato modo e lascia dei punti ciechi nei tuoi attacchi, poiché la tua mente ne esclude in automatico l’affidabilità. Combatti in un anello, elaborato, barocco, serpeggiante, ma pur sempre circolare.

 

Kara guardò perplessa il figlio:

“Le loro parole sono enigmatiche…”
“Stanno discorrendo sul pensiero di un dio, è solo grazie al mio occhio che comprendo almeno in parte la natura di tale dialogo; tuttavia non saprei spiegartela con parole mie.”
“Credo di capire comunque…”

Ermes lanciò loro un’occhiata sprezzante:
“Cosa possono capirne dei mortali, o peggio dei mostri, dei pensieri di un nume?”

Entrambi si limitarono ad ignorare l’ennesima provocazione del dio, rimanendo concentrati sullo scontro; quel gesto di sfrontatezza causò ulteriore disappunto nel messaggero degli dei, il quale sbuffò stizzito.

 

Nonostante l’enorme potenza sprigionata, Apollo non stava dando segni di cedimento, avendo un cosmo praticamente illimitato, ma a Dioniso questo non interessava, poiché poteva giocarsela alla pari col rivale sotto quel punto di vista: la sua mossa vincente fu un montante caricato sull’addome del dio del Sole, sferrato con una tale potenza da trapassarne l’armatura divina.

Il colpo fu così forte che Apollo rimase paralizzato ed ansimante, mentre Dioniso, nonostante l’attacco avesse distrutto la protezione e danneggiato la mano aprendo le nocche e fratturandone diverse ossa, strinse i denti e spinse il suo arto ancora più affondo, fino a raggiungere il corpo ardente pulsante di Febo.

 

Dioniso lo guardò con un sorriso beffardo:

“Danziamo.”

 

Leonidas si parò dinnanzi alla madre e a Hyoga, avvolgendoli col suo cosmo cinereo, il quale brillò colpito dalla tempesta purpurea che aveva avvolto violentemente ogni cosa accanto a sé: quel cataclisma fu tale da sgretolare anche alcune case poco lontane dal campo di battaglia, ed Ermes in persona, avvolto da una barriera color alabastro, fu costretto ad indietreggiare mentre veniva travolto dalla furia dionisiaca.

 

Ogni cosa attorno ai due dei era ridotta in cenere: gli alberi e le pietre erano stati spazzati via completamente nel raggio di diversi chilometri, lasciando il posto a una coltre di nera fuliggine.

Apollo cadde in ginocchio, e distese il collo alzando gli occhi al cielo con lo sguardo perso, mentre Dioniso si ergeva sopra di lui, col corpo fumante, ed in particolare la spalla destra, sotto cui non sporgeva più nulla:

“Meno male che sono ambidestro…” - commentò Dioniso constatando la perdita dell’arto.

 

“Hai sacrificato parte del tuo corpo per vincere…”

Il rosso si voltò e vide venirgli in contro Ermes.

“Sono cose che capitano, comunque in un modo o nell’altro me lo farò sostituire, sempre che tu mi permetta di andarmene via da qui…”
“Come ho già detto, sono solo un messaggero, ed oggi mi limiterò solo a guardare; adesso però allontanati da Apollo, e lascia che lo riporti sull’Olimpo.”

Dioniso a quel punto sbuffò ridacchiando:
“Non temere, io non voglio eliminare Febo, poiché pur essendo con lui in perenne lotta, ritengo che un dio della sua misura potrebbe comunque avere un posto nel mondo che verrà,”

“Tu dai già per scontata la caduta dell’Olimpo, ma la tua vittoria è effimera: né tu né Atena fermerete il padre degli dei.”

“Chissà…”

Ermes prese in spalla il dio a lui tanto caro:
“La prossima volta che ci vedremo, scioglitore dei sensi, non sarò così indulgente nei tuoi confronti.”

“Parli come se ti ponessi in una posizione di superiorità” - ridacchiò in risposta Dioniso - “Anche il tuo amico lo ha fatto, e guardalo ora.

Ermes gli lanciò un ultimo sguardo di indignazione, dopodiché si avvolse di cosmo e scomparve sfrecciante all’orizzonte, lasciandosi dietro un’effimera scia dorata.

 

Dioniso sospirò, dopodiché si voltò ridente verso Kara, la quale ricambiò dolcemente il suo sorriso.

Leonidas lo guardò invece con ammirazione, ma quando il dio si accorse di tale sguardo, il ragazzo si voltò imbarazzato, tornando ad avere la sua consueta espressione aggrottata.

Hyoga lentamente si rimise in piedi ed osservò mesto il bosco e la città ancora in fiamme, ma si accorse dopo alcuni istanti che la polvere piovente dal cielo non era cenere: scacciato il maleficio apollineo, le nevi poterono finalmente fare ritorno sul suolo di Asgard.






 

Postilla: 

Grazie a tutti coloro che sono giunti fino a questo punto della storia, e mi sento in dovere di avvertirvi che con questo capitolo si chiude una parte di essa; infatti, possiamo considerare questa "saga" di Asgard come il prologo del vero Atto V, che inizierà a partire dal prossimo capitolo. Tuttavia, vista l'importanza della parte finale della storia, ho preso la decisione di fare una pausa per ragionare meglio sulla conclusione... spero non richieda troppo tempo, e in ogni caso, a presto! 

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Capitolo 8
*** Un'ultima volta ***


Si vis pacem, para bellum”

Se vuoi la pace, prepara la guerra

 

Il cielo si era ormai fatto scuro, e la neve cadeva abbondante sullo spiazzo presso cui erano giunti i cavalieri di Atena, che al loro arrivo era poco più di un agro polveroso.

“Devi ripartire subito?”

“Sì, Atena ci ha convocati con urgenza al Tempio.”

Kara abbracciò il figlio, dopodiché lo guardò negli occhi:
“Ricordati che quando avrai bisogno, io verrò in tuo aiuto.”

Leonidas rispose con un cenno, dopodiché fece per tornare verso i suoi compagni: a loro si era unito Lun, appena teletrasportatosi per riportarli ad Atene.

 

“Quindi Apollo è fuggito?” - domandò il cavaliere di Cancer.

“Sì” - rispose Hyoga - “E tutto grazie a… Dioniso.”

“Alla fine si è presentato…” - se la ridacchiò soddisfatto Lun - “Beh, comunque sono contento che almeno qui stiate bene, perché al Santuario è un vero casino.”

“Atena non ha mai convocato nessuno senza una buona ragione.”

“Personalmente credo che sia meglio che voi e gli altri rimaniate qui, e che solo Leo venga con me…”

“Non c’è ancora tempo per riposare.”

“Ma voi non avete neppure un’armatura…”

“L’armatura di Odino non può proteggermi fuori da Asgard, ma sono nato come cavaliere di Atena, e anche senza la protezione delle stelle combatterò per lei, fino alla fine se necessario.”

Lun rimase in silenzio ad ammirare la fierezza di quel veterano, che pur dopo aver combattuto fino allo stremo delle forze era pronto a scendere nuovamente in prima linea: aveva conosciuto tanti cavalieri valorosi, ma nel portamento di Hyoga c’era qualcosa che lo elevava, qualcosa che si acquisiva solo dopo aver affrontato e sconfitto un Dio dell’Olimpo.

 

Tutti si radunarono attorno a Lun, e questo fece brillare il proprio cosmo, fino a ché il gruppo non scomparve sotto gli occhi di Kara.

La donna si voltò perplessa verso Nyx, che era a pochi metri da lei, appoggiato a braccia conserte sul tronco di un albero:
“Tu sai dove andranno, vero?” - domandò al fulvo.

“Sì, e ci andremo anche noi.”

 

I cavalieri giunsero ai piedi della casa dell’ariete, e subito Lambda si precipitò loro in contro sotto la pioggia:
“Va tutto bene?”

“Io sono a posto” - rispose Leo - “Ma Mime e Deneb hanno bisogno di riposare.”

“Andate subito, Atena ha richiesto la convocazione immediata di tutti i cavalieri entro dodici ore.”

Hyoga la guardò colpita:
“Dunque domattina Atena intende chiudere la faccenda…”

Mime e Deneb si congedarono, seguiti da Hyoga.

 

I tre cavalieri d’oro si rifugiarono dalla pioggia sotto il porticato della prima casa:

“Quali novità ci sono dunque?” - chiese Leonidas.

“Aster, Niche, e Kiki sono tornati dal regno di Poseidone” - rispose Lun - “Dove hanno incontrato l’uomo nel cui corpo risiede l’anima del dio dei mari, ed assieme a lui un suo generale, il cui nome era Sorrento, che a quanto pare il sommo Kiki aveva già incontrato nella precedente guerra sottomarina. Poseidone ha rivelato che come sospettavamo è lui l’artefice di questa pioggia sovrannaturale, ma che tuttavia non intende annegare l’umanità: un obiettivo ancor più sinistro si cela dietro.”

Leonidas guardò il fratello sbigottito, mentre i tre varcavano la soglia ed entrarono dentro la prima casa, allorché Lun riprese a spiegare:

“Un altro obiettivo, voluto dal padre degli dei Zeus, il quale sta accumulando il suo terrificante potere in un’unica potente folgore, da scagliare sul mondo intero.”

A quel punto Leonidas comprese:
“E tutto il potere del fulmine di Zeus sarà galvanizzato dalle acque di Poseidone…”

“Esattamente” - disse Lambda - “Il signore dell’Olimpo sta rendendo la Terra un unico grande conduttore per una saetta che, stando a quanto dice Atena, sarà così grande e potente da far sembrare la montagna più alta della Terra un minuscolo sassolino.”

“Con un tale potere Zeus potrebbe spazzare via l’intera umanità senza bisogno della pioggia di Poseidone…”

“Sì, ma qualcuno potrebbe sopravvivere… Zeus vuole assicurarsi che ogni cosa scompaia, senza lasciare traccia; Poseidone sta obbedendo al re dei cieli per ora, ma questo piano non va a genio neppure a lui, per questo ci ha rivelato tali informazioni.” - aggiunse Lun.

“Dobbiamo radere al suolo l’Olimpo, se necessario.” - soggiunse Lambda.

Leonidas fece un mezzo sorriso aggrottando gli occhi:

“Sarò ben lieto di farlo al vostro fianco, abbiamo già ucciso un dio noi tre assieme in fondo.”

Gli altri due contraccambiarono quel sorriso intrigante:
“Bei tempi” - commentò Lun - “Ora, vi lascio soli, immagino vogliate stare assieme…” - e dettò ciò il ragazzo se ne andò lanciandogli un ghigno ammiccante.

 

Lun ci aveva visto bene: come ebbe lasciato il palazzo dell’Ariete, i due ragazzi si chiusero nella stanza privata della casa, e passarono assieme la notte.

Poteva essere l’ultima che avevano a disposizione, neanche un secondo del loro amore doveva andare perso.

 

 

Mancava meno di un’ora all’appello di Atena, e Leonidas era tornato alla quinta casa per sistemare alcune cose prima di quella che aveva tutta l’aria di essere una partenza senza ritorno.

Mentre armeggiava coi suoi oggetti personali – libri e vecchie fotografie per lo più – udì dei passi arrivare dall’uscita del palazzo.

“Buongiorno.”

Ian era già bardato dell’armatura della vergine, e se ne stava a pochi metri da Leonidas, osservandolo col suo candido sorriso.

“Ian, ciao…” - lo salutò timidamente.

Nei mesi passati dal giorno in cui Leonidas era tornato, aveva già visto Ian e aveva avuto modo di scambiarci qualche parola, ma non era mai successo che i due si trovassero soli nella stessa stanza.

“Ti disturbo?” - chiese con voce mielata.

“Affatto, stavo solo mettendo un po’ a posto.”

Ian si avvicinò incuriosito:
“Oh, questi siete tu e Lun…” - commentò una foto dei due ancora bambini.

“Sì, ho molte foto della mia infanzia, Claire ci teneva a immortalare più momenti possibili prima che diventassimo grandi; e ora che ripenso a quei giorni, come mi sembra volato il tempo…”

Affermando ciò ruotò la testa, ed il suo sguardo si incrociò con gli ampi occhi cerulei del cavaliere della vergine, che lo ascoltava con un sorriso estasiato dipinto sul volto:
“Continua ti prego, sembri così felice quando racconti del tuo passato.”

Leonidas lo osservò colpito per un istante, dopodiché scuoté il capo serrando gli occhi:
“Sei cresciuto, ma non hai perso la tua gentilezza, Ian.”

Ian ridacchiò:
“Perdonami se mi sono fatto rivedere poco, e non immagini quanto avrei voluto passare il mio tempo con te, ma ho dovuto dedicarmi anima e corpo nella comprensione.”

“Comprensione?”
“Del cosmo: ho tentato di vivere ogni giorno quello che hai vissuto tu per tre anni.” - e a quel punto Ian fece un largo sorriso accattivante - “Vuoi vedere una cosa, Leo?”

Il ragazzo annuì con aria interrogativa, ed Ian gli fece cenno di voltarsi: Leonidas sussultò vedendo dietro di sé una figura femminile vestente l’armatura dorata della Vergine. Assomigliava in modo incredibile ad Ian, ma i suoi capelli dorati e lisci erano molto più lunghi:
“Leonidas, vorrei presentarti mia madre, il precedente cavaliere d’oro della vergine.”

“Tu sei… Elizabeth?”

La donna annuì, dopodiché prese parola:
“Ian mi ha parlato molto di te, sono felice di conoscerti.”

“Com’è possibile…?”

“E’ l’ottavo senso, Leonidas.” - disse Ian.

“L’ottavo senso?”
“Sì” - rispose il biondo - “La percezione oltre la morte; in questo momento siamo in una dimensione differente, a metà tra la vita e la morte, ma allo stesso tempo siamo sempre nella casa del leone.”

“Ed io come faccio ad esserci?”

“In parte lo possedevi già, in parte sto condividendo il mio ottavo senso tramite il cosmo.”

“La mia anima” - disse Elizabeth - “E’ rimasta collegata all’armatura di Virgo, per questo riesco ad essere qui col mio amato Ian. In questo mondo il tempo scorre in maniera diversa, e quelli che possono sembrare anni in realtà sono solo pochi secondi nel regno dei vivi; abbiamo recuperato parte del tempo perduto… tuttavia il fine ultimo di questa esistenza non era il riscatto della nostra famiglia, ma lo studio di un Cosmo assoluto, in grado di risalire persino alle cause prime del Big-bang.”

“Una conoscenza definitiva, che nemmeno gli dei posseggono…” - commentò Leonidas.

“Esattamente.” - rispose Ian - “Ma non è un potere facile da manovrare, anzi è talmente evanescente che lo sento scivolare via dalle mie mani in ogni momento; ad ogni modo, spero possa tornarci utile quando saremo faccia a faccia con Zeus in persona.”

A quel punto Leonidas cominciò a sentire un lieve affanno, ed Ian gli si avvicinò preoccupato:
“Perdonami, ho stimolato il tuo ottavo senso in modo improvviso e ti stai affaticando; adesso ti riporto nella nostra dimensione.”

Elizabeth prese delicatamente la mano di Leonidas:
“E’ stato un piacere conoscerti; assieme ad Ian veglierò su di te.”

“Ed io farò lo stesso per voi.” - rispose il ragazzo.

All’improvviso Elizabeth scomparve, e con lei quello strano affanno:
“Sono felice che tu ti sia riunito con tua madre, Ian.”

“Anch’io per te.”

In quel momento Leonidas sentì un profondo senso di fratellanza con lui, forgiato dalla ricerca di sé stessi nel proprio passato.

“Mi hai mostrato la luce, ed io farò di tutto affinché tu possa vedere tantissimi altri giorni splendenti.” - e detto ciò Ian si incamminò verso la casa della vergine.

 

Tutti i cavalieri erano radunati in un ampio spiazzo dietro il colle su cui erano poste le dodici case, ed osservavano esterrefatti l’immensa imbarcazione che aveva fatto la sua comparsa in quelle terre: era un imponente vascello ligneo dall’aspetto antico, eppure i suoi legni e le sue vele non sembravano rovinati dal tempo.

Sulla prua della nave comparve la divina Atena, bardata della sua armatura, ed accanto a lei vi erano Niche e Civetta, anch’esse vestite con corazze scintillanti dai riflessi argentei.
“Miei cavalieri” - prese parola la dea - “Questa che vedete è la nave della speranza, costruita con il legno di un albero divino nato sull’Olimpo. Per millenni questa imbarcazione ci ha assistito in diverse guerre, ma ora è tempo di farla tornare alla sua terra natia: essa è infatti l’unico mezzo che può trasportarci tutti quanti sul monte degli dei. Io… mi rendo conto che quella che vi chiedo di fare assieme a me è un’impresa che può apparire disperata, ma se voleste seguirmi ancora una volta, per un’ultima volta, vi prometto che non vi chiederò più un sacrificio simile. E non lo chiedo per me, né per voi, ma per tutta l’umanità, ed anche se ci ha rinnegato, noi siamo la sua ultima speranza… su di noi grava il fardello delle battaglie che nessun altro disputerà, perché per chiunque altro tali battaglie sembrano insostenibili: ma non per voi, che siete i cavalieri della speranza.”

Le parole pronunciate dalla dea erano cariche di un doloroso amore che ella non riusciva a celare, e tale sentimento fece cadere il silenzio per alcuni istanti; poi tuttavia, tutti i cavalieri si infervorarono all’unisono e cominciarono a mettersi in fila per salire sulla nave della speranza.

 

Il vascello viaggiava in una volta sconfinata dai colori cangianti, con nubi iridescenti e venti dal sapore sconosciuto; poco a poco, un picco prese forma, fino a divenire una concreta realtà di roccia scintillante.

Niche si avvicinò ad Atena:

“Dopo tutti questi millenni, la montagna Sacra non pare cambiata…”

“Mio padre Zeus è maestro nel celare gli inganni del tempo.”

“Decadenza” - rise nervosamente la dea della vittoria - “quale singolare attributo diamo al regno degli dei…”

 

La nave della Speranza scivolò lentamente sulla candida terra del monte, adagiandosi in tutta la sua possanza: una nuvola biancastra si levò, come unico benvenuto per Atena ed il suo esercito.

Era una bianca valle desertica e polverosa, con pochi arbusti e sterpaglie, cinta da una boscaglia di conifere; la volta celeste non era né chiara né notturna, ma tinta di un tenue cobalto che permetteva di vedere ogni costellazione nella propria interezza.

Alcuni cavalieri scesero utilizzando le scalette della nave, altri vi balzarono giù; John fu tra i primi a toccare terra, poiché essendo uno dei guerrieri più attenti ed esperti, voleva assicurarsi che nessuno stesse tendendo loro un agguato.

 

“Ce la fai?” - disse Connor porgendo la mano dal basso.

“S-sì… ho solo qualche problema di vertigini.” - ridacchiò André cercando di mascherare il più possibile la tensione; dotato di animo incredibilmente sensibile, era tra i più nervosi in quel momento, e la sorte si accanì nel far accadere quel che accadde proprio dinnanzi a lui.

 

John sgranò gli occhi e si irrigidì, e di scattò si voltò verso i suoi compagni:
“Al riparo!!!”

Dal bosco uno stormo di dardi di luce si abbatté funesto sul battaglione, e tosto Lambda e Kiki imbastirono un gigantesco muro di cristallo; tuttavia alcune frecce erano riuscite a passare prima della formazione dello scudo.

 

André vide Connor cadere davanti ai suoi occhi, con un dardo conficcato nella tempia, e tremolante scese e prese il compagno tra le braccia; lo osservò con sguardo sbarrato, senza dire nulla, paralizzato dal dolore e dalla paura.

Sentì d’un tratto una mano sulla spalla:
“Dobbiamo andare.” - disse Miles.

“M-ma Connor…”

“E’ andato.” - constatò il ragazzo, con la medesima espressione sbarrata, traditrice della sua perturbazione interiore.

André ridacchiò senza allegria, ed un’idea si fece largo in lui, mutandosi presto in una mera constatazione:
“Moriremo tutti qui, vero?”

“E’ possibile.”

 

Atena aveva infine condotto i suoi cavalieri ai cancelli del destino.

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Capitolo 9
*** La dea della guerra ***


 

Corporis exigui vires contenere noli”

Non disprezzare le forze dei piccoli

(Catone il censore, Distici 2,9)

 

Lo stormo di dardi parve placarsi, ma Lambda e Kiki lasciarono il muro ancora attivo.

 

“Atena” - tuonò una voce femminile dal tono imperioso.

 

Una donna comparve dinnanzi alla barriera: aveva una riccioluta chioma argentata, ed indossava un elegante abito bianco, bardato nella parte superiore da un’armatura color metallo.

 

“Io sono Callisto” - si presentò lei, seguita da un gruppo di arciere con una corazza simile alla sua, ma più scura e meno elegante.

 

“So bene chi sei, comandante delle guerriere satelliti, al diretto servizio di Artemide, mia sorella.” - rispose la dea portandosi sul ciglio della barriera per parlarle a faccia a faccia.

“Il gesto che state compiendo è quanto di più grave non si sia verificato negli ultimi millenni, o forse nella storia intera, e il concilio dell’Olimpo intende condannarti a morte assieme all’umanità che ami tanto; tuttavia la magnanima Artemide è disposta ad intercedere e a cercare di convincere il padre Zeus a salvare la tua vita, a patto, naturalmente, che tu ci offra in cambio quella di tutti i soldati che ti sei portata dietro.”

 

La dea rimase per un attimo in silenzio, poi fece una risata che stupì persino i suoi stessi cavalieri:

“Hai la minima idea di chi hai di fronte, Callisto?”

La donna la guardò confusa da quell’improvvisa spavalderia:

“Nell’Olimpo ci sono due dei che gestiscono la guerra, mio fratello Ares, ed io, e ora lui non c’è più, lo sai che significa?”

“Atena, le erinni vi hanno forse reso folle?”

“Affatto, i folli siete voi. Il padre Zeus e gli altri dei sono certamente potenti, ma i vostri eserciti crolleranno sotto il mio, e quando ciò accadrà non vi renderete nemmeno conto di come una tale disfatta sia stata possibile, e i sommi olimpici dovranno scendere in campo a sporcarsi le mani, chiedendosi come abbiano potuto essere così sciocchi.”

Callisto si allontanò indignata:
“Mi avevano detto che eravate una dea nobile, ma la vicinanza con gli uomini vi ha reso arrogante, pagherete caro il dolore che state arrecando alla divina Artemide.”

 

A quel punto Niche e Civetta si avvicinarono alla dea:
“Siete certa che una provocazione del genere sia stata una buona mossa?”- le si rivolse Civetta preoccupata.

“Ha fatto bene” - rispose Niche con un sorriso compiaciuto - “Artemide è estremamente orgogliosa, ed è una pecca piuttosto comune tra gli dei; l’unico di cui dobbiamo preoccuparci, è il gran capo… dico bene?”

“Nessun dio è una minaccia da prendere sotto gamba, ma tanto temo mia sorella, quanto sono certa che le sue competenze belliche non vadano oltre la caccia.” - e detto ciò Atena si voltò, lanciò un segnale a Chiron.

“Molto bene” - gridò Sagittarius - “Ognuno in formazione.”

Chiron, Jun, Alexander e John, si misero accanto alla dea, e ad un suo cenno si dispiegarono, venendo ciascuno seguito da diversi gruppo di cavalieri.

Leonidas guardò Kalos confuso:
“Non preoccuparti” - lo tranquillizzò il fratello - “Sono le manovre pensate apposta da Atena, tu eri ad Asgard e non potevi saperne nulla.”

“Io cosa devo fare?”

“Tu sei con me, nella divisione sul retro.”

“E gli altri?”

“John guiderà un’avanscoperta con i cavalieri in grado di generare scudi, come Lambda; ai lati Alexander e Jun aggireranno il nemico con una ventina di guerrieri a testa, e dall’alto Chiron guiderà un’unità aerea. L’unità frontale indietreggerà, e le ali schiacceranno il nemico, attirandolo verso di noi, che guidati da Atena daremo il via a un massiccio attacco energetico.”

Leonidas si guardò attorno, constatando che con loro erano rimasti i compagni dotati del maggior potenziale offensivo diretto:
“Capisco, noi dobbiamo…”

“Fare piazza pulita.”

 

Chiron aveva radunato con sé Aster, Ikki, Civetta, e Niche, e insieme si stavano apprestando a spiccare il volo, quando sopraggiunse Deneb:
“Aspettate, posso darvi una mano anch’io.” - e mentre lo diceva, le ali dell’armatura del cigno si dispiegarono.

Ikki lo guardo con un cenno di assenso:
“Facciamolo venire con noi, le ali di Cygnus sono vigorose, le ho già viste all’opera in passato.”

“Molto bene” - disse Chiron - “Stacci dietro.”

Deneb annuì e il gruppo si librò in aria, pronto a fornire supporto aereo.

 

 

Sul campo di battaglia giunsero dei soldati con corazze celesti, decorate da diversi pendagli verdi e blu, ed un elmo con un vistoso cimiero dai medesimi colori.

Il battaglione avanzò, scontrandosi con la barriera dei cavalieri di Atena, i quali dopo un’iniziale resistenza, iniziarono ad arretrare.

Dal fondo della vallata dove si stava svolgendo la schermaglia, il comandante dell’esercito nemico si godeva lo spettacolo; era un uomo forte e robusto, con fluenti capelli castani e un mento prominente, e la sua armatura era la più sgargiante di tutte.

Un soldato si fece avanti:
“Generale Issione, l’attacco va come previsto, le truppe di Atena arretrano.”

“Avevi dubbi?” - sbuffò lui abbozzando un sorrisetto - “Una vile marmaglia di uomini abbandonati dagli dei non può nulla contro noi crestati, l’élite dell’Olimpo.”

“Quali sono gli ordini?”

“Continuate ad avanzare: li butteremo giù dal monte, sarà uno spettacolo spassosissimo!”

Mentre Issione se la rideva, la situazione prese una piega inaspettata, o meglio, la piega che Atena aveva previsto: le ali sorpresero l’armata ai fianchi intrappolandola in una morsa che impediva loro di arretrare.

Issione indossò lesto il suo elmo:
“Richiama tutte le truppe, dobbiamo ristabilire il controllo!”

La verità, di cui non si capacitava, è che non lo avevano mai avuto.

 

I crestati cadevano sotto i colpi delle unità laterali, ma questi dovettero ripiegare quando le Satelliti, rimaste fino ad allora in retrovia, ripresero a tartassarli con le loro frecce imbevute di cosmo; l’unità di protezione si spezzò in due ed andò in difesa di un’ala e dell’altra.

A quel punto, l’unità di sfondamento fece la sua comparsa, rappresentata dal solo cavaliere dei gemelli:

“Indietro.” - intimò ai suoi compagni, che rimasero in disparte.

Si accertò che nessuno dei suoi fosse rimasto, e trovandosi oltre un migliaio di crestati caricarlo, distese le braccia, bruciò il cosmo, e lanciò l’attacco che si diceva fosse in grado di distruggere le stelle: Galaxian Explosion.

 

Issione e la seconda metà dell’esercito stavano raggiungendo i compagni rimasti chiusi nella morsa, quando videro una luce in lontananza, e subito dopo vennero travolti da gigantesche meteore di cosmo incandescente; assieme a loro, anche una parte delle satelliti venne travolta da quell’attacco incontenibile.

 

Il campo era sgombro, e dei nemici che avevano subito direttamente il colpo non era rimasta che polvere: Leonidas osservò sbalordito il fratello che si ergeva come unico vincitore sul campo di battaglia.

“Di che ti meravigli” - disse Loki mettendogli una mano sulla spalla - “Anche in te scorre il suo stesso sangue.”

“Sì, ma avevo sempre sentito la voce che Gemini fosse un cavaliere potentissimo, e vederlo in azione è stato… strepitoso.”

“Ricordati che i gemelli sono sempre due, e io sono l’altra.” - rispose la ragazza sorridendo compiaciuta.

 

Kalos si voltò verso Atena:
“La via è libera.”

La dea lo ringraziò, e i cavalieri ripresero ad avanzare.

“Che ne sarà della ali?” - domandò Leonidas a Miles mentre marciavano.

“Se riusciranno a sconfiggere le satelliti, ci ricompatteremo sulla via verso la cittadella degli dei.”

“E una volta lì inizieranno i veri guai…” - aggiunse un cavaliere con un’armatura che ai due non era nuova.

“Perdonatemi, non ci siamo ancora presentati, sono Nicola del Delfino.”

“Ah…” - commentò Miles.

“Sono a conoscenza della brutta avventura che il mio predecessore nonché allievo Jude vi ha fatto passare, e vi chiedo scusa, per quel che vale ora.”

“Figurati.” - rispose Leonidas.

“Comunque c’è una crepa sul diadema che proprio non riesco a riparare… c’entri qualcosa tu?” - gli chiese ridacchiando.

“Temo di sì.”

“Fai sempre danni Leo” - sospirò Keith - “E’ una fortuna avere un tank del genere in squadra.”

“Ma un tank non fa danni…” - lo corresse Leonidas.

“Non ho la minima idea di cosa stiate parlando.” - aggiunse Nicola confuso ma leggermente divertito.
“Niente, Keith gioca troppo ai videogiochi.”

“Ma sentilo, mister un tank non fa danni!”

 

“Guarda come se la ridono…” - commentò seccato Heracles dalla fila dietro.

“Lasciali fare” - gli rispose Hana - “Se è quello il modo che hanno per stemperare la tensione…”

“Sarebbe meglio rimanessero concentrati sulla battaglia.”

“Sarà lunga e snervante, dobbiamo approfittare di momenti simili, tenere il morale alto è un fattore che può essere decisivo per una battaglia.”

“Già, immagino sia per questo che un’ala sia guidata da Jun.”

“Perché, non pensi sia in grado di guidare una truppa?”

“Non per una manovra così delicata, più adatta a uno come Alexander.”

“Già, lui è quello che viene comunemente definito un genio…però guida l’altra ala, chi poteva dunque essere la sua controparte?”

“Una persona c’era, e tu sai bene di chi parlo.”

“Ma lui non può, ha la mia stessa maledizione, come potrebbe guidare dei cavalieri se non può neanche combattere al loro fianco?”

“Eppure sono convinto che Kypros sia l’unica persona abbastanza intelligente da poter competere con Alexander…

 

L’ala sinistra, quella guidata dal cavaliere di Aquarius, avanzava senza sosta, e in poco tempo riuscì a sopraffare le Satelliti, costringendole alla ritirata. Silen e Miia si avvicinarono al cavaliere di aquarius:

“Perdite?” - domandò secco mettendosi in marcia.

“Nessuna, ma alcuni sono rimasti feriti, hanno bisogno di una pausa.” - rispose Silen.

“Non c’è tempo, dobbiamo ricompattarci, se il nemico tornasse coi rinforzi saremmo un bersaglio facile.”

Lambda si fece avanti:
“Se manteniamo un passo costante nessuno rimarrà indietro e i feriti avranno un po’ di tregua.”

Alexander si mise la mano sul mento e rimuginò per alcuni istanti:
“Cerchiamo comunque di non rallentare troppo.”

Razionalmente avrebbe voluto continuare con l’idea iniziale di uno scatto verso le file centrali, ma da comandante si era reso conto di dover sopperire anche ad altre necessità ai fini della vittoria.

 

 

Jun e gli altri cavalieri si stavano riposando in uno spiazzo: combattere le satelliti era stato molto duro, e non tutti erano usciti incolumi dal conflitto.

Tsuru gli si avvicinò:
“Dovremmo ripartire.”

“Lo so, ma hanno bisogno di tregua.”

A quel punto giunse John, e il cavaliere della Bilancia gli si rivolse preoccupato:
“Qual è la situazione?”

“Cinque dei nostri sono feriti, due in modo grave; Racoon dell’Orsa minore non ce l’ha fatta…”

“Maledizione!” - imprecò Jun - “Cercate di dare i primi soccorsi ai feriti, e date una degna sepoltura al nostro compagno… fra dieci minuti però dobbiamo ripartire.”

 

 

 

Dal suo candido palazzo che svettava nella città dell’Olimpo, la dea della luna scrutava l’orizzonte coi suoi occhi ametista.

“E’ successo, sorella.”

Dolci note di arpa fendevano l’aria, ma non giungevano all’orecchio turbato della cacciatrice; indossava un chitone bianco, simile a quello che era solita portare Atena, bardata dalla cintola in su con una sottile ed elaborata corazza indaco dalle rifiniture argentate.

“Pensare che le ho anche offerto un ramoscello d’ulivo…!” - si voltò Artemide adirata.

Apollo era intento a suonare, steso su un morbido divanetto, con fare noncurante:
“Te l’ho detto, ormai nostra sorella è irrecuperabile, e non solo perché ha insudiciato la sua persona stando a contatto con gli umani… no, lei ha scelto di circondarsi di mostri come la progenie di Tifone, o folli dissennati…”

“Come stanno le tue ferite?”

“Fanno male, ma guariscono in fretta.”

Artemide gli si sedette accanto e lo accarezzò delicatamente sul ventre, dove aveva ricevuto il colpo di Dioniso:
“Se quel maledetto oserà mostrarsi qui io…”

“Non affrontarlo.”

“Cosa?” - domandò sorpresa.
“Non da sola… insieme potremmo farcela, ma il suo potere non faceva che aumentare durante il nostro combattimento, e anche se era esausto quasi quanto me, ho avuto la sensazione che fosse diventato ancora più forte durante e dopo la battaglia.”

Apollo le accarezzò la bionda chioma dai riflessi argentei, dopodiché ritornò a suonare il suo strumento:
“Pensi ancora che Atena possa venire risparmiata?”

“Se sarà necessario, fratello, porrò io stessa fine alla sua vita.”

“Le tue sono parole forti… ma meglio di me sai che in una guerra contano più i fatti.”

“Dubiti forse della mia lealtà?”

Apollo ridacchiò sbuffando:
“Sei così permalosa…”

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Capitolo 10
*** L'ira dei cieli ***


Deum namque ire per omnia,

terrasque tractusque maris caelumque profundum”

Ma un dio penetra in ogni cosa,

nelle terre e nei tratti di mare e nei cieli profondi

(Virgilio, Eneide 4, 221-2)

 

 

La regina dell’Olimpo camminava nervosa tra le colonne marmoree del suo sfarzoso palazzo, tanto che il lungo tappeto rosso del salone cominciava ad apparire sgualcito.

“Mia signora.”

Udendo quella voce Era si voltò:

“Issione, si può sapere che sta succedendo?”
“Atena, ci ha teso un’imboscata…”

“Non dovevate essere voi a tenderle un’imboscata?!”

L’uomo si appoggiò a una colonna: perdeva sangue, e respirava con affanno:
“Abbiamo perso molti uomini, e i feriti non fanno che aumentare… persino le satelliti sono state falcidiate!”

“Brutto idiota, stai insudiciando il palazzo!”

“Perdono, ma temevo di non vedervi mai più…”

Era si avvicinò e con le dita gli afferrò le labbra, dopodiché si avvicinò bisbigliando:
“Non è questo il luogo né il momento, Issione!”

Lo lasciò con uno scatto brusco e lui si rimise in piedi:
“Torna sul campo di battaglia e combatti come il vero uomo che sei, dopodiché avrai il tuo premio…”

La dea gli accarezzò l’ampio torace, e delicatamente lo fece indietreggiare verso l’uscita:
“Sarà fatto, mia signora.”

Rimasta sola, Era si sedette sul trono pensosa.

 

 

Jun stava passando tra i suoi cavalieri dicendo loro di star pronti a rimettersi in marcia, quando notò Tsuru, defilata tra alcuni alberi.

“Ehi, che succede?” - le si rivolse preoccupata il cavaliere d’oro.

“Niente…” - si rialzò lei abbozzando un sorriso; era pallida e sudava.

“Hai la febbre?”

“No, solo un po’ di nausea… forza andiamo.”

“Non sforzarti se…”

Prima che potesse finire la frase una sensazione lo travolse pietrificandolo, e lo stesso accadde poco dopo per tutti i presenti.

Il gruppo alzò lo sguardo, vedendo arrivare dal cielo delle sagome alate in rapido avvicinamento:

“Una punizione divina sta per abbattersi su di noi…” - commentò Jun preparandosi a combattere.

 

 

“Le barriere stanno per cedere!” - urlò Lambda.

“Va bene” - disse Alexander rivolgendosi ai suoi compagni - “tutti pronti per la contraerea!”

Il muro di cristallo cadde infine in frantumi, eduna ventina di guerrieri alati si abbatterono su di loro come feroci avvoltoi.

A parte quelli d’oro, i cavalieri di Atena faticavano a respingere gli attacchi dei loro aggressori: non avevano mai affrontato nemici tanto potenti.

In mezzo alla schermaglia, Lambda si vide attaccata da una misteriosa figura femminile, l’unica di tutto il gruppo ad avere il viso coperto da una fredda maschera.

 

“Finalmente ti ho trovata…!”

 

Lambda eresse all’istante un Crystal wall, ma l’avversaria lo mandò in frantumi sfiorandolo appena, e lesta le assestò un diretto, che tuttavia riuscì a parare incrociando le braccia:

“Ti ammazzo…” - ridacchiò cavernosa sotto la maschera.

Lambda la colpì con un attacco energetico ravvicinato, e nella confusione riuscì a balzare all’indietro e a rimettersi in guardia:
“Parli come se ci fossimo già incontrate… chi sei?!”

La guerriera alata scoppiò a ridere:
“Il leone non ti ha parlato di me?”

“Tu devi essere 6, presumo…”

“Già, e tu sei solo una copia!”

 

Una copia.

 

Quella parola rimbombò senza sosta nella testa della ragazza.

“Che diavolo vuoi dire?”

“Dalla faccia sconvolta che hai fatto credo che sotto sotto tu stia cominciando a intuire, ed è un vero peccato, poiché dovrò ucciderti; di noi ne rimarrà soltanto una!”

 

Grandi mura diafane troneggiavano imperiose attorno alla sacra città degli dei. Da lontano, nella boscaglia dove Atena ed i suoi si erano appostati, era possibile vedere una parte rialzata di quella città divina, su cui sorgevano immensi palazzi marmorei cinti da massicci colonnati: l’Acropoli, la dimora fisica degli dei.

Atena attendeva pazientemente scrutando la città, cercando di capire quale sarebbe stata la migliore strategia per penetrarvici; d’un tratto ecco giungere dal cielo una figura alata familiare.

“Civetta, quali novità porti?”

“Nobile Atena” - disse planando - “le ali sono state attaccate, e la nostra unità aerea si è divisa per dare loro supporto, solo io sono tornata per aggiornarvi.”
“Da chi siamo stati attaccati?”

“Dagli angeli.”

Atena si fece truce:

“Non pensavo che il padre scendesse in campo così presto… potrebbe essere un problema.”

“Cosa faremo se gli altri non torneranno?”
“Dovremo tentare comunque, più rimaniamo qui fermi più aumenta il rischio di venire accerchiati.”

 

 

Chiron piombò alle spalle di Jun, difendendolo da un attacco nemico:
“Non ho mai visto nulla di simile!” - commentò il cavaliere della bilancia.

“Questo è un assaggio della potenza di Zeus…”

“Costoro sono dunque suoi uomini?”

“Non soltanto…”

Con un balzo il sagittario si riportò in cielo, incrociando il proprio arco con la lancia di uno di quegli angeli, il quale durante la schermaglia si ritirò di proposito, lasciando Chiron dinnanzi ad un angelo di aspetto incredibilmente regale: la sua armatura era più scintillante ed elaborata, e sul suo elmo sporgevano una coppia di corna taurine, argentee come il resto dell’armatura.

“Quell’arco ha attirato la mia attenzione… sei tu per caso colui che chiamano Sagittario?”

“Sì, il mio nome è Chiron.”

“Non tanto l’arco ma la freccia che brandisci hanno spesso impensierito mio padre ed anche i suoi fratelli, se fossi io, Epafo, a portargliela, avrei discrete possibilità di divenire il suo prediletto, almeno per qualche tempo…”

Chiron sorrise, e caricò l’arco con la freccia dorata:
“Se tanto desideri codesta freccia, te la spedirò senza troppi complimenti!”

“Attento mortale, non sai che un attacco rivolto a un dio è come uno sputo al cielo? Ti si ritorcerà contro.”

“E che mi dici di un mezzo dio?”

Epafo lo guardò con un sorrisetto a metà tra l’indignazione ed il divertimento:
“Sciocco…”

Caricando il suo cosmo, Chiron tese al massimo la corda dell’arco, e in un baleno scoccò la sua temuta freccia verso l’angelo.

 

Si udì un boato e Jun fece appena in tempo a vedere precipitare il suo amico avvolto dalle fiamme celesti di Epafo; cadde così velocemente che non ebbe il tempo di vedere dove fosse caduto, e anche se fosse riuscito a saperlo, in quell’istante era troppo impegnato nel combattimento per andare a soccorrerlo.

 

Epafo stringeva trionfante la freccia di Sagittarius, ammirandola compiaciuto, dopodiché posò lo sguardo sulla figura dorata che dal suolo lo scrutava minaccioso:

“Un altro soldato d’oro desidera morire per mano del figlio di Io?” - ridacchiò beffardo, scendendo lentamente di quota.

 

 

Aster sfrecciava nel cielo affrontando i figli di Zeus, e così Ikki, bardati entrambi delle proprie vestigia divine; gettarono un occhio al cavaliere della bilancia, il quale faceva ardere il proprio cosmo al punto di far mutare la propria armatura d’oro in una loro pari grado, pregando che fosse sufficiente per resistere fino al loro arrivo.

 

«Non ce la faccio.»

Eden continuava a scavare, ma ogni volta che usciva dal suolo per attaccare quegli angeli erano l’ ad attenderlo e doveva ritirarsi all’istante; cercò allora di riunirsi ad Alphard ed Atos, nel tentativo di fortificarsi in una difesa comune. I tre fratelli si guardarono attorno, vedendo come i loro compagni cadevano sotto gli impietosi colpi degli angeli, e si domandarono come loro, tre miseri guerrieri di bronzo, potessero competere con nemici che persino i cavalieri d’oro faticavano ad affrontare; in tutto questo cercavano anche la sorella, di cui avevano perso le tracce all’inizio della schermaglia.

Quando videro di essere completamente accerchiati, si resero conto che era giunta la loro fine; prima che tuttavia i colpi divini potessero ingiuriarli, si trovarono circondati da una spessa ghiacciaia, la quale cadde in frantumi ma permise loro di uscire praticamente indenni dalla raffica.

Ed ecco scendere dal cielo il cigno che bruciava il suo cosmo al limite del settimo senso; la sua armatura lampeggiava, assumendo per brevi istanti le sue fattezze divine.

“Costui” - disse Eden rivolgendosi ai fratelli - “ha ormai oltrepassato non solo il limite del bronzo, ma anche quello dell’oro.”

 

 

Silen si voltò, percependo quel gelido cosmo appena giunto sul campo di battaglia:

“Deneb, ma quando sei diventato così forte?”

“Non distrarti.” - le disse Alexander - “un avversario degno di nota è appena giunto dinnanzi a noi.”

Planava leggiadro, con la sua armatura, assai più splendida di quella degli altri; aveva occhi taglienti e truci, e fluenti capelli biondi che ondeggiavano lievi, sospinti dal vento.

“Cavalieri di Atena” - si rivolse loro con autorevolezza - “avete osato mettere piede su questo sacro terreno, e per di più come invasori! Io, Sarpedonte, vi sterminerò con le mie mani.” - e detto ciò sguainò una spada dal medesimo colore argenteo della sua armatura.

Silen e Alexander si misero in guardia, preparandosi ad affrontare quel nemico il cui cosmo spiccava tra le file di avversari già di per sé estremamente ostici.

 

Niche guardò verso il basso, e fece per correre in soccorso dei cavalieri, ma un attacco la costrinse a virare per riprendere quota, e si trovò così davanti al nemico che aveva lanciato tale attacco: aveva un aspetto ferino, con canini appuntiti, e capelli arruffati color argento.

“Arcade, non pensavo ti avrei visto così vicino ad un altro dei prediletti del padre degli dei.” - lo salutò la dea.

“Il tuo nome dovrà essere cambiato, perché hai deciso di combattere in una guerra dove vedrai tutto meno che la Vittoria!”

“Rozzo e banale come sempre; mi domando come tu faccia ad indossare un’armatura tanto aggraziata.”

“Quest’armatura è in onore di mia madre, Callisto, la valorosa donna che guida l’esercito di Artemide!”

“So benissimo queste cose; sai che è venuta ad accoglierci a nome della dea lunare al nostro arrivo?”

“Mi domando come sia possibile che siate ancora in vita in tal caso; ma non c’è problema, rimedieremo io e gli altri miei fratelli!” - gridò per poi gettarsi contro la dea alata.

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Capitolo 11
*** Stella salente ***


“Chi in una lotta non ha nessuna speranza di vincere o è manifestamente inferiore,
vuole tanto più che la sua maniera di lottare venga ammirata.” 
F. Nietzsche, Umano, troppo umano (379, Vanità di lottatore)


“Perché Atena teme tanto costoro?” - domandò Leonidas, più pensandolo ad alta voce che per porre una vera domanda.
Fu Civetta, la quale si trovava fortuitamente accanto a lui in quel momento, a rispondergli:
“Finora avete affrontato nemici che avevano uomini e donne al loro sevizio, ma gli angeli di Zeus sono tutt’altra cosa: essi non sono soltanto servitori, ma anche figli.”
“Figli di Zeus?”
“Sì esatto.”
“E quanti sono.”
“Più di cento.”
Tutti i cavalieri a quel punto rabbrividirono preoccupati:
“C-cento semidei?” - domandò Miles perplesso.
“Sì, e ognuno di loro è molto più forte di un cavaliere d’argento, ma non è tutto: alcuni sono tanto più forti anche di divinità come quelle che servivano Ares. Vi sono infine quattro tra questi la cui potenza arriva quasi  a quella degli dei: essi sono Epafo, Sarpedonte, Arcade, e Ganimede.”
Atena giunse tra le fila:
“Dobbiamo avere la forza di sconfiggerli tutti, perché se non ne siamo in grado, allora non possiamo neppure presentarci al cospetto degli Olimpici.”

“Non ti servirà a nulla presentarti davanti a nostro padre se sarai sola.”

Tutti si voltarono all’istante mettendosi in guardia, pronti a combattere contro chiunque fosse giunto dalla foresta.
Leonidas sospirò sollevato, vedendo quelle due figure familiari:
“Dunque ci siete anche voi…”
Kalos andò in contro alla genitrice:
“Madre, cosa ci fai qui sull’Olimpo?”
“Accompagno questo dio pazzerello…” - rispose ridacchiando.

“Dioniso…” - lo salutò perplessa Atena.
“Saranno secoli che non ci vediamo! Che mi racconti?”
“Scusa, non sono proprio del tuo stesso umore.”
“Ah lo capisco, sei sempre stata così zelante…”
“In ogni caso volevo ringraziarti per aver salvato Asgard.”
“Ah figurati, è stato un piacere.”
“Nyx…” - lo salutò Hyoga.
“Ehilà, vecchio mio, vedo che ti stai rimettendo; però un uomo della tua età non dovrebbe stare sui campi di battaglia… chi glielo va a dire a Freja poi, se ti accade qualcosa?”
“Ma se abbiamo la stessa età?”
“Sì, ma io sono un dio!” - rispose facendogli la linguaccia.
Leonidas osservò il braccio del dio, notandone la ricomparsa:
“Vedo che hai rimediato ai danni subiti contro Apollo.”
“Questo?” - disse sollevando l’arto e muovendolo un po’ - “Me l’ha fatto Efesto… o meglio, io ho usato il cosmo, lui me l’ha rimodellato in questa forma.”
“A tal proposito, hai sue notizie?” - gli domandò Atena.
“Niente che tu già non sappia, immagino.”
“Intende ancora scendere in campo solo qualora le sorti volgano visibilmente in nostro favore…”
“E’ più di quanto tu possa sperare da un dio che acconsente alla tua ribellione.”
“E tu?”
“Io sono pazzo lo sai…” - sorrise compiaciuto.
A quel punto il suo sguardo si posò su Loki, che se ne stava in disparte nelle ultime file:
“Tu!” - urlò indicandola - “Dico a te, la moretta là in fondo.”
Loki ruotò imbarazzata lo sguardo senza dire niente:
“Non sarai mica la sorella di questi due?”
“Sì, lei è mia figlia Loki, perdonala, non ama essere al centro dell’attenzione…” - gli disse Kara facendogli abbassare il braccio - “Quest’altro invece è Kalos.”
“Leonidas, Loki, Kalos… ora penso di averli incontrati tutti e tre! Che bello…”

Loki notò Melas e Hana che ridacchiavano accanto a lei:
“Che avete?” - chiese irritata.
“N-niente… moretta…” - rispose Melas tentanto di soffocare le risa.
“Ma pensa te…” - sospirò mettendosi le mani in faccia.
In quel momento Heracles si separò da loro ed andò in contro ad Atena.

“Ma tu guarda, Eracle in persona… anzi in reincarnazione!” - lo salutò Dioniso.
“Salute, dio notturno; Atena, posso parlarvi privatamente?”
La dea acconsentì ed i due si misero in disparte.

“Perché non mandiamo soccorsi alle unità laterali?”
“Dobbiamo rimanere compatti…”
“E quindi li lasciamo morire?”
“Heracles, capisco che tu sia in pensiero per tuo fratello, ma in questo momento ci servi qui.”
“Sarei veloce, potrei sistemare quei bambocci in men che non si dica, e riporterei le ali qui sane e salve.”
“Non dubito che tu sia in grado di affrontare gli angeli, ma pensi di risolvere in breve uno scontro con i Dioscuri? O Sarpedonte? O magari Ganimede?”
Heracles rimase sgomentato in silenzio:
“Se le cose volgeranno al peggio mi serve la tua potenza per penetrare nella città sacra.”
“Come faremo a entrare? Le mura sono ciclopiche, scalarle è impensabile, e in quanto a durezza solo un dio potrebbe scalfirle…”
“Ho la chiave.”
“Come?”
“Efesto ha progettato quelle mura; ci sono porte di cui solo lui conosce l’ubicazione, e mi ha dato la chiave per una di esse.”
“Punti tutto su quella porta?”
“Sì, ma dentro la città saremo praticamente in trappola, dovremo assolutamente andare all’Acropoli.”
“Chi controlla l’Acropoli…”
“Controlla la città.” 
“Esatto, ma sarà presieduta dai guerrieri più forti… senza contare Zeus e gli altri dei.”
A quel punto il cavaliere d’oro rimase in silenzio, meditabondo.
“Ti prego Heracles, ho bisogno di te…”
“Ed io non ti volterò le spalle.”


“Colpo del drago nascente!”
Jun lanciò il suo colpo centrando in pieno Epafo, il quale tuttavia sembrò non esserne minimamente scalfito:
“Che tristezza” - disse l’angelo schernendolo, mentre si spolverava le spalle - “speravo che un’armatura divina fosse una degna sfida, ma mi rendo conto che un mortale ha pur sempre i suoi limiti…”
Ignorando le sue parole di beffa, il cavaliere d’oro si gettò nuovamente contro di lui, ingaggiandolo nel corpo a corpo:
“Denoti una grande conoscenza delle arti marziali, non c’è che dire, ma il fatto è che io sono semplicemente più forte e veloce di…” - e a quel punto un buon pugno dritto sul volto del semidio, il cui elmo balzò via, rivelandone la fluente chioma bruna; immediatamente dopo, seguì una raffica di colpi, ma in breve Epafo riuscì a ristabilirsi e a respingere Jun con una violenta esplosione di energia.
“Forte quanto vuoi, ma con la guardia bassa anche uno come te è vulnerabile.”
“Non osare prenderti gioco di me!”
Il cosmo del semidio si infuriò e tutti i presenti si ritrovarono attraversati dalle scosse di quell’energia smodata: in particolare, Jun, che gli era di fronte, si ritrovò completamente paralizzato.
“Ora ti restituirò con gli interessi quel che mi hai appena fatto…!”
Epafo iniziò a tempestare il cavaliere con i suoi pugni micidiali: l’armatura divina resistette per un po’, ma sotto il peso di quegli attacchi iniziò a incrinarsi.
“Ti credi al sicuro là sotto, vero? La tua corazza è forte, ma la mia è simile, e anche se è meno resistente i suoi pugni lanciati con la mia potenza sono abbastanza forti da farla a pezzi!” 
All’improvviso un getto di cosmo colpì il collo del semidio, che illeso e adirato si voltò per vedere chi avesse osato scagliarlo:
“Piccola mortale…”
Tsuru si ergeva, con il braccio ancora teso per l’attacco lanciato, e in evidente affanno.
“T-Tsuru, vattene…!” - le intimò Jun, il cui viso era ormai una maschera di sangue.
“Devi tenere molto a questa donna… la ucciderò davanti a te!” 
Buttò a terra il cavaliere d’oro, e sghignazzando si avvicinò alla sua compagna: iniziò a colpirla con piccoli dardi di cosmo, dopodiché, quando fu sufficientemente vicino, prese a colpirla con calci e pugni.
“No fermati!” - gridò Jun disperato.
“Sei anche una bella donna, sarebbe un bel peccato rovinare il tuo corpo.”
Fece un cenno con la mano, e l’armatura d’argento andò in polvere, e distruggendo parte dei vestiti della ragazza - : “Ho deciso, prima di ucciderti ti violenterò.”

Il cosmo di Jun esplose d’improvviso, ed il cavaliere si rialzò furente con gli occhi adombrati da una sinistra luce bluastra: si portò di scatto sull’avversario e lo colpì sull’addome, dopodiché gli assestò una serie di colpi carichi di rabbia accecante.
Ma nonostante l’impetuosità di quei colpi, Epafo riuscì nuovamente a rimettersi in guardia e a contrattaccare, rimettendo Jun all’angolo:
“E’ inutile, per quanto ci provi non sarai mai al mio livello… rassegnati, questo posto sarà la tua tomba!”
Epafo riprese a colpirlo ancora più violentemente di quanto non avesse fatto prima, ma nonostante la potenza dei colpi del nemico, Jun non cadeva, mosso unicamente dalla furia; ben presto si rese tuttavia conto che anche quella si sarebbe estinta prima o poi. 
I suoi compagni erano tutti impegnati nei vari combattimenti, e lui era l’unico ormai in grado di difendere Tsuru: motivo più che sufficiente per utilizzare quell’unica che tecnica che gli avrebbe permesso di vincere.

Lesto come un lampo si portò dietro al semidio, stringendolo a sé:
“Che fai sciocco, mi attacchi alle spalle? Un trucchetto tanto banale non ti permetterà di sopravvivere!”
Jun iniziò a bruciare il suo cosmo ai limiti estremi, e lanciò un sorriso a Tsuru:
“Mi dispiace tanto che non ci sia altro modo…”
La ragazza capì all’istante quel che aveva in mente, e sconvolta fece per alzarsi, cadendo tuttavia sotto il suo stesso peso:
“N-non farlo!” - lo implorò con le poche energie che le erano rimaste.
Il cosmo del cavaliere aveva iniziato ad avvampare come una fiamma celeste, e a quel punto anche Epafo cominciò ad impensierirsi:
“Cos’hai in mente, mortale?!”
“Ti regalerò un’esperienza unica, figlio di Zeus: sto per raggiungere la pienezza del drago nascente!” - dopodiché si rivolse, mantenendo il suo sorriso rassicurante, un’ultima volta a Tsuru: “Porta i miei saluti ad Atena, a Miles, e a tutti gli altri, ed abbi cura del frutto del nostro amore.”
“Fermati Jun!”
A quel punto egli poté concludere la tecnica.


Soren levò lo sguardo, vedendo una colonna di luce celeste che partiva dal suolo e che sfrecciava sempre più veloce verso il cielo: in essa vi riconobbe il cosmo bruciante del cavaliere della bilancia.
In quel momento, tutti sul campo di battaglia, angeli compresi, rimasero in soggezione dinnanzi a quella figura di luce che solcava la volta come un stella, la quale invece di cadere sembrava stesse risalendo nello spazio infinito.
«Questa è dunque la tecnica ultima di Lybra: un colpo invincibile, che richiede tuttavia un prezzo infinitamente caro…» - pensò Soren mentre vedeva scomparire tra le stelle l’amico.


Atena sussultò, e posò il suo sguardo verso il cielo in lontananza:
“Addio, valoroso cavaliere di Lybra…”
Tutti i cavalieri si alzarono in piedi, e Miles fra tutti si portò vicino alla dea per osservare meglio la scena; Melas lo abbracciò, e in quel momento fu l’unica a vedere, sotto la sua consueta imperturbabilità apparente, l’enorme amarezza presente all’interno del suo cuore.


Tsuru stava in ginocchio nel campo di battaglia, paralizzata dalle ferite e dal dolore per la perdita di Jun; tutt’attorno a lei la battaglia infuriava, ma fortunatamente i nemici erano impegnati dagli altri cavalieri.
D’un tratto, vide scendere dal cielo la figura dorata dell’armatura della bilancia, la quale aveva riassunto l’aspetto originario e si era disposta in forma totemica: quando si posò davanti a lei, Tsuru non poté fare a meno di abbracciare in lacrime quell’armatura dorata piena di crepe, che era ciò che rimaneva del suo amato.
Poco dopo dal cielo precipitò qualcos’altro, e nel suo cuore si sollevò un briciolo di speranza, ma bastarono pochi secondi per mutare quella speranza in terrore:

“M-Mortali…!”

Epafo si rialzò lentamente barcollando: era coperto ovunque da pesanti abrasioni sanguinanti, e non riusciva a tenere aperto l’occhio destro.
Le sue ali, assieme a buona parte della corazza, erano andate in frantumi, ma ciò nonostante, sembrava non aver perso la voglio di combattere.
“Vi ucciderò tutti” - disse zoppicando verso Tsuru - “e tu sarai la prima!”
La ragazza tentò di rialzarsi in guardia, ma i danni precedentemente subiti la intrappolavano al suolo inerme, e non poté far altro che osservare il semidio furente giungere inesorabile.

“Muori, dannata…”

Un dardo di luce fendette l’aria.

Tsuru osservò la freccia dorata trafiggere il petto del suo nemico, il quale sconvolto si voltò lentamente per vedere chi l’avesse scagliata:
“Questo è per quello che mi hai fatto prima…”
Il cavaliere del sagittario si ergeva coperto di lesioni ma possente, ed impugnando il proprio arco; un’ala e parte del torso attorno alla spalla destra erano andati in frantumi, e sull’armatura vi erano dappertutto diverse incrinature.
“Che siate tutti maledetti…” - disse Epafo prima di spirare definitivamente.
Chiron si avvicinò a Tsuru, e le porse una mano per aiutarla a rimettersi in piedi:
“Non c’è più…” - singhiozzò la ragazza abbracciandolo.
“Avrei” -  sospirò con lieve affanno il sagittario - “tanto voluto prendere un’ultima tazza di tè con lui…”


Lambda e la sua avversaria continuavano ad attaccarsi senza sosta: come una colpiva, l’altra parava con barriere di energie, e poi viceversa passava all’attacco. Nella forma le loro tecniche presentavano differenze, ma nella sostanza si presentavano identiche, se non addirittura bilanciate.
C’era tuttavia negli attacchi di 6 una furia apparentemente sconosciuta a Lambda, un’ira silenziosa e costante che si declinava in un cosmo carico d’odio, ed in quel momento tale cosmo si stava riversando tutto su di lei.
“Cosa ti spinge a tanta foga?” - domandò la guerriera dorata in un momento di studio reciproco.
“Tra le tante ragioni, in questo momento tu sei la principale!”
“Eppure continuo a non capire, cosa posso averti fatto?”

“Tu” - disse scattando lesta in un turbinio di ali - “mi hai preso tutto!”

Il cavaliere dell’Ariete schivò il colpo e riuscì a contrattaccare con una lama formata dalla stessa energia del Crystal Wall: l’avversaria la oltrepassò, rendendosi conto poco dopo di essere stata colpita.
A quel punto 6 si voltò per non darle le spalle, ed in quel momento una linea di luce attraversò la maschera dall’alto verso il basso, dopodiché si aprì una fessura, ed infine la maschera cadde divisa in due parti.

“No…” 
“Guardami.”
“Come può essere?” 
“In qualche modo è, 7.”
“Io non mi chiamo così, io sono Lambda!”

6 esplose in una risata fragorosa, dopodiché si fece nuovamente seria e la guardò con sguardo austero:

“Noi siamo Lambda.”

Lambda non riusciva a smettere di fissare incredula quel volto,  completamente identico al suo.

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Capitolo 12
*** Cuore di ghiaccio ***


Lo spettacolo deve continuare,

dentro, il cuore mi si sta spezzando ,

il truccò si starà sciogliendo,

ma il mio sorriso ancora resiste

(Queen, The show must go on)

 

 

 

 

“Ma tu chi sei?” - chiese Lambda con voce tremula.

“Dovresti chiederlo a te stessa, piuttosto che a me.” - rispose l’altra - “Ad ogni modo, devo toglierti quella faccia, mi dà sui nervi…”

6 scattò nuovamente verso la sua avversaria, ma questa la bloccò afferrandola in volo: alzò lo sguardo, e vide che l’armatura stava mutando di forma, avvolta in una luce dorata.

“Un’armatura divina…” - sorrise compiaciuta 6, spingendo col corpo nella speranza di oltrepassare le difese di Lambda; il tutto si risolse con un’esplosione che scagliò entrambe lontane l’una dall’altra.

“Il bello viene ora!” - ridacchiò l’angelo.

 

“No, ora la faccenda finisce.”

Le due si voltarono, e Lambda si sollevò vedendo Deneb bardato della propria armatura divina:

“Tsk” - borbottò 6 - “Due cavalieri divini, che seccatura…”

“Tre.”

Giunse infine Lun, anch’egli con le vestigia di Cancer nella loro forma più potente.

6 grugnì adirata, si guardò attorno e spiegò le ali:
“Perché dovrei sprecare tante energie nell’affrontarvi, quando fra poche ore sarete quasi tutti morti, lascerò il resto del lavoro a Sarpedonte e ad Arcade; tu però” - si rivolse a Lambda - “cerca di rimanere viva, cosicché possa essere mio il piacere di ammazzarti!”

L’angelo scomparve in un baleno di luce iridescente:
“La lasciamo andare?” - domandò Lun.

“Adesso dobbiamo aiutare gli altri.” - rispose secco Deneb.

“Va bene; Lambda, ma chi era quella?”

“Io… non ne ho idea.”

“Ce ne occuperemo più tardi; andiamo, Silen e Alexander hanno bisogno di noi!”

 

I due guerrieri divini affrontavano Sarpedonte, colpendolo con continui attacchi scarlatti, e raffiche di gelido cosmo; l’angelo tuttavia, non solo schivava la maggior parte di quei colpi, ma incassava come se nulla fosse i pochi che arrivavano.

“Atena ha benedetto le nostre armature col suo sangue” - commentò Silen con affanno - “eppure non basta per combattere questo mostro…!”

«Ragiona» - si disse Alexander - «deve pur aver un punto debole, nessuno è invincibile.»

Eppure, per quanto ci rimuginasse, non riusciva a trovarvi nessun difetto, non a quel livello: quel semidio era semplicemente troppo potente per loro.

Silen a quel punto osservò giungere Deneb, Lun e Lambda, rasserenandosi non poco alla vista di quelle tre armature divine:
“Questo ribalta completamente le cose…” - disse mentre sul suo viso si dipingeva un sorriso di sfida.

Udendo ciò Sarpedonte scoppiò a ridere e scosse il capo divertito poggiandosi una mano sulla fronte:
“Qualche tempo fa cinque sciocchi, con armature del vostro stesso calibro, affrontarono Ade… pensate che abbia cambiato qualcosa? Erano inermi contro di lui, e se non fosse stato per Atena non sarebbero mai e poi mai riusciti a sconfiggere il signore dell’Oltretomba! Ora, io non sono certo potente come lui ma, e non lo dico per vantarmi, la mia forza è comunque quella di un dio… che speranze avete, voi mortali?”

In quel momento tutti e cinque scagliarono i loro colpi contro di lui, investendolo in pieno: dapprima si limitò a pararli con disinvoltura, ma poi si rese conto che la loro intensità andava aumentando, e dovette iniziare a bruciare il proprio cosmo, ed utilizzarlo per respingere quella carica.

“Non ha senso, i colpi rivolti a un dio dovrebbe rimbalzare, perché questi invece non solo giungono a destinazione, ma mi arrecano anche danno?!”

Ignorando l’avversario Alexander si rivolse a Deneb:

“Niche sta affrontando un avversario dello stesso livello del nostro… è una dea, ma scontrandosi con un suo pari potrebbe uscire danneggiata dallo scontro, e a noi serve ogni oncia della sua potenza: vai a darle man forte.”

Il ragazzo annuì, e spiegate le ali del cigno si librò in aria, sotto gli occhi scandalizzati di Sarpedonte:
“Voi, non solo mi affrontate, ma ritenete di poter fare a meno di un vostro compagno per battermi, quando invece avreste bisogno di un esercito intero?!”

Alle spalle del semidio comparvero lampi di luce stellari, ma appeno questi si voltò accorgendosene, subito dagli altri tre lati giunsero la cuspide scarlatta, la polvere di diamanti, e l’Onda infernale dello Tsei-She ke.

Sarpedonte disperse l’onda, evitò la cuspide ed incasso la polvere, rimanendo per un istante paralizzato, mentre lo Stardust Revolution di Lambda lo accerchiava, chiudendolo in trappola: infine, dall’alto, tutti e quattro i cavalieri d’oro si lanciarono in una carica discendente, avvolti del loro cosmo bruciante.

“Guai a voi…!”

L’esplosione fu tanto grande da sbalzare via tutti i presenti: abbassatasi la polvere, sul campo di battaglia rimaneva solo Sarpedonte.

La sua armatura era danneggiata, le ali cadevano a pezzi, ed egli stesso pareva provato, a giudicare dalle abrasioni e dal respiro affannoso:

“Fratelli… sono stato oltraggiato!”

 

Udendo ciò, due angeli intenti a combattere abbandonarono i rispettivi scontri e si precipitarono in suo soccorso: uno era alto, robusto, e con una barba ispida e nera, l’altro aveva un aspetto più minuto, ed un volto liscio costellato da vitrei occhi azzurri.

A trovarsi ingaggiati in duello con la coppia di semidei furono Alexander e Lun, che vennero separati dalle loro compagne le quali si trovarono nuovamente in una posizione di svantaggio contro Sarpedonte, nonostante le ferite di quest’ultimo.

 

Nel cielo, la dea della vittoria ed il suo avversario continuavano a scornarsi con violenza, colpendosi lesti per poi subito indietreggiare e preparare una nuova carica:
“Che c’è, sei stanco?” - disse Niche con fare provocatorio.

“Come osi…” - rispose Arcade adirato, ma in evidente situazione di inferiorità.

La scontro si stava rivelando duro anche per la dea, ma era ormai chiaro chi di loro alla lunga ne sarebbe uscito principale.

 

“Nobile Vittoria.”

 

Niche si voltò e vide Deneb planarle accanto:
“Cygnus, che ci fai qui, non dovresti aiutare gli altri?”

“La situazione è sotto controllo, sono venuto ad aiutarvi.”

“Tsk… aiuto, io?”

“Perdonatemi, ma è più consono per ora che sia un cavaliere come me a combattere; voi dovete mantenere le energie per dopo.”

“Quindi pensi di potermi sostituire in battaglia?”

“N-no, non intendevo affatto dire questo… è solo che combattendo al vostro fianco posso agevolarvi il lavoro!”

“Sarà… vedi di non intralciarmi.”

Deneb si preparò a combattere, sospirando per quanto fosse difficile il carattere di quella dea così diversa dalla mite Atena; eppure, stando a quanto ne sapeva, tra le due correva un legame sorale indissolubile.

 

Alexander e l’angelo barbuto si scambiavano furiosi colpi alla velocità della luce, e quest’ultimo pareva divertito dallo stile di combattimento del cavaliere:
“I tuoi ghiaccioli sanno far male… chissà se con essi riuscirai a ferire me, Lacedemone di Taigete!”

Il laconico acquario non rispose, concentrato come sempre sul piano da attuare in quella battaglia.

“I tuoi modi scortesi non mi piacciono, presentati almeno! Cosicché io sappia il nome dell’uomo che mi sta tenendo testa con così tanta maestria, prima di seppellirlo.”

“Alexander di Aquarius.”

Con uno scatto il ragazzo si portò di fianco al suo avversario, il quale tentò di colpirlo, ma lui riuscì ad arretrare e a riportarsi in tempo in una posizione sicura; ripropose quell’approccio diverse volte, tutte culminanti con il suo allontanamento. Dopo un po’, spazientito dalla situazione, Lacedemone decise di caricare a propria volta: il suo scatto fu talmente veloce da non lasciare possibilità ad Alexander di schivarlo, e tanto potente da incrinare la sua armatura divina all’altezza del diaframma, lasciandolo senza fiato. Il cavaliere ruzzolò per molti metri prima di fermarsi, ed impiegò diversi secondi prima di riprendersi dallo shock di quel colpo, tanto intenso da fargli vedere le stelle:
“Non per vantarmi, ma tra i figli di Zeus io posseggo una forza fisica molto temuta; se non avessi indossato quelle vestigia divine, ora saresti certamente morto.”

Il semidio si mise dinnanzi ad Alexander, con il pugno carico di cosmo per dargli il colpo di grazia: poco prima che lo potesse sferrare tuttavia, Alexander scattò e gli afferrò una caviglia.

“Cosa speri di fare, mortale?”

“Micro-congelature…”

“Come?”

“Ti ho fatto tante micro-congelature, lungo tutto il corpo.” - disse con un mezzo sorriso in volto - “Tanti piccoli punti, che insieme formano una mappa, o se preferisci, un domino… ed ora io sto per attivarli tutti contemporaneamente.”

“Non osar-”

Con un guizzo il corpo dell’angelo si coprì completamente di ghiaccio, e subito dopo Alexander si alzò in piedi, e lo colpì con il suo colpo più potente, l’Aurora Execution, e in un istante il possente Lacedemone si sbriciolò in mille frammenti di ghiaccio.

 

Alexander si tastò dolente il torace, conscio che probabilmente gli si era incrinata qualche costola; poi gli venne da tossire, quando e si sentì in bocca il sapore inconfondibile del sangue, e si sedette per riposarsi alcuni istanti.

 

 

“Com’è possibile…” - sospirò l’angelo stringendo i pugni, bloccato in ginocchio a terra con le ali distrutte - “Come può un mortale avere accesso a un simile potere?”

Lun puntò il dito, avvolto nelle bianche onde infernali, e gli lanciò uno sguardo di severa compostezza:
“Grazie ad Atena.”

“Io sono Asopo di Erinome, non posso venire sconfitto in questo modo!”

E mentre urlava incredulo queste parole, l’onda dello Tsei-she ke lo avvolse, e la sua anima lasciò per sempre il corpo.

Lun sospirò, dopodiché, nonostante la battaglia fosse stata per lui molto impegnativa, e parti della sua corazza divina fossero andate in pezzi, si fiondò subito in soccorso delle due compagne.

Le trovò in balia degli attacchi di Sarpedonte, che furioso aveva ormai abbandonato la lucidità e distruggeva ogni cosa fosse presente là attorno; solo il Crystal Wall di Lambda riusciva a proteggere, a malapena, le due da una fine orribile.

“E’ fuori di lui!” - constatò Lun avvicinandosi alle due ragazze.

“Lun!” - lo accolse sollevata Lambda.

“Perfetto” - disse Silen - “ora che siamo in tre possiamo lanciare contro questo pazzo furioso l’Athena Exclamation!”

In quel momento un altro attacco giunse loro addosso, ma riuscirono a evitarlo all’ultimo, e mentre si spostavano anche Sarpedonte cambiava continuamente posizione, tentando di attaccarli prendendoli alla sprovvista.

 

 

Miia ed i suoi fratelli respingevano senza sosta gli attacchi nemici:

“Sembrano instancabili!” - grugnì la ragazza tentando di erigere una barriera.

“Non si placheranno fino a ché non saremo tutti morti…” - aggiunse Alphard in modo macabro.

“E allora semplicemente non moriremo!” - soggiunse Eden con decisione.

Proprio mentre pronunciava tali parole, alcuni angeli rimasero come pietrificati, e poco dopo caddero distrutti in mille pezzi: meravigliati, tutti i cavalieri di bronzo e argento rimasti ammirarono la figura del divino Aquarius che sfrecciava in mezzo al campo di battaglia, lasciando al suo passaggio un irto muro di ghiaccio che separava i cavalieri dal nemico, e che si avvolgeva sopra i primi come una titanica cupola di cristallo.

 

Sotto il fuoco incrociato degli angeli tale protezione sarebbe durata pochi secondi, ma in quel poco tempo i cavalieri di Atena riuscirono a riorganizzarsi, e in questo modo numerose delle loro vite furono salvate.

 

 

«Sta fermo dannato bastardo!» - borbottò tra sé e sé Silen cercando di scansare gli attacchi energetici, muovendosi alla loro stessa velocità, quella della luce. Di colpo alcune onde curvarono in modo inaspettato, e per schivare quegli attacchi, dovette indietreggiare di scatto, finendo per inciampare all’indietro: convinta ormai di stare cadendo, alla velocità della luce per giunta, si rassegnò a sentire presto il violento tonfo causato dal contatto tra il suo corpo ed il terreno.

“Ma che…”

Ancora in piedi, o per lo meno, non a terra.

“Non è da te incespicare così goffamente.” - le disse Alexander, mentre la reggeva tra le braccia; sentendosi imbarazzata da quel gesto, Silen si risollevò subito:
“Non serviva tanta cavalleria.” - gli disse seccata.

“Anche una come te ogni tanto ha bisogno di una mano.”

“Adesso me ne servirebbero un paio per tenere fermo quel tizio…”

“Le mie sono perfette.”

“Credi di poterlo congelare?”

“Credere è un atto di sciocca insicurezza: la mia è certezza matematica.”

Detto ciò il cavaliere dell’acquario si lanciò in mezzo alla schermaglia, evitando con maestria i vari attacchi di Sarpedonte.

Nel frattempo, Silen si ritrovò con gli altri due cavalieri d’oro:
“Alex lo congelerà, ma qualcosa mi dice che non durerà a lungo… dobbiamo seguirlo con lo sguardo, poi appostarci, puntare, e fare fuoco.”

“Più facile a farsi che a dirsi!” - rispose Lun mentre teneva lo sguardo fisso sullo scontro.

 

Scivolava lesto e inarrestabile, e come aveva fatto col suo precedente avversario, iniziò a congelare una serie di punti microscopici sul corpo del semidio; ogni volta che si avvicinava però, il compito si faceva sempre più difficile, tra la sua spossatezza e la crescente furia dell’avversario.

Reputato di aver agito quanto meglio potesse fare, toccò lievemente e con uno scatto all’indietro si allontanò da Sarpedonte: tosto i tre cavalieri si posizionarono di fronte all’angelo, che davanti ai loro occhi venne completamente avvolto dal ghiaccio di Alexander.

Alcuni attacchi energetici tuttavia, rimbalzavano ancora in modo casuale, disintegrando qualunque cosa finisse loro in contro; i tre si ritrovarono avvolti da una cupola cristallina.

“Non è opera mia…” - disse Lambda.

Silen si voltò, e vide dietro di loro Alexander, che reggeva dall’esterno quella barriera di ghiaccio:
“Alex!” - urlò Silen.

“Attaccate, non potrò darvi un’altra possibilità!”

“Idiota…!” - imprecò per poi rimettersi nella posa dell’Athena Exclamation, in piedi tra Lambda e Lun.

Riuscirono a lanciare l’attacco l’istante prima che Sarpedonte riuscisse a liberarsi completamente dalla sua prigione ghiacciata: un solo attimo di esitazione in più, e ogni loro sforzo sarebbe stato vano.

 

Il semidio venne travolto in pieno da quella potenza smodata, e scomparve in un turbinio di luce abbagliante, domandandosi come fosse possibile che un gruppo di mortali potesse avere la meglio su uno dei figli prediletti del re degli dei.

 

La barriera di ghiaccio era crollata, ed i tre cavalieri d’oro si rialzarono spossati da quel gesto tanto faticoso compiuto in un tempo estremamente esiguo. Il loro primo pensiero fu rivolto alle condizioni di Alexander: l’armatura di Aquarius aveva riassunto la sua immagine ordinaria, essendo Alexander ormai stremato ed incapace di mantenerne la forma divina per via dell’enorme dispendio di cosmo, e tale metamorfosi aveva rivelato le numerosi contusioni sul corpo sanguinante del cavaliere.

Il ragazzo fece per cadere, ma venne preso prontamente da Silen, che non poté fare a meno di constatare, con un sorriso amaro in bocca, l’ironia della situazione:
“Non è da te cadere così goffamente…”

“Lo so hai ragione, è uno spettacolo pietoso.”

 

A quel punto, dal cielo scesero Niche e Deneb, e la prima si rivolse ai cavalieri d’oro:
“Il nostro nemico si è ritirato.”

“Il nostro invece pare definitivamente sconfitto.” - rispose Lun.

“Ottimo… i cavalieri di bronzo e argento sono in difficoltà, ma senza i loro generali posso affrontare gli angeli tutti da sola; voi portate Aquarius da Atena, affinché curi le sue ferite, ma fate in fretta.”

 

 

Atena ed i cavalieri attendevano con sempre maggior impazienza l’arrivo dei loro compagni, e la dea stava cominciando a prendere in considerazione l’idea di attaccare la città solo con l’aiuto dei presenti.

“Guardate laggiù!”- disse un cavaliere indicando il cielo.

Silen atterrò delicatamente, e subito dopo giunsero il cigno, l’ariete, e il cancro; Scorpio stringeva tra le braccia Alexander, ormai prossimo all’incoscienza.

Subito Atena si portò sul ferito, ed impose le mani facendovi circolare il suo caldo cosmo.

Silen e Deneb le stavano accanto, e in quel momento di sconforto e di insicurezza, i due fecero una gesto infantile eppure incredibilmente profondo: si strinsero per mano.

I secondi passavano, il cosmo fluiva, ma niente pareva cambiare.

 

“Atena…” - le si rivolse Alexander con voce roca.

“Non parlare, cerca di risparmiare le forze…”

“Morirò, vero?”

 

La dea non rispose.

 

“Non sprecate il vostro cosmo per me.”

 

“Le sue ferite hanno natura divina” - commentò Civetta - “curarle è cosa ardua, se non impossibile, anche per voi.”

 

A quel punto la dea accarezzò la guancia del ragazzo:
“Va bene così.” - le rispose lui sorridendo.

Atena si alzò, e fece cenno a Hyoga e al giovane Keith di avvicinarsi.

 

 

“Sono stato una delusione come allievo.”

“No, per niente… sono orgoglioso di dove sei arrivato.” - sorrise Hyoga.

“Temo comunque che dovrò restituirvi quest’armatura.”

“Zio…” - gli si rivolse Keith con gli occhi lucidi.

“Ma guardati… non mi ero accorto di quanto fossi diventato grande; quando vedi tua madre, dille che mi dispiace tanto per tutto questo.”

A quel punto il ragazzo lanciò uno sguardo a Deneb e Silen, che abbracciati gli stavano accanto tentando di frenare le lacrime:

“Alex, non lasciarmi anche tu…” - lo pregò la rossa.

“Perdonami Silen, hai sofferto così tanto nella tua vita, e ora per causa mia soffrirai ancora…”

“Ti perdonerò se resti vivo idiota!”

Il cavaliere alzò il braccio tremulo, e lentamente le accarezzò la chioma scarlatta:
“Sono stato così sciocco… ho vissuto quasi tutta la mia vita per la vendetta e non ti ho considerata, e quando mi sono liberato di quel fardello era troppo tardi.”

“Che significa?”

“Il tuo amore è di un altro ormai; ma è giusto così…”
“Alex io… ti…”

“Lo so. Ma quando vi vedo assieme mi si scalda il cuore.” - tossì ridacchiando - “Ironico vero? Proprio a me una sensazione simile… eppure, è proprio con questo sentimento che sono felice di andarmene: sapervi insieme, è la cosa più bella che mi sia mai capitata… grazie per avermi dato… i momenti più belli della mia vita…”

 

Chiuse gli occhi, per sempre, e se ne andò con un sorriso dipinto in volto.

 

A quel punto Silen scoppiò a piangere e si strinse forte a Deneb, anch’egli in lacrime.

Leonidas, che osservava in silenzio lì accanto, si accorse che da un occhio scendeva una lacrima a rigargli il volto: era l’occhio ceruleo di Minerva.

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Capitolo 13
*** L'offensiva di Atena ***


Amico mio, non diresti con un tale entusiasmo

ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria

la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est pro patria mori.

(Wilfred Owen, Dulce et decorum est)

 

 

 

“Leo…”

“Ehi, stai bene? Ti hanno ferita?”

Il ragazzo abbracciò Lambda, e le accarezzò la chioma dorata:
“Nulla di serio…”

“Ti vedo turbata.”

“L’ho incontrata.”

Leonidas la guardò con aria interrogativa.

“6.”

“Ti ha attaccato?”

“Sì, ma se ne è andata quando sono arrivati Deneb e Lun… però, durante il combattimento sono riuscito a vedere sotto la sua maschera.”

“E cosa hai visto?”

La ragazza fece una breve pausa con le labbra socchiuse, poi lo guardò dritto negli occhi, con lo sguardo lievemente tremulo:
“Me.”

 

 

“Niche!”

Atena andò in contro alla dea della Vittoria, porgendole le mani, e questa le accolse ben volentieri stringendogliele affettuosamente:
“Atena, come promesso sono tornata… purtroppo alcuni cavalieri non sono riusciti a farcela, ma le azioni di Aquarius hanno permesso di salvare praticamente tutti coloro che vedi qui! Dov’è il valoroso cavaliere?”

La dea glaucopide fece un’espressione mesta e chinò il capo, e l’altra intese:

“Capisco…”

Tutti i cavalieri appena giunti videro la silente risposta di Atena, e compresero a loro volta che l’uomo a cui dovevano la vita si era spento.

Realizzata la situazione, Miia si portò subito da Silen, e come sospettato, la trovò a singhiozzare, mentre Deneb la stringeva, pur essendo anch’egli in lacrime.

“Miia.” - la salutò la rossa cercando di abbozzare un sorriso nel pianto.

“Sorellona…” - rispose lei unendosi all’abbraccio.

“Resta qui ti prego, non andartene anche tu…”

 

 

In quegli stessi istanti, giunsero anche i cavalieri dell’altra ala, guidati da Chiron, che affaticato si faceva aiutare da Soren per camminare; Heracles gli venne in contro.

 

“Dunque anche Alexander ci ha lasciati…” - sospirò sconsolato il sagittario.

“Purtroppo, tale è la natura della guerra, fratello… ora noi possiamo solo continuare a combattere e lasciare che le gesta dei nostri compagni non siano state vane.”

A quel punto Chiron si avvicinò ad Atena, e si sedette su di un masso accanto a lei, dopodiché la guardò perplesso:
“E ora?”

“Ora che ci siamo tutti possiamo entrare nella città degli dei.” - rispose la dea.

“Va bene” - disse rialzandosi - “andiamo.”

“No, tu devi riposare.”

“Nobile Atena, quando avremo preso l’acropoli mi concederò tale lusso; fino ad allora combatterò.”

“Chiron…”

“Non preoccupatevi per me” - rispose sorridendo - “ho il fratello migliore del mondo al mio fianco, non ho paura.”

Heracles gli lanciò un’occhiata austera:

“Anche se dovrebbe sorridere un po’ di più…” - aggiunse il sagittario.

In quel momento comparve Hyoga, che assieme a Deneb aveva appena dato sepoltura all’allievo caduto: vestiva l’armatura dell’Acquario.

“Ogni volta che indosso questa corazza il mio cuore è colmo di dolore, poiché mi viene sempre affidata da persone care che mi lasciano; ma poiché vivono anche attraverso essa, io mi farò carico delle loro speranze.”

Nello stesso momento apparve anche Tsuru, con indosso le vestigia della Bilancia:
“Lo stesso vale per me, sono pronta a rendere onore ai due uomini che hanno indossato questa armatura.”

“Capisco…” - sospirò Atena, per poi rivolgersi a tutti i presenti - “Una volta entrati non ci saranno momenti di tregua come questi, sarà la battaglia decisiva, e se non raggiungeremo l’acropoli sarà tutto perduto.

Qualora veniste malauguratamente separati dal gruppo, sappiate che nessuno verrà a cercarvi, ma voi continuate a marciare verso la città alta, è impossibile non notarla; qualunque cosa accada, ci ritroveremo là.”

Niche poggiò la sua mano sulla spalla della dea:

“Andiamo dunque.”

Atena alzò lo scettro, e scattò fuori dalla foresta, seguita da tutti gli altri, verso le mura della città: una schiera di frecce lucente venne loro lanciata come benvenuto, ma le barriere dell’unità difensiva non lasciarono passare niente, e tutto l’esercito poté giungere sano e salvo fino alle porte dell’urbe. Il portone era chiuso da una ciclopica lastra di un materiale bianco simile al marmo, ed era decorata con finestre raffiguranti gli dei e le loro imprese; su ogni fianco era presente una coppia di colonne, ciascuna terminante in capitelli baroccamente decorati, e sopra l’architrave, svettava imperiosa una statua d’oro raffigurante l’aquila di Zeus.

La dea fece comparire nella sua mano uno strumento finemente elaborato a forma di chiave, grande come una daga, solcato da scanalature che, avvicinate al portone, si illuminarono di una brillante luce alabastro: la porta in risposta si illuminò a propria volta, per poi spalancarsi subito dopo.

L’armata penetrò così all’interno della città, venendo subito intercettata da un battaglione nemico di crestati, guidati da alcuni angeli; i i cavalieri di bronzo e argento si scontrarono contro i primi, mentre quelli d’oro scattarono verso i secondi per evitare che li sovrastassero come accaduto nei precedenti scontri.


“Avanti, combattete per Era, morite per Era!” - urlava Issione agitando la spada. Di colpo vide alcuni uomini davanti a sé venire sbaragliati, e subito dopo far davanti a lui la propria comparsa un ragazzo con un’armatura verde:

“Che corazza ridicola…” - commentò Issione beffardo.

“Non sono dell’umore.” - rispose Miles mettendosi nella posa del drago nascente.

Alcuni crestati lì accanto se la ridevano mentre osservavano la scena:
“Guardate quel fesso!”

“So che i cavalieri di Atena si dividono in tre caste, e quel tipo appartiene alla minore di esse!”

“Povero idiota, e vuole affrontare da solo il nostro comandante?”
“Non lo sa che il grande Issione è un uomo scelto dagli dei, il favorito dell’invincibile Era dal trono d’oro?”

E mentre sghignazzavano compiaciuti, videro il loro comandante volare via trascinato da un’onda di cosmo dalla forma di drago, e subito dopo Miles si fece avanti avvolto da un’ardente aura smeraldina:
“Di solito non mi piace ricorrere alla violenza, ma oggi, sento di voler particolarmente fare il culo a qualcuno, e guarda caso ci siete proprio voi sulla mia strada.”

 

Arcade furioso osservava lo scontro dall’alto i suoi che venivano sbaragliati; anche con il suo intervento le sorti della battaglia non si sarebbero invertite, occorreva una presenza superiore.

Quasi come se avesse udito i suoi pensieri, comparve alle sue spalle un angelo dall’armatura dorata e più elaborata e scintillante della sua; era un uomo di stupenda bellezza, con la pelle morbida ed il viso liscio con labbra rosee e un paio di scintillanti occhi cerulei, che di tanto in tanto sparivano quando alcune ciocche della sua bionda chioma riccioluta, sotto il suo elmo raffigurante un’aquila, li coprivano sospinti dal vento.

“Ti vedo turbato, Arcade.” - si rivolse a lui con voce di miele.

“Ganimede, sei in fine giunto!” - lo salutò entusiasta.

“Il Signore dei cieli ha saputo della sconfitta di Epafo e Sarpedonte, e la sua furia non fa che aumentare; Atena non deve giungere all’Acropoli.”

“Fa vedere a questi mortali di cosa sei capace!”

Ganimede gli lanciò uno sguardo truce, ed Arcade chinò il capo contrito:

“Perdonami, sono stato scortese.”

“Sparisci dalla mia vista, già normalmente la tua vista mi irrita gli occhi, figurati ora che sei sporco e ferito.”

“Subito.” - e senza farselo ripetere due volte, se ne volò via, e vedendo ciò anche gli altri angeli si levarono in aria.

 

Coloro che si trovavano sul campo di battaglia ebbero appena il tempo di vedere un raggio di luce abbagliante travolgerli, dopodiché giunse l’esplosione.

 

Atena era riuscita ad erigere una barriera di modeste dimensioni nell’esigua frazione di secondo prima dell’arrivo del colpo;

ciò nonostante la stragrande maggioranza dei presenti era rimasta esposta alla deflagrazione energetica di quell’attacco.

“Non ha badato a colpire i suoi stessi alleati…” - commentò sdegnata Niche.

Leonidas si trovava in una posizione abbastanza avanzata al momento dello scoppio, ma era riuscito a formare un’istintiva barriera di energia e a proteggersi, rimanendo incolume.

Si guardò attorno, osservando sconcertato i corpi fumanti dei nemici, ma soprattutto degli amici, e si sentì travolto da una violenta sensazione di nausea che gli fece torcere le budella, ed iracondo volse lo sguardo verso il cielo ed inquadrò l’artefice dell’ecatombe, Ganimede, il quale se ne stava imperioso a mezz’aria con le ali spiegate. Quando si accorse di quegli occhi eterocromatici che lo fissavano austeri, ricambiò con il medesimo sguardo di severità, pregno tuttavia di un significato diverso: all’ira sdegnata di Leonidas, aveva sostituito l’odio verso quell’essere abominevole che incarnava perfettamente la stessa scellerata arroganza di suo padre, colui aveva sfidate il re degli dei.

Infine si voltò e in un baleno scomparve all’orizzonte, lasciando Leonidas ancor più furioso.

Si chinò verso il corpo senza vita di un cavaliere, in cui riconobbe lo sventurato Viktor, e mesto strinse le membra carbonizzate del suo spirato compagno di addestramento; avrebbe voluto almeno essergli vicino alla fine e fargli coraggio, ma invece si ritrovava soltanto con una corpo dal viso deformato da una smorfia di dolore e paura.

 

“In piedi, cavaliere di Atena, abbi almeno la dignità di morire come si addice ad un guerriero.”

Tre angeli erano appena planati accanto a lui, accerchiandolo, e convinti che fosse rimasto ferito dall’attacco di Ganimede, si preparavano a dargli il colpo di grazia:

“Ora non dovrai piangere più i tuoi morti: stai per farne parte.”

 

Leonidas si levò e travolse il gruppetto con i suoi occhi truci:

“Andate all’inferno.”

 

Il lightning plasma era stato lanciato così velocemente che gli angeli ebbero appena il tempo di sentire l’ultima minacciosa frase del cavaliere d’oro, prima di venire fulminati dalla sue griglie di luce.

Non c’era tempo per piangere: ora solo la furia guidava i passi del leone nemeo.

 

 

 

“Ma dove siamo finiti…” - si lamentò Eden tastandosi il capo dolente.

“Non ne ho idea.” - rispose Alphard aiutandolo a rialzarsi.

Erano una decina di cavalieri, e tra di loro vi era anche Kypros, e tutt’attorno arbusti di rose nere cadevano in frantumi.

“Ci hai salvati.” - lo ringraziò Miia.

“Le pirahnian rose ci hanno protetto, ma solo perché non eravamo troppo vicini, ed ironicamente, ora siamo ancora più lontani dal resto del gruppo.”

“Però vedo l’acropoli, e Atena aveva detto che dobbiamo andare tutti là.”

“Già, l’unica cosa che ci rimane da fare è continuare il tragitto, sperando di ritrovarci con gli altri il prima possibile…” - detto ciò il cavaliere di Pisces si mise in testa al gruppo, iniziando la marcia verso l’acropoli.

Lanciò un’occhiata ai cavalieri che aveva al seguito: a parte Miia ed i suoi fratelli, gli altri erano tutti giovanissimi, ancora lontani dall’essere definiti uomini. L’incombenza del conflitto aveva costretto i maestri del cosmo al servizio di Atena a vestire i propri allievi con le sacre armature prima del tempo necessario, e nonostante si trattasse comunque di persone fuori dal comune, rimanevano sempre giovani ragazzi e ragazze che non avevano mai visto un campo di battaglia, né tanto meno la morte che la guerra soleva apparecchiare su di esso.

Kypros sospirò, sperando in cuor suo di avere la forza necessaria per poter far sopravvivere quei cavalieri sventurati.

 

 

 

Soren si guardò attorno: l’esplosione lo aveva condotto lontano da Atena assieme a metà dei Cavalieri rimasti.

“Stai bene?” - domandò aiutando il suo allievo a rialzarsi.

“Sì, non credo di essere ferito.” - rispose Gerard afferrando la mano del cavaliere d’oro.

A loro si avvicinò Lun, anch’egli sbalzato via dal campo di battaglia:

“E ora che si fa?”

“Andiamo all’Acropoli e ritroveremo Atena.” - rispose secco Soren.

Gerard annuì e fece per voltarsi, al ché Soren gli si rivolse sbiancando improvvisamente:
“Sta atten-”

 

Senza riuscire a terminare il suo monito, Soren vide passare davanti a sé un baleno scintillante, e alcuni secondi dopo il braccio sinistro del cavaliere di Orione cadde a terra, mentre dal moncone prese a scendere un copioso fiotto di sangue.

 

“Lenti e deboli: non mi aspettavo altro da voi, siete pur sempre umani…”

Ermes se ne stava seduto con le gambe a penzoloni sulle rovine di una colonna, ridacchiando beffardamente.

 

“Ci è passato in mezzo senza che potessimo accorgercene…” - commentò sgomentato Lun - “Com’è possibile? Noi possiamo raggiungere la velocità della luce, ci saremmo dovuti accorgere del suo arrivo!”

“Eppure” - rispose Soren mettendosi in guardia - “lui è ancora più veloce.”

 

Ermes li guardò compiaciuto:

 

“Cercate di farmi divertire un po’, mortali!”

 

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Capitolo 14
*** L'era degli eroi ***


 

Audendum est: fortes adiuvat ipsa Venus.”

Bisogna osare: Venere stessa aiuta gli audaci.

(Ovidio, Ars Amatoria 1, 605)

 

 

Atena assieme a ciò che rimaneva del suo esercito avanzava cautamente; tutti si guardavano attorno inquieti, dopo il furioso attacco di Ganimede che aveva spazzato via quasi la metà di loro.

Marciando, Leonidas si portò accanto al suo maestro, che vedeva con un’espressione plumbea dipinto in viso:

“Ah, sei tu Leo.” - lo salutò John cercando di abbozzare un sorriso.

“Sì, io e gli altri cavalieri d’oro stiamo passando tra le fila per vedere chi è rimasto ferito durante l’attacco.”

“Ti ringrazia per l’accortezza, comunque ho solo qualche graffio; le ferite più profonde purtroppo, non si vedono…”

“Ho saputo che anche Pablo e Dmitri ci hanno lasciati…”

“Purtroppo lottare per la giustizia è la vita di un cavaliere… e quasi sempre anche la sua morte.”

Leonidas colse dietro quelle sagge parole la tristezza di un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita ai propri allievi, ed ora se li stava vedendo portar via dall’impietosa falce della guerra.

“Si sa nulla di Eden?” - domandò Leonidas.

“Era con Kypros quando siamo stati attaccati… se il cavaliere dei pesci è vivo, allora anche lui lo è.”

“Già… spero che anche Lun stia bene.”

 

 

Kypros stava procedendo in mezzo alla cittadella assieme agli altri cavalieri, quando uno strano aroma lo sfiorò sotto le narici, facendolo arrestare di colpo.

“Che succede?” - gli chiese Miia avvicinandosi.

“C’è qualcosa di strano in questo posto…”

Senza accorgersene, erano finiti in una sorta di tempio a cielo aperto, cinto da bianche colonne mastodontiche che torreggiavano sopra di loro, come giganti immobili ma guardinghi, pronti a risvegliarsi da un momento all’altro; in quel colonnato sconfinato, di cui non si vedeva neppure l’uscita tanto era vasto, aleggiava un silenzio opprimente, che aveva gettato in uno stato di inquietudine tutti i presenti.

“Aspetta” - disse Miia - “lo sento anch’io, è come un odore… floreale.”

Athos, Alphard e Eden si rizzarono in guardia:

“Qualunque cosa sia” - commentò Eden - “è dolce e amaro al contempo, mi dà come la nausea…”

Kypros annusò con più attenzione:

“Sembra quasi… il veleno delle mie rose!”

Estremamente allarmato si voltò verso gli altri per intimargli a muoversi, ma li vide precipitati in uno stato catatonico, ipnotizzati da quell’odore conturbante che infido era scivolato nelle loro membra; oltre a lui, solo Miia ed i suoi fratelli parevano ancora vigili.

“Dobbiamo portarli via da qui prima che chiudano gli occhi, altrimenti non li riapriranno mai più!”

Alphard guardò gli altri:

“Le nostre abilità hanno agito da scudo contro questa tossina…”

“Ma non è detto che durino a lungo” - aggiunse Athos inquieto - “muoviamoci.”

 

“No, no, no! Non doveva andare così maledizione!!!”

 

Una voce femminile parecchio spazientita echeggiò tra le colonne.

 

“Chi sei, rivelati!” - le intimò Kypros.

 

“Insolente, come osi rivolgerti così alla più stupenda di tutte le divinità!?”

 

Dal sentiero principale di quella sorta di tempio, fece la sua comparsa una figura voluttuosa dai lunghi capelli biondi, vestita di una sottile armatura dorata sotto cui pendeva un candido chitone, i quali tuttavia lasciavano scoperta gran parte del suo corpo niveo e procace; aveva labbra carnose e grandi occhi azzurri, ed il suo viso perfetto conteneva uno sguardo intenso e sensuale, che lasciò impietriti i cavalieri.

 

“Su, inginocchiatevi, dinnanzi alla vostra dea.” - sorrise la bionda figura, e ad un suo cenno tutti si genuflessero prostrandosi; tutti tranne Kypros, i cui muscoli tremavano per lo sforzo nel ribellarsi a quel comando così accomodante.

“Che fai, mortale, non rendi omaggio alla divina Afrodite?”

La dea si portò viso a viso col cavaliere d’oro, e gli sfiorò il mento con le candide dita; tanto grande era il suo potere che con quel singolo tocco delicato aveva gettato nella confusione più totale corpo e mente di Kypros, che ora si sentiva bruciare dentro una passione incontenibile.

“Ma non lo capite?” - disse la divinità passando oltre - “Nonostante il vostro peccato sia turpe ed imperdonabile, io vi amo! Sono la dea dell’amore, quella verginella di Atena non potrà mai darvi la passione che solo io, Afrodite, posso donarvi. Lei vi farebbe morire nel fango, sporchi e sanguinanti, vi farebbe soffrire dolori indicibili che” - fece un versetto di disgusto - “non oso neppure nominare! Invece io sono più amorevole di lei persino nella morte: vi donerò un sonno dolce ed eterno, degno dei più nobili principi…”

“Conosco bene il sonno di cui parli” - la interruppe Kypros, ridestatosi dall’eccitante incanto della dea - “e proprio per questo non intendo riceverlo come dono!”

“Povero sciocco, se come dici lo conosci, dovresti sapere quanto invidiabile sia una simile fine; però ora che ti guardo bene, riconosco in te segni di un fiore a me sacro, e che sapevo essere al servizio di un cavaliere di Atena, uno fra i dodici tra l’altro… ma certo, tu devi essere Pisces! Quale curioso scherzo del fato che tu muoia proprio per mano mia…”

“Ti sbagli, o Cipride, giacché io non intendo morire qui ed in questo modo” - esclamò Kypros facendo nascere dalle mani una rosa nera ed impugnandola a mo’ di arma - “ma sul campo di battaglia, come è consono ad un guerriero!”

Attorno a lui si schierarono i quattro cavalieri fratelli, pronti a combattere al suo fianco:

“Potrei quasi trovarvi carini…” - e a quel punto fece un’espressione di furioso sdegno - “…se non foste delle bestie che stanno insultando me ed i miei doni!”

 

 

A quel punto Kypros, Miia ed i suoi fratelli, presero ad attaccare la dea con tutti i loro attacchi più potenti: i colpi dei cinque cavalieri tuttavia non erano più che un lieve venticello per Afrodite.

 

Nonostante la resistenza iniziale, in breve anche i loro corpi e le loro menti vennero intorpiditi dal divino veleno, ma anche se essi fossero stati al massimo della loro forma, molto probabilmente non sarebbero in ogni caso riusciti a scalfire la dea, nemmeno Kypros, che aveva sfoderato la forza divina della propria armatura, per merito della benedizione ricevuta in dono da Atena prima della battaglia.

Afrodite osservava annoiata quegli insetti agitarsi, cadere sotto il peso del suo cosmo, e poi rialzarsi per ricominciare ad agitarsi:
“Siete come le cimici… infatti non vi schiaccio nemmeno, perché poi puzzerei del vostro sudicio odore.” - li schernì sbadigliando.

Nel frattempo i cavalieri caduti sotto l’influsso del veleno si stavano spegnendo, ed il loro battito cardiaco si faceva sempre più lento e debole.

Conscio di ciò, Kypros prese a bruciare il proprio cosmo ai limiti estremi: non solo si stava caricando al successivo attacco, ma il suo influsso rallentava gli effetti della tossina, allungando un po’ la vita dei cavalieri.

Tuttavia in quel modo assorbiva egli stesso gli effetti del veleno altrui e al contempo accelerava l’intossicazione, e nonostante la sua enorme resistenza alle sostanze velenifere, dovuta a quel dono/maledizione che lo aveva afflitto fin dalla nascita, per la prima volta si sentiva in balia di un potere venefico di molto superiore al suo.

Generò una rosa bianca, la più potente che egli avesse mai creato, ed imprimendoci tutto il suo cosmo ardente la scagliò, mirando dritto al cuore della dea.

 

Con uno schiocco di dita, Afrodite fece svanire in un turbinio di petali bianchi la bloody rose del cavaliere dei pesci.

 

“Lodevole la tua tecnica, e se posso essere sincera” - fece una pausa chinando leggermente il capo - “è davvero bella…”

 

Sconfitto su ogni fronte, Kypros cadde infine in ginocchio completamente spossato; Afrodite si portò dinnanzi a lui, e lo guardò dall’alto in basso, senza tuttavia il consueto disprezzo che lei o altri dei avevano mostrato nel guardare un mortale.

“Sei davvero un bel soldatino, ma ora è tempo per te di morire; il tuo ardore tuttavia è lodevole, e per questo ti concederò di spirare come tanto agognavi, in piedi, da vero guerriero.”

Con una mano fece cenno al ragazzo di alzarsi, e questo come mosso da fili invisibili si portò in piedi, mentre nell’altra dava forma ad un fiore di forma non dissimile a quello andato distrutto poco prima, ma non bianco, né rosso o nero, bensì tinto di un tenue rosa perlaceo.

“In questa rosa è contenuta l’essenza del mio aroma mortale, poche once fanno cadere i mortali in un sonno che lento porta alla morte, ma in questo fiore ne è contenuto tanto da poter avvelenare persino un dio; non appena lo accosterò al tuo petto, i tuoi organi si contorceranno per il dolore, le tue vene esploderanno, e tu morrai di una morte rapida ma tutt’altro che indolore.”

D’improvviso la dea vide una mano afferrarle il braccio che reggeva il fiore, e voltandosi vide una guerriera dai capelli verdi, che sfoggiava un’armatura d’oro: per merito del sangue che aveva ricevuto in dono anni prima da Silen, Miia dell’Ofiuco era appena diventata il tredicesimo cavaliere d’oro.

“Come osi toccarmi…!” - esclamò indignata Afrodite, scacciandola via con uno schiaffo. La ragazza tuttavia non si arrese, ed attaccò nuovamente con i suoi attacchi serpentini, che tuttavia non scalfivano minimamente l’avversaria, anzi, si limitavano a stizzirla sempre più; anche i suoi fratelli erano caduti sotto il maleficio della dea, ed ora rimaneva solo lei a poter sostenere il cavaliere dei pesci.

“Quel ciarpame dorato ti ha dato alla testa: te lo toglierò!” - ruggì Afrodite.

Con una vampata di intenso cosmo, ridusse in polvere l’armatura a cui con tanta fatica Miia aveva fatto eseguire quella incredibile metamorfosi dorata: eppure persino un’armatura d’oro era poca cosa di fronte a una divinità.

Spogliata dell’armatura e con le vesti in parte lacere, Miia si vide squadrare dallo sguardo intrigato della dea dell’amore:
“Sei una splendida fanciulla, anche se un po’ mascolina; saresti potuta essere una mia ancella, se non avessi messo piede su questo monte con intenzioni bellicose.”

Avvicinandosi iniziò ad accarezzarle il corpo:
“Su lasciati andare, sarà una morte bellissima…”

Ma nonostante il piacere che la dea intendeva darle col suo tocco vellutato, quella mano che violava le sue carni le fece riaffiorare quei ricordi che si era ripromessa di seppellire assieme al suo passato di orfana abusata.

Con il corpo in balia del potere di Afrodite e l’animo a pezzi alla vista dei suoi fratelli e di Kypros morente, Miia si lasciò infine andare a un pianto colmo di disperazione.

“Piangi, ma non per paura della morte…” - commentò la dea arrestando di colpo le proprie mani diafane - “Il tuo corpo ha ricevuto… perversioni…!”

Disgustata la dea si allontanò da lei, osservandola sconvolta:
“Come puoi vivere con simili aberrazioni sopite nella tua mente?!”

 

“Questo, nobile Afrodite, è anche essere umani… voi dei siete lontani, imperturbabili, e quasi impossibili da ferire; noi invece dobbiamo affrontare le avversità della vita.”

Kypros si era rialzato in piedi.

“Ma anche per un un essere umano, le sofferenze che ha subito Miia sono estremamente turpi, e tu…” - iniziò a divampare il proprio cosmo, raggiungendo i limiti estremi del settimo senso - “… tu hai fatto riaffiorare in lei tutto quel male ben più terribile del tuo veleno: non ti perdonerò mai!”

Avvolto da un’aura dorata e turbinante, il cavaliere dei pesci si scagliò con rinnovato spirito contro la dea, colpendola con rose nere di una nuova stirpe, infinitamente più letali di quella precedente.

Afrodite parava i colpi, ma il cavaliere d’oro furente si stava avventando su di lei e le sue ondate di cosmo ed i suoi fiori mortali, che stavano radendo al suolo tutte le colonne circostanti, si abbattevano su di lei come una grandine cinerea che non le lasciava neppure un istante di tregua.

Furiosa, fece esplodere il suo cosmo divino, ma nonostante il potere distruttivo che stava sfoderando, il cavaliere continuava ad avanzare imperterrito, ed apertosi una breccia scattò verso di lei impugnando una rosa bianca, sorella di quelle nuove rose nere che stavano lacerando la sua divina armatura e graffiando la sua nobile pelle che fino a quel momento era rimasta immacolata. Con un’ultima esplosione di cosmo Kypros si portò dinnanzi all’avversaria, e attingendo da ogni singolo granello di energia che gli era rimasto in corpo, piantò con un gesto violento e spasmodico la divina bloody rose sul candido petto della dea Afrodite.

 

Di colpo tutto parve placarsi.

 

L’elmo, il busto, e le ali dell’armatura divina di Pisces erano andati in frantumi, ed a quel punto la corazza ritornò alle sue fattezze originali; subito dopo dalla pelle di Kypros iniziarono a zampillare diverse ferite sanguinanti, ed in breve il cavaliere si ritrovò imbrattato del suo stesso sangue, dopodiché cadde al suol inerme.

Afrodite invece era ancora in piedi, con l’armatura piena di crepe, ed in particolare una all’altezza del cuore, in cui vi era conficcato un fiore bianco, i cui petali stavano tingendosi di rosso.

“Hai messo tutta la tua forza vitale in quest’ultimo fiore, e nonostante il tuo corpo stesse morendo per mano del mio veleno lo hai portato ben oltre il suo limite… ma i tuoi capillari non hanno retto una simile pressione ed ora ti stai dissanguando; in meno di un minuto, o per la perdita di sangue o per il mio veleno, la tua vita avrà fine. La mia invece…”

Sotto lo sguardo sconvolto di Kypros e Miia, la dea sfilò delicatamente la rosa e la gettò via come un’erbaccia rinsecchita; tuttavia si rese conto di aver subito pesanti danni da quell’attacco, e la ferita sul petto, a differenza delle altre che le erano state inferte, non si stava richiudendo tanto facilmente, ed anzi da essa continuava a sgorgare il suo icore.

“Mai ero stata ferita in questo modo…” - ma mentre lo diceva si sentì pulsare il dorso della mano, e gettandogli uno sguardo un antico ricordo le tornò alla mente - “Anzi, una volta è successo che un mortale mi affrontasse ed addirittura mi ferisse; avvenne durante il conflitto di Ilio, lui si chiamava Diomede, ed era tanto nobile e potente che riuscì persino a ferire gravemente il defunto Ares… credo indossasse anch’egli una di quelle armature che portate voi cavalieri di Atena, ma non rammento quale. Sei forse tu un suo discendente?”

Kypros non rispose, le sue ferite erano tanto profonde che ormai non riusciva neppure a pronunciare una singola parola.

“Ad ogni modo, quel guerriero acheo stava affrontando uno dei miei figli, Enea; un tempo la terra pullulava di mortali eroici ed impavidi, i quali noncuranti delle proprie origini compivano imprese che poi sarebbero entrate per sempre nella storia. Anchise, il padre del mio amato Enea, era così, sapeva di essere solo un uomo, ma c’era grazia nella sua fallibilità; quella fu l’ultima volta che mi innamorai di un mortale, poiché credevo che dopo la guerra di Troia non sarebbero più nati degli eroi degni di tale nome, e che il mio Enea fosse l’ultimo dei grandi guerrieri di un’epoca ormai destinata a tramontare.”

A quel punto Afrodite si chinò pacatamente accanto a Kypros, e gli accarezzò una guancia col palmo della mano:
“Però mi sbagliavo… non pensavo esistesse un uomo come te, in quel mondo ormai sull’orlo del baratro. Sai, mi rendo solo ora conto di quanto tempo sia passato dall’ultima volta che io, la dea dell’amore, abbia generato la vita dal mio corpo, proprio perché avevo perso le speranze di trovare un uomo così nobile di spirito, ed è da molto tempo ormai che ho perso interesse nei miei parigrado.”

Mentre la dea lo accarezzava, le sue ferite si chiudevano, e gli parve di riuscire a tornare a respirare; notò che alla vista della sua guarigione, la dea aveva preso a sorridere.

“Zeus mi aveva sempre rimproverato di impicciarmi nelle faccende della guerra, pur essendo una divinità che regna sul fronte opposto di tale mondo, e in effetti aveva ragione: non fa per me. Immagino che anche tu sia stanco di tutta questa violenza e morte; vieni con me, andiamo via da questa montagna che non meno del mondo mortale sta cadendo a pezzi, anche se nessuno vuole vederlo… gli dei sono diventati sempre più distaccati e crudeli, ed anch’io non faccio eccezione. Mi sembra di essermi svegliata da un lungo sonno della ragione: fuggiamo insieme da questa atarassia…”

Ripresosi a sufficienza, Kypros si mise seduto, venendo abbracciato dalla dea:

“Venerabile Afrodite, vedervi aver ritrovato il vostro cuore è per me fonte di immensa gioia, e vi sarò grato in eterno per aver salvato questa mia vita che ormai credevo conclusa; però ho prestato un giuramento alla nobile Atena, e devo aiutarla a salvare il mondo in cui sono nato, anche se è pieno di imperfezioni.”

Un’espressione rattristata fece la comparsa sul volto della dea, che mesta chinò il capo:
“Vi chiedo perdono…”

“No, è giusto così, cavaliere, sarei ipocrita se dopo aver lodato l’eroica determinazione che ti contraddistingue ti impedissi di compiere il tuo dovere.”

Delicatamente ed aiutato da Afrodite, Kypros si rimise in piedi, e subito Miia gli venne in contro, pur mantenendo lo sguardo basso per via del timore che la dea ancora le incuteva:
“Non avere paura, giovane guerriera; anche tu hai mostrato grande valore, e inoltre” - sorrise ammiccante - “tra di voi scorre intensa la forza di cui io sono nume.”

Detto ciò Afrodite fece per andarsene, ma prima di scomparire si voltò verso i due cavalieri:

“Semmai un giorno voleste rivedermi, siete entrambi invitati nel mio reame, che è molto lontano da qui, e qualora questa guerra vertesse male per Atena, non dovete far altro che invocarmi ed io vi porterò con me al sicuro, anche se purtroppo sono ben conscia della vostra natura; in ogni caso spero sopravviviate entrambi, e che possiate portare in questo mondo accecato dall’odio un po’ di quell’amore di cui Atena parla tanto.”

I due salutarono Afrodite omaggiandola con epiteti di benevolenza e generosità, ed infine la videro scomparire tra le colonne; e mentre ciò accadeva, Eden e tutti gli altri cavalieri che erano stati colpiti dal sortilegio si risvegliarono incolumi e riposati, come se non fossero stati nel mezzo di una guerra.

“Sorellona!” - le venne subito in contro Eden, spaventato nel vederla con l’armatura distrutta - “Che è successo? Siete riusciti a mettere in fuga Afrodite?”

“Diciamo di sì.” - sorrise Miia rivolgendosi con lo sguardo a Kypros.

“Molte divinità sono malvagie e prive di pietà, ma fortunatamente la dea dell’amore ha saputo mantenere fede al suo epiteto e ha dimostrato di essere più simile alla nostra Atena. Però siamo stati estremamente fortunati, non credo che i prossimi nemici che affronteremo ci tratteranno con simile indugio…”

“Fortuna o no” - aggiunse Miia - “hai affrontato e messo in difficoltà una divinità dell’Olimpo, e praticamente da solo!”

Udendo ciò gli altri cavalieri si radunarono attorno a Kypros complimentandosi e lodandolo estasiati; dal canto suo, il ragazzo era estremamente felice di essere riuscito a salvarli tutti.

“Forza, abbiamo riposato abbastanza, Atena ci attende all’acropoli, andiamo!” - ed incitati dal guerriero di Pisces, i giovani cavalieri lo seguirono entusiasti riprendendo la loro marcia.

 

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Capitolo 15
*** Saluto ***


 

Lun se ne stava seduto solo, senza dire una parola, come se qualcuno lo avesse messo in punizione, come se la vita lo avesse appena messo in punizione.

Ehi ciao, tu sei nuovo, vero?”

Era un bambino più grande, e dietro di lui c’era una bimba minuta coi capelli lilla, che timidamente si nascondeva.

Io mi chiamo Leonidas, sono qui da sempre, e lei è la mia sorellina Minerva.”

Io mi chiamo Lun…”

A quel punto Minerva si fece avanti e gli prese le mani:
“Se vuoi puoi diventare il nostro nuovo fratellino!”

Vedendo il sorriso innocente sul volto di quella bimba, per la prima volta da quando sua madre lo aveva lasciato, Lun non si era sentito più solo.

 

 

Lun e gli altri si erano chiusi tutti schiena contro schiena, in attesa del prossimo assalto del messaggero degli dei, i cui attacchi avevano già ucciso alcuni di loro, e ferito parecchi; i cavalieri osservavano sconcertati i corpi inermi dei loro compagni che venivano mossi dallo spostamento d’aria del nemico, ognuno pregando di non essere il prossimo ad assaporare la polvere.

Come un vento di morte, Ermes si abbatteva impietoso e senza sosta, lanciando di tanto in tanto qualche pungente frecciatina sulla loro debolezza, e sulla caducità della vita mortale.

“Vedete? Voi siete così fragili, invecchiate, morite… personalmente non capisco perché il padre degli dei non avesse già voluto sterminare degli esseri così inutili; ah già, la dolce Atena… quella miserabile, Apollo non merita tutte le preoccupazioni che una sorella simile gli da!”

“Non insultare Atena stronzo!” - gli urlò Lun adirato.

“Ma che fanatico…” - rispose Ermes gettandosi su di lui, ma scoprendo sorpreso di non averlo ucciso sul colpo - “Ah, tu indossi un’armatura divina, e anche quel tuo amico con la spada sacra… che seccatura!”

Lun lo guardò negli occhi smeraldini, lanciandogli un’occhiata colma di rabbia, ed il dio indignato prese a tempestarlo di colpi:
“Come osi guardarmi in quel modo, pezzente? Io sono un Dio tuo signore e padrone, abbi almeno la decenza di morire come ti si addice, in silenzio e con lo sguardo colmo di terrore!”

“Ma muorici tu in sto modo, se ti piace tanto!”

In quel momento, sotto quella tempesta, uno dei pugni del cavaliere di Cancer era riuscito a colpire in volto Ermes, lasciandolo paralizzato per lo sgomente un istante; ripresosi immediatamente il dio riprese ad attaccare, ma quel suo secondo di esitazione aveva permesso ai cavalieri di riorganizzarsi.

Mentre il nume si avventava su Lun, Soren e gli altri rimasti lo accerchiarono, lanciandogli da dietro tutti i loro attacchi più poderosi; solo Excalibur aveva fatto vacillare il nemico, mentre il resto degli attacchi era andato praticamente a vuoto.

“Come avete osato…” - si voltò Ermes furibondo - “Morite, vermi!”

Levò un braccio, e seguì una folata lacerante che colpì tutto il gruppo: molte armature andarono in frantumi, e certe ferite solcarono profondamente alcuni degli sventurati cavalieri di Atena.

“Rimanete a terra: è quello il posto che più vi si addice.”

E mentre il dio gli dava le spalle, Lun ne approfittò per lanciare la sua Onda infernale, ma vide la sua tecnica frantumarsi sul suo corpo, come tanti piccoli cristalli bianchi.

“Ma cosa speravi di fare… volevi forse uccidermi?” - scoppiò a ridere di gusto - “Pensavo che la stupidità di voi umani avesse un limite, ma mi sbagliavo; volevi davvero spedire la mia anima nel mondo dei morti? L’anima di un Dio?!”

“Io sono il cavaliere che sta a metà tra il mondo dei vivi e quello dei morti, non c’è nessuno che io non possa uccidere!”

“Noi dei non siamo come voi, non moriamo nemmeno allo stesso modo, e la vostra mente non concepirebbe quel che ci succede dopo la morte.”

“In ogni caso non saresti il primo dio che spedisco all’altro mondo.”

“Parole grosse le tue, sai anche fare oltre che parlare e basta?”

E mentre stava per rilanciarsi sull’albino, un nuovo fendente lo colpì, questa volta sul braccio:

“Voi cavalieri di Atena siete ostinati…!” - sbuffò Ermes.

Soren si rialzò mettendosi in guardia, e con lui i cavalieri che erano sopravvissuti, o le cui ferite non erano così forti da impedire loro di combattere:
“Già, siamo testardi da morire.”

“Che curioso accostamento di parole…” - ridacchiò il dio, per poi subito finire dietro di loro, e mentre ancora i cavalieri erano intenti a voltarsi, le teste di due di loro caddero sanguinanti a terra.

“Che spasso!” - se la rise di gusto il messaggero degli dei - “Adesso capisco perché Ares traeva così tanto godimento dalle carneficine nelle battaglie umane… morite in modo così goffo e stupido!”

E mentre diceva ciò si portò la mano alla gola e imitò un uomo che moriva strangolato, eseguendo anche un verso di raccapricciante scherno, per poi subito tornare a ridere divertito.

«Come può un dio trarre un tale gaudio dalla sofferenza altrui?» - si domandò sconcertato Soren - «Anche se ci vedesse come insetti, quale folle sadico trarrebbe così tanta gioia da simili sevizie, siano essere rivolte anche alla più insignificante forma di vita?! »

In quel momento gli venne in mente la battaglia col dio della guerra: si ricordò di quei semidei così feroci a cui tanto piaceva massacrare il nemico.

Però si ricordò anche del suo maestro, e di come attraverso la forza della lama Excalibur avesse ridato dignità alla morte delle vittime di quell’ecatombe, e di come poi, con quella stessa lama, fosse andato a sfidare lo stesso Ares in persona, conscio dell’impossibilità della propria missione, ma comunque fiero ed inarrestabile, tanto da riuscire infine a privare di un arto il malvagio dio: ed ora lui era lì, davanti ad un dio che si stava dimostrando altrettanto sadico, con le medesima spada sacra utilizzata da Diez per sfidare l’ingiustizia.

Inizialmente Ermes rise dinnanzi a quel cavaliere che accigliato scagliava la propria lama, ma poi quando questa era sul punto di raggiungerlo percepì una grave minaccia e con uno scatto più che fulmineo la evitò, per poi vedere dietro di sé una scia luminosa seguita da un solco che fendeva il terreno fin nel profondo; se non lo avesse evitato, persino lui non ne sarebbe uscito incolume.

“Ma bene, finalmente fate qualcosa di interessante… lascia però che ti dica una cosa: la tua lama sarà anche potente, ma misera cosa è se non riesce a sfiorarmi.”

E detto ciò assalì il cavaliere del capricorno assestandogli un violento colpo all’addome, tanto forte da incrinare la sua armatura e da arrecargli diverse emorragie interne; e mentre Soren cadeva tossendo fiotti di sangue, Lun tentò di cogliere di sorpresa il dio, venendo però atterrato con violenza dalla forza della sua mano.

Tosto, i due cavalieri d’oro si rialzarono e nuovamente tentarono, contemporaneamente, di attaccare l’avversario, ma questo si limitò a parare entrambi gli attacchi, ciascuno con una mano, dopodiché afferrò loro il pugno ed iniziò a stringerlo con violenza, tanto che le numerose piccole ossa delle loro mani iniziarono a scricchiolare sinistramente, fino a che non iniziarono ad andare in frantumi:

“Prostratevi dinnanzi alla mia magnificenza, e forse la vostra morte sarà indolore.”

Nonostante quel monito, i due guerrieri non accennavano a piegare le proprie ginocchia ed anzi, nonostante il dolore, rimanevano ritti e solidi come rocce: Ermes non poteva tollerare un simile affronto alla sua persona.

Fece esplodere il proprio cosmo divino, e tutti i presenti vennero travolti da quell’esplosione micidiale.

Gerard, che era stato sbalzato via dalla deflagrazione, si voltò e lento e tremolante strisciò vicino al campo di battaglia, per vedere che ne fosse stato dei cavalieri d’oro: nonostante la fierezza che avevano dimostrato fino a poco prima, ora cancro e capricorno stavano in ginocchio col capo chino, entrambi privi rispettivamente dell’arto destro e del sinistro.

Sopra di loro, torreggiava beffardo il messaggero degli dei, che con le braccia conserte scuoteva il capo soddisfatto:
“Ecco fatto, ora finalmente mi state mostrando il rispetto che merito.”

Gerard sconvolto e furioso al contempo, si alzò in piedi e si rivolse ai compagni sopravvissuti:
“Forza andiamo, non lasciamo i nostri fratelli in balia di una morte orribile!”

Esortati dal cavaliere d’argento, i superstiti ancora in grado di combattere – poco più di una decina – balzarono in guardia, pronti ancora una volta ad affrontare il divino nemico.

“Ma perché non potete semplicemente aspettare la morte…!” - grugnì stizzito il messaggero degli dei, pronto a scagliarsi nuovamente contro i guerrieri di Atena.

 

Erano cavalieri di argento o bronzo, erano pochi, feriti, infiacchiti, contro un dio, la cui solo presenza li opprimeva fin dentro le viscere: eppure, quando quel dio si scagliò su di loro riversandogli contro il proprio cosmo, nonostante le loro armature andarono in pezzi, i loro animi coraggiosi non cedettero e quei cavalieri, quel giorno, non arretrarono.

Alcuni di loro morirono, ma rimasero in piedi, e non arretrarono.

Altri rimasero ad opporsi il più possibile contro il nemico, per poi spegnersi esanimi, ma senza comunque arretrare.

Consci di non poter vincere quella battaglia, i cavalieri avrebbero almeno tenuto alto il loro onore, e la cosa turbava non poco il nume messaggero:
“Quello che fate non ha senso, non ha senso! Morite come insetti, verrete dimenticati dalla storia, nessuno saprà i vostri nomi e nessuno vi dirà mai grazie, siete solo miserabili pezzi di carne la cui fine è segnata, e su tale condanna vi è apposta la mia maestosissima firma!”

 

Schiacciati dalla furia degli attacchi, ormai rimanevano in piedi solo Gerard assieme ad altri tre cavalieri, che conosceva abbastanza bene:

Marco della Colomba, Kensule del Tucano, ed Altair dell’Aquila, i tre guerrieri con cui anni prima aveva combattuto, quando ancora serviva il dio oscuro.

“Sono contento di essere qui accanto a voi, invece di essere morto quella volta in Messico.”

“Già, chi l’avrebbe mai detto che alla fine saresti rimasto proprio tu con noi alla fine?” - ridacchiò Altair senza allegria.

 

“Allora, insetti” - disse loro Ermes - “chi ricorderà i vostri nomi?”

 

Poco prima che l’ultimo attacco del dio calasse su di loro, una luce apparve dietro ad egli, e poi la parte di armatura che gli proteggeva la schiena andò in pezzi, lasciando la forma di un ampio taglio.

“Io ricorderò i loro nomi.”

Furente Ermes si voltò verso il colpevole di quell’empio gesto, e con un balzo si portò sul cavaliere del capricorno, afferrandogli i capelli con sdegno:
“Tu soffrirai, molto, molto più di tutti, miserabile verme: come hai osato danneggiare la mia armatura divina? L’armatura di un dio!”

E mentre lanciava quelle furiose ingiurie a Soren, Lun lo attaccò da dietro, infilando la mano nella crepa della corazza e facendovi esplodere tutto il suo cosmo; in risposta Ermes gli assestò una gomitata, scaraventandolo a terra, poi gli si portò sopra e prese a pestarlo violentemente con un piede, mentre con la mano teneva ben stretti i capelli bruni di Soren.

“Ne valeva la pena, per un misero graffietto? Poverino, immagino tu abbia messo tutto te stesso in quell’attacco, ma vedi, scalfire la pelle di un dio è una cosa a cui voi mortali non potete ambire, capisci? E’ ben oltre la vostra portata!”

 

Gerard e gli altri osservavano la scena, e rapidi si consultarono:
“Excalibur è riuscita a scalfire le difese di quel mostro.” - disse Kensule.

“Allora può essere ferito, ma bisogna dare a Soren il tempo per caricarsi” - aggiunse Altair.

“E allora diamoglielo!” - soggiunse Marco per poi gettarsi, seguito dagli altri, a capofitto in quella che con ogni probabilità sarebbe stata la loro ultima battaglia. Divertito dall’attacco Ermes diede un po’ di tregua ai due cavalieri d’oro, i quali intuito il piano dei loro compagni, prepararono quella che sarebbe stata la mossa decisiva della battaglia.

 

Marco cadde per primo: Ermes fu estremamente rapido nel trafiggergli il cuore con un fendente del suo lestissimo cosmo.

 

Gerard, Altair, e Kensule tennero per qualche momento la difesa alta, facendosi forza a vicenda, ma in breve anche il cavaliere del Tucano cadde, col collo spezzato dalla sadica furia di quel nume inarrestabile.

 

Infine, Gerard non poté far altro che vedere la sventurata Altair cadere a terra morta con la gola tagliata.

 

Ora rimaneva solo lui, privo di un braccio e con l’armatura ridotta in polvere: come poteva anche solo aver sperato di poter sopravvivere alla furia di una simile battaglia?

«Ti chiedo scusa Jada, non credo tornerò più da te.»

 

Ermes lo guardava ghignando, pronto a far calare la sua mano sopra di lui:

“Ti chiederai come mai non ti abbia già ucciso. E’ perché voglio darti il tempo di realizzare ciò che accade a chi sfida non un solo dio ma l’intero Olimpo: vedi i tuoi compagni? Morti, e per cosa? Hanno gettato le loro inutili vite in nome dello sciocco ideale di una dea in preda alle proprie turbe uterine; ed ora che ti sei finalmente reso conto di quanto la tua vita sia miserabile ed insignificante, muori.”

 

Ermes sgranò gli occhi e sbarrò lo sguardo, dopodiché un fiotto di sangue fuoriuscì dalla sua schiena, e poi nel medesimo posto brillò un lampo dorato, seguito dall’illuminarsi di una scia la cui origine era nella mano del cavaliere del capricorno: in tutta la sua esistenza, in cui non era nemmeno stato ferito fino a quel momento, mai il messaggero degli dei aveva provato un simile dolore.

“Ma bravi, mi avete fatto fesso… ve lo concedo: io sono anche il dio degli inganni, e apprezzo simili astuzie, anche se ai miei danni.”

Dopo quel sinistro complimento Ermes si portò su Soren, trafiggendogli il petto con una tagliente lama di cosmo:

“C’è qualcosa che vuoi dire, prima di morire, o ingegnoso cavaliere di Atena?”

Soren sorrise, dopodiché raccolse tutto il fiato che gli era rimasto in corpo:
“Gerard, vivi e racconta a tutti le gesta compiute oggi dai cavalieri di Atena contro i tiranni dell’Olimpo… come tuo maestro ti assegno questi due ultimi compiti: abbi cura di Excalibur, te la affido, e non lasciare mai che il nostro ricordo venga dimenticato, cosicché anche nei momenti più bui gli uomini si ricordino di come un giorno dei mortali sfidarono gli dei!”

Stizzito da quelle urla, Ermes si preparò a dare il colpo di grazia al cavaliere d’oro, ma d’improvviso sentì qualcosa strisciargli nella ferita sulla schiena, seguita da un calore che gli pervase tutto il corpo.

“E ora vieni con me all’inferno.” - ridacchiò Lun, mentre tutto il suo corpo si avvolgeva di una sinistra aura pallida, in cui anche Ermes stava venendo avvolto.

“Che cosa fai, mortale?!”

“Ti porta a casa mia, nell’ammasso del Presepe: questo è la mia Onda infernale dello Tsei-She ke!”

Ora non solo al di fuori ma anche dentro il corpo del dio quella luce terrea si stava diffondendo in ogni dove, e nonostante stesse bruciando al massimo il proprio cosmo, non riusciva in alcun modo a liberarsi dalla presa del cavaliere d’oro, il quale si teneva ben saldo alla sua spina dorsale, nonostante la potenza del suo cosmo divino gli stesse ustionando le membra.

“Da dove attingi tutto questo potere?!”

In quel momento Ermes vide tutte le anime dei cavalieri ai quali aveva tolto la vita, che vorticavano attorno a lui, e lo colpivano furenti con tutta la loro essenza.

“Non ti basterà, questi miseri fantasmi non mi fermeranno!”

Lun ridacchiò beffardo:

“Se vuoi fare una frittata devi rompere qualche uovo…”

A quel punto scagliò su di sé le sua stessa onda, ed in quel momento il suo corpo divenne polvere, ma la sua anima, ancora vestita dell’armatura divina di Cancer, bruciò di un cosmo incommensurabile, ai limiti dell’ottavo senso, e mentre la sua energia e quella di tutte le altre anime divampavano con ardore, Ermes iniziò a sentirsi lacerare nel profondo, come se qualcosa dentro di sé stesse andando in frantumi, qualcosa che non era fatto di carne, ma di spirito.

“Non puoi uccidere un dio!” - gridò accecato dalla collera mentre sprigionava tutto il suo cosmo, ma inutilmente, giacché nessuna di quella anime poteva essere colpita dai suoi attacchi, grazie alla protezione di Presepe.

“Non puoi!!!”

“Posso, e lo farò… ora!”

Avvolta dalle fiamme dello Tsei-She Ke, l’anima del dio si disperse abbandonando il corpo, che cadde fumante e privo di vita.

 

“Ben fatto Cancer…” - commentò Soren sorridendo, per poi accasciarsi al suolo spirando.

 

 

Leonidas, sentendosi attraversare da una strana sensazione si fermò di colpo, si voltò e vide Lun: il ragazzo stava poco lontano da lui, e lo guardava sorridendo.

“Ehi Leo.” - lo salutò.

“Lun…” - rispose un po’ confuso.

Lun non disse altro, limitandosi a sorridere spensierato come era solito fare.

D’un tratto, in un battito di ciglia lui non c’era più, e Leonidas comprese cos’era appena successo: Lun era venuto a salutarlo un’ultima volta.

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Capitolo 16
*** L'Acropoli ***


Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit.”

Non vi fu mai un grande ingegno senza un briciolo di pazzia.

(Seneca, De tranquillitate animi 7,10)

 

Una pallida scalinata si inerpicava snodandosi su di un colle, sul quale sorgevano una moltitudine di templi dai colori splendenti, e sulla sommità del pendio svettava il palazzo più maestoso di tutti: una reggia scintillante priva di porte, cinta da colonne marmoree, e su di essa candide torri maestose che, disposte attorno ad una cupola bianca, blu, e verde, fendevano il cielo violaceo del monte degli dei, come macilenti giganti imprigionati in un eterno sonno di pietra.

In meno di quaranta erano giunti alle pendici di quel luogo, e molti feriti e spossati, ma ciascuno di loro era pienamente determinato ad arrivare in cima, o per lo meno a permettere ad Atena di andarci.

Ma il sentiero era tutt’altro che incustodito: i crestati condotti da Issione, le satelliti guidate da Callisto, gli angeli sotto l’egida di Arcade.

E poi, a metà della lunga scalinata, i sovrani dell’Olimpo: i numi del Sole e della Luna Apollo ed Artemide, e la regina degli dei Era.

L’esercito del cielo era al completo e dinnanzi a loro, ma l’unico che apparentemente mancava era proprio il comandante, il sovrano dell’Olimpo nonché padre degli dei, Zeus.

Ed ecco infatti i gemelli farsi da parte, per lasciar passare il più grande fra tutti gli dei là presenti, seguito dal fido Ganimede, suo fiore all’occhiello.

Il re dei cieli si presentava come un uomo fiero e possente vestito di un’armatura d’oro scintillante, sulla cui schiena vi erano disposte cinque paia di ali argentate, e sotto cui faceva sfoggio di una veste purpurea decorata con eleganti fantasie color croco; il suo viso era accerchiato da una spessa barba, corvina e riccioluta come la fluente chioma cinta da una corona a sette punte, e tra le sottili labbra rosee ed il naso greco, spessi mustacchi lievemente più chiari del resto della peluria.

Nascosti da folte sopracciglia due occhi ambrati, tipici della stirpe di Crono, che scrutavano imperiosi il misero esercito che era venuto a sfidare la sua suprema autorità, e dopo che ebbe studiato a sufficienza coloro che si erano presentati al suo cospetto, fece infine uscire la propria profonda ed armoniosa divina:

“Atena, figlia mia, molto è il tempo trascorso dall’ultima volta che ho veduto le tue originali fattezze.”

“Molti millenni, padre.” - rispose la dea con dignitoso ossequio.

“E vedo che porti con te anche due miei figli…”

“Salute a te, Signore del cielo.” - si fece avanti Dioniso sorridente, accennando un inchino con un gesto accomodante della mano.

“Padre.” - parlò Heracles in modo laconico.

“E’ bello vedervi qui, ma mi addolora vedere la mia famiglia lacerata dall’odio e dal conflitto; Ares, il mio amato figlio, l’erede al trono, è morto per causa delle tue azioni… ma non per causa tua.”

Era a quel punto gli si avvicinò indignata:
“Dopo quanto ha commesso questa impudente…!”

“Fa silenzio.” - comandò imperioso Zeus, e la sua consorte, seppur stizzita, si rimise al proprio posto.

“Non posso negare che vi siano sempre stati degli asti tra noi numi, e che talvolta siano finiti in spiacevoli tragedie. Ade agì con arroganza, e nonostante abbia pianto la sua morte, lo ritengo artefice della propria disfatta, così Ares andò in contro a una fine non dissimile; tali deicidi non possono rimanere impuniti, ma non è detto che debba essere tu a pagarne le conseguenze.”

“Mi affido alla benevolenza delle prossime parole da voi pronunciate, padre.”

“Tu, Eracle, e Dioniso avrete salva la vita; verrete comunque puniti, ma dopo aver scontato il vostro peccato tornerete ad essere nelle mie grazie.

In cambio di questa indulgenza pretendo le teste di tutti gli altri che vi hanno seguito ed appoggiato in questa folle congiura, comprese Niche e Civetta, cosicché nessuno possa più incitarti a simili empietà.

Voglio tuttavia che l’uomo chiamato Pegasus venga condotto da me, e con lui anche il figlio di Tifone: il primo deve pagare per la morte di Ares, e subire un’eternità di supplizi prima di essere giustiziato per il suo crimine, mentre l’altro deve morire per mano mia, cosicché possa io stesso mettere fine con le mie mani alla progenie del più terrificante mostro che abbia mai messo piede su questo monte sacro. Queste sono le mie condizioni, Atena, ora sta a te decidere il tuo fato.”

La dea consultò con lo sguardo Heracles e Dioniso, e dopo un cenno di assenso da parte di entrambi, guardò il padre dritto negli occhi e gli diede la risposta che tanto aspettava:

“Fino a quando non spegnerai la macchina di morte che hai messo in moto, da me non avrai altro che guerra.”

Zeus la guardò con occhi austeri:
“Molto bene.”

Detto ciò fece un cenno a Ganimede, si voltò, e seguito dalla sua divina consorte fece per ritornare al proprio palazzo.

Il prediletto di Zeus si fece avanti:

“Soldati dell’Olimpo” - disse con voce soave ma autorevole - “uccidete questi sudici riottosi, non risparmiatene neanche uno.”

A quel punto l’intero battaglione divino si scagliò contro il misero esercito di Atena, mentre Ganimede soddisfatto fece per rientrare a palazzo.

 

Come un fiume in piena, l’esercito nemico si stava abbattendo sulle barriere di energia dei cavalieri, riuscendo in breve tempo a sfondarle e dare inizio alla schermaglia; vista dall’alto, tale scena avrebbe sicuramente ricordato l’immagine di un formicaio che si avventa su di un frutto caduto a terra.

 

Leonidas si trovò dinnanzi a due figure dai capelli argentei, che lo pungolavano minacciosi con attacchi brevi e veloci, che lui tuttavia riusciva perfettamente ad evitare, pur non riuscendo a sfuggire alla morsa nemica.

“Progenie di Tifone, io, Callisto, porrò fine alla tua turpe esistenza; Arcade, aiutami a far capitolare la bestia.”

“Sì, madre.” - e dopo un rispettoso cenno di assenso si gettò contro al cavaliere del leone, iniziando ad attaccarlo corpo a corpo, mentre Callisto imprimeva il proprio cosmo nel suo caduceo, da cui avrebbe fatto fuoco non appena, spinto dal figlio, Leonidas le avesse scoperto un fianco.

“Non così in fretta, bella.”

Un colpo di energia le fece sobbalzare lo scettro, che se non avesse tenuto ben saldo tra le palme delle mani sarebbe certamente volato via per diversi metri, perdendosi nella confusione della battaglia.

“Tu…” - le si rivolse indignata Callisto - “Vedo in te il viso del Leone nemeo… ma certo, devi essere Echidna, la puttana di Tifone.”

Kara sbuffò stizzita:
“A parole fai la dura, ma vediamo cosa sai fare.”

Callisto sorrise beffardamente compiaciuta:

“Vieni avanti, puttana.”

 

 

Kalos continuava ad attaccare senza sosta, coadiuvato da Loki: scagliavano i loro colpi con perfetta sincronia, come se agissero mossi da un’unica infallibile mente. Tra le molte calamità di quella guerra, la Galaxian Explosion sarebbe certamente stata ricordata come una delle più nefaste per la fazione Olimpica.

“Combatti splendidamente.” - si complimentò Kalos con la sorella.

“Siamo gemelli, non intendo certo esserti da meno!” - rispose Loki con un sorrisetto di sfida.

“In ogni caso” - aggiunse il ragazzo - “lottare al tuo fianco mi riempie il cuore di felicità: non avrei potuto sperare in un alleato migliore.”

Loki non rispose, si limitò a continuare a sorridere, cercando di mascherare l’emozione che quelle parole le davano.

Aveva sempre considerato Kalos come un essere perfetto ed irraggiungibile, nonostante suo padre le avesse sempre detto che tra i due lei fosse la più forte, anche se di poco; lottare assieme a lui la faceva sentire in qualche modo degna di essere viva, dopo quanto accadutole negli ultimi anni.

D’un tratto, ecco fare la loro comparsa sul sentiero una coppia di angeli dall’identica sembianza, gemelli esattamente come loro: erano due giovani di bell’aspetto, con labbra carnose e penetranti occhi cerulei, ed avevano i lunghi capelli castani cinti all’altezza della fronte da un cerchietto dorato.

“Guarda, fratello mio, l’armatura di Gemini.” - disse quello dei due con i capelli più scuri.

“La riconoscerei fra mille, Castore.” - rispose l’altro, il più chiaro dei due.

“Kalos…” - gli si rivolse Loki perplessa.

“Sì, è come pensi sorella: costoro che abbiamo dinnanzi sono i Dioscuri, i figli gemelli di Zeus da cui ha avuto origine il mito che dà potere alla nostra costellazione protettrice.”

“Vedo che siete ben consci del legame tra noi e quell’armatura: ciò che dici è vero cavaliere, è grazie a me a mio fratello che la tua armatura, una delle dodici corazze d’oro, esiste! Certo, non siamo dello stesso rango dei quattro sommi angeli di Zeus, ma credetemi quando vi dico che la nostra potenza supera di gran lunga quella di tutti i nostri parigrado.”

“E forse” - intervenne Polluce - “ora che Epafo e Sarpedonte sono stati sconfitti, è tempo che siano i Dioscuri a sedere tra i figli prediletti di Zeus.”

“Mi trovi pienamente d’accordo fratello: sbarazziamoci di questi straccioni disperati, e conquistiamo il trono che ci spetta di diritto.”

I due iniziarono a bruciare ardentemente il proprio cosmo, e Kalos e Loki rabbrividirono quando videro la tecnica che i due angeli si apprestavano a lanciare: Galaxian Explosion.

 

 

Giunta a metà scalinata, Atena si trovò davanti a coloro che tra gli dei dell’Olimpo considerava i più vicini ad una famiglia:

“Vi prego, non ostacolate il mio passo, non intendo farvi del male, ma se sarà necessario lo farò.”

“Farci del male?” - disse Apollo - “Neppure ti rendi conto di quanto dolore hai già arrecato alla nostra famiglia con la tua follia!”

“Devi pagare per la tua superbia” - aggiunse Artemide - “è diventata incontenibile.”

“Le mie azioni sono mosse dalla volontà di proteggere la Terra.”

Apollo rise sdegnato:

“Ancora ti ostini a proteggere quei folli, dopo tutto l’orrore che hanno portato nel mondo con la loro primitiva brutalità? Un tempo gli uomini erano saggi, rispettavano la natura e ci rendevano il giusto onore; ma da quando hanno iniziato a scordarsi di noi si sono riempiti di tracotanza…”

“Ti sbagli” - intervenne Dioniso facendo la sua comparsa - “gli uomini hanno sempre avuto il male dentro, anche mentre vi adoravano, solo che eravate accecati dalle lusinghe per vederlo: durante i riti bacchici ho potuto vedere la natura brutale dell’essere umano quando la sua ragione si annulla, ed è solo un primordiale istinto a guidarlo.”

“Questo non cambia il sunto delle cose: l’umanità è una malattia che deve essere estirpata.” - sentenziò Artemide.

“Forse, o forse no” - le rispose Dioniso - “ma tu non eri tanto amante della natura, o Artemide?”

“E questo che cose c’entrerebbe?”

Dioniso sghignazzò divertito:
“Pensi davvero che quel gigantesco tuono mortifero che nostro padre sta preparando si abbatterà magicamente solo sui mortali?”

A quel punto la dea della luna ebbe un impercettibile sussulto.

“Davvero non te ne eri resa conto? Sorellona, mi deludi! O devo pensare che per comodità non ti sia mai posta il problema?”

“Taci, non osare più offenderla con le tue parole, folle!” - lo ammonì Apollo.

“Sarò anche folle, ma quel che dico è vero: le creature che tanto ami, signora degli animali, bruceranno colpite dalla divina folgore del signore dei cieli.”

Artemide strinse i pugni rabbiosamente:
“Anche se fosse, ormai la vita sulla Terra è compromessa, le armi usate dagli uomini nell’ultima guerra hanno portato all’estinzione di molte bestie innocenti: devono pagare per questo.”

Atena la guardò dispiaciuta:
“O sorella, tanto è l’odio nel tuo cuore che preferisci distruggere quel che ti rimane pur di poterti vendicare…”

“Taci tu, è solo colpa tua: se fossi stata più severa con i mortali non saremmo arrivati a questo punto!”

“Probabilmente hai ragione, ho voluto vedere solo quel che volevo, ignorando il lato oscuro della razza umana; ma giunti a questo punto, non posso tornare sui miei passi, altrimenti le cose non cambieranno mai.”

“Lo sai vero” - disse Apollo - “che nessun umano renderà grazie né a te né ai tuoi cavalieri, nell’assurda possibilità che tu vinca?”

“Applausi e lodi non mi interessano, voglio solo salvare quel che resta di loro.”

“I migliori sono già morti da molto tempo, ormai rimane solo la feccia…”

“C’è ancora del buono nei loro animi, e finché ci sarà almeno una scintilla di tale bontà, io non cesserò di lottare per il loro diritto alla vita.”

Dioniso ascoltò in silenzio il tenzone verbale, e nonostante fosse dalla parte di Atena, il suo pensiero era più vicino a quello degli dei gemelli: l’umanità non meritava l’estinzione, ma non era neanche degna di salvezza, né tanto meno della comprensione di Atena.

“Ora basta con le parole…!” - esclamò Artemide, gettandosi furiosa contro la sorella, ed i loro scettri si scontrarono scintillando.

“E ora veniamo a noi” - disse Apollo austero, rivolgendosi a Dioniso - “è tempo di risolvere il nostro conto in sospeso.”

“Non mi sembra ci sia nulla in sospeso tra noi, ma se vuoi un’altra batosta, chi sono io per negartela?” - rispose divertito battendosi i pugni.

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Capitolo 17
*** Il tormento della dea ***


 

Cantami, o diva, del Pelìde Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto consiglio s'adempia), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille.

(Omero, Iliade, Proemio)

 

 

Le barriere erano ormai quasi del tutto crollate, ed il nemico penetrava da ogni fianco; ma nonostante avessero a che fare con poteri divini, i cavalieri potevano vantare tra le loro fila personaggi straordinari.

Kiki di Ara, John di Lacerta, Lambda di Aries, ed Ian di Virgo, sostenevano tutti quanti con i loro cosmi difensivi, ma appena se ne presentava l’opportunità sfoderavano attacchi dirompenti in grado di sbaragliare innumerevoli nemici.

I leggendari Ikki di Phoenix e Hyoga di Aquarius colpivano rispettivamente con ardenti fiamme e polvere di diamanti, lasciando il nemico perso sia del caldo che del freddo.

Silen di Scorpio, Deneb di Cygnus e Miles di Draco, i primi due con indosso vestigia divine, l’altro dorate – dono del defunto cavaliere di Lybra, il cui sangue aveva toccato la sua corazza nella battaglia in Messico – sostenevano il cuore del gruppo, proteggendolo dal centro, coadiuvati dai colpi del drago nascente di Tsuru, vestita per l’occasione con la corazza di Lybra, e di Melas di Vela, più il sostegno delle rose velenifere di Hana di Puppis; Heracles di Pyxis invece era passato allo sfondamento in attacco, assieme al fratello Chiron di Sagittarius e a Keith di Taurus. Infine, dall’alto, Aster di Pegasus, Niche, e Civetta, contrastavano con ardore e ferocia tutti gli angeli che potevano intercettare in volo prima che giungessero a terra a dare ulteriori disagi agli altri cavalieri.

Gli altri guerrieri di bronzo e di argento, agivano sotto la guida di un possente cavaliere dall’aspetto vissuto, il quale aveva visto molte battaglie e combattuto persino in determinate occasioni, a sostegno dei cinque cavalieri leggendari: era Geki di Ursa Major. Assieme ai fratellastri Ikki e Hyoga, Geki era uno degli ultimi retaggi di un’epoca ormai lontana, dove la precedente Atena aveva organizzato un torneo, denominato Galaxian Wars; in tale battaglia il cavaliere dell’Orsa maggiore si era persino scontrato – ed anche fatto battere – dal leggendario Seiya di Pegasus.

«Chi l’avrebbe mai detto» - pensò tra sé e sé il vecchio Geki «che sarei arrivato fin sull’Olimpo per seguire Atena? In ogni caso questi ragazzi hanno bisogno anche del mio aiuto, ed io non li deluderò!»

In seguito, Geki non sarebbe sopravvissuto alla battaglia, ma il valore con cui combatté quel giorno dette profonda ispirazione a tutti i cavalieri, che avrebbero sempre nei loro cuori un profondo ed ossequioso rispetto verso quel veterano caduto da eroe sul campo di battaglia, dopo un’onorata vita passata a difendere gli ideali della libertà e della giustizia.

 

Molti angeli erano soliti lottare con armi varie come lance o spade, ma Polluce combatteva in un modo assai poco convenzionale, per una guerra: faceva affidamento solo sulla forza dei propri pugni. Fin dall’epoca del mito il figlio di Zeus era stato annoverato come uno dei più potenti pugili mai esistiti, ed ora quei colpi micidiali si abbattevano furiosi sul cavaliere dei gemelli; tanto pesanti erano i pugni di Polluce, che fin la divina armatura dei gemelli si stava riducendo in frantumi.

Dall’altra parte invece, Castore attaccava in maniera meno fisica ma altrettanto letale, tempestando Loki con ondate di cosmo ardente; l’armatura della Carena era certamente più debole di una corazza in forma divina, ma possedeva una resistenza pressoché identica, che le permetteva di incassare i colpi dell’angelo.

Tra i due cavalieri, quello più in difficoltà sembrava essere Kalos: Polluce teneva il combattimento estremamente ravvicinato, e ciò non gli dava modo di lanciare il Galaxian Explosion.

Ma anche se lo avesse lanciato? Colui che stava affrontando era uno dei due che avevano creato tale tecnica e ne conoscevano ogni minimo dettaglio.

Poco prima gliene avevano scagliata una contro, e solo aprendo un varco in un’altra dimensione Kalos e Loki erano riusciti a scamparla per un soffio; i dioscuri erano sembrati sorpresi da quella mossa, ed i due cavalieri avevano compreso che se volevano vincere avrebbero dovuto puntare proprio sull’Another Dimension. Ma per Kalos sussisteva il problema della vicinanza: se avesse aperto un varco davanti a sé, sarebbe potuto finirci intrappolato assieme al suo avversario.

Loki invece cercava di aprirsi una breccia tra le vampate di energia nemiche, ma il figlio di Zeus sembrava non avere punti deboli; doveva sbrigarsi, l’armatura era potente ma il suo corpo lo era meno, e cominciava ad accusare il peso di quell’energia divina che si stava abbattendo su di lei.

 

Callisto era umana, ma aveva da tempo trasceso la sua condizione mortale, servendo Artemide: a conti fatti, Kara stava fronteggiando una divinità.

Ma dal canto suo, neanche Kara era totalmente umana, poiché in lei albergava l’essenza dell’antica e temuta Echidna; certo, nei tre anni dopo la battaglia al Santuario aveva esclusivamente allenato il proprio lato umano, ma adesso era il momento di sfoderare entrambe le parti della sua essenza.

“Come puoi tu, bestia” - le si rivolse stizzita - “tenere testa a me, la somma sacerdotessa lunare!”

Lanciò un raggio di luce dal suo scettro, colpendole la spalla sinistra e distruggendo parte della corazza; Kara si tastò dolente, ma subito si rimise in guardia.

“E’ proprio vero che le erbacce sono dure a morire…”

“Perché invece di continuare a insultarmi non mi affronti in modo onorevole e soprattutto serio?”

La sacerdotessa fece una smorfia indispettita:
“Onorevole? Serio? Non comprendi proprio la tua posizione, ma d’altronde sei una bestia demoniaca, non devo aspettarmi nulla di più da te!”

Di colpo la guerriera di Alcor si portò su Callisto e le assestò un violento pugno allo stomaco, facendola indietreggiare tremolante:
“Con la lingua sei brava, ma la difesa la tieni troppo bassa.”

La donna strinse rabbiosamente il proprio scettro ed iniziò ad attaccare Kara con una serie di affondi rapidi, ma in breve quest’ultima le scivolò di lato, colpendola con una gomitata in faccia, continuando poi a colpire con una raffica di pugni. Callisto era forte e resistente, ma Kara aveva un’abilità innata nelle arti marziali, che aveva coltivato per tutta la vita: sapeva dove e come colpire una persona, anche se aveva un’aura divina.

Ma la sacerdotessa era resistente, e furibonda, e avrebbe venduto cara la pelle, soprattutto contro un avversaria a suo dire indegna.

E mentre sua madre affrontava Callisto, Leonidas ne affrontava il figlio, uno dei prediletti di Zeus. Da quando era tornato dal mare di cosmo, il suo potere era accresciuto in maniera incredibile, ma Arcade era un avversario molto più forte di quelli che aveva affrontato fin’ora: era per lui giunto il momento di sfoderare l’armatura divina.

Leonidas si avvolse in un bagliore dorato, rigato da scariche nere di energia, e poco dopo si lanciò all’attacco contro Arcade bardato di quelle nuove vestigia: il semidio, non aspettandosi un simile potere, finì travolto dalla carica del leone, e venne scagliato addosso ad un tempio, che gli cadde addosso crollando.

Dopo alcuni istanti Arcade sbucò furioso dalle macerie polverulente, e ringhiando si gettò addosso al proprio avversario, bruciando intensamente il proprio cosmo.

“Avanti vieni, mostro!” - gli intimò il semidio battendosi il petto, tronfio di alterigia.

Senza farselo ripetere, Leonidas scattò avvolto di cosmo nero e fulminante contro Arcade, che lo aspettava in guardia, sicuro di riuscire a parare il suo attacco: in pochi istanti, sia la difesa che la certezza finirono in frantumi.

 

 

Poco più in alto, Apollo e Dioniso avevano ripreso il loro eterno scontro, ma per quanto intensa fosse la loro disputa, accanto a loro ne stava avvenendo una molto più intima e dolorosa per la famiglia degli dei:

“Perché non ti arrendi…!” - ringhiò Artemide eseguendo un affondo col suo caduceo dalla punta lunare.

“Non posso farlo, non ora.” - rispose Atena con la medesima determinazione, parando il colpo col proprio scettro - “Smettiamola ti prego, non lo vedi che ci stiamo solo facendo del male?”

“Bene, del dolore che provo non me ne importa, ma quello che ti sto infliggendo mi procura un piacere immenso!”

Era come se la dea della luna avesse smesso di pensare, affidandosi solo ad un brutale istinto mosso da un’estrema rabbia, ma Atena era conscia che dietro a quella furia non ci fosse solo indignazione per i suoi atti, ma anche qualcosa di più profondo, legato al loro rapporto.

“Smettila, ci annienteremo a vicenda…!”

“Se servirà a fermare la tua follia, sarò felicissima di farlo.”

Atena guardò sconvolta l’altra dea:
“Tu… che hai sempre amato la vita… come puoi dire una cosa simile?”
“Perché il mio odio in questo momento è superiore al mio amore, voglio solo vederti distrutta!”

“No, non dire queste cose… io ti conosco, non sei così…”

“Tu non mi conosci, e non sei mia sorella!”

Ogni parola pronunciata da Artemide era per Atena molto più dolorosa dei colpi da lei inferti, ma la dea della guerra non ne voleva sapere di arrendersi: avrebbe lottato fino alla fine, ma non poteva cadere, poiché dopo Artemide sarebbe rimasto ancora il padre Zeus da affrontare.

Ma come avrebbe potuto scontrarsi con lui, se lo scontro con la sorella la stava sfiancando?

Presto detto, piovve dal cielo l’aiuto che andava cercando:

“Perdonate l’attesa, mia signora.” - disse Aster atterrando delicatamente, mettendosi al fianco della dea pallade.

“Pegasus” - lo guardò Artemide con sdegno - “il peccatore celeste… se ti uccido vendicherò Ade ed Ares: sparirai, e di te non lascerò nemmeno il ricordo!”

“Non è la prima volta che vengo minacciato in tale modo… ma in lei percepisco un’ostilità fuori da ogni misura.”
“Temo sia accecata dall’odio.”

“Però ho visto il disprezzo verso gli umani, e per quanto esasperato non aveva mai assunto simile forma, né forza.”

“Per questo ritengo vi sia altro dietro le sue ragioni, qualcosa che la tormenta…”

Aster guardò Atena e sorrise:
“Voi volete salvarla, vero?”

La dea non rispose, limitandosi a sorridere a propria volta.

 

“Avete finito?”

 

Un bianco raggio di energia si abbatté sui due, i quali fecero appena in tempo a spostarsi nelle rispettive direzioni opposte, dopodiché dea e cavaliere divino iniziarono ad attaccare su due fronti la loro avversaria.

Artemide si difendeva con ardore, sia dagli affondi di Atena che dalle meteore di Pegasus; ai due parve quasi che la dea della luna traesse maggior forza dall’essersi messa in gioco contro due avversari.

Ma anche se non riusciva a percepirlo, il suo corpo divino iniziava ad affaticarsi, e sia il suo attacco che la sua difesa avevano iniziato a scemare in efficacia; la cosa non passò inosservata ad Aster, che colse l’occasione per sfoggiare tutto il proprio ardente cosmo racchiudendolo in un unico colpo, che come una meteora scagliò addossa alla dea, la quale, sbalzata per una frazione di secondo con la guardia bassa, si ritrovò colpita al fianco da un attacco di Atena.

Artemide furente non avrebbe permesso il chiudersi dello scontro in quel modo, ma Pegasus non poteva lasciarsi sfuggire un’opportunità d’oro come quella che Atena gli aveva dato stordendola: la sua energia in teoria doveva essersi esaurita con il precedente colpo, ma in qualche modo riuscì comunque ad attingere nuovamente alla forza del suo cosmo, e a scagliare una nuova meteora lucente, che andò dritta sulla dea della luna.

Confusa e ferita, Artemide diede libero sfogo a tutto il suo travolgente potere, e come una furia si portò sopra Aster, inerme per il pesante calo energetico, ed iniziò a colpirlo ripetutamente con lo scettro.

Eppure nonostante la foga, non riusciva a danneggiare la divina armatura di Pegasus, e frustrata prese a colpirlo in volto; tuttavia, neppure in quel modo riusciva a porre fine alla vita del cavaliere, pur procurandogli numerose contusioni.

D’improvviso si arrestò.

Aster col braccio alzato sotto, ed Atena con lo scettro teso dietro: un doppio attacco, perfettamente sincronizzato, aveva colpito l’interno del corpo divino di Artemide.

 

Sia Dioniso, ma soprattutto Apollo, in quel momento si fermarono sconvolti.

 

Artemide crollò a terra, e subito Atena le si portò accanto e le sollevò con delicatezza per aiutarla a respirare:

“Sono qui, sono qui.” - le disse trafelata Atena.

“Tu…” - sospirò tossendo Artemide.

“Perdonami, mi dispiace tanto!”

La dea della luna si limitò a fissarla con sguardo austero.

“Andiamo, non è una ferita così fatale, usa il tuo cosmo per riprenderti!”

“No.”

“C-come?”

“Non mi riprenderò solo per chinare il capo dinnanzi alla sconfitta.”

“Adesso non dire sciocchezze ti prego, risana le tue ferite!”

“Non voglio.”

“Ti prego non lasciarmi!”

Artemide ridacchiò beffarda:

“Vedi? Questo è l’unico modo che ho per batterti.”

“Ricordi quando eravamo bambine? Quando giocavamo a rincorrerci nel giardino delle Esperidi, o quando cantavamo con le muse sul monte Elicona, accompagnate dal dolce flauto di Pan, o ancora quando solcavamo l’Empireo assieme a nostro fratello sul carro solare?”

“Sì, me lo ricordo.”

“Non puoi lasciare che tutto ciò venga perduto… non lasciarmi, resta con me!”

“Ma guardati, la grande Atena che supplica in lacrime come una ragazzina; che ne è stato del tuo onore?”

“Non mi importa niente di quello, voglio solo che tu stia con me… ti prego, sorella…”

“Perché insisti nel chiamarmi così? Io ti ripudio.”

“Sei l’unica sorella che ho…”

“Non è vero, nostro padre ha contribuito a darci un folto numero di fratelli e sorelle nel corso dei millenni.”

“No, solo tu sei la mia unica sorella, la sorella che amo e che mi ha insegnato le arti della poesia e della caccia… e che tanto tempo fa mi insegnò cosa significasse l’amore di una famiglia.”

“Sembra che la tua famiglia siano i mortali.”

“No, siete solo tu e Apollo” - Atena era ormai completamente in preda alle lacrime - “vi voglio bene…”

 

Apollo, giunto lì accanto assieme a Dioniso, si ergeva immobile senza dire una parola.

“Perché non vai da lei?”

“A cosa servirebbe? La conosco perfettamente, non posso cambiare la sua decisione.”

“Dovresti almeno provarci.”

Il dio del sole non rispose, limitandosi a continuare a fissare la sorella immobile, col cuore in gola.

“Razionale fino all’estremo…” - commentò Dioniso scuotendo il capo.

 

“Perdonami, solo ora comprendo quel che provi…” - singhiozzò Atena.

Artemide la guardò con aria interrogativa.

“Non mi ero resa conto di quanto tu stessi soffrendo: la tua rabbia era dettata dal dolore, vero?”

La divina cacciatrice non rispose, limitandosi tremolante a distogliere lo sguardo da un’altra parte.

Dioniso a quel punto si fece avanti:

“Hai visto la tua famiglia dilaniata dal conflitto, e sei rimasta in silenzio per tutto questo tempo… tu sapevi che c’era qualcosa di sbagliato nella volontà divina, ma non volevi portare altro dolore in questo reame.”

Le si chinò accanto:

“E la cosa peggiore, è che tu in fondo capivi cosa provava Atena.”

“Come fai…” - disse Artemide quasi sussurrando - “Come fai a volere un simile fardello? Perché non potevi semplicemente essere… mia sorella?”

“Perché non era giusto; ma non è neanche giusto che tu paghi per i miei errori… vorrei poter dire di desiderare d’essere al tuo posto, ma non posso, devo continuare a combattere, fino alla fine.”

“Perché devi essere così ostinata…”

Pur in lacrime, Atena sorrise dolcemente:

“Perché sono tua sorella.”

In quel momento, la dea impose le sue mani sul ventre di Artemide, e vi fece fluire il suo caldo cosmo ristoratore.

“Cosa fai? Devi combattere una battaglia o no?”

“I miei cavalieri stanno morendo, ed io non riesco ad aiutarli… vorrei salvare almeno te.”

“Come speri di affrontare nostro padre privandoti di una parte del tuo cosmo?”

“Non lo so, ma in qualche modo…”

“E poi chi ti dice che ora non mi alzerò e comincerò nuovamente ad attaccarti.”

“Nessuno.”

“Sei una sciocca.”
“Già, un vero disastro come divinità…”

 

Callisto giaceva riversa al suolo sanguinante, mentre Kara, coperta di ferite, si ergeva con affanno accanto a lei.

“Non può essere… Arcade! E persino… l-la nobile Artemide!”

“La tua battaglia ormai non ha più senso, ritirati, porta tuo figlio con te e vivi il resto dei tuoi giorni con serena dignità.”

“Giammai…!” - ringhiò la donna trascinandosi verso il proprio scettro.

Come fece per allungare il braccio, vide una candida mano raccoglierle l’arma e porgergliela cortesemente subito dopo:
“M-maestà…”

Gli occhi di Callisto si spalancarono, nel vedere la sua dea sana e salva dinnanzi a lei, in compagnia del divino Apollo.

“Fa ritirare le Satellite, mia fedele sacerdotessa.”

“M-ma la battaglia…!”

“Se il padre Zeus avesse agito con maggiore assennatezza, non ci avrebbe lasciati in un momento così importante, e sarebbe sceso in campo in prima persona, ponendo immediatamente fine a questo folle conflitto; forse vincerà la guerra, ma non intendo far perdere la vita ad altre mie guerriere a causa della sua superficialità.”

In quello stesso momento, compariva Leonidas, coperto di graffi ed altre ferite di piccola entità; tra le braccia teneva Arcade, grondante sangue e privo di sensi, ma vivo.

Callisto si alzò in piedi, e si fece consegnare il figlio tra le braccia:

“Come comandate, mia Signora.”

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Capitolo 18
*** Gli inganni dei gemelli ***


Nulla salus bello: pacem, te poscimus omnes.”

Non c’è salvezza nella guerra: o pace, tutti ti invochiamo.

(Virgilio, Eneide, 362)

 

Apollo ed Artemide osservavano su un palazzo in lontananza la battaglia infuriare:
“Pensi che stiamo facendo la cosa giusta?” - domandò il dio del sole.

“Non lo so, ma qualunque sia l’esito della battaglia ora ci è indifferente: io ho messo le mie Satellite in gioco, e tu hai perso i tuoi valorosi guerrieri, e soprattutto Giacinto…”

“Mi manca, ma la sua dipartita è stata colpa mia, e dovrò vivere per sempre con questa consapevolezza.”

“Non ti sembra come… di essere nel mezzo di un risveglio da un lungo torpore?”

“Sì, ho da un po’ questa sensazione.”

“Quanto a lungo siamo rimasti così?”
“Forse per troppo tempo; Ermes ha finito per farsi travolgere da questo indurimento del cuore, e purtroppo è morto avvelenato dentro. ”

“Mi dispiace, so che eravate molto uniti…”

“Già, ma purtroppo, penso che se avessimo ascoltato Atena fin da subito, certi lutti si sarebbero potuti evitare…”

Artemide sbuffò:
“Atena è sempre stata una piccola impiastra… ma non avrei mai immaginato che arrivasse a sfidare l’intero Olimpo.”

“E dire che tra tutti lei era la preferita di nostro padre.”

“Pensi che le farà del male?”

“Non ne ha bisogno… distruggerà il suo esercito, e poi l’umanità: la schiaccerà, ma senza torcerle un capello.”

“E se nostra sorella vincesse?”

“Ormai l’esito di questa battaglia, non è più affar nostro.”

 

 

Atena sedeva sulla scalinata, facendo lunghi e profondi respiri; attorno a lei si ergevano Aster, Leonidas, Kara, e Dioniso.
“Non avresti dovuto farlo, Atena.” - la redarguì il dio.

“Lo so.”

“Avevi fatto tutto con così tanta cura fin’ora… e adesso ti metti a fare la santarellina della pace?”

“Dacci un taglio.” - intervenne Leonidas.

“No, non litigate” - intervenne Atena - “Dioniso ha ragione, ho commesso una sciocchezza, e per colpa mia… forse perderemo la battaglia.”

“Non volevo sollevare polemiche, ma invitarti ad agire più cautamente.”

Atena lo guardò con un sorriso di sorpresa:
“Tu… che mi dici di pensare di più?”

Kara osservò Dioniso: non lo aveva mai visto così teso.

Era evidente che la battaglia si stesse facendo intensa al punto che persino l’imprevedibile ed imperturbabile dio notturno cominciava a manifestare segni di cedimento. Kara gli andò vicino e gli carezzò delicatamente il braccio per farlo sentire meno teso, e il dio parve gradire:
“Scusami.” - le bisbigliò nell’orecchio senza farsi sentire da nessun altro, ottenendo in risposta il roseo sorriso delle sue morbide labbra: il suo sguardo amorevole riuscì a calmare sia l’animo di Dioniso che di Leonidas.

Atena li osservò contenta, dopodiché si alzò in piedi:
“Forza andiamo.”

“E gli altri?” - domandò Aster.

“Purtroppo non c’è tempo… è già una fortuna che ci siate voi; dobbiamo recarci da Zeus il prima possibile.”

“Ma i nostri compagni…”

“Lo so che vorresti restare, ma ho bisogno di te, ora.”

“Io vi seguirò sempre, nobile Atena.”

 

I cavalieri respingevano senza sosta le ondate dei nemici, ma per quanto fossero infinitamente più numerosi di loro, si accorsero che a un certo punto gli attacchi erano divenuti meno intensi: in particolare, le tempeste di frecce delle arciere Satellite non li stavano più tartassando.

“Atena deve aver convinto Artemide a ritirarsi…” - commentò Heracles, rivolgendosi al fratello.”
“Già…” - rispose Chiron con affanno.

“Devi fermarti.”

“Lo farò quando la battaglia sarà vinta.”

“Il tuo corpo sta morendo Chiron.”

“Lo so.” - disse imbracciando l’arco, preparandosi nuovamente ad attaccare.

Heracles si preparò a seguirlo in battaglia, ma tosto venne circondato da una dozzina di angeli, ed uno di essi dai capelli neri e riccioluti si fece avanti:
“Salute, Eracle.”

“Piritoo.” - lo salutò Heracles.

“So che hai sconfitto da solo diversi di noi… ma dovrai essere stanco.”

“Dimmi Piritoo, quando viaggiammo insieme sulla nave Argo…”

“Eri molto più robusto e villoso allora.”

“… quando accompagnammo Teseo alla ricerca del vello d’oro, mi vedesti una singola volta in difficoltà?”

“No mai.”

“E hai mai sentito di una mia sconfitta per mano nemica, all’infuori dell’inganno che mi portò alla morte?”

“Neppure.”

“Dunque cosa ti lascia pensare che una dozzina di bastardi possano battermi?”

“Anche tu sei un mezzosangue.”

“Sì, ma io sono il più potente tra i bastardi.”

 

 

L’armatura divina dei gemelli era coperta di crepe da cui sgorgava copioso il sangue di Kalos, il cui corpo era ormai martoriato dai micidiali pugni di Polluce.

Loki osservava e al contempo cercava di tenere testa a Castore, i cui attacchi l’avevano coperta di abrasioni, nei punti non coperti dalla corazza.

La ragazza stava tentando ogni singola tecnica, mentale, energetica, e fisica, ma niente pareva funzionare il dioscuro:
“Anche se non prediligo l’uso dei pugni come mio fratello” - le confidò Castore - “sono anch’io un ottimo pugile, ed il mio corpo è allenato, così come la mia mente: i tuoi pugni diabolici non possono nulla contro di me.”

Con uno scatto si portò dinnanzi alla ragazza e le aprì la mano sul volto, per poi gettarle addosso una sfera di energia dorata, che l’avvolse facendola sparire.

“Ecco che cala il sipario su un altro mortale tracotante.”

E mentre si gongolava soddisfatto, sentì qualcosa colpirlo dietro il capo: si voltò, e vide la ragazza viva e vegeta, col braccio ancora teso ed avvolto di cosmo.

“Tu… come può un mortale apprendere un simile potere capace di ingannare persino un figlio di Zeus?!” - esclamò tastandosi dolente il collo.

Loki indietreggiò a denti stretti:

«Gli ho scagliato un intero Galaxian Esplosion sulla nuca, come può essere vivo?»

“Perché ti ostini a usare quel colpo, su di me è come se avesse meno di un decimo della sua potenza effettiva…sei stata parecchio sfortunata sai? Ma la verità è che abbiamo subito puntato al cavaliere di Gemini, ed immaginavamo anche avesse un gemello… o in questo caso, una gemella. Abbiamo sentito di quanti danni Gemini avesse fatto da solo al nostro esercito, e perché perdere altri uomini preziosi quando potevamo contrastare uno dei più temibili servi di Atena semplicemente annullando le sue tecniche?”

La colpì con un pugno all’addome alla velocità della luce, che la fece piegare dolorante.

“Ricordo ancora quando io e mio fratello indossavamo l’armatura creata in nostro onore… fummo i primi cavalieri d’oro della costellazione dei gemelli! Quante avventure vivemmo, quanti nemici affrontammo… ma ahimè, il nostro sodalizio con Atena finì, e decidemmo di servire l’unico vero dio degno di governare sul creato: il padre Zeus.”

Loki alzò lo sguardo, e vide, dietro al semidio, Chiron che si ergeva con l’arco teso, pronto a scagliare la leggendaria freccia d’oro del sagittario.

Le fece un cenno con gli occhi, sufficiente a farle capire che aveva bisogno di tempo per cogliere il momento giusto in cui scoccare la freccia, ed allora Loki iniziò a fare una delle cose che le venivano meglio: ingannare.

“P-perché avete abbandonato Atena?”

“Ancora riesci a parlare? Allora le armature di platino sono davvero resistenti come dicono! In ogni caso, dato che stai per morire, ti concederò come regalo d’addio la risposta alla tua domanda: non c’è un motivo preciso, ad un certo punto abbiamo semplicemente compreso che le lotte intraprese da Atena erano… inconcludenti.”

“Forse vi faceva comodo pensare così, e ritirarvi invece che continuare a lottare…”

Il dio si accigliò, e le sferrò una gomitata sulla schiena:
“Come osi… io ho combattuto battaglie lunghe come la vita di un mortale, ho visto cadere potenti eserciti, conosco bene la natura di un conflitto, e ti so anche dare già un responso per quello attualmente in corso: perderete, verrete spazzati via prima ancora della stupida razza umana, e Atena, unica degna di essere salvata, piangerà le vostre morti per un po’, un bel po’… dopodiché andrà semplicemente avanti, perché non potrà vivere per sempre nel suo passato rovinoso.”

“Parli come se fossi alieno, ma sei per metà umano… non provi nulla per la specie a cui tua madre apparteneva?”

“Tieni fuori la venerabile Leda, ormai non più in questo mondo da diverso tempo.”

“Dunque Zeus salva la sua progenie ma non coloro con cui l’ha generata…”

“Taci tu! E’ vero, colei che generò me e Polluce non ottenne l’accesso al monte degli dei, ma fu per volere di Era, consorte di nostro padre; lei è potente, e nobile, e per quanto ci abbia addolorato non poter più rivedere nostra madre, abbiamo accettato l’ordine costituito in questa famiglia che serviamo e di cui siamo membri, anche se solo per metà.”

A quel punto il dioscuro impose la mano carica di cosmo bruciante:
“Ora non potrai più imbrogliarmi coi tuoi trucchetti, poiché la tua misera tecnica non funzionerà su di me una seconda volta.”

“Infatti non è stato semplice architettarne una nuova, qui, dal nulla.”
“Come?”

“Mi sono ispirata a una tecnica che toglie i cinque sensi… ma invece di levarteli, ho lentamente iniziato a logorarteli.”

“Ma a quale scopo?!”
Chiron poggiò la freccia sul capo di Castore e tese al massimo l’arco:
“Questo.”

 

Polluce arrestò la sua furia, e vide una violenta esplosione dorata avvolgere tutta la zona accanto a loro:

“Non può essere… fratello!”

 

Castore cadde a terra, con la freccia dorata ben conficcata nel cranio.

 

Le ginocchia di Chiron cedettero, e si accasciò al suolo, accanto a Loki e al nemico appena abbattuto:
“Grande sacerdote…” - gli si portò vicino, aiutandolo a stare seduto.

“Sto bene, non è niente, va ad aiutare Kalos.”

Loki lo guardò e sorrise dolcemente:
“Grazie Chiron… per tutto quello che hai fatto per me.”

“Di nulla” - rispose ricambiando il sorriso - “adesso va, io ho bisogno di riposarmi un attimo…”

Loki fece un cenno e si rialzò, precipitandosi a dare man forte al fratello.

 

Chiron la osservò correre via, felice che finalmente quei due ragazzi tormentati avessero trovato la propria via, per quanto fosse stata disseminata di dolorosi ostacoli. Molto sangue era stato versato tra le loro famiglie, ma ora le colpe erano state scontate, ed i perdoni concessi: adesso erano tutti guerrieri al servizio della medesima nobile causa.

«I valorosi eroi del segno dei Gemelli…» - pensò ridacchiando tra sé e sé.

Infine, con l’animo sereno, chiuse gli occhi, e non li riaprì più.

 

 

In preda alla rabbia e allo sconforto, Polluce attaccava i due gemelli, ed i suoi pugni erano carichi di volontà assassina:
“Mi avete separato dalla mia metà, morirete di una morte orribile vermi!”

Anche se ora erano in due, Kalos e Loki si trovavano comunque contro uno dei più temibili semidei dell’Olimpo, completamente pervaso dalla furia per giunta. Normalmente questo fattore avrebbe giocato in loro aiuto, un nemico furente è prevedibile: ma Polluce era diventato ancora più veloce e potente, e i due riuscivano a vedere a malapena i suoi colpi.

«Ho un piano.» - disse Kalos comunicando alla mente della sorella.

«Un piano?» - rispose lei sbalordita.

«Prima non potevo attuarlo perché ero solo, ma ora tu puoi coprirmi.»

«Cosa intendi fare?»

«Scagliarlo in un’altra dimensione.»

«Non basterebbe, questo mostro sarebbe capace di tornare.»

«Non una dimensione qualsiasi; ricordi cosa accadde tre anni fa?»

«Vuoi mandarlo nel mondo dove ho intrappolato il mare di cosmo? Se apri il varco per quel luogo c’è il rischio che anche tu venga inghiottito!»

«No, se lo apro dalla giusta distanza: è per questo che ho bisogno di te. »

Così, mentre Polluce si avventava furioso, Loki gli caricò contro, facendolo indietreggiare di alcuni passi:
“Lurida mocciosa, ti farò a pezzi anche se sei una donna!”

Loki stava bruciando al massimo il proprio cosmo, ma non lo utilizzò per attaccare: aprì una serie di piccole porte dimensionali, in cui scappava dai colpi di Polluce. E prima ancora che questo potesse rendersi conto di cosa stesse succedendo, lei sbucava fuori nuovamente, e come faceva per attaccarlo, eccola sparire in un altro varco. Ma aprire e chiudere le dimensioni era uno sforzo immane per Loki, ed in breve i suoi movimenti si fecero più lenti, e Polluce poté afferrarla prima che lei potesse rifugiarsi in uno dei suoi varchi.

Polluce strinse rabbiosamente i denti, e le assestò un micidiale pugno diretto sul volto, che le mandò in frantumi la testa, e poi anche tutto il suo corpo sparì.

“E ora pensiamo all’altro.”

Polluce fece per voltarsi, ma avvertì una presenza accanto a sé riportò lo sguardo alla precedente posizione: a pochi passi da lui, la cavaliera di Carina si ergeva affannata ma incolume.

“Ma quale stregoneria è mai questa?” - la guardò basito.

Loki ridacchiò ansimando:

“Tuo fratello era più allenato contro gli attacchi mentali; ma devo dire che anche tu hai una mente di ferro… sono riuscita solo ad ingannarti di pochi centimetri.”

“Suppongo questa fosse la tua ultima carta, ed è un vero peccato che tu l’abbia bruciata in questo modo, avresti potuto pensare a qualcosa di meglio per salvarti la vita.”

“Oh, ma tutto sta andando esattamente come volevo.” - rispose Loki sorridendo beffardamente.

Di colpo il dioscuro si voltò allarmato, ma era già troppo tardi per lui:

il cavaliere dei gemelli aveva aperto un portale verso quel mondo fatto di puro cosmo dove per tre anni Leonidas aveva vagato privo di forma.

“Non riuscirete a fregarmi!” - urlò l’angelo mentre quel portale lo attraeva a sé come un magnete.

“E’ finita, Polluce.” - gli disse Kalos, mentre veniva a sua volta attirato dalla forza del varco dimensionale.

“Kalos, il portale ti sta risucchiando!” - esclamò Loki allarmata.
“Non c’era una reale distanza di sicurezza per colui che apriva questa porta… dovevo soltanto trovarmi alla giusta distanza da lui per aprirla; tu allontanati, altrimenti ti inghiottirà!”

Loki sconvolta fece per avvicinarsi, ma il fratello le fece cenno di fermarsi, dopodiché la guardò sorridendo:
“Ti chiedo scusa, ho mentito… alla fine sono riuscito ad ingannarti io, questa volta.”

E come ebbe detto ciò, il varco risucchiò sia lui che Polluce, per poi chiudersi come se non fosse mai esistito.

 

La ragazza cadde a terra in ginocchio:

“Non puoi lasciarmi…” - biascicò atterrita.

 

L’aveva ingannata: come aveva potuto farlo?

 

“Non puoi lasciarmi!!!” - gridò scoppiando in lacrime.

 

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Capitolo 19
*** Μεγας Κεραυνος ***


Saprai comandare quando

avrai imparato ad ubbedire.”

(Solone)

 

Nonostante le numerose perdite, i combattenti di Atena stavano riuscendo a mantenere la posizione, ma né loro né i nemci stavano trovando un modo per avanzare; la battaglia sembrava essere giunta ad un punto di stallo.

“Dov’è il sommo Chiron?!” - domandò allarmato Keith guardandosi attorno.

“Non riusciamo a trovarlo…” - rispose Hana, vedendo poi d’improvviso tornare, scuro in volto, Heracles, ed intuì che non avrebbe più visto il cavaliere del sagittario.

“Hana” - le disse serio - “Atena sta andando ad affrontare Zeus.”

“Come? C’è qualcuno con lei?”

“Pegasus, Leonidas, sua madre, e Dioniso.”

In quel momento piovve dal cielo Vittoria alata:

“Non sarà sufficiente, con il signore dei cieli ci sono ancora Hera e Ganimede; Atena ha bisogno dei suoi guerrieri migliori con sé.”

“Noi però siamo bloccati qui.” - rispose Heracles - “ho abbattuto molti angeli e non ne rimangono molti, ma se esitiamo troppo potrebbero approfittarne per riorganizzarsi.”

Niche lo guardò preoccupata:
“Eracle, questo esercito ha bisogno di un comandante.”

Il cavaliere della bussola posò lo sguardo dietro di sé:
“Ed giungerne uno.”

 

Un turbinio dorato comparve sul campo di battaglia, aprendo una breccia nelle fila nemiche e precipitandosi in soccorso dei guerrieri di Atena, ormai bloccati con le spalle al muro: era il cavaliere dei pesci, con al seguito tutti i guerrieri che fino a quel momento erano mancati all’appello.

I nuovi arrivati si abbatterono sull’armata nemica con irrefrenabile ardore, ormai assente sia nell’uno che nell’altro schieramento.

“Perdonate l’attesa.” - disse Kypros presentandosi dinnanzi ad Heracles e gli altri.

“Ma guardati” - lo osservò colpita Hana - “sembri fin ringiovanito.”

“Ci siamo scontrati contro Afrodite, lo scontro mi ha prosciugato il cosmo, ma la dea ha voluto ricompensarmi curandomi le ferite e ristorando il mio vigore.”

“Pisces” - gli si rivolse Niche - “tu sei l’unico con abbastanza assennatezza da guidare questi cavalieri; noi dobbiamo andare da Atena, per darle man forte contro Zeus.”

“Ma siete sicuri che io possa guidare i cavalieri?”

“Abbiamo discusso le tattiche assieme, e ho visto quanto tu sia brillante; Sagittarius, Aquarius, ed Atena stessa, confidavano che ti liberassi della tua paura di ferire gli altri per condurli alla vittoria.”

“Inoltre” - disse Hana carezzandogli il petto con delicatezza - “hai salvato tutti quei giovani cavalieri… so che puoi fare lo stesso con coloro che sono rimasti qui.”

Kypros guardò tutti i suoi compagni, ed i loro sguardi a lui rivolti, così carichi di fiducia: era sempre stato solo, e non aveva mai avuto così tanti occhi su di sé. Avevano bisogno di lui, e non gli avrebbe voltato le spalle:

“Va bene, andate voi, ci penso io qui.”

I presenti fecero per andare verso la scalinata, ma Keith venne trattenuto dal cavaliere dei pesci:
“Ho bisogno che almeno un altro cavaliere d’oro stia con me, e tu sei quello di cui ho più bisogno ora: serve forza bruta e tu, in questo campo di battaglia, sei quello che ne ha di più.”

“Va bene, cosa devo fare?”

“Per prima cosa, trasformati.”

“Trasformarmi?” - chiese stupito il giovane.

Keith era l’unico dei dodici cavalieri d’oro a non aver ancora risvegliato il potere divino della sua armatura:
“Ma come faccio?”

“Devi far ardere il tuo cosmo, oltre il settimo senso.”

“Ma è quello che ho fatto fin’ora…”

“Allora continua, con tutta la tua determinazione, fino a far brillare quella corazza dorata, e a farla diventare un’armatura divina.”
“Io… ci proverò.”

Kypros lo guardò sorridendo:

“So che ce la farai, e che diventerai persino più forte di tuo padre.”

 

Miia nel frattempo si era precipitata da Silen, ed entrambe si sentirono enormemente sollevate nel vedersi sane e salve:
“Meno male che stai bene, ho temuto il peggio.”
“Kypros ci ha condotti alla salvezza, ed ora siamo venuti a darvi una mano.”

Lambda le si avvicinò:

“Ho visto Heracles, Hana e Civetta andare verso il palazzo di Zeus, ma con loro non c’era Leonidas; Miia, l’avete per caso incontrato venendo qui?”

“No mi spiace.”

“Atena è già in marcia” - disse Silen - “Leonidas stava combattendo un angelo nelle vicinanze, ma la battaglia presso la scalinata è finita, quindi credo sia con lei e con Pegasus.”

Udendo ciò, Lambda parve travolta da un improvviso sconforto.

“Dovresti andare anche tu al palazzo.” - le disse Silen.

“E voi?”

“Qua ce la caveremo ora che Kypros è tornato… e poi c’è anche Deneb; adesso vai, io comincio ad essere un po’ infiacchita, vi sarei solo d’intralcio.”

Lambda guardò colpita la rossa e questa in risposta le sorrise con la sua solita aria un po’ sbruffona.

“Buona fortuna Scorpio.” - la salutò ricambiando il sorriso.

“Ci vediamo Aries.” - rispose Silen.

Le due non erano mai andate particolarmente d’accordo, ma su quel campo di battaglia, avendo combattuto fianco a fianco anche nei momenti più disperati, erano finalmente riuscite a sentire quel tipico legame che si forma tra compagni d’armi, ed ognuna sperava di poter rivedere l’altra al termine del conflitto.

 

Niche si era levata in volo, per raggiungere più in fretta Atena, e si trovò affiancata da una figura dorata:

“Virgo, ti unisci anche tu alla battaglia finale?”

“E’ questa la battaglia che conta.” - rispose il ragazzo.

“Sai vero che probabilmente non torneremo più da quel tempo?”

“Se così dev’essere” - rispose pacato - “allora seguiremo in fondo la nostra sorte, affinché il mondo possa essere salvato.”

“Ed io sarò al vostro fianco.” - disse Lambda comparendo loro accanto.

La dea della vittoria sorrise dopodiché accelerò verso il palazzo, venendo seguita a ruota dai due cavalieri d’oro divini.

 

Le tenebre del tempio avvolsero Atena ed il suo seguito, ma dopo aver camminato per alcuni istanti, si trovarono in un immenso salone concentrico, illuminato dalla fioca luce cerulea di alcune fiaccole disseminate lungo le colonne da cui era cinto.

In mezzo alla sala, si ergeva la regina dell’Olimpo, che stringeva in una mano un lungo scettro simile a quello di Atena, ma dall’aspetto più affilato:
“Bastarda ingrata… sarà un piacere ucciderti con le mie stesse mani, come ho sempre voluto fare.”
“Nobile Era, so che non sono mai stata nelle vostre grazie, come del resto tutti i figli illegittimi del padre degli dei… ma non ho nulla contro di voi, e vi supplico: cedetemi il passo.”

Era scoppiò a ridere platealmente, e la sua risata fragorosa rimbombò per tutto il tempio:
“Allora non sono stata sufficientemente chiara: ti spezzerò il collo, e non perché siamo in guerra, ma perché ho sempre voluto farlo! Dopodiché…” - portò il suo sguardo su Dioniso - “farò lo stesso con te; anche se quello non è il tuo vero corpo, sarà un piacere farti soffrire, pazzo bastardo.”

Infine lanciò un’occhiata funesta ad Aster:
“Quanto a te Pegasus, non immagini nemmeno le torture che ti aspettano per aver ucciso il mio Ares!”

Dioniso a quel punto si fece avanti:
“Voi andate, a lei ci penso io.”

Atena gli si avvicinò preoccupato:
“Non puoi affrontarla da solo, ti sei appena scontrato con Apollo!”

“Non preoccuparti… se avessi avuto di fronte una qualsiasi altra divinità sarei stato sconfitto, ma lei no, lei ha perso questa guerra da quando abbiamo messo piede sull’Olimpo.”

La dea lo guardò perplesso, poi d’improvviso sembrò aver intuito qualcosa:
“Ma certo, lei non avrebbe mai potuto vincere…”

Detto ciò prese con sé gli altri ed andò oltre; solo Kara era rimasta al fianco del dio notturno.

“Tu non vai?”

“Anni fa, avevi negli occhi una scintilla negli occhi di tanto in tanto, mentre parlavi, per alcuni brevissimi istanti in cui sembravi come perdere la tua solita gioia di vivere; hai sempre cercato di celarlo a tutti, ma io ti ho osservato bene, ed ora che siamo qui rivedo nel tuo sguardo quella stessa scintilla. E adesso, dopo tutti questo tempo, riesco finalmente a capire cosa si celasse dietro di essa, e perché quando faceva la sua comparsa era come se ti spegnessi: c’era un terrificante dolore, dietro quel luccichio.”

Dioniso le strinse la mano ed abbozzò un sorriso:
“Sai no che mi chiamano il dio della follia? Vedi, non sono sempre stato un pazzo… “

Era lo guardò soddisfatto:
“Non sono una da fare doni ai figli di mio marito, ma il regalo che ti diedi fu veramente motivo d’orgoglio per me.”

Kara guardò sconvolta il dio:
“Lei ti ha…”

“Racconta, Dioniso, la tua miserabile storia.” - lo provocò beffarda Era.

A quel punto egli, tremulo, prese a raccontare:

“Oh, non mi ha solo donato la follia, ha fatto molto di più!

Con l’inganno ha fatto uccidere mia madre incinta, Semele, per mano di nostro padre. Ma io sopravvissi miracolosamente, e Zeus affranto, temendo che l’ira della sua sposa si abbattesse su di me appena neonato, pensò di nascondermi sotto le mentite spoglie di fanciulla presso Atamante, un uomo giusto, e sua moglie Ino, poi una volta cresciuto sarei tornato qui sull’Olimpo a rivendicare il posto che mi spettava; crebbi con loro come genitori, assieme a loro figlio, Learco, e da loro venni amato come figlio e sorella.

Ad un certo punto Era mi trovò, ma ero già divenuto sufficientemente grande e forte da poter entrare di diritto nella famiglia divina: se mi avesse ucciso, Zeus gliel’avrebbe fatta pagare cara. Decise allora di far impazzire non solo me, ma anche la mia famiglia: si massacrarono a vicenda, credendo di essere a caccia di cervi. Io invece finii per vagare per tutto il mondo con al seguito un corteo di satiri e menadi, e tutti coloro in cui mi imbattevo finivano travolti da quell’isteria di massa, che culminava nelle truculente cerimonie che ancora portano il mio nome: i riti dionisiaci, orge selvagge a ritmo di musiche e danze, dove facevamo a pezzi le bestie – e talvolta anche le persone – per poi cibarci delle loro carni crude.

Tutto questo andò avanti fino a quando in Frigia mia nonna Rea, la compagna di Crono, mi purificò per i delitti commessi durante la pazzia, risanandomi parzialmente da essa; dopo ciò compii per lei numerose imprese, e quando le mie gesta giunsero alle orecchie del padre Zeus, potei finalmente entrare a far parte dei dodici signori dell’Olimpo.”

“Quanta rabbia provai in seguito a quella decisione: dopo Apollo ed Artemide, ecco un altro bastardo sbucare fuori a sfidare la mia autorità!”

“La mia unica colpa fu quella di venire al mondo.”

“Già, ed ora finalmente porrò rimedio a tale misfatto!”

 

Atena, Aster e Leonidas stavano percorrendo celermente il lungo corridoio del tempio, quando di colpo vennero attaccati da una bionda figura angelica, il cui colpo venne parato dal cavaliere del leone:
“Voi proseguite, a costui ci penso io.”

Senza farselo ripetere la dea ed il cavaliere leggendario proseguirono, lasciando Leonidas faccia a faccia con il prediletto di Zeus:
“Mi ricordo di te” - disse Ganimede impassibile - “i tuoi turpi occhi si sono posati su di me poco fa… però è una fortuna averti qui, figlio di Tifone: immensa sarà la gioia del mio Signore, quando gli porterò la tua testa come prova della fine della stirpe demoniaca.”

“Tu… pagherai per il male che hai fatto ai miei compagni!” - ruggì il leone, iniziando a divampare il suo cosmo.

 

“Infine, ecco la mia figlia adorata che mi si presenta innanzi impugnando le proprie armi…”

Avvolto da un pallido cono di luce cilestra, Zeus sedeva sul suo maestoso trono dorato, in cima a una lunga scalinata presso la sala più grande del suo palazzo, che ricordava vagamente le stanze del grande sacerdote che tuttavia a confronto parevano un minuscolo salottino.

Atena, accompagnata da Aster, avanzava tra i colonnati dell’ampia navata centrale del salone, fino a trovarsi al centro di esso, dinnanzi ad una grossa struttura semisferica intarsiata nella pavimentazione marmorea del palazzo; all’interno di quella sorta di cupola, turbinava vorticosamente uno stormo di saette celesti, che entrambi percepirono emanare un’energia sinistra e terribile.

“Quello che vedi è il Μεγας Κεραυνος .”

“La Grande folgore…” - commentò Atena - “Quella con cui intendi sterminare la razza umana.”

“Sì.”

“Non devi farlo, padre…”

“Chi altro dovrebbe allora?”

“Nessuno, lascia che l’umanità viva, e che cresca imparando dai suoi errori.”

“Hanno avuto tutto il tempo necessario per crescere, ma non l’hanno fatto, ed hanno inquinato l’esistenza con la loro bellicosa arroganza…”

“Gli umani non hanno prodotto solo guerra e morte, in loro c’è anche amore.”

“Già, l’amore dei mortali di cui tanto parli; la descrivi come una virtù magnifica, ma quale può essere la sua regione d’essere se viene eclissata dagli infiniti mali prodotti dall’uomo?”

“E’ potente, ma ora sono sconfortati e l’hanno persa di vista: invece di punirli, aiutali a ritrovarla questa virtù!”

“C’è stato un tempo in cui uomini e dei camminavano sulla stessa terra, ma quei giorni sono finiti: i mortali hanno smesso di essere pii, e sono sprofondati in un vortice che li ha infine portati sull’orlo della distruzione in quest’epoca.”

“Ti sbagli, padre.”

“Sostieni che i mortali siano ancora come un tempo?”
“No, quel che dico è che gli uomini valorosi di cui conservi caro il ricordo sono della stessa specie di quelli odierni: l’umanità non è mai cambiata, ma semplicemente ha saputo mostrarsi degna ai tuoi occhi, perché di fatto lo è sempre stata, e lo è ancora.”
“Però figlia mia, questo dovrebbe farti rendere conto di quanto quei mortali siano sciocchi, e necessitino di una guida; ma finché ci sarai tu o qualcun altro per te a fare loro da balia, non saranno mai in grado di proliferare, ed è per questo che ho deciso di distruggerli.”

“Lasciali invece a loro stessi, hanno sofferto a sufficienza e capiranno, e se ti mostrerai come il sovrano misericordioso che sei, seguirò il tuo saggio consiglio e mi ritirerò, lasciando che si governino tra loro.”

“E se non dovessero farlo, lascerai che si distruggano?”

“Ci saranno i miei cavalieri…”

A quel punto Zeus si levò in piedi adirato:
“Allora non vuoi proprio capirlo ragazzina: o lasci stare l’umanità completamente, oppure continui ad influenzarla con la tua presenza divina! Non puoi continuare a fare un po’ dell’uno e dell’altro, lottando e poi facendo finta che vada tutto bene tra loro: quanto a lungo continuerai a ignorare che abusano le donne davanti ai figli mentre sgozzano i mariti, che torturano dietro compenso, o peggio ancora per divertimento, i loro simili infischiandosi di avere di fronte bambini o donne gravide, che si bombardano con armi di morte che se non ti uccidono nell’immediato ti fanno morire lentamente e coperto di tumori putrescenti, che si impiccano, mutilano, bruciano, massacrano, massacrano, massacrano!”

Atena tacque, col capo chino, e Zeus cominciò a discendere dal proprio altare:
“Il tuo silenzio dimostra la mia ragione.”

“Purtroppo padre quel che dici corrisponde al vero, sono stata miope, e nella mia arroganza ho voluto trattare gli uomini con la massima comprensione, quando a volte più che l’amore quel che avrei dovuto difendere era la giustizia… però ho conosciuto tante brave persone, che nonostante gli orrori di questo mondo hanno continuato a rialzarsi e a lottare affinché la luce tornasse.”

Il padre degli dei si portò vicino alla cupola e prese a carezzarla:
“E guarda che fine stanno facendo quelle persone… io vi avrei accolti, sai? Ho pianto la morte di Ares, ma ha raccolto quel che ha seminato lungo la sua via, e in fin dei conti la vostra è stata una difesa legittima; se tu mi avessi chiesto di portare con te i tuoi cavalieri, vi avrei concesso un posto dove vivere, al sicuro dal mio tuono implacabile.”

“Lo so padre, ma non solo i cavalieri meritano la salvezza, ci sono tanti mortali di buon cuore, come la donna che mi ha allevato nella mia precedente incarnazione.”

“Avrei salvato pure lei se mo lo avessi chiesto, avrei salvato tutti coloro che ritenevi degni, perché io mi sono sempre fidato ciecamente del tuo giudizio, fino ad oggi: quest’assurda decisione di dichiarami guerra… no quella non la posso concepire mi spiace.”

“Quello che sto cercando di dirvi, è che ci saranno sempre esseri umani giusti.”

“Basta così Atena, la tua argomentazione è debole e ridondante, e nella tua superbia non ti rendi conto della fanatica estremista che sei diventata.”

“Chiamami pure fanatica o in quale altro modo preferisci, ma io non lascerò che gli umani muoiano in questo modo.”

“Ciò non cambia che hai portato al macello coloro che si fidavano di te.”

Atena tacque nuovamente, ed Aster le si avvicinò:
“Sapevamo a cosa andavamo in contro.”

“Però non vi ho lasciato scelta… potevate salvarvi.”

“Che cavalieri saremmo stati se avessimo preferito la codardia all’onore?”

“Non avete potuto scegliere…”

“Nobile Atena, noi siamo sotto certe stelle che ci hanno guidato lungo la nostra vita, per tutti questi millenni, generazione dopo generazione: come avremmo potuto spezzare il solido legame che ci lega a te?”

“E’ stata comunque un’azione ingiusta.”

“Può anche darsi, ma a questo punto è inutile farsi prendere dai dubbi e ragionare sulle intenzioni: a quello ci penseremo dopo la battaglia.”

Atena risollevò il capo, e decisa strinse il proprio scettro e l’egida:
“Hai ragione.”

 

A quel punto Zeus la guardò, stringendo austero gli occhi:

“Dunque figlia mia, intendi andare fino in fondo…”

 

 

Una grande di ferro, piena di ingranaggi e meccanismi, si adagiò lentamente accanto all’imbarcazione di Atena.

Le porte della nave si aprirono, e da essa vi uscirono dei giganteschi ciclopi, e subito dopo apparve una barbuta figura zoppicante, bardata con un’armatura cinerea d’aspetto elegante e finemente lavorato.

 

“Finalmente a casa.”

Efesto imbracciò il proprio martello usato come caduceo, e fece per recarsi sul campo di battaglia.

 

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Capitolo 20
*** L'iconoclasta ***


Quodcumque celes, ipse tibi fias timor”

Qualunque cosa tu tenga nascosta, abbi paura di te stesso.

(Publio Sirio)

 

Niche, Ian, e Lambda, erano finalmente giunti di fronte alla bianca facciata dell’immenso palazzo di Zeus, venendo subito dopo raggiunti da Heracles e Hana.

 

“Ci siamo” - disse Vittoria alata - “varcata questa soglia non si torna più indietro.”

“Se avessimo voluto tirarci indietro non saremmo qui.” - rispose Heracles.

 

Lambda si guardò attorno, e una strana sensazione la attraversò:
“Voi andate… io vi raggiungo.”

Hana le si avvicinò preoccupata:
“Va tutto bene?”

“Sì, ma devo affrontare un avversario molto ostico.”

“D’accordo, cerca di fare attenzione.” - e detto ciò Hana seguì gli altri, sparendo tra le buie colonne del palazzo.

 

“Vieni fuori ora.”

 

Da dietro l’angolo comparve ghignante la figura a lei gemella:
“Ora che siamo sole possiamo finalmente chiudere la nostra faccenda in sospeso.”

“Speravo che invece di combattere tu potessi darmi le risposte che cerco: chi sei?”

L’angelo ridacchiò:
“Non lo hai ancora capito? Io sono te!”

“Questo che dici non ha senso; sei mia sorella?”

“Più che sorella, più che gemella, sono la numero 6, e tu la numero 7.”

“Continui a chiamarmi così… anche il signore del fuoco Efesto mi appellava in tale modo.”

“Oh, tu hai incontrato Efesto? E lui non ti ha detto nulla sulle tue, o meglio, sulle nostre origini?”

“Io sono Lambda figlia di Alaya, nata in Jamir e cresciuta come cavaliere di Atena.”

“Alaya… è così che si chiamava la mamma dunque?”

“Sì, anche se non l’ho mai conosciuta, poiché morì appena venni al mondo.”

“Lo so.”

Per un attimo la ragazza dai capelli argentei sembrò aver perso la ferocia che fino a quel momento aveva manifestato contro la bionda.

“Ad ogni modo ho sempre pensato che fossimo in sei, e che io ero l’ultima rimasta; ma poi ho scoperto della tua esistenza…”
“Per quale motivo vuoi uccidermi?”

“Potrei dirti tante ragioni, ma vuoi sapere qual è la principale?”

Lambda la guardò seria con aria interrogativa.

“E’ perché odio la tua faccia!” - gridò 6 gettandosi all’attacco.

 

 

Dioniso e Kara schivavano attentamente le lingue energetiche della regina degli dei, che li attaccava spietatamente e senza sosta:
“Ti vedo stanco dio del vino! Hai forse avuto l’ardire di venirmi a sfidare dopo aver fronteggiato qualche altra divinità? Fammi indovinare… devi esserti battuto con Apollo: la vostra rivalità è cosa bene nota.”

I due si erano nascosti dietro le colonne; Dioniso fece un cenno e subito Kara partì scattando dietro ad Era.

La dea si voltò e fece per lanciarle contro le sue fruste di energia, ma un colpo alle spalle di Dioniso le impedì di farlo.

“C’era da aspettarselo da un vigliacco bastardo come te!” - ringhiò Era furiosa, rimettendosi subito in piedi.

“L’onore qui non ha niente a ché vedere: è una lotta per la sopravvivenza.”

“Per la tua sopravvivenza, io mi sto solo sollazzando.”

“Trovi divertente la fine di migliaia di vite?” - le domandò Kara.

“Come osi rivolgermi la parola, puttana di Tifone?!”

“Certo che l’educazione qua è davvero penosa…” - commentò Kara ruotando gli occhi in su seccata.

“In ogni caso, non mi importa un bel niente di quei patetici omuncoli che stanno schiattando come insetti… anzi, sono contenta, ce ne erano fin troppi!”

Dioniso la guardò in modo austero:
“Loro ti venerano…”

“Com’è naturale che sia.”

 

“Una megera arcigna e spocchiosa come te non merita alcuna venerazione.”

Era si voltò indignata, e vide sbucare dalle colonne una chioma fulva:
“Tu, bastardo impudente… tra tutti gli sporchi meticci del Signore dei cieli, proprio tu dovevi venire a darmi noia, Eracle?!”

Dioniso lo guardò sollevato:
“Ce ne hai messo di tempo fratello.”

“Ho fatto più in fretta che ho potuto.”

 

“Se solo Zeus non ti avesse divinizzato e fossi morto ai tempi del mito…”

 

“Se solo Zeus non avesse avuto una moglie così rompicoglioni.”

 

Era lo guardò indignato, e anche Dioniso e Kara lo guardarono con un certo stupore:
“Andiamo, lo avete mai retto Aristofane?”

“Io sì, ne Le rane ero il protagonista!” - si gongolò Dioniso tutto orgoglioso.

 

“Voi…” - sbuffò Era al culmine della rabbia - “come osate prendervi gioco di me?!”

Il suo cosmo esplose per tutto il salone, ed i tre dovettero rifugiarsi dietro le colonne.

Terminata la tempesta energetica della dea, Kara e Dioniso si gettarono nuovamente all’attacco, coadiuvati dalla leggendaria forza erculea del loro alleato.

 

 

Da quando era tornato dal mare di cosmo, Leonidas non aveva mai esplorato fino in fondo la sua nuova forza, poiché non si era trovato di fronte ad avversari alla sua altezza: ma con Ganimede era presto giunto al suo limite.

Leonidas aveva sfoderato tutta la potenza dell’armatura divina, ma ciò sembrava non bastare per contrastare il più potente degli angeli di Zeus.

 

“Ti starai chiedendo perché il mio livello di forza sia così superiore rispetto a quello degli altri angeli.” - gli si rivolse, per la prima volta da quando avevano iniziato a combattere - “Vedi, progenie di Tifone, gli altri membri di quest’ordine di guerrieri alati che io comando, sono tutti figli di Zeus, ma non io: io sono nato mortale.”

“Conoscevo la tua storia…”

“Oh, allora sai che Zeus stesso mi ha reso un dio, poiché sono nelle sue grazie! D’altronde sono l’essere più stupendo che sia mai venuto al mondo, persino Afrodite talvolta mi guarda con ammirazione…”

“Non m’importa del tuo narcisismo.”

“Lo immaginavo, una bestia senz’anima come te non può carpire i concetti del bello e del buono.”

Con uno scatto Ganimede lo colpì violentemente all’addome, facendo incrinare l’armatura, e in risposta Leonidas ne approfittò per sferrargli un gancio al volto, che egli scansò agilmente per poi assestargli un nuovo colpo che fece indietreggiare il cavaliere.

“In un certo senso è lodevole che tu voglia attaccare il mio viso sapendo quanto tenga ad esso, anche se l’interezza del mio corpo è qualcosa di sacro… però non riuscirai mai a penetrare la mia Kleos, che fra tutte è la più resistente, né tanto meno batterai la mia difesa o la mia velocità: ti è chiaro ora chi hai di fronte, bestia?”

Leonidas si rimise in guardia, tenendosi a debita distanza dal suo avversario: sapeva che buttarsi senza un piano contro di lui lo avrebbe semplicemente portato ad una sconfitta senza senso.

Per quanto scoraggianti fossero i moniti di Ganimede, Leonidas era ancora certo che il piano migliore per far breccia nella sua difesa fosse far leva sulla natura vanesia dell’angelo.

Ma attaccandolo al volto avrebbe alzato eccessivamente la guardia, lasciandosi scoperto agli attacchi nemici: doveva in qualche modo aggirarlo.

 

Scattò di lato e lanciò un lightning plasma che Ganimede schivò facilmente, esattamente come aveva previsto; si portò dietro all’angelo, scagliando un nuovo attacco identico, e anche in quel caso andò apparentemente a vuoto.

Infine si portò a metà tra le due griglie di luce, e facendole esplodere riuscì per una frazione di secondo a cogliere in fallo l’avversario, che accecato fece in tempo a colpire il cavaliere d’oro, ma non a parare il pugno direttogli al viso.

I due si ritrovarono sbalzati dalla furia dei reciproci colpi alle estremità della sala; Ganimede rialzandosi si tastò il viso, constatando come lo zigomo stesse iniziando a gonfiarsi.

“Ma bravo, sei riuscito a farmi infuriare.”

Ganimede caricò adirato Leonidas il quale, prevista simile reazione, passò lesto al contrattacco, iniziando un formidabile corpo a corpo di pugni e calci alla velocità della luce.

Ma nonostante la sua innegabile abilità marziale, Leonidas si ritrovò ben presto con le spalle al muro, e dovette limitarsi a tenere la guardia alta sotto i tartassanti attacchi di Ganimede, sul cui viso non traspariva neppure una goccia di sudore, né tanto meno una qualsiasi emozione.

Sfruttando un’apertura quasi impercettibile riuscì a divincolarsi via dall’angolo colpendolo di striscio, dovendo tuttavia incassare un brutale attacco al fianco.

E mentre Leonidas dolorante si tastava il costato, Ganimede torreggiava davanti a lui, con un sottile sorriso allettato dipinto in viso:
“Hai forza nei tuoi pugni, ma manchi di grazia, i tuoi colpi sono rozzi e prevedibili; alla tua acerbità di ragazzino si somma ad una natura aberrante che ti preclude la beltà di un vero combattente.”

Mentre lui diceva ciò, Leonidas lanciò altri attacchi lucenti e tentò mettersi in una posizione favorevole, ma in un baleno l’angelo dissolse le griglie di energia e lo colpì nuovamente e ripetutamente, fino a farlo grondare di sangue.

“Ora basta giocare: è giunta la tua ora.”

Iniziò a bruciare intensamente il cosmo, e nelle sue mani si accumulò una spaventosa e bollente energia scintillante: era lo stesso colpo che aveva lanciato sui cavalieri, ma condensato in una piccola sfera super massiccia.

Con un gesto aggraziato il prediletto di Zeus scagliò la sua sfera mortale contro il cavaliere del leone, il quale si ritrovò travolto da quello stesso ardente cosmo che aveva posto fine alle vite di molti suoi compagni.

Soddisfatto del suo operato Ganimede fece per andarsene, ma una terribile scarica di energia folgorante lo colpì da dietro, lasciandolo per un istante tremulo e inerme, ed approfittando di ciò, Leonidas gli comparve a fianco e gli assestò un diretto al volto, ammantato dell’energia del lightning bolt.

Era coperto di ustioni e ansimava sfiatato, ma Leonidas era riuscito a sferrare un durissimo attacco, bruciando il suo cosmo ai limiti estremi.

 

Ganimede si rialzò, col viso imbrattato di sangue, e vedendosi sporco di quel liquido rosso guardò con occhi nuovi il cavaliere:
“Ora capisco, ora capisco perché il nome di Tifone è così maledetto dagli dei… sei di una specie pericolosa, in grado non solo di uccidere gli dei, ma anche ciò che hanno prodotto e amato: tu sei un iconoclasta!”

L’angelo ricominciò a bruciare il proprio cosmo, in maniera ancora più intensa di quanto non avesse fatto fino a quel momento:
“Non posso permettere che tu giunga da Zeus, potresti disonorarlo in modi impensabili, rovinare il suo saggio operato, tu non puoi rimanere in vita, devi sparire ed essere estirpato come una malattia, e lo stesso vale per ogni tuo simile, a partire da chi ti ha generato!”

Ormai sfinito, Leonidas tentò invano di evitare il nuovo attacco di Ganimede, che si era assicurato di sfoderare una nuova tecnica affinché il cavaliere non neutralizzasse il colpo: diverse crepe si aprirono nell’armatura divina di Leo, ed attraverso esse l’energia implacabile di Ganimede travolse il cavaliere fin nel profondo.

 

A metà tra le veglia e l’incoscienza, Leonidas giaceva riverso a terra in una pozza di sangue, mentre lento ma inesorabile, Ganimede avanzava per dargli il colpo di grazia: il favorito di Zeus non era mai stato così sfinito, e provò enorme vergogna nell’essersi ridotto in un simile stato di debolezza.

Uccidere la progenie del mostro avrebbe almeno consolato un po’ il suo orgoglio da quella condizione patetica, e questa sommata alla altre ragioni gli dava un’inarrestabile volontà nel procedere verso l’adempiersi della sua missione.

 

Tutto nero: uno sconfinato mondo vuoto senza luce.

Tale era l’immagine apparsa nella mente di Leonidas, convinto di trovarsi in preda ad un’allucinazione, oppure di essere giunto ai cancelli dell’oblio.

«Alzati.»

 

Quella voce, così profonda e graffiante: mai avrebbe pensato di riascoltarla.

 

«Alzati o muori.»

 

Lentamente Leonidas sollevò il capo, trovandosi dinnanzi una figura che credeva ormai sepolta tra le viscere del monte Etna.

 

«Tu?»

«Sì figlio mio.»

Tifone si ergeva in quell’oscurità, con le maestose e macabre ali nere della sua armatura dispiegate, apparendo come una specie di dio della morte.

«Io non sono tuo figlio…»

«Puoi desiderarlo quanto ti pare, ma niente cambierà la realtà dei fatti.»

«Tu hai ucciso l’uomo che per me è stato l’unico padre… dopodiché io ho ucciso te.»

«No.»

«No?»

«Sono ancora vivo, e sto per giungere sull’Olimpo, per concludere quella disputa iniziata in tempo immemore col sovrano dei cieli.»

«Che cosa vuoi dunque da me?»

«Ricordarti quanto sei potente.»

«Ho combattuto dando fondo a tutto il mio potere…!»

«No, non tutto: mi riferisco all’energia che arde in te in quanto mio erede, la stessa con cui affrontasti Atena tre anni fa!»

«Non userò nuovamente quel potere malvagio.»

«Allora muori, sparisci per sempre tra le ombre del tempo come se non fossi mai esistito; è davvero questo ciò che vuoi?»

Leonidas non rispose, limitandosi a stringere i denti con rabbia.

«Io penso che tu voglia invece continuare a combattere. Non mi importa quel che provi nei miei confronti, odiami quanto vuoi, ma non lasciare quel potere sopito: infuriati, scatena quella forza primordiale che fin Zeus teme!»

 

Ganimede era infine giunto sopra Leonidas, e tesa la mano a mo’ di coltello, prese a bruciare il suo cosmo dandole l’aspetto di una spada, pronta a calare sul collo del cavaliere.

Ma come affondò quella lama energetica, la mano di Leonidas si levò afferrandola, e spezzò la lama mandando in frantumi il cosmo da cui era composta.

Sotto lo sguardo incredulo dell’angelo, Leonidas si stava rialzando, avvolto in un cosmo cinereo solcato da saette dorate, e con gli occhi ammantati da un sinistro bagliore cremisi.

“No, no, tu dovevi cadere, non puoi fare questo!”

Ganimede ricominciò a far ardere il cosmo, ma prima che potesse attaccare Leonidas si avventò su di lui furiosamente, e mentre caricava inarrestabile, emetteva un verso inumano simile al ruggito di un leone: mai l’angelo si era trovato dinnanzi ad un avversario mosso da una simile ferocia.

Con un balzo l’angelo si portò a pochi metri da lui, per poi scagliarli addosso contemporaneamente tutte le sue tecniche più potenti, ma il cavaliere le solcò come fossero una debole marea e ringhiando si avventò nuovamente su di lui, iniziando a sferrargli ripetuti pugni al volto.

Scattando Ganimede tentò di colpirlo con entrambe le braccia, ma Leonidas gliele afferrò e con un gesto secco gliele spezzò, poi, stringendo ancora gli arti, gli sferrò un doppio calcio al petto, lussandogli le spalle.

L’angelo rantolava a terra ferito e moribondo, e terrorizzato tentava di strisciare via dalla collera del suo avversario che implacabile avanzava cieco dalla rabbia:
“T-ti prego, non uccidermi, farò tutto quello che vuoi, abbi pietà!”

“Pietà?” - tuonò cavernoso, con la voce distorta da quella forza mostruosa in cui ormai era completamente avvolto - “Tu ne hai avuta pietà per i miei compagni morti a causa tua? O per i tuoi stessi alleati, che si sono visti travolgere da coloro che avrebbe dovuto guidarli alla vittoria?”

“E’ stata un’azione di guerra, non c’era nulla di personale!”

“Dunque è dietro a tale convinzione che giustifichi le centinaia di persone morte agonizzanti per causa tua?”

Carico di furore si preparò a dargli il colpo finale, ma d’improvviso uno degli occhi, quello donato da Minerva, perse l’aura cremisi, iniziando a brillare di una luce cerulea; di colpo Leonidas sentì la sua rabbia placarsi, come se quell’occhio avesse agito da calmante sul suo anime in fiamme, ed anche il desidero di eliminare Ganimede svanì.

“Vattene” - gli si rivolse in tono austero - “non farti più vedere, e non venire a cercarmi, poiché se mai ti dovessi rivedere non so se sarò in grado di frenare il mio pugno come quest’oggi.”

Ganimede si rialzò tremulo ed in lacrime, ormai spoglio di tutta la sua baldanza, e tristo guadagnò l’uscita del palazzo, mentre nello stesso momento, Leonidas si avviava, ancora avvolto nella sua aura oscura, verso il salone dove Atena stava dando battaglia al signore dell’Olimpo.

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Capitolo 21
*** Un'ombra si avvicina ***


“Perché…”

6 si ergeva tremolante dinnanzi a Lambda, la quale pur in affanno teneva alta la guardia ed era pronta ad un nuovo attacco.

“Perché non riesco a batterti? Siamo identiche, ma io dovrei essere la più forte!”

Lambda raccolse le sue forze, e scagliò uno Stardust revolution sull’avversaria, distruggendone buona parte della corazza e mandandola al tappeto priva di forze.

Si avvicinò per osservarla meglio, e vedendola praticamente faccia a faccia rimase sconvolta sia dalla somiglianza speculare che dall’unica grande differenza fisica tra di loro, oltre al colore dei capelli: nei punti dove la pelle era rimasta scoperta, vi erano numerose cicatrici, su tutto il corpo.

Confusa e senza fiato si appoggiò su di un muro per riprendere fiato, quando vide una nuova figura giungere claudicante dalla scalinata, seguita da una coppia di giganteschi energumeni con un solo occhio:
“D-divino Efesto…” - lo salutò accennando un inchino.

“Non scomodarti.”

Si voltò e fece cenno ai suoi due accompagnatori di fermarsi e rimanere di guardia, dopodiché si avvicinò alle due ragazze, chinandosi sopra quella svenuta:
“Povera 6, non potevi vincere contro un’armatura divina…”

“Nobile signore del fuoco… ho bisogno di chiedervi una cosa.”

“So già quel che vuoi domandarmi, e sappi che io ho tutte le risposte che cerchi, ma devo avvertirti: la verità che sto per rivelarti sarà per te estremamente infausta.”

Lambda guardò perplessa il dio, dopodiché risoluta gli fece un cenno di assenso:
“Voglio sapere la verità.”

 

Ade e Poseidone erano stati avversari incredibilmente duri da affrontare per Atena nel corso dei secoli: eppure la loro potenza non era minimamente paragonabile a quella di Zeus.

Neppure l’arrivo di Niche e Hana aveva influito su quello che era diventato l’andamento della battaglia: al signore dei cieli era sufficiente schioccare le dite e subito terribili fulmini esplodevano per tutta la stanza, e Atena e i suoi non potevano far altro che mettersi lesti al riparo.

“Vedi Atena, tu sei potente, come tutti i miei figli, ma la nostra famiglia è tristemente nota per i patricidi, e ho sempre temuto di fare la fine che io ho fatto fare a mio padre, e che egli fece fare a sua volta al suo… sai, prima che tu nascessi, un oracolo mi aveva profetizzato che saresti stata tu a detronizzarmi.”

“Non desidero il tuo trono” - rispose Atena abbassando l’egida - “voglio solo che tu riveda le tue decisioni.”

“Io sono colui che detiene l’ordine e la giustizia nel cosmo, sono il sommo giudice dell’esistenza e quando prendo una decisione non ritorno sui miei passi: io sono Dio.”

A quel punto il cavaliere della vergine, che fino a quel momento era rimasto meditabondo in disparte, si fece avanti portandosi di fronte al signore dei cieli:
“Tu sei dunque Dio?”

Zeus lo guardò lievemente incuriosito:
“Chi lo vuole sapere?”

“Una mortale che ha dedicato la sua vita a cercare Dio.”

“Ma certo, tu devi essere colui che chiamano Virgo, e si dice tu sia l’essere umani più vicino al Divino… ebbene io per voi umani sì, sono Dio.”

“Ci hai creati?”

“No.”

“Tu hai creato il mondo?”
“Solo questo reame, il resto ho solo tentato di plasmarlo.”

“Sei eterno?”

“Sì.”

“Immortale?”

“Non credo che qualcuno possa uccidermi.”

“Ma puoi morire?”

“Mi poni molte domande Virgo, ma so che cosa vuoi davvero sapere: come si diventa dei?”

“E’ possibile trascendere dalla propria natura mortale?”

“Senza sangue divino nelle vene temo sia impossibile.”

I presenti ammiravano colpiti quel singolare dialogo: come un santo in una qualche leggenda orientale, Ian, con eleganza e pacata compostezza, era riuscito ad ottenere un colloquio con un essere immensamente superiore alla natura umana.

“Ci deve pur essere un modo.”

“Nessun mortale, per quanto saggio, è mai giunto al punto di essere come un dio… e a dirtela tutta, non ho mai conosciuto alcun dio che rispecchiasse le caratteristiche che mi hai domandato poc’anzi; potrebbe anche non esserci nessuno di simile nell’universo.”

“Capisco…”

“Mi dispiace, dev’essere doloroso giungere fin qui in cerca di risposte e non ottenere nulla di fatto.”

“Sono comunque soddisfatto per il momento.”

“Ora dovrai morire Virgo.”
“Lo so.”

“Ricorderò questo nostro dialogo; nonostante la tua giovane vita, c’è grande saggezza in te.”

A quel punto il nume scagliò un fulmine addosso al cavaliere, il quale tuttavia venne attraversato dal colpo, come se fosse intangibile.

 

“Un’illusione?” - si chiese Niche.
“No” - rispose Atena - “Ian è davvero lì, ma al contempo non c’è: è come se esistesse in due dimensioni contemporaneamente.”

 

“Avevo ragione a pensare che tu fossi un saggio, pochissimi mortali riescono a muoversi nell’esistenza come hai appena fatto…”

A quel punto Zeus affondò la propria mano nella figura di Ian, e a partire da essa un bagliore dorato iniziò a diffondersi lungo tutto il corpo del ragazzo:

“… ma non c’è dimensione a cui io non possa accedere.”

 

Leonidas correva velocemente verso le stanze dove Atena stava dando battaglia a Zeus; giunse appena in tempo per vedere Ian voltarsi verso di lui, sorridergli dolcemente, e poi scomparire in un’aura di luce che andò disperdendosi in milioni di piccole particelle luminose, lasciando solo il totem della divina armatura di Virgo.

 

Stai sorridendo vero?”

Sì, come lo sai?”

Per capire che una persona sorride non serve necessariamente la vista.”

Saresti un cavaliere eccezionale.”

 

Con l’animo infocato dal dolore, il leone si scagliò contro il signore degli dei, sprigionando tutta l’ancestrale energia che ormai scorreva libera nel suo essere.

Zeus si trovò sorpreso nel trovarsi davanti un avversario ammantato da una simile aura, ma nonostante questo rimaneva comunque su un livello totalmente diverso:
“Il figlio di Tifone… combatti come lui, con rabbia, e ferocia, ma non sei ancora potente come lui.”

Il signore dell’Olimpo parava e schivava agilmente, ma il fatto che quei colpi lo impensierissero diede grande speranza ad Atena: per la prima volta il padre aveva mostrato le sue difese.

Stufo di quell’impeto, Zeus fece per colpire Leonidas con una saetta, ma si trovò davanti Atena che grazie al suo scudo divino aveva assorbito il colpo.

 

Niche osservò e sorrise compiaciuta, e in quel momento vide arrivare Civetta dal colonnato:
“La difesa inscalfibile di Atena e il furioso attacco dell’erede di Tifone… forse ancora esiste per noi una possibilità di vittoria.”

 

 

E mentre il signore dei cieli preparava nuovi fulmini da scagliare contro Atena e Leonidas, venne attaccato da un lato da fiamme incandescenti, e dall’altro da una gelida polvere di diamanti:

Ikki e Hyoga, bardati rispettivamente delle divine armature di Phoenix e Aquarius, erano appena giunti a dar man forte alla loro dea, esattamente come avevano fatto anni prima nella lotto contro Ade.

 

 

La regina dell’Olimpo era finita all’angolo, e ancora non si capacitava di quanta fatica stesse facendo nell’affrontare i suoi avversari, i quali a loro volta erano ormai esausti; Kara in particolare, non riuscendo a tenere il passo dei due compagni, si era messa in disparte cercando di riprendere fiato.

“Non può essere…!” - ringhiò Era adirata.

Eppure era vero: Heracles e Dioniso la stavano mettendo a dura prova.

Tuttavia la battaglia era giunta ad un momento decisivo, in cui tutti e i combattenti si trovavano nel medesimo stato di spossatezza, ed anche un minimo cambiamento di condizioni avrebbe potuto influenzare l’esito dello scontro.

 

“Salute, madre.”

 

Il cambiamento era appena giunto, ed era stato tutt’altro che minimo.

 

“Tu…” - lo guardò indignata Era - “Come osi mettere il tuo piede deforme sul monte sacro?!”

 

Efesto ghignò compiaciuto:
“Ti rammento madre, che il mio piede è deforme poiché tu mi gettasti giù dall’Olimpo, ritenendomi troppo brutto per appartenere alla stirpe degli dei.”

“Non chiamarmi madre, il mi unico figlio è morto!”

“Invece, per quanto ti ostini a negare, ne hai un altro esattamente qui di fronte, ed è anche il legittimo erede al trono per giunta!”
“Piuttosto che vederti sedere su quel trono preferirei ci salisse un maiale!”

Heracles e Dioniso osservarono in silenzio quel turpe scambio di parole: era cosa ben nota l’austerità di Era, ma non pensavano che fosse capace di provare un simile odio per il frutto della sua stessa carne.

“Va via, questo sarà il mio primo ed ultimo avvertimento, e te lo concedo solo perché sei mia madre.”

“Ed io te lo ripeto: il mio unico figlio è morto!”

“Hai perso, Era.” - disse Heracles.
“Taci bastardo!”

Dioniso, Efesto, ed Heracles, si guardarono, e dopo un tacito cenno, scagliarono contemporaneamente i propri velocissimi attacchi contro la regina degli dei, la quale non poté far nulla per evitare quel micidiale colpo congiunto.

Ormai sfinita, Era rantolava cercando di rialzarsi, trovandosi dinnanzi ai tre che torreggiavano sopra di lei, scrutandola con aria severa.

“Mi hai gettato dall’Olimpo, mi hai messo al mondo e poi ripudiato solo per capriccio.” - sentenziò Efesto.

“Hai causato la morte mia e di tutte le persone a me care.” - aggiunse Eracle.

“Hai fatto uccidere mia madre, e reso pazzo me e la mia famiglia.” - soggiunse Dioniso.

Era li guardò tremula, sia di paura che di rabbia, e furiosa fece per alzarsi ed attaccare nuovamente, venendo atterrata da un colpo energetico scagliato dall’estremità opposta del salone:

“Mi hai fatto a pezzi e torturata ogni giorno, sia nel corpo che nella mente.” - concluse 6, che lenta e col fiato pesante si avvicinava al gruppo.

 

“Lo vedi?” - disse Dioniso - “E’ questo il motivo per cui dicevo che avevi già perso: il male che hai fatto è così tanto che non c’è angolo sulla faccia della terra dove qualcuno non provi il desiderio di vendicarsi.”

“V-voi… tutto quello che vi è accaduto ve lo siete meritati!”

“Perché?” - intervenne Heracles - “Per il semplice motivo di essere venuti al mondo?”

“Siete degli errori, frutto di infedeltà o di un qualche scherzo del destino, meritate di essere scorticati mentre gli insetti si saziano delle vostre carni ancora vive!”

“Dunque la tua è semplice gelosia.” - constatò Efesto.

“Io sono la regina dell’Olimpo!!!”

Efesto la guardò sorridendo beffardamente:

“Chissà se lo sarai ancora, dopo che avrò detto al padre Zeus delle tue scappatelle col generale Issione…”

“Tu lurido verme… quel porco ha disonorato il nostro matrimonio infinite volte, non merita forse di essere ricambiato con la stessa moneta?!”

“Questo mi è totalmente indifferente, ciò di cui devi rispondere è l’innumerevole lista di atrocità che hai commesso.”

“Vermi, maiali, bastardi, dovete morire agonizzando, strozzati dalle vostre stesse budella: sono orgogliosa di averti torturata puttana, di aver ucciso quella troia di tua madre folle bastardo, di aver massacrato tua moglie e i tuoi disgustosi figli usurpatore, e quanto a te essere immondo e deforme, il mio unico rimpianto è quello di non averti spezzato il collo appena neonato con le mie stesse mani!”

 

Kara osservò in disparte il delitto consumarsi; avvenne in un tempo relativamente breve, ed Era non soffrì più del dovuto, anche se di dovuto ce ne fu parecchio.

Non c’era stato un solo momento in cui i quattro carnefici avessero provato pietà o empatia per la loro vittima: era come se ogni sua cellula gridasse soltanto odio e disprezzo, ripetendo nelle loro menti tutti i terribili atti compiuti ai loro danni, dando in qualche modo conferma che non solo se avesse potuto li avrebbe commessi tutti quanti dal primo all’ultimo, ma che anche ne avrebbe commessi altri ancora più efferati.

Nonostante la sua parvenza di divina compostezza, la dea, come Ares, aveva in sé un animo profondamente malvagio, che traeva godimento nel vedere soffrire gli altri; ma esattamente come il figlio, si era attirata addosso un così grande odio che era stata inevitabile per lei una morte truculenta dettata da un feroce senso di vendetta collettiva.

 

Consumata la mattanza, Kara si avvicinò a Dioniso, che respirava a fondo sollevando ed abbassando le spalle:

“Nyx…” - gli disse poggiandogli una mano sulla schiena.

“Non avrei voluto farti assistere a tutto ciò.”

“Comprendo la tua rabbia; ma adesso è tutto passato, sono qui…”

Il dio le si avvicinò, e lei l’abbraccio stringendolo forte a sé.

Poi, Kara incuriosita portò il suo sguardo alla ragazza dai capelli argento:

prima era scoppiata in lacrime, dopodiché si era accasciata al suolo esanime, perdendo in fine conoscenza.

“Costei ha lo stesso viso di Lambda…”

“Perché è Lambda.” - intervenne Efesto.

“Come sarebbe a dire?” - domandò Kara perplessa.

Il dio del fuoco raccolse tra le braccia la ragazza priva di sensi:

“Seguitemi, e ogni mistero sarà svelato.”

 

In quello stesso momento, tutti i presenti vennero attraversati da una specie di brivido che li attanagliò fin nelle profondità dell’animo: era come se un’ombra si stesse avvicinando, crescendo di secondo in secondo, pronta ad inglobare qualsiasi cosa nelle sue tenebre nefaste.

Kara conosceva molto bene quell’ombra:

“Tifone…”

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Capitolo 22
*** Tramonto ***


 

Leonidas, Aster, Ikki, e Hyoga attaccavano senza sosta il signore dei cieli da quattro differenti punti sempre in movimento, ed Atena li sosteneva coprendoli, mentre Niche passava subito al contrattacco: non potevano concedere un istante di tregua al loro avversario.

Hana e Civetta osservavano in disparte, consce che i loro limiti sarebbero stati soltanto un freno per i compagni, pregando che trovassero la forza necessaria a vincere la battaglia decisiva per le sorti dell’umanità.

D’un tratto Zeus accelerò e scattò un istante prima di Niche, facendo per colpirla, ma il suo pugno finì infrangendosi su una parete invisibile, che andò immediatamente in frantumi, ma permise alla dea alata di rimettersi in guardia.

Zeus si fermò, osservando il nuovo cavaliere appena giunto nelle sue stanze:
“Oh… ma tu sei…”

Lambda osservava confusa il signore degli dei: era la prima volta che si trovava dinnanzi a lui, eppure aveva un’aria estremamente familiare.

Non lasciandosi scappare quel momento di titubanza da parte del loro avversario, Atena ed i cavalieri lo attaccarono contemporaneamente, ma questo adirato fece esplodere la propria aura fulminante, travolgendo tutti i presenti.

Tutti erano ancora in piedi, ma quell’esplosione aveva inferto loro pesanti danni, e persino Atena appariva in difficoltà; l’unica che sembrava non aver subito alcuna conseguenza sembrava essere Lambda.

“Complimenti, siete riusciti a farmi sfoderare il mio vero potere; il tempo dei giochetti è finito.”

 

“Quel tempo è finito molti anni fa.”

 

Una voce profonda risuonò per tutto il salone.

Tutti si voltarono, e videro spuntare dall’oscurità del corridoio, una nera figura alata vestita di un’armatura dalle fattezze mostruose, con una vistosa crepatura all’altezza del cuore.

 

Da quando poteva avere ricordo, Atena aveva visto solo una volta suo padre sussultare per la preoccupazione: era stato ai tempi del mito, ad opera dello stesso essere che aveva di fronte in quel momento.

 

“No, tu dovresti essere morto, sepolto dalla lava nelle viscere della madre terra…!”

 

Tifone avanzò verso Zeus:
“Per tutto questo tempo il desiderio di vendicarmi su te e gli altri dei mi ha tenuto vivo, anche mentre mi veniva strappato il cuore dal petto.”

 

Zeus si rivolse ad Atena:
“Figlia mia, devi aiutarmi, questo abominio deve morire!”

“Mi spiace padre…”

La dea si fece indietro, seguita dai suoi cavalieri, eccetto Leonidas, che era andato in contro a Tifone.

 

“Questo non cambierà le cose.” - disse Leonidas.

“Non lo faccio certo per dimostrarti qualcosa.”

In quello stesso momento giunsero nel salone i vincitori della battaglia contro Era, e Kara subito corse verso i due; nonostante il suo aspetto austero e imperturbabile, Leonidas vide con enorme sorpresa un lieve sussulto in Tifone alla vista di sua madre.

“Tifone…” - lo salutò Kara.

“Ciao, Echidna.”

“Non devi farlo…”

“Sono nato per questo preciso momento.”

Kara sorrise con gli occhi lucidi:
“Lo so, non c’è mai stato verso di fermarti.”

Tifone le carezzò con delicatezza il viso:
“Addio, mia amata Echidna.” - e si voltò verso il figlio - “Anche se mi odi, prenditi cura di lei.”

“Sì, questo posso farlo.”

Tifone lanciò un’occhiata a Dioniso, ed i due si scambiarono un tacito cenno di reciproca approvazione, dopodiché si portò dinnanzi al signore dell’Olimpo, pronto ad affrontare la sfida per cui era venuto al mondo: far cadere l’Olimpo.

Con un turbinio Tifone si portò contro Zeus, e l’impatto spazzò via il trono e la parete dietro a quest’ultimo; con pochi attacchi il palazzo del signore dei cieli sarebbe caduto in rovina.

 

Lambda e Leonidas si avvicinarono colpiti a Efesto, che reggeva in mano quella ragazza dalla chioma argentea che aveva dato loro battaglia diverse volte ormai.

“Era come dicevi, ha il tuo stesso volto…”

“Perché io e lei siamo la stessa persona.”

“Come?”

Efesto si fece avanti:
“A questo posso rispondere io: vedete, vent’anni or sono, Zeus concupì, nel Jamir, una splendida donna di nome Alaya, e con lei generò una figlia di nome Lambda.”

Leonidas guardò colpito la ragazza:
“Dunque sei figlia di Zeus…”

“Sì, in un certo senso.”

“Era passato molto tempo dall’ultima volta che Zeus aveva concepito un figlio con una mortale, e subito io capii che Era non avrebbe permesso né ad Alaya né alla piccola di sopravvivere. Così mi rivolsi ad un mortale che avevo istruito con la mia arte metallurgica alcuni anni prima, Mhesa dell’Ariete, il marito di Alaya, chiedendogli di portarmi la bambina, in modo da poter creare una sorta di camuffamento per garantirle la sopravvivenza: ci riuscì, dividendone anima e corpo in sei frammenti, più uno che tenni nascosto e che consegnai a Mhesa.
“Quel frammento ero io.” - commentò Lambda, lasciando tutti i presenti di stucco.

“Sapevo che sarei stato scoperto, e cinque anni dopo i crestati si presentarono nella mia fucina, guidati da Era stessa, che pretendeva le consegnassi i sei frammenti, e quel che fece loro è un’altra delle terribili atrocità per cui ha pagato poc’anzi.”

La terra iniziò a tremare, e diverse macerie crollarono da tutto il palazzo.

“Due le uccise subito, spezzando loro il collo, per le altre invece architettò un gioco macabro e perverso: promise loro che una di loro si sarebbe salvata, a patto però che avesse ucciso le altre. Vedendole titubanti, ne eliminò subito un’altra, e le tre rimaste iniziarono a darsi battaglia; la numero cinque riuscì ad eliminare la numero quattro, dopodiché scelse di farsi uccidere spontaneamente da sei, ritenendola l’unica in grado di poter sopravvivere alla crudeltà della regina degli dei: fu allora che, coperta di lacrime, e del suo stesso sangue, Lambda 6 strangolò un’altra versione di sé stessa, rimanendo apparentemente l’ultima.”

Lambda, sconvolta, si avvicinò alla sua controparte inerme e le carezzò i capelli:
“Ecco perché voleva uccidermi: la sua testa le diceva che era l’unico modo per sopravvivere…”

“Non biasimarla, dopo quell’esperienza Era la incatenò in una prigione, costringendola ogni giorno a sopportare innumerevoli sevizie: diversi carnefici le aprivano le carni per vedere come fosse fatta dentro, la infilzavano lasciandola sanguinante, prendendo nota di quanto tempo impiegasse prima di svenire, le conficcavano dei ganci sotto il costato e la lasciavano appesa per giorni interi, e altre atrocità la cui sola idea farebbe impazzire le menti di un mortale.”

“E io sarei potuta essere al suo posto…”

A quel punto Dioniso si rivolse a Efesto:
“Ti conosco da molto fratello, e so che non avresti fatto tutto questo solo per generosità e so che c’era un preciso intento nelle tue azioni; correggimi se sono in errore.”

Efesto sorrise senza allegria e scosse il capo sbuffando:

“Avevo bisogno che Lambda rimanesse in vita per questo preciso giorno, poiché questa ragazza presenta una caratteristica unica, che nessun altro figlio di Zeus possiede: non ha ereditato la divina folgore, ma in qualche modo l’ha assimilata. Le sue cellule rispecchiano la struttura del cosmo di Zeus, e posseggono l’abilità di allinearsi al medesimo modo, se necessario.”

“Ma per quale motivo…?” - domandò Kara, voltandosi poi verso Dioniso scoprendo un’espressione sconvolta dipinta sul suo volto.

“Tu sapevi del grande fulmine…”

“Zeus lo stava programmando da tempo, ma era ancora indeciso se attuarlo o meno: aspettava solo un pretesto, e le azioni commesse da Atena a dai suoi cavalieri negli ultimi anni, capitavano a proposito. In particolare la morte di Ares ha reso tutti concordi sull’utilizzo di tale arma; io ho dato la mia approvazione, ma sinceramente l’idea di perdere millenni di studi nella mia fucina non mi alletta per niente.”

“Ma se Tifone sconfiggesse Zeus la folgore verrebbe fermata!” - disse Leonidas.

“Purtroppo no” - intervenne Atena - “è un’arma che da un certo punto in poi agisce di propria volontà e qualunque sia l’esito del duello, uscirà da quella cupola e si abbatterà sul suo bersaglio, cioè la Terra.”

“C’è soltanto un modo per fermarla” - aggiunse Efesto, rivolgendo il proprio sguardo a Lambda - “ma il prezzo da pagare sarà molto caro.”

 

Leonidas a quel punto guardò sconcertato Lambda:

“No…”

“Mi dispiace tanto Leo…”

“No, che assurdità sono mai queste?”

“E’ l’unico modo.”

“Non può esserlo!”

“Ma è così.”

“Mi rifiuto di prenderlo in considerazione!!!”

“Qui non si tratta solo di me, o di te, ma di tutti quanti… devo farlo Leo, sono l’unica che può salvare l’umanità.”

A quel punto Leonidas portò silenzioso il proprio sguardo sulla figura inerme di 6.

“Non sarebbe giusto nei suoi confronti.” - gli disse Lambda stringendogli il braccio.

“Non lo sarebbe neanche nei tuoi!”

“Per tutta la vita ha conosciuto soltanto morte e dolore, ha già sofferto abbastanza… e poi non posso lasciare che muoia così, perché… lei è me.”

 

La terra tremò nuovamente, e questa volta il soffitto del tempio si spaccò, lasciando entrare la luce purpurea del cielo olimpico.

 

Efesto poggiò 6 al suolo:
“Lei non è più affar mio, fatene ciò che volete; non intendo perire per la vostra indecisione.”

E detto ciò il dio del fuoco sparì tra la polvere e l’oscurità del tempio capitolante.

 

“Lo scontro tra Zeus e Tifone raderà al suolo ogni cosa” - constatò Niche - “Atena, dobbiamo andarcene.”

La dea strinse lo scettro e si rivolse ai presenti:
“Sì, è ora di andare, ma non tornerò sulla Terra: mio padre aveva ragione, a questo punto della storia, l’umanità non può trarre alcun beneficio dall’intervento divino.”

“E dove andrete?” - chiese Hyoga perplesso.

“Da qualche parte, dove costruiremo un nuovo Olimpo, magari con l’aiuto degli altri dei che sono sopravvissuti a questo giorno.”

“In tal caso io verrò con voi.” - disse Civetta.

“E naturalmente anch’io.” - aggiunse Niche.

La dea si rivolse poi con lo sguardo ad Aster:
“Vorresti essere al mio fianco?”

“Io ti seguirei ovunque, mia amata dea.” - rispose il cavaliere di Pegasus sorridendo dolcemente.

Heracles si fece avanti:
“E’ tempo che anch’io mi assuma le mie responsabilità divine: troppo a lungo le ho evitate.” - dopodiché guardò Hana - “Mio fratello ormai non c’è più, e tu sei il mio solo legame con questo mondo: vorresti venire con me, verso un nuovo mondo splendente?”

Hana si avvicinò al marito e lo abbracciò:

“Mostrami dunque questo nuovo mondo.”

 

Ikki e Hyoga si chinarono verso Atena, la dea che avevano servito per moltissimi anni, dandole un doloroso ma composto addio: era come se fino al giorno prima fossero stati al fianco di Seiya, Shiryu, Shun, e Saori, ed ora tutto stava per finire.

“Andate ora” - disse Atena ai due - “riportate i cavalieri alla nave della speranza.”

Salutarono un’ultima volta la dea, ed infine anche loro abbandonarono il palazzo.

Atena a quel punto si rivolse a Dioniso, ma questo scosse il capo in senso di dissenso:
“Mi spiace, ma penso che per un po’ continuerò a girovagare per il mondo, magari con una buona compagnia…” - disse sorridendo a Kara.

 

In quel momento la cupola iniziò a sgretolarsi, e spaventose saette celesti presero a solcare tutto ciò che rimaneva del palazzo divino.

Lambda si avvicinò a Leonidas, gli scambiò un dolce ed intenso bacio, dopodiché iniziò ad incamminarsi verso il suo destino.

 

 

La furia dello scontro aveva aperto la terra fin nel profondo, e Tifone e Zeus precipitavano rapidi, senza tuttavia smettere di colpirsi nemmeno un istante: ogni cosa al loro passaggio crollava a pezzi, e tale distruzione stava pian piano raggiungendo ogni singolo angolo dell’Olimpo.

“Maledetto mostro, non lascerò che tu viva!”

“Perché fratello mi hai sempre odiato?” - gridò Tifone.

“Non chiamarmi fratello, tu sei solo una terribile aberrazione!” - rispose scagliando un immenso fulmine.

“Io sono tuo fratello, come te sono un figlio di Crono, perché non puoi accettarlo?!” - contrattaccò con una raffica di cosmo ventoso.

“Perché tu sei il male, sei tutto ciò che di sbagliato ci possa essere nel mondo: la tua sola esistenza è una sfida alle leggi del cosmo!”

“Non ho chiesto io di nascere in questo modo!”

A quel punto entrambi sfoderarono il proprio cosmo facendolo esplodere, e fin le fondamenta del monte sacro iniziarono a vacillare.

“Se non riusciremo ad essere fratelli in vita, allora lo saremo per sempre nella morte, Zeus, insieme, sepolti sotto le macerie di questa montagna!”

“Folle, io ho creato l’Olimpo, se muoio tutto questo sparirà e non ci sarà neanche una tomba!”

“Così sia allora.”

 

 

Keith, vestito della divina armatura di Tauros, si avvicinò a Kypros:
“Il nemico si ritira… Atena ce l’ha fatta?”

“Credo di sì…”

“E ora che ne sarà di noi?”

Kypros guardò i cavalieri sopravvissuti: era giunto per loro il momento di tornare a casa.

 

 

Loki, esausta nel corpo e nell’animo, osservava a terra in ginocchio il cielo che iniziava a brillare; forse il mondo stava finendo, ma a lei non importava più ormai.

“Che dici, ce ne andiamo da qui?”

La ragazza sussultò nell’udire quella voce, e subito si voltò entusiasta, trovandosi dietro quella figura dorata dai capelli biondi che ormai considerava persa per sempre.

 

 

L’Olimpo stava iniziando a collassare, ma la grande folgore sarebbe riuscita a liberarsi primo delle fine totale.

Sotto gli occhi attoniti di coloro che erano rimasti, Lambda, aveva poggiato la mano sulla cupola ormai in procinto di infrangersi:
“Leo…” - si voltò verso il ragazzo, completamente avvolta dalla luce cerulea della folgore divina.

“Non farlo ti prego!” - la supplicò nuovamente.

“La prima volta che ci siamo incontrati, ho subito capito che avevi qualcosa di speciale: fino a quel momento avevo vissuto solo giorni vuoti, privi sia di gioie che di dolori. Poi sei entrato nella mia vita, e ho amato, ho sofferto, ho riso, ho pianto. Avrei voluto che quei giorni con te non finissero mai, ma sono felice di aver trascorso tanti momenti meravigliosi. Hai reso la mia vita qualcosa di bello… qualcosa che meritava di essere vissuto, e per questo ti amerò sempre. ”

Leonidas fece per avvicinarsi, ma le saette lo paralizzarono:
“Lambda… ti amo, non lasciarmi…”

Col viso rigato dalle lacrime, Lambda lo guardò e sorrise dolcemente:
“Grazie di tutto, Leo.”

 

 

 

 

Il suolo iniziò a disgregarsi, il cielo parve scomparire, e tutto venne avvolto da una luce sconfinata.

 

 

 

6 aprì lentamente gli occhi: non aveva mai visto un cielo simile.

Il sole scivolava tre le nuvole scure, spegnendosi all’orizzonte tra le montagne.

Si levò dal suolo polveroso, e vide il cavaliere del Leone incamminarsi ramingo verso il tramonto.






Grazie a tutti coloro che hanno letto questa storia, con cui ho trascorso anni indimenticabili.
- Raiden Cold

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