L’amore ha il sapore del sale

di Magari
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Liliac ***
Capitolo 2: *** Ghiacciolo di sale ***



Capitolo 1
*** Liliac ***


 

Si sa, l’inizio è sempre la parte più difficile quando si scrive di sé.
 Non che io sia una scrittrice, anzi, ammiro chi ha cotanta pazienza -o tempo da perdere-. Sono solo una vecchia -non tanto rinsecchita, questo devo concedermelo- che sta attraversando quella fase della vita che tutti temono: quella in cui si riempiono i giorni con il passato perché non resta molto futuro.

 Per questo è necessario scrivere.

 Voglio raccontarvi una storia, la mia, quella di una bambina che in un normalissimo giorno di luglio, incontrò una persona che le cambiò la vita.  La sua disgrazia e la sua salvezza. Molto probabilmente sembrerà una frase scontata, ma non saprei riassumere meglio il tutto. Ho sempre avuto paura solo di una cosa ( oltra ai ladri): il futuro.  Il timore di non sapere cosa succederà appena girato l'angolo. Per questo cercavo sempre di prevedere le cosa con la logica, ma non sono un'indovina, anzi. Tenetevi ben stretti i soldi.  Mi guardavo attorno e analizzavo, traevo le mie conclusioni per poi prevedere con la logica. Facevo così fin da piccolina e con il tempo ho acquisito una grande dote: sapevo mettermi nei panni degli altri.

 Soprattutto con la modestia.

 Non per questo sapevo sempre cosa dire, come comportarmi, cosa fare davanti alle persone che mi interessano -quante brutte figure!- Ma guardavo il loro aspetto, l'espressione, il loro comportamento, l'abbigliamento e capivo. E per me era così semplice.  Per la prima volta, non seppi analizzare una persona.  Lui non riuscii mai a capirlo.  All’inizio fu per me una grande sorpresa, abituata com'ero a capire le persone dal più piccolo particolare. Si chiamava Gianmarco.

 Ah, come rimpiango quegli anni... ma per adesso non voglio raccontarti niente, caro Lettore. Un altro particolare di questa storia è la quantità di caffè che bevono i miei personaggi. Ma sto divagando. Perdonatemi, è una cosa che fanno tutte le persone anziane. Sarà meglio proseguire.

 Credo che inizierò il mio racconto dall'inizio, quando non ero che una bambina di tredici anni qualsiasi.

 C'era una volta..

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Note dell'autore

Scrissi questa storia circa tre anni fa, già pubblicata su EFP con il nome di "L'amore ha il sapore del sale", dal vecchio account di mia sorella. Diamine, che ricordi. Qualche giorno fa ho ritrovato questa storia e ho deciso di riscriverla e di migliorarla -per carità-, senza però cambiarla troppo. Ora come ora non scriverei mai una cosa del genere, né tantomeno con un lessico così informale, ma... avevo bisogno di ritrovare il vecchio me stesso, ed eccomi qua. 

Spero vogliate lasciarmi un parere, rendereste davvero felice questo povero ragazzo costretto in un POV femminile.

Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Ghiacciolo di sale ***


Potrei dire con certezza di essere stata la prima amica di Gianmarco.

 Era luglio. Il 7 luglio 1987.  Io avevo 13 anni, lui 14 e fu amicizia a prima vista. Se lo leggesse Lui mi riderebbe in faccia.  Ma è meglio iniziare dal principio.

 Erano settimane che la mia famiglia progettava le vacanze estive. Saremo partiti alle nove di mercoledì 6 e mancavano ancora 2 giorni. Non è che fossi proprio al culmine della felicità, per me il mare era solo una distesa di acqua salata che brucia agli occhi, ero più un tipo da montagna e tre mesi in costiera non erano il massimo.  Almeno avrei presi un po’ d’abbronzatura su ‘sta carnagione color stucco.  L’unica altra cosa positiva era che potevo leggere senza rotture di scatole -se solo avessi trovato il tempo-.

 I libri erano i miei amanti, lasciarli in giro per casa e leggere un capitolo alla volta era come una botta e via.

 A tredici anni già sapevo come funzionavano le cose, però.

                                                                                                  

 Oh sì.  Era bello svegliarsi in un bagno di sudore.  Con un occhio semi-aperto lanciai un’occhiata all’orologio sulla parete lilla di camera mia, da sotto la frangetta pure sudata.

 Le sei.  Le sei del mattino.  Saremmo partiti alle nove.

 Fanculo.

 Mi voltai dall’altro lato e Morfeo tornò a prendermi. Due ore più tardi avevo ancora gli occhi impastati di sonno, ma ero sveglia e decisamente più riposata.

 

 Erano tre ore di macchina da casa mia alla costiera, quindi mi misi ben in testa di non scartare i tramezzini di mia madre prima di un’ora e mezza.  Faceva un caldo bestiale. Scesi al piano di sotto per fare colazione, con ancora indosso la maglia di mia mamma di quattro taglie più grandi come pigiama, e poi andarmi a mettere dei vestiti decenti.

 "Annarè, sei pronta?" chiese -urlò dall’altra stanza- mia mamma, piu' euforica di me di certo.

 Il nome di base è Anna, da mia nonna che si chiamava così, ma almeno quattro delle mie cugine si chiamavano allo stesso dannatissimo modo e io ero la più piccola, tutti si sentivano autorizzati a storpiarmi il nome con cose astruse come “Annarella”, “Annuzzella”, “Nina”, “Nannina” e diamine, il peggiore di tutti era uno.

 Annuccia.

 Dico solo che mio zio risolveva la faccenda chiamandomi Cannuccia.

 "Mh-mhmh”, risposi sedendomi al mio solito posto. Certo che dovevo proprio aver dato sfoggio delle mie abilità da oratrice. Non c’era niente da fare, una mia caratteristica era che appena sveglia non riuscivo a parlare. Proprio non riuscivo ad aprire bocca. Era come se le mie labbra fossero incollate.

 Figurarsi quando poi qualcuno osava rivolgersi a me con parole offensive tipo ‘buongiorno’.

 Presi la solita tazza di latte e caffè e qualche biscotto annacquato, salii sopra a prepararmi fisicamente e psicologicamente. Tempo dopo fui pronta, ma come al solito c’era mia madre che doveva fare l’inventario di tutto quello che avevamo caricato in macchina, altrimenti si sarebbe sentita male.

 L’irritazione salì oltre la troposfera.

 Ci eravamo trasferiti in questa casa quando avevo quattro anni e ricordo benissimo di aver scelto io il colore e il letto della mia nuova -ormai vecchia- camera. Aveva la testiera in ferro battuto bianco, deformato fino a formare tanti piccoli fiorellini bianchi. Le pareti erano di un lilla chiaro, poi mamma e papà scelsero i comodini, l'armadio e la scivania in legno scuro.  Nel corso degli anni l'avevo decorata secondo il mio stile: c'erano parecchie foto di paesaggi attaccate alle pareti, foto di me con i miei amici di scuola, foto di me da piccola, dei disegni sulle ante dell'armadio e un cartello appeso alla porta che recitava: " Non entrare senza il permesso di Anna", che feci quando avevo sette anni.

 Sì, ho sempre avuto il caratteraccio.

 Passò così un’altra mezz’ora e avevo accumulato abbastanza autocontrollo per non rispondere a monosillabi, quando mi chiamarono pronti a partire.

 “Però potevamo aspettare Capodanno per partire.”

 La mia lingua lunga mi avrebbe portato solo guai, ma non avevo resistito.

 Passai le successive tre ore a leggere, mangiare i tramezzini -dopo dieci minuti erano già finiti- e ascoltare la radio su qualche stazione sconnessa, mentre mamma e papà parlottavano tra loro. Morfeo doveva avere nostalgia di me, dato che dopo un’ora mi venne già a prendere. Avevo i segni della tappezzeria dei sedili impressi su tutte le braccia, quando mi svegliai che già si vedeva il mare dal finestrino.  Poco dopo mio padre parcheggiò la macchina nel vialetto di una piccola villetta bianca, con le finestre e le porte dipinte di rosso e tanti fiori sull'enorme terrazza. C'erano molte finestre, credevo fossero per far passare più velocemente l'aria e far rinfrescare la casa prima di morire sciolti a terra.  La villetta di mio zio era a cinque minuti dalla spiaggia e dal piccolo paesino che la contornava.  Il salotto aveva i pavimenti di mattonelle di un fresco color verde acqua, mentre le pareti menta erano coprete da vari mobiletti pieni di tazzine, portacenere, bomboniere e le classiche cazzate che si schiaffavano nelle vetrine per vantarsi delle ceramiche. C'era una scala a chiocciola in legno che portava al piano superiore dove c'era la cucina, uno dei bagni e l'accesso alla terrazza. Nella parte destra del salotto c'era una porta che presumevo portasse alle camere da letto. Esplorai per un po' la villetta e vidi con piacere che dalla finestra della mia camera  (un divano letto, un comodino e un armadio in legno non si potevano chiamare così) si vedeva il mare. Uscii fuori, ma non c'era niente di interessante a parte la strada, gli alberi che nascondevano le altre villette e la Vespa bianca di mio zio.  A valigie disfatte, decisi su due piedi che avrei esplorato un po' il paese -figurarsi se potevo andare in spiaggia da sola- mi armai di borsetta a tracolla (acqua e un po' di spiccioli) e chiesi il permesso a mamma. Temevo avrei dovuto cacciare la revolver e minacciarla, ma riuscii ad ottenere la mia amata libertà. Feci qualche passo in strada e dopo qualche minuto di vagabondaggio tra i famosi vicoletti caratteristici del paese, mi trovai in quella che pensai fosse una piazza, un enorme spiazzo o quello che cavolo era, dal momento che era un grande spazio libero, circondato da antichi palazzi e su un lato si trovava un bar gramito di turisti che si godevano il proprio gelato seduti nei tavolini disposti all'esterno.

 Ogni tre secondi dovevi stare attento a non farti investire da qualche tedesco dai sandali con i calzini bianchi sotto.

 Fick dich, Deutsche.

 

 A forza di dare spallate a destra e a manca, riuscii a comprare un ghiacciolo al limone con gli spiccioli che avevo in borsa. Capirai quante lire avessi.  Mi sedetti sull’angolo più isolato della balaustra in cemento che dava sul bellissimo panorama del mare, gli scogli e la spiaggia piena di gente.  Era impossibile ascoltare il lento infrangersi delle onde sugli scogli, il gridolio eccitato dei gabbiani che si tuffavano in acqua che tanto descrivevano i miei amati scrittori, dato il vocio continuo che aleggiava nell’enorme piazza.

 Però una cosa riuscivo a sentirla.

 L’aria aveva il sapore del sale.

 Avevo chiuso gli occhi per godermi quella brezza che riusciva a scavalcare i corpi informi, quando non sentii più il bastoncino di legno tra le dita.

 “E questo lo chiami gelato?”

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