Capitolo
1: il panettiere
Quella
mattina non era riuscito a fare a meno di tenere per sé una
delle
pagnotte che aveva sfornato. Gli sembrava quasi di vedere la faccia
di suo padre, imbronciata per la disapprovazione: “Se mangi
tutto
il pane che facciamo,” avrebbe detto, “non ne
rimarrà più da
vendere e noi non avremo più soldi!”
Eren
era solo un bambino quando sgattaiolava nel retrobottega per rubare
il pane che suo padre aveva messo a raffreddare sul tavolo. Gli
sembrava ancora così vivido, dopo tutti quei secoli, tanto
che,
ripensandoci abbastanza intensamente, riusciva a riviverlo come se
fosse ancora lì, nella stessa bottega di oggi, eppure
diversa, con
l'odore del pane appena sfornato, la farina sulle mani piene di calli
di suo padre, sentiva ancora il sapore della sua refurtiva sulle
labbra.
Immaginava
che fosse una cosa elfica, quella di rivivere i ricordi così
intensamente, come se fossero reali e stessero accadendo in quel
momento, ma non ne era certo.
Non
aveva mai incontrato un altro elfo, se si escludeva la fugace
occhiata che riusciva a lanciare ai barcaioli che arrivavano ogni
giorno carichi di barili dal Bosco Atro (o Bosco di Foglie Verdi,
come si chiamava adesso, continuava a dimenticarlo, nonostante fosse
passato così tanto tempo dalla Guerra dell'Anello), ma non
aveva mai
parlato con loro. Gli sembravano tutti splendidi e lui, in fondo, non
era che un panettiere.
Inghiottì
l'ultimo boccone di pane e rientrò dal retro per aprire
finalmente
ai clienti. La signora Lea, capelli biondi come il miele e le forme
rotonde che faticavano a rimanere nella veste, era già
dietro la
porta ed entrò non appena lui aprì il battente.
“Buongiorno”
la salutò cortesemente.
“Buongiorno,
caro, alzato tardi stamattina?” la donna lo
rimproverò con fare
materno e gli diede un buffetto sulla mano.
Era
così strano essere trattati in quel modo da una donna che
lui
ricordava ancora bambina, quando veniva mandata da sua madre a
comprare il pane da lui, piccola e graziosa con le sue enormi trecce
bionde e gli occhi nocciola luminosi e allegri. Era passato un lampo
ed ora Lea, la dolce Lea, era una signora di mezza età con
cinque
figli e la passione per il pane un po' bruciacchiato, che si
informava costantemente della sua salute e gli intimava
affettuosamente di mangiare di più perché era
troppo magro.
Ne
aveva visti decine, forse centinaia, di suoi clienti nascere,
crescere e infine invecchiare e morire, pregni di una
mortalità che
lui non poteva fare a meno di trovare affascinante, seppur triste.
“Ho
tenuto da parte la pagnotta più cotta solo per voi,
Lea” le disse,
porgendole un sacchetto di carta.
La
donna lo prese con un gran sorriso e gli porse due monete, per poi
salutarlo e uscire nel mattino uggioso, tipico dell'inizio di
ottobre.
Non
che fosse una persona triste, non ne aveva il tempo con tutte le cose
che aveva da fare, lo svegliarsi all'alba per impastare, far
lievitare, informare e infine aprire il negozio, e poi il via vai di
clienti fino a sera, però quando il cielo era grigio e
l'aria umida,
si sentiva malinconico ed il ricordo dei suoi genitori si mescolava a
quello di tutte le persone che aveva conosciuto e che gli sembravano
svanite in un battito di ciglia.
Aveva
tentato di non frequentare più nessuno, di rimanere lontano
da ogni
possibile rapporto umano, ma nonostante la solitudine che si era
imposto, non riusciva a fare a meno di affezionarsi anche a quelle
persone che vedeva solo un paio di volte a settimana e solo per quei
pochi minuti che impiegava nel servire loro il pane.
Una
volta faceva i biscotti e le torte (le torte che sua madre gli aveva
insegnato, con le gocce di cioccolato e le mele, ah quanto le aveva
adorate!) ma poi aveva smesso, perché i bambini erano una
debolezza
a cui non riusciva mai ad abituarsi.
La
porta si aprì di nuovo e comparve Ida con un gran sorriso e
una
lunga treccia nerissima che la faceva sembrare anche più
pallida di
quanto già non fosse. Era una ragazza bellissima, solare e
totalmente innamorata di lui, cosa che lo metteva sempre in una
posizione scomoda: avrebbe voluto che le passasse, per non dover
avere lui l'onere di dirle che fra di loro non poteva esserci nulla.
La
salutò senza troppo entusiasmo, cercando di mantenersi
professionale, ma lei sembrò non accorgersene.
“Ciao
Eren,” gli disse, lanciandogli uno sguardo ardente,
“hai della
focaccia al rosmarino?”
Annuì
sotto gli occhi di lei e si voltò a prendere quanto aveva
chiesto.
Ida veniva tutte le mattine per la sua focaccia al rosmarino, tanto
che Eren aveva pensato di smettere di prepararla per scoraggiare la
ragazza, ma poi non lo aveva fatto.
Una
parte di lui, nascosta e spesso zittita, trovava piacevole essere il
centro dell'attenzione della ragazza più bella di Esgaroth,
quella
che tutti i giovani si contendevano. Si vergognava enormemente per
questo.
“Sai,”
disse Ida mentre lui arrotolava la focaccia in un foglio di carta
sottile, “dovresti davvero mettere un aiutante”.
“Lavoro
meglio da solo”
“Non
è vero, nessuno sta meglio da solo”.
“Non
ci sono panettieri con cui mettermi in affari e non voglio
bambini”.
Ida
allargò il sorriso e si appoggiò con fare
cospiratorio al bancone.
“Fortunatamente
questa mattina è venuto uno straniero ad alloggiare alla
locanda di
mia madre e mi ha chiesto se sapevo dove potergli procurare un lavoro
in città”.
“Sono
tre scellini” disse, allungandole il pacchetto e facendo
finta di
non averla sentita.
“Non
hai sentito la parte migliore”.
“Tre
scellini”.
“Lo
straniero è un elfo”.
Eren
non avrebbe voluto reagire in quel modo, ma non riuscì a
trattenersi
dallo sbiancare. Gli sembrava che tutto il suo sangue gli si fosse
incastrato al di sotto delle ginocchia, mentre il cuore gli era
improvvisamente balzato nella testa, tanto da poterlo sentire
martellare nelle orecchie.
Elfo.
Un
elfo.
Poteva
conoscerlo, fargli delle domande, forse persino arrivare a conoscere
la sua storia e il motivo per cui era stato abbandonato nel bosco
quando era solo un neonato.
Aveva
pensato così tante volte di lasciare tutto e andare fra la
sua gente
per fare ricerche circa il suo passato, ma poi non ne aveva mai avuto
il coraggio, non voleva lasciare la panetteria, il ricordo dei suoi
genitori, i luoghi in cui era cresciuto e che amava, né
aveva mai
cercato di avvicinare i barcaioli, gli sembravano troppo distanti,
troppo impegnati. Ma avere la possibilità di conoscere un
altro
elfo, faccia a faccia, interagire con lui ogni giorno, in quel
contesto famigliare e informale... si sentiva sopraffare dalla
notizia.
Ida
lo osservava, conscia dell'effetto che la sua notizia aveva avuto su
di lui, ed arrossì di piacere.
“Allora?”
domandò ansiosa, “Posso dirgli di venire da
te?”
Eren
si morse un labbro e annuì nervosamente.
“Ottimo,”
trillò la ragazza, mettendo tre monetine sul bancone e
voltandosi
per uscire”, allora lo mando subito qui non appena si
sarà
sistemato. Vedrai, è un tipo affascinante e un po' strano,
molto
elfico
direi.”
Lo
salutò con la mano, lasciandolo frastornato in mezzo alle
pagnotte
di pane.
Era
passata forse un'ora, non di più, quando Ida
tornò insieme allo
straniero.
Eren
aveva servito due signore che conosceva da anni e un ragazzino che
invece non aveva mai visto prima, senza mai allontanare lo sguardo
dalla porta, con l'ansia che cresceva e la paura che l'elfo alla fine
cambiasse idea.
Quando
finalmente Ida aprì la porta, sobbalzò nonostante
l'attesa
spasmodica.
Era
emozionato come non lo era stato mai nella sua lunga vita, nemmeno il
suo primo giorno di scuola, quando aveva avuto paura che gli altri
bambini lo prendessero in giro per le sue orecchie a punta e sua
madre aveva dovuto giurare solennemente che non sarebbe successo.
Nemmeno la prima volta che suo padre gli aveva permesso di impastare
una pagnotta di pane tutto da solo e di infornarla con la grande pala
di metallo che non gli era mai stato permesso anche solo di sfiorare
con un dito.
Non
rispose al saluto allegro di Ida, ma si concentrò sull'elfo
che
veniva dietro di lei: era alto, lo superava di tutta la testa, con i
capelli neri e gli occhi chiarissimi che facevano uno strano
contrasto, dandogli un'espressione vagamente inquietante, affilata,
come se lo sconosciuto lo stesse valutando allo stesso modo con cui
lui valutava la cottura del pane per decidere se toglierlo o meno dal
forno.
Eren
era ammutolito, si sentiva in soggezione, desiderava di non aver
accettato la proposta di Ida (lei voleva solo far colpo su di lui, lo
sapeva bene, doveva continuare a scoraggiare i suoi corteggiamenti
non accettare le sue proposte).
La
ragazza parlava, stava dicendo qualcosa sullo straniero, che era
arrivato quella mattina dopo aver viaggiato da Minas Tirith fino a
lì, altre cose che non afferrò e che non gli
sembravano importanti.
Non
riusciva a staccargli gli occhi di dosso: orecchie a punta, appena
accennata ma completamente visibile proprio sulla sommità
dei lobi,
una vaga luminescenza, una vibrazione che proveniva da lui come il
rombo lontano di una cascata.
Era
un elfo in carne e ossa, a pochi passi da lui, a cui poteva chiedere
qualsiasi cosa, ma non riusciva a parlare.
“Ida
dice che puoi offrirmi un lavoro,” disse l'elfo,
rivolgendoglisi
con una voce molto diversa da quella che si era immaginato,
più
squillante, con un accento insolito totalmente diverso da quello dei
barcaioli silvani che aveva sentito parlare quando andava a spiarli
giù al fiume.
“Certo
che può” si intromise Ida, “ha bisogno
di una mano al bancone
mentre lui di là impasta, inforna e affetta.”
“Bene”
annuì l'elfo, “ho davvero bisogno di qualcosa da
fare in città,
se voglio rimanere per un po' di tempo. Grazie,”
improvvisamente
tese la mano verso di lui “mi chiamo Silevril”.
Senza
pensarci Eren glie la strinse. Si era aspettato una mano morbida,
invece poteva sentire i calli sulle sue dita e il palmo ruvido di
qualcuno che lavora con le mani. Guardandolo meglio notò che
aveva
la pelle leggermente screpolata sulle guance e il naso, e il colorito
di chi passa molto tempo sotto il sole.
“Sono
Eren” disse e finalmente riuscì a sorridergli.
Quel contatto lo
aveva come risvegliato, rendendo la figura dell'elfo che gli stava di
fronte reale, non più evanescente come un'immagine creata
dalla sua
mente.
Gli
piaceva, Silevril, aveva l'aria di un uomo – un elfo
– concreto,
più simile a lui che agli elfi di cui si leggeva nelle
antiche
leggende.
Ida
era raggiante, sicura che l'aver portato un altro elfo alla sua porta
le avesse fatto guadagnare moltissimi punti nella lunga ed estenuante
corsa all'ottenere la sua attenzione.
“Bene,”
disse la ragazza “ora che vi siete conosciuti io vado, la
mamma mi
aspetta per servire il pranzo.”
Quando
furono soli, Silevril si guardò intorno incrociando le
braccia sul
petto.
“Sai,
Eren,” disse, “non so assolutamente niente di come
si fa il pane
o di come si vende.”
Sorrise
appena. Era un sorriso molto strano, la sua espressione
cambiò ma
gli occhi rimasero immobili, quasi freddi, eppure lo si sarebbe detto
triste.
Erano
tutti così, gli elfi? Anche lui appariva così
distante e misterioso
alle altre persone? Per un momento ebbe paura di aver allontanato i
suoi genitori da lui con un muro di freddezza, ma fu un pensiero
fugace e assurdo.
“Ho
sempre fatto il marinaio” continuò Silevril,
riempiendo il
silenzio, “non avrei mai pensato di ritrovarmi a fare il
fornaio”.
Si
voltò verso di lui e lo investì con il suo
sguardo fatto di
ghiaccio.
“Non
parli molto, vero?”
Eren
si scosse, accorgendosi solo in quel momento di essere solo con lo
straniero e che lui gli stava parlando.
“Scusa”
balbettò, “non avevo mai parlato con un
elfo”.
Silevril
rise, ma vedendo la sua espressione smise subito.
“Sei
un elfo anche tu, non lo sapevi?”
“Intendevo
dire che non ho mai parlato con un altro elfo oltre me.”
Scosse
le spalle a quelle parole, senza approfondire oltre, come se il fatto
di essere il primo elfo a mettere piede nella vita di un altro non lo
toccasse minimamente.
“Mi
insegnerai, quindi?”
“Cosa?”
Eren fu colto di sorpresa.
“A
fare il pane, intendo.”
“No,
credo sia meglio che tu stia qui a servire i clienti, il pane lo
faccio io. “ Improvvisamente fu preso da un moto di orgoglio
verso
se stesso e la vita che aveva vissuto fino a quel momento,
così
aggiunse ammiccante: “Ho iniziato nella Terza Era, ti ci
vorrebbe
almeno altrettanto per imparare!”
Silevril
scoppiò a ridere e lo raggiunse dietro al bancone,
ravviandosi i
capelli dietro la nuca.
“Allora
coraggio, Capitano, tu al timone ed io al cassero.”
Eren
sorrise a sua volta.
Iniziavano
a stargli simpatici gli elfi.
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