D'amore e incoerenza

di BrizMariluna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dove senti male? ***
Capitolo 2: *** Il figlio di Marte ***
Capitolo 3: *** Se conosco un po' nostro figlio... ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Dove senti male? ***


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*1*
 DOVE SENTI MALE?

 
 
L’elicottero del Pronto Soccorso era decollato da pochi minuti e la paziente, caricata a bordo dai paramedici insieme al marito, aveva cominciato a delirare; e lui non sapeva se fosse un bene o un male.
− Morirò, vero? Sì, lo so che morirò, non c’è scampo... Lo sento! Sakon, Sakon, tienimi stretta! 
− Sono qui, Jami, sono qui. Tranquilla, non morirai, te lo prometto!
− Ma cosa prometti! Sto sanguinando! – la sua voce si era fatta più alta e stridula − E anche se hai due o tre lauree... e non so quanti dottorati e master... non sei un medico! Dio, Dio, Dio... Aiutami, lo so che morirò...
Sakon osservò la medicazione alla fronte della moglie, sulla quale stava, effettivamente, già affiorando una macchia scarlatta; agitarsi in quel modo, di sicuro non le avrebbe fatto bene.
− Jami, amore, stai andando in crisi isterica, calmati! Sei caduta dalle scale e hai una ferita alla fronte, è vero, ma andrà tutto bene!
− Ho male dappertutto, Sakon. Ho paura, non voglio... Troppe cose da fare, ancora... Troppe cose... a metà...
La voce della ragazza si era di nuovo affievolita.
− Shhh. Respira… e calmati...
Sakon non riuscì a dire altro: si strinse il capo riccioluto di Jamilah al petto e pregò che l’elicottero atterrasse presto all’ospedale più vicino.
Jamilah stava sempre peggio: aveva smesso di lamentarsi, ma in volto era livida e aveva il respiro affannato, gli occhi azzurri spalancati e fissi, che sembravano non vedere nulla. Dire che era in stato confusionale, sarebbe stato un eufemismo.
Quella maledetta scala... gli ultimi tre gradini, proprio ora!
Avevano combattuto l’Orrore Nero e i suoi mostri, vinto la guerra distruggendo il loro Imperatore Darius e i suoi orrendi sottoposti... E ora, non sarebbero stati tre stupidi, insignificanti scalini, a rovinare la loro vita!
− Resisti, piccola... Non morirai, te lo prometto − ripeté, forse per rassicurare più se stesso che lei, mentre gli sembrava che l’elicottero, invece di accelerare, andasse sempre più lento.
 
 
Il dolore era sempre più forte, sempre più insopportabile… Capiva poco e niente di ciò che stava accadendo, sentiva solo quei dolori lancinanti alla schiena e alla testa; forse per questo Jami era davvero convinta che sarebbe morta, se non si fossero almeno attenuati; o se non fosse intervenuto al più presto qualcuno, o qualcosa, che le avesse pietosamente fatto perdere i sensi.
Arrivare all’ospedale ed essere affidata al personale medico − tra il quale era apparso, fortunatamente, anche il volto amichevole e comprensivo della dottoressa Yumiko Mori − non l’aveva sollevata di molto, soprattutto nel cogliere, sempre nebulosamente, alcune frasi smozzicate di un altro dottore, che rendeva la collega edotta sulla situazione.
− Dottoressa Mori, la situazione sembra un po’ più grave di quanto pensassimo, purtroppo... Probabilmente dovremo... uhm, operarla, sì... Effettivamente non mi aspettavo... Sanguina molto...
Le voci si erano affievolite, mentre i due medici si allontanavano, e il dolore, che ormai non le dava tregua, fece girare la testa a Jamilah, che si sentì assalita da un’ondata di nausea...
Mentre la portavano in una saletta attrezzata per le emergenze, non aveva smesso un attimo di invocare il nome di Sakon: era suo marito, maledizione, e se fosse finita davvero male e ci avesse sul serio lasciato le penne, voleva che fosse il suo volto, l’ultima cosa che avrebbe visto. 
Ma per il momento, mentre veniva adagiata su un lettino preventivamente predisposto nella sala piena di apparecchiature tecniche e chirurgiche, ad avvolgerla fu soltanto il buio.
Fu questione solo di vista offuscata e sensi vagamente ottenebrati per alcuni lunghi momenti, ma poi avvertì, rassicurante, la presenza di Sakon accanto a lei.
Un’altra fitta dolorosissima la colse, facendola inarcare e strappandole un grido soffocato, mentre cercava la mano del marito e la stringeva spasmodicamente.
− Ahhhhh... Oddio, muoio, muoio... − ansimò.
La voce della dottoressa Mori, che la assisteva al lato opposto di quello di Sakon, la rassicurò:
− Tranquillizzati, Jamilah, non si muore di cose come questa. Non in questa epoca; non qui!
Jami si sforzò di metabolizzare le parole della dottoressa Mori: non sarebbe morta? Davvero?
− E allora perché sto così male, porca puttana! − urlò mentre un’altra fitta le squassava il basso ventre.
− Jami, guardami e concentrati! – le ordinò Yumiko, il tono a metà tra il perentorio e il dolcissimo.
La ragazza prese qualche respiro, stringendo la mano di Sakon che ricambiò per tranquillizzarla, e guardò la dottoressa e amica che l’aveva in cura già da alcuni anni, da quando era arrivata al Faro di Omaezaki insieme a Sakon, come sua assistente, prima dell’inizio della guerra contro Black Darius. La sua mente cominciò finalmente a schiarirsi, recuperando tutto nel giro di pochi minuti.
− Jami, non hai niente di rotto... − le disse intanto la dottoressa Mori − Né emorragie interne, né nient’altro di grave. Solo... la brutta botta che hai preso con quella caduta... ha innescato il travaglio.
− Il… travaglio...? − mormorò Jamilah, quasi a sé stessa, come cercando di capire di cosa stesse parlando la dottoressa.
Poi un lampo di comprensione le illuminò il cervello, ridandole coscienza della sua condizione; condizione che il trauma per la caduta le aveva fatto dimenticare completamente.
Si guardò l’enorme pancia come se la vedesse per la prima volta. 
− Il bimbo sta bene − disse Yumiko, cercando conferma negli occhi di Azumi, l’ostetrica pacioccona dal volto simpatico, la quale aveva appena finito di fissare intorno al pancione di Jami la cintura che avrebbe permesso di monitorare le contrazioni uterine e i battiti cardiaci del nascituro.
− Sta bene? Sicuro? E allora perché sanguino? Perché... Ho così tanto male? Ahhiaaa! – urlò Jami, all’ennesima staffilata di dolore, ormai assolutamente rientrata, a livello psicologico, nella situazione che stava affrontando.
− Sanguinare un po’ è normale, tu hai un’emorragia più copiosa per via del trauma che hai appena subito. Ci eravamo preoccupati un po’, lo ammetto, il dottor Ikeda era già pronto per un cesareo di urgenza. Ma abbiamo appurato che la ferita alla fronte è solo una sciocchezza, e che il travaglio è perfettamente nella norma: Ikeda ha deciso che un parto naturale sarà molto meglio e tu sei assolutamente in grado di affrontarlo. Ti trasferiamo nel reparto di ostetricia, in una saletta travaglio comoda e accogliente... Tra qualche ora avrai il tuo bambino, Jami...
La paura lasciò il posto al sollievo, mentre la dolorosa contrazione si placava.
− Ma non è prematuro? − si preoccupò la prossima mamma − Non ci sono precauzioni da prendere per... il dopo?
− Il problema è inesistente, tranquilla: non è prematuro, solo un po’ pretermine... Il bimbo, o bimba che sia, è perfettamente in salute. Dall’ultima ecografia di un mese fa è cresciuto parecchio, è un vero torello! Mi sa che sfiora già i quattro chili...
Gli occhi di Jami si spalancarono.
− Quattro chi... Ahhiaaaa... Sakon! Quanto cacchio pesavi, tu, alla nascita? − gridò Jami, decisamente alterata da quella notizia.
− Ahem... − titubò lui − ...attrochilietrecento − sparò tutto in una volta, sperando che lei non capisse; speranza del tutto vana, ovviamente.
− Ahhhh! Disgraziato, e adesso, me lo dici! Era il tuo supercervello, che pesava così tanto? Ma porcaput...
Jamilah si interruppe, per cercare di controllare il dolore respirando profondamente, mentre Sakon la guardava vagamente contrito.
In pochi minuti furono trasferiti in un’intima e accogliente stanza, nella quale avrebbero avuto la giusta privacy, mentre Azumi sarebbe andata con regolarità a controllare l’andamento del travaglio.
Jami si ritrovò adagiata su un bel lettone.
Si rilassò, appoggiandosi contro il marito che, presa posizione dietro di lei, la sosteneva tenendole una mano e passandole ripetutamente l’altra sulla parte bassa della schiena, massaggiandola lentamente.
Sakon si lasciò a sua volta avvolgere dal sollievo nel sentire che, sebbene un pochino in anticipo − i nove mesi sarebbero scaduti di lì a circa quindici giorni − il travaglio si stesse svolgendo nel modo giusto.
Nonostante fossero mesi che si allenava, all’idea di diventare padre, si vide costretto ad ammettere una grande verità: non si era mai pronti e diventarlo in anticipo, anche se di poco, non facilitava la cosa.
Era vero, nonostante la sua intelligenza prodigiosa e la sua più che notevole cultura, non era un medico, men che meno un ostetrico. Dovette confessare che di travagli e parti sapeva ben poco, giusto le classiche nozioni puramente teoriche...
Ma l’importante era che fosse tutto a posto, nonostante quella caduta all’uscita del ristorante − dove, una volta tanto, si erano concessi una cenetta loro due da soli − e che, per qualche orribile minuto, aveva fatto temere il peggio anche a lui; soprattutto quando si era reso conto che Jami, all’inizio, aveva quasi perso conoscenza e pareva essersi persino dimenticata di essere incinta. Era comprensibilissimo che avesse avuto paura di morire lei, ma non che non si fosse preoccupata nemmeno per un attimo del loro bambino.
Invece a lui si era gelato il sangue, prima al pensiero di perdere entrambi; poi a quello di perdere Jami; e alla fine lo aveva terrorizzato anche l’eventualità di perdere solo il piccolo… o piccola. Non avevano voluto saperne il sesso, nonostante il ginecologo avesse detto che nell’ecografia si vedeva bene...
Aveva pensato per un attimo di avvertire sua madre, ad Auckland, e il dottor Daimonji e i loro amici. Ma poi aveva cambiato idea: in primis, perché non voleva farli preoccupare e, in secundis, perché, onestamente, non aveva proprio voglia di avere lì, fuori dalla porta della sala parto, la truppa del Drago ad aspettare e a rompere le scatole a chiunque, del personale medico che si fosse presentato da quelle parti, per chiedere se il bambino fosse nato o come andassero le cose.
Per quanto bene volesse ad ogni amico-fratello-sorella facente parte dell’equipaggio del Drago Spaziale, aveva promesso a sé stesso che quel momento sarebbe stato soltanto suo e di Jamilah. 
Aveva anche chiesto a Jami se desiderasse avvertire i suoi genitori, che vivevano anche loro ad Auckland, ma la risposta gli diede la conferma di aver fatto la scelta giusta anche per quel che riguardava la propria madre: avrebbero avvertito ogni amico e parente a tempo debito, solo quando questo bimbo avesse finalmente visto la luce.
Infatti, ciò che realmente lo preoccupava, adesso, era quello che aveva detto la dottoressa Mori: “Tra qualche ora avrai il tuo bambino”.
In tutta onestà, a Sakon, l’idea di vedere Jami soffrire in quel modo per un tempo indefinito − qualche ora gli pareva molto vago, poteva avere molteplici significati − non lo allettava per niente.
L’ennesimo urlo; l’ennesima stretta alla sua mano... Ecco: come volevasi dimostrare.
Tentando di non pensare alle ossa delle sue dita, che avevano emesso un poco rassicurante scricchiolio, Sakon riprese a massaggiare, con l’altra mano, la schiena della moglie, non prima di averle chiesto, amorevolmente:
− Dove senti male, Jami?
 
 
Qualche ora più tardi − e Sakon dovette tristemente prendere atto che come definizione era davvero molto vaga, perché quelle dannate ore erano state sicuramente più di qualche − l’ingegner Gen si trovava a dover gestire la stanchezza fisica e psicologica di Jamilah, oltre che la propria...
Guardò l’orologio: le quattro e mezzo… erano passate quasi sette ore, nel giro di poco la notte avrebbe lasciato spazio al mattino. La frequenza delle doglie, però, si era intensificata, ormai erano circa una al minuto, e Sakon aveva scoperto che le contrazioni uterine non si limitavano solo, appunto, all’utero.
Jamilah gli aveva spiegato che i dolori si estendevano fino alle terga e che le sembrava di essere presa a sprangate nella parte bassa della schiena; e lui, dopo averle chiesto infinite volte di indicargli i punti precisi, le dedicava teneri ed efficacissimi massaggi.
In quell’ultima ora, Jami aveva addirittura finito per appisolarsi, tra una contrazione e l’altra, a volte tanto profondamente da sognare, persino; per poi svegliarsi di botto al sopravvenire di una nuova ondata di dolore, e mugolando, tra il sorpreso e il disperato: − Merda... Ancora qui, sono...?
Poi, poco prima, mentre Azumi la visitava per l’ennesima volta, confermando che la dilatazione del collo dell’utero era a buon punto, si erano rotte le acque.
Nel giro di alcuni minuti, Jami avvertì l’impellente bisogno di spingere, ma l’ostetrica, promettendole che ora sarebbe rimasta lì con loro, le disse di resistere ancora un po’: la dilatazione non era ancora completa.
Sakon ringraziò mentalmente Dio − o chiunque ci fosse al Piano di Sopra − per la quattrocentosettantaseiesima volta, di non essere nato femmina: Jami era allo stremo, e lui si chiese come diavolo facessero quelle donne i cui travagli duravano quindici, venti ore, se non di più!
Finalmente l’ostetrica decretò che fosse giunta l’ora di passare nella sala parto vera e propria, dove Jami fu fatta accomodare nel lettino predisposto.
A dire il vero, il termine accomodare non convinceva molto Sakon: a lui sembrava più una sedia delle torture. Come poteva essere comoda, sua moglie, con le gambe sollevate e divaricate in quel modo? Mah... Misteri della natura femminile...
Si riposizionò comunque alle spalle di lei, abbracciandola dolcemente e lasciandole un lieve bacio sulla parte di fronte lasciata libera dalla medicazione. 
Lei gli sorrise e lui si sentì rinfrancato; che cosa assurda, non avrebbe dovuto essere il contrario? Non poteva fare a meno di sentirsi responsabile di quella situazione.
Si diede dello stupido, cosa che, per uno che aveva realmente due signore lauree e un numero imprecisato di dottorati e specializzazioni − oltretutto ottenuti, quasi tutti, prima dei ventitré anni − era tutto dire.
Se non che, realizzò improvvisamente, questa nuova e sconvolgente esperienza stava mettendo in moto una forza fisica, in sua moglie − e soprattutto un lato caratteriale − di cui lui non era mai stato a conoscenza.
A conferma di quelle ultime considerazioni, Jamilah gridò, all’arrivo di una nuova contrazione, sollevandosi col busto e agitandosi nel suo abbraccio:
− Ahhh, maledizione! Ahhhiiiaaa! Cazzo...
− Jami, lo so che hai male, e tanto... Dove? 
− In basso... Sulla destra... 
La milionesima pressione delle mani del marito sul punto dolorante della schiena, le diedero un po’ di sollievo, anche se non più come all’inizio del travaglio.
Erano quasi alla resa dei conti...
− Accidenti, − ansimò, sfinita − quanto ci vuole ancora per guadagnare quel fottutissimo ultimo centimetro di dilatazione?
− Ci siamo quasi, tesoro − disse la voce flautata di Azumi.
− Solo un paio di contrazioni, ancora, e vedrai che ci siamo − la incoraggiò Yumiko.
− Ahhh... Dio! Due contrazioni? Ho un bisogno disperato di spingerlo fuori! Stradannazione, Sakon! È tutta colpa tua! 
− M... mia? − fece lui, esterrefatto.
Fantastico, già si sentiva vagamente rimordere la coscienza, ci mancava proprio che lei glielo rimarcasse lì, davanti a fin troppi estranei.
Infatti, una volta passati in sala parto, all’ostetrica Azumi e alla dottoressa Mori si erano aggiunti il dottor Ikeda e una giovane puericultrice pronta a prendersi cura del neonato in arrivo.
− Sì, tua, miseriaccia! Me l’hai messo dentro tu! − urlò Jamilah.
− I... io... mett... Jami! Ma ti sembra il caso, santo cielo? − replicò Sakon, letteralmente color alba dei tropici e decisamente scandalizzato.
Nel vedere l’espressione imbarazzata, gli occhi sgranati e il colorito paonazzo del marito, Jamilah si rese conto di come potessero essere suonate le sue parole.
− Il... b-bambino − si affrettò a precisare − Intendevo... A mett… il bambino... dent...
− Shhh! − la interruppe dolcemente Sakon, stringendola appena a sé, in un momento di tregua − Non peggiorare le cose! − aggiunse senza sapere se ridere nonostante tutto, o vergognarsi come un coscritto.
Da lì in poi, la situazione prese una piega decisamente concitata: Azumi diede il benestare allo spingere, ma all’inizio Jami era talmente stanca e debole che sbagliava a sincronizzare spinte e respirazione...
Poi, finalmente, capì che non doveva emettere il fiato, come aveva fatto fino a quel momento, ma trattenerlo e mettere tutta la forza nell’azione. E, all’ennesima contrazione, spinse talmente forte da sentire più che distintamente la testa del nascituro incanalarsi nel passaggio che lo avrebbe portato nel mondo.
− Bravissima, Jami! Se fai così basteranno un paio di spinte, e vedremo in faccia questo angioletto! − la incoraggiò Yumiko.
− Sehhh... Angioletto, proprio... Ahhhaiaa!
Fu a quel punto che la contrazione si fermò.
− Ferma! Non spingere ora, aspetta la prossima contrazione! − ordinò Azumi.
Jamilah si sarebbe messa a piangere: aspettare? Ancora? Con quel bruciore lancinante ai tessuti là dentrolà sotto, che sembrava dovesse spaccarsi tutto? Le sfuggì un lamento che avrebbe mosso a pietà un sasso.
La voce di Sakon ruppe il silenzio:
− Dove senti male, Jami? 
Lei sembrò rianimarsi tutto ad un tratto.
− Cosa? Dove ho male? In un dito! Ma secondo te!? Che domande idiote mi... ufff... fai? 
− Scusa tesoro, dopo aver passato ore a chiedertelo, per sapere dove massaggiarti la schiena...
− Beh, adesso non è più la schiena che mi fa maleeehhh!
Un altro doloroso premito contrasse le pareti dell’utero, e Jami si stupì della forza con cui riuscì a spingere un altro po’ in avanti l’angioletto... Stavolta sentì chiaramente il cranio del piccolo farsi strada, dilatando il canale del parto.
− Cazzo, si romperà tutto, così! – le sfuggì, senza pudore. 
− Non si romperà niente, vedrai − disse la dottoressa Mori − E, nel caso, basteranno pochi punti e... tornerai come nuova!
− Crede di farmi coraggio, così? Hanf, hanf... Una cosa è certa: il mio maritino non si avvicinerà mai più a me, se prima non si sarà premunito! Anzi, la sola idea che mi si avvicini , e basta, mi fa venire voglia di scappare!
− Ah, davvero? Ti fa venire voglia di scappare? − esclamò Sakon, senza più riuscire a resistere − Perché non era questa l’impressione che avevo avuto, ogni volta che mi sono... avvicinato a te! A parte il fatto che le precauzioni le abbiamo sempre prese!
− Aaahhiiiaaa! Sì, dopo, maledizione a te! Tanto ormai il casino lo avevamo già combinato la prima volta!
Sakon la abbracciò, parlandole all’orecchio nel modo più pacato che riuscì a mettere insieme. 
− Tesoro, dai, eravamo su Marte, lo sai! Ci hai persino scherzato sopra, il giorno dopo, quando ne abbiamo parlato... La tua battutina sulle farmacie che su Marte, a quell’ora, erano chiuse, ricordi?− tentò di difendersi, con ben poca convinzione; talmente poca che, infatti, non servì a nulla.
− Tu… da oggi… hanf, hanf… mi starai… lontano. Non ti permetterò… hanf hanf… di avvicinarti a meno… di due metri!
Sakon cercò di non ascoltare, facendosi forte della convinzione che fossero la fatica e la sofferenza a farla sragionare.
Jami era sempre stata felice, durante la gravidanza, dell’avvento di quel bambino, e lo stesso era stato per lui: amava Jamilah più della sua stessa vita, e di baci, su quel pancione, ne aveva lasciati a bizzeffe, proprio per trasmetterle quanto amasse entrambi.


 
Sakon-con-Jami-incinta

Ma, effettivamente, cominciava a non sopportare più di vedere Jami stare tanto male, a parte il fatto che ad ogni contrazione gli stritolava letteralmente la mano: se questo bambino non fosse uscito in tempi brevi, più tardi avrebbe necessitato lui dei servizi ospedalieri, ma nel reparto di ortopedia!
Non avrebbe mai immaginato che Jami avesse tanta forza… o tanta voce.
Azumi la esortò nuovamente a spingere e Jami lo fece, nonostante il dolore: a quel punto era diventato quasi meccanico e Sakon si ritrovò a pensare di nuovo che i termini qualche, un paio, o giù di lì, stavolta riferiti al numero delle contrazioni rimanenti, fossero realmente parole prive di significato. 
− Aaahhhiiiaaa! 
− Jami... 
− Chiedimi di nuovo dove ho male e ti prendo a pugni, maledetto!
− No, ho capito dove hai male, ho capito! Solo non credevo che sarebbe stato così, accidenti!
− Non credevi, eh? Beh, prova tu a far passare un cocomero dove di solito passa una banana!!! ‘azz... Ahiaaa!
Sakon si passò una mano sul viso, imbarazzato a morte, ma non si pose nemmeno più il problema: lo sapeva di essere diventato di nuovo dello stesso colore di… un cocomero, appunto.
Di nuovo l’ondata di dolore si placò e Jamilah fu costretta ad interrompere le spinte. Stavolta la sensazione là sotto era del tutto nuova, anche se non meno bruciante e fastidiosa… Con somma sorpresa di entrambi, Azumi annunciò serafica, come se fosse una cosa normalissima:
− Ferma immobile, Jamilah: puliamo il nasino all’angioletto!
− C… cos’è che fa? – chiesero entrambi, allibiti.
− Il piccolo è affacciato, ha mezzo faccino e il nasino fuori.
Sakon, completamente basito, ebbe per un attimo la tentazione di passare davanti per vedere in faccia la propria prole, ma Jami intuì il suo pensiero e lo fermò con un’occhiataccia.
− Non ci provare: qualcosa mi dice… ahhh… che se lo farai finirai lungo disteso sul pavimentooohhh… oh, merda! − urlò, stanca ma allo stesso tempo sconcertata e affascinata dal pensiero che il suo bambino avesse già mezzo musetto sul mondo esterno. 
− Spingi, Jami! – ordinò Azumi. 
− Mi sembra di spingere da ore, non ce la faccio, porca…
− Jami, smetti di imprecare, ti prego! – intervenne Sakon − Nemmeno a Briz usciranno certe cose, se mai dovrà partorire!
− Se avrà un minimo di buon senso, non permetterà a Pete di metterla incinta! 
− Ma taci, che vuole dei figli da quando era una ragazzina!
− Ci penserò io a farle cambiare idea, appena avrò fiato per farlo... e anche a Pete! Perché diavolo non esce questo mostriciattolo? – gridò, allo stremo delle forze, dando un’ultima, potentissima spinta, la cui forza stupì persino lei.
Fu questione di pochi secondi, la sensazione stranissima di qualcosa di incredibilmente vivo e scivoloso che… correva fuori!
E il fantastico, meraviglioso sollievo, di rendersi conto che, nonostante i secondi passassero, le ondate di dolore non si ripetevano più.
Il tempo rimase sospeso, come il respiro di tutti i presenti…
Per diversi istanti ogni voce tacque… tranne una, che a un tratto si levò, alta e chiarissima, insieme all’alba che sorgeva, rossa e orgogliosa, insieme a quella nuova vita.
 − Aw… Aw… Waaaaah!
 
 > Continua…


 
Nota:
Le farmacie chiuse su Marte: cfr. “Il Drago e il Leone”, capitolo 46, “Non siamo eroi”

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Capitolo 2
*** Il figlio di Marte ***


*2* 
IL FIGLIO DI MARTE
 
 
Sakon Gen entrò nell’ascensore che lo avrebbe portato al piano del reparto maternità; non vedeva sua moglie e la loro prole solo da sei ore, eppure gli sembravano secoli.
Era mezzogiorno: tra una cosa e l’altra aveva dormito solo quattro ore, e solamente perché Jamilah glielo aveva praticamente imposto.
La sua mente non poteva fare a meno di rivivere all’infinito i momenti successivi alla nascita di quella nuova vita che loro stessi avevano concepito: quando aveva udito quel primo pianto, improvviso e liberatorio, aveva sentito lui stesso gli occhi pungere pericolosamente e il cuore battergli impazzito in gola. Non era arrivato a porre la prima domanda, che Azumi già gli aveva risposto:
 − È un maschietto!
Sakon e Jamilah avevano aspettato, impazienti, che l’ostetrica e la puericultrice ripulissero sommariamente il neonato dal sangue e dal muco, mentre contemporaneamente rispondevano ai loro scontati e sciocchi quesiti, uno sconclusionato tripudio di: “Sta bene?”, “È normale?”, “Ha tutto?”.
Poi Azumi aveva posto a Sakon una domanda che lo aveva spiazzato: 
− Papà, vuole tagliare lei il cordone ombelicale?
Jami lo aveva squadrato con uno sguardo sfinito ma divertito, poiché lui si era sentito all’improvviso defluire il sangue dal volto.
− Direi di no – lo aveva anticipato la moglie – Fate voi, è meglio; credetemi sulla parola. 
Sakon, già sul punto di svenire davvero solo al pensiero, aveva tirato un sospiro di sollievo e aveva guardato, grato, la sua Jamilah.
E poi avevano posto il bimbo, che non aveva smesso un attimo di strillare, sulla pancia nuda di Jamilah, prima di coprirli entrambi con un telo sterile verde.
Quel contatto, pelle contro pelle con la propria mamma, e il battito rassicurante e famigliare del suo cuore, che lo aveva accompagnato incessante per quei quasi nove mesi di vita intrauterina, avevano calmato di botto il nuovo arrivato, che aveva smesso subito di piangere.
Così, la coppia aveva avuto modo di godersi da vicino lo spettacolo di quella piccola vita appena giunta da questa parte. 
La perfezione… Sì, nient’altro che la perfezione assoluta, faceva mostra di sé: nelle manine dalle minuscole unghie; nelle ciglia sottili, lunghe e ricurve, che ombreggiavano un paio di guancette poco più chiare del cioccolato al latte; nei capelli scuri, incredibilmente folti e lunghi, fini e sfilati intorno alla fronte e davanti alle orecchie piccine.
− Jami, hai fatto un capolavoro – aveva sussurrato il neo-papà commosso, la voce non del tutto ferma.
− E io che l’ho persino chiamato mostriciattolo! Perdonami, cucciolo… − disse la mamma, facendo pensare a Sakon che la coerenza, in quei momenti, fosse proprio andata a farsi benedire – E comunque… lo abbiamo fatto insieme, direi, questo capolavoro – aveva risposto, con un sorriso stanco e felice, una luce nuova e dolcissima negli occhi color acquamarina.
− Oh, taci… Sei stata bravissima. In fondo, a me, è toccata solo la parte piacevole.
− Beh, direi che è stata fondamentale, visto che è stupendo. Non credevo che un bambino appena nato potesse essere tanto bello: mi aspettavo uno gnometto grinzoso e cianotico e invece… – aveva ridacchiato Jami, parlando sottovoce − Avevi mai visto un neonato con così tanti capelli? Sono neri corvini, come i tuoi… ed è uguale a te anche nei lineamenti, per quel po’ che si capisce… Se lo avessi fatto da solo, non ti somiglierebbe di più. 
Fatto da solo fu un’espressione che non gli piacque per niente, dopo ciò a cui aveva appena assistito, ma che lo fece anche sorridere.
− È troppo piccolo, amore. Chissà quanto cambierà ancora, crescendo. 
− Come si chiama questo bambino? – aveva chiesto il dottor Ikeda, pronto a redigere il certificato di nascita.
I due erano rimasti interdetti per un attimo: non si erano mai soffermati più di tanto sugli eventuali nomi del bimbo, convinti che la scelta definitiva sarebbe venuta spontanea una volta che lo avessero visto in volto.
− Scegli tu, tesoro – aveva detto Sakon. 
Jami aveva sorriso appena: conosceva abbastanza bene Sakon per sapere che in quel momento, vedendola così stanca e provata, le avrebbe concesso qualunque cosa. Era sicura che se avesse detto: “Voglio chiamarlo Vercingetorige, probabilmente, con la sua flemma olimpica, le avrebbe risposto: “Amore mio, è perfetto!”
− Posso pensarci qualche minuto ancora? – aveva chiesto allora, a voce bassa. 
− Certo, ma non di più, poi devo registrare il certificato – aveva risposto il medico con un tono che sembrava dire: “Ma guarda questi, in nove mesi non hanno nemmeno deciso che nome dare al loro primogenito!”
− Dio, che meraviglia… − era sfuggito ancora a Jamilah, ormai rilassata dal fatto di non sentire più dolori, e che fosse tutto finito.
Anzi… cominciato
− È stupendo… Il figlio di Marte… − soggiunse poi. 
− Ahem… di Marte? E io che credevo fosse mio figlio… − aveva precisato Sakon, fingendosi deluso.
Jami lo aveva guardato preoccupata, pensando di aver proferito l’ennesima scemenza, e aveva poi sorriso, vedendo invece l’espressione scherzosa di suo marito: un sorriso complice, che apparteneva a loro soltanto. 
E a quel punto, ecco l’illuminazione che stavano aspettando, data la simbiosi esistente tra loro che li aveva portati, già innumerevoli volte, a pensare insieme le stesse cose.
− Dottore, si chiama Martin – aveva decretato Sakon, sapendo di aver interpretato alla perfezione il pensiero della moglie.
− Sì − aveva approvato, infatti, Jamilah – Martin: dedicato a Marte. Ma non il dio della guerra: il pianeta. È lì, che la vita di nostro figlio ha avuto inizio… e anche la nostra insieme, in un certo senso. 
Il medico non aveva fatto domande: era abituato a parecchie stramberie dovute alla immediata condizione di padre e madre. 
Dopo alcuni minuti, e non prima di aver rassicurato i neo-genitori che i punteggi dell’Indice di Apgar1 fossero perfetti, la puericultrice aveva invitato Sakon ad andare con lei, per assistere al primo bagnetto di suo figlio.
Lui era sembrato restio ad abbandonare il fianco di Jamilah, ma lei lo aveva incoraggiato, sapendo che le sarebbe toccato l’ultimo sforzo che desiderava, invece, fosse risparmiato a lui: l’espulsione della placenta.
Infatti, dopo che Azumi si fu premurata di riferirgli che la placenta somigliava a un disgustoso e informe ammasso di scarti di bassa macelleria, la sola idea gli aveva dato uno spiacevole brivido lungo la schiena, una contrazione allo stomaco e un’altra mancata affluenza di sangue al volto…
Naahhh! Molto meglio il bagnetto del bimbo, senz’altro! Molto saggia, la sua Jami: mica per niente, si era innamorato di lei! Così, mentre lei aveva affrontato la restante prova e ricevuto le ultime cure, lui si era goduto l’inizio della vita di suo figlio.
E l’ennesima, meravigliosa emozione di quella giornata, era stata quando la puericultrice, una volta lavato e vestito il pupo sotto ai suoi occhi ancora increduli, glielo aveva posto tra le braccia. Gli sfuggì un sorriso: i capelli nerissimi, ora puliti e asciutti, gli stavano dritti sparati sulla testolina.
Tre chili e ottocentocinquanta grammi di innocenza, perfezione e purezza.
 
My-son  

Se non che, l’innocenza, la perfezione e la purezza, si erano risvegliate di colpo, strillando come un’aquila, anzi, tre: una tonalità diversa per ogni peculiarità!
E quando lui aveva avvicinato il dorso delle dita alla guancetta paffuta per accarezzargliela, nella speranza di calmarlo, il piccolo aveva afferrato tra le labbra la punta del suo mignolo e… aveva cominciato a succhiare, lasciandolo basito per la centesima volta in pochi minuti. 
− Eh, ma è affamato come un lupacchiotto! – aveva esclamato la puericultrice, dal canto suo per niente sorpresa – Bisogna tornare dalla sua mamma, e dargli quello che chiede – aveva concluso con semplice pragmatismo.
Nel giro di pochi minuti erano stati accompagnati tutti e tre in una stanza di degenza singola e, a un’ora scarsa dalla nascita, il piccolo aveva cercato il seno della mamma con un istinto infallibile! Sia Jami che Sakon sapevano che il latte vero e proprio non c’era ancora, ma il ricco e sostanzioso colostro era l’alimento perfetto per quel momento: un concentrato carico di anticorpi che avrebbero protetto il bambino e aumentato le sue ancor giovani difese immunitarie. 
Sakon, seduto sul letto con Jami appoggiata a lui, che teneva il bimbo in braccio, si era beato della vista di quella piccola bocca che, con brevi movimenti precisi e cadenzati, suggeva il prezioso nutrimento.
Come diavolo facevano quei piccoli esseri, niente più che progetti di futuri uomini o donne, a sapere cosa dovessero fare? La natura era davvero qualcosa di assolutamente, meravigliosamente, inconfutabilmente perfetto! 
− Più lo guardo… e più mi sembra bello – aveva sussurrato Jami – Ci pensi? Questo bambino, oltre ad essere stato concepito su Marte, racchiude in sé un po’ di Africa e di Australia, da parte mia; e un po’ di Giappone e Nuova Zelanda, da parte tua. E… resto dell’idea che di me… abbia solo il colore scuro della pelle – aveva concluso, con un tono che a Sakon era parso vagamente sconsolato.
A quel punto il piccino aveva smesso di succhiare e si era prodotto in un ridicolissimo sbadiglio, tutto gengive sdentate, sopracciglia contratte e pugnetti serrati, poi, con loro sorpresa, aveva sollevato le palpebre e li aveva fissati entrambi.
Sicuramente lui non poteva vederli ancora bene, ma loro, per la prima volta, si erano trovati a specchiarsi negli occhi del loro bambino: quegli occhi che, spalancati e dalle sottili e lunghissime ciglia spiccavano – dello stesso colore delle Nemophile blu che si apprestavano a fiorire in quel periodo – contro la carnagione scura, di un azzurro tanto intenso da far male allo sguardo… 2
− Avevi detto...? – era riuscito ad articolare Sakon, commosso di fronte a quello spettacolo e all’espressione esterrefatta di Jamilah.
− Beh, questi occhi, decisamente, non li ha presi da te… − fu costretta ad ammettere, felice.
− Davvero? E da chi li ha presi, dal postino? O forse devo prendere a pugni Pete, appena lo vedo? – scherzò Sakon.
− Scemo! La smetti di mettere in dubbio la mia fedeltà? – aveva riso lei, prima di lasciarsi sfuggire a sua volta uno sbadiglio.
− Credo sia ora che tu riposi un po’ – le aveva detto dolcemente, sfiorandole con un bacio la fronte, sulla quale la medicazione alla lieve ferita era stata sostituita con un cerotto meno ingombrante. 
− Anche tu: vai a casa, al Faro, okay? Avverti gli altri e i nostri genitori, fai una doccia, e dormi qualche ora. Noi non abbiamo bisogno di niente, qui, siamo in buone mani.
Sakon aveva pensato che, in realtà, fosse lui ad aver bisogno di loro, ma poi non aveva potuto fare a meno di concordare: avevano ambedue bisogno di dormire un po’. Le aveva dato un altro bacio sulla guancia e l’aveva rassicurata che, appena lei e Martin si fossero addormentati, sarebbe tornato al Centro.
− Mmm… Sakon… − aveva mormorato Jamilah, appoggiata al suo torace, prima di cominciare a scivolare nel sonno, contro il quale anche il piccolo Martin combatteva già da diversi minuti.
− Sì?
− Fatti anche la barba, pungi…
Sakon aveva sorriso: effettivamente aveva il mento e le guance ispide. Non era da lui tralasciare cose del genere, ma si sentiva più che giustificato: in quelle ultime ore era stato in altre faccende affaccendato.
Si era scostato, aiutando poi la moglie ad adagiarsi sui comodi cuscini, lasciandole il loro piccolo tra le braccia, finché non furono profondamente addormentati.
A quel punto aveva spostato leggermente Martin – che aveva ancora la guanciotta posata sul petto della mamma – in una posizione che fosse più comoda per entrambi, per poi soffermarsi a riaccostare, con un gesto tenero e un po’ pudico, i lembi della camicia da notte di Jami, che erano rimasti un po’ aperti sul seno, prosperoso e florido come non era mai stato prima.
Per parecchi minuti non era riuscito a staccare gli occhi da quella scena, che incuteva in lui un sentimento simile alla devozione: Jami era bella come una Madonna nera, con il suo bambino dormiente tra le braccia.
Alla fine era riuscito ad andarsene, ma solo dopo essersi riempito − dell’immagine della sua donna e di suo figlio − gli occhi, la mente e il cuore, fin quasi a scoppiarne.
 
 
E ora, mentre raggiungeva di nuovo il reparto maternità dopo poche ore di sonno, non si poteva dire che fosse particolarmente riposato, ma il pensiero di rivedere Jamilah e Martin gli mise le ali ai piedi.
Si stupì, dovette ammetterlo, di trovarla che passeggiava su e giù per il corridoio, cullando il piccino e sussurrandogli parole tenere e sciocche. Lei gli sorrise, quando lo vide arrivare, ma qualcosa lo lasciò per un attimo perplesso; si avvicinò, quasi circospetto.
Jamilah aveva i riccioli lucidi e vaporosi, una camicia da notte diversa, sotto alla leggera vestaglia color lavanda e, avvicinandosi a lei, avvertì un buon profumo di sapone e shampoo. L’infermiera di turno in quelle ore l’aveva sicuramente aiutata a lavarsi e lui poteva solo immaginare il sollievo che doveva averle dato l’acqua calda, scivolando sul suo corpo, dopo tutto quel dolore, quella tensione e quella fatica.
− Sei già in piedi… ma hai riposato, un po’?
− Sakon, ho partorito, non sono mica ammalata.
Nel tono di voce era vibrata una nota d’impazienza che lo stupì ulteriormente, come se volesse convincere più sé stessa, che lui. Martin dormiva tranquillo tra le braccia della ragazza e lei glielo porse.
Quanto ci sarebbe voluto ancora, per riuscire a prendere in braccio suo figlio senza la paura di romperlo? Sakon se lo chiese, reggendo il piccolo contro di sé, cercando poi di nuovo lo sguardo di Jamilah, la quale si strinse la vestaglia sul seno come se volesse coprirsi, cosa della quale non c’era alcun bisogno: Jami era più che presentabile, soprattutto dopo la doccia e date le circostanze.
Rimase un attimo interdetto… Non che Jami fosse una a cui piacesse ostentare le proprie grazie, ma era la classica persona che si era sempre sentita a proprio agio con il suo corpo; quel gesto era strano, non era molto da lei…
La sua innata sensibilità portò Sakon a farsi un’idea del problema; andò ad adagiare Martin nella culla e si rivolse alla moglie, che lo aveva raggiunto davanti alla luminosa finestra della stanza.
La prese tra le braccia, sentendo in lei una specie di resistenza, una rigidità nella postura che non le apparteneva; non quando lui la abbracciava, per lo meno. Che davvero c’entrassero qualcosa, tutte le assurdità che gli aveva sparato contro nei lunghi momenti in cui era stata in preda alle doglie lancinanti del parto?
− Non vuoi che ti abbracci, vero? – le chiese, scostandosi di poco da lei.
− Sono brutta… − sussurrò Jami, afferrandosi le braccia e incrociandole sul petto.
Altro momento di stupore: tutto si sarebbe aspettato, Sakon, ma non questa uscita.
− Sei brutta? Ma da quando? Io non me ne sono mai accorto! – rispose lui, sbalordito, cercando di sdrammatizzare.
− Prof, guardami! Ho avuto il bambino, ma ho ancora una pancia mostruosa! Sembro una… Venere del Paleolitico, quelle orripilanti statuette preistoriche che, a dispetto del nome, erano grasse e tettone!
Sakon spalancò gli occhi: lo aveva chiamato Prof! La situazione era più grave di quanto pensasse! La guardò stranito, cominciando a comprendere.
− Guardami tu, Jami! – esclamò perentorio, ma prendendole il volto tra le mani con dolcezza.
Jamilah obbedì, perdendosi negli occhi scuri del suo compagno.
− A parte che tu non somigli nemmeno da lontano, ad una di quelle orrende statuine che hai nominato, hai partorito solo da poche ore! Pretendevi che la tua pancia tornasse esattamente com’era in così poco tempo? Abbi un po’ di pazienza… a me sembri già tornata quasi come prima, dove la vedi la mostruosità?
− Ah, taci… Sarò già contenta se ci tornerà un giorno, come prima, ma non ci conto! E poi… ho le occhiaie… Se già questa è la partenza, come la metteremo, quando avrò ore di sonno arretrato, perché Martin piangerà di notte? Metterò insieme due occhi pesti da malavita, da sembrare un boss mafioso!
− Ti aiuterò, Jami, non dovrai fare tutto da sola! Che ci sto a fare, io, se no?
− Certo, così sembreremo due, boss mafiosi! Tu già hai una faccia stropicciata che è tutta un programma! Hai dormito un po’, almeno? – lo rimproverò.
− Sì, e mi sono anche fatto la doccia e la barba, visto? – le disse prendendole una mano e posandosela su una guancia liscia e ben rasata.
− Al diavolo, la verità è che anche con la faccia stanca sei sempre così bello! Invece io… guarda! Ho due… airbag, qui davanti che… argh! E non oso pensare cosa succederà entro ventiquattr’ore, quando arriverà la montata lattea! Sembrerò… una mucca!
− Jami, amore mio – spiegò Sakon, paziente, ma anche vagamente divertito da tutte quelle pur comprensibili paranoie, dopo averle lasciato un bacio sul palmo della mano − il tuo corpo non ha fatto altro che cambiare, ogni giorno, in questi ultimi nove mesi. L’ho visto cambiare attraverso i miei occhi, l’ho sentito cambiare sotto le mie mani… e non è stato mai per diventare qualcosa di più brutto.
− Cosa vorresti dire, che prima avevo le tette troppo piccole? Eh? Avanti, dillo! Se dopo torneranno come prima, non ti piacerò più?
− Certo che mi piacerai! Moltissimo! Ma che cosa…
− E allora adesso sono troppo grosse? – lo interruppe lei − Mi vedi solo come una mamma che deve nutrire il proprio figlio?
Sakon alzò gli occhi al cielo, un po’ esasperato: sarebbe riuscito a dirne una giusta, prima di sera, o le cose sarebbero andate avanti così per una vita? Questa era una cosa che non si era proprio aspettato!
− Jami, dopo solo due settimane di gravidanza il tuo seno era già… diverso. Era diverso da com’era quando l’ho… ehm… visto la prima volta; ed era diverso da ora. E trovo che sia stato, e sia, e sarà, bellissimo sempre, in ogni momento della tua vita, per il semplice motivo che è il tuo seno. Tu, sei bellissima, Jami, e… mi sembra anche di avertelo sempre dimostrato, in tanti modi. Ti ricordi quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore, sì? – soggiunse concludendo, con aria vagamente maliziosa.
− La settimana scorsa… − ammise lei.
− Esattamente: solo pochi giorni fa. E mi è piaciuto moltissimo, anche con il tuo pancione, proprio come mi è piaciuto ingegnarci, diciamo così, in questi ultimi mesi, per via della tua pancia che cresceva. Perché mi piaci tu; perché sei l’amore della mia vita.
− Dici sul serio? Non sono diventata solo la… madre di tuo figlio? – chiese lei incerta.
− Essere la madre di nostro figlio – e calcò volontariamente su quel nostro − è soltanto qualcosa in più, che tu sei diventata, nel corso della tua vita di donna. Ti amo per tutto quello sei sempre stata prima, e ora ti amo ancora di più, perché sei anche questo. Essere la mamma di Martin… è solo un valore aggiunto, a tutto quello che già sei per me!
Gli occhi di Jami si riempirono di lacrime, provocate dal sollievo che quelle parole le diedero. Sakon la strinse a sé, accarezzando dolcemente le morbide curve della schiena e dei fianchi di sua moglie, cominciando a capire cosa avesse provocato quella specie di attacco di disistima nell’animo di Jami.
− Jami, pensi davvero che ti amerei di meno per qualche chilo in più, un pancino un po’ arrotondato o qualche segno di stanchezza sotto gli occhi?
− Scusami… Ho avuto paura per un po’ di… non essere più io e… di non piacerti più.
− Tesoro, credimi, so che ci vorranno diverse settimane prima che il tuo corpo ricominci a gradire certe attenzioni e si riabitui a certe sensazioni, ma questo non significa che io non ti ami o non ti desideri più. Anzi…
− Cosa vuol dire quell’anzi? – fece lei, sollevando un sopracciglio.
− Secondo te? – scherzò Sakon, sfiorandole appena la florida rotondità di un seno.
− Piantala! Sono una mamma, non puoi farmi certe avances! – esclamò lei, senza riuscire a trattenere una risata.
− Jami, oggi hai davvero la coerenza fatti in là, in modalità attiva, te ne sei accorta?
− Sì, e mi va bene così! E senti… giusto per saltare di palo in frasca: ti va di baciarmi? Come si deve, intendo, non stupidi bacetti sulla fronte o sulle mani…
− Questo significa che non devo starti a due metri di distanza?
− Allontanati da me e ti fulmino, professor Gen…
− Appunto, la coerenza… – disse Sakon sottovoce, attirandole il volto verso il suo.
Il loro primo bacio da genitori fu un dolce balsamo sulla provata autostima di Jami. Il tocco delle labbra di Sakon fu la più convincente delle prove, su quanto ancora lui la considerasse bella e attraente.
Si abbandonò tra le sue braccia, con la felicità che le sprizzava da tutti i pori, sentendo le sue mani percorrerle la linea sinuosa della schiena. Gli accarezzò i capelli neri, e assaporò fino all’ultima stilla la dolcezza di quel bacio e la tenera sensualità che emanava dalle loro bocche incollate e morbidamente dischiuse.
Certo, ci sarebbe voluto almeno un mese, per procedere con approcci più passionali, ma Jamilah si sentì finalmente sicura che, in quell’arco di tempo, lei e suo marito avrebbero trovato più di un modo, per dimostrarsi tutta la profondità del sentimento che li legava.
− Toc toc! È permesso?
− Dottor Daimonji! – esclamò Jamilah, staccandosi imbarazzata dalle labbra di Sakon.
− Ops! Scusatemi, chiedo perdono, non pensavo di interrompere qualcosa!
− Non fa niente, Doc. Lei è sempre il benvenuto, lo sa…
L’anziano scienziato si avvicinò ai due giovani e abbracciò paternamente Jamilah, dicendole quanto la trovasse raggiante; cosa che, all’insaputa del dottore, le diede un’altra carica di sicurezza in sé stessa circa il proprio aspetto fisico.
− Non vorrei essere arrivato troppo presto, forse volevi riposare un altro po’…
− In realtà, Doc, ho scoperto di non riuscire a dormire per più di un’ora di fila: mi sembra tempo perso; tempo in cui non posso guardare il mio bambino…
Sakon non si stupì particolarmente: erano gli stessi pensieri che avevano impedito a lui di dormire più di tanto, quelle poche ore in cui era tornato al Faro.
A quel punto, Daimonji gli diede una pacca sulla spalla e una specie di schiaffetto amichevole su una guancia, riscuotendolo dai suoi pensieri.
− Che ti succede, ragazzo? Hai l’aria sciupata. Mi risulta che sia tua moglie quella che ha partorito, non tu…
− Non ne parliamo, la prego – fu la risposta stanca, ma dal tono leggero, di Sakon – venga qui, piuttosto.
Sakon si diresse alla culla e prese in braccio il suo bambino che, in fase di risveglio, aveva cominciato ad agitarsi.
− Vieni, piccolo. Vieni a conoscere nonno Yozo.
Gli era venuto spontaneo, ma per un attimo arrossì, rendendosi conto di non aver mai chiamato il dottor Daimonji per nome, prima di quel momento.
− F… forse ho esagerato un po’, mi scusi – mormorò, lievemente a disagio.
− Esagerato con cosa, di grazia? È il mio nome, no? Allora, posso prendere in braccio il mio primo nipotino? A proposito, si chiama Martin, vero? – chiese il dottore, con la massima disinvoltura.
Disinvoltura che si involò allegramente dalla finestra, quando Sakon gli pose tra le braccia il piccino.
− Ecco, accidenti! – brontolò Daimonji all’indirizzo di una lacrima che andava a perdersi nella barba scura – Adesso spiegatemelo voi, come sia possibile che io mi senta davvero nonno, senza essere mai stato padre!
− Non c’è niente da spiegare, Doc – disse Sakon, che sul dottore aveva riversato buona parte dell’affetto filiale che aveva provato per il suo defunto genitore – Lei è stato, ed è, per ognuno di noi del Drago Spaziale, molto più padre di quanto possa immaginare.
− Ti diverti proprio a far commuovere un povero vecchio, eh, Sakon?
− Scusi, di chi sta parlando? Perché mi creda, lei è tutto fuorché un povero vecchio! – concluse il giovane, soffocando una risata e uscendo in corridoio, attirato dal rumore di passi unito all’inconfondibile voce di Fabrizia che, pur sommessa − consapevole di trovarsi in un ospedale − parlava con Pete; i due avanzavano verso di lui, parlandosi a bassa voce e tenendosi per mano.
L’ingegnere si prese un bacione sulla guancia dall’esuberante amica italiana e un breve e amichevole abbraccio dal compagno di avventure, i quali gli dissero che, nel giro di un’oretta, anche Sanshiro e Midori sarebbero venuti a vedere il bimbo e a salutarli, e che anche gli altri compagni di equipaggio si sarebbero fatti vivi entro sera, ma un po’ alla spicciolata per non creare troppo caos. Era vero che il reparto maternità di un ospedale era sicuramente il più allegro, ma a tutto c’era un limite.
Quando Sakon vide Fabrizia dirigersi spedita nella stanza di Jami, la fermò prontamente.
− Briz, ascoltami, devo dirvi una cosa: Jami ha patito le pene dell’inferno, durante il travaglio e il parto e… ecco, non fateci troppo caso se vi dirà certe cose, okay?
− Tipo…? – si informò la ragazza.
− Beh, cercherà sicuramente di dissuadervi dal fare bambini. Pete, vi dirà cose strane! Del genere: “Stai lontano da Briz se non hai prima preso provvedimenti” oppure “Briz, non concederti se non sei protetta!” Potrebbe persino dirvi di… non so… darvi all’astinenza. Insomma, sorvolate e capitela, in questo momento il discorso fare figli è un po’ faticoso per lei. Okay? Insomma, si sta facendo paranoie inesistenti e dice cose incoerenti, ma credo sia abbastanza normale, dopo quello che ha passato.
− Va bene, tranquillo, fratellone – lo rassicurò Briz comprensiva, battendogli amichevolmente una mano sulla spalla e andando dall’amica.
La voce di una Briz entusiasta si fece sentire dopo pochi secondi:
− Oh, mio Dio, ma la meraviglia! Martin, amore bello, vieni dalla zia!
Pete non riuscì a resistere e si affacciò alla stanza, affiancato da Sakon, per poter vedere la sua fidanzata con il nipotino in braccio.
Quella piccola folle aveva risvegliato in lui istinti che non avrebbe mai creduto di avere; era vero che voleva averla tutta per sé ancora per un po’, dopotutto lui aveva solo ventisette anni e Briz non aveva ancora compiuto i ventitré, avevano tempo… ma sapeva che nel giro di altri tre o quattro anni al massimo, ci sarebbero cascati anche loro.
L’immagine di Fabrizia con Martin fra le braccia gli smosse qualcosa dentro, che gli fece battere forte il cuore. Sorrise, guardando Sakon che si avvicinava all’amica e accarezzava teneramente il figlio sui sottili capelli dritti e scuri e pensò che la vita sapesse essere davvero bellissima, quando ci si metteva.
Fabrizia lo raggiunse e gli mise il bambino in braccio: Pete si stupì della naturalezza con cui accolse quel gesto.
− Ehi, piccoletto… Sai che sei davvero stupendo, per avere solo poche ore di vita?
− Devo dire che abbiamo lavorato bene – disse la voce orgogliosa di Jamilah, che si avvicinò − Ti dona, un bimbo fra le braccia, Capitano Richardson… oh, pardon, volevo dire Maggiore… E allora? Quando ne fate uno anche voi due?
Jamilah si guadagnò una manciata di occhiate che definire allibite sarebbe stato riduttivo.
− Beh? Che ho detto? – chiese la ragazza candidamente, avvicinandosi a Fabrizia e prendendola sottobraccio, aggiungendo poi, ignorando tutti gli altri − Briz, tesoro, è una delle cose più belle che noi donne possiamo fare! Non rinunciare mai al tuo sogno di diventare mamma!
Pete sollevò un sopracciglio e guardò ironico il suo amico ingegnere.
− Dunque... sull’incoerenza… Dicevi?
 
 
> Continua…
 

1 L'indice di Apgar prende il nome da Virginia  Apgar, un’anestesista statunitense che lo ideò nel 1952, ed è il risultato derivante da alcuni controlli effettuati immediatamente dopo il parto e finalizzati, in modo molto rapido, a valutare l'adattamento del neonato alla vita extrauterina, ovvero la vitalità e l'efficienza delle funzioni vitali primarie.

2 Lo so che i bambini appena nati hanno praticamente, sempre, gli occhi chiari. Ma qui avevo bisogno che apparisse palese, da subito, che Martin ha gli occhi di sua madre… come le Nemophile blu, dette anche Baby blue eyes.

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Capitolo 3
*** Se conosco un po' nostro figlio... ***


 

Ahem… mi sa che questo capitolo passa il rating da giallo ad arancio 😜
 
*3*
SE CONOSCO UN PO’ NOSTRO FIGLIO…
 


 
Un mese dopo
 
Briz si coccolava con dolcezza il piccolo Martin, cullandolo appena e canticchiando una ninna nanna in italiano; Jami le aveva affidato il bimbo, dopo averlo allattato, per poi concedersi una bella doccia rilassante. Quando Fabrizia vide l’amica uscire dal bagno, con i riccioli ancora umidi e profumati di shampoo, le porse il piccino, ormai quasi addormentato, ma Jamilah le fece l’occhiolino.
− Tienilo tu ancora un po’ – disse, sapendo quanto a Briz piacesse sentire il dolce peso del piccolo tra le braccia − Ha fatto il ruttino? – si informò poi, già conoscendo la risposta.
− Credo l’abbiano sentito fino ad Osaka… − ridacchiò Briz.
− Bravo bambino – commentò orgogliosa la mammina.
− Sai cosa direbbe Yamatake, se fosse qui? “Ecco, se lo fa lui è bravo! Se lo facessi io mi dareste tutti del porco!”
Le due amiche risero sommessamente, pensando alla battuta del corpulento amico, risalente ad un paio di settimane prima.
Jamilah guardò il figlioletto che, come diceva Briz con uno dei suoi strani modi di dire italiani, dava le mezze luci, ovvero stentava a tenere aperti gli occhioni azzurri; non era mai stanca di rimirarselo, ma lo stesso valeva per la sua amica, che non perdeva occasione per farle compagnia nei momenti in cui lei si trovava sola. 
Quel periodo in particolare era piuttosto inusuale, poiché il Drago Spaziale era via da sei giorni: un eminente scienziato americano, collega e amico di Doc, aveva richiesto la sua presenza e quella di Sakon per sottoporre loro alcuni studi ed avere i loro pareri, circa la scoperta di alcune tecnologie ritenute assolutamente innovative, dalle quali il Drago Spaziale avrebbe potuto trarre notevoli vantaggi. Così l’astronave era partita per gli States, ma con l’equipaggio ridotto all’osso: erano andati solo i componenti ritenuti indispensabili, ovvero Sakon, il dottor Daimonji e Pete; sarebbero dovuti stare via non più di tre giorni, ma poi i tempi si erano allungati. 
Per Jamilah e Fabrizia, separarsi dai rispettivi compagni era sembrato molto strano. Sakon e Jami non si erano mai divisi, fin da quando erano arrivati ad Omaezaki qualche anno addietro − prima ancora che la guerra cominciasse e fossero ancora ben lontani dall’essere una coppia − e la cosa, ora, le pareva assolutamente inconcepibile: le sembrava quasi che le mancasse un pezzo di sé stessa. Oltretutto la cosa aveva coinciso, a distanza di poco, anche con la partenza dei suoi genitori e della madre di Sakon, che erano arrivati da Auckland circa una settimana dopo la nascita di Martin e si erano fermati in Giappone per una quindicina di giorni. 
Per non parlare di Briz che, l’unica volta in cui si era separata da Pete, quasi un anno prima, erano ancora in guerra; allora l’equipaggio si era praticamente spezzato in due: Pete era andato, insieme a Daimonji, Jami e Sakon, in missione su Marte col Drago Spaziale, mentre Fabrizia, con il suo leone robot Balthazar, era stata tra quelli rimasti a difendere la Terra.
Nemmeno loro due stavano ancora insieme, a quell’epoca, ma la ragazza lo aveva trovato devastante, non tanto perché tutto ciò avesse coinciso,  subito dopo, con l’ultima battaglia e la fine del conflitto contro Darius, quanto perché aveva temuto che Pete e i compagni ci avessero lasciato le penne, sul Pianeta Rosso. Senza contare che persino lei aveva rischiato grosso, ed era andata molto vicina a passare a miglior vita, nel cruento scontro che aveva segnato la vittoria definitiva contro gli Zelani dell’Orrore Nero.   
Ora non erano più in guerra, ma quei due o tre giorni preventivati di separazione dai loro uomini erano diventati più del doppio, e anche Briz aveva trovato la situazione parecchio pesante.
L’attesa fino alla sera successiva, data prevista per il rientro del Drago, le sembrava infinita: Pete le mancava, anche se si sentivano tutte le sere e, a volte, anche a metà giornata; così aveva colto al volo ogni occasione per stare con Jamilah e darle una mano come baby-sitter per distrarsi un po’.
Le due ragazze uscirono sul terrazzino del monolocale che Jami, dalla fine del conflitto, condivideva con Sakon; la serata di maggio era tersa, pulita e profumata di primavera: le due amiche si godettero un tramonto dai mille colori sull’oceano, con il sole che sembrava una palla rovente sull’orizzonte. 
− Oddio, Jami! – esordì Briz all’improvviso – Guarda là! 
Jami obbedì, seguendo la direzione del dito di Briz: sul disco di fuoco del sole era apparsa una macchia, che diventava di secondo in secondo più grande, fino ad assumere una gigantesca e tozza forma, più che familiare. 
− Il Drago! Sono loro, Briz! Sono tornati prima! 
Le due amiche rimasero ad osservare felici la mastodontica sagoma dell’astronave che era ormai per loro una seconda casa, finché non la videro tuffarsi nell’oceano e scomparire alla vista, diretta alla caverna sotterranea posta sotto al Faro di Omaezaki. Entrambe non erano riuscite a trattenere l’entusiasmo e Martin, ancora in braccio a Fabrizia, aveva dato un lieve sobbalzo e spalancato gli occhi, tornando in modalità fari abbaglianti. 
− Briz, vattene, dai! Che hai, paura di lasciarmi sola? Dammi Martin, aspetteremo qui Sakon; tanto so già che, tempo un quarto d'ora, me lo vedrò arrivare. Va’ incontro a Pete, non vedrà l’ora di abbracciarti! Andiamo, si vede lontano un miglio che non vedi l’ora di saltargli addosso!
Briz arrossì violentemente, visto che l’amica aveva vergognosamente sgamato i suoi pensieri, non proprio da educanda, che l’avevano assalita non appena aveva riconosciuto il Drago Spaziale che si avvicinava.
Era vero, porca paletta, non vedeva l’ora di correre incontro al suo fidanzato, di stringerlo fra le braccia e baciarlo fino a farsi girare la testa per mancanza d’ossigeno. Per non parlare dei programmi che avevano magicamente preso forma nella sua mente, circa la notte che stava lentamente incedendo… Sì stupì da sola del temperamento focoso che quel bellissimo e problematico ragazzo, che era riuscita inconsapevolmente a conquistare, aveva fatto affiorare in lei, insieme alla certezza che, se di tanti uomini non ci si poteva fidare, di lui avrebbe invece potuto farlo fino alla fine dei tempi.
Passò con cautela il bimbo alla sua mamma, diede un bacetto sulla gota a Jamilah e passò lievemente un dito sulla guancetta paffuta di Martin, che già ricominciava a scivolare nel regno di Morfeo, prima di precipitarsi alla caverna sotto al Faro.
In quel momento di felicità ed attesa, mentre il suo bimbo si riaddormentava, Jami rimpianse unicamente di non potersi godere il momento dell’assalto che, ne era certa, Fabrizia avrebbe riservato a Pete.
 
 
Sakon e il dottor Daimonji non riuscirono a trattenersi dal ridere, sinceramente divertiti dalla scena; ancor meno Yamatake, Bunta, Fan Lee, e pure Sanshiro con Midori, sopraggiunti a ruota dietro a Fabrizia per dare il bentornato agli amici.
Era stata questione di un attimo: il Maggiore Richardson era riuscito giusto giusto a mettere i piedi giù dalla rampa di imbarco del Drago, che Briz gli era letteralmente saltata in braccio, avvinghiandolo ai fianchi con le gambe e al collo con le braccia. Non gli aveva nemmeno lasciato proferire un: “Ciao, fanciullina”, che gli aveva sigillato le labbra con un bacio mozzafiato. 
Per un attimo Pete aveva temuto di perdere l’equilibrio e di cadere ingloriosamente col sedere sul pavimento metallico con lei addosso, ma si era ripreso immediatamente e aveva avvolto la sua focosa ragazza in un abbraccio, rispondendo a quel bacio appassionato.
E se stavano dando spettacolo… “Beh, chissenefrega!” pensò, con buona pace della sua proverbiale riservatezza: la sua ragazzaccia gli era mancata da impazzire, in quei sei giorni! Durante quell’ultimo anno, le ultime barriere di ghiaccio che si portava attorno al cuore da una vita erano state vinte, sciolte, espugnate in tutti i modi possibili e immaginabili. Se c’era una donna nella galassia con cui avrebbe voluto vivere, avere bambini e invecchiare, era Fabrizia Cuordileone, e aveva la smisurata fortuna di averla lì, tra le sue braccia, avviticchiata a lui come un tralcio di edera.
Quando riuscirono a mettere un po’ di distanza tra i loro volti, e Briz decise di mollare la presa e riappoggiare i piedi a terra, entrambi guardarono Sakon, che ancora se la rideva insieme agli altri.
− Cosa diavolo fai, tu, ancora qui? – esclamò Fabrizia scandalizzata.
− Va’ da tua moglie e tuo figlio, muoviti, disgraziato! – rincarò Pete.
– Vado, vado… è che non volevo perdermi lo spettacolo della vostra reunion, e tutto sommato ne è valsa la pena: continuate ad essere uno spettacolo meglio del cinema, voi due, anche ora che non litigate più come due gatti selvatici – ghignò, seguito poi dalle risate degli amici e del dottore, mentre si dirigeva di corsa fuori dalla caverna, verso gli ascensori, in direzione Piccionaia, come era sempre stato chiamato l’ultimo piano dell’ala degli alloggi che, ai tempi della guerra contro l’Orrore Nero, aveva ospitato i tre piccoli monolocali delle ragazze le quali, ora, li condividevano con i rispettivi compagni.
Il giovane ingegnere era in astinenza assoluta, sia di Jamilah che del suo piccolino. 
Jami sentì la porta metallica del loro alloggio scivolare di lato con un sibilo e si voltò, subito dopo aver deposto Martin nella culla. Fu questione di un attimo e si ritrovò avviluppata in un abbraccio tanto stretto da renderle quasi faticoso respirare, ma non aveva importanza: suo marito era a casa, era lì con lei. Ricambiò l’abbraccio con un piccolo singulto contro il collo di Sakon, respirando l’odore della sua pelle e riempiendosi le dita della morbidezza dei suoi capelli corvini. 
− Jami, piccola… che succede?
− Mi sei mancato tanto… troppo. Quanto non avrei mai creduto…
− Anche tu… e anche il piccoletto.
− Sai, sembrava quasi che ti cercasse, in certi momenti. Mi dispiace che si sia appena addormentato, forse avresti voluto godertelo un po’. 
Jamilah si staccò da lui e, prendendolo per mano, lo condusse alla culla, che era stata sistemata, insieme al fasciatoio, in un angolo del monolocale. Accanto ad essa Jami aveva posto un paravento a disegni infantili colorati, in modo da isolarla sommariamente dal resto della stanza quando il piccolo dormiva, perché godesse di una parvenza di tranquillità, non disponendo di una cameretta tutta per sé. 
Sakon sostò per un po’ accanto alla culla, rimirando il capolavoro che lui e sua moglie avevano prodotto. 
− Mi sembra già cresciuto, com’è possibile? – si stupì il giovane, tenendo la voce bassa per non svegliarlo.
− Crescono in fretta, a questa età – sussurrò Jamilah, accarezzando una spalla del marito.
− È stato buono?
− Un angioletto. Tranne quando ha fame, ovviamente, e si trasforma in un lupacchiotto mannaro ululante. 
Sakon sorrise e si guardò un attimo attorno. 
− Dovremmo deciderci a trovare una casa vera.
− Tra pochi mesi ci trasferiremo definitivamente in Nuova Zelanda… la troveremo là, una casa. 
Lui annuì brevemente: effettivamente, il settembre successivo sarebbero tornati ad Auckland. Jami avrebbe sostenuto gli ultimi esami e discusso la tesi della sua seconda laurea, mentre lui avrebbe riavuto il suo posto di docente all’università: la loro vita avrebbe ripreso a scorrere su binari finalmente umani.
Passò il dorso delle dita sulla guanciotta bruna di Martin, profondamente addormentato, che rispose a quel lieve stimolo succhiando più forte il ciuccio, facendolo vibrare tra le labbra: quella reazione faceva sempre sorridere Sakon. 
− Sei stanco? − gli chiese Jami, facendogli una carezza sul viso.
− Solo un po’. Più che altro ho accumulato una certa tensione, niente che una bella doccia calda non possa risolvere.
− Hai fame? Se vuoi ti preparo qualcosa, o preferisci andare giù in mensa?
− A dire il vero no, sto bene così: ho mangiato a bordo.
− Vai in doccia, allora. Abbiamo tempo per starcene un po’ in pace, dopo. 
Sakon ponderò per un istante quelle parole, le lasciò un bacio lieve sulle labbra e sparì nel bagno, prima di farsi cogliere da pensieri assai poco casti: sapeva che avrebbe dovuto avere ancora un po’ di pazienza.
Si infilò nel box e, mentre l’acqua cominciava a scorrergli sulla pelle sciogliendo i nodi dei muscoli contratti, cercò di concentrarsi sui ricordi di quell’ultimo mese.
Sebbene Martin fosse un neonato fondamentalmente buono e tranquillo, prendersi cura di lui era comunque impegnativo: un figlio ti ribalta l’esistenza senza remissione, nel bene e nel male. 
Le due settimane in cui c’erano stati anche i loro genitori, poi, erano state ad un tempo allegre e deliranti. La signora Maureen Hamilton Gen,1 la madre di Sakon, che, pur affettuosa, era sempre stata la donna più pratica e organizzata del mondo, alla vista del nipote si era totalmente lasciata travolgere dal classico instupidimento da nonnitudine, lasciando il figlio assolutamente sgomento e divertito; per non parlare dei coniugi Nyong’o i quali, paradossalmente, affermavano che essere diventati nonni li facesse sentire più giovani.
Alla fine, in quei quindici giorni, tenere a bada l’entusiasmo e le esternazioni dei loro genitori era stato impegnativo quasi quanto attendere alle necessità del piccino, ma erano stati giorni assolutamente felici e leggeri, durante i quali avevano condiviso il tempo con le loro famiglie: quella di nascita e quella di adozione, ovvero l’equipaggio del Drago. 
Infatti, nonni presenti o meno, Sakon e Jami avevano sempre a disposizione anche zia Briz e zia Midori, per non parlare di tutti gli altri componenti maschili della truppa, che non disdegnavano mai di spupazzarsi il nipotino o di sorvegliarlo mentre dormiva dopo una poppata, per consentire a lui e alla moglie di passare un’ora o due da soli, fosse anche solo per fare una passeggiata sulla spiaggia o andare insieme in città per concedersi un pranzetto a due. O, come spesso accadeva, un rapido giro di spensierato shopping dal quale tornavano, inutile dirlo, con acquisti per Martin. 
Se doveva essere sincero, durante le prime settimane di vita di Martin, Sakon si era sentito come anestetizzato, a livello fisico, nei confronti di Jami, nel senso che la trovava sì, bellissima e meravigliosa sotto ogni aspetto, come sempre, ma era stato troppo preso, proprio come lei, dal suo nuovo ruolo di genitore, sia dal punto di vista emotivo, che da quello pratico.
Fino a quel momento… 
Pazzesco: gli era bastato stringersi Jami tra le braccia per pochi minuti, il profumo inebriante dei suoi capelli, una carezza della sua mano scura e affusolata sulla guancia, il tocco morbido delle sue labbra... ed era andato in tilt come un vecchio flipper! E il fatto di essere stato senza vederla per quasi una settimana, aveva fatto il resto.
Pensò che forse, la doccia, sarebbe stato meglio farla fredda. 
Dalla nascita di Martin era passato solo un mese, dopotutto… Soltanto una settimana addietro, prima della sua partenza per l’America, Jamilah ancora accusava lievi malesseri e disagi post-partum, e lui sapeva benissimo che ci voleva quella canonica quarantina di giorni, a una neo-mamma, per tornare ad apprezzare e desiderare un certo tipo di approcci; e lui odiava la sola idea di forzarla a fare qualcosa controvoglia, o che potesse procurarle dolore o fastidio. 
Si rassegnò a girare il rubinetto della doccia tutto a destra, verso il simbolino blu: l’acqua fredda calmò i bollenti spiriti.
 
 
Jamilah pensò che Sakon, in quell’ultimo mese, fosse stato a dir poco meraviglioso: pur profondamente assorbito dalla presenza del loro piccolo – stava dimostrando di essere il più affettuoso dei papà, nonché il re del cambio-pannolino – non aveva perso occasione per farla sentire amata, speciale e bellissima. Lei ce l’aveva messa tutta per ricambiare, e aveva anche la certezza di esserci sempre riuscita: avevano cercato, in ogni piccolo gesto reciproco, la consapevolezza di non essere soltanto genitori, ma anche amici, complici e amanti. Okay, quest’ultimo aspetto era ancora, per forza di cose, in stand-by, e Jami sapeva che, per Sakon, la mancanza di intimità − che nei primi tempi era stata messa da parte in modo, tutto sommato, facile e spontaneo − cominciava a farsi sentire; così come intuiva che lui non avrebbe mai fatto niente per farglielo pesare.
Sovrappensiero raccolse il giubbotto del marito, lasciato abbandonato sul divano, e vi affondò il volto. Sollevò lo sguardo e... come se non fosse bastato il buon profumo di lui rimasto sull’indumento, a risvegliare certi istinti, Jamilah si ritrovò ad osservare Sakon appena uscito dal bagno, con i capelli ancora umidi e addosso un paio di morbidi e larghi pantaloni di cotone neri, stretti alle caviglie; e nient’altro, a parte uno dei suoi bei sorrisi sereni e rassicuranti. 
Lei, per poco, non smise di respirare.
Ma santo Dio, si faceva così? Si usciva dal bagno mezzo nudo, senza prima avvertire?
Tutto a un tratto, la vista di quel fisico snello e longilineo, ma dai pettorali perfetti, i bicipiti forti e gli addominali ben delineati, che terminavano in una seducente V che scompariva sotto all’elastico dei pantaloni tenuti bassi sui fianchi – troppo bassi! – risvegliarono in Jami sensazioni ed emozioni che temeva di aver perduto a tempo indeterminato.
Ormai conosceva il corpo di Sakon quanto il proprio, eppure in quel momento fu come ritrovarsi a guardarlo per la prima volta: le sfuggì un sospiro di sollievo, nel rendersi conto che le cose stavano tornando alla normalità, e ricambiò il sorriso, gettando nuovamente il giubbotto sul divano e avvicinandosi a lui. 
Sakon aprì un cassetto, palesemente alla ricerca di una maglietta, ma Jamilah lo bloccò, togliendogli dalle mani quella che aveva scelto e gettandola dove capitava, con una luce birichina nello sguardo azzurro: decisamente, i capi di vestiario, in quel momento, erano invisi alla bella dottoressa Nyong’o. 
− Se conosco un po’ nostro figlio, amore mio, puoi stare tranquillo che ancora per un paio d’ore ci lascerà in pace. 
Sakon si bloccò, senza più riuscire a staccare gli occhi da quelli della moglie: una sola settimana lontani... e persino lei, non solo il bambino, gli sembrava diversa.
A parte il suo profumo che, pur lieve e discreto, rischiava di stordirlo ogni volta, quell’ultima frase era stata pronunciata con un tono basso e caldo, che aveva dato alla sua voce una sfumatura talmente sensuale da far perdere la testa a un santo.
La ragazza aveva gli occhi brillanti, la pelle liscia e luminosa; la trovò incredibilmente sexy, con addosso quel vestitino primaverile fantasia, sui toni dell’azzurro, che lasciava scoperte le lunghe gambe brune.
I suoi occhi furono irresistibilmente attratti dalla scollatura e dalla stoffa tesa sul seno; senza nemmeno pensarci, le prese il volto tra le mani e la baciò. La baciò tanto, a lungo, sempre più intensamente…
Non che non si fossero più baciati, dopo l’arrivo di Martin, ma c’era sempre stata quella consapevolezza di fondo di doversi porre dei limiti… Questa volta Sakon, quella sensazione, non la percepì, nemmeno da parte della moglie. 
Jamilah si schiacciò contro di lui, vinta dal bisogno di sentirlo, di toccare la sua pelle, lasciando che le loro labbra si staccassero e quelle di Sakon scendessero a baciarle la gola, tracciando un sentiero infuocato. 
− Uhmm, Sakon… − mugolò appena, gustandosi le piacevoli sensazioni che sentì risvegliarsi in lei prepotenti. 
Sakon si staccò appena da lei e la guardò negli occhi. 
− Scusami, f-forse mi sto lasciando un po’ prendere…
− Mmm… no, non direi. 
Gli occhi di Sakon si allargarono appena, e lei gli sorrise maliziosa.
− Hai voglia di tornare a fare il marito, oltre che il papà?
− Non dovrebbe essere il contrario? Te lo dovrei chiedere io, no? – esclamò lui, frugandole lo sguardo appannato dalla passione.
− Bene, chiedimelo.
− Jami, senza scherzi: tu ne hai voglia? Si era parlato di una quarantina di giorni…
La risposta di Jamilah fu fatta di labbra bollenti che gli si posarono sul collo; di mani impazienti che gli corsero, calde, sul petto; di baci che andarono a marchiare la sua pelle dove capitava, scottandola e risvegliandola. 
− Un mese basta e avanza, credimi… Sono stufa di coccole & pomicio,2 ho bisogno di te, Prof. 
Gli effetti della doccia fredda si persero in un attimo, inesorabilmente, subito sostituiti dal risorgere di sensazioni vecchie e nuove, alle quali resistere non fu proprio possibile: Sakon sollevò la moglie fra le braccia e la posò sul letto, lasciando poi che le sue mani scorressero sulle sue curve, riprendendone il possesso.

Sakon-Jami-amore
Le sfilò con dolcezza e impazienza la parte superiore del vestito, andando alla riscoperta di sensazioni che in quell’ultimo mese erano rimaste sopite nella memoria dei loro corpi, sepolte da una miriade di emozioni di tutt’altro genere. 
Fu un attimo, ritrovarsi sopra di lei a divorarle di baci la pelle bruna e vellutata, assaporandone il calore e la dolcezza, scoprendo sotto le mani le piccole, splendide differenze che la gravidanza aveva lasciato sul suo fisico comunque bellissimo. 
Per Jami il turbamento non fu da meno, sentendosi incredibilmente sensibile e ricettiva a ogni più piccolo tocco delle dita del marito il quale, in quel momento, andava alla spudorata riconquista del suo seno che, in quell’ultimo mese, era stato proprietà esclusiva del loro piccolo energumeno.
Jamilah trovò stupendo ed elettrizzante abbandonarsi a lui e sentirlo a sua volta tendersi tra le sue braccia e, sotto le sue carezze, lasciarsi sfuggire ansiti e parole tenere e sconnesse tra un bacio e l’altro.
Avvinghiarlo con le gambe e inarcarsi contro di lui, desiderosa di sentire contro di sé la prova del suo desiderio, fu naturale ed istintivo. 
I loro gesti acquistarono tutto a un tratto una passione e un’urgenza incontrollabili, mentre gli ultimi strati di stoffa abbandonavano i loro corpi, che si cercarono e trovarono con l’impulsiva, complice brama, che già incatenava i loro pensieri e le loro anime.
E in un istante, tra un bacio, un sospiro e qualche mugolio di sollievo e soddisfazione, l’incastro perfetto si compì, spontaneo ed intenso, colmando i loro sensi.
Smisero per un attimo di baciarsi e si scambiarono uno sguardo dolce, appassionato e incredulo, poi si lasciarono sfuggire entrambi una risatina sommessa, mentre realizzavano in contemporanea la stessa cosa, riscoprendo quanto fosse eccitante l’idea di potersi di nuovo amare guardandosi negli occhi e potersi allo stesso tempo baciare senza troppe contorsioni. 
− Signora, lei ha una vaga idea di quanto mi mancasse questa posizione? – sospirò Sakon, il respiro corto, tra l’ironico e il malizioso.
− Oh, sì, credo proprio di sì… − rispose Jamilah, sincera, al pensiero di come il pancione avesse impedito loro di fare l’amore in quel modo per diverso tempo. 
Sakon ristette per un attimo, lievemente indeciso, lanciando uno sguardo vagamente preoccupato verso il paravento che proteggeva la culla di Martin. 
− Dorme, non pensarci… − lo esortò sottovoce Jamilah, con una mano tra i suoi capelli, facendogli di nuovo voltare il viso verso di lei.
− Sì, ma tu cerca di non urlare troppo, okay?
− Presuntuoso, il mio maritino! Ma nel caso… baciami, e il problema sarà risolto! 
A quell’allettante proposta, a Sakon non restò che abbandonarsi all’appassionato invito della sua bellissima moglie, lasciandosi andare a lenti, meravigliosi movimenti che Jami assecondò senza remore, mentre il lieve fastidio, provato in un primo istante, scompariva come per magia, lasciando il posto a tutt’altre meravigliose sensazioni, dalle quali anche Sakon fu irresistibilmente catturato, non prima di aver lanciato un ultimo pensiero allo gnometto nella culla. 
Era abbastanza sicuro, conoscendo l’ugola di suo figlio, che, se si fosse svegliato, lo avrebbero sentito, eccome, ma sperò ardentemente che, oltre a una voce potente, Martin possedesse anche un minimo di tempismo…

Molto più tardi, Jamilah si ritrovò ansante, stanca, tremante e felice, col corpo di suo marito ancora adagiato sopra di lei in condizioni non molto diverse dalle proprie.
Senza un motivo preciso, risero sommessamente cercandosi con gli occhi, poi con le labbra, poi di nuovo con gli occhi, intanto che i rispettivi respiri e pulsazioni cardiache tornavano alla normalità. 
− Jami… ti ho fatto male?
− Ti ho dato questa impressione…?
− Beh… a dire il vero… no!
− Ingegnere, lei mi sta dando della lussuriosa?
− Oh, non mi permetterei mai!
− Mmm… se dovesse essere in cerca di complimenti… ebbene, sappia che… è stato meglio di sempre. E ce ne voleva!
− Troppo buona, vuoi darmi il voto? – esclamò Sakon scoppiando a ridere, rotolandole al fianco.
Jami fu lesta ad accoccolarsi morbidamente accanto a lui con un sospiro soddisfatto, appagata nel fisico ma anche nel pensiero, dal fatto che quella sfera della loro vita a due fosse stata riconquistata con pieno successo.
Nonostante la rilassatezza e il languore che accompagnarono quei momenti, Jami ebbe la sensazione che Sakon fosse pensieroso. 
− Che c’è? – gli chiese.
− Niente, perché?
− Così, mi sembrava… Perché sai…
− …cosa?
− Ecco, se per caso ti fosse sfuggito… anche stavolta ci siamo dormiti le… precauzioni. 
Sakon spalancò gli occhi. 
− Opporc…
− Dai, calmati! – rise Jami − Sono ragionevolmente sicura che non abbiamo combinato pasticci, stavolta.
− Huff! Non che non mi piacerebbe averne un altro, ma… un giorno, magari… non adesso!
− Non devi convincermi, amore mio, stai tran… 
Jami non riuscì a finire la frase.
– Per la miseria, ‘sto giro è in anticipo! – constatò stupita.
La tempistica del loro cucciolo affamato era stata davvero al limite, mentre gli urletti crescevano di intensità raggiungendo decibel impensabili per un esserino così piccolo. 
Sakon e Jamilah si guardarono complici, trattenendo una risata, negli occhi la domanda inespressa, ma palese, che era stata il filo trainante di quell’ultimo mese: “Vai tu o vado io?”, alla quale lui rispose, pronto come al solito. 
− Shh… vado io a prenderlo. Stai qui… 
Il cerchio si era chiuso: le piacevolezze coniugali erano state riguadagnate; mirabilmente incastonate, ovviamente, tra quelle genitoriali…


 
> Continua…
… con un breve epilogo.
 
 
 
 
 
1 Indovinate chi mi ha suggerito il nome della mamma di Sakon? Non è difficile, dai…
 
…la stessa persona che mi ha fatto conoscere il termine “coccole & pomicio”, che mi fa troppo ridere!
(Una Mirella a caso, obviously…)

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


*EPILOGO*
 
 
 
- Auckland -
Quattro mesi più tardi
 
 
 
 
Jamilah si alzò, la mente ancora intorpidita dal sonno, sentendo Martin piangere. In un attimo raggiunse la sua cameretta, adiacente alla stanza da letto di lei e Sakon, e lo prese in braccio.
Non si svegliava quasi mai, la notte, ma forse in quel momento sentiva spasmo alle gengive per l’avvento dei primi dentini, anche se, a cinque mesi, le sembrava un po’ presto… O, forse, era un dolore al pancino causato dalla prima pappa, nuova avventura di quel giorno appena trascorso? Improbabile, si disse: era più quella che era finita sputata addosso a lei e in faccia a Sakon, che nel suo piccolo stomaco…
Se lo cullò dolcemente, rimettendogli il ciuccio e portandolo nella propria camera.
− Jami, se gli darai il vizio di farlo dormire con noi, chiederò il divorzio. Ricordati il patto: il lettone è nostro, lo sai! – brontolò Sakon, mezzo addormentato.
− Quante notti ha dormito nel nostro letto? Avanti, dillo!
− Lo ammetto, si contano su una mezza mano, ed è stato quando ha avuto la febbre…
− Appunto: lo faccio solo riaddormentare, poi lo riporto nel lettino, promesso.
Sakon si sollevò su un gomito e osservò suo figlio che, ormai calmissimo, lo fissava perplesso alla luce tenue della lampada sul comodino, succhiando con impegno il suo ciuccio. Era più che evidente che, nonostante loro si impegnassero a non dargli quel vizio, a Martin piacesse non poco stare lì, spaparanzato tra mamma e papà.
Lo sguardo adorante di Sakon si accigliò per un attimo.
− Cosa c’è, Sakon? Non è la prima volta che ti vedo questa espressione, mentre osservi Martin.
− Mah, niente… paranoie mie. Sto solo sperando, con tutto il cuore, che nostro figlio... non sia come me.
− Cosa? Non vuoi che Martin diventi forte, coraggioso, sincero e altruista, nonché stupendamente bello e intelligente? – chiese lei con finto stupore tenendo un tono di voce basso, per non disturbare il piccolo che stava lentamente cedendo al sonno.
− Jami, io non sono tutte queste cose, dai! − si schermì lui, altrettanto sottovoce.
− A parte l’intelligenza, vorrai dire. Comunque è vero: a volte, quando sei nervoso, sei anche brusco e musone. E sei un gran precisino e pure un po’ permaloso, ma che ci vuoi fare? Nessuno è perfetto! − celiò Jami.
Tornò subito seria mentre invece, a lui, sfuggiva un sorriso: era stupendo essere amati anche per i propri difetti!
− Sakon, ho capito cosa intendevi, sai? − gli disse Jami con dolcezza − Ma non ha senso preoccuparcene ora: se Martin avrà una super intelligenza come la tua o se sarà un bambino nella norma, lo scopriremo solo guardandolo crescere. E, nel caso, sono certa che, forti delle tue esperienze, sapremo aiutarlo e consigliarlo perché possa avere una vita il più possibile normale e serena.
Sakon guardò la moglie, grato del fatto che, ancora una volta, fosse riuscita a percepire i suoi pensieri e per come, al solito, fosse stata capace di trovare le parole più giuste per rasserenarlo.
− Jami, ti adoro. Non so cosa farei senza di te... – asserì, allungando un braccio al di sopra di Martin per accarezzare una guancia di Jamilah.
− Di sicuro ti divertiresti meno. In fondo, io sono la donna che ti ha fatto accettare che la tua età anagrafica sia di parecchi anni inferiore a quella che tu ti sei sempre sentito. E sono anche quella che è stata capace di farti fare il bagno in mare vestito, con la quale hai fatto a cuscinate come un dodicenne e hai ballato un lento in pigiama! Sono persino quasi riuscita a farti prendere una sbornia! Solo quasi, purtroppo!1
 − Già! E durante tutto ciò, eri pure già incinta, disgraziata!
− E dov’è il problema? Non erano mica cose pericolose, e io non ho bevuto quella sera: ho fatto bere te! Peccato che tu sia troppo serio, e ti sia voluto fermare quando eri solo dignitosamente brillo!
– Direi proprio che non ti puoi lamentare di questo, considerato quello che è successo dopo! Non ci sarei riuscito, se fossi stato sbronzo del tutto!
− Effettivamente, devo ammettere che farlo nell’ascensore ha richiesto gambe ferme e un equilibrio notevole!
Ridacchiarono sommessamente, complici maliziosi di quel ricordo bollente che avevano condiviso ormai molti, molti mesi prima.
Martin si agitò un po’ ed entrambi tacquero per non dargli noia; senza nemmeno accorgersene, finirono per riaddormentarsi. 
Jamilah si risvegliò di colpo dopo un’ora scarsa. Il bambino dormiva profondamente, ma Sakon avvertì il suo lieve sobbalzo.
− Tesoro, tutto bene?
− Sì sì, solo che… ho sognato… Ho sognato Martin…
− E ti sembra strano? Ce l’hai abbarbicato addosso, guardalo… 
In effetti il neonato era letteralmente appiccicato alla mamma, con una manina cicciotta appoggiata possessivamente su uno dei suoi seni. 
− Questa storia deve finire: non va mica bene, che tuo figlio si appropri così spudoratamente delle mie cose… − decretò scherzosamente Sakon, prima di vedere lo sguardo perplesso di Jamilah e tornare serio.
− Hai avuto un incubo?
− No, non proprio… Solo che Martin era… grande. Aveva circa trent’anni, nel mio sogno.
− Ah… E… com’era?
− Ti somigliava tantissimo… solo con la pelle più scura e gli occhi turchesi. Un gran figo, a dirla tutta.
− Uh, grazie… Allora, cos’è che ti ha turbata?
− Lui era… ai comandi del Drago Spaziale – sparò di botto, come per liberarsi di un peso.
− Ai comandi del Drago? Al posto… di Pete? 
Jami annuì, silenziosa. Sapeva che i sogni sono soltanto sogni: proiezioni, spesso distorte, delle proprie paure o di ciò che si è vissuto. Gli specialisti dicono che i sogni premonitori non esistono, e lei ne era sempre stata convinta; ciò che l’aveva colpita era la vividezza e la precisione dei dettagli, di quel sogno.
− E poi… non era solo: c’era una ragazza al suo fianco… alta, con i capelli biondi lunghissimi e gli occhi… verdi. 
− Chiamalo scemo, si è scelto una bella sventola! Non è mica mio figlio per niente – rise Sakon; poi, tornando serio, aggiunse: – Jami, non vedo nulla di preoccupante in tutto questo: è solo il riflesso di tutto ciò che abbiamo vissuto. Stai tranquilla, okay? Avanti, piccoletto, vieni che ti riporto nei tuoi appartamenti – concluse, prendendo in braccio il figlioletto addormentato, deciso a riappropriarsi della sua parte di letto e, magari, visto che all’ora di alzarsi mancavano ancora diverse ore, anche ad invadere il lato di Jamilah. 
La moglie si alzò a sua volta, seguendolo e osservandolo mentre adagiava Martin nel lettino e lo copriva con la leggera copertina colorata. 
− Hai ragione, in fondo proprio io ti ho detto, non più tardi di un’ora fa, che non ha senso preoccuparsi adesso. È solo che… forse ogni genitore vorrebbe per i propri figli un futuro perfetto e, onestamente, non credo che sarei felice di vedere il nostro coinvolto in una guerra galattica come è accaduto a noi.
− Beh, pensi che i nostri genitori lo siano stati? Eppure lo hanno accettato e sono anche orgogliosi di noi.
− Certo, lo so. E comunque, al di là di ciò che ho sognato, la verità è che, perfetto o imperfetto, non possiamo sapere come sarà il futuro di nostro figlio. Infatti sono venuta di qua con te per rileggermi la poesia... 
Sakon alzò gli occhi alla parete, alla quale era appeso un quadro, proprio sopra al lettino di Martin, realizzato dalla loro amica Fabrizia: sul lato sinistro erano ritratti lui e Jami con Martin in braccio mentre, sul destro, era scritta, a mano ma con un ordinato e preciso lettering, una poesia che ormai entrambi sapevano a memoria, ma che non disdegnavano mai di rileggere ogni volta che capitava l’occasione; ovvero, diverse volte al giorno, trovandosi così a portata di occhi.
Mentre la rileggevano, ambedue pensarono che avrebbero senz'altro dato a Martin tutti gli insegnamenti possibili e ogni mezzo che la vita gli avrebbe messo a disposizione, per educarlo al meglio e prepararlo ad affrontare la vita; ma cosa ci sarebbe realmente stato nel suo avvenire, non potevano saperlo. Potevano solo sperare che il futuro del loro bambino fosse sereno, variegato, interessante e pieno di belle esperienze e soddisfazioni; ma speravano, soprattutto, che fosse ricco di ogni sfaccettatura dell’Amore.
Tendendogli una mano, Jami sorrise al marito e lo invitò a raggiungere nuovamente il loro talamo: il sonno ormai se n’era andato, ma entrambi avevano un paio di idee, su come occupare quel po’ di tempo prima dell’alba. 
Le parole appena lette nel quadro aleggiarono leggere nella loro mente, per poi depositarsi agli angoli delle loro coscienze, pronte per essere ripescate ogni qual volta lo avessero desiderato.
Avevano un bimbo e una famiglia da crescere; il futuro, al momento, poteva attendere.

 
Gen-Family

  
“I vostri figli non sono i vostri figli:
sono i figli e le figlie della brama che di sé ha la vita.

Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi,
e benché vivano con voi, non vi appartengono.

Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri,
poiché essi hanno i propri pensieri.

Potete offrire rifugio ai loro corpi, ma non alle loro anime,
poiché le loro anime abitano la casa del futuro,
che neppure in sogno potrete visitare.

Potete sforzarvi di essere simili a loro,
ma non cercate di renderli simili a voi:
poiché la vita procede, e non s’attarda su ieri.

Voi siete gli archi, dai quali i vostri figli
sono scoccati come frecce viventi.

L’Arciere scruta il bersaglio, sul sentiero dell’infinito,
e con la sua forza vi piega e vi tende
affinché le sue frecce vadano veloci e lontane.

Con gioia lasciatevi tendere, dalla mano dell’Arciere.
Poiché come Egli ama lo scoccare della freccia,
così ama l’immobilità dell’arco.”


(Da “Il Profeta” di Gibran Khalil Gibran) 
2


 
 
FINE
 
 
 
 
 
 
Cfr. “Il Drago e il Leone”: la discussione tra Sakon e Jamilah nel capitolo 40, “Di trappole e rimpianti”.
Khalil Gibran: poeta, pittore e aforista libanese, naturalizzato statunitense. (Bsharre, 6 gennaio 1883 – New York, 10 aprile 1931)


 
Ringrazio all'infinito la mia amica Morghana per questa stupenda e tenerissima immagine realizzata da lei al pc. In questo caso, ha praticamente fatto le veci di Briz (non io, ma quella della storia!)

 

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